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Paolo Chiesa

Elementi di critica testuale


1. La critica testuale
1.1 Il problema
La critica testuale è la disciplina che indaga la genesi e l’evoluzione di un’opera, studiandone le varie forme,
in particolare l’originaria, e le trasformazioni nel testo, con l’obiettivo di pubblicare un testo affidabile
dell’autore. Un suo sinonimo è l’ecdotica, anche se questa si occupa più degli aspetti editoriali di un testo.
Nell’epoca della stampa si tende a pensare che un libro, e di conseguenza il testo contenutovi, di una
determinata opera sia fisso. Ma le differenze si possono notare già nell’estetica, nel caso si confrontino due
edizioni diverse, che conterranno poi errori di stampa o modifiche dell’autore stesso. L’esistenza di differenze
tra diversi manoscritti era invece normale prima dell’introduzione della stampa, dato che i testi venivano
copiati a mano; il copista poteva infatti introdurre, volontariamente o meno, alcune modifiche o le correzioni
di errori pregressi, facendo in modo che il testo, di copiatura in copiatura, si allontanasse sempre più
dall’originale. Si pone dunque la domanda di quale fosse la forma più antica del testo, come venne concepita
dall’autore; quando l’originale autografo non è disponibile, allora si occorre alla ricostruzione o al restauro
attraverso lo studio degli apografi successivi. È il caso della Comedia di Dante (non possediamo l’autografo
ma una copia di dieci anni successiva alla sua morte) o dell’Eneide di Virgilio (non abbiamo un manoscritto
antecedente al IV secolo, trecento anni dopo la morte dell’autore; è comunque un caso fortunato, dato che
per i testi antichi il lasso di tempo può essere costituito anche da mille o più anni).
In alcuni casi non è dunque possibile rispondere alla domanda “Qual è il testo esatto di questa opera?”.
Bisognerà dunque procedere all’analisi dei testimoni, a una loro valutazione e al restauro del testo più
originale possibile attraverso il confronto delle varianti o a una ricostruzione di esse, nel caso le varianti non
siano soddisfacenti. Questa situazione venne capovolta dall’introduzione della stampa: grazie all’utilizzo di
matrici quasi sempre identiche, le copie di una stessa tiratura risultavano tutte uguali tra loro; le modifiche
potevano essere volontarie o involontarie, volute dall’editore o dall’autore stesso anche in corso di stampa.
A condizione che quest’ultimo curasse personalmente la stampa, si può avere maggiore sicurezza su quale
fosse il testo originale. Ci sono casi di opere manoscritte non pubblicate dopo l’introduzione della stampa, o
ancora opere postume; è il caso del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (rifiutato dalle case editrici
e pubblicato nel 1958 in uno stato di composizione superato; l’edizione conforme all’ultima volontà
dell’autore esce nel 1969) o del Principe di Machiavelli (non ci è rimasto l’autografo, dato che l’opera circolò
inizialmente in forma manoscritta e venne stampata solo cinque anni dopo la morte dell’autore, nel 1532).
Spesso richiedono un esame critico le opere conservate in manoscritti autografi o in edizioni controllate, dato
che possono essere di difficile lettura (presenza di correzioni che solo l’autore poteva capire); se l’opera è
incompiuta, il testo sarà poi ancora più incoerente e talvolta possono nascere problemi legali: è il caso di
Petrolio di Pasolini (il dattiloscritto originale è incompiuto e pieno di correzioni), o del Diario postumo di
Montale (andava progressivamente rivelato dopo la morte dell’autore). In altri casi l’opera venne pubblicata
postuma senza il consenso dell’autore, come l’Eneide di Virgilio o i Sonetti romaneschi del Belli (che furono
anche oggetto di censura), o ancora lo Zibaldone di Leopardi. Altre volte si mostra chiaramente l’interazione,
non sempre felice, tra autore e casa editrice che, come nel caso dei romanzi di Raymond Carver, poteva far
intervenire un proprio correttore sul testo (Goldon Lisch ne modifica lo stile e l’ideologia).
Nel caso delle Novelle Rusticane di Verga, possediamo un’edizione a stampa del 1883, che venne poi corretta
dal Verga in una nuova edizione nel 1920. Ciò accadeva anche nel Medioevo e in età classica, per cui non si
deve ricostruire il testo originale, ma il processo creativo dell’opera. Un caso importante è quello dei Promessi
sposi, che riporta numerose modifiche sostanziali, di titolo, trama, contenuto, tra l’edizione del 1825 e quella
più ufficiale del 1840; anche l’Orlando furioso dell’Ariosto presenta tre edizioni cinquecentesche, e l’edizione
finale presenta modifiche apportate dall’autore nel corso della stampa del testo. Simile processo per i Canti
di Leopardi o per L’allegria di Ungaretti (edizioni: 1919, 1931, 1936, 1942), anche se queste due edizioni
rappresentano un caso a parte, essendo raccolte di composizioni poetiche ed autonome tra loro.
Il testo di un’opera non è quindi un dato immobile, ma un processo nel tempo, e anche la sua forma definitiva
non rappresenta un termine della trasformazione: ad ogni stadio di modifiche corrisponde un testo diverso.
Lo studio della critica testuale è dunque necessario per tutte le opere di cui non si possiede l’originale o di
cui esistono più originali o di cui esiste l’originale ma l’autore non ne ha curata la pubblicazione: è il caso di
opere prodotte prima dell’introduzione della stampa, di opere successive all’introduzione ma non curate
dall’autore, di opere di cui si posseggono più edizioni a stampa non curate dall’autore. Talvolta la critica di
un’opera prevede il recupero e l’organizzazione del materiale; questo può essere difficoltoso nel caso delle
Operae omniae (per cui si deve seguire un dato criterio cronologico) o delle raccolte di epistole senza che
l’autore ne avesse finalizzato egli stesso la pubblicazione (vanno recuperate negli archivi dei destinatari).

1.2 L’edizione critica


La conclusione di uno studio di critica testuale è l’edizione critica, un’edizione scientifica dell’opera utilizzabile
come testo ufficiale dal lettore. Può consistere nella riproduzione o nella ricostruzione dell’originale o di uno
stato testuale di particolare valore o nella pubblicazione comparata di testi diversi. Questa è rivolta
principalmente agli studiosi, ma è la base per tutte le edizioni di maggiore circolazione, dato che un
commentatore sceglierà l’edizione critica più adatta alle sue esigenze. Ogni edizione critica tiene conto di
quelle precedenti e cerca di migliorarle approssimandosi ad un risultato che deve essere sempre più preciso.
Non esistono però edizioni definitive, ma solo ipotesi dell’originale.

1.3 La critica testuale e le altre discipline


La critica testuale è uno dei campi di studio della filologia; quest’ultima si occupa di comprendere i testi
letterari, per cui il passo fondamentale è quello di possederli nella forma più corretta possibile. Esistono varie
filologie specialistiche che studiano la letteratura di popoli diversi (filologia italiana o germanica) o di un certo
periodo di tempo (filologia umanistica o classica). Resta centrale il problema dell’affidabilità dei testi e del
corretto inquadramento nel contesto in cui vennero scritti, per cui la critica del testo è un passaggio
preliminare, dato che deve presentare le opere nella forma più esatta possibile per un giusto studio della
letteratura e della storia (il procedimento funziona anche all’inverso, dalla storia alla critica testuale); per
questo tipo di studio si dunque ricorre alla paleografia, alla papirologia, alla codicologia, alla storia del libro
e a quella delle biblioteche.

1.4 La formazione del metodo filologico


Dato che fino al medioevo non si conoscevano altri mezzi di diffusione di un testo se non la copiatura a mano,
i dotti erano perfettamente consapevoli degli sbagli in cui potevano incorrere, specialmente nelle opere
considerate auctoritates, come testi grammaticali o teologici. Un caso celebre è quello dell’Iliade, di cui si
fece nel III secolo (età ellenistica) una edizione critica che eliminava i versi non originari; il testo ottenuto
divenne così canonico. Un processo simile venne attuato da Lupo di Ferrieres nel IX secolo: confrontava
diversi manoscritti per giungere alla forma migliore possibile (De oratore di Cicerone o la Bibbia).
Il problema si sentì sempre di più a partire dall’umanesimo, quando la cultura classica venne assunta a
programma culturale, per cui si doveva recuperare l’esattezza delle opere antiche, tentando di screditare le
modifiche attuate in età medievale. Il confronto tra le diverse copie avveniva con la scelta di un manoscritto
ritenuto soggettivamente migliore e il suo confronto con altri codici (emendatio ope codicum) o con
congetture personali (emendatio ope ingenii). L’invenzione della stampa aiutò la diffusione della cultura ma
rallentò lo studio critico, dato che l’editio princeps veniva ad assumere un alto grado di autorevolezza, ma il
manoscritto scelto non era il migliore, ma solo quello più facile da leggere, quindi più recente e più facilmente
pieno di errori. Le edizioni successive alla prima, poi, prendevano come spunto le edizioni precedenti ed
eliminavano quasi totalmente il confronto con gli altri manoscritti per soffermarsi sullo studio del testo più
diffuso, il textus receptus. Nell’età moderna invece si cominciò ad utilizzare il codex optimus, e questo veniva
emendato solamente quando il testo risultava palesemente scorretto: la variante scelta era quella più diffusa,
ma non sempre quella corretta, e il codex optimus era scelto arbitrariamente dall’editore. Una modifica
sostanziale avvenne a partire dal Settecento, momento in cui si capì che non si dovevano confrontare a caso
le singole varianti ma capire in che rapporti fossero i testimoni tra loro, dando quindi valori diversi in base
all’antichità e all’affidabilità dell’opera. Si ideò dunque un metodo scientifico, il metodo stemmatico o metodo
di Lachmann, che venne però in seguito messo in discussione. Questo rimane comunque un metodo adatto
alla critica ricostruttiva e viene oggi utilizzato in parallelo ad altri metodo complementari. L’esistenza di un
autografo non costituisce un testo completamente affidabile, per cui viene messa in discussione la nozione
stessa di “originale” e di “autore”, per cui si è passati da una linea interventista a una conservativa. Si è poi
sviluppato un certo interesse per la ricezione dei testi in un determinato periodo storico.

