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RIASSUNTO MANUALE PASQUALI

CAPITOLO 1: IL METODO DEL LACHMANN

Nel commento a Lucrezio, pubblicato nel 1850, Lachmann (57enne) espone il suo metodo senza

alcuna polemica e introduce il termine “archetipo”, pensando di parlare già per i posteri.

Nella prefazione al Properzio, pubblicata nel 1816 e datata Gottinga 1815, Lachmann dice cosa

combatte: il sistema di ripubblicare un autore, prendendo a fondamento (cioè mandando in

stamperia) un’edizione autorevole ma mutandola dovunque un codice noto all’autore

presentava una lezione più seducente. Tuttavia, come si accorse L, le lezioni più seducenti

potevano essere anche congetture; tanto più se pensiamo che gli editori tedeschi disponevano di

copie tarde di manoscritti italiani, umanistici e in gran parte interpolati.

Nell’emendare un testo1, Lachmann aveva fiducia nel proprio giudizio (iudicium); se ne discosta,

invece, quando esso serve a scegliere tra due lezioni testimoniate. In questo caso diffida dalla

critica soggettiva (“questa lezione mi sembra più elegante di quest’altra”) e ricerca criteri oggettivi che si

possano seguire con rigore: questo codice presenta interpolazioni evidenti, dunque, non gli si può credere

neppure nel resto, perché nessuno garantisce che le lezioni che esso offre siano genuine. Al criterio del

valore della singola lezione si sostituisce quello della credibilità della testimonianza.

Sulla base di questo procedimento, Lachmann rinuncia sin dall’inizio ad esaminare tutta la

tradizione manoscritta del suo autore: ritenendo codici umanistici sospetti di interpolazione, non

ritiene utile raccogliere lezioni sospette che poi, in quanto tali, si dovranno scartare a priori.

Tuttavia, questo procedimento è teoricamente errato perché anche un codice sconosciuto, e/o

recentissimo, potrebbe essere copia di un manoscritto che conteneva il testo nella sua forma più

genuina2. D’altra parte è anche vero che se L per il suo Properzio non si fosse limitato ad utilizzare

il codice di Wolfenbüttel (messo a sua disposizione a Gottinga ), superiore ad ogni altro, e a servirsi di un

solo rappresentate scelto un po’ a caso nella tradizione, forse non sarebbe approdato alla sua

opera.

Considerando che allora un viaggio in Italia era molto costoso e che consultare manoscritti era

molto difficile (sia per la gelosia delle biblioteche dei propri tesori, sia per la loro scarsa

organizzazione), Pasquali sottolinea che un’altra limitazione del L. è il non aver praticato né

trattato teoricamente l’eliminatio codicum descriptorum (eliminazione delle copie di manoscritti

1
Correggerlo per congettura
2
Tuttavia, questa probabilità era molto bassa per testi poco letti nel Medioevo, come i poeti pubblicati da L (Properzio,
Catullo, Lucrezio)
conservati). Ma è naturale: poiché della tradizione più recente egli sceglieva pochi rappresentanti,

era quasi impossibile che questi fossero legati da vincoli di discendenza diretta.

Il “Metodo del Lachmann” è esposto nel modo più completo nella prefazione al commento a

Lucrezio. Tuttavia, Lachmann si era già occupato di un testo di tradizione più antica e più ampia,

il NUOVO TESTAMENTO greco, e lo aveva fatto con altri metodi dei quali aveva reso conto con

chiarezza, pur non avendone dato una teoria didattica. Nessun altro testo greco è tramandato così

riccamente quanto il NT e premeva ricostruire nella sua forma più autentica la “parola di Dio”. Le

varie forme del testo sono identificate con l’uso delle varie province ecclesiastiche, come

confermano due passi di Girolamo che attestano come tutta la Bibbia circolasse ai suoi tempi in 3

recensioni diverse: una era in uso in Egitto, un’altra a Costantinopoli e in Anatolia, l’altra in

Palestina. È presentata una “teoria locale” del testo della Bibbia greca e per la localizzazione si

sfruttano le antiche traduzioni (L si servì solo della latina). Lachmann mostra di sapere bene che

parecchi codici della versione latina sarebbero stati ricorretti attraverso l’uso di esemplari greci di

altri gruppi. Inoltre, dimostra di sapersi servire di criteri critici che anticipano i tempi: nota che

innovazioni vittoriose si irradiano dal centro verso la periferia e non sempre giungono a

toccarla. Dunque, se una lezione è attestata in due punti periferici, rispetto al centro, è molto

probabile che essa sia la lezione originale non ancora sopraffatta dall’innovazione. Tuttavia,

questo criterio che oggi i filologi chiamano “della fase conservata in aree laterali” non ebbe fortuna

perché fu soppiantato dalla considerazione geografica introdotta anche in discipline come la

linguistica.

