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Enrico Benelli
Iscrizioni etrusche
leggerle e capirle
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Prefazione
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iscrizioni dei vecchi manuali non sono più sufficienti per dare un
campione adeguato dell’epigrafia etrusca. D’altra parte, approfon-
dire troppo il discorso significa anche andare a incontrare questio-
ni di soluzione non proprio immediata, che richiedono ragiona-
menti molto complessi e competenze piuttosto avanzate: questo
compito potrà spettare al coraggioso collega che intenderà rifare lo
storico ponderosissimo manuale del Buonamici; al momento non
aspiro a tanto. A questo punto resta la necessità di conciliare facili-
tà di lettura, accessibilità del testo ad un pubblico competente ed
interessato (ma pur sempre non professionista della materia), e
approfondimento e completezza della trattazione; non volendo
arrivare alle 450 pagine in quarto del Buonamici, il primo criterio
da sacrificare è proprio quello della totale completezza. Dopo lun-
ghe riflessioni e mesi di tentativi, ho selezionato circa 170 iscrizio-
ni che dovrebbero dare un’idea di quasi tutta l’epigrafia etrusca;
alcune cose restano fuori, ma è inevitabile. Comunque, la maggior
parte di ciò che è stato escluso è richiamato dalla bibliografia. E qui
giunge un altro punto dolente; una bibliografia completa avrebbe
richiesto un intero volume a sé. A questo punto ho dovuto privile-
giare le opere più recenti, anche se talora di qualità ed estensione
inferiore ad altre più datate: ma le più recenti servono anche di
rimando per la bibliografia precedente. Sono stato particolarmente
laconico, in materia di bibliografia, per le iscrizioni edite su fasci-
coli recenti del CIE. Opere vecchie di parecchi decenni sono inseri-
te soltanto lì dove mi è sembrato utile, soprattutto nei casi in cui
contengano notizie insostituibili.
Un criterio che ho cercato di seguire è stato quello di evitare di
inserire iscrizioni perdute o magari finite in collezioni private irrag-
giungibili; in qualche caso purtroppo ho dovuto derogare da questo
principio, o per completare dei contesti o perché l’iscrizione in que-
stione conteneva elementi di una certa importanza, che tenevo a
presentare. Poi c’è stato il problema delle fotografie: nelle edizioni
delle iscrizioni è sempre obbligatorio presentarle, ma spesso le
immagini fotografiche sono quasi completamente illeggibili.
Mettere delle fotografie di una qualche utilità avrebbe significato
imbarcarsi in una stampa ad altissima definizione, andando a
riprendere gli originali dai musei; una operazione complessa, che
sarebbe indispensabile per una pubblicazione scientifica, ma che
tutto sommato mi è sembrata superflua per un manuale, dove
comunque le iscrizioni si leggono dai disegni (apografi). E qui
subentra un altro problema, perché non di tutte le iscrizioni sono
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Punos!
Luglio 2006
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Capitolo I
Introduzione
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1. LE ISCRIZIONI ETRUSCHE
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2. LA SCRITTURA
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BIBLIOGRAFIA: opere principali sulla storia della scrittura etrusca CRISTOFANI 1972;
CRISTOFANI 1978; MAGGIANI 1990; PANDOLFINI, PROSDOCIMI 1990; interpunzione sillabi-
ca: RIX 1968; WACHTER 1986.
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però si basa sulla lettura errata di un documento minore poi riconosciuta dallo stes-
so Autore; l’ultimo intervento, che rappresenta la panoramica più completa sulla
questione, è DE SIMONE 2004 (non condivido la posizione dell’Autore sulla origine tir-
renica dell’alfabeto lemnio; le nuove scoperte epigrafiche nel mondo egeo puntano
piuttosto all’origine autonoma, anche se non per i motivi che altri hanno avanzato).
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ste alle decine, mentre gli ultimi tre sono indicati con il sistema sot-
trattivo, usando le unità 3, 2 e 1 anteposte alla decina seguente e
legate tramite il suffisso -em: per esempio, 16 si scrive huqsar, 19 è
qunemzaqrum. È possibile che i numerali “undici” e “dodici”, come
accade in molte lingue, fossero formati in modo diverso, ma l’unica
testimonianza in questo senso è incerta. Le cifre sono molto simili a
quelle usate anche in latino.
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Capitolo II
Le iscrizioni funerarie
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VEIO
Questa città non sviluppò mai un’epigrafia funeraria; il motivo va
cercato nella storia della cultura funeraria veiente, del tutto partico-
lare rispetto al resto dell’Etruria. A Veio, infatti, al passaggio fra VII
e VI secolo a.C., cessa quasi completamente l’uso di deporre corre-
di, e le tombe, da questo momento, cominciano a essere improntate
alla più totale austerità. Questo mutamento si verifica proprio nel
momento cruciale in cui le altre città etrusche iniziano a elaborare
una epigrafia funeraria, che evidentemente a Veio non ebbe il tempo
di formarsi. L’unica iscrizione funeraria sinora nota dalle necropoli
veienti (con ogni verosimiglianza la più antica iscrizione etrusca
esplicitamente funeraria) è quella incisa sulla parete di una tomba a
camera di Riserva del Bagno, datata verso la metà del VII secolo
a.C., che usa un formulario di possesso in prima persona piuttosto
comune in quasi tutte le iscrizioni funerarie arcaiche delle altre città.
La rinuncia ai corredi e al lusso funerario è un fenomeno culturale
che unisce Veio a Roma, al Lazio e alla Sabina tiberina meridionale;
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CERVETERI
La monumentalità delle necropoli di Cerveteri è ben nota a chiunque
si interessi di archeologia dell’Etruria. La storia dell’epigrafia funeraria
cerite si muove di pari passo con le diverse forme che le tombe hanno
acquisito attraverso i secoli. Nell’età orientalizzante, quando l’architet-
tura funeraria si manifesta nel modo più spettacolare con la costruzio-
ne dei tumuli (dapprima giganteschi e utilizzati per secoli attraverso la
moltiplicazione delle tombe contenutevi; in seguito più piccoli e dedi-
cati a un’unica struttura sepolcrale) l’epigrafia è quasi assente. Tutto
l’apparato decorativo della tomba a tumulo è rivolto verso l’interno
della camera, mentre l’esterno assume la semplice forma del cumulo
di terra, con la decorazione limitata alle sole modanature della base in
pietra (realizzata sagomando il banco roccioso naturale oppure co-
struendola, del tutto o parzialmente, in blocchi). La situazione non
cambia molto quando, con il passaggio all’età arcaica, l’architettura
delle tombe assume proporzioni più modeste. Allo stato attuale, si
conoscono solo pochissime iscrizioni di questo periodo, tra le quali si
segnala il ricco corredo epigrafico inciso sull’intonaco di una tomba,
eccezionale in primo luogo proprio perché intonacata e dipinta. A par-
tire dal pieno arcaismo, l’epigrafia comincia ad affacciarsi in modo più
deciso nelle necropoli ceriti; questo è dovuto tra l’altro all’introduzio-
ne di un tipo di strutture funerarie (le cosiddette “tombe a dado”, con
struttura esterna quadrangolare e non rotonda come i tumuli) che, pur
traendo la propria ispirazione architettonica da consolidate esperienze
locali, devono la loro organizzazione urbanistica probabilmente al
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1.
La necropoli della Banditaccia, che si estendeva su un pianoro
parallelo a quello dove sorgeva l’antica città di Caere, a nord del-
l’area urbana, era una delle due principali aree sepolcrali ceriti;
l’altra, quella di Monte Abatone, si trovava in posizione simmetri-
ca sul pianoro a sud della città. Grazie alle campagne di scavo con-
dotte a più riprese e soprattutto all’intensa opera di restauro fina-
lizzata all’apertura al pubblico, questa necropoli è oggi l’unica
almeno in parte visitabile, che permette tra l’altro di cogliere
anche l’organizzazione planimetrica dei grandi monumenti fune-
rari, con tutti i mutamenti che vi si sono verificati nel corso dei
secoli. Dal punto di vista archeologico è certamente anche la
necropoli indagata più in profondità, in particolare nel settore
destinato ad essere aperto al pubblico, denominato “Zona del
Recinto”, proprio per la costruzione della recinzione a protezione
dell’insieme monumentale. Uno dei fenomeni che segnano in
modo più evidente la storia di questa necropoli è l’introduzione,
nel corso del VI secolo a.C., delle tombe dette “a dado”, alle quali
si è già accennato nel paragrafo introduttivo: in un primo momen-
to isolate o a piccoli blocchi, queste strutture – che grazie alla loro
forma quadrangolare possono essere giustapposte fra loro, a diffe-
renza dei più antichi tumuli circolari – vengono ben presto orga-
nizzate lungo vie rettilinee. Fra le tombe a dado della “Zona del
Recinto” si segnala un blocco di due strutture gemelle (335 e 336)
inserite in un unico dado, entrambe tricamerali, con atrio trasver-
sale e due camere sul fondo: si tratta del tipo planimetrico più
antico tra quelli utilizzati in connessione con i dadi, erede del tipo
con atrio trasversale e tre camere sul fondo della tarda età orienta-
lizzante, che ricalca la planimetria tipica della casa etrusca del-
l’epoca. Del corredo di queste due tombe non fu rinvenuto prati-
camente nulla; i materiali di cronologia molto varia fanno pensare
a un saccheggio già in epoca abbastanza antica. La loro costruzio-
ne è attribuita su base tipologica alla seconda metà del VI o al mas-
simo all’inizio del V secolo a.C.; le deposizioni dovrebbero essersi
succedute per qualche generazione. Nella tomba 336 (quella di
sinistra) fu rinvenuta, ancora nella sua posizione originaria, inca-
strata fra i blocchi che chiudevano l’accesso, una defixio iscritta in
latino che i personaggi che vi sono nominati indurrebbero a data-
re alla seconda metà del II secolo a.C.; questo dovrebbe indicare
che la tomba, in quel momento, doveva essere stata definitivamen-
te sigillata. La tomba 335 si segnala per l’insolita presenza di due
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marce 2 ursus
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ramqa · pricni ·
BIBLIOGRAFIA: sulla tomba RICCI 1955, cc. 816-822; PROIETTI 1986, pp. 184-185. Sulla
defixio HEURGON 1960.
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ranqu · ranaznia
v · mat[u]na[s] · a · c
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BIBLIOGRAFIA: sulla tomba 164: RICCI 1955, cc. 614-616; sulla tomba dei Sucu: Studi
Etruschi 36, 1968, pp. 221-224. Sulla iscrizione etrusca di Corchiano COLONNA 1990, p. 120.
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m · punces · la · c ·
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[qa]ncvil · ursui
BIBLIOGRAFIA: sulla scoperta cfr. Studi Etruschi 37, 1969, pp. 317-323. Il primo studio
dell’iscrizione sul pilastro, con le conseguenti acquisizioni lessicali e grammaticali che
per quegli anni furono veramente rivoluzionarie, è PALLOTTINO 1969; sull’iscrizione del
pilastro da ultimo AGOSTINIANI 1994. Iscrizioni funerarie romane con l’indicazione
della permanenza in vita o meno nella dedica del sepolcro: FRIGGERI, PELLI 1980;
MEDNIKAROVA 2001; KRUSCHWITZ 2002. Sui rapporti tra Claudii romani e Clavtie di
Cerveteri v. soprattutto FRASCHETTI 1977, ancora largamente valido; meno convincenti
le ricostruzioni genealogiche di TORELLI 1999, pp. 249-252. Migrazione dei Claudii a
Roma: da ultimi AMORUSO, BARBINA 2003, pp. 26-29, con bibliografia precedente.
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fia del lemma del CIE. Questo tipo di cippi, come già accennato,
continua ad essere usato dopo l’inserimento nella cittadinanza
romana ed il passaggio all’uso del latino, che nelle iscrizioni di
Caere avviene repentinamente attorno al 90 a.C., segno che la lin-
gua di Roma vi doveva essere già ampiamente diffusa. Le formule
onomastiche che vi sono impiegate sono le medesime, salvo la per-
dita del prenome femminile, che è attestato solo in rarissimi casi.
A1. CIE 6051 Cippo a colonnetta di nenfro rinvenuto nella tomba
44, che faceva parte di un gruppo di strutture (43-49) che si aprivano
su una corta via creata in età relativamente tarda per sfruttare lo spa-
zio disponibile fra i tumuli. L’iscrizione è posta sulla colonnetta:
C. Statori L. f.
Il gentilizio maschile appare nella forma in -i, frequente nelle
iscrizioni latine del I secolo a.C.
A2. CIE 6061 Cippo a casetta di nenfro rinvenuto nei pressi della
tomba 120, anch’essa parte di una serie di ipogei appartenenti alla
fase più tarda della necropoli. L’iscrizione è su uno spiovente del
tetto:
Tarcia C. f.
Formula onomastica femminile di tipo romano, senza prenome.