2. L’originale non conservato


2.1 Tradizione e trasmissione
La tradizione di un’opera è il complesso di documenti che riportano un testo o una parte di esso. Può essere
diretta (manoscritti, edizioni a stampa precedenti a quelle critiche) o indiretta (riassunti, estratti, traduzioni
etc.). Con tradizione si può anche intendere il testo tradito (paradosis), la forma attestata dai manoscritti.
Analogo è il concetto di trasmissione, ovvero il processo per cui un’opera ci è giunta, processo che si può
conoscere solo parzialmente, dato che gli esemplari esistiti sono maggiori di quelli tramandati. Tra il III e l’VIII
secolo si selezionarono i testi scolastici e canonici, complice anche il cristianesimo, per cui ci è giunto
solamente il 10% delle opere greche, ad esempio; inoltre, si introdusse la pergamena, inizialmente usata per
testi documentari, più costosa del papiro, per cui i testi inutili non vennero più trascritti e andarono perduti.
Il codice, la forma tipica del libro cristiano, permetteva poi di contenere al suo interno un’opera completa, a
differenza dei rotoli di papiro (ex. 12 libri dell’Eneide). I papiri che ci sono conservati sono quelli provenienti
da regioni con clima secco, come l’Egitto, dove si ritrovarono opere Cornelio Gallo o di Menandro, tra cui il
Dyskolos nella sua interezza. Un altro tipo di selezione è quella che venne attuata sui palinsesti, con la
cancellazione di un’opera antica per fare spazio ad una nuova con un risparmio economico (cfr. le
Etymologiae di Isidoro di Siviglia con palinsesti dei Vangeli in greco, in gotico e alcuni testi del medico Galeno;
il De re publica di Cicerone; le Epistulae di Frontone).
La fase di selezione terminò nel IX secolo, ma molti codici anche del ‘500 scomparvero in seguito, tra cui
manoscritti unici (le Storie di Velleio Patercolo o il Liber di Catullo o ancora la Commedia dantesca), che
possiamo ricostruire grazie alle copie fatte da essi.
Nessuna delle grandi biblioteche antiche (Alessandria, distrutta dall’invasione araba; Torino e Dresda,
distrutte da incendi e bombardamenti) è giunta fino a noi, se non per rari casi come quella dell’abbazia di
San Gallo in Svizzera. Molte opere sono giunte a noi in modo frammentario, come le Elegie di Tibullo o parte
delle Storie di Tacito o ancora la grammatica di Terenziano Mauro, giunta solo attraverso l’editio princeps.
Altri autori, come Ennio o commediografi o lirici greci, sono conservati unicamente per citazioni. Oltre ai
manoscritti si persero anche i libri a stampa, dato che la maggiore disponibilità di copie non è legata a una
migliore conservazione (dell’Orlando innamorato di Boiardo non rimane alcuna copia di 1250).
Dunque, i testimoni sono relativamente recenti, di molti secoli successivi all’autore, dunque quanto
corrisponde al dettato dell’originale d’autore? Il processo di trasmissione si interrompe con l’edizione critica
dell’opera, che tenta di offrire un testo che si avvicini all’originale il più possibile attraverso l’eliminazione
delle trasformazioni del testo. La Bibbia latina di Girolamo, la Vulgata, venne fatta stampare nel 1588 ma
Papa Sisto V la modificò personalmente in numerosi punti; venne fatta ristampare da Clemente VIII,
eliminando le modifiche del precedente pontefice.
Un testo scritto può anche essere trasmesso oralmente, dato che per tutta l’antichità e gran parte del
medioevo la lettura era ad alta voce e l’apprendimento mnemonico e il testo scritto era solamente una base.
Un caso importante è la letteratura germanica e nordica, per cui si trova la stratificazione di materiale
attraverso storie diverse riferite a un unico eroe, poi stese in forma scritta ma continuamente cambiate dai
copisti (Saga di Oddr l’arciere ha testi in prosa diversi nei manoscritti, mentre le poesie molto simili).

2.2 Storia della tradizione e critica del testo


La ricostruzione del testo è legata allo studio della sua tradizione, dato che bisogna cancellare le modifiche
introdotte dalle trascrizioni per giungere all’originale; ciò è possibile conoscendo la mentalità e la cultura
degli autori e dei copisti e l’interpretazione data in base alle diverse epoche dei vari lettori. Il testo di un’opera
è dunque un diasistema tra il sistema ideologico e linguistico dell’autore e quello del copista. Inoltre, fino
all’introduzione della stampa, le opere circolavano in singoli manoscritti che potevano essere molto diversi
l’uno dall’altro. Ad esempio, prima della Vulgata esistevano diverse traduzioni della lingua molto diverse tra
loro (Vetus Latina), versioni a disposizione dei primi Padri della Chiesa, per cui i copisti medievali mescolarono
talvolta le diverse versioni tra loro (ad esempio per quanto riguarda la collocazione dell’Eden); Macario di
Magnesia nel suo Apocritico smonta un trattato anticristiano preesistente aggiungendo le eventuali risposte
e creando così un dialogo tra un cristiano e un pagano, ma il trattato citava la Bibbia da una traduzione greca
diversa da quella di Macario, per cui ci sono numerosi motivi di incomprensione; il manoscritto degli
Scriptores Historiae Augustae viaggiò in poco tempo tra Verona, Fulda, Germania, Firenze, Napoli, Roma.

2.3 La ricognizione dei testimoni


La ricognizione dei testimoni comincia con la ricerca bibliografica, ovvero il censimento di tutti i manoscritti
esistenti e delle prime edizioni a stampa; attraverso tecniche paleografiche si giunge poi a datare i codici e
ad individuare il loro luogo d’origine. Il materiale presente nelle biblioteche è però censito solamente in parte
e catalogare un manoscritto è molto più complessa rispetto che catalogare un libro a stampa, per cui è
necessaria una descrizione sommaria e veloce e una successiva ricerca più complessa. Specialmente per le
opere medievali la scoperta di nuovi codici è relativamente frequente, mentre è più difficile per le opere
antiche, come il caso delle Compositiones di Scribonio Largo o gli Acta Gallonii o dei sermoni sconosciuti di
Sant’Agostino. L’indagine porterà anche ad individuare manoscritti di cui si ha notizia ma che sono oggi
scomparsi, creando così un percorso di attività storica dell’opera.

2.4 La collazione
La seconda operazione è la collazione, ovvero il confronto tra i testimoni e l’individuazione delle loro
differenze. Si fa prendendo un esemplare di collazione, un testo base e confrontandolo con gli altri. Questo
può essere una edizione critica precedente (il testo è già stato elaborato ma può essere contaminato da altri
testimoni o dalle congetture dell’editore), una edizione a stampa, l’editio princeps (maggiore leggibilità ma
non ha un valore maggiore rispetto agli altri manoscritti, dato che non è stata edita da un critico), il più antico
manoscritto esistente (il testo è difficile da leggere). L’esemplare di collazione è dunque quello che permetta
all’editore di lavorare meglio, evitando dunque testimoni imparziali. Se l’opera è inedita, il testo-base scelto
dall’editore non rappresenta comunque il testo più importante, mentre se l’opera è già stata pubblicata, non
è detto che le scelte del critico precedente siano necessariamente errate.
La possibilità di utilizzare elaboratori elettronici per la collazione è possibile solamente nel caso di testi molto
brevi, dato che ogni testimone deve essere trascritto da un operatore (le macchine non riescono a leggere
con esattezza la scrittura umana antica) con un elevato rischio di errori, ed è comunque impossibile codificare
tutte le differenze presenti. La collazione ottica è dunque possibile solamente per i testi a stampa.

2.5 Recensio e Constitutio textus


L’obiettivo del metodo stemmatico, o metodo di Lachmann, è quella di ridurre al minimo la scelta soggettiva
dell’editore nella ricostruzione del testo, per cui il valore di una lezione tramandata dipende dal valore del
testimone che la riporta. La critica viene perciò divisa tra recensio (valutazione dei testimoni) e constitutio
textus (formulazione di ipotesti di testo originale attraverso selectio ed emendatio). La recensio ricostruisce i
rapporti tra i singoli testimoni e le innovazioni da essi prodotte: tra 5 manoscritti di egual valore, se uno
riporta una lezione diversa dagli altri quattro, allora questa sarà di sicuro errata; nel caso un manoscritto
abbia più di una trascrizione dall’originale nella sua storia, allora la sua forma può essere scartata. Si deve
dunque arrivare ad utilizzare solamente i manoscritti più vicini all’originale, non necessariamente i più antichi
(si guarda il numero di copiature intermedie). Inoltre, non vale un criterio di scelta basato sulla maggioranza
dei testimoni, ma sempre sul valore del testimone che riporta una data lezione: la lezione riportata da 5
testimoni diretti vale quanto quella riportata da un solo testimone diretto (cfr. metafora giudiziaria).
Fatta la ricostruzione dei rapporti dei testimoni, si procede alla rappresentazione dello stemma codicum,
quando questa è possibile. Una volta elaborato lo stemma si procede alla ricostruzione del testo originario.
Ma quando lo stemma è bipartito, deve intervenire l’editore scegliendo quale sia la forma più adatta al testo
(selectio) o intervenendo con congetture personali, nel caso il testo abbia lacune, attuando l’emendatio.

