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EDITING NOVECENTO

AUTORE, CURATORE, LETTORE (CAPITOLO 1)

PER UNA FILOLOGIA DEL NOVECENTO

La proliferazione di edizioni scientifiche e di edizioni critiche riservate ad autori del Novecento e la nascita e lo sviluppo
della filologia d’autore, sono dati storici con cui la filologia italiana comincia a doversi confrontare. Si dispone ora
all’attenzione storica e filologica sia per quantità di dati su cui riflettere, che per la loro qualità, tanto da poter costituire
una sezione a sé nella ormai vasta offerta dei manuali di filologia italiana. Però è proprio la mancanza di una riflessione
adeguata sull’edizione di testi del Novecento è ancora oggi la causa principale di edizioni che non chiariscono al lettore le
motivazioni alla base delle scelte testuali operate dal curatore (quando c’è) o dalla casa editrice (quando si pubblica il
testo senza una nota al testo) sia per quanto concerne l’edizione scelta come “testo-basso”, che per le singole lezioni
adottate. Non bisogna dimenticare, infatti, che nella pratica editoriale dei testi del Novecento, se l’autore di un’opera è un
soggetto unico, l’autore della sua realizzazione editoriale un soggetto multiplo, che comprende almeno tre figure:
l’autore vero e proprio, il curatore della sua opera e il redattore che si incarica di seguirne tutti i passaggi redazionali,
dal dattiloscritto alla stampa. Ciò è vero in relazione a opere di scrittori viventi e di autori scomparsi; nel primo caso
perché ai grandi autori del Novecento viene dedicata una cura editoriale solitamente riservata agli scomparsi, e intorno
alla loro opera convivono curatore e redattore in collaborazione reciproca con l’autore; nel secondo caso perché il
curatore dell’opera di un autore scomparso, per operare le sue scelte testuali, dovrà ricostruire la storia editoriale dei testi
che si propone di curare. La riflessione sul concetto dell’ultima volontà dell’autore e la presenza di un soggetto multiplo
nella realizzazione editoriale dei testi del Novecento porta a dover prendere in esame, accanto alla “volontà dell’autore”,
anche le volontà, più o meno dichiarate, dei suddetti soggetti, tanto che non è un paradosso dire che la filologia del
Novecento, per chiarire le proprie ragioni e i propri metodi di lavoro, deve fare i conti anche con l’”ultima volontà del
curatore”, assimilando a questa categoria anche quella del redattore che, in assenza del curatore ufficiale di un’opera fa le
veci del curatore. Si pensi alla pubblicazione di singoli testi o opere in raccolta, in cui i testi abbiano avuto più stampe
vivente l’autore, per cui il curatore deve decidere quale stampa seguire, o quale impianto dare all’opera complessiva e in
quale edizione presentare i singoli testi.

LE “ PENULTIME” VOLONTA’ DELL’AUTORE

Attraverso gli archivi editoriale è ora possibile ricostruire la genesi e l’evoluzione dei testi attraverso tutte le varie fasi del
percorso editoriale: dal manoscritto, al dattiloscritto mandato in composizione, alle bozze in colonna, alle bozze
impaginate, alla stampa. Percorsi in cui l’autore interagisce continuamente con le figure editoriali demandate alla
realizzazione editoriale della propria opera: a partire dal tipografo, al correttore di bozze (o proto), al redattore, al
responsabile di collana, fino al direttore della casa editrice. La volontà dell’autore si esplica così, a diversi gradi, fino alla
pubblicazione del volume, atto con il quale tale volontà acquista un valore definitivo e irreversibile. Diversamente, in
tutte le fasi di redazione e di edizione, l’autore del Novecento manifesta volta a volta diverse volontà, diverse “penultime”
volontà, che possono o meno trovare una compiuta attuazione a seconda delle relazioni intessute con le varie figure
demandate alla realizzazione editoriale del testo. La fenomenologia degli interventi è molto varia e può essere utile
tentarne una classificazione, non solo per comprenderne meglio le varie fasi della redazione ed edizione di un testo, ma
perché tali interventi autoriali, così come non sono senza conseguenze nelle scelte testuali adottate in quella particolare
edizione, realizzata vivente l’autore, non solo nelle scelte che i successivi curatori dovranno fare in assenza dell’autore
stesso. Vale a dire che le soluzioni testuali adottare nell’edizione di testi novecenteschi, dipendono anche dalla
valutazione che il curatore farà di queste “penultime volontà dell’autore”, fermo restando che l’edizione di un testo
postumo è sempre il frutto di un compromesso tra volontà dell’autore e ultima volontà del curatore. C’è quindi una
possibile casistica degli interventi che l’autore del Novecento opera in tipografia, ovvero in quella fase di realizzazione
editoriale che va dall’invio del manoscritto alla correzione delle ultime bozze. Questa tipologia di interventi anche
riguardano qualsiasi intervento d’autore anche su edizioni successive alla prima. Possono essere, questi interventi: le
varianti d’autore, le correzioni di errori d’autore e le correzioni di errori di redazione.

VARIANTI D’AUTORE (1)

Comprende una tipologia di interventi molto comune e piuttosto varia, che spazia dalle varianti vere e proprie agli
incrementi testuali, alle espunzioni. Riguardano a questa prima categoria anche quelle tipologie correttorie sistematiche
volte a modificare il testo da un sistema linguistico a un altro, come la sostituzione costante che Moravia effettua negli
anni Cinquanta del fascista voi con il “liberato” lei; un intervento considerato come una vera e propria variante, anche se
va nella direzione della correzione di una “variante coatta d’autore”.
CORREZIONI DI ERRORI D’AUTORE (2)

La seconda categoria entra invece nel vivo del lavoro redazionale e riguarda la correzione di errori di cui l’autore si
accorge in corso di redazione e che interviene a modificare prima che il volume sia stampato (o che interviene a
correggere nelle successive edizioni). Si tratta di distinguere tra errori di sostanza ed errori di forma. Vi possono essere
infatti casi in cui il narratore si accorge di avere inserito nel testo delle palesi incongruenze, presenti sin dall’originario
manoscritto o dattiloscritto. Relativamente al Conformista dopo il finito di stampare emergono alcuni errori di sostanza
che potranno essere sanati solo dalla seconda edizione, del settembre 1951, che segue di pochissimi mesi la prima del
precedente aprile. Già nel giugno infatti, Moravia scrive a Bompiani inviando una nota degli errori da correggere in vista
della seconda edizione. Per esempio nel periodo in cui è ambientato (prima della seconda guerra mondiale), non si poteva
scrivere “durante l’altra guerra”, che viene prontamente corretto in “durante la guerra”: un errore d’autore che una
redazione attenta avrebbe potuto fargli evitare. Analogamente, era sfuggito a Moravia e alla redazione che si di un
personaggio si dice che non fuma non lo si può poco dopo mostrare mentre si accende una sigaretta, come accade nella
prima edizione. In qualche caso ci si trova di fronte a errori che sono insieme di sostanza e forma, come una citazione
sbagliata in cui un “aveva” al posto di “avea” muta il testo e contemporaneamente nel falsa la regolarità metrica.

CORREZIONI DI ERRORI REDAZIONALI (3)

Questa categoria riguarda invece gli errori introdotti da redattore o tipografo in fase di composizione del testo o di
impaginazione. Anche in questo caso di può trattare di errori di sostanza o di forma. Una vicenda editoriale molto
tormentata riguarda La romana. Dopo una complessa stesura, nel febbraio del 1947 il dattiloscritto viene mandato in
composizione. Qui la storia editoriale del volume subisce ulteriori complicazioni, in quanto Moravia consegna la sua
copia del dattiloscritto al regista americano (russo) Victor Stoloff, intenzionato a realizzare la riduzione cinematografica
del libro e chiede perciò a Bompiani di far trarre dal dattiloscritto giacente presso la casa editrice una copia per poter
iniziare a lavorare sulla sceneggiatura. Ma di fronte alla copia realizzata Moravia avanza subito numerose proteste. Per la
seconda edizione prepara quindi una copia con alcune correzioni che non vengono recepite dal testo, suscitando nuove
proteste; ma i problemi maggiori sorgono quando il volume entra nella collana delle “Opere complete”, nel marzo 1953
senza che all’autore fossero state inviate le bozze per una revisione. A parziale discolpa dei redattori e dei correttori, il
direttore editoriale Capasso così si pronuncia in una nota interna a Bompiani, nell’ottobre 1953 in cui dice di ricordare
che esistevano già errori nell’edizione normale e che non bisogna però dimenticare che Moravia è un cattivo correttore e
sicuramente esagerava. Comunque il libro sarà riletto con attenzione confrontandolo con la prima edizione. La protesto
moraviana suscita però un terreno editoriale. Dopo una lettera di scuse dello stesso Capasso a Moravia l’intero ufficio dei
correttori viene sostituito. Nonostante ciò sul testo della Romana finisce per accumularsi una notevole massa di variazioni
e refusi che continuano a circolare nelle edizioni tascabili, ristampate anche recentemente. Un caso particolare di errori
redazionali riguarda i fenomeni tipografici derivanti da una scorretta impaginazione del testo. È il caso infatti di Agostino,
la cui prima edizione del 1944 subito riedita da Bompiani un anno dopo, viene nuovamente pubblicata da Bompiani del
1953 nel Romanzi brevi, secondo volume delle Opere di Alberto Moravia, con varianti circoscritte sostanzialmente alla
consueta correzione del “voi” al “lei”, ma anche, proprio per un errore di impaginazione, con quattro capitoli anziché
cinque, com’era invece nella princeps. Nel volume, i capitoli non venivano introdotti da un titolo, o da un titolo corrente,
ma solo da una stacco di pagina. Quando il capitolo precedente terminava in pagina dispari, l’inizio del nuovo capitolo
era segnalato da una pagina bianca pari che precedeva l’inizio del capitolo stesso. Nelle edizioni successive si crea la
grottesca situazione di una doppia tradizione testuale: un gruppo di ristampe (1955, 1973, 1979, 1992) segue la forma del
1945 (con cinque capitoli e utilizzo del “voi”), un altro gruppo (1974, 1999) segue quella del 1953 (con quattro capitoli e
aggiornamento con il “lei”). Le conseguenze di questa doppia tradizione testuale in sede critica sono evidenti, fin
dall’impossibilità di capire a quale capitolo ci si riferisce di fronte alla citazione del capitolo primo di Agostino, che nel
secondo gruppo di ristampe comprende anche il capitolo secondo. La varia tipologia che abbiamo brevemente considerato
potrebbe essere incrementata da innumerevoli esempi, poiché non c’è autore del Novecento che non abbia riservato (a
parte rarissimi) una particolare attenzione alla macchina editoriale dei propri testi, intesa nei suoi aspetti redazionali, ma
anche commerciali, di produzione, lancio pubblicitario del volume, ecc. Si potrebbe dire che l’autore del Novecento, in
tipografia, diventa una sorta di curatore di sé stesso, ma anche di promotore, di agente letterario di se stesso. L’azione
dell’autore in tipografia, inoltre, non è senza conseguenze ecdotiche. Di fronte, per esempio, a errori d’autore palesemente
riconosciuti come tali e subito corretti in una successiva edizione, il curatore che avesse inizialmente deciso di dare a testo
la prima edizione di un’opera, può considerare invece più valida e quindi degna di essere messa a testo la seconda
edizione, soprattutto se, come si è visto nel Conformista, segue la prima di pochissimo tempo. Si apre uno scenario
complesso, in cui le “penultime volontà dell’autore” si scontrano con l’”ultima volontà del curatore”, che, soprattutto nel
Novecento, diventa, al pari dell’autore, il vero protagonista della vita editoriale e tipografica del testo.
L’ULTIMA VOLONTA’ DEL CURATORE – AUTORITA’ DELL’AUTORE E AUTORITA’ DELLA STAMPA

Prima di analizzare alcune edizioni campione della prassi filologica ed editoriale dei testi italiani del Novecento, si getta
uno sguardo a “un altro pianeta”, e in particolare al mondo anglosassone, dove le riflessioni sull’”ultima volontà
dell’autore” e gli studi di bibliografia testuale annoverano una cospicua tradizione e in un’indiscussa autorità. Dalla
filologia del cantiere shakespeariano, e sulla base dell’autorizzazione del 1939 di R.B. Mckerrow, ha preso piede infatti in
Inghilterra la teoria di W.W Greg sulla pubblicazione di un “testo eclettico” (teoria del copy-text), ovvero un testo che
segue alcuni testimoni per la forma e altri per la sostanza. premesso che per quanto riguarda l’edizione critica di un testo a
stampa, le circostanze della trasmissione in tipografia fanno sì che il risultato talora diverga rispetto alla volontà
manifestata dell’autore. In particolare la ristampa di un testo può introdurre cambiamenti che migliorano la sostanza e
simultaneamente si allontanano dalla prima stampa nel rispetto della forma, ne discende la distinzione di Greg tra
“accidentali” (in assenza di una revisione dell’autore la base dell’edizione critica è il testimone più vicino all’autografo,
cioè la prima stampa considerata come più genuina) e “sostanziali” ( per cui si segue il testimone più autorevole, che in
caso di ristampe coincide con l’ultima stampa vivente l’autore). Il risultato è una contaminazione tra la struttura di un
testimone e la forma di un altro, soluzione che, dalla filologia shakespeariana viene poi applicata a molti altri testi della
tradizione letteraria inglese. La soluzione di Greg produce un testo mai esistito storicamente, ma che risponde meglio di
ogni altro all’intenzione dell’autore. Si tratta di una pratica filologica molto diversa da quella in uso in Italia, dove una
siffatta evoluzione editoriale verrebbe considerata inaccettabile in quanto contaminatoria di due fasi editoriali differenti.
Un evidente dimostrazione del diverso approccio della scuola filologica nostrana, alinea per tradizione della
contaminazione e invece propensa a riconoscere l’imponenza testuale dei testimoni, il loro prestigio storico, oltreché
storicamente non ostile agli apparati. In assenza di coercizioni esterne o di censure l’opera licenziata dall’autore reca il
suggello della sua ultima volontà, la cui autorità può essere superata solo da un successiva stampa che si sostituisca alla
precedente nella rappresentazione di un’ulteriore volontà dell’autore. Tra autorità dell’autore e autorità della stampa,
nella teoria e nella prassi filologica anglosassone, il peso scientifico della prima è assolutamente preponderante, tanto da
giustificare l’emendazione del testo stampato nei luoghi che siano riconosciuti come non dovuti alla volontà dell’autore.
Ciò provoca un aumento del ruolo e dell’importanza dell’editore critico, che viene investito di un compito tanto oneroso
quando onorevole e autorevole: la costituzione del testo. Gli elementi di debolezza di questa impostazione sono
l’astoricità del risultato, la contaminazione di due livelli del testo interconnessi, la difficoltà di ricostruire la reale
ricezione del testo e hanno cominciato a penetrare anche nel mondo anglosassone. Sul versante teorico si pone la critica di
J. McGann che ha sottolineato come il criterio dell’ultima volontà dell’autore derivi dalla filologia classica, volta alla
ricostruzione dell’”originale perduto”, impropriamente estesa alla filologia moderna, dove l’originale è, al contrario,
spesso posseduto in diverse redazioni, e la principes è seguita da diverse ristampe sorvegliate dall’autore, da cui la
necessità di ricostruire le varie versioni dello stesso testo e le diverse volontà che le hanno determinate.

PRO E CONTRO L’ULTIMA VOLONTA’ DELL’AUTORE

Questo “valore aggiunto” attribuito ai testimoni a stampa della scuola filologica italiana non è senza conseguenze nella
prassi testuale, per la dialettica che porta a instaurare tra “prestigio storico dei testimoni” (inteso come scelta di una
diversa stampa del testo) e l’”ultima volontà dell’autore”. Negli ultimi vent’anni si è assistito a una messa in crisi del
principio secondo cui la decisione sul “testo-base” deve conformarsi all’ultima volontà dell’autore. Anche in uno dei
manuali più accreditati, quello di Armando Balduino, in cui dice che fermo restando che fine consueto dell’edizione
critica è il recupero di un testo nella sua veste definitiva, ci sono pure occasioni nelle quali deroghe dalla norma possono
risultare opportune, e persino consigliabili. Balduino riporta il caso di un editorie che volesse ripubblicare le Prose della
volgar lingua e che, scegliendo come testo base la princeps del 1525 rispetto alle due ristampe del 1538 e del 1549
avrebbe un comportamento fuori norma, ma offrirebbe ai nostri studi vantaggi di assoluto rilievo, in quanto è indubbio
che storicamente il testo che più conta è proprio quello della princeps. Altre tre situazioni, secondo lo studioso,
consentono una deroga alla norma: i casi in cui la redazione finale rifletta un marcato e deviante processo involutivo
dell’autore stesso; i casi in cui le opere dello scrittore già risultino facilmente accessibili; e i casi in cui appaia giustificata
una più diretta considerazione in progress dei testi, ognuno dei quali portatore di lezioni considerate come valide sia pure
temporaneamente. Si tratta di un argomento tutt’altro che concluso e di una riflessione in costante evoluzione, ma che
porta alla luce le ragioni ultime della filologia, non solo del Novecento. Riflettendo sul concetto di “ultima volontà
dell’autore” in relazione a testi del Novecento che abbiamo avuto una o più edizioni vivente l’autore, si possono
enucleare:

1. Gli elementi a favore o contro l’adozione dell’ultima volontà dell’autore per stabilire il testo di riferimento,
ovvero il testo-base
2. I criteri da seguire, una volta stabilito il testo-base, per rispettare l’ultima volontà dell’autore riguardo alle singole
lezioni

Si crede infatti che i due momenti in cui il curatore si confronta con l’ultima volontà dell’autore, l’assetto testuale della
pubblicazione dell’opera e l’intervento sulla lezione adottata, vadano affrontati separatamente. Il primo pertiene all’idea
di sé e della propria opera che l’autore ha manifestato o meno nel corso della propria esistenza attraverso un piano
editoriale, realizzato o solo ipotizzato, e la forma in cui l’ha consegnata definitivamente ai suoi lettori. La scelta testuale
del curatore è individuale e molto delicata perché riguarda una nuova immagine dell’autore e dell’opera che
necessariamente viene a costituirsi con la nuova edizione. Il secondo riguarda invece la prassi editoriale relativa alle
singole lezioni del testo, e coinvolge problemi di ordine linguistico, grafico, tipografico, relativi alla lingua e allo stile
dell’autore in esame, ma anche in certa misura generalizzabili. Gli elementi a sostegno dell’ultima volontà dell’autore si
appellano generalmente a tre motivazioni:

a) MOTIVAZIONE AUTORIALE: invoca il rispetto delle scelte personali dell’autore, un sentimento comune così
diffuso da imporsi facilmente anche in campo editoriale. L’ultima volontà sembra consegnare ai lettori un’opera
più vera

b) MOTIVAZIONE STORICA: sostiene che l’impostazione diacronica offerta dall’ultima lezione di un’opera
permetta di ricostruire meglio la storia del testo e di inserirlo in un percorso storico. L’ultima volontà sembra
consegnare al lettore un’opera più utile a comprendere l’autore e l’opera stessa

c) MOTIVAZIONE CRITICO-EVOLUZIONISTICA: posto che dalla prima forma all’ultima l’opera muove verso
uno stadio più evoluto, ne discende un giudizio critico implicitamente più favorevole all’ultima stampa rispetto
alle precedenti. L’ultima volontà dell’autore sembra consegnare un’opera più valida. Questi elementi possono
essere ribaltati in altrettanti di segno opposto:

a. MOTIVAZIONE AUTORIALE: non sempre l’ultima volontà riflette il più vero pensiero dell’autore.
L’imponenza testuale della prima stampa risiede nel valore che essa è attribuito all’autore, che vi affida la
propria idea di sè e della sua opera

b. MOTIVAZIONE STORICA: la prospettiva storica è meglio valutabile considerando il percorso in senso


diacronico, dalle prime stampe alle ultime, e solo il confronto tra esse può offrire informazioni storicamente
accertabili sulla lingua e lo stile dell’opera, altrimenti appiattito su un’immagine sincronica finale. La prima
tappa permette inoltre di valutare meglio la “ricezione critica” dell’opera e di riconoscerne la “tradizione”
cioè il suo impatto nel sistema letterario

c. MOTIVAZIONE CRITICO-EVOLUZIONISTICA: la presunta evoluzione verso una forma migliore


dell’opera è una mistificazione: non sempre le ultime stampe sono le migliori. È facile vedere come la
questione possa essere impostata tanto a favore quanto contro l’una o l’altra soluzione, a seconda dei casi, da
cui l’impressione di una sorta di “pirronismo filologico”, che oltre a contribuire all’approssimazione della
disciplina, così come non è raro veder praticato in edizioni anche prestigiose e a non permettere una
riflessione comune sui metodi e le finalità del lavoro filologico, non corrisponde alla verità dei fatti.

QUALI TESTI PER QUALI LETTORI? - IL TESTO/I DELL’AUTORE

La messa in crisi degli ultimi vent’anni del concetto di “ultima volontà dell’autore” non è stata senza conseguenze. Se nei
primi anni Novanta si poteva affermare che il prestigio dell’ultima stampa poteva all’occorrenza essere messo in crisi e,
nel decidere quale edizione “mettere a testo”, il filologo partiva dalle ragioni dell’ultima volontà dell’autore, per vagliarle
e metterle in discussione, nell’ultimo decennio è stato possibile assistere al percorso contrario: ci si è domandato quale
lezione fosse meglio presentare al lettore per quella particolare edizione. Il primum non è più stato l’ultima volontà
dell’autore ma il riconoscimento di molteplici volontà che egli ha esplicato in momenti diversi del suo percorso poetico.
Due esempi canonici e opposti sono Ariosto e Tasso. Non ha certo messo in discussione l’edizione del 1532 dell’Orlando
furioso la messe di studi sulle varianti della prima (1516) e soprattutto della seconda edizione (1521). Ma questa
ricchezza di analisi critiche ha permesso nel 2006 a Dorigatti di dotare gli studiosi di un’edizione scientifica della
princeps che per la prima volta mettesse al centro del discorso la prima lingua del Furioso. Altri due esempi di testi
d’autore dagli esiti diversi: Leopardi e Manzoni. L’intoccabilità della Starita corretta (l’ultima stampa dei Canti del 1835)
non ha impedito di restituire una fisionomia autonoma alle Canzoni del 1824, il primo vero libro di poesie pubblicato dal
ventiseienne Giacomo, significativamente dedicato all’astro ancora sfolgorante di Monti, o all’identità prismatica e
ancora sfuggenti dei Versi del 1826. E così anche Manzoni. Negli ultimi dieci anni di filologia manzoniana si è messo a
fuoco un percorso tutt’altro che lineare, scandito da stazioni mobili, rappresentate dal testo pubblicato nel 2006.
Ovviamente, il prestigio storico della Quarantana non è messo in discussione, ma non si parte più dal primum (studio
delle versioni precedenti per verificare gli acquisti della mirabile lingua manzoniana); vi si arriva in un gradus ad
Parnassum che riconosce dal Fermo e Lucia agli Sposi Promessi (seconda minuta), alla Ventisettana, gli aggregati storico
linguistici di un continuum narrativo che ribalta i luoghi comuni sulla lingua manzoniana. Se ne concluse che non si
tratta di aporie insolubili, o al contrario di soluzioni tutte egualmente praticabili, ma di scelte da operare a seconda dei
destinatari del testo, senza tuttavia perdere di vista la sua identità.

