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GLI STRUZZI 344

Roland Barthes
Il brusio della lingua

EINAUDI
G li struzzi 344
Titolo originale Le bruissement de la langue
Essais critiques IV

© 1984 Éditions du Seuil, Paris

© 1988 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino


Traduzione di Bruno Bellotto

ISBN 88-06-59898-8
Roland Barthes
Il brusio della lingua
Saggi critici IV

E in au d i
Indice

p. ix Nota dell*editore alVedizione francese

Il brusio della lingua

I
Dalla scienza alla letteratura
3 Dalla scienza alla letteratura
13 Scrivere, verbo intransitivo?
23 Scrivere la lettura
27 Sulla lettura

Allegato
39 Riflessioni su un manuale
47 Concediamo la libertà di grafia

π
Dall’opera al testo
31 La morte dell’autore
37 Dall’opera al testo
63 La mitologia oggi
69 Digressioni
79 II brusio della lingua

Allegato
83 Giovani ricercatori
VI INDICE

ΠΙ
D ei linguaggi e dello stile
p. 93 La pace culturale
99 La divisione dei linguaggi
113 La guerra dei linguaggi
119 L'analisi rettorica
125 Lo stile e la sua immagine

IV

D alla storia al reale


137 II discorso della storia
151 L’effetto di reale

Allegato
161 La scrittura dell’evento

L ’am atore di segni


169 Una folgorazione
171 Un bellissimo regalo
173 Perché amo Benveniste
179 La straniera
183 II ritorno del poéticien
187 Imparare e insegnare

vi
L ettu re

Letture I
193 La cancellatura
203 Bloy
INDICE νπ

Tre riletture
p. 209 Michelet, oggi
221 Modernit à di Michelet
225 Brecht e il discorso: contributo allo studio
della discorsività

Letture II
237 F. B.
247 La faccia barocca
251 Quel che accade al significante
233 Le uscite dal testo
265 Lettura di Brillat-Savarin
285 Un’idea di Ricerca
291 « Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera »
303 Prefazione a Tricks di Renaud Camus
309 Non si riesce mai a parlare di ciò che si ama

VII

Nei dintorni dell'immagine


321 Scrittori, intellettuali, professori
343 Al seminario
333 II processo che si istruisce periodicamente
333 Uscendo dal cinema
361 L’immagine
369 Riflessione
Nota dell· editore all’edizione francese

Il conteggio (l’idea Γ avrebbe divertito) dei testi scritti da


Roland Barthes dal 1964 (data della pubblicazione degli Essais
cntiques) in poi è impressionante: centocinquantadue articoli,
cinquantacinque prefazioni o contributi a raccolte, undici li­
bri. Ovunque, come nei testi già raccolti nei Nouveaux essais
critiques (1972), Sollers écrìvain (1979) e gli Essais critiques III
{Vobvie et Γobtus \ 1982, dedicato alla fotografia, al cinema,
alla pittura e alla musica), il lavoro di Barthes si è sviluppato
intorno al segno e alla scrittura.
Possiamo tentare di suddividerlo in tre diversi piani. In­
nanzitutto la ricerca semiologica, che servirà di orientamento
a piu generazioni: qui l’enunciazione è quella del soggetto del­
la scienza, e certi elementi di stile che caratterizzano l’enun­
ciato di questi testi li distinguono chiaramente dai « saggi cri­
tici»: per la loro ricchezza e progressione, sono scritti che fan­
no storia; saranno riuniti successivamente sotto il titolo L ’a-
venture sémiologique. All’estremità opposta si collocano alcuni
scritti - rari in entrambi i sensi del termine - che non atten­
gono piu al saggio, ma a quello che Barthes chiamava il «ro­
manzesco»: il soggetto che scrive non esamina piu testi, ma
(secondo il titolo adottato da Barthes per uno di tali scritti)
Incidents della vita quotidiana: i segni di cui si occupa sono
quelli ravvivati dai diversi moti del desiderio. Di qui la scelta,
per queste ultime pagine, di un altro breve libro à venir.
Tra questi due tipi di testualità, gli Essais cntiques. Nell’ul­
tima raccolta che qui presentiamo quasi tutto tratta del lin­
guaggio e della scrittura letteraria, o per meglio dire del piace­
re che è necessariamente legato al testo. Leggendo queste pa-1

1 Cfr. Le degré zéro de Γécriture, seguito da Nouveaux essais critiques. Editions


du Seuil, Paris 1972 [trad. it. Torino 1982]; L ’ovvio e l ’ottuso. Saggi critici III, To­
rino 1985.
X NOTA DELL’EDITORE

gine sarà facile individuare il progressivo spostamento dei


concetti e delle procedure scritturali che, nel corso di quindici
anni, conduce al concetto di «testo», e forse lo travalica a sua
volta, accedendo sia al metodo del frammento sia a un luogo
dell'enunciazione sempre piu acquisito, nel progetto di rag­
giungere la perfetta adesione della scrittura al corpo: è chiaro
che, per Barthes, il divenire andava nel senso di una sempre
maggiore prossimità a se stesso.
Se i testi - scelti anche questa volta, per quanto è stato
possibile, in base al rigido criterio che l’autore aveva voluto
per i primi Essais cntiques - fossero stati pubblicati seguendo
l’ordine cronologico della stesura, ne sarebbe risultato un in­
sieme disorganico, sia per argomento sia per livello di maturi­
tà; si è tentata cosi una serie di raggruppamenti che consentis­
se di orientarsi nella tematica e nella intonazione di un
lavoro2- di un’invenzione - del quale è evidente ogni passo
che quanto piu fu proprio al suo autore, tanto piu ci coin­
volge.
Ci sia dunque consentito isolare due frasi, dando loro la ri­
levanza, forse azzardata, di una conclusione, in modo che sia
lo stesso Barthes a dire l’ultima parola: «Io mi metto nella po­
sizione di chi fa qualcosa, e non più di chi parla su qualcosa».
«Forse è proprio al “culmine del mio particulare” che sono
scientifico senza saperlo ».
F. w .

2 Nel lavoro di ricerca che attraversa questi Essais critiques - una vera «co­
stellazione», seppure necessariamente progressiva, e di cui si è tentato di conser­
vare in ogni nervatura la cronologia - , la terza e la quinta parte della raccolta se­
gnano una pausa: la terza, in una direzione rimasta piu marginale; la quinta, piu
tecnica, ma (oppure: proprio per questo) essenziale [Nota dell’editore francese].
Il brusio della lingua
I

D alla scienza alla le tte ra tu ra


Dalla scienza alla letteratura

L’homme ne peut parler sa pensée


sans penser sa parole.
BONALD

Le facoltà universitarie francesi posseggono una lista uffi­


ciale delle scienze, sociali e umane, oggetto di un insegnamen­
to riconosciuto e che obbliga di conseguenza a limitare la spe­
cializzazione dei diplomi rilasciati: esistono dottorati in este­
tica, psicologia, sociologia, ma non in araldica, semantica o
vittimologia. Cosi, l’istituzione determina direttamente la na­
tura del sapere umano, imponendo le proprie modalità di sud-
divisione e rubricazione, esattamente come una lingua, con le
sue «rubriche obbligatorie» (e non solo con le sue esclusioni),
obbliga a pensare in un certo modo. In altri termini, ciò che
definisce la scienza (il termine avrà qui l’accezione di insieme
delle scienze umane e sociali) non è né il suo contenuto (che è
spesso mal delimitato e labile) né il suo metodo (che varia da
una scienza all’altra: che cos’hanno in comune la scienza sto­
rica e la psicologia sperimentale?) né la sua morale (serietà e
rigore non sono appannaggio esclusivo della scienza), e neppu­
re il suo modo di comunicazione (la scienza è stampata sui li­
bri, come tutto il resto), ma soltanto il suo statuto, cioè la sua
determinazione sociale: è oggetto di scienza qualsiasi materia
la società giudichi degna di essere trasmessa. La scienza, in­
somma, è ciò che si insegna.
La letteratura possiede tutti i caratteri secondari della
scienza, cioè tutti gli attributi che non la definiscono. I suoi
contenuti sono gli stessi della scienza: non esiste di certo una
sola materia scientifica che non sia stata trattata, in un qual­
che momento, dalla letteratura universale: il mondo dell’ope­
ra è un mondo totale, in cui tutto il sapere (sociale, psicologi­
co, storico) trova un suo posto, di modo che la letteratura ha
per noi quella grande unità cosmogonica che esisteva ancora
presso gli antichi greci, ma che oggi lo stato parcellizzato delle
nostre scienze ci nega. Come la scienza, inoltre, la letteratura
è metodica: ha i suoi programmi di ricerca, che variano a se-
DALLA SCIENZA ALLA LETTERATURA

conda delle scuole e delle epoche (come d’altronde quelli della


scienza), i suoi protocolli di ricerca, e talora persino le sue pre­
tese sperimentali. Come la scienza, la letteratura ha una pro­
pria morale, un certo modo di estrapolare, dall’immagine che
si costruisce di sé, le regole del suo fare, e di conseguenza di
sottoporre i suoi risultati a una certa idea di assoluto.
Vi è un ultimo elemento che unisce scienza e letteratura:
ma è anche quello che le divide piu nettamente di ogni altra
differenza; entrambe sono discorsi (come ben esprimeva, nel­
l’antichità, l’idea del logos), ma il linguaggio che le costituisce
non è da esse assunto, o se si preferisce, professato allo stesso
modo. Per la scienza il linguaggio è solo uno strumento, da
rendere il piu trasparente e neutro possibile, assoggettato alla
materia scientifica (operazioni, ipotesi, risultati) che pare esi­
sta al di fuori di esso e lo preceda: da una parte, e in primo
luogo, ci sono i contenuti del messaggio scientifico, che sono
tutto; dall’altra, e successivamente, la forma verbale preposta
ad esprimere tali contenuti, che non è niente. E non è una
coincidenza se, dal Cinquecento in poi, lo sviluppo congiunto
dell’empirismo, del razionalismo e dell’evidenza religiosa (con
la Riforma), cioè dello spirito scientifico (in senso molto la­
to),ha corrisposto a una regressione dell’autonomia del lin­
guaggio, ormai relegato al rango di strumento o di «bello sti­
le », mentre nel Medioevo la cultura umana, nelle forme del
Septenium, ripartiva quasi alla pari i segreti della parola e quel­
li della natura.
Per la letteratura invece, o almeno per quella nata dal clas­
sicismo e dall’umanesimo, il linguaggio non può piu essere il
comodo strumento o la lussuosa decorazione di una «realtà»
sociale, passionale o poetica ad esso preesistente, che sarebbe
chiamato sussidiariamente ad esprimere, previa sottomissione
ad alcune regole stilistiche: il linguaggio è l’essere della lette­
ratura, il suo stesso mondo; tutta la letteratura è contenuta
nell’atto di scrivere, e non piu in quello di «pensare», di «di­
pingere», di «raccontare», di «sentire». Tecnicamente, se­
condo la definizione di Roman Jakobson, il «poetico» (cioè il
letterario) designa quel tipo di messaggio che assume come og­
getto la propria forma, e non i propri contenuti. Eticamente,
è solo attraversando il linguaggio che la letteratura rimette in­
cessantemente in discussione i concetti essenziali della nostra
cultura, in primo luogo quello di «reale». Politicamente, la
letteratura è rivoluzionaria proprio quando professa e illustra
che nessun linguaggio è innocente, quando pratica quello che
7
potremmo chiamare il «linguaggio integrale». Oggi, di conse­
guenza, la letteratura si trova a sostenere da sola tutta la re­
sponsabilità del linguaggio; se è vero infatti che la scienza ha
bisogno del linguaggio, essa non è però, come la letteratura,
nel linguaggio; la prima si insegna, cioè viene enunciata ed
esposta; la seconda si fa piu di quanto non si trasmetta (e di
essa si insegna soltanto la storia). La scienza si parla, la lette­
ratura si scrive; Tuna è guidata dalla voce, l’altra segue la ma­
no; alle loro spalle non vi è lo stesso corpo, e dunque neppure
lo stesso desiderio.
Riferita essenzialmente a un certo modo di affrontare il lin­
guaggio - eluso nel primo caso, fatto proprio nell’altro - la
contrapposizione tra scienza e letteratura è di grande rilevan­
za per lo strutturalismo. È indubbio che questo termine, im­
posto quasi sempre dall’esterno, contempli oggi pratiche di­
versissime, talora divergenti o persino rivali: nessuno può per­
ciò arrogarsi il diritto di parlare in suo nome. Né lo pretende
chi scrive queste righe, che dello « strutturalismo » attuale ac­
coglie soltanto la versione piu specifica e di conseguenza piu
pertinente, intendendo con questo nome un certo modo di
analizzare le opere culturali, laddove tale modo si ispiri ai me­
todi della linguistica contemporanea. Ciò equivale a dire che,
nato a sua volta da un modello linguistico, lo strutturalismo
trova nella letteratura, opera del linguaggio, un oggetto ben
piu che affine, anzi omogeneo a se stesso. Questa coincidenza
non esclude tuttavia un certo disagio, per non dire una certa
lacerazione, a seconda che lo strutturalismo voglia conservare
rispetto al proprio oggetto la distanza di una scienza, o inver­
samente che accetti di compromettere e di vanificare l’analisi
di cui è vettore in quella infinitezza del linguaggio che passa
oggi attraverso la letteratura - a seconda, insomma, che vo­
glia essere scienza o scrittura.
In quanto scienza, lo strutturalismo «ritrova» se stesso, e
l’espressione mi sembra calzante, a tutti i livelli dell’opera let­
teraria. «Si ritrova» innanzitutto sul piano dei contenuti, o
piu esattamente della forma dei contenuti, quando cerca di
stabilire la «lingua» delle storie raccontate, le loro articolazio­
ni e unità, la logica che le collega, in una parola la mitologia
generale di cui partecipa ogni opera letteraria. Viene poi il
piano delle forme del discorso; in virtù del suo metodo, lo
strutturalismo è particolarmente attento alle classificazioni,
agli ordini, alle concatenazioni; il suo oggetto principale è la
tassonomia, cioè quel modello distributivo che ogni opera
DALLA SCIENZA ALLA LETTERATURA

umana, istituzione o libro che sia, fatalmente elabora, dal mo­


mento che non esiste cultura senza classificazione. Il discorso
dunque - insieme di parole superiore alla frase - ha forme
proprie di organizzazione: è esso stesso classificazione, e clas­
sificazione significante; su questo punto lo strutturalismo let­
terario ha un antenato prestigioso, il cui ruolo storico è di so­
lito sottovalutato o screditato per ragioni ideologiche: la Re­
torica, quell’imponente sforzo di tutta una cultura di analiz­
zare e classificare le forme del discorso, per rendere intelleg-
gibile il mondo del linguaggio. Vi è infine il piano delle
singole parole: la frase non ha soltanto un senso letterale o de­
notativo; essa è stracolma di significati supplementari: poiché
è al tempo stesso riferimento culturale, modello retorico, am­
biguità volontaria di enunciazione e semplice unità di denota­
zione, il termine «letterario» è profondo come uno spazio, e
tale spazio è il terreno stesso dell’analisi strutturale, il cui pro­
getto è ben piu vasto di quello dell’antica stilistica, intera­
mente fondata su un’idea erronea dell’«espressività». A tutti
i livelli - dell’argomento, del discorso e delle parole - l’opera
letteraria offre dunque allo strutturalismo l’immagine di una
struttura perfettamente omologa (e le ricerche in corso tendo­
no a provarlo) alla struttura stessa del linguaggio; nato dalla
linguistica, lo strutturalismo ritrova nella letteratura un ogget­
to che è a sua volta figlio del linguaggio. E comprensibile allo­
ra che lo strutturalismo abbia la pretesa di fondare una scien­
za della letteratura, o piu esattamente una linguistica del di­
scorso, il cui oggetto sia la «lingua» delle forme letterarie, col­
te a molteplici livelli: progetto piuttosto innovativo, dal mo­
mento che sinora la letteratura è stata studiata solo molto
marginalmente in modo « scientifico », dalla storia delle opere,
degli autori, delle scuole, oppure da quella dei testi (filologia).
Per quanto nuovo, tale progetto non è tuttavia soddisfa­
cente - o perlomeno non è sufficiente. Esso lascia intatto il
dilemma cui si accennava all’inizio e che è allegoricamente
suggerito dalla contrapposizione tra scienza e letteratura, lad­
dove quest’ultima assume il proprio linguaggio - sotto il no­
me di scrittura - mentre la propria lo elude - fingendo di cre­
derlo puramente strumentale. Insomma, lo strutturalismo
non sarà mai altro che una «scienza» in piu (in ogni secolo ne
nascono alcune, e tra queste certe si rivelano effimere), se non
riuscirà a porre al centro del suo progetto la sovversione stessa
del linguaggio scientifico, cioè, in una parola a «scriversi»: co­
me potrebbe non mettere in discussione quello stesso linguag-
9
gio che gli serve a conoscere il linguaggio? Il logico prolunga­
mento dello strutturalismo può consistere soltanto nel ritor­
nare alla letteratura considerandola non piu «oggetto» di ana­
lisi, ma attività scritturale, nell’abolire la distinzione, sorta
dalla logica, che fa dell’opera un linguaggio-oggetto e della
scienza un metalinguaggio, e nell’intaccare cosi quel privilegio
illusorio, proprio della scienza, che afferma la proprietà di un
linguaggio schiavizzato.
Allo strutturalista, dunque, non rimane altro che trasfor­
marsi in «scrittore», non certo per professare o praticare il
«bello stile», ma per ritrovare gli scottanti problemi di ogni
enunciazione, laddove essa non si avvolga piu nella nube pro­
tettrice delle illusioni propriamente realistiche, che riducono
il linguaggio a puro medium del pensiero. Questa trasforma­
zione - ancora piuttosto teorica, bisogna riconoscerlo - ri­
chiede un certo numero di chiarimenti, o di riconoscimenti.
Innanzitutto, i rapporti tra soggettività e oggettività - o, se si
preferisce, il ruolo del soggetto nel proprio lavoro - non pos­
sono piu essere pensati come ai bei tempi del positivismo.
L’obiettività e il rigore, attributi degli uomini di scienza, di
cui ci riempiono ancor oggi la testa, sono qualità essenzial­
mente preparatorie, necessarie nel momento del lavoro, e in
questo senso non vi è motivo alcuno di considerarle con so­
spetto o di abbandonarle; tali qualità, però, non possono esse­
re trasferite nel discorso, se non attraverso una specie di gioco
di prestigio, un procedimento puramente metonimico, che
confonde la precauzione e il suo effetto discorsivo. Ogni enun­
ciazione presuppone il proprio soggetto, sia che esso si espri­
ma in modo apparentemente diretto, dicendo io, sia indiretto,
designandosi come egli, sia ancora nullo, ricorrendo a forme
impersonali; si tratta però di maschere puramente grammati­
cali, in cui varia soltanto il modo in cui il soggetto si costitui­
sce nel discorso, cioè si dà, teatralmente o fantasmaticamente,
agli altri; tutte designano perciò altrettante forme dell’imma­
ginario. Di queste ultime la piu capziosa è la forma privativa,
proprio quella che è praticata di solito nel discorso scientifico,
dalla quale lo scienziato si esclude per scrupolo di obiettività;
ciò che è escluso, però, non è mai altri che la «persona» (psi­
cologica, passionale, biografica), e non certo il soggetto; anzi,
tale soggetto si riempie, per cosi dire, di tutta l’esclusione che
impone in modo spettacolare alla propria persona, tanto che
l’obiettività, sul piano del discorso - piano fatale, non dimen­
tichiamolo -, è un immaginario come un altro. A dire il vero,
IO DALLA SCIENZA ALLA LETTERATURA