2.6 La Recensio
2.6.1 Stemma storico e stemma ricostruibile
La trasmissione di un’opera è graficamente rappresentata attraverso uno stemma codicum o uno stemma
codicum et editionum, nel caso siano presenti anche le prime edizioni a stampa. Vengono spesso utilizzati
termini che indicano relazioni di parentela. Questo è chiamato stemma storico o stemma reale, poiché
rappresenta la trasmissione di un’opera per come è esattamente avvenuta. In una tradizione tripartita, la
ricostruzione sarà automatica nel caso tutti e tre i testi oppure due su tre presentino la stessa forma, mentre
sarà da selezionare la forma migliore nel caso tutti e tre riportino una lezione diversa. Lo stemma reale
permette poi di poter capire e lavorare unicamente sui piani alti dello stemma, eliminando le forme più
recenti. Il problema è che si conserva solamente una parte dei testimoni e che le relazioni tra questi non sono
spesso esplicitamente dichiarate o ancora un manoscritto può essere esito di collazione medievale o
umanistica da due testi, presentando dunque errori e congetture di un copista o di un altro. La ricostruzione
di uno stemma reale non è dunque quasi mai ricostruibile, e si deve ricorrere allo stemma ricostruibile.
2.6.2 La ricostruzione dello stemma: errori-guida
Il metodo più efficace per la ricostruzione dello stemma è quello degli errori-guida o Leitfehler, ovvero la
parentela fra due o più testimoni non è indicata dalla coincidenza delle lezioni esatte ma delle erronee. Se si
trova una alterazione Z, tutti i soggetti interessati da Z sono parenti, ma non lo sono tutti quelli che non
presentano Z. Si possono dunque individuare relazioni tra testimoni solo in base alla presenza di innovazioni
comuni. Spesso gli errori possono anche non essere inconsapevoli ma frutto di un’aggiunta di una spiegazione
o di un commento da parte di un copista colto, oppure una sua modifica di un tratto linguistico o stilistico
attraverso un aggiornamento. Si usa dunque il termine innovazione.
La ricostruzione avviene attraverso queste fasi:
- Si effettua la collezione tra i testimoni di un’opera;
- Per alcune varianti si capirà qual è la forma originale, mentre per altre il giudizio sarà impossibile
(varianti adiafore);ù
- I testimoni con le medesime innovazioni vengono raggruppati in una unica famiglia.
Di una sola tradizione possono dunque esistere numerose possibilità di
raggruppamento nelle diverse famiglie, e la ricostruzione è possibile
solamente attraverso lo studio delle varianti e delle innovazioni che si
sono prodotte nella trascrizione del testo.
2.6.3 Le innovazioni distintive
Per la ricostruzione di uno stemma le innovazioni devono soddisfare
congiuntamente due requisiti:
- Devono essere tali da potersi essere prodotte una sola volta, per cui non hanno valore le varianti
poligenetiche come il salto da pari a pari (due espressioni identiche a breve distanza per cui si salta
il testo tra le due o ancora il salto di un verso quando il verso precedente o successivo iniziano con la
stessa sillaba o parola). Queste innovazioni sono chiamate errori congiuntivi o Bindefehler, dato che
tutti i testimoni che presentano l’innovazione risultano uniti;
- Devono essere tali da non poter essere state successivamente eliminate da un altro copista, per cui
non hanno valore le innovazioni reversibili come gli errori grammaticali evidenti o l’introduzione di
glosse da parte di un copista colto. Queste innovazioni sono chiamate errori separativi o Trennfehler,
in quanto quelli che non le presentano non appartengono alla famiglia di quelli che la presentano.
Le innovazioni che permettono di ricostruire lo stemma sono dunque quelle che identificano i gruppi in modo
univoco e che soddisfano entrambi i requisiti. La maggior parte degli errori congiuntivi non hanno efficacia
separativa, e la maggior parte degli errori separativi hanno invece efficacia congiuntiva. Il caso più classico di
innovazione adatta alla ricostruzione è quella di una lacuna consistente ed insolubile.
2.6.4 Il procedimento di copiatura e la tipologia di innovazioni
Nel momento di copiatura di un testo si creano inevitabilmente delle modifiche che allontanano la copia
dall’originale. Quando un testimone di x viene usato per ricavarne una copia y, si dice che x è l’antigrafo e y
è l’apografo. Sono state studiate le tecniche e le condizioni di lavoro dei diversi scriptoria medievali, ovvero
sotto dettatura oppure un’operazione silenziosa: la prima produceva errori dovuti alla cattiva comprensione
dei suoni, la seconda dovuti a fraintendimenti analoghi. Le innovazioni potevano essere:
- Involontarie e inconsapevoli: errori di fraintendimento di una parte del testo, come la sostituzione di
una forma erronea rispetto a una esatta, l’omissione o la ripetizione di una parte del testo o la
trasposizione, l’inversione di due parti del testo. Un errore curioso è l’errore polare, in cui il copista
trascrive l’esatto opposto della forma presente nell’antigrafo; altri errori sono il salto da pari a pari o
l’omoteleuto (parole con uguali finali) o l’omoearco (parole con iniziali uguali). Un errore di
ripetizione è la dittografia, ovvero lo scrivere due volte la stessa sillaba o la stessa parola all’interno
di un elenco; o il salto di una o più righe o versi del testo, quando questo veniva copiato
meccanicamente, o il salto di un intero foglio quando venivano girate due pagine invece che una.
Le innovazioni involontarie sono facili da individuare quando producono un testo insostenibile, non
altrettanto quando il testo è apparentemente corretto;
- Innovazioni volontarie o interpolazioni, quelle più difficili a individuare dato che il copista ha
consapevolmente modificato l’antigrafo. Possono essere la riduzione (sintesi o eliminazione di parte
del testo dovuto alla scarsità di pergamena), l’amplificazione (l’aggiunta di materiale al testo
dell’antigrafo come glosse o citazioni), la rielaborazione stilistica (semplificazione di un testo
difficile), l’ipercorrettismo (la modifica di una forma che si crede scorretta ma in realtà non lo è) o la
sostituzione di contenuto. Nel commento all’Eneide di Servio viene citata l’orazione in frumentaria
di Cicerone, corretta in seguito da un copista con in Verrinis, dato che quello era il nome con cui
circolavano queste orazioni nel medioevo. In una orazione di Cicerone, la Pro Marcello, un copista
medievale aveva modificato una frase per darle un senso più cristiano (la vita si trova non nel corpo,
ma nello spirito). Numerosi epigrammi di Marziale vennero censurati nel medioevo o sostituiti con
espressioni più corrette.
Le innovazioni volontarie sono spesso difficili da individuare perché producono un testo accettabile
e sensato. Per gli autori classici, che rispettavano un certo canone stilistico, sono facili da individuare
le innovazioni in questa direzione; per gli autori medievali la cosa è più difficile in quanto il canone
stilistico era uniforme tra autore e copista.
- Innovazioni forzose, ovvero quelle che il copista non ha potuto privare perché rese obbligate da
guasti materiali dell’antigrafo, come la mancanza di un foglio; talvolta sono segnalate.
I copisti potevano avere strategie differenti: potevano semplicemente copiare l’antigrafo, per cui le loro
innovazioni saranno involontarie, oppure copiarlo con una copiatura critica, creando così innovazioni
volontarie. Spesso poi alla copiatura di un unico manoscritto potevano lavorare diversi scribi, attuando
ognuno la propria strategia di copiatura in base anche alle condizioni diverse di un unico antigrafo.
2.6.5 Utilizzo dello stemma: eliminatio codicum descriptorum e eliminatio lectionum singularium
Lo stemma permette di giudicare il valore dei testimoni conservati, per cui alcuni risultano privi di utilità. Un
testimone L che derivi da X presenterà delle innovazioni aggiuntive rispetto ad X e sarà dunque privo di utilità
al fine di ricostruire il testo. L si dice descriptus da X, e i descripti perdono il loro valore e non vengono
considerati attraverso l’eliminatio codicum descriptorum. I codici descritti non richiedono una discendenza
diretta, bensì che il testimone-fonte sia conservato. Per identificare L come codice descritto non basta che
presenti le innovazioni di X più alcune proprie, ma ci vuole l’assenza di prove che la situazione possa essere
diversa, arrivando così alla presunzione che L sia descritto, non alla certezza. I filologi più recenti cercano
evidenze materiali, come la mancanza di parti del testo o correzioni introdotte sull’antigrafo successivamente
alla copiatura dell’apografo: il guasto non riguarda dunque il testo di X, ma la sua materialità, una cosa
dunque non trasmissibile a L. Nel caso dell’opera storica di Arriano tutti i manoscritti hanno una vasta lacuna,
e nel più antico dei testimoni manca un foglio, per cui si può comprendere come tutti gli altri manoscritti
discendano dal manoscritto lacunoso. Gli Annali di Tacito sono conservati in un solo testimone antico, dal
quale vennero tratti numerosi descripti non utili alla ricostruzione; si è però ritrovato un manoscritto
cinquecentesco con innovazioni proprie, che è andato così a creare uno stemma di forma bipartita.
L’eliminazione dei descritti offre vantaggi nel lavoro editoriale: per il Bellum civile di Cesare, ad esempio, sono
stati eliminati oltre 160 codici, corrispondenti all’85% dei manoscritti esistenti.
I testimoni descripti possono avere utilità in quanto possibili portatori di buone congetture. Quando si
possiede l’antigrafo, l’analisi dell’apografo permette di studiare i metodi di trascrizioni di un determinato
scriptorium. Lo stemma permette di avere un criterio di valutazione oggettivo sulle lezioni presentate dai vari
manoscritti. Se tre manoscritti hanno lo stesso testo e un quarto una diversa, è più probabile che sia errata
quella del quarto manoscritto, dato che è difficile che uno stesso errore si sia prodotto in tre testimoni diversi
in linea indipendente. Questo processo è chiamato eliminatio lectionum singularium, ovvero l’eliminazione
delle forme attestate nei singoli rami dei piani bassi dello stemma. Questa è basata su un principio di
economia e di probabilità, facendo ovviamente eccezione per le innovazioni poligenetiche. La ricostruzione
e l’utilizzo dello stemma formano un circolo ermeneutico, poiché le innovazioni sicure permettono di
ricostruire lo stemma che diventa lo strumento attraverso cui si discriminano le varianti dubbie.
2.6.6 L’archetipo e i subarchetipi
Uno dei punti più delicati della ricostruzione dello stemma è l’individuazione di che cosa si trova al suo vertice:
la tradizione può infatti partire dall’originale oppure da un testimone che era già una copia distante
dall’autore o da lui non sorvegliata. Perché accada questo secondo caso è necessario che in tutta la tradizione
si verifichi una innovazione distintiva, che non possa essere originaria in alcun modo; in questo caso il
testimone primo viene chiamato archetipo. Se lo stemma è privo di archetipo, all’editore non sarà consentito
di emendare il testo tramandato; se lo stemma presenta l’archetipo, l’editore potrà emendare il testo,
supponendo che alcune innovazioni siano quelle introdotte dall’archetipo e non presenti nell’originale. I
primi discendenti dell’archetipo prendono il nome di subarchetipi e possono corrispondere ad esemplari
presenti o ricostruiti. Per i testi classici si è a lungo supposto che un archetipo dovesse essere esistito, per la
selezione della letteratura antica avvenuta nell’alto medioevo e il necessario passaggio dal papiro alla
pergamena; oggi invece la situazione viene valutata caso per caso. Le prove di carattere testuale per accertare
la presenza di un archetipo sono le più deboli, mentre quelle di carattere materiale le più forti.
Se l’esistenza di un archetipo può essere accertata, non può esserlo la sia assenza: esso potrebbe essere stato
opere di un copista molto colto che ha introdotto solamente innovazioni irriconoscibili. Quando si può
dimostrare che tutti i manoscritti risalgono a un archetipo ancora presente, allora l’editore dovrà emendarlo
per togliere le innovazioni aggiunte rispetto all’originale. Il caso più celebre è quello del De rerum natura di
Lucrezio nell’edizione curata da Lachmann, che analizzando i manoscritti ancora oggi presenti (l’oblongus e
il quadratus) è riuscito a dare una descrizione precisa e quasi esatta dell’archetipo perduto.