TARQUINIA
Anche a Tarquinia l’epigrafia funeraria si sviluppa quasi esclusiva-
mente nella fase recente; in età arcaica la scrittura compare solo
occasionalmente, in alcune tombe dipinte, che rappresentano i
monumenti di maggiore spicco della necropoli tarquiniese. Esiste
anche un numero molto esiguo di stele arcaiche iscritte, che dove-
vano segnalare le tombe in superficie, e che seguono il formulario
più diffuso in tutta l’Etruria arcaica, indicante il possesso della
tomba in prima persona: “io sono (si intende: la tomba, o la stele) di
xx”. In un caso è usato il termine ma, indicante appunto la stele (“io
sono il ma di…”), diffuso con maggior frequenza nell’Etruria setten-
trionale. Queste stele fanno pensare all’esistenza di apparati esterni
alle sepolture, dei quali si è persa praticamente ogni traccia. Le iscri-
zioni che accompagnano gli affreschi sono di solito didascalie rife-
rite ai personaggi rappresentati: così per esempio nella Tomba degli
Auguri; in qualche caso, come nella Tomba detta “delle Iscrizioni”
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7. ET Ta 1.84
La tomba 5512 è uno dei numerosi ipogei scoperti nel corso degli
scavi della Fondazione Lerici nella necropoli tarquiniese dei
Monterozzi; si tratta di una tomba a camera singola di grandi
dimensioni, probabilmente allargata e rilavorata nel corso del suo
lungo uso, che fu rinvenuta già pesantemente danneggiata da anti-
chi saccheggi. Le rilavorazioni antiche, i crolli della roccia dovuti a
cause naturali e infine l’azione dei violatori hanno portato alla per-
dita di gran parte del rivestimento di intonaco; le parti superstiti
permettono di intuire una decorazione figurata sulla sola parete di
ingresso, che comprendeva la coppia di divinità infernali (Charun e
Vanth) e due gruppi di figurine umane, che rappresentano una
redazione estremamente semplificata delle scene di incontro tra
familiari nell’aldilà caratteristiche della decorazione dei grandi ipo-
gei gentilizi del IV secolo. La tomba 5512, anche per confronto con
strutture analoghe, viene datata nella prima metà avanzata del III
secolo, ossia in corrispondenza della fase finale della pittura fune-
raria tarquiniese, almeno per quanto riguarda la realizzazione di
scene figurate. Il soffitto e le banchine erano parimenti dipinti, con
decorazioni geometriche. Lo scavo ha permesso di recuperare resti
consistenti del corredo, che testimoniano un uso piuttosto prolun-
gato della struttura, fino alla fine del I secolo a.C.; furono inoltre rin-
venuti numerosi cippi, tutti anepigrafi, e frammenti di almeno sette
sarcofagi, che coprono un periodo compreso fra la metà del III e
l’inizio del II secolo a.C. Alcune iscrizioni corrono sulle pareti late-
rali; qui si presenta soltanto quella della parete sinistra, l’unica in
stato di conservazione sufficiente da essere completamente leggibi-
le. Il testo è dipinto a grandi caratteri neri piuttosto regolari.
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BIBLIOGRAFIA: COLONNA 1984, pp. 12-13 (si veda nota 11 per l’inversione di preno-
me e gentilizio); CAVAGNARO VANONI 1996, pp. 221-262 [parte dei frammenti in osso
a pp. 259-262 sono da riferire a specchi a teca] e 360-365 [M. D. Gentili: sarcofagi].
Tomba degli Anina: COLONNA 1984, pp. 6-11; SERRA RIDGWAY 1996, pp. 176-183;
LININGTON, SERRA RIDGWAY 1997, pp. 95-104, 155-159 [M. D. Gentili: sarcofagi] e 165-
166 [M. Pandolfini: iscrizioni], con bibliografia precedente.
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laris : partiunus
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8.3
Il sarcofago, definito tradizionalmente “dell’Obeso”, ha cassa sem-
plicemente modanata, priva di decorazioni nello specchio; alcune
tracce di lavorazione potrebbero far pensare che sia incompiuta.
Sul coperchio è raffigurato il defunto disteso, in posizione legger-
mente più rialzata rispetto al precedente; il fisico generoso ha fatto
meritare al sarcofago il suo appellativo. Eccezionale anche in que-
sto caso il materiale impiegato dagli scultori: una pietra venata,
ancora non correttamente identificata (alabastro o marmo): anche
per questo sarcofago dovette quindi esservi una richiesta precisa da
parte del committente. Per tre generazioni la famiglia dei Partunu
appare quindi legata alla tradizione del sarcofago marmoreo, che
viene riprodotto con i materiali a disposizione. Questo sarcofago è
anepigrafe: ma la cronologia su base stilistica e iconografica lo col-
loca all’inzio del III secolo a.C., quindi esattamente a metà strada
fra il precedente e il successivo; il personaggio doveva appartene-
re alla linea principale della famiglia, contraddistinta come si è
visto dalla predilezione per sarcofagi realizzati in pietre poco usua-
li; è molto verosimile che in esso sia stato sepolto Laris, figlio di
Velqur “il Magnate”, e padre del secondo Velqur, titolare del sarco-
fago successivo.
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8.8
Urna cineraria in nenfro con mostri marini scolpiti sulla cassa ed
una testa femminile nel frontoncino del coperchio. È una delle rare
attestazioni di uso dell’incinerazione a fianco dell’inumazione.
Anepigrafe.
Come si nota dalle iscrizioni, i Partunus (peraltro noti solo dalle
iscrizioni di questa tomba) sono legati a famiglie tarquiniesi di
prim’ordine, fra le quali i Cuclnie (famiglia cui appartiene una gio-
vinetta insignita della carica sacerdotale di camqi eterau).
BIBLIOGRAFIA: sulla tomba CATALDI 1988, pp.7-11; per la scoperta cfr. Bullettino
dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica 1876, pp. 70-78 e Notizie degli Scavi 1876,
pp. 4-6. Circolazione dei sarcofagi in marmo pario: MARTELLI 1975; HITZL 1991; sarco-
fago del Sacerdote e produzioni connesse: ultimi interventi FLEISCHER 2004 e
MEISSNER 2004; sulle pitture del sarcofago: BLANCK 1982; sarcofago femminile forse da
questa tomba: BARTOLONI, BAGLIONE 1987, p. 239, nota 42, 1. Sul sacrificio dei prigio-
nieri troiani: Artigianato artistico 1985, pp. 208-212. Sul sarcofago di cui a scheda 8.7:
REE 63, 47 [M. Morandi]. Per le magistrature etrusche: MAGGIANI 1996 A. Lettura cor-
retta e interpretazione della carica di camqi eterau: MAGGIANI 1996 A, pp. 117-123; v.
anche BENELLI 2003. Tomba degli Scipioni: ZEVI 1999, con bibliografia precedente;
sulla tomba di un altro ramo della gens Cornelia: PISANI SARTORIO, QUILICI GIGLI 1987-
88, con bibliografia precedente.
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come per quelle parietali; questo uso è invece costante nelle iscrizio-
ni su cippi, per ovvi motivi di spazio. L’abbreviazione a del preno-
me posposto al gentilizio (secondo la regola dell’inversione) è ambi-
gua (Arnq o Aule?); tuttavia c’è una enorme differenza nella fre-
quenza di uso dei due prenomi a Tarquinia, e quindi è probabile che
l’abbreviazione ridotta alla sola iniziale indicasse il comunissimo
Arnq piuttosto che il rarissimo Aule. Rutzs è verosimilmente un
cognome, scritto in forma sincopata (come, ad esempio, il chiusino
Canqs). Alla formula onomastica segue l’indicazione dell’età di
morte, qui resa con il termine ril, che, essendo seguito sempre da un
numerale isolato, senza ulteriori elementi di lessico, dovrebbe esse-
re un aggettivo traducibile più o meno “dell’età di”. Infine troviamo
l’indicazione delle cariche ricoperte in vita; il participio tenu deriva
dallo stesso verbo di tenqas (cfr. scheda 8.2), e si differenzia solo per
la qualità dell’azione, espressa come compiuta invece che come
durativa. Nei cursus honorum dei defunti le due forme hanno signi-
ficato pressoché equivalente. L’oggetto di tenu è marunucva cepen: il
primo lessema è il plurale di un termine indicante una magistratu-
ra di rango inferiore, marunuc (tradotta con “maronato”), anch’essa
spesso corredata nelle iscrizioni di diverse specificazioni. Nel termi-
ne cepen si può riconoscere l’aggettivo “tutti”: il personaggio ha
quindi ricoperto l’intera gamma delle cariche definite dal generico
marunuc. Il passo successivo della sua carriera è stata una magistra-
tura superiore, una di quelle indicate dal termine zilc; l’indicazione
è qui data con il participio in -u del verbo derivato dal nome della
carica. La traduzione dell’iscrizione è: “Arnq Palazus Rutzs (figlio
di) Laris, dell’età di 42 (anni), che ricoprì tutti i maronati, che rico-
prì lo zilacato”. La famiglia è conosciuta da un altro sarcofago e da
un cippo, entrambi tarquiniesi, dei quali si ignorano le circostanze
di rinvenimento; inoltre una donna di questa famiglia è la costrut-
trice della cosiddetta “tomba di Annibale” (v. scheda 11).
BIBLIOGRAFIA: lettura: LAMBRECHTS 1958; per il riconoscimento del significato di
cepen: ADIEGO c.s.; per le magistrature cfr. la scheda precedente.
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11.1 ET Ta 1.107
Sulla parete destra, in corrispondenza del secondo sarcofago, corre
la più celebre iscrizione, dipinta in colore nero a grandi lettere.
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Capua lascia pochi dubbi che si abbia a che fare proprio con il celebre
Annibale (latino Hannibal). È merito di Marta Sordi aver evidenziato
che il personaggio potrebbe essere giunto a Tarquinia da una città
dell’Etruria settentrionale: in questo senso rimanda non solo il preno-
me del padre, ma anche il suo stesso gentilizio, che trova i migliori
confronti a Perugia. Questo potrebbe connettersi a un evento della
guerra annibalica ricordato dagli storici romani, quando un contin-
gente formato da 570 Prenestini e 460 Perugini riuscì a tenere valoro-
samente nel 216/5 il piccolo centro di Casilinum (corrispondente alla
Capua medievale e moderna), che sorvegliava il guado del Volturno
che dava accesso alla grande città campana. Nonostante la guarnigio-
ne avesse poi dovuto cedere di fronte al soverchiante esercito cartagi-
nese, sappiamo per certo che la resa dovette essere onorevole, dal
momento che a Praeneste i reduci furono pubblicamente celebrati. È
possibile quindi che Laris Felsnas abbia continuato a militare in uno
dei numerosi eserciti dislocati lungo la penisola nel corso della guer-
ra, e poi, ormai lontano dalla sua città per molti anni, abbia deciso di
insediarsi a Tarquinia, legandosi alle famiglie locali. L’iscrizione è
quindi traducibile “Laris Felsnas (figlio) di Leqe visse 106 anni, … a
Capua, fu … da Annibale”.
11.2 ET Ta 1.108
Sulla parete opposta corre una seconda iscrizione, anch’essa abba-
stanza ben leggibile, dipinta a lettere nere molto simili.
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BIBLIOGRAFIA: SORDI 1989-90; REE 70, 54 [A. Morandi]. Sulla tomba degli Spitu:
SERRA RIDGWAY 1996, pp. 92-93; LININGTON, SERRA RIDGWAY 1997, pp. 51-52, 165 [M.
Pandolfini]. Manim: EMILIOZZI 1993, pp. 135-137, nota 43.
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14. ET Ta 1.259
Cippo frammentario in nenfro, privo della colonnetta che origina-
riamente lo sormontava; la provenienza precisa è sconosciuta ma,
dal momento che è conservato presso il Museo Archeologico Nazio-
nale di Tarquinia, deve derivare da uno scavo effettuato nelle necro-
poli della città. Questo tipo di cippi, in ogni caso, è del tutto scono-
sciuto al di fuori di Tarquinia. L’iscrizione corre sulla fronte, all’in-
terno di un riquadro delimitato da una linea incisa, che rappresen-
ta verosimilmente la guida seguendo la quale l’artigiano doveva
ribassare il campo centrale destinato all’iscrizione, in modo da
provvederlo di una cornice rilevata. Questa operazione non fu però
eseguita; la presenza di incompiuti non è insolita nei manufatti a
destinazione funeraria.
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BIBLIOGRAFIA: LAMBRECHTS 1956; sui cippi della tomba degli Anina: LININGTON,
SERRA RIDGWAY 1997, pp. 103-104.
Confronti: si danno qui due cippi con iscrizioni latine trovati nella
tomba 101 = 4794 dei Monterozzi (settore del “Fondo Scataglini”), per
confronto con quelli con analoghe iscrizioni etrusche. Le tombe del
Fondo Scataglini hanno restituito numerose tracce di un utilizzo pro-
trattosi fino a tutto il I secolo a.C., testimoniato anche dalle iscrizioni
latine, non solo su cippi, ma anche sulle pareti delle tombe e su lastre
di chiusura dei sarcofagi scavati nel banco roccioso.
A3: cippo di nenfro della tipica forma tarquiniese, con base paral-
lelepipeda e colonnetta rastremata; iscrizione contenuta nel campo
ribassato sulla faccia anteriore:
Vennonia 2 L. f. vixit 3 a. LX
Il formulario onomastico è pienamente romano (donna senza
prenome), seguito dall’indicazione dell’età di morte.
A4: cippo identico al precedente; iscrizione nella medesima posi-
zione:
C. Anni2us P. f. vi.3 an. XXC
Formulario ugualmente di tipo romano, con indicazione dell’età
di morte. Quest’ultimo elemento non è comunissimo nelle iscrizio-
ni latine coeve; la sua frequenza nei cippi tarquiniesi è probabilmen-
te eredità della consuetudine epigrafica locale. Il modo di notare il
numerale è relativamente raro in latino, e deriva verosimilmente
anch’esso dall’uso etrusco.
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15.