solo una formalizzazione integrale del discorso scientifico


(quello delle scienze umane, s’intende dal momento che per le
altre ciò è ampiamente acquisito) potrebbe evitare alla scienza
i rischi dell’immaginario - a meno, ovviamente, che essa non
accetti di praticare tale immaginario in perfetta conoscenza di
causa, quale però può essere ottenuta unicamente nella scrit­
tura: solo la scrittura ha la possibilità di sollevare il velo di
malafede che corrode ogni linguaggio che ignora se stesso.
Ed è ancora soltanto la scrittura - ecco un primo tentativo
di definirla - a realizzare il linguaggio nella sua totalità. Ri­
correre al discorso scientifico come a uno strumento di pen­
siero significa postulare l’esistenza di uno stato neutro del lin­
guaggio, dal quale deriverebbero, come altrettanti scarti e or­
namenti, un certo numero di lingue specifiche, quali la lingua
letteraria o quella poetica; tale stato neutro sarebbe, si ritiene,
il codice di riferimento di tutti i linguaggi «eccentrici», che
ne costituirebbero soltanto i sottocodici; identificandosi con
questo codice refenziale, fondamento di qualsiasi normalità,
il discorso scientifico si arroga un’autorità che la scrittura de­
ve per l’appunto contestare; la nozione di «scrittura» implica
infatti l’idea che il linguaggio sia un vasto sistema in cui nes­
sun codice è privilegiato o, se si vuole, centrale, e le cui diver­
se regioni intrattengano rapporti di «gerarchia fluttuante». Il
discorso scientifico ritiene di essere un codice superiore; la
scrittura vuol essere un codice totale, che ha in sé le proprie
forze di distruzione. Ne deriva che soltanto la scrittura può
infrangere l’immagine teologica imposta dalla scienza, rifiuta­
re il terrore paterno diffuso dglla «verità» abusiva dei conte­
nuti e dei ragionamenti, aprire alla ricerca l’intero spazio del
linguaggio, con le sue sovversioni logiche, con la mescolanza
dei suoi codici, con i suoi slittamenti, dialoghi, parodie; solo
la scrittura può opporre alla sicumera dello scienziato - lad­
dove egli «esprima» la sua scienza - quella che Lautréamont
chiamava la «modestia» dello scrittore.
Tra la scienza e la letteratura esiste infine un terzo margine
che la scienza deve riconquistare: quello del piacere. In una
civiltà interamente educata dal monoteismo all’idea di Colpa,
dove ogni valore è il prodotto di una sofferenza, questa parola
suona stonata, come se in essa vi fosse qualcosa di leggero, di
triviale, di parziale. Coleridge diceva: «A poem is that species
of composition which is opposed to works of science, by pur­
posing, for its immediate object, pleasure, not truth» [La poe­
sia è quel genere di composizione che si contrappone diame-
fralmente all’opera scientifica in quanto si propone come fine
immediato il piacere, e non la verità] - dichiarazione ambi­
gua perché, se è vero che rivendica la natura in un certo senso
erotica della poesia (della letteratura), continua d’altro canto
a relegarla in un angolo riservato e quasi sorvegliato, separato
dal territorio principe della verità. Il «piacere» - oggi lo am­
mettiamo piu facilmente - implica tuttavia un’esperienza al­
trimenti vasta, significante altro dal semplice soddisfacimento
del «gusto». Di fatto il piacere del linguaggio non è mai stato
seriamente valutato; la Retorica antica ne ha avuto, a modo
suo, una certa idea fondando un genere particolare di discor­
so, votato allo spettacolo e all’ammirazione, il genere epidit­
tico; ma l’arte classica ha avvolto il plaire che dichiarava come
propria legge (Racine: «La prima regola è piacere... ») in tutte
le costrizioni del naturel·, solo il barocco, esperienza letteraria
che è stata tu tt’al piu tollerata dalle nostre società, perlomeno
da quella francese, ha osato qualche esplorazione in quello che
si potrebbe definire l’Eros del linguaggio. Ben lungi ne è il di­
scorso scientifico; se infatti ne accettasse l’idea, dovrebbe ri­
nunciare a tutti i privilegi che gli vengono dall’istituzione so­
ciale e accettare di entrare a far parte di quella «vita lettera­
ria» a proposito della quale Baudelaire dice, parlando di Poe,
che è «il solo elemento in cui possono respirare certi esseri de­
classati».
Mutamento della coscienza, della struttura e dei fini del di­
scorso scientifico, ecco forse quel che si deve chiedere oggi,
proprio quando le scienze umane, costituite, fiorenti, sembra­
no lasciare un posto sempre piu esiguo a una letteratura comu­
nemente accusata di essere irreale e disumana. Per l’appunto:
il ruolo della letteratura consiste nel rappresentare attivamente
all’istituzione scientifica ciò che essa rifiuta, vale a dire la so­
vranità del linguaggio. E lo strutturalismo dovrebbe trovarsi
nella posizione piu adatta per sollevare tale scandalo; infatti,
cosciente in modo cosi intenso della natura linguistica delle
opere umane, è il solo oggi a poter risollevare il problema del­
lo statuto linguistico della scienza; avendo per oggetto il lin­
guaggio - tutti i linguaggi -, è giunto molto rapidamente a de­
finirsi come il metalinguaggio della nostra cultura. Ma questa
tappa dev’essere superata, poiché l’opposizione tra linguaggi-
oggetto e loro metalinguaggi rimane in ultima istanza dipen­
dente dal modello paterno di una scienza senza linguaggio. Il
compito che si offre oggi al discorso dello strutturalismo con­
siste nel rendersi del tutto omogeneo al proprio oggetto; tale
12 DALLA SCIENZA ALLA LETTERATURA

compito può essere assolto soltanto in due modi, entrambi al­


trettanto radicali: o con una formalizzazione esaustiva, oppu­
re con una scrittura integrale. In questa seconda ipotesi (che
qui è sostenuta), la scienza diverrà letteratura, in quanto la
letteratura - sottoposta a sua volta a un crescente rimescola­
mento dei generi tradizionali (poesia, racconto, critica, saggi­
stica) - è già, è sempre stata, la scienza; ciò che infatti le
scienze umane scoprono oggi, in un ordine qualsivoglia, socio­
logico, psicologico, psichiatrico, linguistico, ecc., la letteratu­
ra Tha sempre saputo; la sola differenza è che non l’ha mai
dettoy l’ha scntto. Di fronte a questa verità totale della scrittu­
ra, le «scienze umane», costituitesi tardivamente sulla scorta
del positivismo borghese, appaiono come gli alibi tecnici che
la nostra società si dà per conservare in sé la finzione di una
verità teologica, superbamente - abusivamente - svincolata
dal linguaggio.

1967, in «Times Litterary Supplement».


Scrivere, verbo intransitivo?

i . Letteratura e linguistica.

Per secoli, la cultura occidentale ha concepito la letteratura


non - come fa ancor oggi - attraverso una pratica delle opere,
degli autori e delle scuole, ma tramite una vera e propria teo­
ria del linguaggio. Tale teoria aveva un nome: la Retorica, che
ha regnato in Occidente da Gorgia al Rinascimento, cioè per
circa duemila anni. Minacciata sin dal Cinquecento dall’av­
vento del razionalismo moderno, la retorica è caduta del tutto
in disgrazia quando, alla fine dell’Ottocento, questo stesso ra­
zionalismo si è trasformato in positivismo. A quel punto tra
letteratura e linguaggio non esisteva piu, per cosi dire, nessu­
na zona comune di riflessione: la letteratura non si sente piu
linguaggio, eccetto in alcuni scrittori precursori come Mallar­
mé, mentre la linguistica riconosce di esercitare sulla lettera­
tura diritti estremamente limitati, rinchiusi in una disciplina
filologica secondaria, dallo statuto comunque impreciso: la
stilistica.
E risaputo che tale situazione sta cambiando, e credo sia in
parte per prenderne atto che siamo qui riuniti: la letteratura e
il linguaggio si stanno ritrovando. Diversi e complessi sono i
fattori di questo riavvicinamento; citerò i piu evidenti: da una
parte, l’azione di taluni scrittori che, da Mallarmé in poi, han­
no intrapreso un’esplorazione radicale della scrittura e hanno
fatto della loro opera la ricerca stessa del Libro totale, come
Proust e Joyce; dall’altra, lo sviluppo della stessa linguistica,
che include ormai nel suo campo il poetico, cioè quell’ordine
di effetti che sono legati al messaggio e non al suo referente.
Perciò, esiste oggi una nuova prospettiva di riflessione, comu­
ne - insisto - alla letteratura e alla linguistica, al creatore e al
critico, i cui compiti, sinora assolutamente distinti, comincia­
no a comunicare, forse persino a confondersi, almeno sul pia­
no dello scrittore, la cui azione può sempre piu essere definita
come una critica del linguaggio. Vorrei pormi proprio in que-
i4 SCRIVERE, VERBO INTRANSITIVO?

sta prospettiva, indicando con alcune brevi osservazioni, a


mo’ di esplorazione e non certo di conclusione, come Γattività
di scrittura possa oggi essere enunciata con Γausilio di certe
categorie linguistiche.

2. Il linguaggio.

Questo nuovo riavvicinamento tra letteratura e linguistica,


cui ho appena accennato, potrebbe essere provvisoriamente
chiamato, in mancanza di meglio, semiocrìtica, poiché implica
Tidea che la scrittura sia un sistema di segni. La semiocrìtica
non può tuttavia essere confusa con la stilistica, ancorché rin­
novata, e in ogni caso la stilistica è ben lungi dalTesaurirla. E
invece una prospettiva di tu tt’altra ampiezza, il cui oggetto
non può essere costituito da semplici scarti formali, ma dai
rapporti stessi tra scrivente e lingua. Ciò comporta che, se ci
si pone in tale prospettiva, non si è indifferenti all’essere del
linguaggio, ma anzi si ritorna incessantemente alle «verità»,
per quanto provvisorie, dell’antropologia linguistica. Alcune
di tali verità hanno ancora una loro carica provocatoria, di
fronte a una certa idea diffusa della letteratura e del linguag­
gio, e non è di conseguenza inutile ricordarle.
1. Uno degli insegnamenti che ci vengono dalla linguistica
attuale è che non esiste una lingua arcaica, o che, in ogni caso,
non c’è rapporto tra semplicità e antichità di una lingua: le
lingue antiche possono essere complete e complesse quanto le
lingue recenti; non esiste una storia progressista del linguag­
gio. Quando cerchiamo, dunque, di ritrovare nella scrittura
moderna certe categorie fondamentali del linguaggio, non
pretendiamo di scoprire un qualsivoglia arcaismo della «psi­
che»; non diciamo che lo scrittore fa ritorno all’origine del
linguaggio, ma che per lui il linguaggio è origine.
2. Un secondo principio, particolarmente importante per
la letteratura, enuncia che il linguaggio non può essere consi­
derato un semplice strumento, utilitario o decorativo, del
pensiero. L’uomo non preesiste al linguaggio, né filogenetica­
mente né ontogeneticamente. Non è possibile raggiungere
uno stato in cui l’uomo sia separato dal linguaggio, che egli
elaborerebbe per «esprimere» quanto avviene in lui: è il lin­
guaggio a informare la definizione dell’uomo, e non il con­
trario.
3. Da un punto di vista metodologico, inoltre, la linguisti-
SCRIVERE, VERBO INTRANSITIVO? 15
ca ci abitua a un nuovo tipo di obiettività. Quella che è stata
finora richiesta alle scienze umane è un’obiettività del dato,
da accettare integralmente. Da una parte, la linguistica ci sug­
gerisce di distinguere diversi livelli di analisi e di descrivere
gli elementi specifici di ciascun livello - in altri termini, di
costituire la specificità del fatto e non il fatto stesso; e, dall’al­
tra, ci porta a riconoscere che, contrariamente ai fatti fisici e
biologici, quelli di cultura sono duplici, perché rinviano a
qualcos’altro: tutto il valore della riflessione di Saussure con­
siste, come ha notato Benveniste, nella scoperta della «dupli­
cità» del linguaggio.
4. Queste considerazioni preliminari sono contenute in
un’ultima proposizione che legittima ogni ricerca semiocriti-
ca. Sempre piu la cultura ci appare come un sistema generale
di simboli, retto dalle stesse operazioni: esiste un’unità del
campo simbolico, e la cultura, in ogni suo aspetto, è una lin­
gua. Diventa perciò possibile prevedere oggi la costituzione di
un’unica scienza della cultura che si avvarrà indubbiamente
di discipline diverse, ma tutte comunque volte ad analizzare,
a vari livelli di descrizione, la cultura come una lingua. La se-
miocritica sarà evidentemente soltanto una parte di tale scien­
za, la quale comunque rimarrà sempre un discorso sulla cultu­
ra. Per quanto ci riguarda, l’unità del campo simbolico umano
ci autorizza a lavorare su un postulato, che chiamerò postula­
to di omologia: la struttura della frase, oggetto della linguisti­
ca, si ritrova omologicamente nella struttura delle opere: il di­
scorso non è soltanto una somma di frasi, ma è esso stesso,
per cosi dire, una grande frase. Secondo questa ipotesi di la­
voro, vorrei confrontare alcune categorie linguistiche con la
situazione dello scrittore nei confronti della sua scrittura. Inu­
tile nascondere che tale confronto non ha forza dimostrativa
e che il suo valore rimane per il momento essenzialmente me­
taforico: ma forse è anche vero che, nel campo discorsivo che
qui ci interessa, la metafora ha, piu di quanto non si pensi,
un’esistenza metodologica e una forza euristica.

3. La temporalità.

Esiste, come è noto, un tempo specifico della lingua, diver­


so sia dal tempo fisico sia da quello che Benveniste chiama il
tèmpo «cronico», o tempo dei computi e dei calendari. Que­
sto tempo linguistico è oggetto di suddivisioni e di espressioni
16 SCRIVERE, VERBO INTRANSITIVO?

che variano grandemente a seconda delle lingue (non si di­


mentichi che, per esempio, taluni idiomi, come il chinook,
comportano molti passati, tra i quali il passato mitico), ma ciò
che è certo è che il tempo linguistico ha sempre come centro
generatore il presente dell’enunciazione. E questo ci induce a
chiederci se non esista, omologo a quel tempo linguistico, an­
che un tempo specifico del discorso. Su questo punto Benve-
niste propone un primo chiarimento: in molte lingue, soprat­
tutto indoeuropee, il sistema è duplice: i. un primo sistema,
o sistema del discorso propriamente detto, che si adatta alla
temporalità dell’enunciatore, la cui enunciazione resta espli­
citamente il momento generatore; 2. un secondo sistema, o si­
stema della storia, del racconto, appropriato alla relazione de­
gli eventi passati, senza intervento del locutore, sprovvisto di
conseguenza di presente e di futuro (eccetto quello perifrasti­
co) e il cui tempo specifico è l’aoristo (o i suoi equivalenti, co­
me il nostro passato remoto), tempo che è per l’appunto il so­
lo a mancare nel sistema del discorso. L’esistenza di tale siste­
ma a-personale non contraddice affatto la natura essenzial­
mente logocentrica del tempo linguistico, qui affermata: il se­
condo sistema è soltanto privo dei caratteri del primo; sono
legati l’uno all’altro dall’opposizione stessa marcato non-mar-
cato, e appartengono perciò allo stesso ambito di pertinenza.
La distinzione tra i due sistemi non corrisponde affatto a
quella che si stabilisce tradizionalmente tra discorso oggettivo
e discorso soggettivo, poiché non va confuso il rapporto tra
locutore e referente con quello dello stesso locutore con la sua
enunciazione, laddove è soltanto quest’ultimo rapporto a de­
terminare il sistema temporale del discorso. Questi fatti lin­
guistici sono stati parzialmente occultati fin quando la lette­
ratura si è proposta come docile e quasi trasparente espressio­
ne sia del tempo cosiddetto oggettivo (tempo cronico) sia del­
la soggettività psicologica, cioè finché si è sottomessa a un’i­
deologia totalitaria del referente. Oggi la letteratura scopre
invece, nella proliferazione discorsiva, quelle che chiamerò
«sottigliezze fondamentali»: per esempio, ciò che è racconta­
to in modo aoristico non appare affatto immerso nel passato,
in «ciò che è avvenuto», ma soltanto nella non-persona, che
non è né la storia né la scienza e ancor meno il si delle scrittu­
re «anonime», dal momento che ciò che contraddistingue il si
è l’indefinito e nop l’assenza di persona: il si è marcato, Vegli
no. All’altra estremità dell’esperienza del discorso, ci sembra
che lo scrittore, oggi, non possa piu accontentarsi di esprime-
i7
re il proprio personale presente secondo un progetto lirico:
egli deve imparare a distinguere il presente del locutore, che
rimane fondato su una pienezza psicologica, dal presente del-
Γenunciazione, come quest’ultima in movimento e nel quale
si instaura un’assoluta coincidenza tra evento e scrittura. Cosi
la letteratura, quella di «ricerca» almeno, segue la stessa stra­
da della linguistica, quando, con Guillaume, si è interroga­
ta sul tempo operativo, o tempo, appunto, dell’enunciazione.

4. La persona.

Queste considerazioni portano a una seconda categoria


grammaticale, importante sia in linguistica sia in letteratura:
quella di persona. Sulla scorta dei linguisti, è necessario ricor­
dare innanzitutto che la persona (nel senso grammaticale del
termine) sembra essere effettivamente universale, da collegar­
si alla stessa antropologia del linguaggio. Ogni linguaggio, co­
me ha mostrato Benveniste, organizza la persona in due oppo­
sizioni: una correlazione di personalità, che oppone la persona
(io o tu) alla non-persona (egli), segno di colui che è assente,
segno dell’assenza; e, all’interno di tale prima grande opposi­
zione, una correlazione di soggettività oppone due persone,
Yio e la persona non-io (cioè il tu). Conviene fare qui, seguen­
do Benveniste, tre osservazioni. In primo luogo: la polarità
delle persone, condizione fondamentale del linguaggio, è tut­
tavia molto particolare, dal momento che non implica né
eguaglianza né simmetria: ego possiede sempre una posizione
di trascendenza rispetto a tu, io essendo interno all’enunciato
e tu rimanendovi esterno; ciononostante, io e tu sono inverti­
bili, dal momento che io può sempre diventare tu, e viceversa;
non è questo il caso della non-persona (egli), che non possiede
alcun termine rispetto al quale invertire le posizioni. La se­
conda osservazione consiste nel fatto che Vio linguistico può
e deve essere definito in modo a-psicologico: io non è altro
che « la persona che enuncia la presente istanza del discorso con­
tenente Γistanza linguistica io» (Benveniste). L’ultima osserva­
zione è infine che Vegli, o non-persona, non riflette mai l’i­
stanza del discorso, situandosi al di fuori di essa; qui assume
tutto il suo peso la raccomandazione di Benveniste, il quale
afferma di non rappresentarsi Vegli come una persona piu o
meno sminuita o lontana: egli è nel modo piu assoluto la non­
persona, marcata dall’assenza di ciò che costituisce specifica-
mente (cioè linguisticamente) io e tu.
18 SCRIVERE, VERBO INTRANSITIVO?

Da questo chiarimento linguistico trarremo alcuni suggeri­


menti per un’analisi del discorso letterario. Pensiamo innan­
zitutto che, quali che siano le marche, svariate e spesso sottil­
mente astute, assunte dalla persona quando si passa dalla fra­
se al discorso, come nel caso della temporalità, il discorso del­
l’opera sia articolato in un duplice sistema, quello della perso­
na e quello della non-persona. L’illusione dipende dal fatto
che il discorso classico (in senso lato) al quale siamo abituati è
un discorso misto, che alterna, spesso in cadenza rapidissima
(per esempio all’interno di una stessa frase), l’enunciazione
personale e quella a-personale attraverso un complesso gioco
di pronomi e di verbi descrittivi. Questo regime misto di per­
sona e di non-persona produce una coscienza ambigua che rie­
sce a conservare la proprietà personale di ciò che enuncia, an­
che se interrompe periodicamente la partecipazione dell’e-
nunciatore nell’enunciato.
Se poi ritorniamo alla definizione linguistica della prima
persona (io è colui che dice io nell’istanza presente del discor­
so), capiamo forse meglio il tentativo di alcuni scrittori attuali
(penso a Orarne di Sollers), quando cercano di distinguere, sul
piano stesso del racconto, la persona psicologica e l’autore
della scrittura: contrariamente all’illusione diffusa nei con­
fronti delle autobiografie e dei romanzi tradizionali, il sogget­
to dell’enunciazione non può mai coincidere con quello che
ha agito ieri; Vio del discorso non può piu essere il luogo in cui
si restituisce innocentemente nel testo una persona concepita
in precedenza. Il rimando assoluto all’istanza del discorso per
determinare la persona, che potrebbe essere chiamato, sulla
scorta di Damourette e Pichon, nynégocentrisme (si ricordi in
proposito l’esemplare inizio del romanzo di Robbe-Grillet Nel
labirinto: «Sono solo qui ora»), per quanto ancora utilizzato
in modo imperfetto, appare effettivamente come un’arma
contro la generale malafede di un discorso che fa o farebbe
della forma letteraria soltanto l’espressione di un’interiorità
che si costituirebbe al di qua e al di fuori del linguaggio.
Ricordiamo infine la seguente precisazione dell’analisi lin­
guistica: nel processo comunicativo, il percorso dell’io non è
omogeneo: quando libero il segno io, mi riferisco a me stesso
in quanto parlante, ed è in tal caso un atto sempre nuovo, an­
che quando è ripetuto, il cui «senso» è sempre inedito; ma,
arrivando a destinazione questo io è ricevuto dal mio interlo­
cutore come un segno stabile, proveniente da un codice pie­
no, e dai contenuti ricorrenti. In altri termini, l’io di chi seri-
19
ve io non è identico all’io che è letto dal tu. Questa fonda-
mentale dissimmetria del linguaggio, messa in evidenza da Je-
spersen e da Jakobson con la nozione di shifter, o accavallarsi
del messaggio e del codice, comincia ora a creare problemi alla
letteratura palesandola come Γintersoggettività o, in termini
piu precisi, l’interlocuzione non possa realizzarsi per semplice
effetto di un pio desiderio riguardante i meriti del «dialogo»,
ma attraverso una discesa profonda, paziente e spesso contor­
ta, nel labirinto del senso.