2.7 La constitutio textus


Le lezioni che restano dopo l’eliminazione sono quelle presenti al piano più alto dello stemma; se la lezione
dei subarchetipi è concorde, allora è quella dell’archetipo o dell’originale, altrimenti bisogna procedere a una
selectio e una eventuale emendatio, nel caso sia presente un archetipo nella tradizione.
2.7.1 La selectio: tradizioni bipartite e tradizioni multipartite
La selezione tra le varianti concorrenti è meccanica se i subarchetipi sono tre o più, utilizzando il criterio della
maggioranza numerica, mentre se sono solamente due è l’editore a dover stabilire quale sia l’innovazione
rispetto all’originale. Nel caso la lezione tra due rami sia palesemente diversa, ma non troppo (una delle due
potrebbe essere una congettura rispetto a un errore patente), una migliore e una peggiore, la scelta sarà la
migliore delle due. Di fronte invece a lezioni accettabili e adiafore, bisogna utilizzare diversi criteri:
- Lectio difficilior: tra due lezioni concorrenti di pari valore, viene considerata originaria quella che per
varie ragioni appare più difficile rispetto all’altra, dato che la banalizzazione è considerato un normale
procedimento nella trasmissione del testo, specialmente con i copisti medievali meno colti: una
modifica migliorativa e complessa appare infatti insensata anche da parte di copisti colti. Per quanto
riguarda i testi medievali, questi potevano all’inizio essere più rozzi ed essere poi stati migliorati in
seguito dai copisti successivi (come nel caso dell’Itinerarium Antonini), per cui non si parla di lectio
difficilior ma di variante più soggetta a degenerare nell’altra. Nella Commedia si trova in un ramo
della tradizione la parola dote, in un altro cose, probabilmente banalizzata da un copista. Il concetto
è strettamente legato a quelli di plausibilità e di diffrazione, ovvero la pluralità di varianti
contrapposte in diversi manoscritti in punti diversi dello stemma, indice dunque di una difficoltà di
lettura del progenitore: si parla di diffrazione in presenza quando una delle varianti è quella corretta,
di diffrazione in assenza quando non lo è nessuna. È il caso del libro di novelle di Antonfrancesco
Grazzini, a cui manca a un certo punto gli aggettivi seguenti alla parola uomini, per cui i diversi copisti
hanno congetturato diverse possibilità, ognuno diversa da quella dell’altro;
- Usus scribendi: è lo stile di un autore, per cui tra due varianti sarà da scegliersi quella più vicina alle
abitudini stilistiche di uno scrittore; questo è fattibile facilmente per le opere in versi, le regole
scolastiche e altri parametri a cui si atteneva sicuramente l’autore. Maggiore è il materiale a
disposizione, maggiore è la possibilità di conoscere a fondo l’usus di un certo autore. Meno facile è
questa operazione per le opere anonime o per quelle medievali, dove lo stile si era unificato. Aiuta
molto il concetto di diasistema: tanto facile sarà capire l’usus dell’autore quanto autore e copisti
saranno tra loro distanti nel tempo e nella scrittura. Ne è un esempio l’Antapodosis di Liutprando da
Cremona, in cui si usano i verbi notatur e nominatur per parlare del nome della città di Pavia;
leggendo i testi di Liutprando si nota come il primo era utilizzato per “segnare”, il secondo per “dare
un nome”, e sarà proprio questo il termine corretto da inserire nel testo compiuto;
- Loci paralleli: si confronta un dato passaggio con passaggi simili di altri autori e altre opere dove
ricorrano espressioni simili, utilizzati come fonti dall’autore o che hanno preso spunto dal testo che
si vuole cercare di ricostruire. È da utilizzare con cautela perché l’operazione potrebbe anche essere
stata compiuta da un copista;
- Comportamento dei subarchetipi: questo è ricostruibile sulla base delle lezioni già selezionate grazie
ai precedenti criteri. Il copista di A potrebbe essere stato colto e dunque molto incline a modificare
il testo, mentre il copista di B poteva essere ignorante e commettere dunque errori di trascrizione,
pur non modificando mai il testo. È dunque più probabile che le innovazioni siano da attribuire ad A
e una variante B sarebbe da giustificarsi come un errore di lettura. Nel caso del Novellino di Masuccio
Salernitano, con tradizione bipartita, per cui si preferisce un demorcorno, parola senza senso ma
errore di copiatura da remorcorno, piuttosto che un menorno, dato che quest’ultima proviene da un
manoscritto con tendenze a cambiare il testo originale;
- Selezione su base statistica: due varianti adiafore possono rimanere tali anche dopo aver applicato
tutti questi espedienti, per cui si aderisce al ramo che è statisticamente più affidabile, ovvero che,
per esempio, è corretto 85 volte su 100 rispetto all’altro ramo della tradizione (grande limite).
Anche nel caso di tradizioni multipartite restano però sospette le coincidenze tra due testimoni contro un
terzo, quando queste possono derivare da innovazioni poligenetiche o da varianti adiafore irriconoscibili. Nel
caso dei testi antichi in passato si cercava di far risalire ogni stemma ad una tradizione bipartita, perché
l’editore poteva tornare padrone delle scelte, con il problema di una possibile forzatura inconscia del
contenuto del testo. Il filologo Bedier, di fronte a queste difficoltà, proponeva l’uso del codex optimus come
unica possibilità. Nel caso del Bellum civile di Cesare, questo è conservato all’interno di un corpus
comprendente anche altre opere sulle guerre triumvirali, tutte attribuite nel medioevo al medesimo autore.
I testimoni appaiono divisi in tre famiglie, due delle quali condividono piccole innovazioni. Lo studio delle
opere del corpus potrebbe portare a una soluzione dello stemma del Bellum civile: se anche altre opere delle
due stesse famiglie avessero innovazioni, allora lo stemma sarebbe bipartito, altrimenti diverrebbe tripartito.
Nelle tradizioni prive di archetipo, c’è la possibilità che più varianti risalgano all’autore e quindi siano
parimenti originali.
2.7.2 L’emendatio
La presenza di un archetipo autorizza l’editore a emendare il testo nei passi dove si trovano corruttele
evidenti o dove la tradizione appare sospetta. Se invece non c’è archetipo, il testo dei testimoni più alti
corrisponde a quello dell’originale. Si crea dunque un nuovo circolo ermeneutico: sulla base di pochi elementi
si determina l’esistenza di un archetipo, per cui è possibile emendare tutto ciò che all’inizio appariva
equivoco. L’emendatio è dunque la fase più creativa della ricostruzione testuale: è necessario coniugare il
rigore del metodo e la fantasia, sempre seguendo il principio di economia per migliorare il testo. È
fondamentale la conoscenza dell’autore, della lingua da lui usata e della materia. Fra due congetture
ugualmente buone si darà la preferenza a quella che spiega meglio l’esito testuale dell’archetipo.
L’emendatio moderna è solamente quella ope ingenii, dato che l’emendatio ope codicum presuppone la
scelta di un codex optimus. In molti casi buone congetture sono state poi confermate da ritrovamento di
nuovi testimoni, come nel caso del De magnalibus Mediolani di Bonvesin da la Riva, conservato in un unico
manoscritto molto rovinato ma reso leggibile dalle moderne macchine ottiche. L’emendatio è talvolta
rifiutata da alcuni studiosi, per un rispetto del testo tradito, mentre altri ritengono che siano legittime anche
congetture migliorativi di passi che sarebbero già corretti senza alcuna congettura: ma emendando troppo si
corre il rischio di correggere l’autore, pur potendo far nascere un dibattito e congetture sempre migliori. Si
cerca dunque di attenersi allo status quo, emendando il meno possibile quando si ritenga che il codice sia
molto vicino all’autore e poco innovativo. L’esito della constitutio textus sarà sempre e comunque una
congettura di testo originale, dato che il testo tramandato può essere corrotto insanabilmente, indicandolo
con una crux desperationis, talvolta astenendosi da emendamenti fragili e deboli, quando questi non possano
essere dichiarati in modo esplicito.
2.8 Casi particolari di documentazione
2.8.1 Tradizioni a testimone unico
È il caso delle opere conservate in un solo testimone. La fase di recensio è dunque azzerata, e il testimone
rappresenta l’archetipo dell’opera, quando questo non sia l’originale stesso. Lo svantaggio effettivo è la
povertà della tradizione e la conseguente impossibilità di trovare lezioni di qualità superiore. L’unica
domanda da farsi è dove e se il testimone vada emendato. È dunque più facile pubblicare un testo con due o
più testimoni piuttosto che con un testimone soltanto. Essendo un archetipo, ne va valutata l’affidabilità e il
lato positivo è ce non deve essere ricostruito in via ipotetica. Nel caso dell’Homelia paschalis di Liutprando
da Cremona, conservata in un solo manoscritto coevo all’autore, alcune correzioni sembrano essere state
introdotte da Liutprando stesso. L’unico testimone della Relatio de legatione Constantinopolitana, sempre di
Liutprando, è l’editio princeps del 1600: è dunque necessario formulare teorie sulla sua affidabilità per
stabilire con quanta libertà si possa emendare il testo.
2.8.2 Tradizioni sovrabbondanti
È il caso di tradizioni molto vaste, per cui si deve stilare una lista completa dei testimoni indicando la data e
il luogo di origine, selezionando poi i testimoni utili alla collazione. Il trovare le stesse opere raccolte in codici
diversi o indizi strutturali simili o manoscritti provenienti da un medesimo scriptorium può essere un indizio
di parentela tra i diversi testimoni (innovazione congiuntiva). Bisognerà poi escludere le innovazioni
poligenetiche, collazionando poi un solo manoscritto di ogni gruppo, preferibilmente il migliore. Oppure si
può procedere a una campionatura del testo, ovvero svolgere la collazione e la recensio dell’opera solamente
per alcuni spezzoni, tentando così di ricostruire uno stemma, sulla base del quale verranno poi scelti i
testimoni più importanti. Oppure si possono scegliere i manoscritti più antichi o quelli soggetti a un numero
inferiore di copiature intermedie (i testimoni recentiores non sono per forza deteriores, questo succede solo
quando l’antigrafo sia ancora presente, questo specialmente per le opere classiche studiate nell’umanesimo).
Si può dunque creare uno stemma codicum con i testimoni ritenuti migliori a priori per poi confrontare gli
altri manoscritti solamente per quanto riguarda i loci critici. Questo processo venne attuato per la Legenda
aurea di Iacopo da Varazze, di cui si conoscono oltre 1000 testimoni integri o parziali, o per le Institutiones di
Prisciano, per cui si è applicato il criterio di vicinanza geografica, o per la Commedia di Dante nell’edizione di
Sanguineti, che prende come testo-base un codice che da solo rappresenta uno dei due rami della tradizione.
2.8.3 La tradizione indiretta
All’interno di questo concetto rientrano tutti i documenti che riprendono parti più o meno ampie dell’opera
che si vuole ricostruire. Il caso più tipico è quello delle citazioni di tragedie latine di età repubblicana, giunte
a noi per estratti, riassunti, antologie, traduzioni, imitazioni, parodie. La prima operazione è sempre quella di
valutare l’affidabilità della testimonianza, dato che il rischio di trasformazione è molto alto, poiché la
citazione era spesso fatta a memoria o la lingua veniva uniformata da parte dell’autore della citazione. Ha
particolare importanza quando risale ad un epoca antica, come nel caso degli scrittori classici molto citati dai
grammatici antichi, mentre il vantaggio diminuisce con le opere medievali e moderne. In Catullo, ad esempio,
la tradizione diretta riporta superata securi, mentre secondo la citazione del grammatico Pompeo Festo
sarebbe da leggersi suppernata securi, utilizzando una lectio difficilior che è dunque la forma corretta. L’opera
di Pompeo Festo è giunta fino a noi per metà in un manoscritto del IX secolo, mentre l’altra metà è
ricostruibile attraverso la riduzione che ne fece nell’VIII secolo Paolo Diacono, che permette dunque di
emendare e correggere alcuni punti oscuri della prima metà.
2.8.4 Declassamento e riqualificazione dei testimoni
Il valore di un dato manoscritto può modificarsi nel corso dell’opera, dato che un codice descriptus può essere
utile nei punti in cui il progenitore sia illeggibile o mal conservato. È il caso delle Storie di Ammiano Marcellino,
conservate in un manoscritto frammentario del IX secolo, per cui si è dovuti ricorrere a diversi apografi del
IX e del XV secolo. Inoltre, una tradizione a due rami può divenire multipartita quando si affianchi un
testimone indiretto; è il caso delle Vitae di Cornelio Nepote che hanno tradizioni a due o tre rami, dato che
in due manoscritti non era stato copiato tutto il testo.