Piccolo sarcofago in nenfro rinvenuto nella “tomba III dei
Curunas”, la più piccola di un complesso di tombe appartenenti alla
famiglia Curunas situate nella necropoli di Madonna dell’Olivo, a
sud di Tuscania, il cui monumento più celebre è la grande tomba a
camera detta “Grotta della Regina”. Due delle tombe dei Curunas
(la I e la II), nonostante i danni perpetrati dai saccheggiatori, conser-
vavano elementi di una facciata costruita e probabilmente arricchi-
ta da una decorazione scultorea; al loro interno, nonostante i ripetu-
ti interventi di scavatori clandestini, è stato possibile recuperare un
gran numero di sarcofagi in nenfro e resti di ricchi corredi, che ne
attestano l’uso dalla metà del IV secolo fino a tutto il II, con riaper-
ture più sporadiche nel I secolo a.C. (tomba II). Solo sette dei 35 sar-
cofagi erano iscritti, troppo pochi per poter ricostruire una genealo-
gia coerente. Fra la tomba I e la II si trovava un’altra struttura, la
Tomba del Sarcofago delle Amazzoni, così denominata per l’ecce-
zionale sarcofago che vi si è rinvenuto, del tardo IV secolo, decora-
to a bassorilievo sui quattro lati; pur in assenza di iscrizioni, si può
ipotizzare che anche questa tomba appartenga alla medesima fami-
glia, certamente una delle più in vista di Tuscania. La tomba III era
più piccola, e conservava un solo sarcofago, di piccole dimensioni,
e resti di corredi; i materiali superstiti, che coprono un arco crono-
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logico che va dal secondo quarto del IV agli inizi del III secolo, sono
probabilmente pertinenti a più deposizioni, anche se i saccheggi
subiti dalla struttura non permettono di capirne meglio la storia,
che comunque non dovette essere molto lunga a causa delle dimen-
sioni piuttosto contenute della camera. Il sarcofago, conservato
presso il Museo Archeologico Nazionale di Tuscania, ha cassa liscia
e coperchio displuviato con volute alle estremità degli spioventi;
l’iscrizione corre sul listello laterale del coperchio, con un’andata a
capo verso l’alto, sulla falda del tetto.
2
ca ravnqus curunal 1 śeqreśla
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BIBLIOGRAFIA: GENTILI 1994 (sulla tomba dei Rufre pp. 55-57). Nuova iscrizione
latina: Studi Etruschi 65-68, 2002, pp. 433-436 [A. Magagnini, G. Colonna]; prosopo-
grafia romana dei Monti della Tolfa: BENELLI 1995; BENELLI 1999; STANCO 2003. Cippi
di Castel d’Asso: COLONNA, DI PAOLO COLONNA 1970, tavv. 401-409.
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con questo nome è senza dubbio quella di Vulci, titolare non solo di
una delle grandi tombe magnatizie della città (la “Tomba dei Due
Ingressi”), ma anche di due eccezionali sarcofagi bisomi che sono
fra i massimi capolavori della scultura vulcente del IV secolo.
BIBLIOGRAFIA: COLONNA, DI PAOLO COLONNA 1970, pp. 104-105, tavv. 136-142, 148-
153, 400. Sui sarcofagi dei Tetnie: HERBIG 1952, nn. 5-6; GENTILI 1997. Iscrizioni: CIE
5312-14 (= ET Vc 1.91-92)
21. ET AT 1.178
Le necropoli di Norchia hanno uno sviluppo più articolato rispetto
a quelle di Castel d’Asso, andando a collocarsi su tutti i costoni tufa-
cei circostanti l’abitato; lungo la valle del fosso Pile, dove sono
dislocate la maggior parte delle tombe, la necropoli arriva a interes-
sare anche il fianco della rupe su cui sorgeva la cittadina antica e
medievale. In quest’area, che attende ancora uno studio sistematico,
sono segnalate due tombe provviste di iscrizioni in facciata; il tipo è
quello, già attestato nelle altre necropoli di Norchia, del piccolo
semidado con finta porta e senza vano di sottofacciata. L’iscrizione
che qui si presenta corre sul primo fascione del coronamento supe-
riore del semidado; tipologia funeraria e forma delle lettere inqua-
drano il documento fra la seconda metà del IV e il III secolo.
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VULCI
Nella cultura epigrafica funeraria vulcente, anch’essa sostanzial-
mente di età recente, i supporti privilegiati per le iscrizioni sono i
cippi; uno dei motivi di questa scelta sta nel fatto che a Vulci si pre-
stava maggiore attenzione all’apparato esterno, mentre le tombe
hanno di solito interni piuttosto semplici (con l’eccezione di pochi
ipogei monumentali); l’uso dei sarcofagi è nel suo complesso meno
frequente rispetto a Tarquinia, ed appare sostanzialmente concen-
trato in un numero limitato di grandi sepolture di famiglie impor-
tanti, spesso imparentate fra loro, che possono contenerne anche
numerosi esemplari, frequentemente anepigrafi. Nel suo comples-
so, quindi, l’epigrafia funeraria vulcente si presenta su supporti
più variegati e meno standardizzati rispetto a quella tarquiniese, e
si concentra in proporzione rilevante in poche tombe gentilizie. I
cippi possono avere forme monumentali, collegate proprio alla
sistemazione più strutturata dell’esterno delle tombe: in questi
contesti potevano fungere da supporto epigrafico elementi archi-
tettonici dei tipi più svariati, come capitelli, sostegni di louteria, e
così via. Cippi iscritti potevano essere collocati anche su tombe
prive di apparato monumentale. Solo alcune tombe presentano
corredi epigrafici di una certa consistenza, che utilizzano come
supporti i sarcofagi e le pareti delle tombe stesse; fra tutte spicca la
tomba detta appunto “delle Iscrizioni”, dove i testi sono apposti
sulle pareti delle camere, sulla porta di una di queste e su lastre di
tufo frammentarie che tutto lascia pensare fossero porte di altre
camere. Del tutto unica è invece la tomba François, nella cui deco-
razione pittorica sono inserite (oltre alle didascalie dei personaggi)
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26.1
Sarcofago in nenfro a cassa liscia e coperchio a doppio spiovente,
collocato nel braccio terminale dell’atrio; l’iscrizione corre sul lato
corto, in direzione dell’ingresso.
26.2 ET Vc 1.64
Sarcofago in nenfro a cassa liscia con coperchio displuviato deposto
nella camera di fondo della tomba, nella seconda fila a partire dalla
porta (quindi si tratta dell’ottava o nona deposizione nella camera).
L’iscrizione è apposta sul lato lungo, ma in posizione asimmetrica,
sulla sola estremità destra, in modo da risultare visibile attraverso
la porta.
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27. ET AV 1.19
Nelle necropoli del centro etrusco di Sovana si sviluppa una parti-
colare tradizione di architettura funeraria rupestre, che prevede
talora l’inserimento di brevi iscrizioni. Uno di questi casi è rappre-
sentato da una celebre tomba della necropoli che si sviluppa lungo
il costone del fosso Folonia, a sud-est dell’abitato. Questa struttura,
denominata “tomba Siena” (F16 del catalogo generale delle tombe
rupestri di Sovana), si distingue nel tessuto, composto prevalente-
mente di tombe a semidado; essa appartiene al tipo a edicola con
vano rettangolare, inquadrato da un prospetto architettonico a rilie-
vo formato da un timpano e due ante a lesene. All’interno del vano,
secondo un modello che può definirsi tipico di Sovana, si trovava
un bancone con la figura del defunto scolpita nella roccia, nella
medesima posizione semirecumbente del banchetto usata sui coper-
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chi dei sarcofagi e delle urne cinerarie. Questo tipo di tomba sem-
bra appartenere ai decenni centrali del III secolo a.C., mentre nella
seconda metà dello stesso secolo si affermerà la variante più comu-
ne con vano arcuato. Il vano era intonacato all’interno, e proprio
sull’intonaco è graffita una breve iscrizione, divisa fra la parete di
fondo e quella di sinistra.
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VOLSINII
Nel centro di Orvieto, sede originaria della città di Volsinii, si incon-
tra l’unico sviluppo consistente di un’epigrafia funeraria nella fase
arcaica. Questo è dovuto al fatto che nelle necropoli orvietane, nel
corso della prima metà del VI secolo, si generalizza l’uso di un tipo
di tomba a dado costruito, che permette la giustapposizione di
numerosi monumenti disposti in allineamenti regolari, i quali
danno vita nella necropoli settentrionale (Crocifisso del Tufo) a un
vero e proprio impianto su assi ortogonali; la necropoli meridiona-
le (Cannicella), pur utilizzando modelli architettonici simili, non
ebbe lo spazio per una strutturazione paragonabile. Le lunghe file
di facciate a vista erano i supporti ideali per le iscrizioni, che vi ven-
nero realizzate in gran numero, sempre nel formulario di possesso
in prima persona: “io (sono la tomba) di …”; il soggetto “tomba”
può essere talora esplicitato. Sulla parte superiore dei dadi trovava-
no spazio delle piattaforme che ospitavano cippi e stele, prodotti in
forme molto variate dalle officine orvietane. Cippi di tipo diverso,
in una ventina di casi o poco più, servirono come supporto epigra-
fico, con il medesimo formulario impiegato sulle fronti delle tombe;
questi cippi iscritti servivano a segnalare sepolture prive di prospet-
to architettonico (per esempio, deposizioni singole in cassa di pie-
tra). Gli scavi recenti nella necropoli di Crocifisso del Tufo hanno
portato nuovi elementi per la comprensione del fenomeno epigrafi-
co: il piano su cui sorgono le tombe si è rivelato un grande terrapie-
no che ha coperto le sepolture più antiche. Le originarie proprietà di
lotti funerari dovettero essere azzerate da questa immensa opera
pubblica, che ha creato un nuovo terreno da lottizzare: ed evidente-
mente l’uso pressoché obbligatorio dell’iscrizione si riferisce pro-
prio alle azioni di lottizzazione dello spazio funerario tra le famiglie
in grado di possedere strutture a camera e dado. Le tombe sono di
solito corredate da una sola iscrizione, con pochissime eccezioni;
poiché tuttavia le camere contenevano di norma più deposizioni, il
nome doveva riferirsi verosimilmente al fondatore, dal quale
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BIBLIOGRAFIA: sui cippi volsiniesi: TAMBURINI 1987; TAMBURINI 1998, pp. 108-109.
Su Grotte di Castro: COLONNA 1973, pp. 60-61; COLONNA 1974; TAMBURINI 1985;
TAMBURINI 1994; TAMBURINI 1998, pp. 68-72. Su Bagnoregio: COLONNA 1978 A. Sulle
necropoli di Orvieto KLAKOWICZ 1972; KLAKOWICZ 1974; FORTE 1988-89; BONAMICI,
STOPPONI, TAMBURINI 1994; BRUSCHETTI, FERUGLIO 1999; FERUGLIO 2003 con ampia
bibliografia precedente; DE LUCIA BROLLI, MICHETTI 2005. Sul territorio orvietano e
sulle tombe dipinte: KLAKOWICZ 1977; KLAKOWICZ 1978; FERUGLIO 1995; BRUSCHETTI
1999; BRUSCHETTI 2003; FERUGLIO 2003 A, con ampia bibliografia precedente.
Sull’epigrafia orvietana soprattutto DE SIMONE 1990 A; MAGGIANI 2003 (che identifi-
ca anche alcuni elementi di storia della scrittura orvietana), con bibliografia prece-
dente; MAGGIANI 2005. Sulle iscrizioni di consacrazione funeraria su oggetti:
FONTAINE 1995.
29.
I nuovi scavi nella necropoli del Crocifisso del Tufo, finalizzati
soprattutto al restauro delle tombe e alla difesa dagli smottamenti
provenienti dalla rupe della città, hanno permesso di conoscere una
nuova fila di strutture quasi a ridosso del costone, nella parte alta
della necropoli, che proprio lo spessore dei crolli ha preservato dai
saccheggi. Una di queste tombe è particolarmente interessante per-
ché rappresenta un tipo poco noto all’interno delle necropoli orvie-
tane: si tratta di una tomba a cassa, a deposizione singola, che per le
dimensioni e per la composizione del corredo deve essere attribuita
a un defunto di età infantile; sono proprio i materiali del corredo a
permettere una datazione nei decenni centrali del VI secolo. Dal
punto di vista epigrafico l’interesse della scoperta sta nel fatto che
sul coperchio della sepoltura era infisso un cippo parallelepipedo
iscritto, di un tipo già conosciuto nella necropoli (anche nella
variante troncopiramidale), senza che se ne fosse potuto compren-
dere fino ad ora con certezza il modo di uso; la connessione di que-
sti cippi con le tombe a camera era sempre apparsa problematica.
Questa scoperta permette di collegare in via ipotetica i cippi, o
almeno una parte di essi, a questo tipo di tombe, che gli scavatori
della necropoli hanno definito “sotterranee” (per distinguerle da
quelle a camera), e che si scaglionano a riempire molti degli spazi
liberi tra i dadi che contengono le camere. La distinzione tra defun-
ti sepolti in tombe a camera e defunti sepolti nelle casse di pietra,
molto verosimilmente non è di carattere sociale; in qualche caso
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mi latin[ie]s kailes
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30. ET Vs 1.24
La tomba 7 di Crocifisso del Tufo si trova su una delle strade perpen-
dicolari alla rupe della città poste al riparo del grande isolato paralle-
lo alla rupe stessa, ed è la prima sulla destra guardando verso valle;
il dado nel quale è contenuta è doppio, e comprende anche la tomba
8 (con l’iscrizione ET Vs 1.25); nei pressi di questa tomba si trovava
anche il cippo con iscrizione CIE 4970 (= ET Vs 1.23, con la lettura cor-
retta), forse pertinente a una tomba a cassa non identificata. I resti del
corredo non permettono di capire il numero delle deposizioni; la
maggior parte dei materiali sembra individuare una fase di utilizzo
tardo-arcaica, anche se alcuni pezzi potrebbero indiziarne un primo
uso già nel secondo quarto del VI secolo a.C.