5. La diatesi.

Rimane da parlare di un’ultima nozione grammaticale, ca­


pace a nostro avviso di chiarire l’attività scritturale nel suo
nucleo centrale, dal momento che riguarda proprio il verbo
scrivere. Sarebbe interessante sapere in che momento si è co­
minciato ad usare il verbo scrivere in modo intransitivo, per
cui lo scrittore non è piu chi scrive qualcosa, ma chi scrive, as­
solutamente: questo passaggio è indubbiamente il segno di un
importante mutamento di mentalità. Ma si tratta davvero
d ’intransitività? Nessuno scrittore, in nessuna epoca, può
ignorare che scrive sempre qualcosa; si potrebbe addirittura
dire che, paradossalmente, proprio quando scrìvere sembra di­
ventare intransitivo, il suo oggetto, lo si chiami libro o testo,
assume una particolare rilevanza. Almeno in prima approssi­
mazione, non è perciò nell’intransitività che si deve cercare la
definizione dello scrìvere moderno. La chiave ci verrà forse da
un’altra nozione linguistica: quella di diatesi o, come dicono
i grammatici, di «voce» (attiva, passiva, media). La diatesi de­
signa il modo in cui il soggetto del verbo è coinvolto nel pro­
cesso; per il passivo, è del tutto evidente; eppure i linguisti
c’insegnano che, per lo meno in indoeuropeo, la diatesi non
oppone tanto l’attivo al passivo, bensì l’attivo al medio. Se­
condo l’esempio classico, riportato da Meillet e Benveniste, il
verbo sacrificare (ritualmente) è attivo se è il sacerdote che sa­
crifica la vittima per me e al mio posto, ed è medio se, pren­
dendo in un qualche modo il coltello dalle mani del sacerdote,
compio personalmente per mio conto il sacrificio; nel caso
dell’attivo, il processo si compie al di fuori del soggetto, dal
momento che, se è vero che il sacerdote fa il sacrificio, non ne
è coinvolto; nel caso medio, invece, il soggetto agendo, coin­
volge se stesso, rimane sempre interno al processo, anche se
questo comporta un oggetto, cosicché il caso medio non esclu­
de la transitività. Cosi definita, la voce media corrisponde
perfettamente alla condizione dello scrivere moderno: oggi,
scrivere è sempre porsi al centro del processo discorsivo, è
realizzare la scrittura coinvolgendo se stessi, è far coincidere
l’azione e il coinvolgimento, è lasciare lo scrivente all’interno
della scrittura, non come soggetto psicologico (il sacerdote in­
doeuropeo poteva benissimo mettere una grande carica di
soggettività sacrificando attivamente per il suo cliente), ma
come agente dell’azione. Ma si può approfondire ancora l’a­
nalisi diatetica del verbo scnvere. Com’è noto, in francese cer­
ti verbi hanno senso attivo nella forma semplice (andare, ani-
vare, nentrare, uscire), ma prendono l’ausiliare del passivo (es­
sere) nelle forme del passato prossimo (sono andato, sono ani-
vaio); per spiegare tale biforcazione propriamente media,
Guillaume distingue giustamente tra un passato prossimo di­
amente (con l’ausiliare avere), il quale suppone un’interruzio­
ne del processo dovuta all’iniziativa del locutore (cammino,
smetto di camminare, ho camminato) e un passato prossimo in­
tegrante (con l’ausiliare essere), proprio dei verbi che designano
un intero insieme semantico e che non può essere attribuito
alla semplice iniziativa del soggetto (sono uscito, egli è morto
non rinviano a un’interruzione dirimente l’uscita o la morte).
Scnvere è tradizionalmente un verbo attivo, il cui passato è di­
rimente: scrivo un libro, lo termino, l’ho scritto; nella nostra
letteratura, però, il verbo cambia statuto (se non addirittura
forma): scrivere diventa un verbo medio, il cui passato è inte­
grante, proprio in quanto scrivere diventa un insieme seman­
tico intero e indivisibile: cosi, il vero passato di questo nuovo
verbo non è ho scntto, bensì sono scntto, come si dice sono na­
to, è morto, si è dischiusa, ecc., espressioni in cui non esiste
evidentemente, nonostante il verbo essere, nessun’idea di pas­
sivo, dal momento che non si potrebbe trasformare, senza
forzature, sono scritto in qualcuno mi ha scritto.
Cosi, nello scnvere medio la distanza tra scrivente e lin­
guaggio diminuisce asintoticamente. Si potrebbe persino dire
che attive sono le scritture della soggettività, come quella ro­
mantica, poiché in esse l’agente non è interiore, ma anteriore
al processo scritturale: chi scrive non vi scrive per sé, ma, per
una sorta di indebita delega, per una persona esterna e antece­
dente (anche se entrambi portano lo stesso nome), mentre
nello scrivere medio della modernità il soggetto si costituisce
in quanto immediatamente contemporaneo alla scrittura, at-
21

traverso la quale si effettua e si coinvolge: è il caso esemplare


del narratore proustiano, nonostante i riferimenti a uno
pseudo-ricordo che esiste solo nella scrittura.

6. L ’istanza del discorso.


Come è facile intuire, queste osservazioni tendono a sugge­
rire che il problema centrale della scrittura moderna coincide
esattamente con quella che potrebbe essere chiamata la pro­
blematica del verbo in linguistica: come la temporalità, la per­
sona e la diatesi delimitano il campo in cui è collocato il sog­
getto, cosi la letteratura moderna tenta di istituire, attraverso
esperienze e sperimentazioni diverse, una nuova posizione
deiragente della scrittura nella scrittura stessa. Il senso, o se
si vuole lo scopo di tale ricerca consiste nel sostituire alTistan-
\za della realtà (o istanza del referente), mitico alibi che ha do­
minato e domina tuttora l’idea di letteratura, proprio l’istanza
del discorso: il campo dello scrittore è esclusivamente la scrit­
tura stessa, non come «forma» pura, quale era concepita dal­
l’estetica dell’arte per l’arte, bensì molto piu radicalmente co­
me solo spazio possibile di chi scrive. È necessario infatti ri­
cordarlo a quanti accusano questo tipo di ricerche di solipsi­
smo, formalismo o scientismo; facendo ritorno alle categorie
fondamentali della lingua, quali la persona, il tempo e la voce,
ci collochiamo al centro stesso della problematica dell’interlo­
cuzione, dal momento che queste categorie sono per l’appun­
to quelle in cui si intrecciano i rapporti tra Vio e ciò che non è
marcato in quanto io. Proprio perché la persona, il tempo e la
voce (mai termine fu cosi appropriato!) implicano quelle enti­
tà linguistiche cosi importanti chiamate shifters, ci obbligano a
pensare la lingua e il discorso non piu in termini di nomencla­
tura strumentale, e di conseguenza reificata, bensì come l’e­
sercizio stesso del discorso: il pronome, per esempio, senz’al­
tro il piu vertiginoso tra gli shifters, appartiene strutturalmente
(insisto) al discorso; in un certo senso, proprio in questo con­
siste il suo scandalo, ed è su tale scandalo che oggi dobbiamo
lavorare, in linguistica e in letteratura: cerchiamo insomma di
approfondire il «patto discorsivo» che unisce lo scrittore al­
l’altro, in modo che ogni momento del discorso sia al tempo
stesso assolutamente nuovo e assolutamente capito. Possiamo
persino, in modo un po’ temerario, dare a questa ricerca una
dimensione storica. Com’è noto, il Septenium medievale, nella
22 SCRIVERE, VERBO INTRANSITIVO?

sua grandiosa classificazione dell’universo, imponeva a chi ne


faceva Papprendistato due grandi campi di esplorazione: da
una parte i segreti della natura (quadHvium), dall’altra i segreti
della parola (trivium: grammatica rhetoHcay dialectica); questa
opposizione è andata perdendosi dalla fine del Medioevo ad
oggi, poiché il linguaggio si è sempre piu configurato come
uno strumento al servizio della ragione o del cuore. Oggi,
qualcosa resuscita tuttavia l’antica opposizione: all’esplorazio­
ne del cosmo corrisponde di nuovo l’esplorazione del linguag­
gio, ad opera della linguistica, della psicanalisi e della lettera­
tura. La stessa letteratura è infatti, in un certo senso, scienza
non più del «cuore umano» ma della parola umana; tuttavia la
sua ricerca non si rivolge piu alle forme e alle figure seconde
che costituivano l’oggetto della retorica, bensì alle categorie
fondaipèntali della lingua: cosi come, nella nostra cultura oc­
c id e n ta l la grammatica è sorta molto tempo dopo la retorica,
solo dopo aver praticato per secoli il bello letterario la lettera­
tura può^ppgi porsi i problemi fondamentali del linguaggio,
senza il quale non esisterebbe.

1966, Convegno John Hopkins, pubblicato in inglese in The Languages


o f Cùticism and thè Sciences o f Man: the Structuralist Controversy, copy­
right The Johns Hopkins Press, London Baltimore 1970, pp. 134-45.
Scrivere la lettura

Non vi è mai capitato, leggendo un libro, di interrompere


continuamente la lettura, non per disinteresse ma al contrario
per l’ininterrotto affluire di idee, stimoli e associazioni? In­
somnia, non vi è mai capitato di leggere alzando la testai
È appunto questa lettura che ho cercato di scrivere, al tem­
po stesso irrispettosa, perché interrompe il testo, e affascina­
ta, perché ad esso fa ritorno e se ne nutre. Per scriverla, per­
ché la mia lettura diventasse a sua volta oggetto di una nuova
lettura (quella dei lettori di S/Z), ho dovuto evidentemente
cercare di sistematizzare tutti quei momenti in cui «si alza la
testa». In altri termini, interrogare la mia personale lettura è
stato tentare di cogliere la forma di tutte le letture (la forma,
solo luogo della scienza), ovvero fare appello a una teoria della
lettura.
Ho preso dunque un testo breve (era necessario che lo fos­
se, per un lavoro cosi minuzioso), il Sanasine di Balzac, novel­
la poco nota (ma Balzac non è forse definito l’Inesauribile, lo
scrittore di cui non si è mai letto tutto, se non per vocazione
esegetica?), e nella lettura di questo testo mi sono continua-
mente fermato. La critica opera di solito (e non è un rimprove­
ro) sia con il microscopio (mettendo pazientemente in eviden­
za il dettaglio filologico, autobiografico o psicologico dell’ope­
ra) sia con il telescopio (scrutando il grande spazio storico che
circonda l’autore). Io mi sono privato di entrambi gli stru­
menti: non ho parlato né di Balzac né del suo tempo, non ho
analizzato né la psicologia dei suoi personaggi, né la tematica
del testo, né la sociologia dell’aneddoto. Ispirandomi alle pri­
me ardite sperimentazioni cinematografiche, capaci di decom­
porre il trotto di un cavallo, ho tentato, in un certo senso, di
filmare la lettura di Sanasine al rallentatore: credo che il risul­
tato non sia né del tutto un’analisi (non ho voluto cogliere il
segreto di questo strano testo) né del tutto un’immagine (non
SCRIVERE LA LETTURA

penso di essermi proiettato nella lettura; o, se è avvenuto, è


avvenuto a partire da un luogo inconscio ben al di qua di «me
stesso»). Che cos’è allora S/Z> Semplicemente un testo, quello
che scriviamo nella nostra testa quando la alziamo.
Quel testo, che si dovrebbe chiamare con un solo termine:
testo-lettura, ci è poco familiare perché da secoli ci interessia­
mo smisuratamente all’autore e per nulla al lettore; la maggior
parte delle teorie critiche cercano di spiegare perché l’autore
ha scritto la sua opera, a partire da quali pulsioni, da quali
vincoli o limiti. L’invadente privilegio conferito al luogo dal
quale proviene l’opera (persona o Storia), la censura che col­
pisce il luogo in cui essa va e si disperde (la lettura) determina­
no un’economia del tutto particolare (anche se antica): l’auto­
re è considerato l’eterno proprietario della sua opera e noi,
suoi lettori, semplici usufruttuari. Questa economia implica
evidentemente un elemento di autorità: si ritiene cioè che
l’autore abbia dei diritti sul lettore, lo costringa a un certo
senso dell’opera, che è naturalmente quello buono, quello ve­
ro: ne deriva una morale critica del giusto senso (e della sua
colpa: il «contro-senso»), si vuole stabilire ciò che Vautore ha
voluto dire, e nient’affatto ciò che il lettore intende.
Anche se certi autori ci hanno essi stessi avvertiti che era­
vamo liberi di leggere i loro testi a nostro piacimento e che
tutto sommato si disinteressavano della nostra scelta (Valéry),
ancor oggi ci è difficile capire fino a che punto la logica della
lettura differisce dalle regole della composizione. Queste ul­
time, ereditate dalla retorica, sono sempre state viste come
derivanti da un modello deduttivo, cioè razionale: si tratta,
come nel sillogismo, di costringere il lettore a un senso o a una
soluzione: la composizione incanala la lettura invece (il testo
che scriviamo in noi quando leggiamo) disperde, dissemina; o,
per lo meno, di fronte a una storia (come quella dello scultore
Sarrasine), ci accorgiamo che i vincoli del percorso narrativo
(la «suspense») lottano continuamente in noi con la forza
esplosiva del testo, con la sua energia digressiva: alla logica
della ragione (che rende la storia leggibile) si intreccia una lo­
gica del simbolo. Quest’ultima non è deduttiva, ma associati­
va: al testo materiale (ad ogni sua frase) associa altre idee, altre
immagini, altri significati. «Il testo, soltanto il testo», come
spesso si dice, ma il testo solo non esiste: esiste immediata­
mente in questa novella, in questo o quel romanzo o poesia,
che sto leggendo, un supplemento di senso, di cui né il dizio­
nario né la grammatica possono rendere conto. Scrivendo la
SCRIVERE LA LETTURA 25

mia lettura di Sarrasine di Balzac, ho voluto delineare lo spazio


di tale supplemento.
Non ho ricostituito un lettore (voi oppure io), ma la lettu­
ra. Voglio dire che ogni lettura deriva da forme transindivi­
duali: le associazioni generate dalla lettera del testo (ma dov’è
questa «lettera»?) non sono mai, comunque sia, anarchiche;
sono sempre comprese (prelevate e inserite) in certi codici, in
certe lingue, in certi elenchi di stereotipi. La lettura piu sog­
gettiva che si possa immaginare è sempre e soltanto un gioco
condotto secondo certe regole. Da dove provengono tali rego­
le? Non certo dall’autore, che non fa altro che applicarle a
modo suo (e talvolta con genialità, come nel caso di Balzac);
ponendosi visibilmente ben al di qua dell’autore, tali regole
provengono da una logica millenaria del racconto, da una for­
ma simbolica che ci costituisce prima ancora della nascita, in­
somma da quell’immenso spazio culturale di cui la nostra per­
sona (di autore o di lettore) è soltanto un passaggio. Aprire il
testo, costituirne il sistema di lettura non significa perciò sol­
tanto chiedere e mostrare che è possibile interpretarlo libera­
mente; significa soprattutto, e in modo ben piu radicale, giun­
gere a riconoscere che non esiste una verità oggettiva o sog­
gettiva della lettura, ma soltanto una verità ludica; anche se
poi il gioco non deve essere inteso come distrazione, bensì co­
me lavoro - dal quale ogni fatica sarebbe tuttavia evaporata:
leggere vuol dire far lavorare il nostro corpo (la psicanalisi ci
insegna che il corpo è ben piu della nostra memoria e della no­
stra coscienza) in corrispondenza al richiamo dei segni del te­
sto, di tutti i linguaggi che lo attraversano e che formano in
un certo senso la profondità cangiante delle frasi.
Immagino facilmente il racconto leggibile (quello che pos­
siamo leggere senza dichiararlo «illeggibile»: chi non capisce
Balzac?) sotto le specie di quei modellini finemente ed elegan­
temente articolati che servono (o servivano) ai pittori per im­
parare a «schizzare» le diverse posture del corpo umano; leg­
gendo, anche noi conferiamo una certa postura al testo, e pro­
prio per questo esso vive; ma tale postura, di nostra invenzio­
ne, è possibile solo a patto che esista tra gli elementi del testo
un rapporto fondato su certe regole: una proporzione. Ho ten­
tato di analizzare tale proporzione, di descrivere la disposizio­
ne topologica che dà alla lettura classica del testo percorso e
insieme libertà.

1970, in «Le Figaro littéraire».


Sulla lettura

Voglio innanzitutto ringraziarvi di avermi accolto tra voi.


Molte sono le cose che ci legano, a cominciare da questa do­
manda che in comune ci poniamo, ciascun dal proprio luogo:
Che cos’è leggere? Come leggere? Perché leggere? Una cosa tut­
tavia ci separa, e non cercherò di celarla: da molto tempo io
non ho piu alcuna pratica pedagogica: la scuola, il liceo, l’uni-
versità di oggi mi sono totalmente sconosciuti; e la mia pratica
didattica - che pure conta molto nella mia vita - alTÉcole des
hautes études è del tutto marginale, priva di uno statuto pre­
ciso, all’interno stesso dell’insegnamento postuniversitario.
( )ra, dal momento che questo è un congresso, mi sembra pre­
feribile che ciascuno faccia intendere la propria voce, la voce
della sua esperienza; io non cercherò quindi di addurre o di
fingere una competenza pedagogica che non mi appartiene:
mi limiterò a una lettura particolare (come ogni lettura?), la
lettura del soggetto che io sono, che credo di essere.
Rispetto alla lettura, mi trovo" in una grande confusione
teorica: non ho nessuna dottrina sulla lettura, mentre sull’al­
tro versante se ne va delineando a poco a poco una della scrit­
tura. Il mio disagio arriva persino al dubbio: non so neppure
se sia il caso di avere una dottrina sulla lettura; non so se la let­
tura non sia forse, costitutivamente, un campo plurale di pra­
tiche disperse, di effetti reciprocamente irriducibili, e se di
conseguenza la lettura dell» lettura, la Meta-lettura, non sia
a sua volta nient’altro che una dispersione di idee, timori, de­
sideri, godimenti, oppressioni, di cui sarebbe meglio parlare
caso per caso, come nella pluralità delle commissioni in cui è
articolato questo congresso.
Non tenterò di ridurre il mio disagio (non ne ho comunque
i mezzi), ma soltanto di collocarlo, di capire in che modo la
nozione di lettura ecceda visibilmente ogni mia provvisoria
elaborazione. Da che cosa partire? Forse da ciò che ha con-
SULLA LETTURA

sentito alla linguistica moderna di gettare le proprie basi: dalla


nozione di pertinenza.

i. Pertinenza.