Ora, perché la prefazione al NT è rimasta ignota ai filologi sino ad oggi? Secondo Pasquali la colpa

è da attribuire alla specializzazione, perché la metà del XIX sec fu il tempo di classicisti e latinisti

puri che trattavano solo autori classici e sdegnavano lo studio del NT; inoltre, i teologi, anche

quelli protestanti, non avevano interesse per le quisquilie della storia dei testi.

Il principio locale, in conformità con Girolamo, è esposto chiaramente già nel 1737 da Bengel: già

nel 1734 aveva dichiarato che per un’edizione perfetta del NT era necessario classificare i codici

secondo le loro relazioni genealogiche (il nostro “stemma”, che lui chiama “tabula genealogica”)3.

Nel 1765 il Semler riprende il criterio genealogico e insegna che una lezione non merita preferenza

solo perché tramandata in più manoscritti.

Nel 1796, nei Prolegomena alla sua seconda edizione del NT, il prof. J. J. Griesbach enuncia (forse

per la prima volta) in modo generale il criterio della lectio difficilior, essenziale per la recensio di
3
Noi sappiamo che proprio per il NT la pretesa di stabilire un albero genealogico non può essere soddisfatta nella
pratica, ma essa vale in astratto.
ogni testo tramandato non meccanicamente. Ma Pasquali ci dice che già il Wettestein, nel 1730,

aveva enunciato un criterio simile: tra due lezioni quella che è più simile a un altro passo è da rigettare. E

a lui rimane il grande merito di aver formulato il criterio dell’usus scribendi, il secondo dei due

criteri che la recensio moderna usa quando il metodo meccanico (detto “lachmaniano”) non serve.

CAPITOLO 2: CI FU SEMPRE UN ARCHETIPO?

Lachmann fondava il suo metodo sul presupposto che la tradizione di ogni autore risalisse sempre

a un unico esemplare già con errori e lacune, l’archetipo. Per lo più è così e se così non fosse non

sarebbe mai sorta la critica emendatoria, perché recensendo (pesando le varianti l’una contro

l’altra) si potrebbe giungere sino all’originale. Infatti, non bisogna pensare che ogni volta di

ciascuna opera si sia salvato un solo esemplare nel Medioevo. È normale che se di un testo c’erano

vari esemplari, quando sorgeva il bisogno di nuovi mss., se ne scegliesse e trascrivesse uno (spesso

il più facile) e che queste copie servissero da allora come fonti; i manoscritti non scelti restano con

pochissime o nessuna copia.

Già prima del 900 tutti i classici greci oggi superstiti (tranne i testi trovati su papiri) sono stati

trasposti da maiuscola a minuscola e corredati di accenti > lavoro lungo e faticoso che, come

sottolinea Maas, venne fatto una sola volta e soprattutto su testi molto complessi. Dunque, chi

voleva un esemplare di un autore era più facile che lo facesse trascrivere e non che risalisse allo

stesso o ad altri esemplari in maiuscola.

Secondo Pasquali non è giusto ciò che dice Maas sul fatto che gli apografi 4 di un testo classico

devono per forza essere passati da un archetipo 5. Pasquali ha dimostrato una tradizione che risale

direttamente all’originale con lo studio sull’Apologetico di Tertulliano. Esso è conservato in due

redazioni molto diverse tra loro:

1. La Vulgata > conservata in circa 30 mss.

2. In un codice di Fulda > perduto durante il XVII, ma ricostruibile da collazioni di XVI sec.

G. Thornell ha riaperto il problema delle relazioni tra Vulgata e Fuldense: anzitutto, l’Apologetico

è rifacimento di un’opera anteriore, i libri “ad Nationes”. Se in caso di coincidenze una delle due

redazioni si allontana più dell’altra dall’ad Nationes, allora sarà la più recente e meno affidabile6.