L’iscrizione corre come di norma sull’architrave.
mi velcaes laiseces
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mi mamarces velqienas
32. ET Vs 1.32
La tomba 19 di Crocifisso del Tufo si trova in posizione analoga alla
7 (cfr. scheda 30), nel blocco di tombe immediatamente parallelo; i
materiali di corredo fanno supporre un primo utilizzo della tomba
anteriore alla metà del VI secolo a.C. L’iscrizione, come di norma,
corre sull’architrave.
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mi velqurus pereceles
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mi piqes termunas
mi larice mulve2nas suqi
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ramqa : armni
La grafia, in un elegante
ductus di tipo “capitale”, per-
mette di datare il monumento verosimilmente non oltre il III secolo.
L’iscrizione riporta una formula onomastica femminile bimembre;
la maggior parte dei cippi ha formule bimembri o trimembri (con la
filiazione), con i prenomi scritti per esteso o abbreviati. È possibile
che l’abbreviazione del prenome sia un segno di seriorità, anche se
esiste certamente una ampia fase di sovrapposizione tra i due usi
epigrafici. Il gentilizio è tipicamente volsiniese, e trova confronti in
ambito settentrionale.
BIBLIOGRAFIA: MORANDI 1990, pp. 38-40; TAMBURINI 1991, p. 452; TAMBURINI 1998,
p. 109.
śeqre tins
117
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larq : murinas : v
BIBLIOGRAFIA: MORANDI 1990, pp. 54-55. Tomba dell’Orco: COLONNA, MORANDI 1995.
118
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CHIUSI
L’epigrafia funeraria di Chiusi e del suo vasto territorio si segnala
per uno sviluppo assolutamente abnorme, che fa di questa città
quella che ha restituito da sola un terzo dell’intera documentazione
epigrafica etrusca; come di consueto, le testimonianze si concentra-
no essenzialmente nella fase recente. Le iscrizioni funerarie arcaiche
raggiungono appena la decina, e sono estremamente varie quanto a
supporti, segno che la loro redazione non risponde ai criteri di una
cultura epigrafica ben definita, ma è dovuta a scelte estemporanee;
il formulario è limitato al solo nome personale del defunto, talora
con il monumento che parla in prima persona, come si riscontra di
frequente nei documenti coevi di tutta l’Etruria. Fa eccezione in
questo panorama la lastra di Castelluccio di Pienza (v. p. 267). Nella
fase recente, soprattutto a partire dai decenni finali del III secolo
a.C., in concomitanza con una vera e propria rivoluzione nella cul-
tura funeraria chiusina, che vede un incremento improvviso e rile-
vantissimo del numero delle tombe a camera accompagnato dal-
l’avvio di produzioni massificate di migliaia di urne cinerarie in ala-
bastro, travertino e terracotta (affiancate da più rari sarcofagi, e poi
da olle cinerarie ugualmente prodotte in serie in forme diverse
attraverso i secoli), nasce e si sviluppa un uso estesissimo delle iscri-
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BIBLIOGRAFIA: sulle necropoli di Chiusi e del territorio (si indica solo la bibliogra-
fia più recente, alla quale si rinvia per ulteriore letteratura): CRISTOFANI 1975; JANNOT
1984; COLONNA 1993; BENELLI 1998 A; PAOLUCCI 1998; PAOLUCCI 1999; PAOLUCCI,
RASTRELLI 1999; Chiusi 2000; MINETTI, RASTRELLI 2001; PAOLUCCI 2002; SCLAFANI 2002;
MINETTI 2004; MINETTI 2004 A. Sulle urne chiusine cfr. anche Artigianato artistico 1985.
38. ET AS 1.507
Urna in pietra fetida a cassa liscia con grandi peducci, priva di indi-
cazioni di provenienza, entrata prima del 1950 nelle collezioni
comunali di Chiusi, e oggi esposta presso la Sezione Epigrafica del
locale Museo Civico. Il tipo di pietra fetida e la lavorazione riman-
dano a una provenienza certamente attribuibile a Chiusi o al terri-
torio immediatamente circostante; la forma dell’urna riprende un
tipo piuttosto comune tra il VI e il IV secolo a.C., quando l’uso della
pietra fetida per le urne tende a rarefarsi fino a completa scompar-
sa. Il coperchio non è conservato. La datazione può essere dedotta
solo dalle forme grafiche dell’iscrizione, incisa sulla fronte con duc-
tus trascurato, in un’unica linea che, raggiunto il margine sinistro,
piega verso il basso.
120
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mi veneluś ursumunieś
39.
L’iscrizione è incisa su una nicchia scavata nella parete sinistra della
camera di fondo di una tomba arcaica della necropoli di Poggio
Renzo, una delle principali necropoli urbane di Chiusi, situata
immediatamente a nord della città. Nel panorama piuttosto mode-
sto dell’epigrafia funeraria arcaica chiusina, questo è un caso sinora
unico di iscrizione scolpita sulla parete di una tomba.
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sede; l’altra è stata distrutta e dal suo contesto si è salvata solo l’ur-
na con l’iscrizione ET Cl 1.924), di norma corredato di una porta in
travertino a uno o due battenti che girano su cardini, è la realizza-
zione più monumentale dell’architettura funeraria chiusina di età
ellenistica; derivato molto probabilmente da prototipi macedoni
giunti nell’Italia tirrenica già nel IV secolo (Napoli, Cerveteri), arri-
va a Chiusi verso la fine del III secolo, epoca alla quale si può data-
re l’impianto della tomba del Granduca (l’unica altra della quale si
conoscono tutte le urne, oggi in propretà privata, con le urne poste
ancora nella loro collocazione originaria) grazie al legame di paren-
tela fra la famiglia dei Pulfna Peris, titolari della tomba, e quella dei
Matausni (sepolta in un’altra delle principali tombe gentilizie chiu-
sine, più antica e del tipo architettonico tradizionale). È probabile
che le due tombe del Granduca e di Vigna Grande abbiano una cro-
nologia simile; per questo tipo di tombe poco aiuta lo studio stilisti-
co delle urne, che spesso sono di qualità piuttosto bassa, in netto
contrasto con l’alto impegno architettonico della costruzione con
volta a botte in blocchi di travertino. Le famiglie titolari di queste
tombe di ispirazione macedone (Pulfna Peris, Tlesna Papasa, Cae
Cantis, Herini, per citare solo quelle di attribuzione certa) sono tutte
legate fra loro, e per giunta legate anche ai titolari delle principali
tombe gentilizie di tipo tradizionale e ai loro ambienti sociali
(Larcna, Seiante/Sentinate, Tite, Matausni, e così via), permettendo
di ricostruire una probabile mappa dei componenti delle classi diri-
genti della città.
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2
qa : tlesnei : herinisa : puluf 1nal
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lq : herini : tlesnal :
lq : herini : lq : tlesnalisa
lq : herini : umranal
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aq : herini : aq : vipinal
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L. Pontius 2 T. f. Rufus
Pontia L. l. Salvia
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aq : re : sepi 2 veltsnal
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C. Arrius C. f. 2 q(uaestor)
aq · arntni · umranal
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so aggettivale etrusco -na (qui nella forma -ni esito della presenza
della rideterminazione con -ie: -naie > -ni) con l’equivalente latino
-ius, e con un adeguamento della radice alla fonetica del latino.
BIBLIOGRAFIA: sulle bilingui BENELLI 1994; sul passaggio dai gentilizi etruschi a
quelli latini ancora fondamentale RIX 1956.
aq · unata · varnal ·
M’. Otacilius Rufus Varia natus
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PERUGIA
A Perugia e nel suo territorio la disparità fra la fase arcaica e quella
recente è ancora più marcata; la documentazione epigrafica funera-
ria è totalmente esclusiva della fase recente. Nel III secolo a.C. nelle
tombe perugine si comincia ad adottare l’urna cineraria in traverti-
no (la produzione in terracotta è solo episodica e mal nota, anche se
può raggiungere notevoli vertici qualitativi), inizialmente stuccato;
anche in questa città, come a Chiusi, è però tra i decenni finali del
III e l’inizio del II secolo a.C. che si avverte un vero salto di qualità,
con una moltiplicazione esponenziale nel numero delle tombe a
camera (che di solito hanno forme architettoniche piuttosto sempli-
ci), in qualche caso letteralmente stipate di urne cinerarie. Le iscri-
zioni sono molto numerose, anche se non raggiungono la consisten-
za di Chiusi, attestandosi attorno al migliaio. Caratteristico dell’am-
bito perugino è l’addensamento dei monumenti iscritti nelle necro-
poli urbane e di alcune limitate aree del territorio, che devono aver
avuto una particolare importanza; al di fuori di queste zone, l’uso
delle iscrizioni nelle tombe è estremamente più raro. Le iscrizioni
sono realizzate in modo pressoché esclusivo sulle urne cinerarie e
sui tipici cippi perugini in travertino, a forma di colonnetta sormon-
tata da un bocciolo di acanto più o meno schematico, che erano in
origine collocati all’esterno delle camere; la scoperta della tomba dei
Cutu, che – grazie alle eccezionali condizioni di conservazione – ha
rivelato numerose iscrizioni dipinte, fa supporre che un numero
indeterminabile di testi sia andato perduto a causa della scomparsa
della pittura su tutte le urne di ritrovamento antico (che sono poi la
grande maggioranza di quelle a nostra conoscenza). Le iscrizioni
sono normalmente limitate alla sola formula onomastica, e le indi-
cazioni di tipo diverso sono molto rare. Esiste anche una serie di
piccole lamine di piombo iscritte con i nomi dei defunti, che, in
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Gli autori della dedica sono due fratelli (come mostra il metroni-
mico unico arzneal), indicati con i due prenomi Arnq e Larq, senza
alcuna congiunzione; il gentilizio ha l’uscita del genitivo afunziona-
le, comune a Perugia ancora ben addentro al II secolo. Il termine
husiur, un plurale con la desinenza del genere “animato” (vocale+r),
indica il “figli” in generale, senza valore di genere (mentre con cle-
nar si intendono “figli maschi”: cfr. scheda 11.2). Il verbo hece è esito
della contrazione di hecce (derivato dall’arcaico hecece), ed è già
usato nella iscrizione arcaica della tomba tarquiniese dei Tori per
esprimere l’azione di costruzione della struttura (come si è già
accennato, nel verbo etrusco non esiste distrinzione di forma tra sin-
golare e plurale); anche in quel caso il verbo era usato con acil, che
esprime il concetto di “opera” (cfr. scheda 6). In questa iscrizione
l’opera è ulteriormente specificata dal termine suqi, “tomba”. Pro-
prio grazie a questa occorrenza si può pensare che esistesse una
locuzione verbale acil hec(c)e dal significato di “fece, realizzò”: in
questo caso, l’iscrizione di Tarquinia avrebbe oggetto inespresso,
mentre quella perugina avrebbe suqi come oggetto.
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BIBLIOGRAFIA: fra le molte edizioni della tomba, tutte datate, l’ultima è VON
GERKAN, MESSERSCHMIDT 1942; sulle urne v. ora FERUGLIO 2002.
48.1
Urna di travertino rivestito di stucco che riprende la forma cosid-
detta “a cassa lignea” (con telaio e riquadro centrale ribassato, deco-
rato a rilievo con cacciatore e due grifi), decorata ai quattro vertici
con protomi leonine e patere; la realizzazione molto accurata del-
l’urna, con il rivestimento di stucco dipinto, la avvicina a quelle
della tomba dei Volumni, tanto che si può pensare che sia uscita
dalla medesima bottega; la forma ancora spiccatamente rettangola-
re la avvicina ai modelli chiusini, dei quali le prime urne perugine
sono debitrici. Sul coperchio si trova la figura del defunto semire-
cumbente, anch’essa stuccata e dipinta. L’iscrizione è incisa lungo la
traversa superiore dell’urna.
145
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48.2
Urna di travertino della tipica forma perugina squadrata, con fron-
te decorata con rilievo di coppia banchettante. Il coperchio displu-
viato (che, contrariamente a quelli chiusini, ha il timpano verso la
fronte dell’urna) è decorato con un rosone tra grappoli; l’iscrizione
corre sul listello inferiore del coperchio.
ve : cutu : au : viscial :
48.3
Urna di travertino con coperchio displuviato, decorata con rosone
entro un riquadro centrale ribassato. L’iscrizione, latina, corre lungo
il listello superiore e quelli laterali.
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CORTONA
L’epigrafia funeraria cortonese ha una consistenza piuttosto limita-
ta, e la sua comprensione è complicata dal fatto che la maggior parte
delle iscrizioni funerarie sono di ritrovamento antico, e ci sono per-
venute spesso prive di precise indicazioni sul contesto. Queste iscri-
zioni sono per lo più apposte su urne cinerarie, e si riferiscono alla
fase recente. Delle necropoli cortonesi sono documentate in manie-
ra soddisfacente solo le tombe più monumentali, come i grandi
tumuli che sorgevano nella piana sottostante la città, che risalgono
a età orientalizzante, ma che talora sono stati usati per più secoli; è
proprio in alcuni di questi che si sono rinvenute urne iscritte e rare
iscrizioni apposte sulle pareti stesse delle camere, tutte riferibili alle
ultime fasi di utilizzo. Per quanto riguarda la fase recente, sono
conosciute sul piano archeologico le camere monumentali (in origi-
ne coperte da tumuli) definite tradizionalmente “tanelle”, anch’es-
se probabilmente provviste di urne iscritte (ritrovate però sempre
fuori contesto), e poche altre tombe a camera, talora con loculi alle
pareti, ma rinvenute comunque già depredate; queste tombe pote-
vano contenere iscrizioni su urne, su lastre di pietra forse utilizzate
per chiudere i loculi, o sulle pareti delle camere stesse. Si tratta in
ogni caso di una documentazione limitata e abbastanza disomoge-
nea. Alcuni siti del territorio cortonese vicini al confine con quello
chiusino hanno subito l’influsso della vivace cultura funeraria chiu-
sina, testimoniata da urne probabilmente importate, talora iscritte.