La pertinenza è - o almeno è stata - in linguistica il punto


di vista dal quale si sceglie di guardare, interrogare, analizzare
un insieme cosi eterogeneo e disparato come il linguaggio: so­
lo quando decise di guardare al linguaggio dal punto di vista
del senso, e da questo soltanto, Saussure smise di girare a vuo­
to e di perdere Porientamento, e potè fondare una nuova lin­
guistica; solo quando decisero di considerare i suoni esclusiva-
mente per la pertinenza del senso Trubeckoj e Jakobson per­
misero lo sviluppo della fonologia; e Propp fondò l’Analisi
strutturale del racconto quando accettò, a discapito di tanti
altri possibili approcci, di vedere in centinaia di fiabe soltanto
situazioni e ruoli stabili e ricorrenti, cioè forme.
Se potessimo concordare su una pertinenza, per mezzo della
quale esamineremmo la lettura, potremmo sperare di svilup­
pare gradualmente una linguistica o una semiologia, oppure
semplicemente (per sgombrare il campo da ogni debito) un’A­
nalisi della lettura, dell'anagnosis, dell’anagnosi: una Anagno-
sologia - perché no?
Purtroppo, la lettura non ha ancora incontrato il suo Propp
o il suo Saussure; questa auspicata pertinenza, che sgombre­
rebbe il campo allo specialista, non è rintracciabile - o alme­
no non ancora: le vecchie pertinenze non convengono alla let­
tura oppure non le sono sufficienti.
1. Nel campo della lettura, non esiste pertinenza di ogget­
ti: il verbo leggere, apparentemente ben piu transitivo del ver­
bo parlare, può essere saturato, catalizzato da mille comple­
menti oggetto: leggo testi, immagini, città, volti, gesti, scene,
ecc. La varietà di questi oggetti è tale che non posso unificarli
sotto alcuna categoria sostanziale né formale: posso soltanto
trovare loro un’unità intenzionale: l’oggetto che leggo è fon­
dato soltanto dalla mia intenzione di leggere; è semplicemente
da leggere, legendum, appartenente a un campo fenomenologi­
co e non semiologico.
2. Nella lettura - il che è piu grave - non esiste neppure
pertinenza di livelli, non esiste la possibilità di descrivere li­
velli di lettura, perché non è data la possibilità di darne una li­
sta esaustiva. Esiste indubbiamente uri origine della lettura
29
grafica: è l’apprendimento delle lettere, delle parole scritte;
però, da un lato esistono letture senza apprendimento (le im­
magini) - almeno senza apprendimento tecnico, se non cultu­
rale - e dall’altro, una volta acquisita questa techné, non si sa
dove fermare la profondità e la dispersione della lettura: alla
comprensione di un senso? Quale senso? Denotato? Connota­
to? Si tratta di artefatti, che chiamerei etici, dal momento che
il senso denotato tende a esser visto come il senso semplice,
vero, e a fondare una legge (quanti uomini sono morti per un
senso?), mentre la connotazione permette (è il suo vantaggio
morale) di porre un diritto dal senso molteplice e di liberare la
lettura: ma fino a che punto? All’infinito: nessun vincolo
strutturale può chiudere la lettura: posso sia spostare all’infini-
to i limiti del leggibile, decidere che tutto, in ultima istanza, lo
è (per quanto illeggibile possa apparire), sia inversamente de­
cidere che in fondo ad ogni testo, per leggibile che sia stato
concepito, rimane dell’illeggibile. Il saper-leggere può essere
circoscritto, verificato allo stadio iniziale, ma diventa rapida­
mente senza fondo, senza regole, senza livelli e senza fine.
La difficoltà di trovare una pertinenza, sulla quale fondare
un’Analisi coerente della lettura, dipende forse da noi, dalla
nostra mancanza di genio. Ma possiamo anche supporre che
Fim-pertinenza sia, in un certo senso, connaturata alla lettura:
qualcosa, per definizione, interverrebbe a confondere e tur­
bare l’analisi degli oggetti e dei livelli di lettura, facendo cosi
fallire non solo qualsiasi ricerca di una pertinenza nell’Analisi
della lettura, ma anche, forse, il concetto stesso di pertinenza
(infatti, la stessa avventura sembra stia per capitare alla lingui­
stica e alla narratologia). Credo di poter nominare questo qual­
cosa (del resto, in modo banale): è il Desiderio. Proprio perché
ogni lettura è attraversata dal Desiderio (o dal Disgusto) l’A-
nagnosologia è difficile, forse impossibile - e comunque po­
trebbe compiersi proprio dove non ce l’aspettiamo, o almeno
non esattamente dove ce l’aspettiamo: per tradizione - una
tradizione recente - la aspettiamo sul versante della struttu­
ra, e in questo, almeno in parte, abbiamo probabilmente ra­
gione: ogni lettura si svolge all’interno di una struttura (per
quanto molteplice, aperta) e non nello spazio presunto libero
di una presunta spontaneità: non esiste alcuna lettura «natu­
rale», «selvaggia»; la lettura non oltrepassa la struttura, ma è
ad essa sottomessa, ne ha bisogno, la rispetta; però, la perver­
te. La lettura sarebbe il gesto del corpo (perché, sia chiaro, si
legge con il corpo) che con uno stesso moto pone e perverte il
suo ordine: un supplemento interiore di perversione.
SULLA LETTURA

2. Rimozione.

Per essere piu precisi, non mi interrogo sulle avventure o


variazioni del desiderio di leggere, e in particolare non posso
rispondere a questa domanda irritante: perché, oggi, i francesi
non desiderano leggere? Perché, a quanto risulta, il cinquanta
per cento di essi non legge? E bene soffermarsi un attimo sul­
la traccia di desiderio - o di non-desiderio - esistente alPin­
terno di una lettura, supponendo che il voler-leggere sia già
stato assunto. E, innanzitutto, sulle rimozioni della lettura.
Me ne vengono in mente due.
La prima è il risultato di tutte le costrizioni, sociali o inte­
riorizzate attraverso mille mediazioni, che fanno della lettura
un dovere, in cui l’atto stesso di leggere è determinato da una
legge: l’atto di leggere, o piu precisamente, se cosi si può dire,
l’atto di aver letto, la traccia quasi rituale di un’iniziazione.
Non parlo delle letture «strumentali», necessarie all’acquisi­
zione di un sapere, di una tecnica, e per le quali il gesto di leg­
gere scompare sotto l’atto di apprendere: parlo delle letture
«libere», che devono tuttavia appartenere al «bagaglio» di
ciascuno: bisogna aver letto (La Princesse de Clèvesy VAnti-
Edipo). Da dove deriva la legge? Da istanze diverse, ciascuna
delle quali è fondata come valore, come ideologia: per il mili­
tante d ’avanguardia, bisogna aver letto Bataille, Artaud. Per
molto tempo, quando la lettura era esclusivo appannaggio di
un’élite, esistevano dei doveri di lettura universale; suppongo
che il crollo dei valori dell’umanesimo abbia messo fine a quei
doveri di lettura: ad essi si sono sostituiti doveri privati, legati
al «ruolo» che il soggetto si riconosce nella società di oggi; la
legge della lettura non proviene piu da una sorta di eternità
culturale, ma da un’istanza bizzarra, o almeno ancora enigma­
tica, situata al confine tra Storia e Moda. Voglio dire, insom­
ma, che esistono leggi di gruppo, microleggi, di cui ci si deve
a buon diritto liberare. O, se si vuole, la libertà di lettura,
qualsiasi possa essere il prezzo che per essa si deve pagare, è
anche la libertà di non leggere. Chissà se alcune cose non si
trasformano, se certi eventi importanti non si verificano (nel
lavoro, nella storia del soggetto storico) non solo per effetto
delle letture, ma anche per quello dell’oblio di lettura - per
quelle che potrebbero essere chiamate le disinvolture del leg­
gere? Oppure ancora: nella lettura, il Desiderio non può esse-
31

re disgiunto, per quanto costi alle istituzioni, dalla propria ne­


gatività pulsionale.
Una seconda rimozione è forse quella della Biblioteca. Non
si tratta, ovviamente, di contestare l’istituzione bibliotecaria,
né di disinteressarsi del suo necessario sviluppo; si vuole sol­
tanto riconoscere la traccia della rimozione, esistente in un
tratto fondamentale e inevitabile della Biblioteca pubblica (o
semplicemente collettiva): la sua artificiosità. L’artificiosità
non è in sé una modalità della rimozione (la Natura non ha
nulla di particolarmente liberatorio); se Partificiosità della Bi­
blioteca fa fallire il Desiderio di leggere, ciò dipende da due
motivi.
1. Per statuto, indipendentemente dalle sue dimensioni, la
Biblioteca è infinita, in quanto è sempre (per ben concepita
che sia) al tempo stesso al di qua e al di là della richiesta: ten­
denzialmente, il libro desiderato non c’è mai, e ve ne viene in­
vece proposto un altro: la Biblioteca è lo spazio dei succedanei
del desiderio; di fronte all’avventura del leggere, essa è il rea­
le, nella misura in cui esso richiama all’ordine il Desiderio:
sempre troppo grande e troppo piccola, è fondamentalmente
inadeguata rispetto al Desiderio; per trarre piacere, soddisfa­
zione, godimento da una Biblioteca il soggetto deve rinuncia­
re all’effusione del proprio Immaginario; deve aver «fatto» il
proprio Edipo - quell’Edipo che non soltanto bisogna aver
«fatto» all’età di quattro anni, ma in ogni giorno della propria
vita in cui si desidera. Qui è la profusione stessa dei libri a far­
si legge, castrazione.
2. La Biblioteca è uno spazio da visitare, non da abitare.
Nella nostra lingua, che pure viene definita precisa, bisogne­
rebbe avere due termini differenti: uno per il libro di Biblio­
teca, l’altro per il libro-in-casa (con i trattini perché è un sin­
tagma autonomo che ha come referente un oggetto specifico);
uno per il libro «preso in prestito» - il piu delle volte attra­
verso una mediazione burocratica o didattica -, l’altro per il
libro afferrato, strappato via, attirato, prelevato, come se fos­
se già un feticcio; uno per il libro-oggetto di un debito (biso­
gna restituirlo), l’altro per il libro-oggetto di un desiderio o di
una richiesta immediata (senza mediazioni). Lo spazio casalin­
go (e non pubblico) sottrae al libro ogni funzione delVapparire
socialmente, culturalmente, istituzionalmente (eccetto nel ca­
so dei cosy-comers carichi di libri-rifiuti). E vero che il libro-
in-casa non è un oggetto di desiderio purissimo: è (di solito)
SULLA LETTURA

passato attraverso una mediazione che non ha nulla di parti­


colarmente pulito: il denaro; si è dovuto comprarlo e quindi
non comprare gli altri; ma dato che le cose sono quel che so­
no, il denaro è a sua volta uno sfogo - ma non è il caso dell’I­
stituzione: comprare può essere uno sfogo, prendere in prestito
non lo è di certo: nell’utopia di Fourier, i libri non valgono
quasi niente, ma passano comunque attraverso la mediazione
di un po’ di soldi, ad essi si sovrappone una Dépense e proprio
per questo il Desiderio si mette a funzionare e qualcosa è
sbloccato.

3. Desiderio.

Che cosa del Desiderio interviene nella lettura? Il Deside­


rio non può essere nominato, e neppure (al contrario della Ri­
chiesta) detto.Tuttavia, è evidente che esiste un erotismo del­
la lettura (nella lettura il desiderio è presente con il suo ogget­
to, il che corrisponde alla definizione dell’erotismo). Di tale
erotismo della lettura non esiste forse apologo più puro dell’e­
pisodio della Ricerca del tempo perduto in cui Proust ci mostra
il giovane Narratore mentre si chiude nei cabinets di Combray
a leggere (per non veder soffrire la nonna alla quale dicono,
per scherzo, che il marito va a bersi del cognac...): «salivo a
singhiozzare nell’alto della casa accanto alla sala da studio,
sotto i tetti, in una stanzettina odorosa d ’iris, col profumo di
una pianta, di ribes selvatico venuta su di fuori tra le pietre
del muro, che introduceva un ramo di fiori attraverso la fine­
stra semiaperta. Destinata ad uso piu particolare e piu volga­
re, quella stanza, dalla quale di giorno si giungeva con lo
sguardo fino alla torre di Roussainville-le-Pin, per lungo tem­
po mi servi di rifugio, senza dubbio perché era la sola che mi
fosse permesso chiudere a chiave, in tutte le occupazioni che
invocano un’inviolabile solitudine: la lettura, la fantastiche­
ria, le lagrime e la voluttà ».1
La lettura desiderante appare dunque contrassegnata da
due tratti fondamentali. Chiudendosi a chiave per leggere, fa­
cendo della lettura uno stato assolutamente separato, clande­
stino, nel quale il mondo intero è abolito, il lettore - chi legge
- si identifica con altri due soggetti umani - in verità vicinis-

1 Gallimard, Paris, I, 12 [trad. it. Torino 1 9 78, 1, 15].


33
simi l’uno all’altro - il cui stato richiede in egual misura una
violenta separazione: il soggetto amoroso e il soggetto misti­
co; Teresa d ’Avila sostituiva dichiaratamente l’orazione men­
tale con la lettura; e il soggetto amoroso è contraddistinto, co-
m’è noto, dal suo ritrarsi dalla realtà, dal suo disinvestimento
dal mondo esterno. Ciò conferma che il soggetto-lettore è un
soggetto interamente trasportato nel registro dell’Immagina­
rio; tutta l’economia del suo piacere consiste nel coltivare il
rapporto dualistico con il libro (cioè con l’Immagine), con il
quale si rinchiude da solo a solo, cui sta incollato e col naso so­
pra, se mi si passa l’espressione, come il bambino è incollato
alla Madre e chi ama pende dal viso amato. Il cabinet odoroso
di iris è la chiusura stessa dello Specchio, laddove avviene la
coalescenza paradisiaca del soggetto e dell’Immagine - del
libro.
Il secondo tratto che costituisce la lettura desiderante - ed
è proprio l’episodio del cabinet a dircelo - è il seguente: du­
rante la lettura, nel corpo si mescolano e si intrecciano tanti
moti diversi: il fascino, la «vacanza», il dolore, la voluttà; la
lettura produce un corpo sconvolto, ma non frantumato (altri­
menti la lettura non apparterrebbe piu al campo dell’Immagi­
nario). Un che di piu enigmatico è dato tuttavia di leggere, di
interpretare, nell’episodio proustiano: la lettura - la voluttà
di leggere - sembrerebbe avere un qualche rapporto con l’a-
nalità; una stessa metonimia collegherebbe la lettura, l’escre­
mento e - come si è visto - il denaro.
Ed ora - senza lasciare il cabinet di lettura - chiediamoci:
esistono diversi piaceri di lettura? È possibile una tipologia di
tali piaceri? In ogni caso, mi sembra che esistano almeno tre
tipi di piacere della lettura o, per l’esattezza, tre vie attraverso
le quali l’Immagine di lettura può catturare il soggetto leggen­
te. Nella prima modalità, il lettore ha con il testo letto un rap­
porto feticista: il suo piacere deriva dalle parole, da certe pa­
role, da certe disposizioni delle parole; nel testo si disegnano
isole, spazi delimitati nel cui fascino il soggetto-lettore s’ina­
bissa e si perde. Sarebbe perciò un tipo di lettura metaforica
o poetica; per gustare questo piacere, è forse indispensabile
avere alle spalle una lunga cultura linguistica? Niente di meno
sicuro, dal momento che anche il bambino piccolissimo, quan­
do emette i primi suoni, conosce l’erotismo della parola, pra­
tica orale e sonora offerta alla pulsione. Nella seconda moda­
lità, opposta alla prima, il lettore è per cosi dire trascinato
SULLA LETTURA

avanti lungo il libro da una forza che è sempre piu o meno ce­
lata, e che appartiene all’ordine della suspense: il libro si can­
cella a poco a poco, ed è in tale usura impaziente, appassiona­
ta che consiste il godimento; evidentemente, si tratta soprat­
tutto del piacere metonimico di ogni narrazione, senza di­
menticare che il sapere stesso o l’idea possono essere raccon­
tati, sottoposti a un meccanismo di suspense. Ed è proprio
perché questo piacere è manifestamente legato alla vigile at­
tenzione di ciò che si svolge, e al disvelamento di ciò che è na­
scosto, che è possibile supporre un qualche rapporto con l’a­
scolto della scena originaria. Voglio sorprendere, mi consumo
nell’attesa: pura immagine del godimento, proprio in quanto
non attiene all’ordine del soddisfacimento. Bisognerebbe del
resto interrogarsi, per converso, sui blocchi e sui rifiuti di leg­
gere: perché non continuiamo un libro? Perché Bouvard, de­
cidendo di dedicarsi alla Filosofia della Storia, non può «ter­
minare il celebre Discours di Bossuet » 2? È colpa di Bouvard
oppure di Bossuet? Esistono meccanismi d ’attrazione univer­
sali? Esiste una logica erotica della Narrazione? L’Analisi
strutturale del racconto dovrebbe porsi, a questo punto, il
problema del Piacere: mi pare che ormai ne abbiai mezzi. Vi
è infine una terza avventura della lettura (chiamo avventura il
modo in cui il piacere perviene al lettore): è quella, per cosi di­
re, della Scrittura. La lettura è l’elemento conduttore del De­
siderio di scrivere (ora sappiamo con certezza che esiste un
godimento della scrittura, anche se ci appare ancora molto
enigmatico); non che desideriamo necessariamente scrivere
come l’autore che ci piace leggere; quel che desideriamo è uni­
camente il desiderio che l’autore ha avuto di scrivere, ovvero:
desideriamo il desiderio che l’autore ha avuto del lettore men­
tre scriveva, desideriamo Xamatemi implicito in ogni scrittura.
Lo scrittore Roger Laporte l’ha detto molto chiaramente:
«Una pura lettura che non faccia sorgere un’altra scrittura è
per me una cosa incomprensibile... La lettura di Proust, di
Blanchot, di Kafka, di Artaud non mi ha dato voglia di scrive­
re su questi autori (e nemmeno, voglio aggiungere, come loro),
ma di scrìvere». In tale prospettiva la lettura è una vera e pro­
pria produzione: non piu di immagini interiori, di proiezioni,
di fantasmi, ma, alla lettera, di lavoro: il prodotto (consuma­
to) è restituito in produzione, in promessa, in desiderio di

2 Gallimard, Paris, p. 819.


35
produzione, e comincia a dipanarsi la catena dei desideri, poi­
ché ogni lettura vale per la scrittura che genera, all’infinito.
Questo piacere di produrre è élitario, riservato ai soli scrittori
virtuali? Nella nostra società, società di consumo e non di
produzione, società del leggere, del vedere, del sentire e non
dello scrivere, del guardare e dell’ascoltare, tutto è fatto per
bloccare la risposta: gli «amatori» della scrittura sono disper­
si, clandestini, schiacciati sotto il peso di mille ostacoli, anche
interiori.
È un problema di civiltà: ma la mia profonda e costante
convinzione è che non sarà mai possibile liberare la lettura se,
nel contempo, non liberiamo la scrittura.