IL TESTO DEL LETTORE COMUNE

C’è un testo per il lettore non specialista, e uno per lo specialista? Il dibattito degli ultimi anni ha posto all’attenzione di
tutti la necessità di salvaguardare la leggibilità dei testi ad ampia divulgazione e contemporaneamente la loro storicità,
istituendo, a partire dalla discussione intorno all’edizione due binari paralleli: il testo per il lettore comune e quello per il
lettore specialista. Un testo da leggere per divulgare e un testo da studiare scientificamente, ovvero dotato di quegli ausili
indispensabili per lo studioso e non indispensabili per il lettore comune. Di questo ultimo punto, però è stata data
un’interpretazione più massimalista o più minimalista. In alcuni casi, infatti, il testo per il lettore comune è stato inteso
come un testo “semplificato” (Cortigiano/Cortegiano), in altri l’intervento di semplificazione ha riguardato solo aspetti
tecnici (eliminazione degli apparati, ma conservazione di tutte le scelte ecdotiche che fanno di quel testo un “testo
critico”). Le ragioni della scelta minimalista sono l’allestimento di un’edizione critica, che non è un divertimento per i
filologi, ma un lavoro sul testo che permette di conoscerne la tradizione manoscritta e a stampa e, attraverso di essa, lo
faccia leggere nella forma più vicina alla volontà dell’autore oppure, quando le volontà siano più di una, in un’edizione
che segua una di queste volontà, a seguito di una motivata e documentata scelta. L’edizione critica stabilisce un testo
critico che potrà essere fatto conoscere al lettore in versione scientifica, ovvero corredato di tutti gli ausili utili per il suo
studio scientifico, oppure in un’edizione per il lettore comune, a cui si deve consegnare il testo critico ma che, non
dovendo necessariamente farne un uso scientifico, potrà limitarsi alla sua lettura, magari corredata di un commento o
commentario, per facilitarne la comprensione. Se poi vorrà approfondire le ragioni del curatore potrà farlo procurandosi
l’edizione critica nella sua versione scientifica. Però ci sono testi e testi. Vi sono casi infatti, in cui i cosiddetti “ausili
tecnici” sono strettamente legati al lavoro di costituzione del testo critico, e per così dire consustanziali a esso.
Un’edizione tascabile del Fermo e Lucia, ad esempio, non potrà riprendere l’intero apparato genetico ed evolutivo, ma
non potrà essere pubblicata priva degli elementi intrinsecamente costitutivi del testo, vale a dire: varianti alternative e
varianti dubbie, le prime aggiunte al testo (prima del suo riutilizzo come base del lavoro per la seconda minuta) senza che
Manzoni riuscisse a decidere se cassare o meno la lezione base, le seconde risultanti dalla correzione tardiva del testo in
posizione ambigua e con grafia indecidibile, tanto da non sapere se attribuirle all’ultima revisione del Fermo e Lucia o
alla prima revisione degli Sposi Promessi. Da cui la scelta obbligata di documentarle a piè di pagina,, precedute da una
freccia bidirezionale: movimento che ripete quello del testo, dalla sua incerta fisionomia iniziale verso il suo esito finale,
nell’intreccio tra la scrittura della prima redazione, fisicamente intricata e avviluppata con quella della riscrittura.
Pubblicare in un’edizione tascabile il solo testo, privo di questi due ausili tecnici e linguistici, vorrebbe dire dare al lettore
la falsa idea che il Fermo e Lucia sia un testo definitivo, stabile e compiuto. C’è poi un altro problema: se è vero che il
lettore va educato alla storicità del testo, e all’incontro con quelle diversità che è sempre costituita dalla letteratura, è
altrettanto vero che tale educazione va di pari passo con la sua competenza testuale. Vale a dire che ciò che sembrava
ostico e respingente una decina di anni fa, diventa ora decisamente tollerabile perché in linea con l’evoluzione della
lingua di comunicazione. Proprio per la scelta linguistica trecentesca imposta nel Cinquecento, la vera difficoltà per una
moderna comprensione del testo non è tanto costituita dalla sua forma grafico-fonetica, ma dalla sintassi boccacciana
della prosa, e dalla grammaticalizzazione delle forme poetiche petrarchesche. Il lettore di oggi, quindi, se da un lato mette
inconsapevolmente in atto le stesse misure di semplificazione e abbreviazione linguistica adottate nel Trecento ed è in
grado di dominarne perfettamente le innovazioni grafiche, dall’altro ha perso sempre più il dominio del testo scritto nelle
sue strutture sintattiche e retoriche.

IL TESTO DEL LETTORE “SCIENTIFICO”

Che testo studia chi studia letteratura? Quando se lo domanda il lettore di professione, che potremmo chiamare “lettore
scientifico”, sa che non sarà mai soddisfatto ne sazio di ogni ausilio che editore e curatore avranno predisposto per
approfondire la sua comprensione del testo. Il lettore scientifico può tranquillamente digerire apparati e varianti, note al
testo e postfazioni. Sarà lui stesso eventualmente a selezionare quanto serve alla sua tesi e alle sue dimostrazioni, a
scorrere velocemente un apparato, o a soffermarsi con quella lentezza di lettura che dà sempre i maggiori risultati
nell’analisi di un testo, a raffrontare la propria idea critica con quella che viene presentata dal curatore nell’introduzione e/
o postfazione. Qualsiasi sia la lettura critica e l’attenzione alle strutture formali del testo, il lettore scientifico sa che,
almeno dalla metà del secolo scorso, non è più possibile considerare il testo se non come un organismo in movimento
“sullo scrittoio dell’autore e nel viaggio che esso intraprende nel mare della ricezione e dell’interpretazione”.
“Organismo” perché dotato, rispetto a uno stadio testuale raggiunto, di una genesi e di un’evoluzione. “In movimento”
perché inserito nella geografia e nella storia del contesto culturale che l’ha prodotto. Ciò vuol dire avvalersi di tutti gli
strumenti che gli permettono di definire in modo più preciso il testo come “organismo in movimento”. E quindi di
integrare un approccio storico-critico, con un’analisi storico-linguistica e una metodologia storico-filologica. In questo
quadro, filologia d’autore e filologia dei testi a stampa si completano a vicenda: la prima per l’insostituibile
addestramento a una lettura lenta e dinamica del testo che impone la ricostruzione e interpretazione della sua genesi, la
seconda nell’intreccio con la storia della cultura, delle istituzioni, dell’editoria, della ricezione critica. È ovvio che né
l’una né l’altra sono immuni dalle degenerazioni del filologismo. Si tratta solo di cercar di fare bene il proprio mestiere.
Con una distinzione importante per i testi editi e per quelli inediti. Lo studio di un testo edito, infatti, può avere un utile e
a volte indispensabile completamento con la conoscenza dei cosiddetti “avantesti”, che illuminano il lettore scientifico
sulla poetica alla base della progettualità del testo. Capire da quali idee è nata un’opera letteraria è un fatto determinante
nella comprensione della sua struttura e della sua forma linguistica e stilistica. Lo studio dei testi inediti è di evidenza più
immediata e banale: studiare e pubblicare i manoscritti inediti dei nostri scrittori non è una violenza fatta alla loro volontà,
che avrebbe potuto facilmente esplicarsi in una distruzione rapida e volontaria di tutti gli scartafacci, ma una forma di
approfondimento della conoscenza delle loro opere.

IL TESTO E LA FILOLOGIA D’AUTORE

Che la nostra letteratura possa disporre, tra l’altro, sin dalle origini della nostra tradizione lirica del percorso diacronico e
autografo di uno dei suoi testi capitali, e che su di esso si basi una delle più acute ricostruzioni storico-critiche delle forme
poetiche, nelle linee correttorie seguite dal codice degli abbozzi al VL 3195, rende questa disciplina particolarmente
adatta alla lettura e l’interpretazione dei suoi testi. È un privilegio che ci dota di strumenti, ma anche di responsabilità
metodologica. Il problema non è tanto l’opportunità o meno di studiare gli autografi della letteratura italiana di testi editi e
pubblicare testi inediti, ma è casomai la difficoltà di una rappresentazione razionale e selettiva delle correzioni d’autore.
Proprio la quantità e la straordinaria qualità degli autografi d’autore conservati per la nostra tradizione letteraria ha posto
la filologia d’autore all’avanguardia negli studi di settore. Non già monumentali e costosissimi volumi di riproduzioni
fotografiche e semi-diplomatiche, ma interpretazioni diacroniche nel testo, con puntuale indicazione della tipologia delle
varianti, la loro suddivisione in genetiche ed evolutive, a seconda della lezione che si mette a testo, distinzione della
varianti vere e proprie delle lezioni alternative, la separazione dal testo manoscritto di tutto ciò che è metatesto e sua
rappresentazione separata in luogo a parte, funzionale e discreto. Ce n’è abbastanza per rendersi conto che apparati
illogici e ridondanti non sono che il frutto di una filologia della domenica, fatta per dotare il proprio curriculum
dell’ennesima, inutile edizione critica. Un metodo per rappresentare le correzioni d’autore in modo diacronico e
funzionale alla critica c’è. L’ha inaugurato per primo Francesco Moroncini, un professore di scuola superiore di Recanati.
Per imparare a rappresentare le correzioni di un manoscritto ci vuole solo molta pazienza, un buon metodo e molto buon
senso.

TESTI ANTICHI E MODERNI

Sarebbe troppo facile osservare che il valore degli avantesti e lo studio delle varianti si giustificano per i grandi e
sconfinano nell’esercitazione superflua e feticista per i minori e i minimi. Nessuno sano di mentre proporrebbe, per
esempio, nell’ambito di un progetto europeo, la puntuale catalogazione delle varianti delle varie ristampe di Va’ dove di
porta il cuore, così come risulta un po’ ridicolo e auto-promozionale il dono ai vari Fondi manoscritti dei propri preziosi
autografi da parte di autori non ancora conosciuto nel mondo letterario, e già pronto ad assoldare squadre di sciagurati
dottorandi da indirizzare allo studio e alla catalogazione delle loro varianti… I minori o minimi però vanno studiati e non
feticizzati, inquadrati nella storia della nostra letteratura, nella storia degli intellettuali, che è storia fatta anche di minori e
di minimi ma l’attenzione che si deve loro non può, non deve essere metodologicamente diversa da quella che si riserva ai
grandi. E poi, la filologia d’autore (fatta male) del Novecento non ha prodotto più disastri di quanti ne abbia fatti la critica
marxista, semiotica, psicanalitica, stilistico-metrica, strutturalista (fatta male) sugli autori (novecenteschi e non), grandi,
minori e minimi. Gli esempi, sarebbero molti, ma non utile l’individuazione dei “peccatori”. Non si tratta di “peccati” in
relazione alle “buone pratiche” della filologia e critica, ma solo di tempo di lavoro che ciascuno di noi investe. È un
peccato invece che rimangano ancora così tanti testi, autori, ambienti culturali, istituzioni, accademie, biblioteche, scuole
e idee, progetti culturali e programmi scolastici su cui non sappiamo nulla, mentre i repertori bibliografici registrano un
diluvio di contributi puntiformi sui tre/quattro autori che per ogni secolo si disputano gran parte del tempo e delle energie.
Non si tratta di dedicare il proprio tempo all’antico (difficile e commendevole) piuttosto che al moderno (facile e
sconsigliabile). Non c’è differenza di valore. Se non è rara la tipologia di studiosi di Medioevo e Rinascimento con
sporadici, ma vivaci interessi per la cosiddetta “critica militante”, è più raro trovare studiosi di Ottocento e Novecento che
iniziano un percorso di studio diverso, sia per l’oggettiva difficoltà linguistica e stilistica, che per una diffusa sensazione
di inadeguatezza. Chi studia la modernità letteraria sa che la relativa vicinanza storica è solo un’apparente facilitazione
della ricerca scientifica, perché fornisce una quantità di dati incomparabilmente maggiore da trattare, selezionare,
interpretare. Se la nostra letteratura ha esaurito il suolo di avatar di una nazione che non c’era e quello di pilastro della
scuola postunitaria, resta quel valore riconosciutoci da fuori di casa, e che spesso non ci ricordiamo di avere: la forte
identità che la civiltà italiana da saputo esprimere nella creazione e nella elaborazione delle forme culturali dal Medioevo
al Rinascimento e oltre, nell’interazione continua con la storia della civiltà europea e cosiddetta “occidentale” e ora col
resto del mondo, con la società globale. È un’identità che va ancora riconosciuta e protetta per rafforzare quel senso di
appartenenza, di riconoscimento dei fondamentali della cultura, che viene ricostruita anche dagli studi sui minori e
minimi, sugli antiche e sui moderni, per educare le nuove generazioni, attraverso la lettura paziente dei testi al valore
della nostra identità culturale come strumento di difesa del libero pensiero e della democrazia. E infine, finché la lettura è
avvenuta esclusivamente su supporto cartaceo, una scelta tra testi, lettori, letture e una riflessione sulla prima o ultima
volontà dell’autore sono state necessarie, non potendosi rappresentare le altre volontà che in apparato, per evitare la
moltiplicazione degli enti, ma ora che la lettura dei testi avviene e avverrà sempre più su supporto digitale, dove non c’è
limite di spazio, non esiste la linearità della lettura e l’intangibilità del testo, si tratta di porsi, con l’esperienza e gli
strumenti della vecchia filologia, nuovi problemi, per new real readers.

APPUNTI 17/04

L’opera “Centolettori” pubblicato da Einaudi comprende una serie di valutazioni e lettere sulle opere romanzesche negli
anni successivi al 1945 e rappresentano il primo rapporto tra lo scrittore e l’editore.

1) Lettera di Pavese riguardante “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino, in cui individua stonature e aspetti positivi

2) Lettera di Vittorini in risposta alla proposta di Franco Guicciardini di un gruppo di racconti. Dice che non si può
pubblicare il libro con le tre storie (la prima storia è così così, la seconda è bella, mentre il terzo fa schifo); dice
che c’è un buon potenziale, da tenere legato alla casa editrice Einaudi. Il rapporto con l’editore smobilita il
progetto dell’autore, che però accetta di rinunciare a due racconti (che fioriranno più tardi) e accetta di pubblicare
nella collana “Gettoni” di Vittorini. Nello stesso anno (1949) Vittorini riguarda una proposta di Calvino per “Il
bianco veliero” e ne rimane perplesso per i personaggi. È preoccupato se pubblicare o no, perché essendo Calvino
già un autore d’esordio, la responsabilità cadrebbe solo su di lui; al contrario se l’autore era poco conosciuto, tutta
la responsabilità ricadrebbe sulla casa editrice che avvalora lo scrittore. Vittorini gli consiglia di riscriverlo
meglio, ma alla fine non sarà mai pubblicato.

3) Lettera di Carlo Muscetta a Pavese che gli manda il libro di Giorgio Rimanelli “Tiro al piccione”, basato
sull’esperienza della guerra per avere un parere d’autore. Muscetta è dell’idea che si deve pubblicare, si deve dare
importanza al libro per la bravura dell’autore nel correggere le pagine morte. Un argomento così scottante sarà
letto parecchio, dice Muscetta; mentre Pavese è dell’idea che il libro pecca di sentimentalismo per le scene di
guerra e atrocità, è quindi dell’idea di dargli una bella pulita di queste scene. Il romanzo alla fine non è pubblicato
(Calvino non voleva), verrà pubblicato in una collana minore.

4) Caso di Fenoglio, cui manda a Vittorini il romanzo “La paga del sabato” affinché lo legga e gli dica cosa pensa.
A Vittorini non piace, è troppo cinematografico e ne ribadisce i difetti. Gli piacciono però i racconti e gli propone
di pubblicare (1952) un volume con racconti scelti tra guerrieri e borghesi e gli propone un titolo diverso. Il
romanzo sarà poi pubblicato nel 1969.

In caso di ostacoli a conoscere ciò che propone l’ultima volontà dell’autore si prende il libro stampato come punto di
riferimento. Il problema è che si modifica in modo più sostanziale l’ultima volontà dell’autore nei testi novecenteschi,
rispetto al passato. Si innesta il progetto editoriale che decide le correzioni e segnala le sviste.

STRUTTURE E FORME DELLE EDIZIONI DEI TESTI (CAPITOLO 2)

L’esigenza di produrre per un pubblico più ampio fa sì che in tipografia qualcuno legga il manoscritto e lo prepari per
diventare libro. Si è detto, che durante il Novecento la mediazione tipografica si fa più intensa. L’editore giudica la qualità
del libro, può dare condizioni all’autore e sollecitare aggiustamenti in vista del successo nella vendita. In altri momenti ci
sono state condizioni ideologiche, un esempio è la cada editrice Einaudi che era dell’orientamento di sinistra. Per esempio
Vittorini dava giudizi condizionati da ciò, cioè approvava progetti che erano in accordo con questa idea e
secondariamente chiedeva aggiustamenti.
LE STRUTTURE: CONSERVAZIONI E RICOSTRUZIONI

Non pochi autori, giunti a una fase matura della propria carriera letteraria (e non necessariamente alla fine della
medesima, es casi di Palazzeschi e Moravia), hanno promosso e seguito direttamente una ricomposizione della propria
produzione letteraria in un progetto di riedizione delle proprie opere, una parte di esse o la totalità, in un’edizione
OMNIA che alcuni sono riusciti a completare e per altri è rimasta incompiuta. Si è quasi sempre affiancata la revisione e
in alcuni casi una vera e propria riscrittura dei singoli testi. Per questi autori ci si trova quindi di fronte a una sorta di
macrotesto complessivo che assorbe e supera i testi precedenti. Accade ancora che volumi usciti molti anni prima in
tinture limitate ed edizioni poco conosciute siano stati ripresi dall’autore, con nuove edizioni, all’interno di un progetto
editoriale complessivo; o infine che la ricostruzione dell’opera porti alla pubblicazione di testi giovanili rimasti inediti per
anni. Se però da una parte questi edizioni “finali”, facenti parte di un progetto d’autore, sono considerate “un’ultima
volontà” non difficilmente superabile, dall’altra esse possono riflettere un’idea di sé e della propria opera che può
“appiattire sincronicamente e uniformare linguisticamente e stilisticamente” le diversità tra le opere precedenti. In questi
casi, il conetto di “ultima volontà dell’autore” entra in crisi poiché porta a ipotizzare una serie di volontà diverse che
rispecchiano l’evoluzione dell’autore. Tale distinzione viene affrontata anche dallo stesso Tanselle quanto parla di opere
in cui esiste più di “un’ultima” volontà dell’autore: quando l’autore in una fase avanzata della sua carriera, revisiona
ampiamente un’opera portata a termine anni prima perché egli ritiene di poterla migliorare artisticamente. Sul quadro
della tradizione testuale del Novecento tracciato da Claudio Vela per la Storia della Letteratura Italiana della Salerno
editrice, dove i criteri di selezione portavano a privilegiare gli autori “della cui opera parziale o totale esistano edizioni
critiche o filologicamente sorvegliate o insomma di fondamentale riferimento”. Ci si occuperà quindi anche di edizioni
critiche e per la relativa esiguità di tali edizioni in autori del Novecento, che costituirebbero un campo di osservazione
troppo ristretto per poter avanzare qualche considerazione generale. Una prima distinzione possibile riguarda i casi in cui
si sia conservato quel “progetto d’autore”. In questo caso il curatore si deve confrontare con un’ultima volontà
storicamente determinata, rispetto alla quale può decidere di conservare il progetto d’autore, rispettandone in tutto e per
tutto le indicazioni, o di seguirlo solo in parte. Quando invece l’autore non abbia lasciato nessuna indicazione, il curatore
si trova a dover scegliere il criterio ecdotico che meglio si adatti all’opera da pubblicare, e procedere secondo una
distinzione di genere, oppure ricostruire il percorso cronologico dei testi. O ancora, potrà cercare di ricostruire
storicamente il progetto d’autore.

