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Nella premessa de La coscienza delle parole Elias Canetti getta uno sguardo anticipatore
sulla svolta catastrofica in cui si sarebbe imbattuto il nostro presente. Il termine catastrofe
deve essere qui colto nel suo significato etimologico di kata-strephein (mutamento di forma,
metamorfosi).
“Quanto più ci separiamo da noi stessi, quanto più ci consegniamo ad istanze senza vita
(macchine), tanto meno riusciamo a padroneggiare quello che accade. Il nostro crescente
potere su tutto si è trasformato in un contropotere”
Di fronte ad un presente diviso tra strapotere ed impotenza, la missione dello “scrittore” sta
nel farsi “custode delle metamorfosi”, evitando la doppia trappola della muta rassegnazione
e dell’illusoria speranza (passione triste, segno di impotenza, come già sostenuto da
Spinoza). La custodia va intesa in due sensi:
2. Lo scrittore deve fare emergere, sul piano soggettivo, l’“effetto limitante” del
successo, e, sul piano oggettivo, il carattere autodistruttivo di uno stato delle cose che
“vieta la metamorfosi in quanto essa si pone in contrasto con il fine universale della
produzione”. Il nesso potere-produzione è qui inteso come fattore di interdizione
della metamorfosi. Canetti definisce la metamorfosi come “un processo enigmatico,
di cui non è stata ancora esplorata la natura”. L’unico modo per definirla in positivo,
non solo come una mera negazione della negazione, sembrerebbe quello di
considerarla una vera e propria rigenerazione ottenuta attraverso la riappropriazione
della plasticità insita nella natura dell’animale-uomo.
***
- Presentare la differenza tra scena primaria (capitoli 1-3) e nuova scena (capitolo 4 e
Appendice) del potere. La prima è analizzata tramite la genealogia di concetti di politica-
potere-potenza, l’archeologia di situazioni concrete di Canetti (massa, muta, potere ecc) e la
visione di Herta Muller per la quale il sintomo dell’oppressività del potere non è più
rappresentato dai valori dei diversi regimi politici, ma dal coefficiente di ansia e passività
dei “governati”. La nuova scena invece riguarda la tensione tra mutazioni e metamorfosi e
l’intreccio tra postdemocrazia e neoliberismo mediatico.
- Fornire spunti per uno spostamento dell’analisi dai meccanismi del potere alla potenza dei
soggetti, passando dal considerare l’auctoritas come una fonte verticale di legittimazione del
potere costituito al vederla come un’energia orizzontale che fornisce senso e si sprigiona
nell’ambito relazionale concreto.
Il trinomio del potere appare a prima vista distante dalla realtà. Si tratta tuttavia di
un’impresione fuorviante. I concetti astraggono dalla realtà per coglierne l’intima logica
strutturale. E’ necessario perciò proiettare la triade nel nostro presente di tensione tra gli
imperativi antagonistici della modernizzazione (transitorietà dei mercati, flussi migratori
ecc) e la persistenza delle logiche territoriali degli Stati. La politica è un ambito più
specifico, concreto e complesso rispetto a quello del potere e questo lo è rispetto a quello
della potenza. Per Weber la potenza rappresenta una categoria “sociologicamente amorfa”
fin quando non si incarna nel potere legittimo. Se invece osserviamo osserviamo le cose da
una prospettiva simbolica ci rendiamo conto che potere e potenza sono letteralmente
inseparabili senza assumere la politica come prassi relazionale (???). Solo in questo modo è
possibile sottrarre i connotati produttivi del potere (Foucault) e quelli energetici della
potenza (es. Etica di Spinoza) al rischio di una schematizzazione troppo rigida. Ripensare
genealogicamente la tradizione della fisica non ha né un significato storico-ricostruttivo, né
decostruttivo, ma può aiutarci a gettare luce sul nostro presente. Perché infatti proprio ora
diviene cruciale aprirsi propriamente ad una riflessione sulla politica già da sempre
presente, ma latente nel pensiero occidentale?