4. Soggetto.

Si è discusso spesso, e ben prima dell’avvento dell’Analisi


strutturale, dei diversi punti di vista nei quali l’autore può
collocarsi per raccontare una storia - o semplicemente enun­
ciare un testo. Un modo di coinvolgere il lettore in una teoria
della Narrazione, o in senso lato in una Poetica, consisterebbe
nel considerarlo come occupante a sua volta un punto di vista
(o, successivamente, piu d ’uno); in altri termini, nel trattare
il lettore come un personaggio, nel farne uno dei personaggi
(non necessariamente privilegiato) della finzione e/o del Te­
sto. La tragedia greca ne ha dato la dimostrazione: il lettore è
quel personaggio che si trova sulla scena (magari clandestina­
mente) e che è il solo a sentire quel che ciascun interlocutore
non sente; il suo ascolto è duplice (e perciò virtualmente mol­
teplice). In altri termini, il luogo specifico del lettore è Ά para­
gramma, dello stesso che ha ossessionato Saussure (non si sen­
tiva forse impazzire, lui, scienziato, di essere allora soltanto e
in senso pieno lettore?): una lettura «vera», una lettura capa­
ce di assumere la propria affermazione, sarebbe una lettura
folle, non perché inventerebbe sensi improbabili («contro­
sensi»), non perché «delirerebbe», ma in quanto percepireb­
be la molteplicità simultanea dei sensi, dei punti di vista, delle
strutture, come uno spazio che si estende al di fuori delle leggi
che proscrivono la contraddizione (il «Testo» è il postulato
stesso di tale spazio).
Immaginare un lettore totale - cioè totalmente molteplice,
paragrammatico - è forse utile nel senso che consente di in-
36 SULLA LETTURA

travvedere quello che potrebbe essere chiamato il Paradosso


del lettore: per comune ammissione, leggere significa decodi­
ficare - lettere, parole, sensi, strutture -, e ciò è incontestabi­
le; ma, accumulando le decodifiche, dal momento che la lettu­
ra è teoricamente infinita, togliendo il punto d ’arresto del
senso, lasciando procedere la lettura a ruota libera (il che cor­
risponde alla sua vocazione strutturale), il lettore è preso in
un rovesciamento dialettico: finisce per non decodificare, ma
per sovra-codificare\ non decifra, bensì produce, accumula lin­
guaggi, se ne lascia attraversare infinitamente e instancabil­
mente: è questo attraversamento.
Questa è per l’appunto la situazione del soggetto umano,
almeno nel senso in cui cerca di comprenderlo l’epistemologia
psicanalitica: un soggetto che non è piu il soggetto pensante
della filosofia idealistica, bensì quello privo di ogni unità, per­
duto nel duplice disconoscimento del proprio inconscio e del­
la propria ideologia, sostenuto esclusivamente da un incessan­
te carosello di linguaggi. Con questo voglio dire che il lettore
è il soggetto per eccellenza, che il campo della lettura è quello
della soggettività assoluta (nel senso materialistico che questo
vecchio termine idealistico può ormai avere): ogni lettura pro­
cede da un soggetto, e ne è separata solo da rare e tenui me­
diazioni, quali l’apprendimento delle lettere o alcuni protocol­
li retorici, oltrepassati i quali il soggetto si ritrova molto rapi­
damente nella propria struttura individuale: desiderante, o
perversa, o paranoica, o immaginaria, o nevrotica - e, ovvia­
mente, anche nella propria struttura storica: alienato dall’i­
deologia, dalle routines dei codici.
Quanto è stato detto vuole indicare che non si può ragione­
volmente sperare in una Scienza della lettura, in una Semiolo­
gia della lettura, a meno di pensare che un giorno sia possibile
- contraddizione in termini - una Scienza dell’Inesauribile,
dello Spostamento infinito: la lettura è proprio quell’energia,
quell’azione che coglie in quel certo testo, in quel certo libro,
proprio ciò «che non permette di essere esaustivamente defi­
nito dalle categorie della Poetica»3; la lettura sarebbe insom­
ma Yemonagia permanente, attraverso la quale la struttura -
descritta con pazienza e profitto dall’Analisi strutturale - si
sfalderebbe, si aprirebbe, si perderebbe, conforme in questo

3 O. Ducrot e T. Todorov, Dictionnaire encyclopédique des sciences du langage,


Seuil, Paris 1972, p. 107 [trad. it. Milano 1972].
37
ad ogni sistema logico che, in definitiva, nulla può chiudere -
lasciando intatto quel che non può non essere chiamato il pro­
cesso del soggetto e della storia: la lettura avverrebbe là dove
la struttura gira a vuoto e si perde.

Scritto per la Writing Conference di Luchon, 1975. Pubblicato in Le Fran­


çais d ’aujourd }hui, 1976.
Allegato
Riflessioni su un manuale

Vorrei presentare alcune osservazioni improvvisate, sem­


plici o addirittura semplicistiche, che mi sono state suggerite
dalla lettura o rilettura recente di un manuale di storia della
letteratura francese. Rileggendo o leggendo il manuale in que­
stione, che somiglia molto a quelli da me conosciuti ai tempi
del liceo, mi sono posto questa domanda: la letteratura può
essere altro, per noi, che un ricordo d ’infanzia? Voglio dire:
che cosa continua, che cosa persiste, che cosa parla della lette­
ratura dopo il liceo?
Se ci si attenesse a un inventario obiettivo, la risposta sa­
rebbe che a continuare la letteratura nella vita adulta, quoti­
diana, sono: un po’ di parole incrociate, di giochi televisivi e
di celebrazioni per i centenari della nascita o della morte di
scrittori, alcuni titoli di tascabili, qualche allusione critica nel
giornale che leggiamo per tu tt’altri fini, per trovarvi tu tt’altro
che i riferimenti letterari in oggetto. Credo che ciò dipenda in
massima parte dal fatto che noi francesi siamo sempre stati
abituati ad assimilare la letteratura alla storia della letteratura.
La storia della letteratura è un oggetto essenzialmente scola­
stico, che esiste appunto solo in quanto è insegnato; per que­
sto il titolo del nostro convegno, L'insegnamento della lettera­
tura, a me pare quasi tautologico. La letteratura è ciò che si in­
segna, punto e basta. E un oggetto di insegnamento. Sarete
d’accordo nell’ammettere che, almeno in Francia, non abbia­
mo prodotto nessuna grande sintesi, diciamo di tipo hegelia­
no, sulla storia della nostra letteratura. Se la letteratura fran­
cese è un ricordo d ’infanzia (ed è cosi che la prendo), vorrei
vedere - e ciò sarà oggetto di un inventario molto ristretto e
banale - di quali componenti è fatto tale ricordo.
Il ricordo in questione, dunque, è fatto innanzitutto di al­
cuni oggetti che si ripetono, che ritornano continuamente, al
punto che li si potrebbe quasi chiamare monemi della lingua
40 RIFLESSIONI SU UN MANUALE

metaletteraria o della lingua della storia della letteratura; tali


oggetti sono ovviamente gli autori, le scuole, i movimenti, i
generi e i secoli. Esiste poi un certo numero, in realtà molto li­
mitato, di elementi o di predicati che sono venuti applicando­
si, ed evidentemente combinandosi, su quei medesimi og­
getti. Se leggessimo i manuali di storia della letteratura non
avremmo alcuna difficoltà a disporre paradigmaticamente tali
elementi, elencandone le contrapposizioni ed evidenziandone
la struttura elementare, dal momento che sono in numero
molto ristretto e mi sembrano obbedire perfettamente a una
specie di struttura di coppie oppositive, con ogni tanto un ter­
mine misto; è una struttura estremamente semplice. Vi è, per
esempio, il paradigma archetipico di tutta la nostra letteratu­
ra, cioè romanticismo-classicismo (anche se il romanticismo
francese appare sul piano internazionale relativamente pove­
ro), talora appena complicato, per lO ttocento, in romantici­
smo-realismo-simbolismo. Sapete che le leggi combinatorie
consentono di produrre immediatamente, con pochissimi ele­
menti, una sorta di proliferazione apparente: applicando alcu­
ni di tali elementi ad alcuni tra gli oggetti sopra elencati, si
producono già certe individualità o certi individui letterari.
Nei manuali, per esempio, anche i secoli sono sempre presen­
tati, in ultima analisi, in modo paradigmatico. A dire il vero,
è già abbastanza strano che un secolo possa avere una sorta di
esistenza individuale, ma siamo per l’appunto abituati, dai
nostri ricordi d ’infanzia, a fare dei secoli delle specie di indi­
vidualità. I quattro grandi secoli della nostra letteratura sono
fortemente individuati da tutta la nostra storia letteraria: il
Cinquecento è la vitalità straripante, il Seicento l’unità, il
Settecento il movimento e l’Ottocento la complessità.
Vengono poi ad aggiungersi altri elementi che possono a lo­
ro volta costituire coppie oppositive, paradigmi. Diamo alla
rinfusa alcune di queste contrapposizioni, di questi predicati
che si incrostano sugli oggetti letterari: «straripante» opposto
a «sobrio», «l’arte altezzosa», «l’oscurità volontaria» opposte
alla «scorrevolezza», la «freddezza retorica» alla «sensibili­
tà» - il che corrisponde al ben noto paradigma romantico
freddojcaldo -, oppure la contrapposizione tra «fonti» e «ori­
ginalità», tra «lavoro» e «ispirazione»; questo è semplice-
mente l’inizio di un modesto programma di esplorazione della
mitologia della nostra storia letteraria, esplorazione che co-
mincerebbe perciò con lo stabilire quelle specie di paradigmi
mitici di cui si sono sempre, di fatto, nutriti i libri scolastici
RIFLESSIONI SU UN MANUALE 41

francesi, perché si trattava di un procedimento di memorizza­


zione o forse perché, al contrario, la struttura mentale funzio­
nante per contrapposizioni è ideologicamente redditizia (do­
vrebbe dircelo un'analisi ideologica); è il tipo di contrapposi­
zione che incontriamo, ad esempio, tra Condé e Turenne, visti
come grandi figure archetipiche di due temperamenti france­
si: se li m ettete insieme in un solo scrittore (da Jakobson in
poi, è noto che l’atto poetico consiste nell’estensione di un pa­
radigma a sintagma), produrrete autori che conciliano al tem­
po stesso, per esempio, «l’arte formale e l’estrema sensibilità»
o che manifestano «il gusto per le facezie che nasconde una
profonda infelicità» (come Villon). Quel che sto dicendo è
soltanto il punto di partenza di ciò che si potrebbe immagina­
re come una sorta di piccola grammatica della nostra letteratu­
ra, grammatica che produrrebbe una serie di individuazioni
stereotipate: gli autori, i movimenti, le scuole.
Seconda componente di quel ricordo: la storia letteraria
francese è fatta di censure da inventariare. Esiste - lo sappia­
mo, è già stato detto - tutta un’altra storia della nostra lette­
ratura che rimane da scrivere, una contro-storia, un rovescio
di questa storia, ovvero, appunto, la storia di quelle censure.
Quali sono? Innanzitutto, le classi sociali: la struttura sociale
soggiacente a questa letteratura si trova raramente nei manua­
li di storia letteraria: per trovarla, bisogna passare a libri di
critica piu emancipati, più evoluti; nel leggere i manuali si in­
contrano talvolta riferimenti a posizioni di classe, ma soltanto
en passant e sotto forma di contrapposizioni estetiche. In fon­
do, il manuale contrappone atmosfere di classe, non realtà:
quando si oppone lo spirito aristocratico a quello borghese e
popolare, per lo meno nei secoli passati, non si fa che distin­
guere tra raffinatezza da un lato e buonumore e realismo dal­
l’altro. Persino in manuali recenti si trovano ancora frasi del
tipo: «Plebeo, Diderot manca di tatto e di delicatezza; com­
mette errori di gusto che tradiscono una certa volgarità nei
sentimenti stessi... » Dunque la classe esiste, ma come atmo­
sfera estetica o etica; sul piano degli strumenti cognitivi, è fla­
grante nei manuali l’assenza di un’economia e di una sociolo­
gia della nostra letteratura. La seconda censura sarebbe evi­
dentemente quella della sessualità, ma non ne parlerò, perché
rientra nella censura molto piu generalizzata che la società nel
suo insieme esercita sul sesso. Una terza censura sarebbe - ta­
le almeno io la considero - quella del concetto stesso di lette­
ratura, che non è mai definito in quanto concetto, poiché in
queste «storie» la letteratura è in fondo un oggetto scontato,
che non si mette mai in discussione per definirne non dico
Pessenza, ma almeno le funzioni sociali, simboliche o antro­
pologiche; mentre si potrebbe, in realtà, ritorcere questa lacu­
na e dire - in ogni caso, io lo direi volentieri - che la storia
della letteratura dovrebbe essere concepita come una storia
delPidea di letteratura, e tale storia non mi pare esista per il
momento. Per finire, una quarta censura, certo non la meno
importante, concerne i linguaggi, come sempre. Il linguaggio
è un oggetto di censura forse molto piu importante di tutti gli
altri. Voglio dire che i manuali esercitano una censura mani­
festa su tutti i linguaggi che si distaccano dalla norma classica.
È noto che esiste un’immensa censura sulla préciosité. La pré­
ciosité, soprattutto nel Seicento, è descritta come una sorta di
inferno classico: tutti i francesi, attraverso Pinsegnamento
scolastico, hanno sulla préciosité lo stesso giudizio, la guarda­
no con gli stessi occhi di Boileau, Molière o La Bruyère, in un
processo a senso unico che si ripete da secoli - e nonostante
quel che un’autentica storia della letteratura potrebbe forse
facilmente mettere in luce, cioè l’enorme e persistente succes­
so della préciosité per tutto il Seicento: basti pensare che nel
1663 una raccolta di poesie galanti della contessa de Suze ave­
va avuto quindici ristampe di piu tomi. È questo dunque un
punto da chiarire, un punto di censura. C ’è anche il caso del
francese del Cinquecento, il cosiddetto moyen français, rifiu­
tato dalla nostra lingua con il pretesto che è fatto di innova­
zioni effimere, di italianismi, di espressioni gergali, di arditi
barocchismi, ecc., senza che ci si ponga mai il problema di sa­
pere che cosa abbiamo perduto, noi francesi di oggi, nel gran­
de trauma della purezza classica. Non abbiamo perduto sol­
tanto dei mezzi espressivi, come si è soliti dire, ma anche sicu­
ramente una struttura mentale, poiché la lingua è una struttu­
ra mentale. Ricorderò a titolo di esempio significativo che,
secondo Lacan, un’espressione francese come ce suis-je cor­
risponde a una struttura di tipo psicanalitico, perciò in un
certo senso piu vera, e che tale struttura era possibile nel fran­
cese del Cinquecento. Anche in questo caso si potrebbe istrui­
re un processo. Esso dovrebbe partire, evidentemente, da una
condanna di quello che merita di essere chiamato il classico-
centrismo, del quale, secondo me, è ancor oggi impregnata
tutta la nostra letteratura, soprattutto per quanto riguarda la
lingua. Bisogna includere, ancora una volta, i problemi di lin­
gua nei problemi di letteratura; e porsi le grandi domande:
RIFLESSIONI SU UN MANUALE 43
quando comincia una lingua? Per una lingua, che cosa vuol di­
re cominciare? Quando comincia un genere? E che cosa signi­
fica quando ci parlano del primo romanzo francese, per esem­
pio? In realtà, è evidente che, dietro l’idea classica della lin­
gua, c’è sempre un’idea politica: l’essere della lingua, cioè la
sua perfezione e persino il suo nome, è legato all’apogeo di un
potere: il latino classico è il potere latino o romano; il francese
classico è il potere monarchico. Per questo è il caso di dire che
nel nostro insegnamento si coltiva, o si promuove, quella che
chiamerei la lingua paterna, e non la lingua materna - tanto
piu che, sia detto tra parentesi, il francese parlato non si sa
che cosa sia; sappiamo che cos’è il francese scritto perché esi­
stono grammatiche del suo uso corretto, ma il francese parlato
nessuno sa cos’è; e, per saperlo, bisognerebbe cominciare con
10 sfuggire al classico-centrismo.
Terzo elemento del nostro ricordo d ’infanzia: si tratta di
un ricordo imperniato su un centro, e tale centro è - l’ho ap­
pena detto - il classicismo. Il classico-centrismo ci appare
anacronistico, eppure continuiamo a convivere con esso. An­
cor oggi le tesi di laurea si discutono nell’aula Louis-Liard, alla
Sorbona; ebbene, se facessimo l’inventario dei ritratti che si
trovano in quella sala incontreremmo tutte le divinità che so­
no a fondamento della cultura francese nel suo complesso:
Corneille, Molière, Pascal, Bossuet, Descartes, Racine, sotto
11 patrocinio - il che equivale a una confessione - di Riche­
lieu. Questo classico-centrismo ha radici profonde, dal mo­
mento che identifica sempre, persino nella trattazione manua­
listica, la letteratura con il re. La letteratura è la monarchia, e
la sua immagine scolastica si costruisce irresistibilmente intor­
no al nome di certi re: Luigi XIV, com’è ovvio, ma anche
Francesco I o san Luigi, presentandoci in fondo una sorta di
immagine levigata in cui re e letteratura si riflettono vicende­
volmente. Nella struttura centristica della nostra storia lette­
raria agisce anche un’identificazione nazionale: manuali met­
tono perpetuamente in evidenza i cosiddetti valori, o i tempe­
ramenti, tipicamente francesi; ci dicono, per esempio, che
Joinville è tipicamente francese; è francese - il generale De
Gaulle ne ha dato una definizione - ciò che è «regolare, nor­
male, nazionale». È questo, evidentemente, il ventaglio delle
norme e dei valori della nostra letteratura. Dal momento, poi,
che la storia della nostra letteratura ha un centro, è ovvio che
si costruisca rispetto ad esso; nell’insieme, ciò che segue o pre­
cede è perciò visto come annuncio o abbandono. Ciò che pre-
RIFLESSIONI SU UN MANUALE

cede il classicismo annuncia il classicismo - Montaigne è un


precursore dei classici; ciò che viene dopo lo recupera o lo ab­
bandona.
Ultima osservazione: il ricordo d’infanzia di cui parlo attin­
ge la sua strutturazione permanente, nel corso dei secoli, a
una griglia che non è piu, nel nostro insegnamento, quella re­
torica, dal momento che quest’ultima è stata abbandonata
verso la metà dell’Ottocento (come ha dimostrato Genette in
un prezioso articolo sull’argomento); ora è una griglia psicolo­
gica. Tutti i giudizi scolastici si fondano sulla concezione della
forma come «espressione» del soggetto. La personalità si tra­
duce nello stile, e questo postulato nutre tutti i giudizi e tutte
le analisi riguardanti gli autori; ne discende, in ultima istanza,
il valore chiave, quello che ricorre piu frequentemente nel
giudicare gli autori: la sincerità. Per esempio, Du Bellay sarà
lodato per aver avuto slanci sinceri e personali; Ronsard aveva
una fede cattolica sincera e profonda; Villon, il grido del cuo­
re, ecc.
Queste rapide osservazioni sono semplicistiche e mi chiedo
se si presteranno a una discussione, ma vorrei concluderle con
un’ultima annotazione. Secondo me, esiste una profonda e ir­
riducibile antinomia tra la letteratura come pratica e la lette­
ratura come insegnamento. Tale antinomia è grave perché si
ricollega al problema oggi forse piu scottante, quello della tra­
smissione del sapere; è probabile infatti che attualmente sia
questo il problema fondamentale dell’alienazione; se è vero
infatti che a grandi linee sono state analizzate le strutture del­
l’alienazione economica, per quelle dell’alienazione del sapere
ciò non è avvenuto. Credo che su questo piano non sarebbe
sufficiente un apparato concettuale politico, e ci vorrebbe per
l’appunto un apparato di analisi psicanalitica. È questo dun­
que il campo su cui si deve lavorare e che produrrà in seguito
ripercussioni sulla letteratura e sul suo insegnamento, suppo­
sto che la letteratura possa sussistere in un insegnamento, che
sia compatibile con l’insegnamento.
Nell’attesa, è possibile soltanto segnalare alcuni punti
provvisori di correzione. All’interno di un sistema d ’insegna­
mento che continua a contemplare nel proprio programma la
letteratura, è possibile immaginare provvisoriamente, prima
che tutto sia rimesso in discussione, alcuni punti di correzio­
ne? Ne vedo tre immediati. Il primo consisterebbe nel rove­
sciare il classico-centrismo e nel percorrere la storia della let­
teratura a ritroso: anziché prenderla in considerazione da un
45
punto di vista pseudo-genetico, dovremmo fare di noi stessi il
suo centro, e risalire, se si vuole veramente fare della storia
della letteratura, assumendo come punto di partenza la gran­
de coupure moderna e organizzando la storia a partire da essa;
in questo modo la letteratura del passato sarebbe espressa sul­
la base di un linguaggio attuale, o addirittura della lingua pre­
sente: non si vedrebbero piu poveri studenti costretti a lavo­
rare innanzitutto sul Cinquecento, di cui capiscono appena la
lingua, con il pretesto che viene pùnta del Seicento, a sua vol­
ta tutto occupato in dispute religiose prive di rapporto con la
loro situazione presente. Secondo principio: sostituire il testo
all’autore, alla scuola e al movimento. Nelle nostre scuole il
testo è trattato come oggetto di analisi, ma tale analisi è a sua
volta sempre collegata a una storia della letteratura; bisogne­
rebbe invece trattare il testo non già come un oggetto sacro
(oggetto di una filologia), bensì essenzialmente come uno spa­
zio di linguaggio, come il passaggio di una sorta di possibile
infinità di digressioni: a partire da un certo numero di testi
dovrebbero perciò derivare e definirsi altrettanti codici di sa­
pere in essi investiti. Infine, terzo principio: sempre e comun­
que sviluppare la lettura polisemica del testo, riconoscere fi­
nalmente i diritti della polisemia, costruire praticamente una
sorta di critica polisemica, aprire il testo al simbolismo. Credo
che tutto ciò varrebbe già di per sé a decongestionare in gran
parte l’insegnamento della nostra letteratura - non, insisto,
quale è praticato, poiché questo dipende dai professori, ma
nei termini in cui ancora mi pare codificato.