CONSERVAZIONE DEL PROGETTO D’AUTORE

Si tratta di una situazione abbastanza diffusa, e che annovera casi celebri, come Montale e Ungaretti, in cui il progetto di
ricomposizione della propria opera viene realizzato direttamente dall’autore con il curatore scientifico. La situazione delle
poesie di Ungaretti è emblematica e rappresentativa di un’ultima volontà dell’autore manifestatasi a tappe, ma
concretatesi definitivamente in due edizioni onnicomprensive della propria opera che rappresentano il ne varietur della
tradizione testuale della produzione ungarettiana: il lungo e tormentato percorso delle due raccolte l’Allegria e Il
Sentimento del tempo, viene concluso dall’edizione mondadoriana del 1942-45, voluta e sorvegliata dall’autore. Dei tre
volumi, assegnati alle prime due raccolte (citate), il terzo viene dedicato alle Poesie disperse e provvisto di un dossier
delle varianti a stampa curato e commentato da Giuseppe De Robertis. Un caso eccezionale in cui tradizione testuale e
critica venivano strettamente interconnesse dallo stesso autore è Vita D’un uomo. Tutte le poesie, curata nel 1969
raccoglie le due principali raccolte nella veste editoriale del 1942-45 e vi aggiunge nelle ultime edizioni Il Dolore, La
Terra , Promessa, Un Grido e Paesaggi Il Taccuino del vecchio, ecc. e le Poesie Disperse (ovvero pubblicate tra il 1915 e
1927 e non comprese nelle edizioni definitive dell’Allegria e del Sentimento del tempo), mentre in una sezione a parte,
Altre poesie ritrovate, di cui vengono recuperati 7 testi. Diversa, la scelta delle curatrici delle due edizioni critiche del
1982 (l’Allegria) e del 1988 (Il Sentimento del tempo), dove come testo-base non è stato scelto quello dell’edizione
mondadoriana del 1942-45, riprodotta nei tre “Meridiani”, ma, la seconda edizione Vallecchi del 1919 dell’Allegria e la
redazione iniziale di ogni componimento per il Sentimento del tempo. Si ritrova la principale messa in crisi del principio
dell’ultima volontà dell’autore. Il ventaglio di proposte alternative che le edizioni critiche hanno provocato ben riepiloga
la delicata soluzione di ogni messa a testo da parte del curatore. Postumo ma basato su precise indicazioni d’autore, è il
volume che raccoglie sempre per Mondadori nel 1974 le prose: Vita d’un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario
Diacono e Luciano Rebay. Restano fuori dal piano dell’opera gli scritti d’arte e gli scritti anteriori al 1912, finora
irreperibili. La situazione di Montale non è molto differente. Primo e finora unico autore ad aver visto in vita la
pubblicazione dell’edizione critica della propria opera omnia nel “Millennio” Einaudi del 1981, egli si fa esecutore
indiretto della propria volontà attraverso quella dei curatori Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini. Nell’Opera in versi è
offerto al lettore “tutto il Libro poetico di Montale, formato per addizione dei libri precedenti”. Il volume presenta quindi
una struttura e una lezione ne varietur dei testi, configurandosi come “libro d’autore” piuttosto che come “operazione
editoriale”. Degli Ossi di Seppia per desiderio dell’autore viene messa a testo la seconda edizione (Torino 1928) e non
l’ultima (Lanciano, 1931) con l’ordine della princeps del 1925. I dubbi sull’autografia dei testi, sollevati in particolare da
Dante Isella nel 1997, hanno aperto un acceso dibattito che tocca vari problemi: dal rapporto tra l’autore, il curatore e la
sua opera alla crisi dell’autorialità nella letteratura del Novecento. Completamente postuma è la raccolta della vasta
produzione narrativa, saggistica e giornalistica del poeta: Prose e racconti (1995) e i due volumi di prose giornalistiche:
Prose 1920-1979 e, selettivamente di quelle specializzate Arte, musica, società (1996). Le edizioni dei Versi della vita di
Giovanni Giudici e delle Poesie e prose scelte di Andrea Zanzotto, pur non essendo edizioni critiche, possono essere
considerate topologicamente simili all’edizione montoliana dell’Opera dei versi, dove l’ultima volontà dell’autore è
tutt’uno con quella del curatore. Rodolfo Zucco, che firma la Nota all’edizione, dichiara di avere seguito il testo della
raccolta garzantiana di Tutte le poesie (1953-1991), definitivamente stabilita dal poeta, per i volumi da Vita in versi a
Fortezza, e di ripubblicare le ultime tre raccolte posteriori al 1991. Stefano Del Bianco, curatore della sezione poetica del
“Meridiano” di Zanzotto, ordina le raccolte secondo le date delle prime edizioni, con l’eccezione dei Versi giovanili,
pubblicati nel 1970 con il titolo A che valse? (versi del 1938-42). La scelta di presentare la produzione di Zanzotto in
ordine cronologico porta il curatore ad anticipare “A che valse?” rispetto al corpus della restante produzione. Se ne ricava
un quadro editoriale di continua interazione tra curatore e autore, dove quest’ultimo segue, corregge, rivede, integra il
testo, anche negli aspetti tecnici della impaginazione. Per Cardarelli e Caproni ci ritroviamo di fronte a un progetto
d’autore concretizzato in un’edizione definitiva di raccolta della propria opera poetica. Il “Meridiano” del 1981, curato da
Clelia Martignoni, presenta infatti la produzione poetica di Cardarelli secondo l’assetto dato dalle Poesie del 1958, mentre
le raccolte in prosa sono date secondo la loro ultima stampa, e le Appendici forniscono le pagine delle prime edizioni
cadute nelle riedizioni.

CONSERVAZIONE DEL PROGETTO D’AUTORE CON MOLTIPLICAZIONE DEGLI INDIVIDUI TESTUALI

Vi sono casi in cui la conservazione del progetto d’autore porta sacrifici testuali troppo dolorosi e che richiedono una
soluzione drastica, come la pubblicazione, accanto all’edizione finale, anche della sua tappa iniziale, o della stazione più
significativa del suo percorso. È la situazione che si presenta per le opere di Umberto Saba, autore di un solo libro
sottoposto negli anni a un ristrutturare continuo che si concreta nelle due fondamentali fasi di aggregazione: quella del
1921 e quella del 1945, che si prolunga poi fino alla definitiva e postuma del 1965. La necessita di ripubblicare
autonomamente il Canzoniere 1921, di cui Castellani ha procurato nel 1981 l’edizione critica, è ben chiarita dal curatore
che per il primo quarto del secolo della poesia di Saba, considera il Canzoniere 1965 una fonte inattendibile. Il processo
di selezione dell’anziano poeta sulla sua produzione giovanile è drastico e giustifica il recupero di detta produzione nella
sua veste originale. Nell’edizione di Tutte le poesie del 1988, Arrigo Stara pubblica solo il Canzoniere 1965 ( no il
Canzoniere 1921), recuperando invece le poesie “rifiutate” contenute nelle prime edizioni delle singole raccolte, e le
“disperse”, ovvero le poesie pubblicate in quotidiani e periodici e mai raccolte in volume.

RICOSTRUZIONE DEL PERCORSO CRONOLOGICO DEI TESTI A STAMPA (secondo ultime edizioni)

In assenza di un progetto d’autore di opere in raccolta d’autore, concretizzato in un’edizione o anche semplicemente
rimasto a uno stadio progettuale, il curatore è portato a seguire un ordine cronologico e a disporre le stampe nella loro
ultima edizione. Non poche edizioni del Novecento sono state ripubblicate seguendo quest’ultimo criterio. Analogamente
contaminatoria è la soluzione adottata per la lezione dei testi, che accolgono una congerie di varianti evolutive desunte da
diversi postillati d’autore, considerate però “come apportate su un unico esemplare”, con il risultato di presentare testi
che, in alcuni casi, non corrispondevano più all’edizione originale. La stessa soluzione testuale, non esistendo un
progetto organico di edizione complessiva d’autore, viene adottata anche per le opere di Italo Calvino. Ciò significa che,
considerando solo i romanzi del primo volume, che raccoglie cronologicamente i romanzi e i racconti dal Sentiero dei
nidi di ragno fino a Marcovaldo, in ossequio al principio dell’ultima volontà dell’autore Il Sentiero dei nidi di ragno
(princeps 1947) reca la lezione della terza edizione Einaudi del 1964, discretamente modificata rispetto alla prima; Il
visconte dimezzato (princeps del 1957) si legge nella versione definitiva del 1985. Il cavaliere inesistente (princpes del
1959) segue l’ultima del 1985, priva di varianti degne di nota.

RICOSTRUZIONE DEL PERCORSO CRONOLOGICO DEI TESTI A STAMPA ( secondo le prime edizioni e con
moltiplicazione degli individui testuali)

La giustapposizione cronologica delle opere nelle ultime edizioni pubbliche vivente l’autore può essere considerata una
soluzione ibrida. Il lettore finisce per avere da una falsa cronologia un’immagine falsata dell’evoluzione dell’autore e
della propria opera. A questa soluzione si è contrapposto una ricostruzione del percorso cronologico dei testi tenendo a
riferimento la loro prima apparizione a stampa, ma seguendone la corrispondente lezione. Il caso di Palazzeschi è stato
uno dei primi e ha trovato ora una sistemazione definitiva nei quattro volumi “Meridiani” a lui dedicati, il primo, uscito
nel 1974, di Tutte le novelle; il secondo di Tutte le poesie, nel 2002; il terzo, del 2004; e il quarto di Tutti i romanzi.
Emblematica la situazione testuale delle opere palazzeschiane, che coprono un arco di tempo amplissimo: tre quarti di
secolo. Nel 1957, lasciato Vallecchi e firmato un contratto con Mondadori, lo scrittore comincia a dare l’assetto definitivo
alla propria opera, pubblicando il primo volume di Tutte le opere di Aldo Palazzeschi nella collana “I Classici
Contemporanei Italiani”: Tutte le novelle; nel 1958 seguono le Opere giovanili; nel 1960 I romanzi della maturità; nel
1964 le prose autobiografiche nel Piacere della memoria, raccolte seguite da opere nuove. A due anni dalla morte era già
stato progettato il “Meridiano” di Tutte le poesie, realizzato nel 1974. Ci sono vari tentativi di riscrittura e
ricomposizione della propria opera, tutti rispondenti a un criterio cronologico, dove la scansione bibliografica diventa una
scansione tematica. Intorno al 1949, viene ideata la serie delle “Opere complete di Alberto Moravia”, una struttura aperta
in cui avrebbero trovato posto non soltanto i testi usciti negli anni precedenti, ma anche quelli che sarebbero apparsi in
seguito. Ci si trova quindi di fronte a un progetto di ricomposizione della propria opera ideato dall’autore che, in fecondo
sodalizio con Valentino Bompiani, a partire dal 1952 comincia a pubblicare la propria opera omnia, alternando testi già
noti al pubblico e testi inediti.

LA RICOSTRUZIONE DEL PERCORSO CRONOLOGICO DEI TESTI (INEDITI E A STAMPA)

La ricostruzione del percorso cronologico delle opere, in assenza di un progetto d’autore che ne giustifichi una diversa
organizzazione, può essere portato anche alle estreme conseguenze , disponendo cioè i testi senza distinzione di edito,
postumo o inedito. A quest’ultima soluzione si sono attenuto Walter Siti e Silvia De Laude, curando per Mondadori, dal
1998 al 2003, le Opere di Pasolini, di cui, nel 1998 è uscito il primo volume di Romanzi e racconti, dove vengono disposti
in ordine cronologico di edizioni o di composizione. Un forte peso viene dato anche al modo di lavorare dell’autore.
L’edizione di Tutte le poesie nel “Meridiano” curato da Siti nel 2003, segue l’impianto delle prose narrative quanto alla
distribuzione del materiale, che dispone in ordine cronologico, senza distinzione di edito, postumo, inedito, secondo il
“sistema delle Appendici”, ovvero collocando subito dopo le raccolte principali, quei testi che cronologicamente e
tematicamente appartengono alla “nebulosa” della raccolta stessa. Quando in Appendice si pubblicano testi già raccolti
da Pasolini, si è rispettato l’ordine secondo cui l’autore li aveva raccolti; nel caso di testi dispersi l’ordine è quello
cronologico di composizione, a meno che non si tratti di minicicli o di testi strettamente legati da ragioni metriche. Anche
in questo caso, la motivazione principale addotta per una ricostruzione cronologica è di ordine critico. Ne risulta messa
in ombra, quando non polverizzata dalla gran massa di “avantesti”, la realtà storica delle raccolte pubblicate e la loro
evoluzione. Ma la realtà storica dei volumi pubblicati, impone una deroga a una continuata “cronologia reale”. La
soluzione “pasoliniana” non è nuova: la pubblicazione in ordine cronologico di edito e inedito era già stata adottata da un
editore d’eccezione, Italo Calvino, nei primi anni Sessanta, per le poesie di Pavese, sollevando tuttavia le riserve di
Lanfranco Caretti. L’edizione corretta, proposta da Caretti prevede: la riproduzione della raccolta del 1943 con apparato
genetico di varianti manoscritte e a stampa; un’appendice con le sei poesie presenti nell’edizione del 1936 ed estromesse
da quella del 1943 e un volume di Poesie disperse con tutte le altre in ordine cronologico.

RICOSTRUZIONE “STORICA” DEL PROGETTO D’AUTORE

Decisione opposta viene presa, invece, per l’opera gaddiana. La pubblicazione delle opere di C:E: Gadda nei “Libri della
Spiga” di Garzanti, dal 1988 al 1993, è venuta a ordinare una situazione testuale intricatissima per una caratteristica
peculiare sintetizzata da Dante Insella: “la prima difficoltà che ci si è posta, nel realizzare il piano dell’opera, ha radice
nella divaricazione, ma suggerita appena sopra, tra pubblico e privato, cioè tra quanto Gadda ha scritto ma tenuto nei suoi
leggendari bauli e quando invece, in una vita sofferta, spesso disperata, gli è riuscito di dare alle stampe”. Stabilita quindi
la necessità di una distinzione tra edito e inedito, anche l’edizione dell’edito solleva difficoltà per due problemi: il fatto
che “interi capitoli di un libro ricorrono eguali anche in un altro libro”, e, l’esistenza di “metamorfosi di testi assoggettati
negli anni a interventi più o meno incisivi, sia per la lezione sia, in presenza di raccolte ordinate nel tempo con criteri e
modalità diversi, per i mutamenti strutturali”. L’edizione Isella, fondata su un progetto generale di edizione critica,
propone nei volumi garzantiani una suddivisione in generi: Romanzi e racconti, Saggi, giornali e favole, con
un’organizzazione interna cronologica.

MOLTEPLICI VOLONTA’/MOLTEPLICI TESTI

C’è una nuova valutazione del principio dell’ultima volontà dell’autore. Da una definizione astratta, ci si è mossi verso
una più elastica considerazione storica che porta a parlare piuttosto che di una sola, ultima volontà, di molteplici volontà
d’autore, delle quali l’ultima non è necessariamente migliore delle precedenti. Ciò non significa un’autorizzazione alla
ricostruzione diacronica, ma lo stimolo a una valutazione che tenga contro di tutti i punti di vista: autoriale, storico e
critico. Un altro fattore da tenere presente è legato al progetto editoriale in cui rientra l’operazione filologica. Ciò che è
consigliabile per una singola opera, infatti, non lo diventa più per le opere in raccolta, dove l’opera si istituisce in un
rapporto reciproco con le altre. Se è vero che ogni opera va considerata come un unicum, gli esempi analizzati mostrano
che esistono situazioni che possono indicare volta a volta la strada da percorrere. Per quanto riguarda il rispetto
dell’ultima volontà d’autore in relazione all’assetto del libro, l’editore critico dovrà tenere conto dei seguenti fattori:

a) CRITERIO AUTORIALE: la presenza o meno di un progetto d’autore e la sua legittimità

b) CRITERIO STORICO: l’arco temporale su cui l’opera si dispiega e la sua ricezione critico-letteraria

c) CRITERIO CRITICO: l’entità e il valore delle correzioni nel passaggio da un’edizione all’altra, e la loro azione
nel modificare la fisionomia dell’opera, oppure nel lasciarla sostanzialmente immutata.

Mentre i primi due punti dipendono da una corretta e puntuale ricostruzione del percorso dell’autore, l’ultimo punto è
soggetto a una più forte discrezionalità da parte del curatore. In questo quadro di riferimento, appare chiara la necessità di
una riflessione complessiva sulla tradizione testuale e sulle scelte ecdotiche relative alla letteratura del Novecento, che
affronti tutti gli aspetti in essa coinvolti: filologico, linguistico, critico-interpretativo. Non si può non riconoscere che il
“canone” del Novecento si fonda sulla tradizione testuale delle sue opere che il ruolo del “curatore” non è solo quello di
esecutore testamentario che si sostituisce all’autore scomparso, ma quello di un ulteriore soggetto responsabile dell’opera,
che deve assumersi tale responsabilità.

LE FORME: CORREZIONI E UNIFORMAZIONI - PER UNA STORIA DELL’EDITING NEL NOVECENTO

Se è vero che l’editing, inteso come consulenza editoriale e curatela dei testi, non è nato nel Novecento, è altrettanto vero
che la nascita della moderna editoria industriale e soprattutto lo sviluppo della figura del redattore/letterato (editor) ha
prodotto dei radicali cambiamenti in tutti le fasi del processo editoriale. L’editore diventa protagonista della trasmissione
del testo, tanto che, si è parlato di una “intentio editionis” accostabile, anche nella riflessione teorica, all’ “intentio
auctoris” e alla “intentio lectoris”. L’ultima volontà dell’autore, anche in presenza dell’autore stesso, diventa fatalmente
l’ultima volontà del curatore, e, in caso di assenza dell’autore, o di latitanza del curatore, diventa “l’ultima volontà del
redattore”. La recente pubblicazione delle lettere editoriali di Pavese e del carteggio con Renato Poggioli permette di
inquadrare storicamente in modo più dettagliato il ruolo insostituibile da lui svolto in casa Einaudi per circa un ventennio.
È interessante notare come sin dalle prime corrispondenze, del 1940, l’attività redazionale di Pavese non riguardi solo la
progettazione dei testi e la loro realizzazione, ma si intrecci con la poetica fino a teorizzare l’abolizione della bipartizione
narrativa/saggistica in un trattato di teoria editoriale che dovrebbe stare appeso davanti alla scrivania di tutti gli aspiranti
redattori. Non meno interessanti gli intrecci tra editing e politica. Dal febbraio 1948 le lettere testimoniano le vicende
editoriali del Fiore del verso russo (di cui Pavese e Poggioli sono mediatori). Dopo la seconda guerra mondiale era
interessante sapere il panorama dei poeti russi, finora rimasti esclusi. Inizialmente sono entusiasti tutti e due. Poggioli
nell’introduzione sottolinea come questi poeti rappresentassero l’opposizione riguardo il partito comunista sovietico, che
prevedeva un tipo di letteratura precisa nella forma e socialista nel contenuto. Il mancato adempimento di ciò, comportava
persecuzioni. Le posizioni esplicitamente critiche verso il regime sovietico espresse da Poggioli nella poderosa
introduzione, ricevono un aperto ostracismo in casa editrice, tanto da costringere Giulio Einaudi a premettere al volume,
un’Avvertenza da cui emergono imbarazzo e disapprovazione (in cui prendeva le distanze da ciò che era stato scritto, si
tagliava fuori). Muscetta giudica il testo “sostanzialmente schifoso”. La Russia era in quel momento un modello, il Paese
che aveva saputo creare il socialismo reale. Ci fu un gran dibattito a sfavore di Poggioli, che rimase in America a
insegnare. L’osmosi tra il progetto culturale individuale e il lavoro concreto in casa editrice è evidente anche in uno
scrittore/editore come Vittorini, che non esita a proporre tagli e modifiche a riedizioni di testi, pubblicazioni di inediti e
traduzioni, mostrando una libertà d’azione che sconfina con l’eliminazione radicale dell’intentio auctoris. Una gran parte
degli interventi editoriali e redazionali è riferibile più in generale allo staff redazionale delle case editrici o, nel caso di
racconti o articoli pubblicati in quotidiani e riviste, della redazione giornalistica. Oggi, i condizionamenti sono più di
mercato, per raggiungere il successo editoriale. C’è un orientamento verso il recupero dell’autorità autoriale, quella
editoriale ha rappresentato per anni la storia dei libri. Un primo studio in questa direzione si deve a Giovanni Falaschi,
che, sulla base delle prime osservazioni di Balduino, ha studiato concretamente alcuni casi di interventi di editing sulla
prosa di scrittori degli anni Trenta. Falaschi distingue tre casi di interventi sui testi letterari: a) errori di curatela, ovvero
decisioni errate o discutibili prese dal curatore dell’opera di un autore scomparso o vivente ma disinteressato alla
revisione della propria opera; b) interventi redazionali ispirati da motivazioni non scientifiche, ma commerciali (caso del
vero e proprio editing); c) correzioni d’autore coatte. In realtà, molto casi di editing redazionali, svolti in assenza di un
curatore ufficiale, non riguardano solo decisioni prese tenendo conto esclusivamente degli interessi commerciali
dell’editore, ma coinvolgono problemi testuali come la scelta del “testo-base”, la correzione dei refusi, l’uniformazione
redazionale di fenomeni grafici, linguistici e di punteggiatura, ecc. tutti elementi che riguardano la filologia e la storia
della lingua. In questi casi ci si trova di fronte a redattori che svolgono il ruolo del curatore pur senza esserne investiti
direttamente e pubblicamente. Sicché si può aggiungere un’altra categoria relativa agli interventi di editing svolti
redazionalmente e quindi anonimi e individuabili solo con un’attenta collazione del testo. Se consideriamo il problema
dal punto di vista dell’autore possiamo distinguere tre casi di editing di opere pubblicate in vita e editing e/o curatela di
opere postume. Nel primo caso si possono dare interventi, anche massici che modificano forma e sostanza del testo,
come nel caso di scrittori/editori del Novecento. Tali interventi, effettuati consenziente l’autore, entrano le sistema del
testo, diventano tutt’uno con esso. L’autore, in un certo senso accetta una certa limitazione della propria libertà
individuale perché questa è condizione necessaria alla pubblicazione. Il prodotto finale però è un testo che reca
l’imprimatur dell’ultima volontà dell’autore. Nel secondo caso gli interventi si depositano su un testo già affidato
dall’autore alla stampa, oppure inedito, e che il curatore ha il compito di pubblicare. Il prodotto finale è un testo che,
rischia di riflettere piuttosto l’ultima volontà del curatore. Il terzo caso considerato da Falaschi riguarda quelle correzioni
intervenute sul testo in regime di censura (politica, linguistica, ecc) classificate per la prima volta da Luigi Firpo e ora
denominate “correzioni d’autore coatte”, per certi versi assimilabili alla prima categoria, perché avvenute vivente
l’autore, ma anche alla seconda, perché implicano poi precise decisioni da parte del curatore o del redattore. La loro
valutazione implica una riflessione sull’interazione delle due volontà: intentio auctoris e intentio editionis.