Politica
Il termine “Politica” è un termine che viene radicalmente ridefinito ad ogni svolta della
storia. L’aspetto problematico del “politico” riguarda il rapporto che esso intrattiene con
l’ordine. Non si dà propriamente politica se non come problema (e non come fatto)
dell’ordine, dibattito intorno alle condizioni di legittimità del potere. Il passaggio
dall’ordine come dato all’ordine come problema è, sì, punto nevralgico del contrattualismo
moderno, ma è presente sin dall origini del termine politica.
Politica e Filosofia in particolar modo sono due lemmi coevi (VI-V sec d.C.) con un destino
comune.
Philosophia = spazio nuovo che ha il suo spazio nelle pratiche relazionali della polis. Se è
vero che il termine affiora per la prima volta molto tempo prima di Socrate, è soltanto con
lui che viene strappato alla dimensione “iniziatica” e diviene pratica dialogica, finendo per
includere in sé la dimensione del conflitto (non c’è dialogos senza polemos)
Dopo la condanna a morte di Socrate prende avvio un doppio movimento che lega le due
istanze: da una parte, a partire da Platone, una tensione inconciliabile tra filosofia e politica
(democrazia come regno della doxa, dell’opinione); dall’altra, con Aristotele,
un’oscillazione costante della pratica filosofica tra educazione interna alla polis e
metafisica. E’ indubbio in ogni caso che il “momento socratico” acquisti oggi una rinnovata
attualità per due differenti ragioni:
2. Lo scenario odierno della Cosmopolis viene ad assumere oggi una posizione analoga
a quella dell’Atene del V secolo, stretta tra la visione sapienziale dell’archè ed il
relativismo sofista, oggi in parte riproposti nelle teorie (non solo religiose) della
Verità Assoluta e nel relativismo etico-culturale postmoderno.
Potere
“Potenza” è per Spinoza la facoltà di “poter esistere” e perciò coincide con l’essenza stessa
dell’essere. La linea di riflessione contemporanea che parte dalle considerazioni di Spinoza
o dalla trattazione della coppia aristotelica dynamis-energeia tendono a spostare il focus
dell’indagine sul potere dalle forme del suo esercizio al presupposto ad esso soggiacente:
quella nostalgia che il potere ha della potenza. Vi è infatti un’eccedenza energetica tra la
potenza e le forme in cui di volta in volta essa si cristallizza in potere. Tale eccedenza non è
quantitativa, ma simbolica (hyperbolè). Se la differenza consistesse in un mero surplus
energetico sarebbe impossibile distinguere la potenza dalla forza e di conseguenza non
rischiare di considerare il fronte dei “subalterni” come pura passività, “volontà di
impotenza” (Simone Weil). E’ necessario dunque sganciare il concetto filosofico di potenza
da quello fisico di forza e riconoscere che l’irriducibile ridondanza della potenza rispetto al
potere risiede nell’eccesso simbolico dell’auctoritas.
Auctoritas
Uno dei meriti maggiori del pensiero femminista è stato sicuramente quello di aver restituito
al concetto di autorità il suo significato etimologico e al contempo la sua carica simbolica. Il
termine “auctoritas” deriva dalla radice indoeuropea aug- ed al pari di augurium reca il
significato di un aumento di tipo simbolico, un incremento di senso. Tale incremento di
senso è tradotto dal potere del rex (potestas) in disposizione di segni. Non a caso il termine
rex rimanda a regere, “segnare”, “delimitare”: egli era colui che aveva autorità per tracciare
i limiti della città e determinare le regole del diritto. Dunque la dinamica del potere pone
costantemente il problema di un’eccedenza di senso che deve di volta in volta tradursi in un
sistema di segni (augurium-regnum). Da qui trae origine la logica alla base di ogni mito di
fondazione: l’idea mitica di una fonte unica del potere. La crisi di legittimità al contrario si
produce a partire dalla scollatura dai poli opposti dell’auctoritas e del regnum. Per
fronteggiare tale crisi non abbiamo altri mezzi che verificare se e dove persista ancora una
ridondanza di senso.