Conferenza tenuta al convegno L'insegnamento della letteratura, Centre


culturel international di Cerisy-la-Salle, 1969, ed «estratta» dagli A tti
pubblicati con lo stesso titolo per i tipi di D e Boek - Duculot.
Concediamo la libertà di grafia

Α1Γultimo romanzo di Flaubert manca un capitolo sull’or­


tografia. Vi avremmo visto Bouvard e Pécuchet ordinare a
Dumouchel un’intera bibliotechina di manuali sull’argomen­
to, esserne dapprincipio incantati, ma poi stupirsi del caratte­
re perentorio e contraddittorio delle regole prescritte, per ec­
citarsi infine reciprocamente cavillando all’infinito: perché
proprio questa grafia? Perché scrivere Caen, Paony Lampe,
Venty Rang, quando si tratta dello stesso suono? Perché Qua­
tre e Caille, dal momento che le due parole hanno originaria­
mente la stessa iniziale? E, di conseguenza, Pécuchet sarebbe
immancabilmente giunto alla conclusione, chinando il capo:
«L’ortografia potrebbe essere soltanto uno scherzo! »
Com’è noto, si tratta di uno scherzo tutt’altro che innocen­
te. Certo, per uno storico della lingua gli «incidenti» dell’or­
tografia francese sono spiegabili: ciascuno ha la propria ragio­
ne, analogica, etimologica o funzionale; l’insieme di tali ragio­
ni è però irragionevole, e quando una simile irragionevolezza
viene imposta, sotto forma di istruzione, a tutto un popolo,
essa diventa colpevole. Ciò che colpisce non è il carattere ar­
bitrario della nostra ortografia, bensì il fatto che tale arbitra­
rietà sia legale. Dal 1835, l’ortografia ufficiale dell’Académie
ha valore di legge agli occhi stessi dello Stato; fin dai primis­
simi anni di scuola, «l’errore di ortografia» dei piccoli france­
si è oggetto di sanzioni: quante vite fallite per qualche inci­
dente del genere!
Il primo effetto dell’ortografia è la discriminazione; vi sono
però anche effetti secondari, di ordine psicologico. Se l’orto­
grafia fosse libera - libera di essere semplificata o no, a se­
conda della volontà del soggetto -, potrebbe costituire una
pratica di espressione molto positiva; la fisionomia scritta
della parola potrebbe acquisire un valore propriamente poeti­
co, in quanto sorgerebbe dalla fantasmatica dello scrivente, e
48 CONCEDIAMO LA LIBERTA DI GRAFIA

non da una legge uniforme e riduttiva. Si pensi a quella sorta


di ebbrezza, di esultanza barocca che esplode attraverso le
«aberrazioni» ortografiche dei vecchi manoscritti, dei testi
infantili e delle lettere di stranieri: vien da pensare che in tali
«fiori» il soggetto cerchi la propria libertà - libertà di scrive­
re, di sognare, di ricordarsi, di sentire. Non vi è mai capitato
di imbattervi in errori di ortografia particolarmente «felici»,
come se qualcuno avesse scritto seguendo i dettami non piu
della legge scolastica, ma di un ordine misterioso proveniente
dalla sua stessa storia - forse addirittura dal suo stesso corpo?
Per contro, non appena Γortografia è uniformata, legalizza­
ta, sanzionata dalle istituzioni statali nella sua stessa compli­
cazione e irrazionalità, il soggetto diviene preda di una nevro­
si ossessiva': Terrore di ortografia diventa la Colpa. Ho appe­
na irhbucato la domanda per un posto che potrebbe cambiar­
mi la vita. Ma sono sicuro di aver messo una s a quel plurale?
Sono a^Jiro di aver messo due p e una sola l ad appeler? Sono
preso dal dubbio, dall’angoscia, come chi in vacanza non ri­
corda piu con certezza se prima di partire ha davvero chiuso il
gas e l’acqua di casa, e teme un incendio o un allagamento.
Cosi come quel dubbio rovina le vacanze, l’ortografia legaliz­
zata impedisce a chi scrive di godere della scrittura, di quel
gesto felice che consente di porre nella grafia di una parola un
po' di piu della semplice intenzione di comunicare.
Riformare l’ortografia? Se ne è avuta piu volte l’intenzio­
ne, e si torna periodicamente ad averla. Ma a che scopo rifare
un codice, anche se migliorato, per poi tornare a imporlo, a le­
galizzarlo, a farne uno strumento evidentemente arbitrario di
selezione? Non è tanto l’ortografia a dover essere riformata,
quanto la legge che ne prescrive un’applicazione minuziosa. Si
può chiedere soltanto questo: un certo «lassismo» dell’istitu­
zione. Se a me piace scrivere «correttamente», cioè «confor­
memente» sono libero di farlo, come lo sono di provare piacere
nel leggere oggi Racine o Gide: l’ortografia legale non è priva
di fascino, perché non è priva di perversità; ma che le «igno­
ranze » e le « disattenzioni » non siano piu penalizzate, non
siano piu viste come aberrazioni o deficienze; che la società
accetti finalmente (o accetti di nuovo) di scindere la scrittura
dall’apparato statale di cui oggi è parte integrante; insomma,
che non si escluda piu nessuno per ragioni di ortografia.

1976, «Le Monde de l’Éducation».


II

Dall’opera al testo
La morte dell’autore

Nella sua novella Sanasine Balzac, parlando di un castrato


travestito da donna, scrive questa frase: «Era la donna, con le
sue paure improvvise, i suoi capricci irragionevoli, i suoi tur­
bamenti istintivi, le sue audacie immotivate, le sue bravate e
la sua deliziosa finezza di sentimenti». Chi parla in questo
modo? È forse l’eroe della novella, interessato a ignorare il
castrato che si nasconde sotto la donna? È l’individuo Balzac,
che l’esperienza personale ha munito di una sua filosofia della
donna? E l’autore Balzac, che professa idee «letterarie» sulla
femminilità? E la saggezza universale? La psicologia romanti­
ca? Non lo sapremo mai, per la semplice ragione che la scrittu­
ra è distruzione di ogni voce, di ogni origine. La scrittura è
quel dato neutro, composito, obliquo in cui si rifugia il nostro
soggetto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità, a co­
minciare da quella stessa del corpo che scrive.

E stato senza dubbio sempre cosi: non appena un fatto è


raccontato, per fini intransitivi, e non piu per agire diretta-
mente sul reale - cioè, in ultima istanza, al di fuori di ogni
funzione che non sia l’esercizio stesso del simbolo -, avviene
questo distacco, la voce perde la sua origine, l’autore entra
nella propria morte, la scrittura comincia. Il modo di sentire
tale fenomeno è stato tuttavia variabile; nelle società etnogra­
fiche del racconto non si fa mai carico una persona, ma un
mediatore, sciamano o recitante, di cui si può al massimo am­
mirare la «performance» (cioè la padronanza del codice nar­
rativo) ma mai il «genio». L'autore è un personaggio moder­
no, prodotto dalla nostra società quando, alla fine del Me­
dioevo, scopre grazie alPempirismo inglese, al razionalismo
francese e alla fede individuale della Riforma il prestigio del
singolo o, per dirla piu nobilmente, della «persona umana». E
dunque logico che in Letteratura fosse il positivismo, summa
52 LA MORTE DELL’AUTORE

e punto d ’arrivo dell’ideologia capitalistica, ad attribuire la


massima importanza alla «persona» dell’autore. L'autore re­
gna ancora nei manuali di storia letteraria, nelle biografie di
scrittori, nelle interviste dei settimanali e nella coscienza stes­
sa degli uomini di lettere, tesi ad unire, con i loro diari intimi,
la persona e l’opera; l’immagine della letteratura diffusa nella
cultura corrente è tirannicamente incentrata sull’autore, sulla
sua persona, storia, gusti, passioni; nella maggior parte dei ca­
si la critica consiste ancora nel dire che l’opera di Baudelaire
è il fallimento dell’uomo Baudelaire, quella di Van Gogh la
sua follia, quella di Cajkovskij il suo vizio: si cerca sempre la
spiegazione dell’opera sul versante di chi l’ha prodotta, come
se, attraverso l’allegoria piu o meno trasparente della finzio­
ne, fosse sempre, in ultima analisi, la voce di una sola e mede­
sima persona, Vautore, a consegnarci le sue «confidenze».

Anche se l’impero dell’Autore è ancora assai potente (mol­


to spesso la nouvelle cùtique non ha fatto altro che consolidar­
lo), certi scrittori hanno tentato da tempo, come è noto, di
minarne le basi. In Francia Mallarmé, primo fra tutti, ha visto
e previsto in tutta la sua ampiezza la necessità di sostituire il
linguaggio in se stesso a chi sino ad allora sembrava esserne il
proprietario; per lui come per noi è il linguaggio a parlare, non
l’autore; scrivere significa, attraverso una preventiva sperso­
nalizzazione - che non va assolutamente confusa con l’ogget­
tività castrante del romanzo realista -, raggiungere quel pun­
to in cui solo il linguaggio agisce, nella «performance» sua e
non dell’«io»: tutta la poetica di Mallarmé consiste nel sop­
primere l’autore a vantaggio della scrittura (il che significa,
come si vedrà, restituire al lettore il ruolo che gli spetta). Va­
léry, impaniato in una psicologia dell’Io, edulcora notevol­
mente la teoria di Mallarmé ma, riferendosi per amore del
classicismo alle lezioni della retorica, mette incessantemente
in dubbio e in ridicolo l’Autore, accentua la natura linguistica
e per cosi dire «casuale» della sua attività, e rivendica in tutta
la sua opera in prosa la condizione essenzialmente verbale del­
la letteratura, di fronte alla quale ogni ricorso all’interiorità
dello scrittore gli sembra pura superstizione. Lo stesso Proust,
nonostante il carattere apparentemente psicologico di quelle
che si sogliono definire le sue analisi, si affida palesemente il
compito di mescolare e confondere inesorabilmente, affinan­
dolo sino all’estremo, il rapporto tra scrittori e personaggi: fa­
cendo del narratore non colui che ha visto o sentito, e neppu-
LA MORTE DELL’AUTORE 53
re colui che scrive, bensì colui che sta per scrìvere (il giovane
del romanzo - ma, in realtà, quanti anni ha e chi è? - vuole
scrivere, ma non può farlo, e il romanzo termina quando fi­
nalmente la scrittura diventa possibile), Proust ha dato alla
scrittura moderna la sua epopea: con un ribaltamento radica­
le, invece di mettere la propria vita nel romanzo, come troppo
spesso è stato detto, ha fatto della sua vita stessa un’opera di
cui il libro è in un certo senso il modello, in modo che a noi ri­
sulti ben evidente come non sia Charlus a imitare Monte-
squiou, ma Montesquiou, nella sua realtà aneddottica e stori­
ca, a costituire soltanto un frammento secondario, derivato,
di Charlus. Il Surrealismo, infine, per restare in questa prei­
storia della modernità, non poteva certo attribuire al linguag­
gio un posto di prima grandezza, in quanto il linguaggio è si­
stema, mentre quel movimento si proponeva, romanticamen­
te, una sovversione diretta dei codici - comunque illusoria,
dal momento che un codice non può essere distrutto, ma sol­
tanto «giocato» raccomandando costantemente di delude­
re bruscamente il senso atteso (la famosa saccade surrealista),
affidando alla mano il compito di scrivere il piu rapidamente
possibile quel che la mente stessa ignora (la scrittura automa­
tica), accettando il principio e l’esprienza di una scrittura a
piu mani, il Surrealismo ha però contribuito a dissacrare l’im­
magine dell’Autore. Infine, al di fuori della letteratura in sen­
so stretto (per la verità, sono distinzioni che sempre piu van­
no cadendo in disuso), la linguistica ha fornito alla distruzione
dell’Autore un prezioso strumento analitico, rivelando come
l’enunciazione nel suo insieme sia un procedimento vuoto,
che funziona perfettamente senza che si renda necessario col­
marlo con la persona degli interlocutori: dal punto di vista lin­
guistico, l’autore non è mai nient’altro che colui che scrive,
proprio come io non è altri che chi dice io: il linguaggio cono­
sce un «soggetto», non una «persona», e tale soggetto, vuoto
al di fuori dell’enunciazione stessa che lo definisce, è suffi­
ciente a far «tenere» il linguaggio, cioè ad esaurirlo.

L’allontanarsi dell’Autore (con Brecht, si potrebbe parlare


qui di una vera e propria «presa di distanza», dal momento
che l’Autore si assottiglia come una figurina sullo sfondo della
scena letteraria) non è soltanto un fatto storico o un atto di
scrittura: esso trasforma radicalmente il testo moderno (o -
ma è lo stesso - il testo è ormai fatto e letto in modo tale che
in esso, a tutti i livelli, l’autore è assente). Innanzitutto, il
54 LA MORTE DELL’AUTORE

tempo non è piu lo stesso. L’Autore, finché ci si crede, è sem­


pre visto come il passato del suo stesso libro: il libro e l’autore
si dispongono da soli su una medesima linea, organizzata co­
me un ρήτηα e un dopo: all’Autore è riconosciuto il compito di
nutrìre il libro, in quanto lo precede, pensa, soffre, vive per es­
so; con la propria opera intrattiene lo stesso rapporto di ante­
cedenza che un padre ha con il figlio. Lo «scrittore» moderno
- il soggetto della scrittura - nasce invece contemporanea­
mente al proprio testo; non è in alcun modo dotato di un esse­
re che precederebbe o travalicherebbe la sua scrittura, non è
affatto il soggetto di un libro che ne costituirebbe il predicato;
non esiste altro tempo se non quello dell’enunciazione, e ogni
testo è scritto per sempre qui e ora. Il fatto è che (o ne conse­
gue che) scivere non può piu designare un’operazione di regi­
strazione, di constazione, di rappresentazione, di «pittura»
(come dicevano i Classici), bensì ciò che i linguisti, sulla scor­
ta della filosofia analitica oxfordiana, chiamano un performa­
tivo, forma verbale rara (esclusivamente data alla prima per­
sona e al presente) nella quale l’enunciazione non ha altro
contenuto (o altro enunciato) che l’atto stesso con il quale si
enuncia: un po’ come il Io dichiaro dei re o il Io canto dei poeti
piu antichi; lo «scrittore» moderno, dopo aver sepolto l’Au­
tore, non può piu credere, come facevano pateticamente i
suoi predecessori, che la sua mano sia troppo lenta per il suo
pensiero o per la sua passione e che di conseguenza, facendo
di necessità virtù, egli debba accentuare tale ritardo e «lavo­
rare» all’infinito la propria forma; per lui, al contrario, la sua
mano, staccata da qualsiasi voce, guidata da un puro gesto di
inscrizione (e non di espressione), traccia un campo senza ori­
gine - o che, per lo meno, non ha altra origine che il linguag­
gio stesso, ovvero proprio ciò che rimette costantemente in
discussione qualsiasi origine.

Sappiamo oggi che un testo non consiste in una serie di pa­


role esprimenti un significato unico, in un certo senso teologi­
co (che sarebbe il messaggio dell’Autore-Dio), ma è uno spa­
zio a piu dimensioni, in cui si congiungono e si oppongono
svariate scritture, nessuna delle quali è originale: il testo è un
tessuto di citazioni, provenienti dai piu diversi settori della
cultura. Come Bouvard e Pécuchet, eterni copisti al tempo
stesso sublimi e comici, il cui comportamento profóndamente
ridicolo designa per, Γappunto la verità della scrittura, lo scrit­
tore può soltanto imitare un gesto sempre anteriore, mai ori-
55
ginale; il suo solo potere consiste nel mescolare le scritture,
nel contrapporle l’una alPaltra in modo da non appoggiarsi
mai ad una in particolare; se anche volesse esprimersi, dovreb­
be almeno sapere che la «cosa» interiore che pretende di «tra­
durre» non è a sua volta nient’altro che un dizionario precon­
fezionato, le cui parole possono essere spiegate solo attraverso
altre parole, e cosi all’infinito: avventura capitata in maniera
esemplare al giovane Thomas de Quincey, cosi forte in greco
che, per tradurre in quella lingua morta idee e immagini asso­
lutamente moderne, come ci dice Baudelaire, «aveva creato
per sé un dizionario pronto per ogni occasione, ben piu com­
plesso ed esteso di quello che risulta dalla volgare combinazio­
ne dei temi puramente letterari» (.Iparadisi artificiali); succes­
sore dell’Autore, lo «scrittore» non ha piu in sé passioni,
umori, sentimenti, impressioni, ma quell’immenso dizionario
cui attinge una scrittura che non può conoscere pause: la vita
non fa mai altro che imitare il libro, e il libro stesso, a sua vol­
ta, non è altro che un tessuto di segni, imitazione perduta, in­
finitamente remota.

Una volta allontanato l’Autore, la pretesa di «decifrare»


un testo diventa del tutto inutile. Attribuire un Autore a un
testo significa imporgli un punto fisso d ’arresto, dargli un si­
gnificato ultimo, chiudere la scrittura. È una concezione mol­
to comoda per la critica, che si arroga cosi l’importante com­
pito di scoprire l’Autore (o le sue ipostasi: la società, la storia,
la psiche, la libertà) al di sotto dell’opera: trovato l’Autore, il
testo è «spiegato», il critico ha vinto; non deve sorprendere,
perciò, il fatto che storicamente il regno dell’Autore sia stato
anche quello del Critico, e che la critica (per quanto nouvelle)
sia oggi, insieme all’Autore, minata alla base. Nella scrittura
molteplice, in effetti, tutto è da districare, ma nulla è da deci­
frare; la struttura può essere seguita, «sfilata» (come si sfila la
maglia di una calza) in tutti i suoi «prestiti» e piani, ma non
esiste un fondo; lo spazio della scrittura dev’essere percorso,
non trapassato; la scrittura esprime costantemente un certo
senso, ma sempre in vista della sua evaporazione: essa proce­
de sistematicamente a una sorta di «esonero» del senso. Pro­
prio per questo, la letteratura (ormai sarebbe meglio dire la
scrittura), rifiutandosi di assegnare al testo (e al mondo come
testo) un «segreto», cioè un senso ultimo, libera un’attività
che potremmo chiamare contro-teologica, o meglio rivoluzio­
naria, poiché rifiutarsi di bloccare il senso equivale sostanziai-
5^ LA MORTE DELL’AUTORE

mente a rifiutare Dio e le sue ipostasi, la ragione, la scienza, la


legge.

Ritorniamo alla frase di Balzac. Nessuno (cioè nessuna


«persona») la pronuncia: la sua fonte, la sua voce, non è il ve­
ro luogo della scrittura, ma la lettura. Un altro esempio molto
preciso può chiarirlo: recenti ricerche (J.-P. Vernant) hanno
messo in luce la natura fondamentalmente ambigua della tra­
gedia greca; in essa il testo è intessuto di parole dal senso du­
plice, che ogni personaggio comprende unilateralmente (il
«tragico» è per Γappunto questo malinteso); esiste tuttavia
qualcuno che intende ogni parola nella sua duplicità, e in piu
intende quella che potremmo chiamare la sordità dei perso­
naggi che parlano di fronte a lui: questo qualcuno è appunto il
lettore (o, in questo caso, Γascoltatore). Si disvela cosi l’essere
totale della scrittura: un testo è fatto di scritture molteplici,
provenienti da culture diverse e che intrattengono reciproca­
mente rapporti di dialogo, parodia o contestazione; esiste pe­
rò un luogo in cui tale molteplicità si riunisce, e tale luogo non
è l’autore, come sinora è stato affermato, bensì il lettore: il
lettore è lo spazio in cui si inscrivono, senza che nessuna vada
perduta, tutte le citazioni di cui è fatta la scrittura; l’unità di
un testo non sta nella sua origine ma nella sua destinazione,
anche se quest’ultima non può piu essere personale: il lettore
è un uomo senza storia, senza biografia, senza psicologia; è
soltanto quel qualcuno che tiene unite in uno stesso campo
tutte le tracce di cui uno scritto è costituito. Per questo è ridi­
colo sentir condannare la nuova scrittura in nome di un uma­
nesimo che si erge ipocritamente a difensore dei diritti del let­
tore. Del lettore la critica classica non si è mai occupata; per
lei, nella letteratura non vi è altro uomo che chi scrive. Oggi
cominciamo a non lasciarci piu ingannare da quella sorta di
antifrasi con cui la buona società è solita perorare in modo ar­
rogante proprio in favore di ciò che in realtà mette al bando,
ignora, soffoca o distrugge; sappiamo che, per restituire alla
scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo
della nascita del lettore non può essere che la morte dell’Au­
tore.