BIBLIOGRAFIA: sulle necropoli di Cortona: NEPPI MODONA 1977; Cortona 1992;
Camucia 1998; MENICHETTI 2001 (Tanella di Pitagora); in generale sulla città v. ora
Cortona 2005, sopr. pp. 73-197, con ampia bibliografia precedente. Castiglion
Fiorentino (centro della Valdichiana al confine fra territorio cortonese e aretino):
Castiglion Fiorentino 1995.
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50.
Nel corso dei nuovi lavori che hanno interessato il “tumulo II” del
Sodo citati nella scheda precedente (alla quale si rimanda anche per
la bibliografia) è stata rinvenuta una nuova tomba a camera, aperta
probabilmente nel secondo quarto del V secolo a.C. (quindi circa un
secolo più tardi rispetto alla costruzione del tumulo); i materiali rin-
venuti, nonostante il parziale saccheggio della struttura, hanno per-
messo di stabilirne un utilizzo protrattosi nel tempo. In particolare
nella prima camera, parzialmente protetta da un crollo, sono state
rinvenute alcune urne cinerarie in giacitura sostanzialmente indi-
sturbata, che documentano, a fianco di tipi in arenaria già conosciu-
ti, l’uso di singolari urne in terracotta a forma di cassetta. Fra le urne
in arenaria se ne segnala una, del tipo a cassa liscia con peducci, con
iscrizione che occupa l’intera fronte. Al suo interno sono stati rinve-
nuti un orecchino d’oro e una fibula di bronzo, che ne indicano una
cronologia al IV secolo o leggermente posteriore; proprio questo rin-
venimento attesta che nella tradizione epigrafica cortonese l’occupa-
zione dell’intera fronte da parte dell’iscrizione funeraria avviene in
epoca ben più antica rispetto all’area culturale chiusina, dove il feno-
meno è collegato alla diffusione delle urne a cassa liscia generalmen-
te seriori rispetto a quelle decorate a rilievi, nelle quali l’iscrizione
era confinata al solo listello di margine (e non è certo un caso che
nella sola area sarteanese, dove esistono urne in travertino a cassa
liscia già almeno dal IV secolo, si possono incontrare iscrizioni che
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AREZZO
Le necropoli di Arezzo sono di gran lunga le più sfuggenti tra quel-
le delle città etrusche; sembra che in questa città sia completamente
mancata ogni forma di architettura funeraria monumentale, e le
tombe conservano sempre la antica forma del pozzetto (per le inci-
nerazioni) o della fossa (per le inumazioni), praticamente prive di
corredo. Non c’è da stupirsi quindi che le pochissime iscrizioni
funerarie di Arezzo (tutte su urne cinerarie) siano di epoca estrema-
mente avanzata e risentano probabilmente di un allentamento della
rigida tradizione locale in seguito alla incorporazione nello stato
151
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51. ET Ar 1.3
Da una delle generalmente mal note necropoli che circondavano la
città di Arezzo, quella in località Pino di Saione (che non ha sinora
restituito tombe anteriori all’età ellenistica), fu rinvenuta nel 1954
una tomba a cassa di muratura contenente un’urna di travertino e il
suo corredo, che permette di datare la deposizione attorno al 10 a.C.
Il tipo di tomba è quello che ad Arezzo si affianca, in avanzata età
ellenistica, alle più semplici fosse e pozzetti correntemente usati sin
dall’età arcaica, quando sembrano peraltro già attestati alcuni cas-
soni di lastre e pietre a secco. L’urna, a cassa liscia con peducci e
coperchio displuviato, reca incisa sulla fronte una iscrizione funera-
ria bilingue. Tutto il complesso (urna e corredo) è conservato pres-
so il Museo Archeologico Nazionale di Arezzo.
152
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REGIONE SENESE
Nel triangolo compreso fra Chiusi, Arezzo e Volterra, si svilupparono
una serie di centri contraddistinti da aspetti culturali del tutto pecu-
liari. Alcune delle zone incluse in questo ambito geografico possono
essere ascritte con un buon margine di probabilità ai territori di que-
ste tre città; tuttavia, in esse si manifesta un notevole grado di auto-
nomia culturale, che fa pensare che il rapporto con le metropoli si svi-
luppasse su basi di maggiore elasticità rispetto alle porzioni di terri-
torio di più immediato controllo. A questo proposito, si possono
distinguere tre aree principali:
1. L’area a settentrione di Siena, centrata sui numerosi siti archeo-
logici dei territori di Monteriggioni e Colle di Val d’Elsa, caratte-
rizzata da una cultura chiaramente debitrice di quella volterra-
na, che si spingeva fino ai dintorni della stessa Siena. Nella zona
circostante la città, e soprattutto in quella a settentrione, si
segnala una presenza non trascurabile di iscrizioni funerarie
arcaiche, collegate a una serie di stele con figure a bassissimo
rilievo di derivazione probabilmente volterrana, che tuttavia in
quest’area ebbero un particolare successo. Nella fase recente l’in-
fluenza della cultura volterrana si fa più marcata, con l’importa-
zione di urne cinerarie dalla metropoli e soprattutto con l’avvio
di botteghe locali che imitano in modo più o meno riuscito le
produzioni volterrane. Queste urne possono fungere da suppor-
to per iscrizioni funerarie, che però, pur essendo relativamente
diffuse nel territorio, non raggiungono mai grandi concentrazio-
ni: si pensi che nella tomba della famiglia Calisna Sepu presso
Monteriggioni, eccezionale per ricchezza e qualità dei materiali
e ricca di almeno 105 deposizioni scaglionate su una decina di
generazioni, c’erano appena quattro iscrizioni funerarie.
153
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154
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particolare sulla Val d’Orcia si veda PISTOI 1997, con bibliografia precedente; per i tipi
di urne si deve rimandare ancora a MORI 1968.
mi veneluś repusiunaś
155
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53.
Nella necropoli di Le Ville (Colle Val d’Elsa) sono state recentemen-
te recuperate alcune tombe a camera già saccheggiate in passato; tra
queste tombe si segnala in particolare quella indicata dagli scavato-
ri con il numero 10, che ha restituito resti di corredi di notevole
livello di età arcaica e tardo-arcaica; fra i materiali vi erano quattro
urne in arenaria del tipo riproducente la cassa lignea e due coperchi
displuviati iscritti, dei quali si presenta qui quello in migliore stato
di conservazione. L’iscrizione è incisa sullo spiovente.
mi veneluś shekuntenaś
54. ET Vt 1.77
All’interno della ricca necropoli del Casone, presso Monteriggioni,
nel 1893 venne alla luce una eccezionale tomba a camera integra,
che conteneva ben 105 deposizioni di incinerati, all’interno di vari
contenitori (36 urne di pietra, 34 crateri volterrani, 5 vasi a vernice
nera, 18 vasi di altri tipi, 12 vasi di bronzo) oltre a un gran numero
di oggetti di corredo, alcuni dei quali di pregio notevole, che testi-
moniano l’uso del complesso per un lungo periodo, compreso tra la
fine del IV e gli inizi del I secolo a.C. Purtroppo l’assenza fino al
1909 di una legge che assicurasse allo Stato le scoperte archeologi-
che, che rimanevano così in mano a scopritori e proprietari dei ter-
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55.1 ET AS 1.90
Sulla banchina destra della camera di fondo era deposta quella che
probabilmente è la più antica urna in pietra della tomba; ha cassa
liscia in arenaria con grandi piedi sporgenti sulla faccia anteriore e
coperchio displuviato sul cui margine corre l’iscrizione. Il tipo ha le
sue radici nelle urne di età arcaica, anche se l’uso di contenitori di
questo genere può attardarsi molto.
lart larqurni
55.2 ET AS 1.86
Urna di travertino a cassa liscia con peducci e coperchio displuviato
(il tipo più comune ad Asciano per un periodo piuttosto lungo). Al
suo interno fu trovata una fibula di bronzo del tipo “Aucissa”, data-
bile non prima della fine del I secolo a.C.; la datazione in epoca così
avanzata concorda con la posizione dell’urna, che era deposta sulla
banchina della camera di fondo al di sopra di un’altra urna, e che
quindi fa parte dell’ultima serie delle deposizioni. Altre urne da que-
sta stessa tomba contenevano monete che ne assicurano una datazio-
ne simile (per esempio quelle con iscrizioni ET AS 1.85 ed ET AS
1.88, entrambe posteriori al 23 a.C.): si tratta delle attestazioni di
iscrizioni etrusche di cronologia certa più tarde in assoluto; iscrizio-
ni etrusche certamente posteriori a questa data sono esclusivamente
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bilingui (cfr. schede 47.8; 51). L’iscrizione è incisa sulla fronte dell’ur-
na in modo piuttosto sciatto, con la sovrapposizione di alcune lette-
re che ricorre in molte iscrizioni ascianesi, soprattutto le più tarde.
160
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56.1 ET AS 1.161
Coperchio displuviato in travertino recante due iscrizioni sulle due
falde, probabilmente relative a una coppia coniugale. Questa occor-
renza non è isolata e può essere anzi considerata un comportamen-
to epigrafico tipico della zona.
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57.1 ET AS 1.182
Urna in pietra fetida del tipo riproducente una cassa lignea, con
coperchio displuviato; l’iscrizione corre sul bordo del coperchio.
arnt petruś
57.2 ET AS 1.183
Urna simile alla precedente; iscrizione sul bordo del coperchio.
vel petruś
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57.3 ET AS 1.179
Urna di travertino a cassa liscia con coperchio displuviato; l’iscrizio-
ne corre sulla fronte dell’urna.
57.4 ET AS 1.180
Urna di travertino indicata come analoga alla precedente.
auleś pe2turś
Questa è la trascrizione data al momento della scoperta; la inver-
sione di r e vocale è ben attestata nel novero delle allografie di ori-
gine fonetica nella tarda epigrafia etrusca. Insolito, ma non privo di
confronti, il formulario al genitivo semplice, sottintendente il pos-
sesso dell’urna. A questo proposito va notato che l’area valdorciana,
in parallelo con una maggiore varietà nella forma delle urne, pre-
senta anche una varietà di formulari molto più ampia rispetto al ter-
ritorio chiusino metropolitano e orientale.
57.5 ET AS 1.181
Urna di travertino data anch’essa come analoga alle precedenti.
57.6 ET AS 1.177
Olpe in ceramica a vernice nera usata come cinerario; l’iscrizione è
graffita sul corpo del vaso.
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57.7 ET AS 1.178
Olla stamnoide in ceramica depurata decorata a fasce orizzontali;
l’iscrizione è graffita sulla spalla.
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VOLTERRA
L’epigrafia funeraria volterrana si divide fra le scarse testimonianze
della fase arcaica (soprattutto stele), e una fioritura relativamente più
consistente nella fase recente, quando le iscrizioni (essenzialmente su
urne cinerarie) sembrano più concentrate nelle necropoli urbane, pur
non mancando di una certa diffusione sul territorio. I formulari sono
quelli già visti nei paragrafi precedenti, con una predilezione per le
“iscrizioni parlanti” nella fase arcaica, mentre in quella recente si pre-
ferisce la formula onomastica pura e semplice. A Volterra tuttavia si
tende a inserire anche l’indicazione dell’età del decesso, con una fre-
quenza che trova confronto solo a Tarquinia. La documentazione vol-
terrana, dove alle numerose urne conosciute (un migliaio, per la mag-
gior parte in alabastro e in un’arenaria chiamata tradizionalmente ma
erroneamente “tufo”; più limitata ma spesso qualitativamente note-
vole la produzione in terracotta) corrispondono meno di 200 iscrizio-
ni funerarie, fa risaltare ancora di più l’eccezionale percentuale di
urne iscritte a Chiusi e Perugia; in ultima analisi, sembrerebbe che la
presenza dell’iscrizione funeraria avesse a Volterra un ruolo meno
importante rispetto a quello che aveva nelle altre due città. Entro certi
limiti, è possibile riscontrare un certo legame tra uso delle iscrizioni e
tradizioni familiari di alcune gentes volterrane.
BIBLIOGRAFIA: sulle necropoli volterrane, e in particolare sulle urne, cfr. Artigianato
artistico 1985, con bibliografia precedente; CUE 1; 2,1 e 2,2.
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Confronto
A5 = CIE 22
Dalla medesima tomba provengono diverse urne con iscrizioni lati-
ne, che documentano la fase finale della produzione volterrana in
alabastro, ormai rimasta in vita in redazioni molto semplificate al
168
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servizio delle grandi famiglie della città, fortemente legate alle tra-
dizioni funerarie locali. In questo caso il coperchio (sul cui listello si
trova l’iscrizione) rappresenta il defunto semirecumbente con rhy-
ton nella destra; la cassa raffigura una scena mitologica.
L. Caecina L. f. Tlaboni vix(it) annos XXX
Nel formulario da cittadino romano è inserito il cognome che,
con la sua terminazione in -i, rappresenta una traslitterazione del
cognome Tlapuni attestato in etrusco. L’indicazione dell’età, presso-
ché costante nelle iscrizioni latine su urne volterrane, è un retaggio
della tradizione epigrafica locale.
BIBLIOGRAFIA: sulla tomba CUE 1, pp. 26-36; sui Caecina volterrani in età romana
CAPDEVILLE 1997.
VALDARNO
La valle dell’Arno, costellata da piccoli insediamenti che si estende-
vano fra i centri maggiori di Fiesole e Pisa, ha restituito solo poche
iscrizioni funerarie, che si collocano per la maggior parte nella fase
arcaica, e sono apposte essenzialmente su due serie principali di
monumenti: le stele in arenaria, caratteristiche soprattutto dell’area
fiesolana (dove si affiancano a un’ampia produzione di cippi), e i
cippi a clava in marmo, tipici del territorio pisano. Il formulario che
vi è impiegato è quello della “iscrizione parlante”, che si ripropone
anche sui rarissimi monumenti funerari iscritti di età recente, legati
a tradizioni artigianali di matrice volterrana. Del tutto occasionale
l’uso di iscrizioni su contenitori funerari (un coperchio di urna in
arenaria da Fiesole).