Thornell, applicano questo criterio, è giunto alla conclusione che la Fuldense è la più antica.

Questo è dimostrato anche dalla maggiore finitezza stilistica della Vulgata rispetto alla Fuldense. A

questi argomenti del Thornell (per lo più grammaticali e stilistici), Pasquali aggiunge che, nell’ad

4
COPIA DI UN ORIGINALE MANOSCRITTO
5
IL PIÙ ANTICO ESEMPLARE, DISTINTO DALL'ORIGINALE, da cui discendono tutti i testimoni superstiti di un testo
6
Di conseguenza, la redazione che si mantiene più conforme all’ad Nationes sarà quella più antica e attendibile.
Nationes, Tertulliano aveva citato un passo del libro V delle Historiae di Tacito, ma lo attribuiva

erroneamente al IV, invece la Vulgata riporta correttamente il quinto libro. Secondo Pasquali fu lo

stesso Tertulliano ad emendare l’errore 7. In conclusione, tutto ciò dimostra che entrambe le

redazioni risalgono recta via (direttamente) a Tertulliano. In una tale tradizione non c’è posto per

un archetipo, eppure si corre il rischio di supporne uno > perché? Tutta la tradizione, Fuldense e

Vulgata, concorda in alcuni piccoli errori evidenti. Ora, il Lachmann vedendo corruttele comuni di

manoscritti indipendenti suppone la presenza di un archetipo, ma Pasquali (e quasi tutti i filologi

moderni) sostiene che tali errori comuni8 possono essersi prodotti indipendentemente, quindi

negano la presenza di un archetipo che li abbia originati.

Dunque: per l’Apologetico la natura della tradizione, cioè 2 redazioni che risalgono all’autore,

esclude l’archetipo; le corruttele comuni a tutta la tradizione, talmente ovvie che possono essersi

prodotte indipendentemente anche in mss. indipendenti, per “poligenesi”, non lo richiedono.


Il Maas, dopo aver letto l’articolo del Pasquali, gli propone un’altra spiegazione: Tertulliano si sarebbe

servito per la seconda redazione di un esemplare della prima in cui, per colpa degli amanuensi, si erano già

insinuati errori. Questo è possibile .

Altri testi tramandati recta via (conosciuti da Pasquali): parti cospicue della Vulgata geronimiana;

probabilmente per interi libri dell’Eneide virgiliana.

CAPITOLO 3: ELIMINATIO CODICUM DESCRIPTORUM

Operazione non compiuta dal Lachmann e da chi come lui limita lo studio della tradizione a pochi

manoscritti antichi non sospetti di interpolazione, tralasciando i codici copiati uno dall’altro 9. Ma

già la generazione immediatamente successiva al L. considerava il metodo di quest’ultimo non

sicuro perché nulla escludeva che manoscritti più recenti fossero copiati da esemplari perduti

più antichi e degni di fede di quelli conservati. Questa generazione, dopo aver cominciato a

scoprire l’Italia dei manoscritti greci e latini, si dovette porre il problema che si ripresenta alla

nostra generazione: per dare edizioni veramente critiche si devono esplorare sistematicamente le

biblioteche e determinare il valore di ogni singolo manoscritto. Ma la prima parte del XIX sec. in

Italia è un periodo di depressione degli studi di filologia classica: le direzioni delle maggiori

biblioteche italiane (specie Vaticana e Ambrosiana) erano contrarie alla pubblicazione di cataloghi

7
sia perché un occhio poco attento probabilmente non si sarebbe nemmeno accorto dell’errore, sia perché nella tarda
antichità e nel Medioevo Tacito fu poco noto.
8
Es.: parole cadute per omoteleuto in 2 manoscritti; frase di senso compiuto tralasciata volontariamente da 2 scribi ecc.
9
CODEX DESCRIPTUS = manoscritto che è copia di altro manoscritto conservato, il quale rispetto a quest’ultimo, tranne
gli errori nuovi aggiunti dal secondo copista, non offre nulla di più della sua testimonianza.
e i proprietari delle raccolte private restii a concedere agli studiosi anche solo una breve

consultazione.