2.9 I limiti del metodo stemmatico


L’intervento dell’editore è in realtà sempre presente, dato che deve valutare quali tra le varianti siano quelle
originali e quali siano innovazioni; soprattutto nel caso poi di stemmi bipartiti, l’editore interviene nella
selectio e poi, più generalmente, in quella di emendatio. Il metodo permette però di eliminare come recenti
numerose varianti, muovendo così verso una ricostruzione scientifica, basata su criteri oggettivi, del testo. I
limiti del metodo stemmatico sono il considerare che la trasmissione delle opere antiche fosse avvenuta in
maniera meccanica e lineare (da un originale ben definito alla progressiva degradazione passando sempre
attraverso l’archetipo), ma non è così, dato l’intervento di copisti colti che hanno azzerato le innovazioni
introducendone di invisibili, che hanno confrontato manoscritti diversi (contaminazione), o data la possibile
derivazione da più di un originale e la presenza di varianti d’autore. Vengono definite recensioni chiuse
(recensio cum stemmate) quelle a cui è possibile applicare il metodo stemmatico senza che l’editore debba
intervenire; recensioni aperte (recensio sine stemmate) quelle in cui l’editore è costretto ad intervenire.
2.9.1 Le innovazioni irriconoscibili
Uno dei presupposti del metodo stemmatico è che nella copiatura di un apografo si introducano sempre delle
innovazioni, specialmente nei testi brevi. Il problema è la riconoscibilità di tali innovazioni, facile quando il
sistema del copista era tanto diverso da quello dell’autore, difficile quando copista ed autore sono molto
vicini nel tempo, ovvero:
- Per i testi antichi che presentano innovazioni introdotte già in epoca antica;
- Per i testi prodotti e copiati nel medioevo. In questo caso diventa utile il confronto con i loci paralleli,
specialmente quando sia un’opera derivata (antologia, florilegio, traduzione). È il caso del romanzo
di Barlaam e Josaphat, conosciuto in latino da una traduzione dal greco, molto letterale;
- Per i testi di qualsiasi epoca in una lingua non soggetta a regole costanti (“testi non creativi”, Fränkel);
- Per i testi troppo stilizzati, semplici e che seguono pedissequamente le regole;
- Per i testi che sono stati oggetto di attenzione filologica nella loro trasmissione (ad esempio i testi
classici in età umanistica, soggetti a emendamenti e congetture).
In tutti questi casi non si mette in discussione il concetto di errore-guida, bensì la possibilità di riconoscere
l’innovazione e utilizzarla come errore-guida, per cui la ricostruzione dello stemma risulta dubbia.
2.9.2 La contaminazione
Si parla di contaminazione quando nella trasmissione di un testo sia avvenuto un contatto tra due o più
testimoni diversi, producendo copie con lezioni miste, per cui la trasmissione non procede più in modo
univoco e verticale (si parla di trasmissione orizzontale). Ricostruire lo stemma diviene dunque difficile e quasi
impossibile, dati gli elementi contraddittori della recensio, arrivando a considerare i testimoni peggiori come
i migliori possibili. Per capire i rami da cui il testo è contaminato si devono trovare necessariamente
innovazioni sicure tanto di un ramo quanto dell’altro, e ciò non è sempre possibile. Si capisce che una
tradizione è contaminata quando le innovazioni distintive sono accomunate irregolarmente o quando queste
tendono a scomparire. La contaminazione, processo faticoso, avveniva sempre per un motivo: un testimone
poteva essere viziato da evidenti corruttele (e allora la contaminazione è limitata a questi passi) o il copista
voleva trascrivere un dato testo nella forma migliore possibile, per cui non si accontentava dell’antigrafo
reperito (e allora la contaminazione è continua in tutto il testo). Le collazioni divennero frequenti nell’età
umanistica, specialmente per i testi considerati come auctoritates (la Bibbia, i Padri della Chiesa, le opere
importanti in volgare, gli esercizi di scuola etc.). È poi molto difficile che un copista contamini introducendo
un errore patente o una lacuna, per cui se si trovano vuol dire che erano già presenti nel testo base e non in
quello usato per il controllo; se poi si voleva correggere un testo danneggiato, è difficile che si siano introdotte
varianti di scarso significato; se invece la contaminazione è filologica, scioglierla diventa impossibile, dato che
il fenomeno potrebbe essersi verificato varie volte nel corso della trasmissione. È possibile trovare
contaminazioni in margine, tra le righe o cancellando la lezione originaria (collettore di varianti o editio
variorum), per cui nell’apografo successivo si ritroveranno tutte le varianti mescolate insieme. È raro il caso
in cui la contaminazione sia esplicitata, e non bisogna confonderla con una buona congettura, come nel caso
di un antico manoscritto della Commedia.
2.9.3 L’originale molteplice
Esistono varie opere classiche per cui si può pensare in via presuntiva, secondo i risultati della recensio che
fossero state prodotte diverse edizioni antiche, forse tutte risalenti all’autore, per cui alcune lezioni differenti
risalivano tutte a lui. Ciò è più facilmente osservabile per le opere moderne. Si crea dunque uno stemma
codicum con più di una radice, e le opposizioni tra le varianti non sono più sul piano sincronico (originale/non
originale) ma diacronico (originale più antico/più recente). La trasmissione dell’opera, poi, può aver attinto
ai diversi originali dando così vita a una tradizione varia e indipendente. Possono talvolta convivere varianti
d’autori ed archetipo, specialmente per le opere medievali, quando l’opera era stata riveduta su un
manoscritto già viziato dagli errori di un copista. Il riconoscimento della molteplicità di originali è possibile
solo quando esplicito (manoscritti autografi, edizioni prodotte sotto il controllo dell’autore, specialmente
dopo l’introduzione della stampa, minute, autografi di vario genere). Quando non si può individuare
l’archetipo, bisogna sempre chiedersi se non vi sia una molteplicità di originali. L’intervento dell’autore in un
ulteriore originale apre la possibilità che tutte le varianti adiafore dei manoscritti successivi siano dovute
all’autore stesso. Sarà quasi sempre impossibile, ma tranne per gli errori patenti sarà impossibile distinguere
gli interventi d’autore da quelli di copisti colti.

2.10 Metodi ricostruttivi non stemmatici


Le tradizioni contaminate sono molto comuni, ma il metodo stemmatico può permettere comunque di isolare
famiglie di manoscritti almeno ai piani bassi; ai piani alti dello stemma si dovranno usare metodi diversi.
Alcuni mantengono l’obiettivo di ricostruzione del testo, altri sono scettici e lo vedono come obiettivo
irrealizzabile, specialmente con l’inizio del Novecento e lo studio dei testi medievali, la cui copiatura non era
sempre meccanica come si era ritenuto per quasi tutte le opere classiche.
2.10.1 Metodi tassonomici
Nel 1920 Henri Quentin propose un metodo per cui si classificavano le varianti, senza distinguerle in lezioni
originali o innovazioni, raggruppando poi i testimoni in base alla presenza o all’assenza delle varianti; si crea
una catena di testimoni con evidenti collegamenti, senza però esplicitarne la direzione o la parentela, in
forma neutra e non considerando il valore intrinseco della variante. In questo modo anche un minimo
numero di innovazioni sicure bastano ad orientare lo stemma. In questo caso l’elaborazione dello stemma
codicum rimane l’obiettivo centrale della recensio, richiedendo però un minor numero di innovazioni
riconoscibili. È però comunque impotente di fronte a tradizioni contaminate, dato che si creano
concatenamenti circolari.
Un altro metodo è quello delle distanze: fatto un elenco delle varianti, i testimoni vengono confrontati a due
a due in tutte le combinazioni possibili, confrontando quante volte divergono o convergono tra loro le coppie.
Se la concordanza è elevata, i manoscritti sono vicini e basterà considerarne solo uno nella recensio.
2.10.2 Il metodo delle aree geografiche
Teorizzato da Giorgio Pasquali, si applica alle ricerche di linguistica storica ed individua le lezioni più antiche
rispetto a quelle più recenti. Nel caso una lezione sia attestata in due testimoni di aree periferiche, lontani
tra loro, e un’altra di area centrale, la lezione corretta sarà quella periferica, dato che è impossibile che
l’innovazione si sia prodotta due volte in aree geografiche distanti. È il caso di una lettera di Gregorio di Nissa,
di cui si conservano lezioni identiche in codici scritti in Russia e a Cipro, per cui presentano le lezioni originarie
rispetto ai manoscritti centrali, scritti nel fulcro politico e culturale dell’Impero, dove il testo era
maggiormente soggetto a modifiche. Identica cosa per la Commedia di Dante, per cui nell’ambiente
fiorentino fu spesso soggetta a sistemazioni testuali (cfr. Boccaccio), per cui i testi migliori sono quelli copiati
a nord degli Appennini. In atra forma, si può ricorrere a questo metodo ricostruendo gli ambienti in cui sono
stati prodotti i testimoni, per cui i monasteri dello stesso ordine, seppur molto lontani tra loro, erano più
propensi a scambiarsi i manoscritti rispetto a monasteri vicini di ordine diverso. Per le Etymologiae di Isidoro
di Siviglia si è dovuta suddividere la tradizione in aree geografiche (Spagna, Italia, Francia), che presentano
ognuna diversità anche molto evidenti tra loro.
2.10. 3 La ricostruzione eclettica
Quando le varianti che possono risalire all’autore sono troppe o la contaminazione generalizzata, il critico
dovrà operare la selectio e l’eventuale emendatio su tutte le varianti esistenti. Il valore dei testimoni è perciò
accessorio, dato che le varianti vengono giudicate per sé indipendentemente dal testimone che la riporta. Si
parla dunque di una critica eclettica, in cui si procede caso per caso. Il metodo ricorda quello degli umanisti,
con però una maggiore consapevolezza data dagli approfondimenti metodologici.