Oltre a queste attestazioni, vanno segnalate anche le iscrizioni
graffite sull’intonaco che rivestiva parte della muratura interna
della monumentale tomba a tholos della Montagnola a Quinto
Fiorentino, purtroppo quasi illeggibili.
BIBLIOGRAFIA: territorio del Valdarno in generale: BRUNI 2002, con ampia biblio-
grafia precedente; sui cippi fiesolani, dopo il classico lavoro di MAGI 1932, si veda ora
BRUNI 1994; BRUNI 1998 A. Sui segnacoli di ambiente pisano: BONAMICI 1987-88;
BONAMICI 1991; BRUNI 1998, pp. 139-153; Acheronticae columellae 1999; Architettura fune-
raria orientalizzante: BRUNI 2000. Sulle iscrizioni della tomba della Montagnola di
Quinto Fiorentino: Studi Etruschi 31, 1963, pp. 176-185 [M. Pallottino].
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larqia ninieś
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63.
Cippo in marmo del tipo cosiddetto a clava (ossia di forma tronco-
conica con la base minore posta nella parte inferiore, e la base mag-
giore arrotondata o dotata di un umbone), caratteristico di Pisa e dei
territori circostanti, e attualmente reimpiegato come sostegno di
un’acquasantiera nella chiesa di S. Giovanni ad Arena, nei pressi di
Pisa. L’iscrizione corre in senso verticale, con segni di interpunzio-
ne a tre punti.
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ETRURIA PADANA
Le necropoli di Bologna, come quelle di tutti i centri etruschi a nord
dell’Appennino, non sviluppano mai una architettura funeraria
monumentale; a questa carenza supplisce una produzione di stele
figurate che possono raggiungere anche dimensioni considerevoli, e
che contrassegnavano le tombe dei personaggi più eminenti. In
qualche caso (una quindicina), le stele possono essere iscritte con il
nome del defunto; in due delle otto iscrizioni riferite a defunti di
sesso maschile sono ricordate anche le cariche ricoperte in vita.
Questa serie di stele rappresenta la tappa finale nella storia di una
classe monumentale che ha le proprie radici già in età orientalizzan-
te e si colloca essenzialmente tra il V e i primi decenni del IV secolo
a.C. Del tutto eccezionali sono invece i due cippi di Rubiera, nel reg-
giano, (uno della fine del VII e uno dell’inizio del VI secolo a.C.),
rinvenuti fuori del loro contesto originario ma certamente da riferi-
re a una necropoli ancora da identificare: eccezionali per la loro
forma e decorazione, che ne fa praticamente dei pezzi unici, e per le
iscrizioni che correvano sui listelli, che ricordano non solo i nomi
delle persone che erano sepolte nelle tombe sulle quali erano stati
innalzati, ma anche altri elementi, fra i quali spicca la menzione di
una carica magistratuale, la più antica mai ricordata in un’iscrizio-
ne etrusca.
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BIBLIOGRAFIA: su Bologna v. ora Bologna 2005 (sopr. pp. 117-385); per le necropoli
pp. 264-281; per le iscrizioni pp. 321-326, con ampia bibliografia precedente. Per le
stele e il rapporto con le necropoli fondamentale SASSATELLI 1988 e SASSATELLI 1989;
stele da Bologna con iscrizione magistratuale: RIX 1981-82.
Sui cippi di Rubiera: MALNATI, BERMOND MONTANARI 1989; DE SIMONE 1992, Principi
2000, pp. 341-345 con bibliografia precedente; v. anche raccolta della bibliografia in
AMANN 2004.
65. ET Fe 1.10
Stele con decorazione divisa su tre registri orizzontali, rinvenuta in
frammenti all’interno di una tomba della necropoli dei Giardini
Margherita, uno dei principali nuclei di sepolture di Bologna, situa-
to a SE della città. In mancanza di un corredo di riferimento, la stele,
conservata presso il Museo Civico Archeologico di Bologna, viene
datata su base stilistica alla fine del V secolo. L’iscrizione corre sul
listello che separa il primo e il secondo registro figurato.
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Capitolo III
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67. ET Cr 2.15
Piatto tripode proveniente dalla tomba 317 della necropoli di Monte
Abatone, e attribuito alla deposizione più antica delle almeno due
contenute all’interno della camera, da porsi entro il primo quarto
del VII secolo. L’iscrizione è graffita all’esterno della vasca, in scrip-
tio continua.
mi laris∫ a velqies∫
I caratteri grafici sono quelli tipici di Caere nella fase più antica
di uso epigrafico della scrittura; con theta crociato e soprattutto i tre
grafemi vau, epsilon e rho con tratto verticale prolungato verso l’alto.
Tipicamente ceriti l’alfa con traversa ascendente e l’uso del sigma a
quattro tratti, che in questo caso indica la sibilante semplice. In tutta
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68. ET Cr 2.1
Piatto di impasto proveniente dalla tomba 2 del tumulo di Casaletti
di Ceri, centro del territorio di Cerveteri situato a breve distanza
dalla metropoli in direzione di Roma. Il corredo, conservato presso
il Museo Archeologico Nazionale di Cerveteri ed edito solo parzial-
mente, sembra indiziare una deposizione singola, probabilmente
femminile, datata al primo quarto del VII secolo. L’iscrizione è graf-
fita all’esterno della vasca.
mi spanti nuzinaia
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mi laives sukisnas
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raro, così come il gentilizio Sukisna, che trova però un’altra attesta-
zione in una iscrizione di probabile provenienza cerite di fine VII –
inizi VI secolo.
BIBLIOGRAFIA: CRISTOFANI 1973-74, pp. 151-153.
70. ET Vt 3.1
Kyathos su alto piede proveniente dalla tomba a camera BB6 della
necropoli del Casone, presso Monteriggioni; nella camera era depo-
sto un defunto incinerato dentro un’olla. Tutti i materiali sono
dispersi, tranne questo kyathos, oggi conservato presso il Museo
Guarnacci di Volterra. L’iscrizione corre sull’ampio piede, ed è inci-
sa a caratteri regolari, probabilmente riempiti in origine di una
sostanza di colore bianco per far risaltare meglio il testo.
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72. ET OA 2.25
Coppetta su alto piede di impasto pervenuta al Museo del
Louvre tramite l’acquisizione della collezione Campana. La
forma del vaso rende probabile una sua provenienza da ambito
cerite, come d’altra parte molti dei numerosissimi oggetti che
componevano la famosa collezione del banchiere romano. La
forma viene datata al secondo-terzo quarto del VII secolo.
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mi laucies mezenties
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74. ET OA 2.2
Aryballos ovoide di bucchero collegato a tipi protocorinzi del terzo
quarto del VII secolo; si tratta di una forma relativamente rara nel
bucchero, che non di rado funge da supporto per iscrizioni di pos-
sesso, evidentemente collegate al dono del prezioso contenuto del-
l’oggetto. Questo esemplare, di provenienza ignota ma certamente
etrusco-meridionale (la produzione è attribuita a Cerveteri), si trova
ora, dopo diversi passaggi di proprietà, nella collezione archeologi-
ca della New York University. L’iscrizione è graffita su una fascia
risparmiata sulla spalla.
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76. ET Cl 2.3
Fibula a drago in oro decorata a granulazione, proveniente proba-
bilmente da Castelluccio di Pienza, centro del territorio chiusino che
ha restituito altre iscrizioni della fase arcaica, tra le quali un lastro-
ne reimpiegato come porta di una tomba che conserva la più lunga
iscrizione lapidaria arcaica sinora nota (cfr. p. 267). La fibula è oggi
conservata a Parigi, al Museo del Louvre. L’iscrizione è stata realiz-
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zata sulle due facce della staffa con la tecnica della granulazione,
quindi dal medesimo orefice autore della decorazione della fibula,
evidentemente su richiesta precisa del committente, che la ha desti-
nata fin dal principio a un dono. Il confronto con manufatti analo-
ghi permette una datazione attorno al 630.
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77. ET Cr 2.34+35
Olla di impasto proveniente dalla camera di fondo della Tomba dei
Denti di Lupo, una piccola sepoltura a due camere posta sul colle
della Bufolareccia, estrema propaggine orientale della grande
necropoli cerite della Banditaccia. I resti del corredo, recuperati gra-
zie all’intervento di volontari dopo una prima apertura della tomba
ad opera di clandestini, permettono di inserire l’olla in un gruppo
di materiali databili a cavallo tra la fine dell’Orientalizzante Medio
e l’inizio dell’Orientalizzante Recente (640-620). Le due iscrizioni
sono graffite in scriptio continua sulla spalla dell’olla, sulle due facce
opposte. Oltre alle due iscrizioni sul vaso c’è anche una sigla mono-
letterale (una e).
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mi araqiia secilas
L’alfabeto è quello comune a Vulci nel tardo VII secolo, con theta
ancora crociato, my e chi di forma già allungata; un sigma è ancora
della forma originaria retrograda, l’altro è già ribaltato (fenomeno
che a Vulci è particolarmente precoce, attestato già nell’ultimo tren-
tennio del VII secolo). Singolare la presenza di alfa con traversa
montante nel senso della scrittura, che è normale a Cerveteri ma
piuttosto rara altrove; a Vulci questa particolarità ricorre proprio in
questa serie di iscrizioni. Il formulario è quello comune delle “iscri-
zioni parlanti” di possesso, con il pronome di prima persona mi
seguito da nome personale in genitivo: “io (sono) di Araq Secila”.
Araq è la forma più antica del comunissimo prenome maschile, poi
diventato Aranq e infine Arnq; il gentilizio Secila è altrimenti scono-
sciuto. La presenza di formulari di dono in questa serie di anfore fa
pensare che anche quelle di possesso (come questa) debbano essere
interpretate con significato di dono: il possessore è il primo donato-
re dell’oggetto (e, molto verosimilmente, del suo ben più pregiato
contenuto).
mi epunianas
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79.1 ET Ve 3.11
Alto piede di calice o sostegno in bucchero; l’iscrizione è graffita a
metà altezza, inserita in un insieme di decorazioni graffite ripetute
tutto attorno all’oggetto, e che hanno qualche somiglianza con segni
alfabetici.
79.2 ET Ve 3.6
Oinochoe di bucchero con ansa a rotelle; l’iscrizione è graffita sul-
l’elemento orizzontale di raccordo tra l’ansa e la bocca del vaso.
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79.3 ET Ve 3.14
Orlo di coppa in ceramica etrusco-corinzia; l’iscrizione è dipinta in
bianco su una fascia bruna sull’esterno dell’orlo.
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BIBLIOGRAFIA: gli scavi di Pallottino nel santuario di Portonaccio sono ora editi in
Portonaccio 2002; le schede sulle tre iscrizioni, alle quali si rimanda per la ricca biblio-
grafia, sono rispettivamente a pp. 167-168 e 262-264 n° 82; 176 e 267 n° 210; 182 e 271
n° 363. Sul santuario in generale v. Veio, Cerveteri, Vulci 2001, pp. 37-44 (e scheda del-
l’iscrizione 79.2 a pp. 45-46). Per le iscrizioni votive etrusche in genere è d’obbligo il
rimando al fondamentale COLONNA 1989-90A.
80. ET Li 2.4
Ciotola di impasto nero facente parte di un gruppo di materiali
donato alla fine del XIX secolo al Museo Civico di Pisa e indicato
come proveniente dalla località Baraglino di Querceta (Comune di
Seravezza); è possibile che si tratti del corredo di una tomba a inci-
nerazione di tipo ligure, anche se la mancanza di ulteriori notizie
impedisce di trarre conclusioni certe. I materiali sembrano tutti da
riferire ai primi decenni del VI secolo. L’iscrizione è graffita sul-
l’esterno della vasca, intorno al piede.
mi larquruś
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luvcies
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83. ET Fe 2.20
Ciotola di ceramica acroma rinvenuta nella tomba 405 della necro-
poli della Certosa, il più grande sepolcreto di Bologna etrusca, che
si estendeva a occidente dell’abitato, con una complessa sistemazio-
ne monumentale articolata probabilmente su un reticolo di strade di
servizio. Il corredo della tomba, conservato presso il Museo Civico
Archeologico di Bologna, permette una datazione a cavallo tra la
fine del VI e l’inizio del V secolo; si trattava di una deposizione sin-
gola (come accade di norma nell’Etruria padana, che non conosce le
tombe a camera collettive tipiche dell’Etruria propria) probabilmen-
te di una donna. L’iscrizione è graffita sotto il piede.
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velqur
84. ET Fe 2.7
Nella insula 1 della regio II di Marzabotto è venuto alla luce un vasto
impianto artigianale (comprendente vasche, fornaci ed altri appre-
stamenti) destinato alla produzione di manufatti in terracotta, dei
quali si sono recuperati anche numerosi pezzi scartati, oltre che
matrici e altri oggetti collegati alle attività produttive. Fra i materia-
li rinvenuti in questo contesto si segnalano alcuni grandi dischi di
ceramica muniti di prese, probabilmente destinati a coprire grandi
contenitori per derrate o liquidi inseriti nel terreno sotto i piani
pavimentali. La concentrazione delle scoperte in quest’area della
città fa pensare che i dischi venissero prodotti proprio in questa for-
nace. Tutti i dischi hanno sigle o iscrizioni tracciate di norma prima
della cottura (quindi già previste al momento della produzione),
che probabilmente identificano il committente. Questi oggetti sono
conservati nel Museo Archeologico di Marzabotto, e sono tutti data-
ti all’interno del V secolo.