INTENTIO AUTORIS, INTENTIO EDITIONIS E CORREZIONI D’AUTORE COATTE

Con la pubblicazione del proprio testo, l’autore delega all’editore una serie di decisioni sul testo. Ciò che si stabilisce tra
l’autore e il suo editore è una sorta di patto editoriale, che garantisce la correttezza dell’operazione; l’autore può in
qualsiasi momento recedere da questo patto. Il testo pubblicato è il prodotto dell’originale intentio auctoris,, ma reca
anche tracce dell’intentio editionis, che potrà essere riconosciuta e teoricamente isolata per studiare analiticamente gli
elementi d’autore, ma che non si potrà fisicamente scorporare dal testo, se non modificandone radicalmente la fisionomia.
Riconoscere l’interazione tra le due intentiones vuol dire ricostruire la sua genesi ed evoluzione delle sue varie forme fino
a quella consegnata dall’autore alla redazione, la sua storia esterna ovvero il processo editoriale che lo ha portato alla
stampa. La stampa è quindi il punto d’arrivo, definitivo e irreversibile, di questo processo. La più evidente messa in crisi
del concetto di ultima volontà d’autore si verifica di fronte alle “correzioni d’autore coatte”, casi in cui la volontà
dell’autore viene limitata da elementi esterni, imposti più o meno violentemente. In molti casi, infatti, in regime di
censura, non è necessaria una diretta coalizione, ma la revisione censoria delle opere avviene preventivamente da parte
dell’autore, per assicurare all’opera la possibilità di essere pubblicata. I casi analizzati da Luigi Firpo e Resta sono: 1)
ignoranza dell’autore, che lascia suppore che egli, se avesse saputo o potuto, si sarebbe opposto all’arbitraria
deformazione; 2) autocensura spontanea, l’autore sceglie l’anonimato o provvede spontaneamente ad attenuare il proprio
linguaggio o a renderlo vagamente allusivo coi veli dello scherzo o dell’allegoria, prima di affrontare la censura; 3)
autocensura di adeguamento alle correzioni imposte dalla censura. I casi analizzati da Firpo e Resta riguardano testi degli
anni ruggenti della censura, del Cinque, Sei e Settecento, con propaggini anche ottocentesche (Verga, Capuana), per i
quali la soluzione dell’editore non possono che essere radicali: nell’impossibilità di accettare e distinguere gli interventi di
un autore dovuto a coalizione da quelli determinati da autonomo ripensamento, sembra prudente attenersi rigorosamente
alla testimonianza certa e non ancora inquinata e registrare in apparato o in appendice, a seconda della loro consistenza, le
diverse modifiche. È una scelta univoca, che destituisca di valore il momento della stampa, se è dimostrabile che questa
rispecchi solo parzialmente o incompiutamente la libera volontà dell’autore, e conferisca maggiore valore all’avantesto.
Secondo questa impostazione, in filologia non varrebbe il principio giuridico del “silenzio-assenso”. Se l’autore, infatti,
una volta terminato il periodo o i motivi della censura, non ha ristampato il testo e non ha dichiarato nulla in proposito,
tale silenzio non vale come un’implicita accettazione del testo pubblicato così come si era storicamente determinato, ma è
necessario che egli si sia pronunciato direttamente a favore o contro l’opera censurata per poter prendere delle decisioni in
proposito. Secondo Balduino si potrebbe parlare di “correzioni d’autore coatte” anche in quei casi di editing redazionale
che possono essere di carattere politico, o letterario e stilistico. Affidare l’autorità del “testo-base” al manoscritto o al
dattiloscritto piuttosto che alla stampa porterebbe inevitabilmente a dover mettere in atto, a ogni nuova edizione, un
processo alle intenzioni per misurare il grado di coinvolgimento dell’autore nel processo correttorio innescato
dall’intervento esterno. Un esempio pratico tratto dagli interventi censori studiati da Falaschi sono i tagli operati dai
redattori del “Corriere della Sera” sui testi della Daledda e della Negri, che non vengono sottoposti alle due autrici e che
tuttavia accettano questo topo di intervento redazionale sul loro lavoro. Nel caso di una riedizione moderna, come si
dovrebbe comportare il curatore? Secondo Falaschi, nonostante gli interventi siano stati realizzati con il consenso delle
autrici, questo non vuol dire che si debbano considerare i testi amputati come se le amputazioni fossero volute dagli
autori: da qui l’opportunità di una nuova edizione dei testi, di restaurarli magari segnalando i luoghi con qualche
accorgimento tipografico o almeno segnalandoli nella nota ai testi in modo che il lettore odierno possa aver presente il
testo così come fu offerto al lettore del periodo fascista. Tuttavia, ciò contraddice alla dichiarazione che di tali interventi
le autrici erano ben consapevoli, dimostrato anche dall’assenza di una riedizione a stampa di tali articoli secondo la
lezione completa dell’originale. Restaurare la versione originale in questo caso, vorrebbe dire dare autorità di testo a una
delle sue redazioni precedenti, con i rischi di variabilità e mutevolezza sopra esposti, sostituendo la volontà del curatore a
quella dell’autore e sottraendo l’immagine che ne hanno avuto i lettori degli anni Trenta. Di editing d’autore si tratta per i
manoscritti inviati da Palazzeschi a “Pégaso”, rivisti e corretti da Giuseppe De Robertis, in direzione grammaticalizzante:
per esempio, “ci descrive” diventa “egli ci descrive”, ecc. Si tratta di correzioni non volute e ignorate dall’autore al quale
passarono inosservate. Si ripropone qui il rapporto tra autorità dell’autore e autorità della stampa. Nel momento in cui
Palazzeschi consegna il manoscritto a De Robertis , egli accetta che si possa intervenire su di essa, nonostante l’ultima
volontà dell’autore venga sostituita da quella del redattore. Sembra che il quadro tracciato da Firpo e Resta per gli anni
ruggenti della censura, debba essere considerato un po’ diversamente per il Novecento, secolo in cui in seguito alla
nascita e alla pratica diffusa dell’editing d’aurore, l’autore stesso è divenuto anch’egli in un certo modo partecipe
dell’esercizio di quella violenza con ingaggi professionali o con acquiescenti forme di collaborazione. Per i testi
novecenteschi è necessario distinguere le vere e proprie “correzioni d’autore coatte”, e sono i numerosi casi di censura
introdotta a partire dalle leggi sulla stampa del 1926, snaturati della fisionomia di un testo che viene disconosciuto
dall’autore in dichiarazioni esplicite o con interventi manoscritti o a stampa; da interventi di editing , più o meno
censorio, che non mutano la fisionomia del testo, e non vengono riconosciute dall’autore, il quale o non interviene del
tutto o decide di non restaurare la forma originaria in una successiva ristampa. Nel primo caso è opportuno restaurare il
testo originario, perché l’autore non ha sottoscritto nessun patto editoriale con l’editore; nel secondo caso si può invece
riconoscere una maggiore autorità alla stampa e seguirla a testo, presentando in apparato o in appendice, le varianti
eliminate o corrette, come parte della storia interna del testo. La soluzione offerta dalla filologia d’autore consiste nel
lasciare a testo la prima stesura e mettere le varianti alternative a piè di pagina, contrassegnate da un esponente alfabetico,
qui si tratterebbe di lasciare a testo la lezione pubblicata a stampa e di presentare a piè di pagina la versione originaria
manoscritta. L’identità dei corpi tipografici dichiarerebbe al lettore la relazione tra i due testi: non già un rapporto di
subordinazione, ma un rapporto paritario tra due diversi motivi della volontà dell’autore.

GLI INTERVENTI REDAZIONALI SUL TESTO

Ci si occupa qui di testi che abbiamo avuto una o più edizioni vivente l’autore, e che siano ripubblicati postumi o quasi-
postumi. Dei casi celebri sono quelli del Gattopardo e del Partigiano Johnny. In alcuni casi si sono prodotte corruttele
testuali anche vivente l’autore, corruttele che si sono riprodotte nelle riedizioni fatte successivamente alla sua scomparsa,
tanto da provocare la circolazione, per una medesima opera, di testi molti diversi fra loro. È il caso di Moravia e il suo
testo di esordio, Gli indifferenti, pubblicato a sue spese nel 1929. Il romanzo vede tre edizioni nel solo anno di esordio,
una ristampa nel 1933, un’altra nel 1949 seguita dall’ingresso nella collana delle “Opere complete” del 1953: un’edizione
rivista dall’autore che vi apporta numerosi cambiamenti, ma non ne rivede le bozze. Molti interventi di punteggiatura,
dovrebbero quindi essere sia d’autore che redazionali. Su quest’ultima del 1953, si sono fondate molte delle ristampe
successive e solo nell’ultima edizione del 2000, nei rinnovati “Classici Bompiani” è stata restaurata l’editio princeps, con
la sua punteggiatura originaria. Questo è un caso paradossale di un testo per cui la volontà dell’autore è disattesa dalle
ristampe, mentre la volontà del redattore viene recepita dalla vulgata delle edizioni in circolazione, fino a essere presa a
modello di prosa letteraria dalle grammatiche italiane. Al curatore attuale di testi del Novecento, una volta stabilito il
testo-base da adottare, si pongono alcuni problemi da risolvere contemperando due esigenze: garantire il massimo di
fedeltà all’edizione messa a testo e correggerne gli eventuali errori nel rispetto della volontà dell’autore, dichiarando
pubblicamente gli interventi operati nella Nota al testo. I principali interventi del curatore sono perciò: le correzioni di
errori e le uniformazioni redazionali; le correzioni di punteggiatura; e le correzioni delle citazioni.

CORREZIONI DI ERRORI E UNIFORMAZIONI REDAZIONALI

Non c’è Nota al testo in cui il curatore non dichiari di avere operato solo le necessarie uniformazioni redazionali e
corretto solo i patenti refusi. Ma controllo più puntuali possono rivelare che tra le uniformazioni redazionali sono state
considerate alcune grafie, accenti e apostrofi, ecc oppure che tra i patenti refusi vi sono anche errori materiali, di forma o
di contenuto. Si distinguono gli errori materiali e refusi. Di fronte agli errori materiali del testo (di fatto) l’atteggiamento
più diffuso è conservativo. Un errore di sostanza viene considerato appartenente alla realtà del testo come qualsiasi altro
suo elemento, e perciò non viene corretto, ma segnalato in Nota. Diverso è per i “patenti refusi”, che vengono corretti
segnalando la correzione in nota, senza tema di intervenire sulla volontà dell’autore che tali refusi non ha autorizzato,
poiché si sono impiantati per l’incuria o la distrazione dei redattori. Le edizioni di testi, soprattutto letterari, comportano
un intervento di correzione del curatore, che richiede grande cautela, per evitare di considerare refusi, forme attestate in
lingua o tipiche della lingua dell’autore. Prima di considerare una forma “refuso” è necessario che tale forma sia
inattestata nel sistema linguistico dell’autore e che risulti isolata anche nella letteratura coeva. Per distinguere tra un
errore e una forma d’autore, uno strumento utile è costituito dal controllo delle fasi precedenti la stampa, a partire dalle
prime redazioni manoscritte dei testi, che dell’errore permettono di ricostruire la genesi e l’eziologia. Vanno considerati
anche i casi di correzione (o modernizzazione) delle grafie, che non possono essere ritenuti genericamente uniformazioni
redazionali. Di fronte a grafie palesemente difformi dalla norma, si tratterà di verificare la loro esistenza all’interno della
produzione dell’autore e in testi coevi, attraverso dizionari storici, concordante, repertori lessicali, e controllare se si sono
conservati i manoscritti o dattiloscritti precedenti. Un elenco di casi:

1) Alternanza nel plurale dei nomi terminanti in –CIA delle forme in –CE, o CIE (roccia: rocce e roccie)

2) Alternanza delle forme lascerò e lascierò

3) Alternanza delle forme ho visto e ò visto

4) Alternanza delle forme sintetiche o analitiche come in purtroppo e pur troppo; casomai e caso mai

5) Presenza della “D” eufonica, anche al di fuori di casi canonici

Come considerare gli accenti e gli apostrofi? Anche in questo caso non c’è unicità di comportamento. Un numero molto
elevato di edizioni scientifiche tende a uniformare accenti e apostrofi alla norma ortografica corrente, consistente
nell’adozione dell’accento grafico solo sui polisillabi tronchi (es. ventitré), sui monosillabi monovocalici che si
potrebbero confondere con omografi (ché/che; dà/da; è/e, ecc). Un atteggiamento molto interventista si ha sulle forme
dell’accento grafico, ovvero l’adozione del sistema di accentazione grave per le vocali che hanno apertura univoca (à, ì,
ù) e grave/acuto per le vocali che possono essere pronunciate alternativamente aperte (è, ò) o chiuse. Non c’è invece
unanime consenso sulla correzione di usi impropri dell’accento come in po’ po’ , perché attestato nella prosa del
Novecento. In questo caso, si tratta di valutare l’incidenza di questi fenomeni sulla lingua dell’autore e la loro
contestualizzazione storico-linguistica. In generale, l’esigenza di evitare forme diverse, anche all’interno di una stessa
pagina, non viene ritenuta più importante di quella di mantenere la fisionomia del testo così come l’ha voluta l’autore.
Sgomberato il campo dai possibili errori, si presenteranno i numerosi casi di uniformazione redazionale del testo.
L’aspetto su cui i curatori si trovano per lo più d’accordo per un atteggiamento interventista è la correzione delle
virgolette. Il sistema di citazione dei testi, varia da casa editrice a casa editrice e da collana a collana. Per quanto
riguarda il sistema di citazione con il trattino medio, nei dialoghi, a meno che le battute siano seguite dall’enunciato
“citante”, si omettono le lineette di chiusura. I discorsi “pensati”, vengono rappresentati con un sistema diverso da quello
usato per i discorsi “detti” (trattino se sono state usate le virgolette, e viceversa). Anche sull’uniformazione delle diverse
forme grafiche usate per la rappresentazione dei titoli, resi volta a volta di carattere tondo, o corsivo, o tondo tra
virgolette, si trova un generale consenso. Lo stesso vale per l’uso del corsivo o delle virgolette a indicare parole in lingua
straniera. Analogamente, le sigle e le indicazioni paratestuali presenti nelle opere teatrali (scene, atti, nomi dei
personaggi) possono essere in carattere maiuscolo, minuscolo e maiuscoletto. Anche la correzione dei titoli stranieri
viene effettuata con grande cautela anche perché, nel corso del Novecento, le opere straniere sono state tradotte con titoli
molto diversi da quelli in uso correntemente, e un titolo apparentemente “scorretto” potrebbe non essere altro che un
errore “di tradizione”. Meno facile è ricavare un criterio generale e univoco sul trattamento delle maiuscole e delle
minuscole, dato che il comportamento degli editori è il più vario. Si tratta di distinguere le uniformazioni di fenomeni
puramente grafici, che non veicolano altro che una precedente norma editoriale, da fatti grafici portatori di informazioni
sulla lingua del testo.

CORREZIONI DI PUNTEGGIATURA

Introducono un problema di portata molto ampia, non limitato alle edizioni del Novecento, ma riguardante una prassi
editoriale più ampia. Si tratterà non di distinguere caso per caso, ma tentare di identificare tipologia di punteggiatura
diverse. La prosa letteraria, piuttosto che adeguarsi alla norma, finisce per diventare essa stessa normativa, sicché la
correzione di un curatore o di un redattore troppo solerte finirebbe per sovrapporre una norma redazionale a una norma
d’autore. Non esiste una regola generale per definire la punteggiatura da associare agli indicatori grafici utilizzati per
l’introduzione del discorso diretto. Nonostante il Malagoli in “Ortoepia e ortografia” autorizzi a una certa libertà di scelta,
le sue indicazioni distinguono sempre tra la punteggiatura relativa al testo citato tra virgolette e quello citante, e hanno
prodotto un generale consenso sul porre i puntini di sospensione, il punto interrogativo e il punto esclamativo all’interno
delle virgolette o del trattino di chiusura del discorso diretto quanto tali segni di interpunzione siano riferiti agli enunciati
citati, e viceversa a porli all’esterno di virgolette e trattino di chiusura quando siano riferiti all’enunciato citante. Nel caso
in cui la casa editrice non abbia un criterio definito per il trattamento della punteggiatura “di servizio” al discorso diretto,
il principio indicato dal Malagoli come più diffuso stabilisce che l’uso preferito è quello della prima maniera, cioè
l’interpunzione avanti la lineetta che è la più semplice, perché nel dialogo senza capoversi una sola lineetta dopo il punto
fermo basta a indicare il cambio di interlocutore. Ne consegue quindi che 1) si tende a evitare il doppio punto a chiusura
del discorso diretto citato e del discorso citante, che viene sostituito da un solo punto di chiusura; e 2) si tende ad evitare
la virgola e la delimitazione del discorso citato, se non segue un'altra citazione. Fondamentali demarcatori di senso nei
testi argomentativi, che non ne possono fare a meno, gli “a capo” sono sempre stati latitanti nei testi letterari, tanto da
spingere più di un curatore a intervenire per dare “respiro” alla narrazione. È necessario in questo caso, limitare il più
possibile gli interventi a quei luoghi che renderebbero altrimenti il testo incomprensibile, e segnalare l’intervento al
lettore. Si distinguono quindi due casi di punteggiatura: “di servizio” (funzionale cioè all’introduzione e alla chiusura del
discorso diretto) e “funzionale” (questa distinzione è relativa all’intervento che il curatore e il redattore di un testo
ritengono legittimo operare su un testo).

CORREZIONI DELLE CITAZIONI

Le citazioni sono considerate un elemento del tutto marginale rispetto alla volontà dell’autore. Per una presunta
correttezza testuale, in molte case editrici è prassi corrente il controllo delle citazioni dai testi italiani, poetici e in prosa,
cui segue spesso la loro correzione sulla base del testo controllato. Questa abitudine in realtà porta spesso a perdere
un’informazione preziosa, ovvero qual era il testo da cui citava l’autore, o nel caso di citazioni a memoria, quale la sua
conoscenza dell’autore e dell’opera, e a sostituirla con un’informazione solo apparentemente più corretta. In alcuni testi i
curatori hanno corretto le citazioni secondo le norme di quel dialetto o secondo la lezione corretta dei testi citati. In altri
casi invece sono state adottate forme miste di conservazione e correzione.

PER UNA FENOMENOLOGIA DELL’ERRORE

Ci sono errori e ci sono refusi e quindi, dal punto di vista del curatore, specularmente ci sono errori e ci sono
uniformazioni. La categoria dell’errore è più ampia e riguarda generalmente l’autore. La categoria del refuso è più legata
al passaggio tipografico del testo. Ed è più difficile che venga usata per i testi manoscritti, dove è più probabile trovare
errori o lapsus calami. Per Gianfranco Contini, posta una forma linguistica, una cosa è l’innovazione, un’altra è l’errore
che va riconosciuto ed estrapolato, cioè distinto dall’innovazione. Si delineano meglio i tre termini della questione in tre
momento del processo di emendazione:

a) Riconoscere una norma linguistica

b) Riconoscere ciò che è un’innovazione (idiotismo) da ciò che è un errore, che l’autore ha fatto o per ignoranza
(svarione) o per distrazione, e ciò che è pertinente all’autore (errore) o alla trasmissione redazionale (refuso)

c) Correggere gli errori e i refusi e conservare invece gli idiotismi, le neoformazioni, gli usus scribendi, i tic
linguistici, che anzi costituiscono gli elementi precipui dello stile di un autore e introdurre le uniformazioni
redazionali concordate con l’editore.

LA NORMA, L’ABNORME

La lingua è un organismo in evoluzione, sia nella morfologia e nella sintassi, che nel lessico. Si potrà obiettare che la
lingua corrente è tale secondo le regole della grammatica italiana e quelle presenti nel vocabolario. Le norme della
grammatica e i lemmi dei dizionari sono ricavati dall’uso, e particolarmente dall’uso letterario. Se le edizioni subiscono
una revisione redazionale che modifica la veste linguistica o interpuntiva del testo e tali modifiche non vengono
riconosciute come estranee alla lingua dell’autore, verranno assunte come innovazioni nella lingua, diverranno,
autorizzate da quegli esempi letterari, norma linguistica nelle grammatiche, forme a lemma nei vocabolari.

L’INNOVAZIONE

Non vi sono certezze; la distinzione tra errore d’autore e correzione redazionale è sottilissima e difficile. Ci sono però
alcuni dati dirimenti in presenza dei quali è possibile distinguere tra le due categorie. Ecco i tre elementi base per
distinguere tra innovazione d’autore e probabile refuso:

1) L’usus scribendi, cioè la coincidenza o la vicinanza della forma a un’abitudine linguistica attestata nell’opera
dell’autore o delle sue fonti, o della lingua letteraria e non diffusa al momento della composizione del testo

2) Il confronto con l’autografo, che dirime definitivamente la questione o che aiuta nella soluzione del problema

3) La ricostruzione della storia interna ed esterna del testo con applicazione del criterio della lectio facilior e
dell’identificazione dell’errore di trascrizione. L’autore stesso, copista di se stesso, o il redattore, copista dal
dattiloscritto o dal manoscritto dell’autore, può aver involontariamente semplificato il dettaglio linguistico,
applicando il proprio sistema linguistico a quello del testo di partenza, operando banalizzazioni e
normalizzazioni.
LA CORREZIONE

Il caso più banale, soprattutto in testi non passati attraverso una fase redazionale è quello degli errori di ortografia, non
infrequenti nemmeno nei testi a stampa, per incuria o ignoranza dei redattori e dell’autore. Cosa si corregge?
POSTULATO: si corregge solo se proprio non si può non correggere. COROLLARIO: si corregge solo ciò che il lettore
potrebbe imputare a refuso editoriale e non riconoscere in alcun modo come forma d’autore o come forma autorizzata
dalla lingua del tempo. Si correggono sempre “un’amore” un amore e “un amicizia” un’amicizia; non sempre qual è
in qual è. Diverse sono le uniformazioni redazionali introdotte per adeguare il testo ai canoni tipografici della casa
editrice. Sono sostanzialmente il sistema citazionale delle virgolette e il sistema dell’interpunzione. È opportuno adottare
un atteggiamento conservativo per la punteggiatura espressiva, e intervenire sulla punteggiatura funzionale, volta
all’introduzione del discorso diretto, che quindi non veicola alcuna informazione espressiva del testo, e sulla quale si può
intervenire con generali uniformazioni.