2.11 Metodi non ricostruttivi


La ricostruzione di un’opera è però sempre una ipotesi di un testo, mai un risultato sicuro, peccando dunque
di astoricità. È dunque preferibile la pubblicazione del testo di un singolo manoscritto realmente esistito.
2.11.1 Il codex optimus
L’edizione è qui fondata sopra un unico testimone, ritenuto a priori come il migliore, distaccandosene solo
quando il testo è chiaramente errato a causa di errori del copista. Si possono anche utilizzare molteplici
testimoni (cfr. Leggenda aurea di Giovanni Paolo Maggioni, in cui si utilizzano cinque manoscritti di
particolare eccellenza). È il metodo utilizzato prima della filologia scientifica e rilanciato nel Novecento da
Bedier, con l’obiettivo di pubblicare l’opera in una forma il più possibile vicina all’originale, scegliendo dunque
di pubblicare il testimone meno innovativo, talvolta il più antico esistente. Pur volendo reagire alle difficoltà
di applicazione del metodo stemmatico, questo metodo lo presuppone, dato che Bedier non mise mai in
discussione l’importanza teorica della ricostruzione dell’originale e lo stemma è utile all’individuazione del
testimone migliore. Il metodo presenta grossi vantaggi pratici, data la possibilità di trascrivere un solo
testimone, evitando le fasi di collazione e selezione. Il metodo però richiede una seria recensio, nell’offrire la
maggior percentuale di lectiones singulares da conservarsi.
La variante di questo metodo è quella del metodo-base, per cui l’editore emenda il testo scelto anche nei
tratti in cui non appare profondamente errato, mantenendosi a questo solo nel caso delle varianti adiafore.
Questo metodo è necessario specialmente per i testi in volgare antico, dato che aiuta con gli aspetti grafici e
fonetici (cfr. Composizione del mondo di Restoro d’Arezzo, scritto in un testimone in fiorentino e nell’altro
ramo in aretino, ramo che viene in aiuto quando il testimone fiorentino presenti delle lacune; cfr. anche
Commedia nella versione di Sanguineti, che fa ricorso allo stemma per correggere gli errori di sostanza e le
caratteristiche non fiorentine da imputare al copista). Nel caso della Chanson de Roland, la tradizione è
bipartita, con un ramo che presenta un solo manoscritto O e l’altro un subarchetipo perduto b. O è molto
superiore a b, ma presenta innovazioni proprie risolvibili grazie al confronto con b, che si presenta comunque
molto modificata linguisticamente e letterariamente; l’editore ha scelto di pubblicare O come codex optimus
e b in forma parallela.
2.11.2 La copia scribale
Difficilmente è critica l’edizione di una copia scribale, ovvero la forma del testo prodotta da un particolare
copista, non ponendosi dunque l’obiettivo della ricostruzione dell’originale ma insistendo sul momento della
sua fruizione. Questo metodo presuppone l’inefficacia dei metodi ricostruttivi e l’arbitrarietà di una ricerca
che abbia come oggetto la ricostruzione dell’originale. Oggetto dell’edizione diventa dunque il singolo
manoscritto, purché storicamente esistito. Ma la ricezione di un’opera si può valutare e apprezzare in termini
comparativi (in cosa si differenzia il testo letto a Bologna da quello letto a Firenze o da quello originale
dell’autore, ad esempio). Inoltre, il manoscritto ha una storicità sicura come sua esecuzione e creazione, ma
non è dimostrabile il suo impiego, dato che molti manoscritti non sono mai stati letti dagli uomini del periodo
in cui erano stati copiati. L’edizione a stampa di un testo del genere, poi, andrebbe a rivestire un valore
normativo, con il rischio di essere assunta dal pubblico come edizione tout court. Critica testuale e analisi
della fruizione sono dunque due discipline molto diverse tra loro.

2.12 È sempre esistito un originale?


I limiti del metodo stemmatico si evidenziarono quando si iniziarono a studiare le opere prodotte dopo l’età
antica, specialmente nel medioevo. Divenivano talvolta inapplicabili le nozioni di archetipo, di errore, di usus
scribendi e, specialmente, di originale. Nei testi classici la dicotomia tra originale e copia era evidente dalla
lontananza temporale che separava autore, istanza ben nota nell’età classica, e copista; i primi problemi
sorsero dal sospetto che ci potessero essere anche varianti d’autore. Quando però di un’opera sono
conservati gli stadi creativi, la nozione di originale tende ad arricchirsi, perdendo di univocità; le forme a
stampa autorizzate dall’autore, ad esempio, hanno maggiore importanza degli schemi preparativi che non
hanno mai raggiunto l’autonomia nella diffusione. Nelle opere medievali l’elaborazione del testo sembra
essere passata attraverso diversi stadi meno netti rispetto alle cesure di pubblicazione di un’opera, che ne
conferiva uno status di originalità, permettendo così la creazione di un processo creativo continuo e un
originale in movimento. Varie opere medievali, poi, si basano sul reimpiego ed adattamento di testi già
presenti, per cui la nozione di autore appare labile, dato che poi potevano essere diverse parlata, conoscenze
ed aspettative del pubblico. Stessa cosa vale per le opere a trasmissione prevalentemente orale.
Estremizzando, ogni copia è un nuovo originale, legittimo di edizione; sarebbe illegittimo ricostruire un
originale privo di significato e consistenza per la sua indefinibilità. Sono però molti i casi in cui una distinzione
tra autore, redattore e copista è possibile già in età medievale, come nel caso della relazione del viaggio di
Odorico di Pordenone in Oriente, composta nel 1330 in latino come trascrizione di un racconto orale in
volgare da parte di un confratello del frate, per cui in seguito vennero aggiunti altri episodi. Il testo ebbe
successo e se ne realizzarono volgarizzamenti e traduzioni molto diverse tra loro. L’obiettivo non sarà di
ricostruire il testo originale, ma la forma più antica di alcune delle sue redazioni riducendo al minimo la
varietà testuale. Per il ciclo dei Nibelunghi è difficile trovare un originale, dato che la prima trasmissione fu
orale e la stesura scritta presenta numerose aggiunte da parte di copisti e redattori diversi. Si trovano dunque
tre forme principali dell’opera, non sovrapponibili tra loro, dato che compare o manca del materiale in
ognuna delle edizioni. Vanno dunque pubblicate in forma sinottica, comparativa.

2.13 Diversità di problemi, elasticità di metodo


Diversi sono i problemi a seconda che l’edizione sia di un testo antico o medievale, a circolazione ampia o
limitata, di alto livello stilistico o paraletterario. Rispetto ai testi medievali, i testi classici hanno avuto modi
di produzione e trasmissione diversi, per cui è facile distinguere cosa è d’autore e cosa è innovazione
medievale, dato che il sistema linguistico e culturale è molto diverso e il sistema editoriale dell’antichità non
permetteva facilmente di effettuare modifiche dopo la pubblicazione. Per le opere medievali questo è più
difficile, dato che l’autore aveva con sé la copia originale e poteva continuamente modificarla prima di inviare
le copie a chi gliele richiedeva. Inoltre, per le copie classiche è più probabile la presenza di un archetipo,
mentre per quelle medievali la presenza di varianti d’autore. Le opere classiche, auctoritates, erano meno
soggette alle modifiche scolastiche da parte di copisti, diversamente da quelle medievali. Per i testi del tardo
medioevo o di epoca successiva possediamo documentazioni secondarie che permettono di chiarire le
circostanze di produzione dell’opera, anche se talvolta l’originale stesso è inconsistente per un suo studio. A
seconda dei casi sarà dunque maggiore o minore la possibilità di dare maggiore o minore spazio e alle
congetture o alla selectio tra le varianti. Il metodo stemmatico è dunque applicabile alle tradizioni quiescenti,
caratterizzate da scarsa mobilità testuale o da una circolazione scolastica o dalla stabilità del nome
dell’autore. Opposto è il caso delle tradizioni attive, dato che i copisti tendevano alla rielaborazione del testo.
I metodi della critica vanno perciò applicati con la massima elasticità. La prima domanda è sull’effettiva
necessità della ricostruzione del testo originale, dato che per alcuni casi può essere meno utile o fuorviante.
Dove ciò non sarà possibile, si ripiegherà sulla pubblicazione di un testo-base. Tutto si regge sui principi di
economia e di necessità di produrre testi affidabili per un utilizzo storico e letterario.

3. Filologia dell’originale
La conservazione dell’originale permette analisi approfondite sulla genesi dell’opera e sulle vicende
successive all’autore. Quando esistano poi diversi originali, bisognerà analizzare i rapporti tra loro e
descrivere il processo di elaborazione del testo. Questo è il campo della filologia d’autore.

3.1 Testimoni d’autore


Quando di un’opera si possiede il manoscritto autografo, questo rappresenta la volontà dell’autore e
costituisce l’originale, implicando così una maggiore responsabilità per l’editore. Il problema preliminare è il
riconoscimento dell’autografo: nei manoscritti moderni si trovano firme o indicazioni esplicite oppure è
possibile confrontare la scrittura dell’autore, con il rischio però di trovare dei falsi. Per i manoscritti medievali
questo è più raro, dato che un esemplare autografo non conferiva valore al manoscritto. Per gli autori classici
ci rimangono pochissimi autografi di papiri di poca importanza. Talvolta, invece, non è mai esistito un
autografo in senso stretto, dato che l’autore poteva dettare la sua opera a un copista (manoscritti idiografi,
presentano errori introdotti dal copista e sfuggiti alla correzione) oppure utilizzare supporti provvisori.
L’editore poi dovrà decidere se correggere o meno i piccoli errori involontari (lapsus calami) e, soprattutto,
gli errori più consistenti, senza esagerare, dato che si corre il rischio di sostituirsi all’autore. Il romanzo di
Federigo Tozzi, Le tre croci, presentava diversi errori nella sua prima edizione a stampa, poi corretti in una
edizione critica. Un caso frequente è invece quello delle opere incompiute, per cui l’autografo è un
manoscritto di lavoro frammentario, scorretto, contraddittorio, come nel caso dei Ricordi di D’Azeglio,
formati da appunti integrati da Torelli, o le Grazie di Foscolo, di cui si conoscono frammenti in redazioni
diverse, per cui si è deciso di fotografare l’opera in un dato periodo storico. De Il partigiano Johnny di Fenoglio
si conoscono 3 stesure tutte diverse, per cui l’edizione critica presenta tutte e tre in forma autonoma.
Leopardi invece corregge a mano una stesura a stampa de Sopra il monumento di Dante.
3.2 Varianti d’autore
Nei casi precedenti gli autografi conservati sono più di uno, per cui sono attestate diverse varianti d’autore.
È difficile riconoscerle quando siano ricavate attraverso la sola recensio, per cui l’editore dovrà tentare di
eliminare le innovazioni cercando di avere forme più genuine del testo. Le varianti possono essere un
semplice ritocco o una revisione approfondita, fino a una riscrittura totale. Il primo obiettivo sarà di collocare
in ordine temporale le campagne di correzione avvenute, per cui ogni forma va giudicata per sé senza essere
considerata secondaria, seppur rimanendo in un contesto diacronico-comparativo. La molteplicità del testo
rende difficoltosa la pubblicazione di un’edizione unitaria, fattibile quando gli interventi siano limitati;
quando sono massicci, invece, bisognerà trattare ogni opera come diversa, indicando poi un testo preferibile
dell’opera. Rispetto al testo preferibile si indicano come varianti genetiche o avantesto quelle precedenti ad
esso, più difficili da individuare, e varianti evolutive quelle successive. Esistono però casi in cui diverse
redazioni sono irriducibili a una gerarchia precisa, come il Giorno di Parini, dato che il poeta lo concepì prima
come diviso in tre parti, poi in quattro, entrambe incomplete ma non unibili date le frequenti incongruenze.
L’ultima volontà dell’autore, il testo non più modificato, dovrebbe corrispondere alla fase finale di
elaborazione, ma è un concetto inapplicabile alle opere incompiute. Anche per le opere pubblicate sotto la
revisione dell’autore, possono essere state introdotte innovazioni dalla Casa editrice. La secchia rapita di
Tassoni venne progressivamente modificata dall’autore per evitare la censura prima di essere pubblicata in
tre edizioni diverse, tutte dissimili tra loro. La volontà dell’autore non è nessuna delle tre edizioni ma la forma
del manoscritto, quella incensurata. Manzoni, nella pubblicazione dell’Adelchi, fu costretto a modificare
alcuni punti e, dopo la fine della dominazione austriaca, si rifiutò di riportare il testo alla forma originale. Dino
Campana scrisse Il più lungo giorno, ma il manoscritto venne perduto dalla casa editrice, per cui lo riscrisse
sotto il nome di Canti orfici; quando il testo venne ritrovato, si notarono delle profonde varianti, per cui le
due opere vennero pubblicate come testi separati, seppur in parte sovrapponibili. Il Galateo di Giovanni della
Casa fu pubblicato post-mortem e risulta diverso rispetto all’originale, per cui l’ultima volontà sarebbe
rappresentata dal manoscritto autografo. Le opere degli scrittori contemporanei presentano invece una
documentazione molto ricca (filologia degli scartafacci), facilmente accessibile e studiabile.