Considerazioni:
E’ necessario provare a tenere insieme le due grandi definizioni di politica del pensiero
occidentale: la politica come prassi relazionale, ossia come realizzazione della comunità
(Arendt), e la politica come conflitto, arte-scienza funzionale all’organizzazione della
potenza (Machiavelli, Spinoza, Focault…). Se infatti la politica riguarda indubbiamente
l’ambito relazionale, non si può infatti mettere in secondo piano il fatto che l’atto politico è
sempre evento, contingente e capace di operare rotture che imprimano alla storia una
direzione determinata. In un epoca delle “passioni tristi”, caratterizzata dalla sindrome del
“futuro-passato” occorre spostare il focus sulla costruzione dei soggetti: costruire una
soggettività politica totalmente nuova capace di costituirsi non più a partire dall’ideologia
identitaria, ma sulla base della potenza simbolica della differenza.
Il nesso che stringe potere assoluto e prerogativa di dare la morte è particolarmente forte,
come emerge anche dalla scena di “La presa del potere di Luigi XIV” di Rossellini in cui il
Re Sole si ritira nella sua stanza e legge la frase “Né il sole, né la morte si possono guardare
in volto”. La morte rappresenta la “scena primaria” dell’opera canettiama Masse und Macht
(Macht ha in tedesco un’espressione semantica più ampia dell’italiano “potere”, tanto che
spesso viene utilizzata anche per indicare la “potenza”). Non è sicuramente un tema nuovo,
così come nuovo non è nemmeno il risvolto psicologico del tema: la paura della morte che
era stata teorizzata da Hobbes come scena inaugurale del “politico” moderno. Canetti odiava
fortemente Hobbes, ma anche per questo lo ha accanitamente studiato. Egli intende dare una
ricostruzione “archeologica” dei meccanismi pulsionali che conducono alla cristallizzazione
ed istituzionalizzazione della “potenza”. Ciò significa ripercorrere i passaggi attraverso i
quali l’esperienza della morte pericolosamente accumulata è divenuta un “germe
assolutamente essenziale del potere”. Paura della morte, potere e sopravvivenza si saldano
in un “momento concreto”: la situazione del sopravvivere è proprio la situazione centrale
del potere, non che la situazione in cui viene a trovarsi il vivo al cospetto di un corpo morto.
Nessun uomo crede davvero alla morte prima di averla sperimentata, ma dato che solo
sempre gli altri a morire, è solo negli altri che il singolo può fare questa esperienza. E tutta
via “ogni singolo che muore” alimenta nel vivo una sensazione di potenza. E’ attraverso
questa concretissima esperienza che si genera la passione del potere.
Queste due date offrono a Canetti un’occasione straordinaria per cogliere il meccanismo del
potere. Esso, al mari del fenomeno della massa, con le sue intermittenze ed alternate
configurazioni, è una pulsione/pulsazione, un meccanismo diastolico-sistolico.
Canetti tuttavia nel suo afferrare il secolo per la gola, resta a sua volta prigioniero della
“pulsazione” novecentesca, del suo continuo alternarsi di nuovi spazi di libertà e di chiusura
totalitaria. Egli si limita a descrivere il potere, registrandone i battiti, senza giungere al cuore
della potenza. Per Canetti non può darsi davvero una teoria del potere, una
“rappresentazione perspicua”, ma bisogna procedere con l’ausilio di immagini e figure. Il
potere non può essere spiegato, ma solo rappresentato. Analogamente a Foucault, il potere è
visto da Canetti come la rosa di Il nome della Rosa. Non esiste una ragione della rosa: essa
si dà e basta ed in fine di essa non resta che il nome. Anche il potere è così, è come la vita
che incessantemente pulsa e di esso infine non rimane che il nudo nome. Per Canetti non si
può dare una concettualizzazione né del potere né della potenza, anche perché egli al pari di
Adorno nutre una radicale diffidenza del concetto, emblema del pensiero ridotto a logica
(contrapposto al lampeggiare dell’intuizione). Il concetto in quanto sintesi del mondo reale
implica sempre per entrambi un “accecamento”, un modo di paralizzare la vita che non tiene
conto della sua multiformità e variabilità metamorfica. Non a caso Adorno parlava di
“cadaveri concettuali” che continuano a deambulare nel nostro lessico, anche se sono ormai
morti da tempo. Per Canetti, ogni volta che introduciamo un concetto, non possiamo
dimenticare che si tratta solo di una formula caratterizzata da deliberata parzialità. Ne
consegue che l’inespresso diventa un’eccedenza necessaria.