NUOVE “SIMULAZIONI DI PARLATO”

La relativa vicinanza storica ai testi che si prendono in esame e il fatto che la lingua che essi testimoniano non sia così
lontana da quella che parliamo e scriviamo, possono far pensare che la filologia del Novecento debba avere meno
difficoltà nella soluzione dei problemi legati agli interventi sulle singole varianti testuali. Lo scrittore del Novecento, per
la prima volta, ha a disposizione non solo un repertorio linguistico fornito dalla lingua scritta (in contrapposizione al
dialetto), ma anche tutte le varianti dell’italiano nelle varie interferenze scritto/parlato, dall’italiano regionale a quello
dell’uso medio. E la dialettica stessa tra scritto e parlato non è più vista come un rapporto tra due mondi opposti, ma
come la relazione tra i due poli di un continuum, all’interno del quale è possibile riconoscere varie modalità comunicative
caratterizzate dal diverso grado d’interferenza tra strategie dello “scritto” e strategie del “parlato”. Ne risulta l’ingresso
nella prosa letteraria del Novecento di numerose “simulazioni di parlato”, e la ricerca di un nuovo stile, definito da Enrico
Testa “stile semplice”. Che non solo è una caratteristica dell’impressionismo novecentesco, ma è il risultato di un
percorso parallelo svolto dallo scrittore e dalla popolazione italiana verso una lingua di comunicazione: tra mille
difficoltà, l’autore è stato a lungo costretto ad una reinvenzione radicale e faticosa del suo strumento, e la popolazione ha
offerto un modello nuovo alla letteratura, tanto da avvicinare la frase narrativa ai toni della lingua media. Diventa quindi
più difficile discernere tra norma e infrazione, tra lezione corretta e refuso, e quindi tra l’ultima volontà dell’autore e
quella del curatore. Ma i cambiamenti introdotti dall’abbandono dell’autografia e della dattilografia e dall’introduzione
della videoscrittura concorrono a far dichiarare da più parti la morte della filologia. Gli scrittori non consegnano più agli
editori manoscritti o dattiloscritti, ma una serie di files, le cui differenti versioni restano solo provvisoriamente nelle
memorie dei computer e non lasceranno mai traccia di sé. Di conseguenze: impossibilità di seguire il testo stesso nel suo
processo elaborativo, di comparare e valutare diverse redazioni fra loro. Il passaggio da un supporto cartaceo a uno
digitale ha sottratto al testo stesso l’unicità e la fissità garantita dalla stampa e il suo carattere di “dato”, che vengono
sostituiti dalla molteplicità e della mutevolezza delle innumerevoli redazioni che l’autore può immettere in rete,
modificando il proprio testo ivi pubblicato e fornendo ai lettori una redazione differente da quella resa nota nella prima
pubblicazione. L’ingresso nell’editoria di CD-rom e testi trasmessi esclusivamente in rete, nell’ultimo decennio del
Novecento, ha modificato gli aspetti editoriali del libro alterandone le modalità di produzione e circolazione: per i testi in
rete non esiste più il passaggio editoriale ma ciascuno può mettere in pubblico qualsiasi scritto, senza nessuna
mediazione. La necessità di norme più precise nella costruzione dei testi, per fornire quella garanzia che tradizionalmente
era data dal lavoro editoriale, e che quest’ultimo, nonostante il supporto digitale e la dimensione multimediale, dovrà
ancora dare. Si potrà fare a meno della carta e anche dell’editore, ma non si potrà rinunciare alla definizione di criteri
chiari e trasparenti nella pubblicazione (individuale o editoriale) dei testi.

23/04

È stato ritrovato recentemente il manoscritto di “Eros e Priapo” di Gadda in un archivio privato, gli esiti sono stati
confermati da rapporti con l’editore, contratti editoriali. Molte volte è difficile recuperare il progetto d’autore, altre volte
impossibile. Un esempio di opera Omnia con la presenza dell’autore è quella di Ungaretti, che pubblica la raccolta
“Allegria” con varie vicende di ritocchi ed esclusioni, poi “Il sentimento del tempo” e poi pensa a un’opera complessiva
delle due precedenti raccolte e in aggiunta altre opere a venire, per questo viene pubblicato “Vita d’un uomo”. Poi viene
pubblicato “Poesie disperse”, che comprende quelle escluse e le varianti dei primi due “Vita d’un uomo”. Viene fatto poi
un volume collettivo in cui è resa nota la stazione di percorso finale di ogni raccolta, secondo l’ultima volontà dell’autore.
L’”Allegria” quando esce sotto il nome di “Il porto sepolto” rappresenta una novità, c’è un grande riscontro e innovazione
per l’esperienza bellica; viene pubblicato a spese di Ungaretti nel 1916 a Udine, dove si trovava come combattente, e ne
vengono fatte solo 80 copie. Non sono mai state messe in commercio, ma venivano fatte avere a chi contava in quel
momento a Udine. L’edizione del 1942 si differenzia un po’. Carlo Oso ha curato un’edizione nel 1981 in cui ripresenta
“Il porto sepolto” nell’assetto del 1916, un’edizione commentata. Qualche hanno fa è stato ripubblicato “L’Orlando
furioso” nell’assetto della prima edizione, in cui c’è una piena visibilità della storia del testo. L’edizione critica de
“l’Allegria” presenta tutto il processo compositivo dell’opera e permette una leggibilità agevole; ci sono anche edizioni
critiche di singole raccolte che integrano ulteriori scelte postume filologiche. Se l’edizione avviene che l’autore è già
morto, si rende nota la vicenda compositiva e le appendici. “I classici contemporanei italiani” è una raccolta di tutte le
opere di autori contemporanei, pubblicata tra le due guerre. Stampare il testo secondo l’ultima volontà dell’autore vuol
dire appiattire i testi più antichi sull’ultimo. Diversa la concezione di raccolta collettiva, corredata di documenti per
rappresentare la vicenda editoriale dell’opera, che subisce un’operazione di riscrittura rispetto alla prima comparsa.

24/04

Problema dell’organizzazione degli opera omnia. 



Al curatore si pongono diverse possibili opzioni e questioni, ad esempio se raccogliendo in un volume unitario l’intera
opera di uno scrittore sia opportuno riferirsi alla sua ultima volontà o dare i testi secondo la versione che è per la prima
volta apparsa e ha significato l’impatto nei confronti del canone contemporaneo. La questione va valutata caso per caso e
diventa più complessa quando in successive edizioni l’autore è intervenuto in maniera sostanziosa. Si pensi ad esempio al
caso di Palazzeschi, esso rappresenta una modalità di pubblicazione delle proprie opere da parte di un autore che non è
sensibile a questioni di ordine filologico: egli pubblica nel 1958 nel volume ‘Opere giovanili’ le poesie e i tre romanzi del
suo periodo futurista in maniera molto diversa rispetto al modo in cui le aveva pubblicate nel periodo della sua gioventù,
egli però non ci dice che i testi siano molto diversi dalla prima uscita. Nell’edizione curata da Gino Tellini nella collana “I
Meridiani” invece c’è un ampio apparato che testimonia il cambiamento che hanno subito i primi testi e sono pubblicate
in questa edizione entrambe le versioni dei testi (quella del periodo futurista e quella del 1958) perché la revisione è molto
profonda. 

Soltanto in anni recenti è nata la convinzione che le opere di scrittori moderni contemporanei meritino un’attenzione
filologica che originariamente si è dedicata piuttosto ai classi e autori antichi. Se qualcuno non ci mette le mani
confrontando le varie edizioni non c’è un segnale esplicito che ci comunichi esattamente cosa ha fatto un autore tra
un’edizione e l’altra. 

La valutazione va fatta caso per caso e le questioni riguardano come ordinare in unità le tante opere di un singolo scrittore
che sono uscite singolarmente: si può ordinare per generi, si può fare un ordinamento cronologico, si può distinguere
l’edito dall’inedito (es. dopo la morte di Pasolini è apparso “Petrolio”), ecc. È responsabilità del curatore quella di
operare la scelta più opportuna al caso giustificando con delle informazioni opportune relative alle vicende che il testo ha
attraversato lungo la sua fortuna.

IL CASO DI EUGENIO MONTALE



L’anno prima della morte di Montale (fresco di premio Nobel e di una prestigiosa carriera alle spalle, ma anche di una
produzione più recente che aveva suscitato qualche polemica: l’ultimo Montale ha una produzione quotidiana più di getto
rispetto al primo Montale), Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini curano un’edizione delle opere in versi di Montale
“L’opera in versi” che esce nel 1980 presso Einaudi nel volume dei “Millenni”. È un’edizione che si propone di essere
definitiva. Nella prima parte ci sono i testi, nell’ultima gli apparati con le varie indicazioni. C’è inizialmente una nota dei
curatori che esordisce sottolineando l’originalità di questa iniziativa rivendicando la novità di dedicare un’attenzione pari
a quella dedicata ai classici del passato a un autore contemporaneo ancora in vita. Trattare Montale come si trattano
Dante, Ariosto, Petrarca. Altra originalità è che i curatori possono interpellare l’autore, un autore molto disponibile. Si
tende a sottolineare inoltre i due ruoli diversi: l’autore è interpellato e fornisce notizie, ma dell’opera si occupano in tutta
libertà i curatori. Ricordano inoltre alcune tappe della storia della edizione di testi corredati da apparati variantistici di
autore ritrovando la citazione di quell’archetipo dell’edizione seicentesca di Federico Ubaldini in riferimento al codice
degli abbozzi petrarcheschi e ricordando l’edizione dei Promessi Sposi a cura del Folli, quella del Moroncini su Leopardi,
i frammenti autografi dell’Ariosto a cura di Debenedetti. Si dice che anche Montale merita un’edizione di questo tipo. 

Si cerca inoltre di fornire al lettore continuamente le informazioni necessarie per seguire passo passo le tappe della poesia
montariana. Si unificano sotto il titolo “Opere in versi” le varie raccolte montariane, le quali a loro volte hanno avuto
delle storie personali. È un po’ la stessa situazione di Ungaretti, ma lì è Ungaretti stesso che programma un sovratitolo
unificante entro quale inserire le opere già edite e quelle future. Anche ciascuna delle raccolte ungarettiane ha una sua
storia interna. La sua edizione non è però una vera e propria ed critica, perché lì è Ungaretti che riordina le sue idee e
fornisce nella III ‘Poesie disperse’ una serie di varianti non proprio sistemate e riguardo solo le prime due raccolte (la
collaborazione filologica non è totale). Qui invece sono presenti due curatori che intendono raccogliere le singole tappe
della poesia montariana dando tutte le informazioni possibili e cercando di ricostruire la storia dei singoli pezzi che
convergono. La situazione è particolarmente complessa per gli “Ossi di seppia”, un po’ meno per le “Occasioni”. Ciò
valeva anche per Ungaretti: la prima raccolta era più complicata (pubblicata più volte con modifiche e spostamenti di
testi). Di tutto ciò nelle “Poesie disperse” è dato conto in maniera non integrale e organica. Per Montale si vuol dar conto
degli spostamenti e delle modifiche in modo integrale e completo: poche varianti per le ultime raccolte, problemi per le
prime. La poetica montariana passa dalla ricerca della parola più tormentata nelle prime raccolte a una poesia più
improvvisatoria che conosce meno tormento di elaborazione. Si tratta volta per volta di indicare la sere di varianti relative
alle singole raccolte. C’è una novità importante: ci sono in una prima parte le raccolte pubblicate da Montale fino a quel
momento, poi c’è una sezione intitolata “Altri versi” che Contini ci spiega essere una raccolta di una settantina di poesie
inedite scritte dopo la raccolta “Quaderno di quattro anni”. Mentre Contini e la Bettarini lavorano a questa edizione
Montale continua a scrivere versi o ripesca dai cassetti versi dimenticati finora mai raccolti in volume e li comunica ai
curatori. 

È questa un’edizione di tutte le opere di Montale che insegue un poeta ancora attivo. I curatori dicono che non esistono
fuori da questa edizione, ad eccezione di poesie recitate oralmente dall’autore, altre poesie da lui approvate e ammesse.
Fino qui è tutto Montale. 

Contini dice inoltre che è la critica che dando importanza alle varianti, ha sollecitato i poeti contemporanei a fare delle
varianti.

Contini dice anche qualcosa in relazione all’organizzazione delle varianti presenti nella parte finale. Ci si imbatte tra le
varianti in alcune curiosità. Ad esempio per “Ossi di Seppia” si nota che in una delle prime poesie “Corno inglese” che un
complemento oggetto legato al verbo del primo verso si trova all’inizio del terzo verso e in mezzo c’è un secondo verso
che è un intermezzo che interrompe il legame tra verbo e complemento oggetto introducendo nella struttura sintattica un
cambio di piani. I primi tre versi sono in questa forma in tutte le versioni di “Corno inglese”. Nell’apparato però si fa
riferimento a una lettera per la Bettarini del 13 novembre 1978 dove Montale allega una possibile variante a “Corno
inglese” proprio in riferimento a quei tre primi versi, non è una variante documentata nella storia che fa parte della
tradizione del testo, ma è venuta in mente a Montale in quel periodo perché non gli piacciono più i versi come li avevi
scritti, non gli piace quella frattura nella sintassi creata da quel secondo verso (fa una proposta un po’ improvvisata, non
molto curata, tipica del Montale dell’ultimo periodo). I curatori non considerano questa considerazione di Montale come
ultima volontà dell’autore, quindi non lo mettono a testo principale, ma devono comunque registralo in apparato. Ciò
testimonia un rapporto continuo in questa edizione tra autore e curatori. 

Per “Ossi di seppia” c’è anche un intervento di Montale che condiziona gli editori, la prima nota relativa a “Ossi di
seppia” segnala varianti di collocazione nel passaggio tra le prime tre edizioni. In alcuni casi Montale chiede di
ripristinare il testo nella posizione dov’era nella prima edizione, mentre normalmente la collocazione dei testi si dà
secondo l’ultima edizione. Vengono comunque scritti gli spostamenti che sono stati fatti. Si sono creati degli attriti tra
autore e curatori a causa della pressione di Montale. 

Si tratta questa di un’edizione che segue il Montale ancora in attività.

All’interno del secondo capitolo si parla inoltre delle correzioni, uniformazioni, interventi, ecc. 

A pag. 114 si parla degli interventi di uniformazione compiuti in tipografia o presso la casa editrice. Per fare queste
correzioni i redattori fanno riferimento alle regole di grammatica. Si parla in questa pagina degli accenti e degli apostrofi. 

A pag. 128 si parla della fenomenologia dell’errore distinguendo:

- refuso: errore materiale di battitura di tasti, errore di stampa, nelle edizioni antiche solitamente si aggiungeva un
foglietto alla fine quando si notavano errori a stampa ormai avvenuta;

- errore: ignoranza dell’autore. Ad esempio quando l’autore è convinto che Madrid sia la capitale Portogallo e lo scrive
nella sua opera; es. Moravia che fa andare una persona a Roma da un luogo all’altro tramite un tragitto illogico;

- svista: es. Fotocopia, es. Moravia dichiara prima che un personaggio è un non fumatore e un po’ di pagine dopo gli fa
accendere la sigaretta. 

La norma grammaticale può scontrarsi con scrittori che appositamente infrangono quella norma, ad esempio per mimare
una certa pronuncia o per dare un effetto particolare. Si pensi agli inserti dialettali in Pasolini e Gadda. Ci vuole
attenzione per evitare di intervenire su errori che sono intenzionali e fanno parte del progetto dell’autore.

DUE CASE STUDY: GADDA E MONTALE (CAPITOLO 3)

Uno dei problemi chiave della filologia del Novecento è costituito dalle conseguenze della messa in crisi del concetto di
“autore” che, dagli anni Sessanta vede un indebolimento rispetto al testo, riconosciuto nella sua indipendenza e
autonomia. Gli altri soggetti del processo editoriale, curatore, redattore, lettore intervengono in tutte le fasi
dell’evoluzione di un’opera: la progettazione, la realizzazione e il suo assetto finale, a volte sostituendosi alla volontà
stessa dell’autore. Carlo Emilio Gadda ed Eugenio Montale forniscono due utili casi di studio al problema. Con il “caso
Gadda” siamo di fronte a un autore che, dal 1961, può a ragione essere definito “postumo a se stesso”, autore di edizioni
cosiddette “coatte”, anche se d’autore, ma frutto di pubblicazioni ritardate, nelle quali vige un rapporto cronologico
inverso tra pubblicazione e produzione. Il “caso Montale” invece presenta un problema più specifico di mancato
riconoscimento dell’autore, nel caso in cui un’opera si presenti come frutto di una collaborazione tra l’autore, apocrifo di
se stesso e il curatore, oggetto dell’ispirazione poetica.