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larisal kraikaluś
tin.qur. a.crii.na
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umuces qafna
La datazione probabile, sulla base della forma ceramica e dei
caratteri di scrittura (per i quali si rimanda alle schede delle iscrizio-
ni funerarie di Orvieto), è la prima metà del V secolo, non escluden-
do una certa oscillazione. L’iscrizione esprime il possesso con il
genitivo semplice, senza il pronome personale, accompagnato dal
termine qafna, che in etrusco indica un vaso aperto privo di anse
(calice o ciotola). Il nome Umuce è altrimenti inattestato, e non si
può stabilire in base alla forma se si tratta di un prenome o di un
gentilizio. Iscrizioni di possesso con nomi di persone possono tro-
varsi in contesti santuariali (un’altra, sempre dal tempio orvietano
del Belvedere, è quella su ciotola di bucchero CIE 10555), perché
nella pratica etrusca, come si è accennato nell’introduzione del capi-
tolo, l’indicazione di possesso su un oggetto può essere propedeu-
tica a un suo dono. Il nome del possessore è quindi in realtà quello
del donatore, sia che il dono sia rivolto ad altri uomini sia che venga
destinato a un dio.
BIBLIOGRAFIA: sul nome del vaso v. COLONNA 1984 B; v. anche COLONNA 1994 A fig. 3.
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87. ET Pa 2.7
La scoperta del sito del Forcello di Bagnolo S. Vito ha fornito la
prima testimonianza indubbia di presenza etrusca a nord del Po, e
precisamente in quel distretto mantovano che la mitistoria sulla
fondazione della città raccolta soprattutto dalla tradizione virgilia-
na connetteva proprio all’intervento di Etruschi. Oltre agli aspetti
della cultura materiale, che testimoniano una vita del sito dal tardo
VI secolo fino alle invasioni galliche, è stato decisivo per definire la
sua connotazione etrusca il rinvenimento di un gruppo di iscrizio-
ni, tra le quali anche un alfabetario. L’oggetto che si presenta in que-
sta sede è purtroppo sprovvisto di un contesto stratigrafico, dal
momento che fu trovato nel terreno arativo; tuttavia, soprattutto
grazie agli aspetti paleografici, può essere datato al momento di
massimo sviluppo del centro, nel corso del V secolo. L’iscrizione è
stata solcata prima della cottura sotto il piede ad anello di una cio-
tola di argilla depurata. I materiali sono conservati presso il Museo
Archeologico Nazionale di Mantova.
anquś · markeś
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BIBLIOGRAFIA: sul sito del Forcello, sulla presenza etrusca nel Mantovano e in altri
siti a nord del Po: Mantova 1988; Mantova 1989; Forcello 2005.
88. ET Cs 2.4
La necropoli di Aleria ha restituito alcune decine di iscrizioni etru-
sche che gettano una qualche luce sulla popolazione stanziatasi in
questo sito della Corsica dopo la cacciata del coloni focei verso il 540
a.C. Le iscrizioni coprono un periodo che va dal V al III secolo, e
sono tutte graffite su vasi rinvenuti nella necropoli, conservatasi
intatta anche grazie al fatto di essere inclusa nei terreni di pertinen-
za di una colonia penale, quindi soggetti a una sorveglianza che ha
impedito l’attività di scavatori clandestini. Nella necropoli si trova-
no sia tombe a deposizione singola, sia tombe a camera, di dimen-
sioni tuttavia sempre modeste, a causa della scarsa solidità del ter-
reno; la tomba 85, dalla quale proviene l’oggetto che qui si presen-
ta, è proprio una tomba a camera che conteneva almeno due depo-
sizioni (anche se la giacitura originaria era stata pregiudicata dal
crollo della volta). Il corredo era particolarmente ricco, con numero-
si vasi attici, vasellame bronzeo, specchi, strumentario da banchet-
to sempre in bronzo, gioielli d’oro. Una kylix attica a figure rosse
dell’ultimo quarto del V secolo ha una iscrizione etrusca graffita
sotto il piede.
klavtie
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venelus śitrinas
La grafia, con rho triangolare e san a farfalla, è tipica della
Campania settentrionale nel V secolo (è il tipo di scrittura usato
anche sulla Tegola di Capua). Il testo è una iscrizione di possesso
senza pronome, con il semplice nome al genitivo. Il prenome Venel
proprio nel corso del V secolo comincia a trasformarsi nella forma
ridotta Vel. Il gentilizio Śitrina non ha alcun confronto; tuttavia, se
si tiene conto che in questa area geografica esiste una certa oscilla-
zione grafica tra e ed i (forse effetto di una particolare sfumatura
fonetica della lingua), e sono attestate redazioni come Vinil (in
luogo di Venel), viene da pensare che questo gentilizio possa essere
imparentato con il ben noto e diffusissimo Śeqrna (settentrionale
Seqrna), derivato dal prenome Śeqre.
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aveles hanpnas
91. ET Ad 2.46
Fondo di ciotola in ceramica a vernice nera proveniente da Adria,
senza ulteriori informazioni sulle circostanze precise del ritrovamento;
è conservato presso il locale Museo Archeologico Nazionale. L’iscri-
zione è graffita sull’interno della vasca, in scriptio continua. La mancan-
za di parte del vaso non permette un inquadramento cronologico pre-
ciso, al di là di un’ampia fascia che va dalla fine del IV al II secolo.
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larza viufraluś
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92. ET Sp 2.71
Ciotola in ceramica a vernice nera decorata con stampigli, prove-
niente dalla tomba 98 della necropoli di Valle Trebba, uno dei due
grandi nuclei sepolcrali della città di Spina. Il corredo, databile
entro la prima metà del III secolo, è attribuito a una deposizione
femminile (quindi, poiché il nome sull’iscrizione è maschile, questa
potrebbe essere una delle diverse testimonianze della non con-
gruenza tra possessore iscritto e possessore finale dell’oggetto).
L’iscrizione è graffita sull’esterno della vasca. È conservata, come
tutto il materiale di provenienza spinetica, presso il Museo
Archeologico Nazionale di Ferrara.
mi larzl sekstaluś
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93. ET Cr 2.131
Piattello appartenente al cosiddetto “gruppo Genucilia”: nome
convenzionale che identifica una produzione sviluppatasi in gran-
de quantità in alcune botteghe etrusco-meridionali (sembra sostan-
zialmente due, una a Cerveteri e una a Falerii) tra la seconda metà
del IV e la prima metà del III secolo. Questo gruppo di vasi presen-
ta caratteristiche morfologiche e decorative molto uniformi, che
indicano una vera e propria produzione in serie; la forma del piat-
tello si presenta con varianti minime nonostante siano ormai cono-
sciute migliaia di esemplari, e la decorazione a vernice nera sul
fondo risparmiato dell’argilla ha sempre una cornice a onde lungo
il labbro. Nella vasca è presente di solito una stella (come nel caso
qui esaminato), mentre in un numero minoritario di esemplari si
possono trovare decorazioni di maggior impegno, quali profili fem-
minili (comuni soprattutto nella fase più antica della produzione)
oppure immagini più rare quali la prua di una nave da guerra, ele-
fanti da guerra, o altre. La diffusione di questi piattelli è enorme e,
soprattutto per quanto riguarda la loro circolazione marittima, sem-
bra segnare le rotte seguite dal commercio cerite dell’epoca. Un
numero limitato di esemplari è dotato di iscrizioni, di solito dipinte
prima della cottura, segno quindi di una commissione dell’oggetto;
queste iscrizioni possono essere tanto in etrusco che in latino, e di
solito riproducono antroponimi, nei quali deve forse riconoscersi il
nome di un donatore o di un donatario; eccezionale il caso di un
piattello da Palo (sede della colonia romana di Alsium, dedotta su
territorio già cerite) con un alfabetario latino. Il piattello che qui si
presenta ha la particolarità di recare l’iscrizione incisa sotto il piede
prima della cottura, quindi anche in questo caso su commissione;
l’oggetto proviene da un sequestro di materiale di scavo clandesti-
no, molto verosimilmente da Cerveteri o da area cerite.
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Capitolo IV
Le iscrizioni sacre
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mi turuns
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mi : ∫suris : cavaqas
97. ET Cl 4.1
Mezzaluna di bronzo con una lamina per l’infissione in una
base, trovata all’inizio del XIX secolo in un contesto forse interpre-
tabile come deposizione di materiale derivante dallo smantellamen-
to di un complesso santuariale; il luogo del ritrovamento, ancora
non ricostruito con precisione, deve collocarsi nell’agro chiusino
meridionale, fra Cetona e Città della Pieve. L’oggetto è oggi conser-
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mi tiiurś kaquniiaśul
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99.
Grande lastra di nenfro rinvenuta nell’area urbana della città etru-
sca di Tarquinia, dove era stata portata in luce dai lavori agricoli.
Entrambe le facce sono iscritte.
śuris 2 selvansl
selvansl
Grafia di tipo capitale, che indica una datazione al IV o III secolo.
I teonimi, al genitivo, configurano come proprietari/donatari del
monumento i due dei Śuri e Selvans (sul secondo v. scheda 98), il cui
culto congiunto è testimoniato per la prima volta proprio da questa
iscrizione. Le circostanze del ritrovamento non permettono di rico-
struire con certezza la destinazione della lastra; l’editrice propone di
riconoscervi un cippo di confine dell’area sacra destinata alle due
divinità, o eventualmente un elemento del muro di recinzione del-
l’area stessa. La posizione delle iscrizioni fa pensare che entrambe le
facce della lastra fossero in vista, il che induce a preferire la prima
ipotesi. La forma trapezoidale richiama gli altari troncopiramidali,
spesso iscritti con dediche a divinità, caratteristici dell’ambiente vol-
siniese (tanto di Orvieto che di Bolsena), dove sembrano dedicati
soprattutto a culti inferi, come indica la presenza di un foro che attra-
versa tutto lo spessore del blocco, dalla sommità (coincidente con la
base minore) al fondo, che permetteva alle offerte di raggiungere il
sottosuolo; la divinità principale destinataria di questi altari sembra
essere Tinia, particolarmente presente nel pantheon volsiniese anche
nel suo aspetto infero. Questo confronto può far pensare che anche il
lastrone di Tarquinia potesse essere parte di un altare di tipo analogo,
costituito da più blocchi; in tal caso la lastra iscritta (che forse è solo
l’unica superstite di una serie) doveva essere probabilmente colloca-
ta in modo da essere leggibile su entrambe le facce.
BIBLIOGRAFIA: CATALDI 1994 (con una revisione della distribuzione delle attesta-
zioni di culto nell’area urbana etrusca di Tarquinia). Altari volsiniesi: MORANDI 1989-
90; RONCALLI 2003.
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tinia calusna
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della ceramica, quindi il pezzo è stato ordinato già iscritto dal dedi-
cante. L’oggetto è conservato presso il Museo Archeologico Nazio-
nale di Tarquinia.
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Capitolo V
Marchi e firme
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104. ET Fs 6.1
Il tumulo C è una delle sepolture più monumentali della necro-
poli di Prato Rosello, che sorge presso la villa medicea di Artimino;
la tomba era del tipo a camera costruita con piccolo vestibolo e
breve dromos a gradini. La necropoli potrebbe riferirsi a un insedia-
mento individuato e parzialmente scavato a breve distanza. La pre-
senza di ricche necropoli di età orientalizzante collegate a centri di
dimensione non urbana può ritenersi caratteristica dell’assetto del
territorio di alcune zone dell’Etruria settentrionale. All’interno della
tomba del tumulo C fu rinvenuto un ricchissimo corredo, oggi con-
servato presso il Museo Archeologico di Artimino, che comprende-
va anche un singolare incensiere in bucchero, per il quale esistono
alcuni confronti provenienti dal tumulo di Montefortini di
Comeana, altra grande sepoltura della media Valdarno. Il corredo
sembra collocare il momento di utilizzo principale della tomba nel-
l’ultimo trentennio del VII secolo, epoca alla quale va datato anche
l’incensiere. L’iscrizione è stata tracciata attorno all’alto piede,
prima della cottura.
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kape mukaqesa
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staties ·
vel · cazlanies ·
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109. ET Cl 6.8
Strigile frammentario, di provenienza ignota, conservato presso la
Bibliothèque Nationale di Parigi; sul manico è apposto un marchio
di fabbrica con lettere a rilievo.
cae cultces
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no, con Cae prenome e Cultce gentilizio non solo del patrono, ma
anche del liberto). Tuttavia, se si accetta la cronologia del manufat-
to, l’uso di c e soprattutto l’uscita -s escludono la possibilità di una
provenienza settentrionale, e richiamano piuttosto il nome femmi-
nile Caia Cultecez noto a Orvieto (CIE 5051 = ET Vs 1.150). A que-
sto livello cronologico, l’interpretazione della formula onomastica è
pacifica, dal momento che è ancora usuale l’uscita dei gentilizi al
genitivo afunzionale: si tratta semplicemente di prenome e gentilizio.
L’uso di Cae come prenome, rarissimo a Chiusi, è invece normale nel-
l’area meridionale alla quale rimanda la grafia del testo. Lo stesso
gentilizio Cultces è noto su un diverso bollo su strigile, ugualmente
di provenienza ignota, conservato al British Museum (REE 59, 51).
BIBLIOGRAFIA: bolli su strigili: fondamentale TAGLIAMONTE 1993, a cui si rimanda
per la bibliografia precedente; l’interpretazione onomastica presentata in quella sede
– diversa da quella qui proposta – è improbabile alla quota del IV-III secolo, e diven-
terebbe invece possibile a seguito di un eventuale abbassamento consistente della
cronologia dei manufatti. Sullo scambio di -s e -z a Orvieto (Cultecez è gentilizio con
uscita del genitivo afunzionale): VAN HEEMS 2003.
l · velani · puina
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Capitolo VI
Le iscrizioni pubbliche
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111.