E’ solo tramite questa concezione di inespresso che è possibile comprendere perché Canetti
parli di principio di comando come di qualcosa che media il passaggio dalla paura della
morte alla sopravvivenza, ma che al contempo diviene una spina conficcata sia nel
dominato che nel dominante.
La massa
La massa si genera da una naturale quanto paradossale duplice fuga: dalla paura della morte
(e dal suo sintomo quotidiano, la paura del contatto con l’altro o con l’ignoto) e dalla
propria individualità. Questa duplice fuga provoca per Canetti un “capovolgimento del
timore di essere toccati”: nella massa l’uomo si libera di entrambe le istanze, poiché al suo
interno non contano più le differenze e tutti sono liberi dalla paura ed uguali. Ma la
dimensione in cui tale doppio esito liberatorio ed egualitario può avere luogo è solo la
massa: il che significa escludere la possibilità di uno spazio relazionale in cui poter essere
liberi ed uguali senza rinuncia alla propria singolarità. Inoltre la massa non è il risultato di
un processo, ma un evento, un accadimento repentino e spontaneo. Essa si forma
all’improvviso là dove “nulla si preannunciava, nulla era atteso”. Ciò la rende
intrinsecamente precaria: l’istante stesso in cui si sprigiona il sollievo dovuto
all’annullamento differenze reca in sé il pericolo della disgregazione. Tale pericolo può
essere evitato solo tramite la formazione di associazioni in grado di dar vita a “cristalli di
massa”. Per poter durare tuttavia questi nuovi aggregati devono avere “regole ferree” e
accogliere un numero limitato di membri. La massa in senso proprio, invece, è comunque
destinata a disgregarsi. La sua caratteristica peculiare, oltre all’instabilità, è il complesso
persecutorio: essa è assillata dal timore dei nemici, soprattutto di quelli interni.
Distinzioni:
[ N.B. Il procedimento che regge l’intero impianto di Massa e Potere è retroattivo in quanto
attribuisce ad un’inclinazione naturale quella tendenza alla crescita illimitata ed alla
massificazione di uomini e cose che è il risultato di dinamiche storiche inerenti la proprietà
stabilmente trasmissibile (le dinamiche della “civilizzazione” occidentale che porteranno
verso il capitalismo) ]
In base al “memoriale animale” presente nel fenomeno della muta, l’enigma del potere
dovrebbe risolversi nella sua genesi. Anche nella levigatezza delle sue forme più civilizzate
esso dovrebbe risolversi nella pulsione elementare dell’afferrare ed incorporare. Anche per
quanto riguarda il comando possiamo delineare un continuum con la condizione animale
(“Il comando è più antico del linguaggio, altrimenti i cani non potrebbero conoscerlo”).
Tuttavia dall’analisi di Canetti emerge una cosa sconvolgente: il nesso costitutivo del potere
non è espresso dalla coppia comando-obbedienza (come apparirebbe dal “Discorso sulla
servitù volontaria”), madalla coppia comando-fuga (“La più antica forma di comando è la
fuga, dettata all’animale da chi è più forte di lui”). Tuttavia, mentre nel regno animale il
comando ha luogo tra animali di diversa specie, nel mondo umano avviene tra individui
appartenenti alla medesima specie. Tuttavia, nonostante questo, il differenziale tra
dimensione umana e animale in Canetti è solo una mera questione di distanza, non di
diversa natura dei rapporti di dominazione.
1. Spinta all’accrescimento
2. Ossessione paranoica della sopravvivenza
Ma come possono sia la dinamica di crescita sia la statica della durata (la cui forma
patologica è rappresentata dalla paranoia) convergere nel bloccare la metamorfosi?