La generazione successiva al L sapeva che, prima di eliminare un ms., serviva dimostrare che

questo era copiato da uno più antico superstite. Tuttavia, questa soluzione è errata: non è detto

che di testi che erano letti nelle scuole del Medioevo si fossero salvati per caso proprio tutti gli

esemplari che servirono da modello ai codici più recenti. È ovvio che di ogni tradizione la parte

maggiore vada perduta per trascuratezza e questo vale anche per i manoscritti greci delle nostre

biblioteche, trasferiti in gran parte dall’Oriente all’Occidente dal XV sec in poi.


Per esempio: di parecchie tragedie di Eschilo e Sofocle noi abbiamo un famoso Laurenziano (del 1000

ca) e numerose copie anteriori al XV sec. 10 dotate di commenti, forse destinate alle scuole greche.

Cobet, esperto di biblioteche italiane, ha a lungo sostenuto che tutti i manoscritti superstiti

risalissero, direttamente o indirettamente, a quell’unico Laur. Tuttavia, pensare che questo sia stato

l’unico codice dal quale il medioevo bizantino avrebbe attinto e che per purissimo caso si sia

conservato e addirittura giunto in Italia sarebbe assurdo!

Alcuni esempi:

1. Caso ESCHILO > il Mediceo (M) è stato sempre creduto superiore anche perché Dindorf si

impegnò a dimostrare che tutti gli scolii presenti nei manoscritti di Eschilo, avevano come

unica fonte proprio M. Questo finché nel 1890 Wilamowitz dimostrò che spesso in M sono

presenti solo spezzoni (privi di senso) di quegli scolii che dovrebbero derivare da esso.

Dunque, oggi è certo che molti manoscritti di Eschilo siano indipendenti da M.

2. Caso ARISTOTELE > della Poetica esiste a Parigi un codice di fine X sec., e accanto ad esso

un gran n° di mss di XV e XVI sec. Verso la metà del secolo scorso fu dimostrato

(erroneamente) che tutti i codici più recenti sono apografi, diretti o indiretti, di quel

Parigino. Tuttavia, a Parigi esiste anche una versione araba (di prima metà X sec) che ci

mostra una tradizione indipendente e in molti punti migliore di quella del Parigino.

3. Caso TEOFRASTO > i suoi Caratteri sono tramandati in 3 mss antichi ( due Parigini, A e B + un

Vaticano, V)11, ma c’è anche una grande quantità di mss recenti. Diels ( come fece prima il

Cobet) affermò che tutti questi codici derivavano da quei tre e che in caso di lezioni diverse

si trattasse di congetture. Tuttavia, Pasquali ci fa notare che alcune congetture sono troppo

rare e a nessuno scriba sarebbero venute in mente se non tramite il confronto con un’altra

lezione; dunque non si tratta di congetture, bensì di tradizione. A prova di ciò, Pasquali

10
Dunque scritte in Oriente.
11
A e B hanno i libri I-XI; V ha XVI-XXX
sottolinea che nessuna delle 3 famiglie di deteriores riporta la stessa divisione in libri dei 3

mss antichi.

Questi sono esempi di casi in cui non è conservato l’archetipo, ma esiste un codice principale (o

due o tre), e accanto a questi un certo numero di recentiores, che non valgono granché, eppure

sono indispensabili. Questi errori si potevano fare nel passato, quando la dipendenza non veniva

provata (come si fa oggi), ma presupposta a priori.

Altri esempi e criteri che ne derivano:

- ARRIANO, ANABASI > in 38 mss., 31 dei quali contengono anche l’Inidkà. In questo caso si

avrebbero le condizioni per cui Pasquali ritiene inverosimile la presenza dell’archetipo.

Tuttavia, questa tradizione fa eccezione: A. G. Roos (1904) ha stabilito che tutti i codici delle

due opere risalgono a uno solo, un cartaceo di XII (o XIII) conservato a Vienna. Prova: nel

testo dell’Anabasi c’è una lacuna che in tutti i mss compare nel mezzo di pagina, mentre nel

Vindobonense12 tra un foglio e l’altro > studio materiale del codice > tra quei 2 fogli ce

n’era un altro che è andato perduto. Il ms. di Vienna, riscoperto da un dotto bizantino forse

nel XII sec., è scritto sulla “carta bombicina” 13 e presenta molte abbreviazioni, segni certi

che quella era la copia di un erudito. Dunque, il compratore occidentale acquistò

l’archetipo.