Una strada tagliata profondamente nel tufo metteva in comunica-
zione il pianoro della antica città di Caere con quello dellla necropo-
li della Banditaccia; dopo il passaggio del fosso che separava i due
pianori, la strada è fiancheggiata da tombe scavate lungo le sue
pareti, che le hanno valso il nome di “via degli Inferi”. Poco prima
di raggiungere la sommità del pianoro della necropoli, la “via degli
Inferi” ha un bivio, dal quale inizia una delle strade che mettevano
in comunicazione la città con il suo territorio settentrionale. Proprio
in corrispondenza del bivio è incisa una iscrizione a grandi caratte-
ri, che oggi si trova a livello del terreno, ma nell’antichità doveva
essere più o meno ad altezza d’uomo per chi passava sulla strada.
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aleqnas · v · a ·
luvce · hulcnies · a ·
Le iscrizioni conser-
vano due formule ono-
mastiche al nominativo,
con il gentilizio provvi-
sto della desinenza del
genitivo afunzionale.
Solo il primo nome ha
l’inversione di prenome
e gentilizio, una moda
epigrafica che è attestata
soprattutto in ambito tar-
quiniese, particolarmen-
te nel III secolo (quando
rappresenta una norma raramente derogata); nel corso del secolo
successivo si verifica un suo graduale abbandono. I prenomi sono
indicati con le abbreviazioni minime, monoletterali; v dovrebbe rap-
presentare Vel, mentre per a esiste la possibilità di due scioglimenti
alternativi, Arnq e Aule (un problema che esiste anche nel caso della
abbreviazione monoletterale l, che può valere Larq o Laris, per il
quale non esiste a tutt’oggi una soluzione valida); viceversa non è
abbreviato il raro Luvce che, vista l’età piuttosto tarda, potrebbe
dovere il suo utilizzo a interferenza dell’onomastica romana. I due
personaggi sono certamente gli autori della costruzione dell’edificio
termale, molto probabilmente magistrati dal momento che si tratta
di un edificio pubblico e che manca qualunque ulteriore indicazio-
ne che potrebbe tradursi come ricordo di un atto di evergetismo pri-
vato. L’assenza dell’indicazione di carica è pressoché la norma nelle
iscrizioni pubbliche etrusche; forse il contesto la rendeva superflua.
I gentilizi sono di grande interesse: gli Aleqnas sono la più cospicua
famiglia di Musarna, conosciuta dalle tombe alle quali si è già fatto
riferimento (cfr. scheda 19); tra i suoi membri si contano anche
magistrati tarquiniesi. Viceversa la famiglia degli Hulcnies, una
delle più importanti di Tarquinia, dove giunge alla magistratura (e
sopravvive sino in età imperiale con il gentilizio Holchonius), non è
sinora attestata a Musarna. È molto probabile che questa coppia
magistratuale fosse in carica proprio nella metropoli; infatti, come si
è già notato a proposito degli Aleqna, è poco verosimile che piccoli
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113. ET Af 8.1-8
Nella piana dello oued Miliane (antico Catada), fra le due città di
Thuburbo Maius e Giufi (odierna Tunisia), sono venuti alla luce tre
monumenti iscritti che delimitano un’area di circa 15 km di lun-
ghezza. Su tutti e tre ricorre il medesimo testo: una volta su una
stele alta più di 3 m (probabilmente destinata ad essere incorporata
in un muro o in una costruzione), due volte su una seconda stele,
frammentaria, alta circa 50 cm, cinque volte su un cippo troncopira-
midale di simili dimensioni. Dopo alcune incertezze, le iscrizioni
sono state riconosciute come etrusche, e sono oggi conservate pres-
so il Museo del Bardo a Tunisi.
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Quindi tutto lascia pensare che l’ideatore dei testi, pur conoscendo
l’etrusco, avesse molta più dimestichezza con il latino; inoltre, la
confusione nella resa delle sibilanti fa pensare che la sua conoscen-
za dell’etrusco fosse più libresca che parlata: infatti ha concepito il
testo con grafia settentrionale (con san a notare la sibilante sempli-
ce), ma lo ha poi trascritto con caratteri ceriti, senza avvedersi che il
valore fonetico delle sibilanti nella scrittura di Cerveteri era inverti-
to. Tutti questi elementi hanno indotto gli studiosi ad ipotizzare una
datazione molto tarda. Il testo è una iscrizione di confine: tul è paro-
la etrusca ben nota, indicante appunto il “confine”, che qui è posto
sotto la protezione di Tinia (che compare a riga 4 in genitivo di dedi-
ca), che aveva tra le sue moltissime funzioni anche quella di tutore
dell’immutabilità dei confini. Il termine zvtas∫ non è di traduzione
certa: è possibile che si tratti di un verbo, e precisamente di un par-
ticipio esprimente l’azione del porre i confini. La traduzione è quin-
di: “Marce Unata, che ha posto (?) il confine dei Dardani, a Tinia”.
La chiave dell’interpretazione sta nel gentilizio, Unata, che si trova
solo a Chiusi; per questo motivo il primo editore, Heurgon, ha ipo-
tizzato che si trattasse di compagni di Papirio Carbone, fuggito
dall’Italia nell’82 a.C. dopo essere stato a lungo accampato presso
Chiusi. Tuttavia le vicende storiche successive fanno ritenere estre-
mamente improbabile che avesse avuto il tempo e il numero di
seguaci sufficiente a fondare una colonia. Per questo esiste una
seconda ipotesi che collega la presenza di una colonia etrusca in
Tunisia con i veterani dell’esercito di Mario che aveva combattuto
contro Giugurta dal 103 al 100 a.C.; una terza ipotesi arretra ancora
nel tempo, e propone una colonia connessa con le attività dei
Gracchi nell’ex territorio cartaginese confiscato dai Romani dopo il
146. Uno degli elementi fondamentali per capire la posizione stori-
ca di questa fondazione è il nome romano della colonia, per trascri-
vere il quale si dovette inventare un segno inesistente nell’alfabeto
etrusco: quindi si doveva trattare di un nome ufficiale, non sostitui-
bile con un equivalente etrusco. A questo punto l’uso dell’etrusco
non può essere considerato portato di sentimenti antiromani (come
nel caso della ipotetica colonizzazione di Carbone, nel pieno della
guerra civile contro Silla); ma le anomalie grafiche e linguistiche
mal si conciliano con le cronologie più alte, visto che proprio a
Chiusi fino alla metà del I secolo a.C. le iscrizioni funerarie rivelano
l’uso di un etrusco ancora del tutto corretto, e persino le bilingui
della fine dello stesso secolo rispettano abbastanza bene l’antica lin-
gua. Per questo motivo è molto più probabile che la scelta dell’etru-
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Capitolo VII
Le didascalie
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114.
Olpe di bucchero decorata a rilievo e incisione rinvenuta nella
camera centrale della tomba 2 di S. Paolo a Cerveteri. Nella decora-
zione si distingue una fascia principale che comprende nell’ordine:
Dedalo in volo, due pugili, Medea in piedi davanti a un calderone
dal quale esce una figura maschile, sei figure maschili che traspor-
tano il pennone di una nave arrotolato nella vela. L’olpe è un capo-
lavoro del bucchero cerite della metà - terzo quarto del VII secolo, e
si trova oggi conservata nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia
a Roma.
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116. ET Pe G.2
Scarabeo in corniola proveniente da Perugia (noto come “gemma
Stosch”, e conservato negli Staatliche Museen di Berlino. Si tratta di
un esemplare eccezionale nel panorama delle gemme etrusche per
dimensioni e complessità della composizione; cinque figure maschi-
li (tre sedute e due in piedi e armate) sono corredate di didascalie
che le identificano come cinque dei sette partecipanti all’impresa
dei “Sette a Tebe”. La datazione, sulla base dello stile delle figure,
viene posta attorno al 480 a.C. L’immagine qui riprodotta è quella
dell’impronta della gemma, speculare rispetto all’originale.
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117. ET Ar S.2
Uno dei più famosi specchi etruschi è quello ritrovato nel 1630 ad
Arezzo, dove fungeva da coperchio di un cinerario, e noto in lettera-
tura come “patera Cospiana”, dal nome del collezionista bolognese
Ferdinando Cospi, che fu l’ultimo proprietario prima del suo accesso
all’Istituto delle Scienze e delle Arti, la cui collezione è poi confluita
nell’attuale Museo Civico Archeologico di Bologna, non senza che il
famoso specchio incontrasse qualche peripezia nella sua lunga storia
(compreso un periodo a Parigi dove giunse come bottino napoleoni-
co). Il nome “patera” è dovuto al fatto che la reale funzione di questi
oggetti come specchi fu stabilita solo nel XIX secolo; prima di allora
si pensava che fossero strumenti rituali per libagioni. La superficie
decorata con l’incisione figurata, naturalmente, rappresenta il retro
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Capitolo VIII
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Capitolo IX
Le iscrizioni lunghe
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La tavola di Cortona
Rinvenuta fortuitamente in circostanze ancora non accertate, e
oggetto di un lungo procedimento legale, questa tavola di bronzo,
spezzata già in antico in otto parti (una delle quali perduta) è la più
lunga iscrizione etrusca di rinvenimento recente. Dopo la editio prin-
ceps si sono susseguite numerose proposte di rilettura, di completa-
mento o affinamento dell’interpretazione proposta dai primi edito-
ri, e anche alcune critiche di metodo che potrebbero preludere ad un
itinerario interpretativo diverso. La grande maggioranza del testo è
occupata da liste di persone; il fatto che almeno una di queste liste
sia aperta dal sommo magistrato cittadino chiarisce che il documen-
to è un atto ufficiale, probabilmente pubblico, come indica anche la
incisione su una tavola di bronzo. La mancanza di qualunque teo-
nimo esclude un suo collegamento con templi o santuari. L’azione
ha coinvolto due gruppi di persone: da una parte un tale Petru
Scevas (con la moglie Arntlei: entrambi dovevano essere personag-
gi molto ben noti, essendo indicati senza prenome), dall’altra il con-
sorzio dei fratelli Cusu figli di Laris (un gentilizio, questo, che ci col-
lega a una delle più cospicue famiglie cortonesi). I precisi termini
del contendere (e del conseguente intervento dell’autorità pubblica)
non sono precisamente traducibili; è possibile che la questione
riguardasse terreni e altri beni immobili, ma mancano a tutt’oggi
certezze in questo senso. Tra le principali acquisizioni della tavola si
pone la scoperta del numerale etrusco per “dieci”, śar, e la certezza
del valore (almeno originario e teorico) di /e/ lunga del segno tipi-
camente cortonese (ma usato anche a Chiusi) della e invertita. La
cronologia, in assenza di contesto, si basa soprattutto sui caratteri
della scrittura, un regolarizzato evoluto non anteriore all’inizio del
II secolo. La tavola è oggi esposta al Museo della Città Etrusca e
Romana di Cortona.
BIBLIOGRAFIA: editio princeps AGOSTINIANI, NICOSIA 2000; altri contributi principali:
RIX 2000; MAGGIANI 2002 A; RIX 2002; DE SIMONE 2001-02; SCARANO USSANI, TORELLI
2002; DE SIMONE 2002; DE SIMONE 2003.
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Il peso di Cerveteri
Trovato nello scavo del tempio in località S. Antonio, nell’antica area
urbana di Caere, il manufatto è in realtà l’aequipondium (cioè il peso
mobile) di una stadera, che riporta una dedica incisa a Turms (il cor-
rispondente dell’Hermes greco, destinatario non sorprendente per
uno strumento commerciale), ma vi è una menzione anche di Hercle,
riconosciuto come divinità tutelare del santuario. Particolarmente
interessante la presenza di una formula di datazione con un magi-
strato, uno zilaq, (invece dei due regolarmente usati a Tarquinia). Il
testo permette alcune acquisizioni importanti, tra le quali il riconosci-
mento del carattere sacro (e quindi non esclusivamente funerario,
come si era pensato in precedenza) del luogo indicato con il termine
tus. La datazione precisa è problematica, anche perché la giacitura
stratigrafica non è risolutiva; la grafia è molto sciatta, e la sua lettura
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BIBLIOGRAFIA: commenti principali MAGGIANI 1982; VAN DER MEER 1987; MORANDI
1988; COLONNA 1993 B; CAPDEVILLE 1996.
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Il cippo di Tragliatella
Si tratta di un piccolo cippo di trachite, frammentario, recuperato in
circostanze non chiare nella località di Tragliatella, al confine tra il
territorio di Caere e quello di Roma, e oggi conservato presso il
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma. Il cippo purtrop-
po è fortemente frammentario e la lettura è quindi molto problema-
tica; la parte conservata è sufficiente a capire che vi era iscritto un
testo diviso in più rubriche (separate fra loro da inversioni di ductus
tra le diverse fasce iscritte di ogni faccia), con una composizione
molto simile a quella del famoso cippo con iscrizione latina arcaica
dal Foro Romano; tra le parole che vi si riconoscono, particolarmen-
te importante l’attestazione, seppure frammentaria, della carica di
marunu[—-]. La datazione su base paleografica al VI secolo non
avanzato fa sì che venga restituita una delle più antiche attestazio-
ni di una magistratura etrusca.
BIBLIOGRAFIA: COLONNA 1988 A; MORANDI 1995; interpretazione topografica in
ZIFFERERO 2005, pp. 266-267.
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Bibliografia
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Indice
Prefazione ....................................................... 3
Finito di stampare
nel mese di dicembre 2006
presso la Scocco&Gabrielli srl - Macerata