1968, « M an teia».
Dall’opera al testo

Negli ultimi anni, si può constatare un certo cambiamento


nell’idea che ci facciamo del linguaggio e, di conseguenza, del­
l’opera (letteraria) che deve al linguaggio almeno la sua esi­
stenza fenomenica. Tale cambiamento è evidentemente colle­
gato all’attuale sviluppo (fra altre discipline) della linguistica,
dell’antropologia, del marxismo, della psicanalisi (il termine
«collegamento» è usato qui in modo volutamente neutro: non
si può decidere in merito a una determinazione, foss’anche
molteplice e dialettica). La novità che incide sulla nozione di
opera non proviene necessariamente dal rinnovamento inter­
no di ciascuna disciplina, bensì dal confronto intorno a un og­
getto che non appartiene tradizionalmente a nessuna di esse.
Si direbbe infatti che l’interdisciplinantà, che è diventata oggi
un valore diffuso nella ricerca, non possa realizzarsi con il
semplice confronto di saperi particolari; al contrario, non è af­
fatto facile né scontata: comincia effettivamente (e non per un
pio desiderio) quando si sciolgono i legami di solidarietà tra le
vecchie discipline, talora in modo violento per effetto della
moda, e si delinea un oggetto nuovo, un nuovo linguaggio, en­
trambi estranei al campo delle scienze che si intendeva mette­
re tranquillamente a confronto; ed è proprio questo disagio
nella classificazione che consente di diagnosticare un certo
mutamento. Il mutamento che sembra investire l’idea di ope­
ra non deve tuttavia essere sopravvalutato; esso fa parte di
uno spostamento epistemologico piu che di una vera e propria
cesura, la quale, come spesso è stato detto, sarebbe intervenu­
ta nel secolo scorso, con la comparsa del marxismo e del freu­
dismo; da allora non si sarebbe prodotta alcuna nuova cesura,
e si può dire che, da cent’anni a questa parte siamo insediati
nella ripetizione. Il fatto è che la Storia, la nostra Storia, ci
consente oggi soltanto spostamenti, variazioni, superamenti
o rifiuti. Cosi come la scienza einsteiniana obbliga a includere
58 DALL’OPERA AL TESTO

nell’oggetto studiato la relatività dei punti di nfenmento, l’azio­


ne congiunta del marxismo, del freudismo e dello strutturali­
smo ci impone, in letteratura, di relativizzare i rapporti tra
scrivente, lettore e osservatore (il critico). Di fronte all’opera
- nozione tradizionale, concepita per molto tempo, e ancor
oggi, in modo per cosi dire newtoniano -, si avverte l’esigen­
za di un oggetto nuovo, ottenuto per spostamento o rovescia­
mento delle categorie precedenti. Tale oggetto è il Testo. So
benissimo che è un termine di moda (io stesso sono portato a
usarlo spesso), e che per questo può suonare sospetto; non a
caso, perciò, vorrei in un certo senso ricordare a me stesso le
principali proposizioni che convergono, secondo me, nel luo­
go del Testo. Il termine «proposizione», qui, dev’essere inte­
so in senso piu grammaticale che logico: si tratta di enuncia­
zioni, non di argomentazioni, di « tocchi » o di approcci che
accettano il loro limite metaforico. Tali proposizioni riguarda­
no il metodo, i generi, il segno, il plurale, la filiazione, la let­
tura, il piacere.

i. Il Testo non dev’essere inteso come un oggetto compu­


tabile. Sarebbe vano tentare di dividere materialmente le ope­
re dai testi. In particolare, non ha senso dire: l’opera è classi­
ca, il testo è di avanguardia; non si tratta di stabilire in nome
della modernità una rozza graduatoria e di dichiarare certe
produzioni letterarie in ed altre out fondandosi sulla loro col-
locazione cronologica: può benissimo esserci «del Testo» in
un’opera antichissima, mentre molti prodotti della letteratura
contemporanea non sono affatto dei testi. La differenza è la
seguente: l’opera è un frammento di sostanza, occupa una
porzione dello spazio dei libri (per esempio in una biblioteca).
Il Testo, per contro, è un campo metodologico. L’opposizione
potrebbe rinviare (ma certo non riprodurre esattamente) alla
distinzione proposta da Lacan: la «realtà» si mostra, il «rea­
le» si dimostra; cosi l’opera si vede (nelle librerie, negli sche­
dari, nei programmi d ’esame), il testo si dimostra, si parla se­
condo certe regole (o contro certe regole); l’opera si tiene in
mano, il testo si tiene nel linguaggio; esiste soltanto nel di­
scorso in cui è preso (o, meglio, è Testo proprio in quanto ne
è cosciente); il Testo non è la decomposizione dell’opera, è
l’opera ad essere la coda immaginaria del Testo. O ancora: il
Testo si sperimenta soltanto in un lavoro, in una produzione.
Ne consegue che il Testo non può fermarsi (per esempio, in
uno scaffale di biblioteca); il suo movimento costitutivo è
DALL OPERA AL TESTO 59
Γattraversamento (può, in particolare, attraversare l’opera, piu
opere).

2. Allo stesso modo, il Testo non si limita alla (buona) let­


teratura; non può essere compreso in una gerarchia né in una
semplice suddivisione in generi. Ciò che lo costituisce è inve­
ce (o appunto) la sua forza sovversiva nei confronti delle vec­
chie classificazioni. Come classificare Georges Bataille? E un
romanziere, un poeta, un saggista, un economista, un filosofo,
un mistico? La risposta è cosi ardua che in genere nei manuali
di letteratura si preferisce dimenticare Bataille; in realtà, Ba­
taille ha scritto dei testi, o addirittura, forse, sempre lo stesso
testo. Se il Testo pone problemi di classificazione (è d ’altron­
de una delle sue funzioni « sociali ») è perché implica sempre
una certa esperienza del limite (per riprendere una formula di
Philippe Sollers). Thibaudet parlava già (ma in un senso piu
ristretto) di opere limite (come la Vie de Rancé di Chateau­
briand, che oggi ci appare infatti come un «testo»): il Testo è
ciò che si spinge al limite delle regole dell’enunciazione (razio­
nalità, leggibilità, ecc.). Non si tratta di un’idea rettorica, uti­
lizzata per apparire «eroici»; il Testo cerca di porsi esatta­
mente dietro il limite della doxa (l’opinione corrente, costitu­
tiva delle nostre società democratiche, fortemente aiutata dai
mezzi di comunicazione di massa, non è forse definita dai
suoi limiti, dalla sua forza di esclusione, dalla sua censura?);
prendendo la parola alla lettera, si potrebbe dire che il Testo
è sempre paradossale.

3. Il Testo si apre e si sperimenta rispetto al segno. L’ope­


ra si chiude su un significato. A tale significato possono essere
attribuiti due modi di significazione: o lo si considera appa­
rente, e. allora l’opera diventa l’oggetto di una scienza della
lettera, la filologia; oppure il suo significato è visto come se­
greto, estremo, da ricercare, e in questo caso l’opera dipende
da un’ermeneutica, da un’interpretazione (marxista, psicana­
litica, tematica, ecc.). Insomma, l’opera funziona a sua volta
come un segno generale, ed è logico che rappresenti una cate­
goria istituzionale della civiltà del Segno. Il Testo, invece,
pratica il rinvio infinito del significato, il Testo è dilatorio; il
suo campo è quello del significante. Il significante non dev’es­
sere immaginato come «la prima parte del senso», come il suo
vestibolo materiale, ma al contrario come il suo après-coup; co­
si, l’infinito del significante non rimanda a una qualche idea di
DALL’OPERA AL TESTO

ineffabilità (di significato innominabile), ma a quella di gioco\


il generarsi del significante perpetuo (come del calendario
omonimo) nel campo del Testo (o meglio di cui il Testo è il
campo) non avviene secondo un procedimento organico di
maturazione o un procedimento ermeneutico di approfondi­
mento, bensì secondo un movimento seriale di distacchi, so­
vrapposizioni, variazioni; la logica che regola il Testo non è
comprensiva (definire «ciò che vuol dire» l’opera), ma meto­
nimica; il lavoro delle associazioni, delle contiguità, dei ri­
mandi coincide con una liberazione dell’energia simbolica (se
venisse meno, l’uomo morirebbe). L’opera (nel migliore dei
casi) è mediocremente simbolica (il suo simbolismo non appro­
da a nulla, cioè si blocca); il Testo è radicalmente simbolico:
un’opera della quale si concepisce, si percepisce e si recepisce la
natura integralmente simbolica è un testo. Il Testo è di conse­
guenza restituito al linguaggio; come quest’ultimo, è struttu­
rato, ma decentrato, senza chiusura (si noti, per rispondere al­
lo sprezzante sospetto di «moda» di cui è talvolta investito lo
strutturalismo, che il privilegio epistemologico riconosciuto
oggi al linguaggio consiste appunto nel fatto che in esso abbia­
mo scoperto un’idea paradossale della struttura: un sistema
senza fine né centro).4

4. Il Testo è plurale. Ciò non significa soltanto che ha mol­


ti sensi, ma che dà adempimento al plurale stesso del senso:
un plurale iniducibile (e non solo accettabile). Il Testo non è
coesistenza di sensi, bensì passaggio, attraversamento; non
può perciò dipendere da un’interpretazione, sia pur liberale,
ma da un’esplosione, da una disseminazione. Il plurale del Te­
sto attiene, infatti, non all’ambiguità dei suoi contenuti, ma a
quella che potremmo chiamare la pluralità stereografica dei si­
gnificanti di cui è intessuto (etimologicamente, il testo è un
tessuto): il lettore del Testo potrebbe essere paragonato a un
soggetto inoperoso (che avrebbe dispiegato in sé ogni imma­
ginario); tale soggetto relativamente vuoto passeggia (proprio
questo è accaduto all’autore di quanto state leggendo, ed è co­
sì che è stato colpito da una visione pregnante del Testo), co­
steggiando una valle sul cui fondo scorre uno uadi (lo uadi è
introdotto per dare l’idea di un certo spaesamento); quel che
percepisce è molteplice, irriducibile, proveniente da sostanze
e da piani eterogenei, staccati: luce, colori, vegetazione, calo­
re, aria, esplosioni attutite di rumori, vaghi cinguettìi d’uc­
celli, voci di bambini dall’altra parte della vallata, passaggi,
DALL’OPERA AL TESTO 6l
gesti, vestiti di abitanti da vicino o in lontananza; tutti questi
elementi sono identificabili solo per metà: provengono da co­
dici noti, ma la loro combinatoria è unica, fonda la passeggia­
ta come differenza che potrà ripetersi soltanto in quanto dif­
ferenza. E proprio quel che accade per il Testo: può essere sé
soltanto nella sua differenza (che non vuol dire individualità);
la sua lettura è semel-fattiva (il che rende illusoria qualsiasi
scienza induttiva-deduttiva dei testi: non è data una «gram­
matica» dei testi), e tuttavia tutta intessuta di citazioni, di ri­
ferimenti, di echi: linguaggi culturali (quale linguaggio non lo
è?), anteriori o contemporanei, che lo attraversano da un capo
all’altro in una vasta stereofonia. L’intertestualità nella quale
è situato ogni testo, dal momento che è a sua volta l’infra-
testo di un altro testo, non può essere confusa con una qual­
che origine del testo stesso: ricercare le «fonti», gli «influssi»
di un’opera significa rispettare il mito della filiazione; le cita­
zioni di cui è fatto un testo sono anonime, irreperibili e tutta­
v i a ^ lette: sono citazioni senza virgolette. L’opera non turba
nessuna filosofia monistica (ne esistono, come è noto, di anta­
gonistiche); per tale filosofia, il plurale è il Male. Cosi, di
fronte all’opera, il Testo potrebbe effettivamente assumere
come motto la parola dell’uomo in preda ai demoni (Marco
5.9): «Il mio nome è una legione, poiché noi siamo parecchi».
La testura plurale o demoniaca che oppone il Testo all’opera
può comportare profondi rimescolamenti nella lettura, pro­
prio laddove il monologismo sembra essere la Legge: certi «te­
sti» della Sacra Scrittura, recuperati tradizionalmente dal mo­
nismo teologico (storico o anagogico), si offriranno forse a una
diffrazione del senso (cioè in ultima analisi a una lettura ma­
terialistica), mentre l’interpretazione marxista dell’opera, fi­
nora decisamente monistica, potrà materializzarsi di piu dive­
nendo plurale (a patto che le «istituzioni» marxiste lo consen­
tano).5

5. L’opera si inscrive in un processo di filiazione. Vi si po­


stula una determinazione del mondo (della razza, poi della Sto­
ria) sull’opera, una consecuzione delle opere l’una rispetto al­
l’altra e uri appropriazione dell’opera da parte del suo autore.
L’autore è considerato il padre e il proprietario della sua ope­
ra; la scienza letteraria apprende perciò a Hspettare il mano­
scritto e le intenzioni dichiarate dell’autore, e la società po­
stula un rapporto legale tra autore e opera (cioè i «diritti d’au­
tore», recenti a dire il vero, dal momento che sono stati effet-
Ó2 DALL’OPERA AL TESTO

tivamente legalizzati soltanto con la Rivoluzione francese). Il


Testo, invece, si legge senza l’inscrizione del Padre. La meta­
fora del Testo si distacca, anche in questo caso, da quella del­
l’opera; quest’ultima rimanda all’immagine di un organismo
che cresce per espansione vitale, per « sviluppo » (termine si­
gnificativamente ambiguo: biologico e rettorico); la metafora
del Testo è quella del reticolo; se il Testo si estende è per ef­
fetto di una combinatoria, di una sistematica (immagine, d’al­
tronde, vicina alle prospettive della biologia contemporanea
sul vivente); al Testo non è dunque dovuto alcun «rispetto»
vitale: esso può essere frantumato (come d ’altra parte faceva il
Medioevo con due testi dotati peraltro di grande autorità: le
Sacre Scritture e Aristotele); il Testo può essere letto senza la
garanzia del padre; la restituzione dell’inter-testo ne abolisce
paradossalmente l’eredità. Non che l’Autore non possa «ri­
tornare» nel Testo, nel suo testo; ma lo farà allora, per cosi di­
re, in qualità di invitato; se è romanziere, vi si inscrive come
uno dei suoi personaggi, come disegnato sul tappeto, sullo
sfondo; la sua inscrizione non è piu privilegiata, paterna, ale­
tica, bensì ludica: egli diviene, per cosi dire, un autore di car­
ta; la sua vita non è piu all’origine dei suoi racconti, ma un
racconto in concorrenza con la sua opera; l’opera si riversa
sulla vita (e non piu il contrario), come accade in Proust o in
Genet, consentendo di leggere la vita dell’autore come un te­
sto: il termine «bio-grafia» recupera un senso forte, etimolo­
gico; contemporaneamente, la sincerità dell’enunciazione, ve­
ra e propria «croce» della morale letteraria, diventa un falso
problema: Yio che scrive il testo è anch’esso sempre e soltanto
un io di carta.6

6. L’opera è di solito un oggetto di consumo; lungi da me il


fare della demagogia riferendomi alla cultura cosiddetta con­
sumistica, ma bisogna pur riconoscere che oggi è la «qualità»
dell’opera (il che presuppone in ultima analisi una valutazione
del «gusto») e non l’operazione della lettura in sé a fare la dif­
ferenza tra i libri: la lettura «colta» non differisce struttural­
mente da quella che si fa in treno. Il Testo (non foss’altro per
la sua frequente «illeggibilità») decanta l’opera (se quest’ulti­
ma lo consente) dal suo consumo e la recupera come gioco, la­
voro, produzione, pratica. Ciò significa che il Testo chiede
che si tenti di abolire (o almeno di attenuare) la distanza tra
scrittura e lettura, certo non intensificando la proiezione del
lettore sull’opera, ma collegandoli entrambi in una stessa pra-
DALL’OPERA AL TESTO

tica significante. La distanza che separa la lettura dalla scrit­


tura è storica. All’epoca della piu forte divisione sociale (pri­
ma che si instaurassero le culture democratiche), leggere e
scrivere erano in egual misura privilegi di classe: la Rettorica,
grande codice letterario di quei tempi, insegnava a scrivere
(anche se allora si producevano di solito discorsi e non testi);
è significativo che l’avvento della democrazia abbia rovescia­
to la parola d ’ordine: la Scuola (superiore) va orgogliosa del
fatto che insegna a leggere (come si deve), e non piu a scrivere
(il senso di questa carenza ritorna oggi di moda: all’insegnante
si chiede che insegni allo studente a «esprimersi», il che è co­
me sostituire una censura con un controsenso). In realtà, leg­
gere, nel senso di consumare, non significa giocare con il testo.
«Giocare» dev’essere preso qui in tutta la polisemia del ter­
mine: il testo stesso gioca (come una porta o un meccanismo
hanno un certo «gioco»); e il lettore, dal canto suo, gioca due
volte: gioca con il Testo (nel senso ludico), cercando una pra­
tica che lo ri-produca; ma, affinché tale pratica non si riduca
a una mimesis passiva, interna (il Testo è proprio ciò che resi­
ste a tale riduzione), egli gioca il Testo; non si dimentichi che
«giocare» {jouer) in francese è anche un termine musicale; la
storia della musica (come pratica, non come «arte») è d ’altro
canto relativamente parallela a quella del Testo; vi fu un’epo­
ca in cui, essendo numerosi gli appassionati attivi della musica
(almeno all’interno di una certa classe), «suonare» {jouer) e
«ascoltare» costituivano un’attività poco differenziata; in se­
guito sono apparsi, in successione, due ruoli: innanzitutto
quello dell 'interprete, al quale il pubblico borghese (benché a
sua volta in grado di suonare un po’: si pensi alla storia del
pianoforte) delegava il proprio «gioco»; poi quello dell’ama­
tore (passivo), che ascolta la musica senza saperla eseguire (e
il disco ha effettivamente soppiantato il piano). Com’è noto,
oggi la musica post-seriale ha profondamente modificato il
ruolo dell’«interprete», al quale si chiede non tanto di «espri­
mere » la partitura quanto di esserne in un certo senso, com­
pletandola, il co-autore. Il Testo è pressappoco una partitura
di questo nuovo genere, che sollecita il lettore a una collabo-
razione pratica. Grande innovazione, poiché chi può eseguire
l’opera? (Mallarmé si era posto il problema, e voleva che il
pubblico producesse il libro). Solo oggi il critico «procede all’e­
secuzione» dell’opera (confesso il gioco di parole). La riduzio­
ne della lettura a un consumo è evidentemente responsabile
della « noia » che molti provano di fronte a un testo moderno
(«illeggibile»), a un film o a un quadro d ’avanguardia: an-
DALL’OPERA AL TESTO

noiarsi vuol dire non poter produrre il testo, giocarlo, disfar­


lo, farlo partire.
7. Ciò induce a porre (a proporre) un ultimo approccio al
Testo: quello del piacere. Non so se sia mai esistita un’estetica
edonistica (le filosofie eudemonistiche sono anch’esse rare).
Certo, esiste un piacere dell’opera (di certe opere); posso esse­
re affascinato dalla lettura e rilettura di Proust, Flaubert,
Balzac e persino, perché no?, di Alexandre Dumas; ma questo
piacere, per quanto vivo, e anche se fosse del tutto libero da
pregiudizi, rimane in parte (a meno di uno sforzo critico ecce­
zionale) un piacere del consumare: infatti, se posso leggere
questi autori, so anche che non posso riscriverli (che oggi non
è possibile scrivere «cosi»), e questa consapevolezza un po’
triste basta a separarmi dalla produzione di quelle opere, nel
momento stesso in cui la loro lontananza fonda la mia moder­
nità (essere moderni non significa forse essere realmente co­
scienti del fatto che non è possibile ricominciare?) Il Testo,
invece, è legato al godimento, cioè al piacere senza separazio­
ne. Ordine del significante, il Testo fa parte a modo suo di
un’utopia sociale; prima della Storia (a patto che essa non
scelga la barbarie), il Testo dà adempimento, se non proprio
alla trasparenza dei rapporti sociali, almeno a quella dei rap­
porti tra linguaggi: è lo spazio in cui nessun linguaggio sbarra
il cammino a un altro, in cui i linguaggi circolano (anche nel
senso circolare del termine).
Queste poche proposizioni non costituiscono necessaria­
mente le articolazioni di una Teoria del Testo. Ciò non dipen­
de soltanto dalle carenze di chi le ha presentate (il quale d ’al­
tra parte, in molti punti, non ha fatto altro che riprendere ri­
cerche in corso intorno a lui). Dipende dal fatto che una Teo­
ria del Testo non può esaurirsi in un’esposizione metalingui­
stica: la distruzione del metalinguaggio, o per lo meno la sua
sospensione (dal momento che può essere necessario farvi oc­
casionalmente ricorso), fa parte della teoria stessa: il discorso
sul Testo dovrebbe a sua volta non essere altro che testo, ri­
cerca, lavoro testuale, poiché il Testo è quello spazio sociale
che non lascia nessun linguaggio al riparo, all’esterno, né al­
cun soggetto dell’enunciazione in situazione di giudice, di pa­
drone, di analista, di confessore, di decifratore: la teoria del
Testo non può coincidere che con una pratica della scrittura.