- GREGORIO NISSENO14 > due grandi raccolte di sue opere presentavano indizi di origine

dotta (carta bombicina malconcia, scrittura di XIII sec, ecc. ). I 2 mss. contenevano le stesse opere, ma

qualche foglio si è staccato e smarrito. Fratelli gemelli? O figli uno dell’altro? Chi è il padre?

Nei due mss. ci sono gli stessi spostamenti: i brani spostati cominciano in un mss. al centro

della pagina, nell’altro sempre all’inizio di un nuovo foglio > studio della fascicolazione >

il secondo è il padre (= archetipo), mentre l’altro è una copia ricavatane quando quello si

era già scompaginato.

- EPIFANIO > Holl, accorpando questi due criteri, dimostra che il gruppo di mss. di E.

dipende da uno solo: tutti avevano lacune comuni, tutti scambi di posto tra parti del testo

+/- della stessa lunghezza; ma solo in quell’uno le lacune comprendono interi fogli e a interi

fogli corrispondono i tratti spostati.

12
Codice di Vienna prima citato.
13
La “pergamena dei poveri, degli studiosi”
14
ed. critica a cura di W. Jaeger e lo stesso G. Pasquali
Altri criteri di dimostrazione utili:

- Finestre > brevi spazi bianchi lasciati qua e là dall’amanuense che corrispondono a guasti

meccanici (fori della pergamena, macchie ecc.) del ms. da cui si copia.

- Omissione di intere righe dell’originale (soprattutto in testi prosastici di lunga estensione).

Questo canone è sicuro ogniqualvolta la riga non ha senso compiuto.

- Scolii > (soprattutto per testi poetici) il numero e la disposizione di essi dipendono dallo

spazio che si ha a disposizione.

Secondo Pasquali, il criterio meno sicuro è quello dei segni che possono essere confusi o che quasi

necessariamente vengono fraintesi.

N.B.: solo nel caso in cui non si può provare in nessun modo la dipendenza si può “presumere”

l’assunto che il più recente sia copia del più antico. Specialmente quando si tratta di raccolte di

opuscoli, bisogna tener conto di tutto il codice e non solo dello scritto di cui si vuole indagare la

tradizione.

Ma il peggior metodo di tutti è quello di accontentarsi di un saggio unico o di saggi troppo scarsi.

Può succedere che quello che nei cataloghi appare come codex unicus, risulti invece dall’unione di

più mss. cuciti male. Un errore simile fu commesso dal Mutschmann: esamina la tradizione di Sesto
Empirico e giunge alla conclusione che l’archetipo di questo scrittore fu portato in Occidente all’inizio del

XV, qui si perse, ma è ricostruibile dalle copie che si conservano. Tuttavia il M. evidentemente aveva

lavorato con saggi e non si era accorto che un Laurenziano, che egli riteneva umanistico e considerava copia

di copia dell’archetipo, non è originariamente un codice unico, ma è composto di 3 manoscritti del tutto

diversi: l’inizio e la fine sono del XVI e scritti da mano diversa, la parte centrale del XIII o XIV. In pratica, gli

umanisti italiani, avuto tra le mani un frammento antico di Sesto Empirico, lo integrarono, copiando inizio e

fine dai mss che avevano a disposizione. L’errore fu rilevato da A. Nebe e, avvertito il M., questi potè tener

conto di quel frammento nell’edizione.

L’eliminatio codicum descriptorum non è un lavoro per frettolosi. Il risultato negativo di essa è

quasi più confortante perché rivela che la tradizione è più larga (cioè migliore) di quanto si sia

creduto sino ad allora, e perché i deteriores (scartati dal Lachmann) hanno di recente portato

piacevoli sorprese.

Il rapporto tra lezione genuina e congettura è problematico > spesso questa distinzione è stata

trascurata (è stato usato il segno ς per contrassegnare le lezioni piacenti, senza indagarne

nemmeno l’autenticità > Pasquali si è battuto perché quel segno non comparisse nell’edizione

nazionale dei classici, se non per indicare lezioni congetturali anonime).

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