3.3 Filologia d’autore e libro manoscritto


Nell’antichità il sistema di produzione del libro passava attraverso una elaborazione collettiva, per cui il testo
circolava tra gli amici di cui l’autore ascoltava i pareri (labor limae), producendo così un certo numero di
varianti genetiche, per poi passare a una copia definitiva, che veniva messa in vendita da un librario o si
poteva consultare nelle biblioteche pubbliche. Le Retractationes di Agostino sono un catalogo in cui aggiorna
le versioni delle diverse opere da lui scritte. Cicerone nel De re publica aveva sbagliato il nome dei cittadini
di Fliunte, chiamandoli Phliuntii e non Phliasii, per cui aveva scritto all’editore attico di correggere, ma molte
copie già circolavano per cui era impossibile emendare il testo, che ci è giunto solamente nella versione
errata. Altre volte si attestano nella tradizione varianti che potrebbero risalire all’epoca dell’autore oppure a
suoi contemporanei, che vanno dunque trattate con prudenza. Le Saturae di Giovenale presentano una
variante di 36 versi in più attribuita all’autore; l’Apologeticum di Tertulliano presenta due redazioni diverse
con differenze stilistiche, seppure entrambe forme d’autore; i carmi di Ausonio ci sono giunte in due raccolte
differenti, entrambe forme d’autore; Giovenco, autore di una parafrasi metrica dei Vangeli, presenta
manoscritti medievali con numerose varianti adiafore indicate nel medesimo manoscritto.
Nel medioevo la produzione e diffusione dei testi era praticamente azzerata, dato che l’autore teneva con sé
l’originale e ne faceva fare delle copie solamente su richiesta; l’opera letteraria diviene dunque aperta e non
possiede più una propria stabilità, in un modo simile alle reti telematiche odierne. Le Institutiones di
Cassiodoro ci è giunto nel suo secondo volume in forme redazionali diverse, in cui B corrisponde ad un
aggiornamento di A e alla fine si trova una nota che lo indica come archetipo ufficiale dell’opera, e fu dunque
scritto da Cassiodoro stesso. La Regula pastoralis di Gregorio Magno è conservata in un manoscritto che
presenta una intensa attività correttiva databile alla stessa età del papa, per cui è probabile che le correzioni
siano d’autore, dato che nessuno osava correggere il dettato del papa. La forma più antica è però illeggibile,
ma ricostruibile attraverso al tradizione successiva.
Fino al XIII secolo la conservazione di un manoscritto autografo/idiografo è rara e ancora di più lo sono le
minute o gli abbozzi delle opere. Con l’introduzione della carta a partire dal Duecento, molto meno costosa
che la pergamena, questa si iniziò ad utilizzare anche per le minute e gli appunti. Di Petrarca ci è conservata
tutta la corrispondenza, e abbiamo molte notizie sul luogo e il tempo in cui nacquero le sue opere. Uno dei
suoi manoscritti autografi più importanti è il Rerum vulgarium fragmenta, il Canzoniere, sottoposto a un
ampliamento ed eliminazione nel corso del tempo; possediamo inoltre il codice degli abbozzi, dove si
ritrovano forme preliminari dei componimenti. Il canzoniere ci aiuta a seguire il percorso compositivo
dell’opera, leggendola in una doppia prospettiva: la genesi dell’opera e la trasformazione delle raccolte. La
rielaborazione Petrarca la applicò anche alle Epistolae, ordinate tra le Familiares e le Seniles e poi riordinate
per costruire una biografia spirituale partendo da delle copie che si trovavano probabilmente nel suo archivio.
Di mano di Boccaccio possediamo diversi codici, di proprie opere o di trascrizioni personali. Il Decameron che
ci è giunto è un esemplare finale dell’opera, in cui incorse in una grande quantità di errori di distrazione. È la
base dell’edizione critica, anche se privo di alcuni fogli ma ricostruibile attraverso un altro manoscritto che
potrebbe esserne copia diretta; abbiamo poi un altro codice che riporta una forma dell’opera precedente a
quella finale, permettendo di ricostruire il percorso creativo. Del De mulieribus claris si conoscono una grande
quantità di forme successive, probabilmente continui aggiornamenti nel corso di 15 anni. Disponiamo di un
manoscritto autografo che sembra essere la forma definitiva.
Ci fu anche una ripresa significativa dell’attività imprenditoriale legata al commercio librario, con l’apertura
delle scuole e dell’università e lo svilupparsi di un nuovo pubblico della cultura, tornando a creare una
divisione più netta tra autore e testo finale prodotto. L’introduzione della stampa portò ad una ulteriore
fissazione dell’opera. È più probabile di trovare varianti genetiche, successive al testo pubblicato, che varianti
redazionali. Le opere a stampa vennero poi dotate di un frontespizio, che forniva il diritto di proprietà del
testo all’autore. Nella dialettica tra autore e venditore si inseriscono dunque le richieste del mercato e le
imposizioni della censura.

3.4 Filologia dei testi a stampa


Con il nome di filologia dei testi a stampa/bibliografia testuale si indica lo studio critico nato nel Novecento
delle edizioni a stampa in collegamento con l’analisi delle tecniche e delle procedure tipografiche, oltre allo
studio del commercio librario. L’indagine non può prescindere dallo studio delle procedure e delle modalità
di stampa, utili all’indagine sull’evoluzione di un’opera. L’edizione più importante delle opere di Shakespeare
è il First Folio, che per alcune opere è testimone unico; l’analisi ha dimostrato che al testo lavorarono diversi
tipografi, dato che alcuni vocaboli appaiono scritti in modo diverso. L’ultima edizione dell’Orlando furioso
dell’Ariosto fu modificata in corso di stampa dall’autore, sia nel contenuto che nell’impaginazione. Lo studio
della corrispondenza tra gli autori moderni e le case editrici mostra una continua conflittualità nell’assetto
testuale, dato che numerose correzioni potevano essere introdotte dai correttori di bozze. Anche uno studio
critico dei testi a stampa può avere finalità ricostruttive, dato che diverse edizioni a stampa sono assimilabili
a testimoni di un’opera e in ognuna ricorreranno errori e innovazioni differenti. Si distingue tra elementi
accidentali (errori di ortografia o punteggiatura, si accetta l’edizione più antica) e sostanziali (errori di lessico
o sintassi, si accetta l’edizione più recente). Un principio analogo è applicabile alle opere manoscritte, dato
che per gli elementi accidentali si dà autorità al testimone più antico e viceversa.

4. Anatomia dell’edizione critica


4.1 Testo critico e apparato critico
Un’edizione critica è destinata alla ricerca, non alla divulgazione. Nella sua forma tipica presenta un testo
critico e un apparato critico, collocato al piede della pagina nel quale trovano posto le varianti trovate e i
manoscritti che le riportano, con una natura strettamente testuale, senza commenti; in questo punto
l’editore dà conto della sua ricerca per gli studi successivi. Nel testo critico si trovano le lezioni che l’editore
ha classificato come originarie, mentre nell’apparato le innovazioni; se nel testo critico si trova uno fra gli
originali, nell’apparato si trovano gli altri come materiale comparativo. Si parla di apparato critico positivo
quando riporta indicazione dei manoscritti che riportano anche la variante accolta, non solo quella scartata,
di negativo quando non lo fa. Il positivo è chiaramente più chiaro e completo, ma diventa sovrabbondante
nel caso di numerosi testimoni, specialmente quando le varianti sono poco significative. Si usa dunque un
sistema misto. L’estensione dell’apparato può essere maggiore o minore a seconda dei risultati della recensio,
in quanto si indicano le lezioni dell’archetipo, quelle rifiutate per fare posto a congetture, congetture
proposte da altri studiosi. Nel caso di edizioni a testimone unico, si segnalano tutte le lezioni rifiutate
dall’editore. Quando nell’apparato convivono varianti d’autore e innovazioni, queste vanno segnalate, come
vanno segnalate modifiche alla consistenza della documentazione (venir meno o aggiunta di un manoscritto).
Nel caso si voglia studiare la storia del testo successiva alla sua elaborazione o l’opera abbia avuto una
particolare diffusione in una forma diversa, si possono riportare tutte le varianti dei piani bassi, altrimenti
questa operazione diventa eccessiva. Quando il materiale diventa sovrabbondante, questo si pone in una
appendice. Può anche apparire un apparato delle fonti, dove vengono indicati i testi usati come modello e i
loci paralleli, costituendo una prima indicazione di critica letteraria.

4.2 Edizioni comparative


Il testo critico contiene le lezioni ritenute conformi al testo, mentre l’apparato critico quelle non conformi,
presupponendo l’univocità del testo da pubblicare con una precisa gerarchia tra testo e apparato. Nei casi in
cui l’obiettivo dell’edizione sia la presentazione di testi confrontati tra loro, l’opposizione testo-apparato è
insufficiente (cfr. testi in diverse redazioni d’autore), dato che tutte le forme sono ugualmente esatte. Queste
edizioni presentano una struttura articolata, con particolari artifici topografici, come caratteri di stampa
diversi o colonne affiancate per mostrare le diverse forme concepite come alternative. Quando invece si
vuole focalizzarsi sulle varie fasi dell’opera si parla di edizione genetica, per cui il testo principale è il più
recente. Quando si rappresenta l’evoluzione del testo si parla di edizione evolutiva e il testo principale è il
primo licenziato. Queste edizioni sono però di difficile letture, interrompendo continuamente il testo, per cui
è preferibile utilizzare un supporto informatico (edizioni ipertestuali), permettendo così i rimandi a foto, ad
apparati critici o ad altri testi. Difficilmente l’editore potrà eludere la necessità di indicare il testo ufficiale,
dato che l’edizione critica mantiene il suo carattere normativo.