La passione per il concreto che alimenta la disincantata analisi di Canetti sembra non
lasciare spazio a soluzioni. Il solo spiraglio ci è presentato sotto forma di dato oggettivo: in
un mondo segnato da una crescita esponenziale della produzione di massa in cui tutti i
sistemi politici puntano non a distruggersi ma a superarsi, il Potere è divenuto troppo
grande, ma anche più fuggevole. L’angoscia del comando diviene così intollerabile. Si tratta
allora di agire sul “punto debole del sopravvivente”, ma senza nutrire false speranze: prima
che quell’angoscia conduca il potente alla catastrofe, infatti, verosimilmente egli avrà
“portato alla rovina molti altri”. Nell’immediato comunque sembra non esservi soluzione.
Kelsen sosteneva che chiunque spinga a guardare dietro la facciata civilizzatrice del diritto
positivo non vi troverà l’armonico e liberatorio disegno di una legge naturale, ma solo il
volto di Gorgone (le tre sorelle tra cui vi era Medusa) del Potere. Canetti sembra intravedere
che lo sguardo pietrificante di questa Gorgonie sta proprio nella logica identitaria per la
quale ci troviamo tutti dentro la prigione dell’Uno. Vi è una via d’uscita per lo scrittore che
consiste nell’isolamento e nella rinuncia al successo immediato preferendo l’immortalità
presso i posteri in quanto “custode della metamorfosi”. Una tale liberazione rimane tuttavia
“una soluzione riservata a pochi”. Al resto degli uomini non resta che la fuga, come se non
ci fossero più confini, più divieti; l’esodo verso un luogo tuttavia indefinito e senza nome
che proprio per questo è chiamato “libertà”. Una conclusione così pessimista non può che
spingerci a pensare che Canetti sia in ultima istanza, esattamente come Hobbes, un
pensatore della paura e della morte.
Che cos’è il potere nel timeless time, in questo eterno presente della fretta e dei piaceri
sincopati? E’ possibile spezzare oggi il circolo vizioso del poter, facendoci uscire dalla
sindrome del futuro passato e delle “passioni tristi”? Perché ciò avvenga è necessario che gli
scrittori e i filosofi si facciano decifratori dei “segni dei tempi”, così come abbiamo visto ha
cercato di fare Elias Canetti.
Una mappatura altrettanto spietata delle nuove forme di dominio, a partire dalle “bassure”
della vita quotidiana, la troviamo nell’opera di Herta Muller, dove il potere sembra essere
divenuto un sistema paranoico di controllo indifferenziato in cui ogni singolarità rischia di
trasformarsi in una potenziale evasione dell’ordine. In Parco Nero, il penultimo racconto di
“Bassure”, questo spirito del tempo emerge tramite parole molto dure.
“Eppure siamo ancora giovani. E un altro dittatore è caduto e la mafia ha ucciso di nuovo
qualcuno e un terrorista sta morendo in Italia […]. E’ vuoto nei tuoi occhi. E’ vuoto e
stantio, il tuo sentimento”
Questa sua opera apparve per la prima volta censurata nella Romania sovietica del 1982.
Chiunque si fosse allora sorpreso della durezza di quel provvedimento per un libro in
apparenza “impolitico” si era rivelato ingenuo ed incapace di cogliere la carica di denuncia
e la potenza eversiva di quest’opera frutto di uno sguardo femminile attento e disincantato.