DI EDIZIONI INCOMPIUTE, POSTUME, COATTE. IL CASO GADDA

Difficilmente ha portato a conclusione una sua opera, c’è sempre una parvenza di provvisorietà nelle sue opere e cambia
editori molto spesso. Per esempio “La cognizione del dolore”, anche questo incompiuto, è stato pubblicato con Einaudi
invece di Garzanti scatenando delle dispute tra editori. Einaudi avrebbe dovuto avviare un progetto più sistematico (che
sarà la produzione in 5 volumi della narrativa (due volumi) della saggistica (due volumi) e il quinto sugli Scritti vari e
postumi). Gadda è uno scrittore asistematico, cioè per frammenti, il che porta conseguenze come stessi brani in testi
diversi e assemblati diversamente (anche per sollecitazioni editoriali). Il “caso Gadda” ci permette di affrontare in un solo
autore i problemi relativi alla pubblicazione di opere che non hanno ricevuto un imprimatur d’autore per ragioni
intrinseche (l’autore non le ha completate o ha deciso di pubblicarle in uno stato di “non finito”) o estrinseche (l’autore
anziano e quasi postumo a se stesso o già scomparso, al momento della loro pubblicazione o non ne ha seguito l’iter
redazionale o lo ha seguito in modo indiretto). Le ragioni di queste anomalie nell’opera di Gadda risiedono nella
peculiarità della vicenda editoriale delle sue opere. Per Gadda infatti, si è assistito a una radicale separazione tra ordine di
composizione e ordine di pubblicazione delle opere. Era un ingegnere per formazione e occupazione, ma letterato
d’elezione, non è stato uno scrittore precoce. Il primo tentativo di romanzo, il “Racconto italiano di ignoto del
Novecento” risale al 1924, quando l’autore, reduce dall’avventura argentina e intenzionato ad abbandonare gli impieghi
ingegnereschi per dedicarsi a tempo pieno alla letteratura. Dopo il primo cimento letterario, rimasto nel cassetto fino al
1983, la carriera di Gadda è costellata, da un lato da continui abbandoni e riprese dell’attività di ingegnere fino al 1950,
quando viene stabilmente assunto alla RAI e si trasferisce a Roma; dall’altro da un percorso di scrittura narrativa,
saggistica, e in minor misura filosofica, che proseguirà interrotto fino ai primi anni Sessanta. Di questa produzione Gadda
riesce a pubblicare solo una minima parte, fino al successo del “Pasticciaccio” del 1957, che proietterà l’autore nello star
system letterario. “Il Pasticciaccio” è un’opera incompiuta, un giallo in un ambiente romano, in cui figurano vari dialetti e
tipologie linguistiche. Con questo, viene ampliato il numero di lettori di Gadda. Lo scrittore è apprezzato più per le
pagine (divagazioni, note) che per il libro intero. Gadda entra in rapporto con editori che lo porteranno su un altro tipo di
mercato. Sono questi ultimi che lo spingono a consegnare brani finora inediti. Gadda inizierà poi a scrivere dei dialoghi e
testi da leggere in radio. Da quel momento Gadda vive una rinnovata stagione editoriale, le sue opere vengono lette,
ristampate e si pubblicano molti dei testi che erano stati scritti vent’anni prima, nel periodo più tormentato, ma più
fecondo della sua produzione (1920-1940), incoraggiando un’editoria spesso strumentale. Gadda non progetta né lascia
un piano editoriale della propria opera, ma affida a carteggi editoriali, solo recentemente editi nella loro integrità, la
ricostruzione di un complesso psicodramma letterario che tocca tutta la geografia editoriale italiana, da Sansoni a
Bompiani, da Einaudi a Garzanti, ecc che rappresenteranno il vertice di un conflitto commerciale e personale. La
pubblicazione delle “Opere di C.E. Gadda” nella collana “I libri della Spiga” di Garzanti, dal 1988 al 1993, è fondata su
un progetto generale di edizione critica che è venuta a ordinare una situazione testuale intricatissima. Delle strade
percorribili dal curatore, la conservazione del progetto d’autore si è dovuta escludere a priori, mentre solo la
ricostruzione storica del progetto d’autore è stata la sola praticabile. Una semplice distinzione di genere, posto che si
potesse applicare, non avrebbe risolto il problema del rapporto edito/inedito; di li la scelta di distinguere i testi narrativi
(Romanzi e racconti) da quelli saggistici e diaristici, riservando una categoria a parte a quello delle Favole (tagli non
proprio narrativi) che vengono accomunate alla non narrativa (Saggi, giornali, favole); riunendo sotto Scritti vari e
postumi tutto quanto non rientrava nelle precedenti categorie. L’edizione di Isella (primo volume nel 1988, poi
pubblicati fino al 1993) era ripartito in: romanzi e racconti (due volumi); saggi, giornali, favole (due volumi) e il quinto
volume è dedicato a testi sparsi e inediti, il corollario del progetto d’autore. Per quanto riguarda invece la possibilità di
ordinare i testi secondo una ricostruzione del loro percorso cronologico, se da un punto di vista storico-letterario, sarebbe
stato molto utile considerare i testi nella loro evoluzione “biologica”, il loro statuto profondamente diverso non
autorizzava a una commistione, che avrebbe finito per mettere sullo stesso piano testi che erano stati e sono
profondamente differenti. La soluzione scelta da Isella, perciò, ha proposto, fatta salva la distinzione di generi sopra
considerata e la separazione tra edito (primi 4 volumi) e inedito (quinto volume), una ricostruzione storica del progetto
d’autore. I primi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, è il periodo in cui Gadda riuscì nell’intento di portare a termine
un preciso programma di sistemazione; Isella ha identificato in una lettera a Einaudi del dicembre 1954, una
progettazione d’autore relativa a quasi tutta l’opera di Gadda e sulla base di quelle indicazioni ha ricostruito un progetto
di cui non abbiamo che un abbozzo. Nella lettera a Einaudi, lo scrittore bipartiva la propria produzione in due volumi
rispettivamente narrativo (comprendente Castello di Udine, l’Adalgisa e la Cognizione del dolore) e saggistico (Le
meraviglie d’Italia, Gli anni e altri saggi inediti), autorizzando una distinzione per generi: narrativo e saggistico,
rappresentanti dei due volumi garzantiani di Romanzi e racconti (I e II) e Saggi, giornali e favole (I e II), e suggerendo
un’organizzazione interne di tipo cronologico. La prima caratteristica che da di quest’opera un complesso sistema a vasi
comunicanti, implica la necessità di moltiplicare gli individui testuali, preferendo la riproposta delle edizioni piuttosto che
la rappresentazione della loro fisionomia attraverso varianti d’apparato. Così, ad esempio, i due racconti dell’Adalgisa,
ricavati dall’allora inedita Cognizione del dolore, non vengono riprodotti nella versione dell’una o dell’altra opera, ma in
entrambe, riconoscendo quindi la fisionomia dei singoli volumi un valore aggiunto da non sacrificare alla ripetizione dei
testi stessi. La seconda caratteristica coinvolge direttamente, sia a livello di microtesto (singola lezione) che di
macrotesto (struttura delle raccolte), una considerazione del principio secondo cui un testo va pubblicato seguendo
l’ultima volontà dell’autore, che è il principio dichiarato come guida generale dell’edizione. Si è deciso di pubblicare la
Madonna dei filosofi (princeps del 1931), il Castello di Udine (princeps 1934) e l’Adalgisa (princeps 1944, Le Monnier)
nella raccolta einaudiana del 1955. Ne il Castello di Udine ci sono tagli testuali e la soppressione di molte note presenti
nell’edizione del 1934, note che la curatrice presenta in Appendice successiva alla Nota al testo. Ma si trattava di
un’edizione storica tra le princeps di Gadda, non fosse altro perché la sua recensione aveva inaugurato quei Quarant’anni
di amicizia con Gianfranco Contini che avrebbero lasciato un segno duraturo nell’opera dell’ingegnere e nella storia della
critica letteraria del Novecento Italiano. Il diagramma autoriale, sceso a picco laddove avrebbe dovuto concludere il
percorso in climax ascendente, giusta la legge dell’ultima volontà dell’autore, permette a Isella di valutare per analogia la
produzione più tardi degli anni Sessanta e Settanta, quella del successo letterario. Dal quadro qui proposto emerge come
sia stato possibile, nel 2010, dopo che l’opera di Gadda è entrata nel catalogo di Adelphi, ripensare i criteri editoriali di
quella che si presentava non già come una nuova opera omnia, l’edizione diretta da Dante Isella nella collana dei “Libri
della Spiga” è ancora un punto di riferiment0o imprescindibile, ma la ripubblicazione organica dei testi in cui si
progettano nuove edizioni. La ripubblicazione delle opere gaddiane nel catalogo Adelphi, quindi, iniziata con gli
Accoppiamenti giudiziosi del 2011 nell’edizione del 1963, ha privilegiato l’ultima stazione del percorso dei racconti
gaddiani perché ritenuta la più completa e antologica selezione d’autore. Questa scelta non ha tuttavia impedito, per il
volume successivo, pubblicato nel 2012, l’Adalgisa, di presentare ai lettori invece la prima edizione del 1944, considerata
la più fedele. L’Adalgisa sono una serie di racconti ambientati a Milano, viene pubblicata con autori minori a Firenze; la
prima pubblicazione si ha nel 1944 da La Monnier che pubblicava soprattutto autori classici (Foscolo, Verga, ecc) e saggi
critici. Rilevanti sono le conseguenze sulle opere pubblicate nell’ultimo decennio di vita dell’ingegnere, come mostra il
caso più eclatante: EROS E PRIAPO, il pamphlet antifascista scritto nel 1944-46 ma pubblicato da Garzanti nel 1967
sull’onda del successo del Pasticciaccio e nei marosi della contesa editoriale con Einaudi, che a partire dal 1955, pur non
essendo diventato l’editore esclusivo di Gadda, aveva annesso al suo catalogo quanto lo scrittore era andato pubblicando,
in edizioni per lo più sovvenzionate o in rivista, fra il 1931 e il 1944 e al Pasticciaccio garzantino (1957) aveva
contrapposto La cognizione del dolore (1963). Alle consuete resistenze gaddiane a dare forma compiuta e definitiva ai
propri testi si aggiunge il psicodramma che furono i rapporti con gli editori. Il contesto editoriale contribuisce a definire la
fisionomia del testo, sia nella sua struttura che nella sua forma. A Gadda, infatti, Livio Garzanti affianca un revisore
d’eccezione, il giovane Enzo Siciliano incaricato di trasformare il dattiloscritto, che in casa editrice hanno fatto trarre
dall’originale del 1944, in un testo pubblicabile. E il volume del 1967 è il risultato di un lavoro di editing svolto a quattro
mani, dove gli interventi di Gadda sono bilanciati da quelli del collaboratore. L’edizione del 1967 rivela l’intenso
rapporto tra Gadda e la casa editrice per rendere il testo pubblicabile (attenuare i noti osceni). Il rifiuto di Gianna Manzini,
cui aveva sottoposto il primo capitolo nel 1946 per una pubblicazione sulla rivista “Prosa” perché intollerabilmente
osceno, lascerà il poderoso manoscritto all’ingegnere, e spingerà Gadda a un lavoro di editing tutto volto a edulcorare il
testo, a smussarne i contenuti più oltranzisti, gli estremi stilistici e la violenza espressiva. Avvia varie proposte editoriali
ma sempre rimandate. [Nel periodico Prosa di Mondadori venivano raccolti parti di saggi e progetti per pubblicizzarli;
Gadda manda brani a Enrico Falqui (che lavora insieme alla Manzini) che non vuole pubblicarli per le oscenità contenute.
La scoperta del manoscritto autografo nel 2010 ha rimesso in discussione l’identità del testo del 1967, frutto di
un’operazione editoriale approvata, ma passivamente realizzata dall’autore e ha sollecitato la necessità di una nuova
edizione che riconduca il testo alla sua forma originaria, con ricadute critico-interpretative. La nuova edizione è prevista
per il 2015 e sarà a discrezione degli editori se sarà integrale. Resta il fatto che per 50 anni il testo si è conosciuto secondo
la stesura di Garzanti. Si potrà valutare l’intervento redazionale compiuto nei dettagli ora che c’è un termine di confronto.
“Eros e Priapo” si trova nel secondo volume di saggi, giornali, favole e altri scritti; la nota in Appendice ne spiega la
Genesi. Nella nota si dice che Gadda abbiamo RETRODATATO l’opera, cioè che l’abbia scritta nel 1928 e che solo nel
1934 (guerra di Etiopia) abbia capito che il fascismo non gli piaceva; ma in realtà risale al 1944-45 per i vari indizi nel
testo. Il testo che ora è possibile ricostruire sul manoscritto originario è radicalmente diverso da quello pubblicato a
stampa, non solo per le varie riscritture, revisioni e censure, ma per l’impianto generale dell’opera , che si rivela come un
altro esempio di capo d’opera gaddiano incompiuto. L’originaria redazione faceva subito emergere l’invettiva: la
responsabilità del ventennio fascista non veniva attribuita a un generico gruppo di “associati”, ma al più trasparente: “Li
associati a delinquere”. Si tratta dell’occultamento di una esplicata condanna: per vent’anni l’Italia era stata minacciata,
coperta di vergogna, violentata e fatta cadere talmente in basso da non poter neanche incontrare lo sguardo
dell’Onnipotente, da un’”associazione a delinquere”, ovvero da una banda di delinquenti che avevano spacciato per
attività politica la radicale distruzione, eliminazione e annichilamento dei segni della vita dalle radici della memoria. Un
potere, continuava la versione del 1944, che si era fondato sull’uso della violenza fisica, per impedire qualsiasi atto vitale
e di conoscenza; e dalla minaccia fisica aveva impedito alla stessa coscienza di manifestarsi imbavagliandola e
relegandola in una zona di retroguardia. Che il primo capitolo costituisca un caso limite di equilibrio tra volontà e
autocensura d’autore lo mostra il fatto che la rielaborazione effettuata sul manoscritto del 1944 per la pubblicazione su
“Prosa” è ancora più estrema, violenta, più impubblicabile della prima stesura, e di conseguenza rende più evidenti le
varianti di autocensura nell’edizione a stampa. La revisione garzantiana detronizza la violenza del testo, la sua oltranza
espressiva, le iperboliche soluzioni stilistiche che Gadda aveva costruito mescolando sublime d’alto e basso. Era un
Gadda stilisticamente in stato di grazia quello che affidava alle pagine di un incandescente autografo l’atrabile della
propria autodenigrazione. Un atto di autoaccusa, che, per avvicinare i carboni ardenti del ventennio fascista, non poteva
dimenticare che, su quei carboni, dal 1922 al 1941 ci aveva camminato sopra. Eppure, a farci condurre dall’atrabile
dell’antimussolinismo coglieremo solo un aspetto dell’opera gaddiana, che è la scoperta dell’autografo originario e lo
studio preliminare all’edizione integrale ci mostrano un testo molto più complesso di quanto la pur vera etichetta di
pamphlet antimussoliniano e psicanalitico possa far credere. Se è vero che Eros e Priapo è uno dei testi più estremi della
nostra letteratura è altrettanto vero che era intenzione di Gadda non solo scrivere un pamphlet antifascista, ma ricostruire
un intero popolo, dopo aver mostrato lo strazio della sua distruzione materiale e morale, segnare la strada per una
rinascita. La redazione originaria costringe quindi a cambiare radicalmente il punto di vista sul testo e persino la sua
stessa natura. Non si tratta per Gadda di utilizzare la chiave psicoanalitica per capire il ventennio fascista, ma di utilizzare
il ventennio fascista per capire, attraverso una degenerazione estrema, come funziona il delicato rapporto tra narcisismo
individuale e vivere civile. L’estrema verità messa a nudo da Gadda non è tanto il delirio esibitivo, il priapismo massiccio
narcissico di Mussolini, ma l’erotismo “naturale” di ciascuno dei 44milioni dei suoi sostenitori. L’infatuazione per il duce
è in chiave di erotismo, c’è una rievocazione della propaganda fascista in termini di attrazione erotica verso il Duce e la
rievocazione della fascinazione esercitata da Mussolini. Il testo avrà una struttura complessa, non limitata alla pars
destruens (mussolineide) ma estesa all’analisi dettagliata dei meccanismi erotici di una psico-erotia delle masse che
fornisca le basi di una pars construens: notificare il male per “condurre a profitto l’esperienza e non vagare, bambocci
sperduti, verso il buio inane dell’eternità”. Considerato il primo capitolo come inlinitivo e propedeutico, Gadda si
appresta a delineare nel secondo, sulla scorta di molte più letture freudiane di quanto si sia ritenuto finora, una vera e
propria psico-erotia delle masse. Non tutti i punti dell’indice vengono sviluppati e non nel medesimo ordine in cui
figurano nell’indice stesso. Non è possibile, quindi, sulla scorta dello Schema, smontare la struttura del testo e ricostruirlo
virtualmente. Troppe sarebbero le lacune e troppo invasive le zone di restauro conservativo. Le due guide a questo
attraversamento dello psichismo individuo e generale sono il Freud di Totem e Tabù, che fornisce al saggio l’assetto
scientifico-teorico; e Machiavelli del Principe che offre invece il modello di un “trattato” che si ponga come obiettivo
l’analisi fattuale della cosa, non il suo giudizio etico. E come Freud aveva liberato la psicoanalisi fondandola sull’analisi
della vita inconscia degli individui e il segretario fiorentino aveva liberato la politica fondandola come scienza autonoma,
così per Gadda è indispensabile far partire la pars construens della società dalla fondazione di una psicologia sociale/
psico-erotia delle masse indipendentemente dalla politica e dall’etica, fondata sul riconoscimento del movente erotico alla
base delle azioni umane. Non è più possibile, quindi, considerare Eros e Priapo solo come un pamphlet antimussolinano.
Se Gadda avesse voluto solo scrivere un pamphlet, il titolo più adatto sarebbe stato Eros e Logos, che avrebbe polarizzato
la dicotomia su cui poggiava la sua personale ricostruzione del ventennio fascista: una lunga abdicazione ai principi
razionali, sostituiti dal trasporto erotico delle masse (nella loro componente femmina) verso il Capo. E consegna ai lettori
l’atto di accusa più violento delle nefandezze del regime, la denuncia spietata della sottomissione di un intero popolo di
sudditi al delirio narcissico del Capo e un micidiale strumento di autocoscienza collettiva, di messa a nudo del delicato
equilibrio tra le pulsioni di Eros, la loro degenerazione priapica e la loro sublimazione. L’edizione del 1967 riflette una
volontà coartata dalle paure e dai timori che angosciano l’autore a vent’anni di distanza, con una diversa situazione
personale e in un diverso contesto storico-culturale , che finiscono inevitabilmente per modificare il progetto originario e
snaturare la sostanza e la forma del testo. La nuova edizione si affiancherà a quella del 1967, permettendo al lettore di
scoprire un testo affatto nuovo e riconoscere la portata dell’operazione culturale. Del “Racconto italiano di ignoto del
Novecento” Dante Isella procura nel 1983 per Einaudi un’edizione critica che costituisce ancora oggi un punto di
riferimento obbligato per gli studi testuali gaddiani e per la filologia d’autore. L’importanza di questa edizione è costituita
dal fatto che si fonda sulla doppia esigenza di rappresentare compiutamente la complessità della pagina gaddiana e
insieme di razionalizzarne le molteplici componenti. Occorre distinguere tra il piano del testo e il piano delle postille al
testo, considerando tali l’insieme degli interventi dell’autore. E occorre tenere distinte le lezioni che nel loro succedersi e
correggersi costituiscono le fasi anteriori del testo stabilito dalle lezioni che, pensate come sue varianti possibili, lo
aprono virtualmente verso nuove soluzioni. Apparato, postille e varianti alternative formano la triplice griglia preordinata
alla distinzione e organizzazione di tutto ciò che, nel laboratorio dello scrittore, concorre da un lato a definire il testo e a
registrarne gli embrionali sviluppi, dall’altro a commentare le proprie decisioni, attuate o attuabili; ma, in presenza di
un’opera in fieri (che non esiste come oggetto definito dall’autore, offrendosi come risultato di una ricostruzione critica)
quella griglia viene a essere anche la indispensabile garanzia del testo prodotto.
a) APPARATO: quando il testo è costituito dalla ricostruzione dell’ultima lezione del manoscritto, è di tipo
genetico, rappresenta cioè tutte le fasi di correzione del testo dalla sua prima all’ultima lezione ed è di tipo
orizzontale. Ogni porzione di testo coinvolta in variante viene delimitata da una parentesi quadra e seguita dalla
riproduzione dello stato del manoscritto, attraverso opportune abbreviazioni. Si tratta di un apparato di tipo
parlato, dove la topografia delle correzioni viene rappresentata mediante abbreviazioni. Questo modello già
utilizzato da Isella o dai suoi allievi, è stato mantenuto anche nelle successive edizioni di manoscritti gaddiani.
Mentre infatti nei primi apparati le correzioni venivano rappresentate singolarmente, negli apparati più recenti le
correzioni vengono rappresentate cercando di unire le varianti che possono essere legate fra loro, e presentando la
loro seriazione temporale mediante esponenti numerici identificanti le fasi di una determinata porzione di testo.

b) POSTILLE, sono definite postille le osservazioni, scritte un po’ dovunque, con le quali Gadda è solito postillare il
già fatto o il da farsi: espressioni di scontento o soddisfazione, avvertimenti o consigli a se stesso e anche dubbi e
collegamento tra luoghi diversi. La decisione di separare dalla dinamica testo/apparato tutti gli elementi che non
avrebbero potuto comparire ne nel testo ne nell’apparato, perché relativi allo stadio metatestuale, ha comportato
una razionalizzazione della pagina pari alla sua complessità, sceverando dal manoscritto tutti gli elementi non
funzionali alla restituzione del testo e della sua genesi interna, con il duplice risultato di semplificare la
rappresentazione del manoscritto stesso e di dare maggiore evidenza al momento riflessivo e progettuale del testo.

c) VARIANTI ALTERNATIVE sono lezioni concorrenti tra le quali l’autore non sa decidersi o comunque non dà a
intendere per segni certi di sapersi decidere: vengono registrate a piè di pagina e sono contrassegnate da un
esponente alfabetico.

I criteri rappresentativi messi in opera da Isella hanno cominciato a essere applicati ad altri manoscritti gaddiani, scoperti,
quando praticamente la collana delle Opere si avviava alla sua conclusione, negli armadi di Via Senato: decine di
quaderni, quadernetti e notes di appunti che Gadda aveva donato a Livio Garzanti, in riconoscenza di un sostegno non
solo economico nel parto del Pasticciaccio e in previsione di un futuro utilizzo editoriale. Dal 1950/60 si è introdotta una
massima correttezza degli accenti, mentre prima veniva direttamente usato l’accento grave. Si ricorda che l’accento acuto
prevede chiuse le vocali finali (es. perché, finché, sicché, ecc), mentre l’accento grave prevede le vocali finali aperte.
Nell’introduzione de “l’Adalgisa” Claudio Vela mette in scena un dialogo tra i due Perché e Perchè e un giudice, in cui si
vuole giustificare perché si è conservato il perché con l’accento grave, ed è perché L’Adalgisa è il libro più milanese di
Gadda. Un lombardo non dirà mai perché ma perchè . L’accento grave è importante in questo caso per la ricostruzione
del linguaggio milanese mimetico.

DI INEDITI, APOCRIFI, FALSI. IL CASO MONTALE

Con Montale il mondo culturale e specificatamente letterario ha affrontato in forme radicali e non sempre pacifiche il
problema dell’attribuzionismo, della crisi dell’autore, dell’incerta paternità delle opere. Un tema tipicamente
novecentesco e non solo in letteratura, di quella certificazione autoriale che nell’epoca della riproducibilità tecnica viene
oggettivamente a mancare. A questa crisi si aggiunge un dato formale, legato alla predominanza, nelle poetiche del
Novecento dell’ultimo quarto di secolo, della citazione sull’innovazione. Ciò provoca un coinvolgimento diretto dei
curatori nell’assetto definitivo della struttura e della forma del corpus poetico, assetto reso ancora più complicato dalla
presenza di un’importante serie di inediti, pubblicata dopo la morte del poeta, e intitolata Diario Postumo. Che le poesie
di Montale, a partire dal cosiddetto “rovescio della poesia” rappresentato dalle raccolte da Satura in poi, abbiano
previlegiato una forma dimessa, prosaica, auto citazionistica, di segno opposto rispetto al grande stile delle prime tre
raccolte, è un dato formale che ha reso il problema dell’autorialità del Diario postumo ancora più complicato. Se non è
difficile imitare uno stile, è ancora meno difficile imparare un “non-stile”, una programmatica e deliberata reductio della
propria immagine di poeta, che, mentre viene ironizzata, si offre a una facile replicazione. Lo scopo di un’indagine
attribuzionistica, infatti, è prima di tutto accertare la verità, ma in secondo luogo, applicare un metodo di indagine
storicamente fondato e scientificamente costruito, che utilizzi tutti gli elementi per quel concorso di cause che
contribuisce a dare credibilità a un’ipotesi. Va da sé che il problema dell’identità dell’autore e dell’autografia o meno di
un testo, ha ricadute imprescindibili anche sull’edizione delle sue opere ed è altrettanto scontato che lo scopo della
ricostruzione di questo case study non è tanto la dichiarazione dell’autografia o apocrifia dei testi del Montale “postumo”,
ma una riflessione storica e metodologico-tecnica sulle coordinate storiche, il metodo di indagine, i materiali oggetto della
discussione e le implicazioni culturali e critiche di un problema. Il Diario postumo, pubblicato nel 1996 da uno dei due
curatori dell’opera omnia, Rosanna Bettarini, raccoglie le poesie appartenenti a un arco cronologico molto ampio: dal
1969 al 1979; un decennio in cui Montale scrive altre poesie, le pubblica in raccolte e collabora all’allestimento della
propria Opera in versi. È la stessa curatrice a ricordate nella Nota al testo, che anche durante il lavoro filologico che
avrebbe dovuto chiudere l’edizione ne varietur della propria opera, Montale continuava a mandare decine e decine di
componimento nuovi che vengono organizzati e tenuti a battesimo dai due curatori nella sezione finale di Altri versi. I
due filologi non sanno che, accanto alla raccolta che si va delineando con poesie “rifiutate”, molte delle quali di prima
scelta e poesie nuove, scaturite proprio dal lavoro di edizione critica, si stava da tempo costruendo un’altra raccolta, che il
poeta aveva affidato invece ad Annalisa Cima perché la pubblicasse, dopo la sua morte, a scansioni temporali, come una
sorta di testamento poetico. Si poteva pensare a una beffa ai critici, (costretti di fronte alla presenza di nuovi testi a
ripensare alle precedenti categorie interpretative) e a un gioco letterario che prolunghi in un certo senso la vita del poeta,
capace di inviare poesie ai propri lettori dall’oltretomba. È attitudine ironica, propria del poeta, ad affrontare in poesia il
“rovescio della vita”. Come ha osservato Giovanna Ioli, l’esistenza stessa della “raccolta” Altri versi, scaturita dal lavoro
di curatela dell’edizione critica, mette in crisi il concetto stesso di edizione critica. I due curatori si trovano infatti di
fronte a un universo in movimento, a un flusso sempre nuovo e inarrestabile di energia vitale, che tende a dilatare senza
posa i confini che loro tentavano di cristallizzare con la descrizione e le varianti di un’opera che si presumeva conclusa, e
non possono fare altro che contenere tale flusso. La sezione di Altri versi nasce con questo scopo, ibridando il carattere
dell’edizione critica, che diventa un’edizione unica nel suo genere, perché capace di dilatarsi al punto da generare un libro
nuovo. Edizione, tuttavia, che in tante incertezze poteva contare su una sola certezza, negata invece al Diario postumo:
l’autorialità indiscussa dei testi nuovi. Il poeta sottopone alla propria curatrice nuove versioni di testi antichi e primi
abbozzi di testi nuovi, cercando in lei un consenso, un’autorizzazione all’integrazione di questi ultimi lacerti nel corpus
maggiore. Niente impediva a Montale di avere elaborato, nello stesso arco di tempo, altre poesie, lasciate nei cassetti, o
distribuite in una cerchia ristretta di amici. I dubbi sull’autenticità del testo non riguardano solo i manoscritti, ma i testi
stessi, il loro contenuto, la loro pubblicazione e “combinazione” in un libro di poesie. L’edizione del Diario postumo del
1996, è un volume che reca come sottotitolo 66 poesie e altre. Perché questa dicitura invece di 84 poesie? Nel 1979
Montale decide di raccogliere alcune poesie scritte nel decennio 1969-79: ne sceglie 66 e le suddivide in 11 buste, sei per
ogni busta, e sigillandole. L’intento di Montale, dichiarato da Annalisa Cima è quello di continuare a sopravvivere oltre la
morte attraverso la pubblicazione di inediti, che verranno svelati “a puntate”, a partire da una data stabilita dal poeta in
accordo con la sua ultima “musa”. La pubblicazione dei testi non inizia subito dopo la morte di Montale, avvenuta il 12
settembre 1981, (10 anni dopo esce “Eugenio Montale. Diario Postumo” di Mondadori) ma cinque anni dopo, dal 1986,
in plaquettes di 100 esemplari fuori commercio pubblicate a Lugano ( in Svizzera), dalla istituzione fondata dalla stessa
curatrice a ricordo della nonna, la Fondazione Schlesinger, con un titolo diverso da quello definitivo. Al ritmo di sei
poesie all’anno, dal 1986, vengono aperte le buste e pubblicati i testi con il titolo ogni volta di Sei poesie inedite. [Le
buste in realtà contengono più di 6 poesie ciascuna, perché di ogni testo esistono più redazioni. Tutti i testi sono scritti a
mano, ora con lapis, ora con la biro o penna stilografica. ] Queste sei poesie inedite fanno parte di un diario poetico che
Eugenio Montale ha regalato, con l’incarico della curatela, ad Annalisa Cima. Il diario poetico data dal 1968 al 1979 in
cui compare l’indicazione cronologica. Una prima raccolta di 30 testi viene pubblicata nel 1991, in occasione del
decennale della scomparsa del poeta, a cura di Annalisa Cima, con apparato critico di Rosanna Bettarini. I testi non
vengono pubblicati in ordine cronologico generale (rispecchiano l’ordinamento dell’autore), ma seguono la successione
che avevano nelle buste e la seriazione dei componimento ivi conservati. La pubblicazione delle plaquettes procede al
ritmo di sei componimenti alla volta, dal 1991 al 1995, per un totale di 60 componimenti. L’edizione del Diario del 1996,
tuttavia, di componimenti ne comprende molti di più: 66 poesie e altre (per altre si intendono 18 poesie, l’ultima busta
conteneva sei poesie+18). Il numero 18, scrive Bettarini, potrebbe indicare la volontà di continuare il gioco con altre tre
virtuali buste di sei, ma i componimento sono fisicamente sciolti, come a voler interrompere il gioco delle buste. Montale
cioè, secondo Bettarini, nonostante potesse agevolmente raccogliere anche questi ultimi testi in tre gruppi di 6 e chiuderli
in altrettante buste come gli altri, senza un’apparente spiegazione li lascia sciolti. Le ragioni di questa palese anomalia
non sono chiare. Posto che nel 1979 tutti gli 84 testi dovevano essere già stati composti, le regole di questo marchingegno
editoriale presentano alcune casualità e scelte ponderate. È casuale la data di pubblicazione iniziale della raccolta, ma non
lo è la data in cui terminano le pubblicazioni “a rate”, perché a un certo punto il sistema subisce una repentina
accelerazione e dal ritmo di 6 in sei si giunge all’edizione del 1996, che pubblica i 6 nuovi testi più altri 18, con tre anni
di anticipo sulla data che nella scansione naturale avrebbe suggellato l’operazione nel 1999. Se dal punto di vista di
Montale l’accelerazione finale resta inspiegabile, lo è molto meno dal punto di vista delle leggi del mercato editoriali. Il
volume pubblicato nel 1996, infatti, non viene rivolto a una stretta cerchia di pochi eletti, ma è destinato a un più largo
pubblico, nella celebre e prestigiosa collana “I poeti dello Specchio”, con il titolo di Diario postumo (e non Poesie di
Eugenio Montale come per le plaquettes). Per i primi 5 anni la pubblicazione era quasi privata. Il 20 luglio 1997, nella
pagina culturale del Corriere della Sera, appare un articolo di Dante Isella, dove si dichiara l’apocrifia delle poesie di
Diario postumo. Di fronte alle riproduzioni offerte dalle varie edizioni di Diario postumo, mette in dubbio l’autografia dei
testi, considerati frutto di un’abile contraffazione. Lingua e stile possono essere contraffatti, anche quando la poetica
dell’autore sia contrassegnata dalla citazione e dall’autocitazione: ciò che dei detrattori dell’autografia viene imputato a
un’abile contraffazione stilistica, diventa, per i sostenitori, un meccanismo interno di autoreferenzialità stilistica. Va
notato casomai che nelle infinite polemiche i testi vengono sempre considerati come un corpus unico, e non valutati
separando le prime 66 poesie dalle successive 18. L’intervento più importante è di Rosanna Bettarini che, pur non
mettendo in dubbio l’autografia dei testi, dichiara di non avere personalmente assistito alla complessa cerimonia di
apertura delle buste. Dal canto suo, Annalisa Cima difende con forza la veridicità di testi e autografi, denunciando un
ostracismo da parte dell’editore di Montale, e rivendicando il suo ruolo di erede morale e materiale dei diritti dell’opera
montaliana sulla base delle lettere-legato. Un vero e proprio colpo di scena giunge quando, all’inizio di settembre,
interviene nel dibattito Maria Corti, ricordando precisamente situazioni e circostanze in cui Montale avrebbe, sin
dall’autunno del 1971, donato alla giovane poetessa alcuni suoi testi perché fossero pubblicati, “a scaglioni”, in una
raccolta postuma. Si tenne a Lugano un Seminario di studi durante il quale i criticati manoscritti vengono esposti al
pubblico in un’estemporanea mostra. Tra i visitatori della mostra e nelle file del pubblico c’è Maria Antonietta Grignani,
allieva di Maria Corti e per anni direttrice del Fondo Manoscritti di Pavia, filologa, storica della lingua e profonda
conoscitrice dell’opera e della grafia di Montale. Al termine del Seminario il suo intervento focalizza l’attenzione su tre
punti chiave:

1) La questione della grafia, sollevata da Isella e da Petrucci. La diversità grafica tra i testi e quelli coevi di
componimenti poi confluiti in volumi a stampa viene spiegata con un’attitudine psicografica variabile a seconda
che il poeta scriva per sé o per altri;

2) Il secondo punto riguarda la costante presenza di versioni dattiloscritte che seguono quelle manoscritte,
caratterizzate a loro volta dalla fitta presenza di varianti. Per i testi del Diario postumo, invece, di dattiloscritti
non è rimasta traccia e le varianti sono molto contenute, e molto pulite, in una sorta di bella copia;

3) Il terzo elemento riguarda lo stile, che è uno dei punti chiave su cui poggia il ragionamento di Isella, e in
particolare lo stilema dell’autocitazione, ma con altre conclusioni: Isella non ha ragione quando prende
l’autocitazione come prova di falso. Evidentemente chi conosce l’ultimo Montale da Satura in avanti, ma anche
prima, sa che non è così. Perciò c’è una cosa particolare: ed è che l’autocitazione in tutto il Diario postumo non è
mai l’autocitazione autoironica di Satura e del Diario del ’71 e ’72. È l’autocitazione in salvataggio del 5% di
ottimismo, in questo caso forse anche del 10%, delle ultimissime raccolte.

L’intervento della Grignani è determinante e segnala i punti chiave che mostrano due componimenti macroscopicamente
singolari: quello della mano e quello dell’autocitazione. Le parole di Grignani sembrano scrivere una conclusione
definitiva. Nel decennio 1997-2007, tuttavia, due fatti nuovi presentano ulteriori dati che riaprono la questione: la
pubblicazione delle concordanze del Diario postumo realizzate da Savoca, con la riproduzione integrale degli autografi e
la pubblicazione di un nutrito corpus di inediti, emerso dalla donazione del 2004 di Gina Tiossi, la Gina di molte poesie
montaliane, entrata come governante negli anni Cinquanta e rimasta fino alla morte del poeta. È un materiale di
straordinario interesse comprendente carte, disegni e prime rarissime edizioni. Le riproduzioni facsimilari permettono di
fare ciò che Isella aveva ripetutamente richiesto e anche qualcosa di più, perché la terna arbitrale viene sostituita dalla
comunità dei lettori del volume, in una partecipazione collaborativa e condivisa dall’accertamento della verità: analizzare
i testi graficamente, mettere gli autografi in relazione fra loro e con i manoscritti montaliani delle raccolte edite e disporli,
anche se virtualmente, in ordine cronologico, mettendo in luce evidenti anomalie e riservando alcune vere e proprie
sorprese. Le poesie pubblicate nel Diario Postumo non seguivano un ordine cronologico, ma l’ordine in cui erano state
disposte nello buste, dove pure, era possibile identificare alcune microsequenze cronologiche. Ed è qui che si verificano
due evidenti anomalie: la prima, i testi coevi non presentano una relativa somiglianza tra loro, in secondo luogo non si
riscontra lungo l’ampio arco di tempo considerato, una variazione da una maggiore sicurezza di tratto a una maggiore
incertezza. Gli apparentamenti di inchiostri e grafie sono invece sorprendentemente trasversali. Spicca, in modo
particolare la implausibile mancanza di progressione negli autografi, dal lineare all’incerto, dal sicuro all’insicuro. Tra le
carte che, non avevano fatto parte dei materiali censiti e utilizzati da Bettarini e Contini per l’edizione critica, insieme a
prime redazioni di testi poi pubblicati, spiccano infatti anche alcuni testi inediti, 55 componimenti più una breve prosa
intitolata Al telefono, in un volume intitolato La casa di Olgiate, datato 2 luglio 1963. Le serie compositive sono ben
identificabili e compatte cronologicamente, tanto da permettere alla curatrice di individuare, sulla base di esse, la
seriorità di un gruppo di poesie, e contrastano con l’anomalia degli inchiostri sopra osservata per il Diario postumo, dove
gli apparentamenti non seguono l’arco temporale, ma sono inserite nelle buste sparigliando la serie, e insinuando il
dubbio di una scrittura a posteriori. È molto probabile che la verità, stia nel mezzo e che i testi non siano tutti
integralmente veri o integralmente falsi. Lo suggeriva già involontariamente la stessa Annalisa Cima nella prima
intervista “a caldo”, lo aveva ipotizzato anche Dante Isella in un passaggio sei suoi appassionati articoli, ritenendo però
che gli eventuali testi d’autore fossero frutto di un abile montaggio di frammenti verbali. Ricordando ancora che il solo
criterio paleografico non è sufficiente a definire l’autografia o l’apografia dei testi, ma va combinato con quello tematico,
linguistico e stilistico, da un punto di vista strettamente paleografico, l’assenza di progressione cronologica nell’arco
temporale 1969-1979 e gli apparentamenti grafici trasversali, di componimenti lontani nel tempo, sono dati incongrui, che
impongono una sospensione del giudizio e una revoca in dubbio dell’autografia di alcuni testi. Il che basterebbe per
mettere in discussione l’intera operazione e ipotizzare che sia il frutto di una contraffazione apocrifa, in cui vengono
mescolati testi verissimi, composti alla spicciolata e consegnati dal poeta alla sua ultima musa, per un gioco letterario
perfettamente in linea con la poetica e l’ideologia dell’ultimo Montale, a contraffazioni non autografe, né nel contenuto,
né nella forma, citazionistico-centonatoria. Dei testi pubblicati dopo l’edizione critica del 1981, abbia due raccolte
diversamente apocrife, la prima, il Diario Postumo, per forti dubbi di autografia, ma non priva probabilmente di singoli
testi autografi, la seconda, La casa di Olgiate, sicuramente autografa, ma apocrifa per struttura. Il caso Montale, permette
di toccare uno dei problemi più interessanti e complessi delle edizioni del Novecento nel rapporto tra volontà dell’autore e
volontà dei curatori, tra testi autografi e apocrifi, e in ultima istanza tra vero e falso. Per dirimere la questione sarebbe
necessario possedere un criterio scientifico, ma il metodo di un’expertise attribuzionistica non è scientifico e non lo sarà
finché non si potranno introdurre sistemi quantitativi e qualitativi di analisi dell’autografo che permettano di distinguere e
datare le serie scrittorie e correttorie. In mancanza di altri dati, e mantenendo il beneficio del dubbio, la soluzione più
onesta nei confronti del lettore porterebbe a promuovere a testo solo le raccolte d’autore certe e produrre in apparato, o in
una sezione di Poesie dubbie, le discusse poesie del Diario postumo, provviste ovviamente di un’ampia ricostruzione
della storia dei testi e del dibattito sulla loro presunta autografia.

7/05

VICENDA MONTALE

Dopo l’apertura della quinta busta, si destinano le poesie finora pubblicate (30) ad un pubblico più ampio. L’edizione che
comprende tutte le poesie (66+18) sono state raccolte nell’edizione di Mondadori “Diario postumo- 66 poesie e altre” nel
1996, a cura di Annalisa Cima e Rosanna Bettarini, che ha curato l’apparato critico. La vicenda vede voci di consenso e
celebrative. Ma invece non è così per GIOVANNI RABONI che nel novembre del 1986 nel periodico “L’europeo” scrive
un articolo “Il poeta innamorato fa il verso dimezzato” in cui si parla dell’”infatuazione” di Montale per l’Annalisa Cima.
L’articolo scritto viene raccolto ne “I bei tempi dei brutti libri” (1988), nato dall’attività giornalistica di Raboni, in cui ci
sono articoli pubblicati anche ne “ Il Messaggero” e “La Rinascita”. Si parla del fatto che la Cima ha ereditato le 66
poesie (+18) inedite di Montale con l’incarico di divulgarle con la Mondadori; per il momento, in quegli anni l’editore e
la curatrice non vanno d’accordo, e perciò le poesie contenute nella prima busta vengono stampate a numero limitato
(100) con la fondazione Schlensiger. Anche “La Repubblica” e “Il Corriere della Sera” pubblicato dei versi delle poesie e
dopo averli letti, Raboni insinua che siano dei falsi perché la Cima non rivela niente e non fa vedere i documenti originali.
Afferma inoltre che non c’è più il Montale da “Ossi di seppia” a “La Bufera” e neanche quello da “Satura” in poi.
Sostiene che Montale negli ultimi anni aveva perso lo smalto dello scrittore, ma che la compagnia della Cima lo faceva
dimenticare di ciò. Dopo l’edizione del 1996 nascono grandi polemiche soprattutto da Dante Isella che scrive un articolo
nel “Corriere della Sera” con il titolo “Com’è goffo il Montale postumo” in cui mette in dubbio l’autenticità del Diario
Postumo, la sua tesi è: è Montale che cerca di rifare se stesso cercando di scrivere come faceva prima, oppure è opera di
un artefice che incorpora testi di Montale con altri, generando quindi dei falsi? Capita che si attribuiscano grandi opere ad
autori di secondo piano, generando una falsa attribuzione. Nel Medioevo erano molto numerose le opere anonime, anche
perché l’autoritarietà dell’autore era meno considerata. Il primo esempio di opere anonima è “Il Novellino”; la commedia
anonima per esempio è “La veneziana”. Ci sono casi di opere attribuite falsamente a grandi autori; un esempio è “Intrighi
d’amore” attribuito a Torquato Tasso, in cui l’attribuzione è stata a lungo discussa. Come è anche “Il fiore” e “Il letto
d’amore” cui sono attribuite a Dante Alighieri. Tornando al Diario Postumo, a qualità dei testi era già stata confermata
per non essere granché, Isella è il primo a mettere in dubbio l’autenticità dell’opera. I suoi interventi sono pubblicati nel
suo libro “Dovuto a Montale”. Ad un certo punto della vicenda, precisamente all’11 busta, la Cima fa vedere dei facsimili
dei lasciti testamentari di Montale alla fondazione Sclensinger in cui le viene nominata curatrice e beneficiaria dei lasciti.
Isella analizza dei testi del Diario Postumo dove riscontra riprese di testi di altri tempi indietro in altre poesie. Montale
offre anche a Gina, la governante, delle poesie che deposita nell’archivio di Pavia, che saranno pubblicate solo nel 2006
ne “La casa di Olgiate”. Viene riscontrata una ripresa dei frammenti di Montale con banalizzazioni e correzioni; ed
inoltre Isella riscontra la presenza frequente dell’uso dell’infinito verbale sostantivato (es. “il tuo crederti”), stile proprio
delle poesie di Annalisa Cima. A sostegno di questa tesi, Isella fa notare che nel 1973 la Cima pubblica un libricino
“Incontro Montale” in cui c’erano interviste di Montale in cui lo scrittore si mostra molto disponibile di essere
intervistato. [Nel 1968 era già stato pubblicato un libricino in cui si vede invece la ritrosia di Montale a essere intervistato,
ed è dal 1969 che la Cima inizia a frequentare la casa di Montale, SEMPRE con un registratore in borsetta] Questo
libricino del 1973 si rivela essere un capillare montaggio della raccolta di saggi montaliani Auto da fè. In pratica le parole
sono state messe in bocca a Montale ingiustamente, le risposte sono state prese da saggi precedenti. La Cima ha scritto
domande in base a risposte già date da Montale. Inoltre la Cima dice che le poesie di Diario Postumo sono datate
1968-69. A rafforzare tutto è una lettera di Montale a Contini in cui lo scrittore in riferimento a “Incontro Montale” dice
che la pubblicazione è avvenuta senza che lui se sapesse niente, che è più scemo che deludente come libro e sbeffeggia la
Cima chiamandola “pennaiola”. Isella chiede inoltre che la Cima si decidesse a rendere pubblici i testi originali per
sottoporli a giudizi autorevoli (son stati visti solo una volta dietro il vetro); Isella viene accusato di essere geloso, ma fatto
sta che questi documenti rimangono segreti. Una settimana dopo Isella pubblica un articolo in cui scrive il commento di
Armando Petrucci, esperto paleografo, che sulla base dei presunti autografi dice che ha notato diversità notevoli e
banalizzazioni, forse da più mani. Sta prevalendo l’ipotesi di Isella, quando nel 1997 ne “La Repubblica” appare un
articolo in cui si registra un ‘importante testimonianza di Maria Corti (in quel momento direttrice del Fondo archivistico
dell’Università di Pavia) che dichiara di essere stata testimone della visite della Cima a casa di Montale e che una volta
(1971) Montale le ha confidato del suo progetto di manoscritti destinati a pubblicazioni postume alla sua morte e la
beneficiaria sarebbe stata Annalisa Cima. Sarebbe stata una beffa per i filologi, e inoltre Montale le ha imposto il suo
silenzio sulle sue intenzioni. Era un’idea sarcastica, per sfuggire alla morte. Dichiara inoltre, la Corti, che era testimone
nel momento in cui Montale consegna alla Cima i documenti (1973). Questa testimonianza taglia la testa al toro, per cui
la discussione si è poi sopita. Viene riaccesa in tempi recenti, 2014, con il libro “I filologi e gli angeli- è di Eugenio
Montale il Diario Postumo?” di Federico Condello, che presenta una sorta di inchiesta giudiziaria in cui ci sono articoli e
dichiarazioni sulla vicenda. Ne emerge che ci sono contraddizioni tra ciò che dice la Cima e la Corti, ci sono indicazioni
cronologiche che non sempre coincidono e inoltre, la Cima non ha mai chiamato in causa Maria per testimoniare il loro
incontro. Fin da subito si è osservato che il Montale degli ultimi hanno aveva un grafia tremante per il Parkinson, mentre
i documenti del Diario Postumo sono scritti con una grafia ferma. Maria Corti sostiene di aver parlato con il medico
dell’autore, il quale le ha detto he in realtà Montale non aveva il morbo di Parkinson, ma aveva una sorta di sensibilità
nervosa che si manifestava quanto per esempio una persona antipatica andava a trovare Montale e gli cominciavano a
tremare le mani. Per questo la grafia è tremante delle volte. Si tende a togliere credibilità alle testimonianze di Maria
Corti; e resta in dubbio se l’opera sia vera o un falso e perché Maria si sia lasciata indurre a intervenire per chiudere la
questione. Alla fin fine, non era coinvolta nell’opera, si poteva capire se la Bettarini fosse intervenuta, lei era coinvolta
nell’opera.

N.B. GUARDA COMMENTO DI CASADEI nell’articolo “Come ha lavorato la Cima” (analogia con “Come ha lavorato
l’Ariosto” di Contini)

EDIZIONI SUL WEB, UN WEB PER LE EDIZIONI (CAPITOLO 4)

QUALI TESTI PER QUALI NAVIGATORI?