4.3 Edizioni diplomatiche, facsimili, edizioni interpretative


Con il nome di edizione diplomatica si indica l’edizione che voglia dare un’immagine fedele del testo riportato
da un certo manoscritto, riproducendone l’aspetto fisico, senza far comparire gli emendamenti dell’editore,
rilegati in un apparato a parte, senza sciogliere le abbreviazioni dell’autore e mantenendo la divisione di righe
del testo originale, così come la grafia. Queste sono divenute più rare con il miglioramento dei procedimenti
di fotografia, dato che il codice può essere pubblicato in facsimile con maggiore immediatezza e
accompagnandolo da una trascrizione continua del testo. Sono utili solamente nei casi di codici di difficile
lettura o soggetti a correzioni. Quando l’editore effettua interventi di carattere formale per facilitare la
lettura del testo, si parla di edizione interpretativa.

4.4 Gli elementi di supporto: introduzione e indici


Nell’introduzione si trovano: la storia degli studi critici precedenti all’edizione e l’evidenziazione dei punti di
novità della presente; l’indicazione dei testimoni utilizzati, una descrizione e una immagine campione;
l’esposizione dei principi dell’edizione del testo, ovvero i risultati della recensio, lo stemma codicum, i criteri
della selectio e dell’emendatio, una descrizione eventuale dell’archetipo; una nota al testo dove si espongono
le modalità di costituzione dell’apparato critico.
Fra gli indici si trovano l’index nominum, che elenca i nomi che appaiono nell’opera e un eventuale index
verborum, che indica le ricorrenze di ogni parola nel testo.

4.5 Lo stemma codicum


Lo stemma va collocato all’interno dell’introduzione e rappresentato come un albero capovolto, nel quale le
ramificazioni sono costituite da linee verticali e divergenti (trasmissione normale) o orizzontali e convergenti
(contaminazione). Si tendono a disegnare stemmi cronologici, in cui i testimoni vengono collocati a una
diversa distanza dal vertice in base alla loro epoca. Questo è solamente uno strumento descrittivo, non un
obbligo, dato che è utile sul piano didattico ma non consente mezze misure o dubbi, generando così uno
stemma a linee discontinue o punti di domanda.

4.6 Il conspectus siglorum


I testimoni impiegati vanno identificati con sigle specifiche, per cui un conspectus siglorum, un elenco delle
sigle, posto all’inizio dell’edizione aiuterò ad associare le sigle con i testimoni. Normalmente si utilizzano le
lettere latine maiuscole per i testimoni esistenti, le greche minuscole per quelli scomparsi ma presupposti e
le latine minuscole per i testimoni di minore importanza. Si sceglierà poi di utilizzare lettere parlanti, che
permettano al lettore di identificare mnemonicamente un dato manoscritto; maggiore il numero di
testimoni, maggiore la complessità delle sigle. La cosa più importante è dunque la chiarezza, per cui si cerca
di mantenere le sigle già utilizzate in edizioni critiche precedenti per orizzontarsi nella bibliografia
preesistente, mentre talvolta cambiare le sigle è inevitabile, come nel caso di una modifica della
configurazione dello stemma quando le lettere indichino l’appartenenza a diversi rami (si cerca dunque di
utilizzare sigle neutre da questo punto di vista). Quando un testimone presenti diversi stadi di composizione,
questi vengono indicati con numeri all’apice (A1 e A2).

5. Presente e futuro della critica testuale


5.1 Il punto d’approdo: la critica testuale oggi
La critica testuale non è una disciplina esatta, in quanto fa ricorso a tecniche quantitativa, come la statistica
e il calcolo delle probabilità. Inoltre, non si limita all’analisi e alla descrizione, ma giunge alla produzione.
Tranne nei casi in cui è presente l’autografo, il filologo sa che la sua edizione non rappresenterà il dettato
dell’autore, ma la migliore ipotesi possibile. Nel corso del Novecento i rapporto tra testo e metodo si è
invertito, dato che l’editore deve ascoltare l’opera su cui sta lavorando, valutando le condizioni del testo e
stabilendo gli obiettivi dell’edizione e il metodo più adatto per conseguirli. Le critiche hanno portato ad
eliminare ogni pretesa di onnipotenza del metodo, facendo emergere l’efficacia che esso ha nella pratica.
Comunque, il fatto che l’0riginale sia inconoscibile non significa che non vada ricercato. Per le opere
dell’antichità classica una ricostruzione è sempre necessaria, dato il grande divario temporale tra testimoni
e originali che non permette di scegliere un codex optimus. Per i testi medievali invece la situazione andrà
analizzata caso per caso, riproducendo il più fedelmente possibile l’originale o comparando diverse versioni
d’autore, limitandosi a uno o più codices optimi. Gli studi teorici hanno poi messo in rilievo la mobilità degli
originali conservati, e la critica delle varianti ci ha fatto pensare al testo come a un processo, con cesure più
o meno forti. Il passaggio dalla fissità testuale alla mobilità non toglie però valore al concetto di originale,
dato che gli antichi originali avevano l’ambiguità di quelli moderni conservati. I rischi per la critica testuale
non vengono più dal suo status scientifico ma dalla competitività, essendo la filologia una disciplina lenta e
non concorrenziale con le leggi del mercato odierno. Se la trascrizione di un singolo manoscritto può
sembrare più facile, si può spesso approdare a fallimenti dato che questi processi hanno scarsa plausibilità
dal punto di vista scientifico. Purtroppo, un’edizione ha pur sempre valore normativo, rischiando che diventi
textus receptus dell’opera, come nel caso delle editiones principes.

5.2 Le prospettive: informatica e critica testuale


5.1.1 La produzione del testo nell’era informatica
La condizione materiale della produzione letteraria è cambiata con la diffusione di massa dei computer. Il
testo così prodotto è in realtà privo di una propria consistenza grafica fino a quando non viene materialmente
prodotto da una stampante, e può essere modificato e corretto, corredandolo di annotazioni, immagini e
appunti. Chi utilizza un computer è però molto più condizionato, dato che dipende direttamente da strumenti
tecnici di cui è il semplice utilizzatore. Il rapporto tra autore e testo diventa dunque immateriale. La critica
testuale rivolta agli scrittori del Duemila sarà molto diversa rispetto a quella dedicata agli scrittori del
Novecento, data la continua introduzione di varianti che però cancellano irrecuperabilmente le versioni
precedenti del testo. Si conserveranno solamente quelle varianti che saranno state stampate per una
eventuale correzione. Il rapporto tra testo provvisorio e testo definitivo è dunque destinato a cambiare, con
la mancanza dell’aspetto emotivo, ovvero il tratto di penna, la quantità dei ripensamenti e la forza dei
pentimenti nella correzione. La critica testuale, del resto, non può prescindere dai modi e dagli strumenti in
cui essa prese vita. Il libro cartaceo subisce oggi la concorrenza di quello elettronico, consultabile con facilità
in qualsiasi parte del mondo a un prezzo più basso. La circolazione di questo tipo è in apparenza molto
democratica, dato che chiunque può mettere un suo testo a disposizione di altri potenziali lettori,
producendo però un’overdose di materiale privo di un criterio di selezione, che occulta i testi di qualità.
Diminuisce anche l’autorialità del testo, dato che l’autore può apportare modifiche in continuazione al
proprio testo essendo però conscio del fatto che altri potranno utilizzare e riprodurre il testo riducendolo o
amplificandolo, modificandolo insomma. I testi elettronici appaiono dunque meno protetti di quelli stampati
(edizione chiusa). Una specie di estensione a dismisura della tradizione indiretta.
5.2.2 L’edizione critica elettronica
Molti libri sono disponibili su internet in formato elettronico e la diffusione di schermi particolari ha reso
possibile rendere facilmente leggibili i libri elettronici. Questa operazione è un trasferimento in formato
elettronico di libri nati originariamente per essere stampati. Esistono oggi però edizioni critiche fruibili
unicamente elettronicamente, superando così la bidimensionalità del supporto cartaceo e costruendo
ipertesti, estesi su ambienti paralleli e finestre differenti apribili dall’utente al momento del bisogno. Chi
sostiene la necessità di un avanzamento all’elettronico, sostiene come l’edizione critica tradizionale fosse
nata in un contesto dove l’unica forma di pubblicazione era il libro stampato, uno spazio limitato che puntava
dunque all’unicità (una sola versione in base ai criteri dell’editore in una forma grafica con una divisione
strutturale e interpunzione unica). Con l’informatica è possibile presentare una pluralità di testi in modo
differente in base all’utilizzo del ricercatore, senza una gerarchia precisa. Inoltre, si possono dar conto di
elementi come la stesura originaria, le sue modificazione, gli aspetti grafico-fonetici e strutturali; ancora la
trascrizione di tutti i testimoni, interrogazioni guidate, informazioni necessarie presentate con chiarezza.
Nell’edizione cartacea tutte queste possibilità si perdono, essendo un’edizione senza elementi accidentali. I
sostenitori della critica tradizionale credono però che l’interrogazione necessaria del testo sia vanificata
quando si prende come valore assoluto la molteplicità dei documenti senza una gerarchia (i testi non sono
dunque tutti uguali, il testo è un processo ordinato). La differenza di posizioni può essere superata con la
sperimentazione, come l’elaborazione di modelli di edizioni elettroniche con uno standard scientifico. Le
difficoltà però rimangono, e sono: la necessità di competenze multiple che difficilmente si ritrovano in una
sola persona; il costo economico e temporale elevato; la durevolezza dell’edizione, con il veloce passaggio
tra supporti fisici che rapidamente diventano obsoleti (cfr. CD-ROM); la stabilità dell’edizione, dato che
potrebbe essere modificata da persone meno competenti. Ciò che manca principalmente è uno standard
scientifico riconosciuto, anche se l’edizione elettronica è certamente la strada del futuro, seppure rimanga
per ora uno strumento secondario. La Monarchia di Dante è stata elettronicamente criticata da Prue Shaw
(introduzione, riproduzione fotografica completa dei testimoni e loro trascrizione, edizione critica
ricostruttiva, database di varianti, filogramma, motore di ricerca), che ne ha anche realizzata una forma
cartacea, la forma più “stabile” del testo.
5.2.3 L’informatica al servizio della filologia
Il lavoro dell’editore critico è però stato reso più semplice dall’informatica:
- Censimento dei testimoni attraverso i cataloghi di manoscritti presenti in rete;
- Collazione dei testimoni, seppure non possibile automaticamente da una macchina, attraverso
progressivi database di varianti;
- Selectio ed emendatio grazie alla facilità di trovare un maggior numero di informazioni sui loci
paralleli, dell’usus scribendi, delle fonti; l’elaborazione di un lessico di frequenza
- La preparazione di un testo critico grazie a software di impaginazione appositi.
Lo schema di lavoro è quello della critica tradizionale, ma gli strumenti sono di molto migliorati; l’unica
controindicazione è la possibile superficialità data dalla rapidità della ricerca delle fonti e del lessico (si
possono avere informazioni senza aver mai letto un autore, creando così una diminuzione del livello
dell’approfondimento). Il lavoro del filologo rimane critico e interpretativo, dato che la selectio e l’emendatio
richiedono la conoscenza sicura dell’opera e dell’autore, un percorso di studio ad ampio raggio.

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