Alle spalle dell’infanzia che la scrittrice descrive come “muta” vi è il risentimento dei
tedeschi usciti a pezzi dal disastro nazista (il padre era arruolato nelle SS) e la disperazione
dei piccoli e medi contadini espropriati dal regime nazionalcomunista. I sentimenti
congiunti della perdita e della paura irrigidiscono le caratteristiche tipiche tedesche della
disciplina, dell’obbedienza e dell’ordine. Herta non è in grado di trovare parole in questa
dimensione se non tramite la scrittura. Dalla prospettiva della “bassura” la scrittrice
visualizza lo statuto paradossale della normalità: la cifra sinistra e straniante che le relazioni
quotidiane assumono nello squallido microcosmo della provincia e nell’orrido macrocosmo
del regime totalitario. In entrambi i casi occorre comprendere cosa “resta” della soggettività
individuale di ognuno e delle relazioni di amicizia e fiducia che la sostengono. Risiede qui
l’autentico fattore di resistenza al potere di Herta Muller. Questo suo tentativo di
verbalizzare percezioni vibranti di soggettività repressa dà luogo ad un’atmosfera surreale
che rende i suoi racconti “semplici e difficili” al contempo, come la logica paradossale di
quella quotidianità immobile che non dà luogo ad alcun cambiamento ma solo ad una
monotona ripetizione. La Muller rappresenta i riti, le abitudini, i codici relazionali della
propria comunità tramite un fremder Blick, uno sguardo estraneo e straniante che potrebbe
indurci a considerarla l’ennesima senza-patria, come quegli scrittori che ritrovano e
custodiscono la loro vera patria unicamente nella propria lingua materna. Tuttavia quando la
scrittrice afferma che “Patria sono le parole dette” non sta parlando tanto della lingua con la
quale si esprime, quanto del fatto che ci si può sentire a casa solo là dove dove si ha la
libertà di dire tutto ciò che si vuole. Qualunque dimensione provochi un interdetto
nell’espressione del suo pensiero è sentita da lei come estranea. Proprio per questo quel
senso di estraneità si ripropone anche in Germania, paese in cui si è trasferita ed in cui parla
e scrive la “sua” lingua. Anche qui Herta vede persistere il suo senso di disappartenenza e
sradicamento. Il suo fremder Blick si è ora dplicato poiché è straniera due volte: nella patria
d’origine e nell’esilio. E’ proprio la sua identità costantemente in transito a conferire alla
sua scrittura il carattere di una narrativa distopica, che scorge il potere nei suoi meccanismi
di inclusione/esclusione come la fonte prima di ogni disappartenenza. Nessun cambiamento
può avere luogo non per natura degli individui, ma perché essi si trovano irretiti nelle
logiche del potere. E’ proprio tale immobilità, prodotta attivamente dal potere, a far sì che
l’identità dei singoli finisca per proiettarsi in un “fuori” perenne. L’idea di essere
costantemente osservati produce uno sdoppiamento, tanto che Herta Muller afferma di non
essere cresciuta, ma di essere stata cresciuta, come se fosse una potenza estranea a vivere
per lei. Le stesse parole che pensiamo di aver scelto liberamente ci hanno scelto ed
improntano e classificano le nostre identità. Partendo da un non-luogo -a sua scrittura-,
Herta Muller ha finito per parlarci di un non-tempo, di quella provvisorietà ed ambivalenza
che segna la condizione in cui ci troviamo tutti in questa travagliata fase di passaggio tra la
fine di uno stato di cose ed un futuro che ancora tarda a profilarsi. La sua testimonianza ci
segnala che l’identità è sempre una forma insatura: un viaggio della libertà e della ricerca
incessante. E che la prima differenza da promuovere e salvaguardare è quella della
singolarità.
Fino a poco tempo fa la linea prevalente della trattazione filosofica contemporanea tendeva
a considerare il potere alla stregua di un concetto obsoleto ed inutile, ingombrante zavorra
metafisica. Esso era visto come un feticcio concettuale, rinverdito da Foucault e del quale
bisognava sbarazzarsi a fronte ad una nuova società pluralistica (una società destinata a
portare il potere stesso verso una graduale quanto inesorabile estinzione dentro i circuiti di
una sempre crescente complessità sociale, una società in grado di autostabilizzarsi senza la
necessità di scomodare il Potere). Al contrario assistiamo oggi all’insorgere di nuove forme
di potere post-democratico.
La democrazia è figlia del dialogo, dimensione che riesce sempre più difficilmente a
conciliarsi con le nuove condizioni dell’età digitale. Una fase che appare segnata dalla
presenza di un’“oligarchia elettronica” (la parte difettiva e corrotta, per dirla con
Machiavelli, dell’aristocrazia). Il potere ci si presenta dunque oggi come potere
“mediocratico”.