Siamo di fronte a un momento storico di ridefinizione della comunicazione. Siamo ancora immersi (ma il passaggio dalla
tastiera al riconoscimento vocale è vicino) in quell’onda lunga della scrittura che è sottoposta da almeno una ventina
d’anni a un processo di ridefinizione, insediata com’è da altri linguaggi e che costringono la scrittura stessa a trovare
nuove dimensioni. Raffaele Simone, già nel 2000, aveva parlato di una “Terza Fase” che muoveva da forme strutturate e
precise a forme generiche e destrutturate, e che necessariamente comportava la perdita della centralità della stessa a
trovare nuove dimensioni. Si elaborano modelli culturali in grado di dare maggiore consapevolezza di sé nel presente, per
preparare ai cambiamenti del futuro. Gli studi sui cambiamenti testuali indotti dall’introduzione della videoscrittura e del
web possono ormai riempire interi scaffali di libreria. La filologia del 2000 è la filologia che si occuperà dei testi
progettati, scritti e comunicati direttamente in rete, recuperare una prospettiva storicistica, ritornare cioè a quelle forme di
elaborazione del sapere che hanno caratterizzato altri grandi momenti di cambiamento e che, muovendo dal passato,
possono dare alcune direzioni di ricerca per il futuro. I device che si contendono il mercato muovono tutti verso un unico
dispositivo che sia in grado di unire prestazioni di comunicazione (telefono), informazione (quotidiani e riviste web),
intrattenimento e acculturamento (e-book), formazione didattica e permanente (applicazioni educative). Un dispositivo
che stia in tasca, ma anche in una mano e su cui si possano anche prendere appunti, sottolineare i testi che si leggono,
annotare a margine i passi più importanti. Grande più o meno come quella tavoletta tascabile uscita dai tronchi di un
grande tipografo del Cinquecento che, a partire dal Dante e Petrarca del sedicesimo, avrebbe rivoluzionato il mercato
editoriale e il concetto stesso di cinquecentina: Aldo Manuzio. Con il supporti digitale, tutto può diventare “testo” nel
momento in cui esiste un lettore che lo interpreta, conferendogli un significato. Sicché il rapporto che si stabilisce tra il
testo e il suo ricevente è destinato a diventare un vero e proprio atto creativo. A guadagnarci però, non è solo il lettore,
ma anche il testo stesso, privato della sua materialità e collocato su un nuovo supporto di cui assume tutte le
caratteristiche: la computazionalità, la flessibilità, la possibilità di creare convergenze tra i codici, la reticolarità, destinate
a modificare il nostro approccio alla scrittura e alla lettura. Sembra un scenario futuro, eppure è già una dimensione del
presente. All’inizio del 2012, al Guggenheim Museum di New York, Apple ha presentato la versione 2 dell’applicazione
iBooks per iPad, progettata per la nuova generazione di libri digitali che verranno adottati nelle scuole. Non si tratta solo
di libri, ma di veri e propri prodotti multimediali con foto, video, animazioni 3D, naturalmente collegate con block notes
di appunti per personalizzare il testo. Un libro che si auto-sottolinea, ha gli schemi di se stesso, a cui manca solo
l’applicazione “mi studio da solo”. Un libro che si può anche creare, con l’applicazione iBooks Athor, che consente di
progettare e realizzare ebook interattivi, dotati di immagini, tabelle grafici, modelli 3D. Dove verranno acquistati? I testi
così realizzati potranno essere messi in commercio, gratuitamente o a pagamento solo ed esclusivamente nell’iBooks
Store, unica piattaforma autorizzata alla vendita. Come se un romanzo Feltrinelli, della storica collana delle “Comete”,
potesse essere venduto solo nelle Librerie Feltrinelli. Ma c’è di più: la scelta del formato iBooks esclude automaticamente
la possibilità di visualizzare il testo con sistemi operativi che non siano Apple. Il che vuol dire che il libro realizzato con
iBooks non è visibile su Kindle e su tutti i tablet Android. Dietro alle dinamiche di comunicazione si giocano interessi
commerciali da cui dipenderanno le nostre abitudini quotidiane e il cui principale obiettivo non è la condivisione del
sapere. Ai filologi degli anni Dieci si presenta una situazione affatto nuova, caratterizzata da testi fluidi, contaminati con
immagini, video e suoni. Fanno eccezione esperienze letterarie di area anglosassone, come digital storytelling, ovvero
brevi storie, per lo più a carattere autobiografico, che uniscono testo, immagini e suoni. Ciò che cambia, è relativo allo
statuto dei testi: la loro affidabilità, le fonti cui si sono ispirati, l’assetto formale delle loro edizioni. Un problema delicato
che riporta in rete le incertezze e i problemi irrisolti sulla pagina scritta, dove è ancora valido il richiamo a tentare di
definire un protocollo condiviso per un nuovo programma di edizioni dei nostri classici, che sappia connettere le
procedure proprie della filologia alle esigenze dei lettori. Il che si traduce, nell’affidabilità di un testo reperito online. La
disponibilità di testi online solleva nuovi interrogativi. Un esempio: se interroghiamo la rete alla ricerca di una citazione
dai Promessi Sposi, ci troviamo sommersi da più di 350.000 siti che offrono in lettura il testo manzoniano, integralmente
o in parte. Ma quanti di essi dichiarano la fonte da cui è tratto il testo? Come si definisce l’attendibilità di un testo
digitale? Il decalogo elaborato da B. J. Fogg nel 2003, per definire la credibilità di un sito, potrebbe essere applicato con
qualche semplificazione ai testi letterari in rete e costituire la base di partenza di un protocollo condiviso. È questo:

a) Verificabilità delle fonti

b) Autorevolezza dell’istituzione (esplicitare la presenza di un’organizzazione reale dietro la struttura del sito)

c) Autorevolezza del curatore

d) Esplicitazione dei curatori del testo

e) Possibilità di interazione con il curatore

f) Dare rilevanza all’aspetto professionale del sito

g) Progettare un sito accessibile e semplice all’uso

h) Aggiornamento dei dati e revisione scientifica del testo

i) Uso moderato di contenuti di tipo promozionale

j) Evitare errori anche trascurabili

La rivoluzione che stiamo attraversando riguarda anche un nuovo concetto di testualità, che richiede un nuovo quadro
concettuale relativo alla comunicazione scritta, una nuova teoria della scrittura che costituisca una base comune e
contemporaneamente sancisca le differenze tra testi a stampa e testi digitali. E’ l’assunto da cui è partito Peter
Shillinsburg in uno dei testi più originali usciti: From Gutenberg to Google, in cui propone una teoria editoriale dei testi in
rete. Accanto a una nuova figura di letterato, esperto di informatica umanistica, è necessario che sopravviva e si rafforzi la
vecchia figura di editore dei testi. Per costruire un testo elettronico da un testo manoscritto o a stampa, non basta inserire
il testo in rete, ma sono necessari attenzioni ai testi, una cura e una particolare valutazione dei metodi, una passione
vecchio stile per la collazione e la correzione di bozze, tutti elementi che frenano ogni entusiasmo, ovvero una serie di
competenze scientifiche in ambito filologico testuale senza le quali si otterranno solo testi ingannevoli e ancora testi
scientificamente inutili. I testi non sono mai stati semplici, ma includono tutta la complessa storia genetica ed editoriale e
di ricezione di cui sono stati protagonisti, sicché, con l’avvento della dimensione digitale e ipertestuale, non è più
possibile considerare il testo solo in una dimensione, ma deve essere considerato nella sua stratificata complessità. Se si
pensasse a internet solo come un magazzino di testi, le edizioni elettroniche non costituirebbero l’inizio di una nuova era.
Si tratta invece di creare un ambiente in grado di provvedere la necessità di uno scientifico archivio editoriale elettronico,
un’edizione che testimoni la progettazione, genesi, pubblicazione ed evoluzione del testo stesso, che dia conto al lettore di
tutte le fasi che il testo ha attraversato. Si aggiunge la dimensione comunicativa del testo. Lo scopo di uno studio
scientifico dei testi, secondo Shillingsburg, non è la scoperta, conservazione e visualizzazione dei testi intesi solo nel loro
aspetto lessicale, ma dell’intero contesto comunicativo in cui i testi si trovano: chi ha detto cosa, a chi, dove e in quale
situazione. Solo ampliando il concetto di testo all’insieme di questi fattori è possibile fondare una vera scienza editoriale
dei testi elettronici. Ne discende la necessità di una teoria della scrittura che tenga conto di tutti questi complessi fattori, e
svincoli il testo dalla sua sudditanza alla pura dimensione testuale: la teoria dello script act che si basa su due concetti
fondamentali. Il primo è la concezione multipla dell’opera letteraria nella consapevolezza che ciascun testo riflette
specifici atti di scrittura del passato; il secondo è costituito dalla necessità non tanto di comprendere i libri nella loro
interezza, ma piuttosto i processi, spaziali e temporali, che volta per volta investono specifici atti di scrittura e lettura di
parole, frasi, periodi, paragrafi o scene, includendo anche la percezione del testo nel suo insieme. Per la teoria degli atti di
scrittura, ogni singolo esemplare di lavoro rappresenta la focalizzazione di tre differenti atti di scrittura, tutti connessi tra
loro: quello dell’autore, del produttore e del lettore. A correggere l’impressione di un’eccessiva frammentazione del
percorso del testo, si potrebbe aggiungere che tale percorso non è costituito da fatti storici di eguale importanza, ma da un
prima e un dopo, che si relazionano tra loro in base allo spartiacque rappresentato dall’edizione (o dalle edizioni) a
stampa dell’opera. Un percorso costituito dalla gerarchizzazione di elementi di discontinuità fra loro. La teoria degli atti
di scrittura rappresenta quindi il quadro teorico da cui è possibile partire per elaborare un design architettonico e
infrastrutturale adattabile alle edizioni scientifiche di testi elettronici. L’edizione elettronica ideale, per Shillingsberg, è
costituita da un vero e proprio ambiente digitale che rappresenti il contesto culturale in cui il testo è nato e sviluppato. Ma
per realizzare questi nuovi prodotti scientifici ed editoriali la comunicazione all’interno della comunità degli studiosi è
condizione necessaria. E di comunicazione se ne vede troppo poca: singoli studiosi, o piccoli gruppi di studiosi procurano
singole edizioni, ognuna delle quali deve disporre di una piattaforma non sempre compatibili con le altre, senza un
criterio comune sui criteri adottati, nella più completa anarchia delle scelte testuali. Da cui la grande difformità nei
prodotti editoriali stessi. È necessario, quindi, istituire un protocollo comune che permetta ai prodotti editoriali in rete,
odierni e venturi, di risultare compatibili tra loro, e agli studiosi di costituire una vera comunità di editori critici.
Shillingsburg individua quattro principi guida per la costruzione di piattaforme digitali:

1) Scientificità dell’edizione

2) Ricostruzione della storia interna ed esterna del testo

3) Presenza di un commento scientifico

4) Possibilità di interazione collaborativa da parte del lettore

Non si tratta di qualcosa di diverso dalle edizioni critico-scientifiche cartacee che sono state realizzate finora, edizioni il
cui testo viene accertato criticamente, dando conto al lettore delle scelte testuali operate e permettendogli di verificarle
attraverso un apparato: la ricostruzione analitica della storia interna ed esterna, attraverso lo studio di manoscritti
preparatori, documenti epistolari, documenti testuali, ecc., e un commento scientifico che ne illustri i livelli di lettura a
seconda delle esigenze del testo. Ma quali standard seguire nella marcatura dei testi? La codifica XLM, che all’inizio
degli anni Zero non veniva considerata standardizzante si è nel frattempo evoluta, permettendo con una complessa
grammatica di codifica, anche la contemporanea marcatura di più elementi relativamente alle sue unità testuali, e
costituisce ora un protocollo sufficientemente diffuso per risultare vincente nel medio periodo. Quali sono infine i
prototipi che possono servire da modello per i futuri costruttori di ipertesti elettronici? I problemi testuali non riguardano
solo i testi letterari, ma tutti i testi, che necessitano di un protocollo e di una piattaforma comune tra l’editore critico, che
continuerà ad assumersi la responsabilità di stabilire quale edizione si mette a testo (in rete) e con quali caratteristiche, e
il lettore, specialista e non, potrà selezionare le informazioni fornite dall’infrastruttura elettronica. Non si tratta di una
nuova filologia, ma dell’applicazione di tutti gli strumenti filologici a una piattaforma testuale integrata.

NUOVE PIATTAFORME PER LA FILOLOGIA: IL WEB 2.0

Una prospettiva storicistica è utile anche per capire la seconda grande rivoluzione rappresentata dalla rete, ovvero il
passaggio dalla costruzione e circolazione di un sapere elitario a un sapere collettivo e condiviso, grazie alla rivoluzione
rappresentata da Wikipedia. Uno strumento che utilizza dinamiche molto simili a quelle in uso nel mondo medievale:
l’uso di una tradizione aperta e di una tradizione “orizzontale” in un sistema ciclicamente bilanciato tra utopia e
codificazione. Anche le nuove pratiche di commento del testo elettronico finiscono per recuperare la fruizione collettiva
del testo, così famigliare ai glossatori medievali: commenti d’autore che si sovrappongono in sedimentazione manoscritta
interagendo tra loro. Chi acquista un testo online accetta implicitamente le norme DRM (Digitale Rights Manegements),
che regolano la cessione del diritto all’uso del testo, con la sua collocazione “fisica” sul server del distributore. Il libro,
infatti, non si trova materialmente sul device del lettore, ma in una memoria digitale collocata altrove. Si evita che il testo
passi di mano in mano, violando i diritti dell’autore e dell’editore. C’è un problema più consistente, che riguarda le
annotazioni personali che vengono conservati nella memoria digitale, custoditi nello spazio remoto in cui il testo è
ubicato. Se è possibile salvare ciò che si scrive nel proprio device, non è possibile evitare che, chi controlla il sistema di
gestione, possa accedere al file che contiene quelle note e quegli appunti, generato automaticamente dal sistema. Una
possibile minaccia alla privacy, ma anche un’apertura verso un testo collaborativo, verso nuove pratiche di lettura che,
contro l’esclusività del sapere, rendono possibile, quando non inevitabile, la sua condivisione. Mentre un Google-doc non
è altro che un documento creato online accessibile, tramite un codice, ad altri utenti che vi possono intervenire e
correggere, eliminare, integrare marcando il loro intervento in modo che ogni versione sia registrata e soprattutto che sia
reversibile, le piattaforme Wiki sono invece un vero e proprio sistema di scrittura partecipativa e collaborativa in cui ogni
utente può inserire il proprio testo, o intervenire su quello degli altri, all’interno di una struttura più complessa di un
documento doc. Una struttura che può anzi accogliere testi, immagini, video e link ad altri documenti. Con una minore
libertà di movimento da parte dell’utente, ma anche una maggiore articolazione del proprio intervento in rete. E la
possibilità di recuperare versioni precedenti oppure di metterle a confronto con le nuove. La crisi dell’autorialità viene
recuperata dalla nascita di un autore collettivo, che potrà essere rappresentato da un progetto dietro cui si celano varie
identità biografiche, non necessariamente identiche nel tempo; oppure da uno pseudonimo: espediente non nuovo, ma che
sconfina nel gioco letterario citazionistico. Oppure nel più classico dei gialli letterari: il disvelamento dell’autore
biografico. La messa in crisi dell’identità dell’autore, che aveva segnato tutto il secondo Novecento, dando priorità al
testo e alla sua autonomia strutturale, si confronta con le nuove scritture digitali degli Anni Zero, che, mettendo in crisi
l’autonomia del testo e la sua intangibilità, provocano un rafforzamento dell’immagine dell’autore e, parallelamente,
dell’oggetto-libro, considerato nella sua individualità, autonomia, fisicità. Se dai problemi del testo ci spostiamo a quelli
della sua trasmissione/tradizione in una prospettiva filologica, la rivoluzione non è meno radicale. Quali cambiamenti ha
comportato in filologia l’introduzione delle tecniche digitali? Un primo grande cambiamento, nella fase di raccolta e
studio dei testimoni, è stato rappresentato dalla digitalizzazione dei materiali manoscritti, che, accanto a uno studio diretto
dell’autografo, possono essere studiati a video, superando storici problemi legati alla collocazione, ma anche alla qualità
della loro riproduzione. Una foto digitale permette di ingrandire decine di volte l’immagine rispetto alla sua dimensione
naturale, ruotarla, modificare il colore, ecc. Un secondo grande cambiamento ha riguardato la fase di elaborazione
dell’edizione critica, ovvero la possibilità, nella rappresentazione della genesi ed evoluzione del testo, di utilizzare un
supporto digitale piuttosto che cartaceo, usando link, ovvero collegamenti all’edizione, interni o esterni a essa, e marcatori
cromatici per rappresentare le varie stratificazioni del testo o più fasce correttorie. Grandi vantaggi ha anche prodotto la
tecnologia digitale nella fruizione delle edizioni critiche per l’immediata disponibilità delle edizioni realizzate online, che
possono essere visualizzate e studiare, o se autorizzate dall’editore e dal curatore, scaricate sul proprio computer. La
filologia d’autore è sempre stata appannaggio di un’editoria alta, molto elegante ma anche molto costosa. Un altro
vantaggio è costituito dalla disponibilità e dalla facile consultazione di edizioni realizzate a livello internazionale, che
portano la filologia d’autore italiana a confrontarsi con le tecniche di rappresentazione e lo studio delle varianti d‘autore
elaborate in altri paesi, non solo europei, mettendo in moto in virtuoso circolo di comunicazione che permetterà a questa
disciplina di uscire dall’isolamento in cui ha vissuto finora, e alla comunità scientifica internazionale di elaborare
protocolli e tecniche di rappresentazione sempre più condivisi. L’ultimo punto riguarda le frontiere del web, costituite
dall’uso di piattaforme di lavoro e scambio di informazioni (Web 2.0), che hanno rappresentato una vera e propria
innovazione metodologica, superando le distanze geografiche fra gli studiosi, che possono confrontarsi direttamente tra
loro e condividere i contenuti e gli spazi virtuali delle varie piattaforme in tempo reale. Si è sperimentato all’Università di
Siena con un gruppo di lavoro costituitosi nel 2009 per la realizzazione dell’edizione critica di Eros e Priapo di C.E.
Gadda, che dall’a.a 2010-11 è passato a lavorare esclusivamente in rete, trasformando i seminari filologici in un unico,
continuo seminario permanente: la piattaforma Wiki Gadda. Una piattaforma Wiki da la possibilità di avere su ogni
argomento un primo livello di informazione, e di collaborare anche direttamente a renderlo disponibile alla collettività, di
considerarlo l’unica fonte attendibile di informazione e di fermarsi a quello. Wikipedia usa un meccanismo di
funzionamento molto semplice, in cui, una volta registrato, il singolo utente può modificare, integrare e correggere la
voce, firmando il proprio contributo e lasciando traccia nel sistema di tute le variazioni intervenute nella piattaforma. Il
software Wikipedia fornisce un programma agile e di facile applicazione che, sulla base della stessa interfaccia di
Wikipedia, può essere utilizzato, modificato e strutturato a seconda delle proprie esigenze. La piattaforma Wiki, nella
sezione Edizione critica dedicata a Eros e Priapo, ha accolto quindi l’edizione critica e tutti i materiali a essa relativi,
digitalizzati e resi disponibili alla consultazione online. Il testo viene trascritto con criteri conservativi, mantenendo le
abitudini scrittorie e interpuntive dell’autore, e intervenendo, in luoghi puntualmente segnalati, quando la lezione erronea
comprometteva l’intelligenza del testo. I vantaggi della dislocazione sulla piattaforma Wiki del lavoro di edizione critica
sono: la possibilità di uno spazio illimitato, l’uso dei marcatori cromatici per le rappresentazioni di livelli testuali e di
campagne correttorie, il continuo confronto fra testo critico stabilito e autografo, la possibilità di confronto grazie al testo
interattivo, tra la prima redazione manoscritta, le successive correzioni e la stampa del 1967. La piattaforma Wiki si
configura quindi come un tavolo di lavoro, una stanza di incontri, un percorso di ricerca. Un modo di lavorare nuovo, su
scala globale, dalle straordinarie potenzialità e versatilità, che cambia il lavoro del filologo e del ricercatore, facendolo
passare da una dimensione individuale, alla condivisione del sapere con un’intera comunità scientifica.
PER UNA FILOLOGIA DEL DUEMILA

La globalizzazione culturale ha posto nuove domande e ha reso meno rassicurante l’isolamento in cui è stato così facile
rinchiudersi, in una sorta in enclave di resistenza al prestigio e al successo delle discipline scientifiche e all’invadenza
della tecnologia, fino a coltivare, nello specialismo e nella superfetazione della micro-ricerca, una camera iperbarica di
sopravvivenza: meravigliosamente asettica e isolata dal mondo. Per deformazione professionale, chi si occupa della
tradizione manoscritta e a stampa dei testi, non può non considerare ogni “dato” (inteso come variante linguistica, errore,
refuso, stilema, ecc) some parte di un “sistema” e in stretta relazione con quello. L’approccio filologico costringe a
collegare i singoli dati in un sistema. L’elemento unificante tra arte, architettura e letteratura è il soggetto, che entra in
relazione con l’opera stessa e non già come fruitore, ma come mediatore culturale, come custode della storicità dell’opera
e garante della sua sopravvivenza dal passato al futuro. L’opera si definisce solo in relazione al tempo e agli interventi su
di essa che ne hanno mutato la fisionomia e la ricezione critica, intervenendo pesantemente nel circoscrivere l’autorialità
del testo. La dicotomia tra dimensione estetica e dimensione storica del testo artistico si sviluppa all’interno del ruolo
chiave attribuito al lettore, e del ruolo, altrettanto cruciale, del curatore, ovvero di chi si occupa di preservare la forma e di
recuperare nel tempo l’autenticità del testo. Non si tratta di riconquistare un’autorevolezza perduta, ma di riappropriarsi di
strumenti che, meglio di altri, possono essere utili nella comprensione dei cambiamenti nella produzione e nella
comunicazione di testi interamente progettati e scritti su supporto digitale. Ci sono alcuni percorsi possibili. Ma se è vero
che siamo ancora in un’epoca di passaggio è altrettanto vero che la filologia del Duemila, che non smetterà di studiare la
tradizione manoscritta e a stampa dei testi di carta, dovrà occuparsi anche dei nuovi testi di pixel, applicando metodi e
strumenti antichi a una realtà nuova, contrassegnata da cambiamenti radicali nella comunicazione riguardo a modi,
contenuti e destinatari.

a) MODI. Cambia il concetto stesso di testo, che non ha più il crisma dell’intangibilità e nemmeno quello
dell’accuratezza della confezione, dello specialismo della fattura. I testi digitali, sono caratterizzati da una
costituiva variabilità temporale: il soggetto produttore può intervenire a modificarne i contenuti ed estendere la
stessa possibilità ai lettori. E possono essere autoprodotti, senza alcuna mediazione editoriale, né per quanto
riguarda la selezione ne per l’editing

b) CONTENUTI. Il web è un archivio di contenitori in cui spesso mancano i contenuti, uno scaffale di tapperware
vuoti in cerca di esperti in grado di riempirli. Il content manager, ovvero colui che si preoccupa di cosa si legge in
un sito internet e come si organizzano i suoi testi, non può prescindere dalla sua identità culturale, e quindi dalla
nostra storia culturale e letteraria. Chi si occupa di humanities, e in particolare dei problemi legati alla
costituzione dei testi, possiede una strumentazione particolarmente utile: la conoscenza di un gran numero di dati
storico-scientifici, l’abitudine a organizzarli e metterli in relazione fra loro; ma anche la conoscenza di quei
dispositivi retorici che presiedono la narratività e che vengono sempre più utilizzati anche in ambiti non
umanistici

c) DESTINATARI. Assistiamo a un significativo allargamento della fruizione culturale, il che porta a un


abbassamento delle qualità dei prodotti ma anche a una democratizzazione del lavoro culturale: oltre alla
diffusione esponenziale dell’e-book. È un fatto che la riflessione sui testi sia diventata uno strumento
indispensabile per tutti. Le riflessioni di Robert Darnton che sta coordinando il progetto DPLA, una grande
biblioteca pubblica digitale costituita dall’unione del patrimonio librario digitalizzato della Library of Congress,
delle Biblioteche Universitarie e dagli Archivi Nazionali, finanziata da fondazioni filantropiche e private possono
servire da guida. Il DPLA p un bel progetto, ma riguarda la conservazione della memoria collettiva attraverso
l’archiviazione del suo patrimonio librario. Il ruolo di chi oggi si occupa di humanities, però, non si può
identificare solo in quello del garante del patrimonio storico-letterario e nel responsabile della sua archiviazione
online, ma in quello del lettore critico, attraverso due momenti fondamentali: i collegamenti che è possibile
istituire fra i dati archiviati e l’interpretazione che ne può dare.

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