1 9 7 1 , in «R evu e d ’esth étiq u e».


La mitologia oggi

Quindici anni f a 1fu proposta una certa idea del mito con­
temporaneo. Quell’idea, all’inizio per la verità, poco elabora­
ta (il termine conservava un valore apertamente metaforico),
comportava tuttavia alcune articolazioni teoriche, i. Il mito,
vicino a quella che nella sociologia durkhemiana è detta «rap­
presentazione collettiva», può essere letto negli enunciati
anonimi della stampa, della pubblicità, dell’oggetto di grande
consumo: è un fatto determinato socialmente, un «riflesso».
2. Il riflesso in questione è tuttavia invertito, secondo una ce­
lebre immagine di Marx: il mito consiste nel riversare la cul­
tura in natura, o almeno il sociale, il culturale, l’ideologico, lo
storico in «naturale»: ciò che non è altro che un prodotto del­
la divisione di classe e delle sue conseguenze morali, culturali,
estetiche, è presentato (enunciato) come «scontato»; i fonda­
menti del tutto contingenti dell’enunciato diventano, per ef­
fetto dell’inversione mitica, il Buon Senso, il Buon Diritto, la
Norma, l’Opinione Corrente, insomma YEndoxa (figura laica
dell’Origine). 3. Il mito contemporaneo è discontinuo: non è
piu enunciato in grandi racconti saldamente costituiti, ma so­
lo in «discorsi»: si tratta al massimo di una fraseologia, un cor­
pus di frasi (di stereotipi); il mito scompare, ma rimane, ancor
piu insidioso, il mitico. 4. In quanto discorso (era questo, do­
po tutto, il senso di mythos), il mito contemporaneo appartie­
ne al campo di una semiologia: essa consente di «raddrizzare»
l’inversione mitica, scomponendo il messaggio in due sistemi
semantici: un sistema connotato, il cui significato è ideologico
(e di conseguenza «diritto», «non-invertito», o, per essere
piu chiari, a costo di utilizzare un linguaggio morale, cinico),

1 I testi delle Mythologies sono stati scritti dal 1954^11956; il libro, uscito nel
1:957, ^stato da poco ristampato in formato tascabile, Ed. du Seuil 1970 [trad. it.
Milano 1962].
LA MITOLOGIA OGGI

e un sistema denotato (la lettera apparente dell’immagine,


dell’oggetto, della frase), la cui funzione consiste nel rendere
naturali le proposizioni di classe, sotto la protezione della piu
«innocente» delle nature: quella del linguaggio (millenario,
materno, scolastico, ecc.).
Cosi appariva, o almeno mi appariva, il mito oggi. È cam­
biato qualcosa? Non la società francese, per lo meno a questo
livello, dal momento che la storia mitica ha una durata diversa
da quella politica; non sono cambiati né i miti né l’analisi; il
mitico è sempre presente, e in abbondanza, nella nostra socie­
tà: costantemente anonimo, contorto, frammentario, chiac­
chierone, offerto al tempo stesso a una critica ideologica e a
uno smontaggio semiologico. No, a cambiare è stata, negli ul­
timi quindici anni, la scienza della lettura, sotto il cui sguardo
il mito, come un animale da tempo catturato e osservato, di­
venta tuttavia un altro oggetto.
Una scienza del significante (anche se è ancora alla ricerca
di se stessa) ha infatti trovato un suo posto nella ricerca con­
temporanea; il suo scopo non è tanto l’analisi del segno quan­
to la sua dislocazione. Per quel che riguarda il mito, e anche se
si tratta di un lavoro ancora da fare, la nuova semiologia - o
la nuova mitologia - non può né potrà piu separare tanto fa­
cilmente il significante dal significato, l’ideologia dalla fraseo­
logia. Non che questa distinzione sia falsa o inefficace, ma es­
sa è diventata in un certo senso mitica: non c’è uno studente
che non denunci il carattere borghese o piccolo-borghese di
una forma (di vita, di pensiero, di consumo); in altri termini,
ciascuno si è creato un’endoxa mitologica: la denuncia, la de­
mistificazione (o demitificazione) è diventata a sua volta di­
scorso, corpus di frasi, enunciato catechistico; di fronte a que­
sto, la scienza del significante può soltanto spostarsi e fermar­
si (provvisoriamente) a una certa distanza: non piu alla disso­
ciazione (analitica) del segno, ma al suo stesso vacillare: non è
piu necessario smascherare i miti (Vendoxa se ne è assunta il
compito), bisogna rimettere in discussione il segno stesso: non
rivelare il senso (latente) di un enunciato, di un tratto, di un
racconto, ma mirare la rappresentazione stessa del senso; non
cambiare o purificare i simboli, ma contestare il simbolico in
se stesso. Capita un po’ per la semiologia (mitologica) quanto
è avvenuto per la psicanalisi, che ha cominciato, necessaria­
mente, con lo stabilire liste di simboli (un dente che cade è il
soggetto castrato, ecc.), ma oggi, al di là di questo lessico che,
senza essere falso, non l’interessa piu (ma interessa enorme-
LA MITOLOGIA OGGI 67
mente i dilettanti della vulgata psicanalitica), interroga la dia­
lettica stessa del significante. Cosi la semiologia: ha comincia­
to con lo stabilire un lessico mitologico, ma oggi il compito
che si trova di fronte è soprattutto di ordine sintattico (di
quali articolazioni, di quali spostamenti è fatto il tessuto mi­
tico di una società ad alti consumi?); in un primo tempo, si è
voluto distruggere il significato (ideologico); successivamente,
si è puntato alla distruzione del segno: alla «mitoclastia» suc­
cede, molto piu vasta e innalzata ad un altro livello, una « se-
mioclastia». Di conseguenza, il campo storico si è esteso: non
è piu la (piccola) società francese, ma ben oltre, sia storica­
mente sia geograficamente, tutta la civiltà occidentale (greco-
giudeo-islamo-cristiana) unificata sotto una medesima teolo­
gia (Γessenza, il monoteismo) e che si identifica con il regime
di senso da essa praticato, da Platone a un qualsiasi settimana­
le popolare.
La scienza del significante apporta alla mitologia contem­
poranea una seconda rettifica (o un secondo allargamento). Il
mondo, attraversato obliquamente dal linguaggio, è scritto in
ogni sua parte; i segni, dal momento che i loro fondamenti so­
no costantemente spostati, che i loro significati si trasforma­
no in nuovi significanti e che si citano reciprocamente alTin­
finito, non conoscono sosta: la scrittura è generalizzata. Se
Γalienazione della società obbliga sempre a demistificare i lin­
guaggi (e soprattutto quello dei miti), il modo di questo con­
fronto non è, non è piu, il deciframento critico, bensì la valu­
tazione. Di fronte a tutte le scritture del mondo, all’intreccio
dei diversi discorsi (didattici, estetici, informativi, politici,
ecc.), si tratta di valutare dei livelli di reificazione, dei gradi di
densità fraseologica. Si giungerà a precisare una nozione che
mi sembra essenziale: quella di compattezza di un linguaggio?
I linguaggi sono piu o meno spessi; alcuni, i piu sociali, i piu
mitici, presentano un’omogeneità a tutta prova (esiste una
forza del senso, come esiste una guerra dei sensi): intessuto di
abitudini, di ripetizioni, di stereotipi, di clausole obbligate e
di parole-chiave, ciascuno costituisce un idioletto (nozione che
vent’anni fa chiamavo scrittura); dunque, piu che i miti, oggi
bisogna distinguere e descrivere degli idioletti; alle mitologie
succederebbe, piu formale e proprio per questo, penso, piu
penetrante,una idiolettologia, i cui concetti operativi non sa­
rebbero più il segno, il significante, il significato e la connota­
zione, ma la citazione, il riferimento, lo stereotipo. In tal mo­
do i linguaggi, spessi (come il discorso mitico), potrebbero es-
68 LA MITOLOGIA OGGI

sere presi d ’infilata in una trans-scrittura, il cui «testo» (che


chiamiamo ancora letterario, antidoto al mito, occuperebbe il
polo, o per meglio dire quella regione aerea, leggera, aperta,
decentrata, nobile e libera in cui la scrittura si dispiega contro
l’idioletto, cioè al suo limite, e lo combatte. Il mito deve dun­
que entrare a far parte di una teoria generale del linguaggio,
della scrittura, del significante, e questa teoria, sostenuta dal­
le formulazioni dell’etnologia, della psicanalisi, della semiolo­
gia e dell’analisi ideologica, deve estendere il proprio oggetto
fino alla frase o, ancor meglio, fino alle frasi (al plurale della
frase); con ciò voglio dire che il mitico è presente ovunque si
facciano delle frasi, ovunque si raccontino delle stone (in tutti i
sensi delle due espressioni): dal linguaggio interiore alla con­
versazione, dall’articolo di giornale al sermone politico, dal
romanzo (se ancora ne rimangono) all’immagine pubblicitaria
- tutti i discorsi che potrebbero rientrare nel concetto di Im­
maginario secondo Lancan.
Questo non è un programma: forse è soltanto una «vo­
glia». Eppure credo che, anche se la nuova semiologia, di re­
cente preoccupata soprattutto del testo letterario, non si è piu
dedicata ai miti del nostro tempo dall’epoca della redazione
definitiva di Mythologies {Miti d'oggi), in cui delineavo un pri­
mo approccio semiotico alla parola sociale, essa è per lo meno
cosciente del compito che le spetta: non piu soltanto rovesciare
(o raddnzzare) il messaggio mitico, rimettendolo a posto, con
denotazione in basso e connotazione in alto, natura in super­
ficie e interesse di classe in profondità, bensì cambiare l’og­
getto stesso e generarne uno nuovo, punto di partenza di una
nuova scienza; passare, fatte ovviamente le debite proporzio­
ni e jjer riprendere lo schema di Althusser, da Feuerbach a
Marx, dal giovane Marx al grande Marx.

1971, «Esprit».
Digressioni

i . Formalismo.

Non è affatto certo che il termine formalismo debba essere


immediatamente liquidato, dal momento che i suoi nemici so­
no anche i nostri, e cioè: scientisti, deterministi, spiritualisti,
funzionalisti, spontaneisti; gli attacchi contro il formalismo
sono sempre portati in nome del contenuto, del soggetto, del­
la Causa (termine ironicamente ambiguo, dal momento che ri­
manda a una fede e a un determinismo, come se fossero la
stessa cosa), cioè in nome del significato, in nome del Nome.
Non dobbiamo prendere le distanze nei confronti del forma­
lismo, ma starci a nostro agio (l’agio, che attiene all'ordine del
desiderio, è piu sovversivo della distanza, che attiene all’ordi­
ne della censura). Il formalismo al quale penso non consiste
nel «dimenticare», «trascurare», «ridurre» il contenuto
(«l’uomo»), ma soltanto nel non fermarsi sulla soglia del con­
tenuto (conserviamo provvisoriamente tale termine); il conte­
nuto è proprio ciò che interessa il formalismo, dal momento
esso non fa altro, in ogni possibile occasione, che ricacciarlo
indietro (finché la nozione di origine non cessi di essere per­
tinente), di spostarlo giocando con un succedersi di forme.
Non è forse ciò che avviene anche nella fisica, la quale, da
Newton in poi, continua a spostare i confini della materia, non
già a vantaggio dello «spirito», bensì dell’aleatorio? (Si ricordi
Verne che citava Poe: «Un caso dev’essere sempre materia di
un calcolo rigoroso»). Non è la materia ad essere materialista,
ma lo spostamento dei suoi confini, l’eliminazione delle vec­
chie frontiere; e non è la «forma» ad essere formalista, ma il
tempo relativo, dilatorio, dei contenuti, la precarietà dei punti
di riferimento.
Per decondizionarci da tutte le filosofie (o teologie) del si­
gnificato, cioè dell’Arresto, dal momento che noi «letterati»
non disponiamo del formalismo superiore, quello della mate­
matica, dobbiamo utilizzare il maggior numero possibile di
DIGRESSIONI

metafore, perché la metafora è una via di accesso al significan­


te; in mancanza di algoritmi, è la metafora che può prende­
re congedo dal significato, soprattutto se si riesce a disorigi­
narla \ Propongo ora la seguente: la scena del mondo (il mon­
do come scena) è occupata da un gioco di « scenografie » (di
testi): a toglierne uno, dietro ne appare un altro, e cosi di
seguito. Per essere piu precisi, confrontiamo due tipi di tea­
tro. Nei Sei personaggi di Pirandello, la pièce viene rappresen­
tata sullo sfondo «nudo» del teatro: nessuna scenografia, sol­
tanto i muri, le pulegge e le corde del retropalco; il personag­
gio (il soggetto) si costituisce a poco a poco a partire da un
«reale» definito dal suo carattere a) ridotto, b) interiore, c) cau­
sale; c’è un macchinario e il soggetto è un burattino; cosi,
nonostante il suo modernismo (recitare senza scenografia, con
il solo supporto della struttura scenica), questo teatro rimane
spiritualista, in quanto contrappone la «realtà» delle cause, di
ciò che sta al di sotto o sullo sfondo, all’«illusione» delle tele,
dei disegni, degli effetti. In Una notte all’Opera dei fratelli
Marx è trattato lo stesso problema (in modo burlesco, eviden­
temente - garanzia supplementare di verità): nello straordi­
nario finale, la vecchia strega del Trovatore, parodia di se stes­
sa, continua imperturbabile la sua canzone, mentre alle sue
spalle si svolge una vera e propria sarabanda di fondali, che si
susseguono salendo e calando a ritmo vertiginoso; in rapida
successione, la vecchia si trova a ridosso di «contesti» diffe­
renti, eterocliti, non-pertinenti (tutte le opere del repertorio,
immagazzinate, forniscono fondali fuggitivi), di cui ignora il
sostituirsi: ogni sua frase è un controsenso. Questa gran con­
fusione è stracolma di emblemi: l’assenza di sfondo sostituta
dalla pluralità delle scene che si succedono, la codifica dei
contesti (derivante dal repertorio operistico e la loro derisio­
ne, la polisemia delirante, e infine l’illusione del soggetto, che
canta il proprio immaginario in quanto l’altro (lo spettatore)
lo guarda, e crede di parlare addossato a un mondo (a una sce­
nografia) unico; una scena di pluralità che irride al soggetto:
lo dissocia.1

1 Chiamo metafora «inoriginata» una catena di sostituzioni in cui ci si astiene


dal reperire un termine primo, fondatore. Talora la lingua stessa produce compu-
razioni, se non proprio «inoriginate», almeno invertire: Pamadou [materia con cui
si fabbricavano le esche per gli acciarini e per le armi da fuoco] è una sostanza fa­
cilmente infiammabile; il suo nome (provenzale) deriva dall’amante che si infiam­
ma: il «sentimentale» permette di dar nome al «materiale».
71

2. Vuoto.

L’idea di decentramento è di certo molto piu importante di


quella di vuoto. Quest’ultima è ambigua: certe esperienze re­
ligiose accettano perfettamente un centro vuoto (ho suggerito
questa ambiguità a proposito di Tokyo, ricordando che il cen­
tro vuoto della città era occupato dal palazzo dell’imperatore).
Anche in questo caso, dobbiamo rifare senza sosta le nostre
metafore. Innanzitutto, ciò che detestiamo nel pieno non è
soltanto l’immagine di una sostanza ultima, di una compattez­
za indissociabile; è anche e soprattutto (almeno per me) una
brutta forma: il pieno è, soggettivamente, il ricordo (il passato,
il Padre), nevroticamente la ripetizione, socialmente lo stereo­
tipo (fiorisce nella cultura cosiddetta di massa, nella nostra ci­
viltà ddTendoxa). Il vuoto, invece, non deve piu essere conce­
pito (immaginato) sotto forma di un’assenza (di corpi, di cose,
di sentimenti, di parole, ecc.: il nulla) - in questo caso siamo
vittime della fisica antica, abbiamo un’idea in qualche misura
chimica del vuoto. Il vuoto è piuttosto il nuovo, il ritorno del
nuovo (che è il contrario della ripetizione). Recentemente ho
letto in una enciclopedia scientifica (è evidente che le mie co­
noscenze non vanno oltre) l’esposizione di una teoria fisica
(credo la piu recente) che mi ha dato qualche idea di quel fa­
moso vuoto al quale penso (credo sempre di piu nel valore me­
taforico della scienza); è la teoria di Chew e Mandelstram
(1961), chiamata teoria del bootstrap (il bootstrap è l’occhiello
dello stivale che permette di infilarselo e, idiomaticamente, lo
spunto di un proverbio: elevare se stessi tirandosi per gli sti­
vali). Cito: «Le particelle esistenti nell’universo non sarebbe­
ro generate a partire da certe particelle piu elementari di altre
[è cosi abolito lo spettro ancestrale della filiazione, della de­
terminazione], ma rappresenterebbero il bilancio delle intera­
zioni forti in un dato istante [il mondo: un sistema sempre
provvisorio di differenze]. In altre parole, l’insieme delle par­
ticelle genererebbe se stesso (self-consistance) 2». Il vuoto di
cui parliamo sarebbe insomma la self-consistance del mondo.

2 Les lois de la nature, in «Encyclopédie Bordas».


DIGRESSIONI

3. Leggibile.

Abolito il senso, tutto resta da fare, dal momento che il lin­


guaggio continua (la formula « tutto resta da fare » rinvia evi­
dentemente al lavoro). Per me (forse non l’ho detto abbastan­
za), il prezzo dell’haiku consiste, paradossalmente, nella sua
leggibilità. Ciò che - almeno in questo mondo pieno - ci sepa­
ra meglio dal segno, non è il contrano del segno, il non-segno,
il non-senso $ illeggibile, nel senso corrente), poiché tale non­
senso è immediatamente recuperato dal senso (come senso del
non-senso); è inutile sovvertire la lingua distruggendo, per
esempio, la sintassi: in realtà, si tratta di una sovversione ben
mediocre, che è inoltre ben lungi dall’essere innocente, dal
momento che, come è stato detto, «le piccole sovversioni pro­
ducono i grandi conformismi ». Il senso non può essere attac­
cato frontalmente, con la semplice asserzione del suo contra­
rio; bisogna barare, sfuggire, essere sottili e insieme assotti­
gliare (nel senso e di affinare e di far scomparire una proprie­
tà), cioè, al limite, parodiare, ma ancor meglio simulare.
L’haiku, con una sua tecnica, ovvero attraverso un codice me­
trico, ha saputo far evaporare il significato; rimane soltanto
una sottile nuvola di significante; ed è proprio a questo punto,
à quanto pare, che con un’ultima torsione esso assume la ma­
schera del leggibile, copia, privandoli tuttavia di ogni riferi­
mento, gli attributi del «buon messaggio» (letterario): la chia­
rezza, la semplicità, l’eleganza, la finezza. Il lavoro di scrittu­
ra al quale pensiamo oggi non consiste né nel migliorare la co­
municazione né nel distruggerla, ma nel lavorarla in filigrana’.
si tratta piu o meno di ciò che ha fatto (in modo parsimonio­
so) la scrittura classica, che è per questo motivo, e comunque
sia, una scrittura; ha avuto inizio tuttavia, abbozzata qua e là
nell’ultimo secolo, una nuova tappa, in cui non è piu il senso
ad essere reso (liberalmente) plurale all’interno di un solo co­
dice (quello dello «scrivere bene»), ma l’insieme stesso del lin­
guaggio (come «gerarchia fluttuante» di codici, di logiche) ad
essere preso in considerazione ed elaborato; ciò deve ancora
avvenire sotto le apparenze della comunicazione, dal momen­
to che le condizioni sociali e storiche per una liberazione del
linguaggio (rispetto ai significati, alla proprietà del discorso)
sono ben lungi dal trovarsi tutte riunite. Di qui l’importanza
attuale dei concetti teorici (fondamentali) di paragramma, di
plagio, d ’intertestualità, di falsa leggibilità.
DIGRESSIONI 73

4. Lingua.

«La lingua non è una sovrastruttura », affermate. In merito,


due osservazioni restrittive. Innanzitutto, la proposizione
non può èssere sicura finché la nozione di «sovrastruttura»
non sia stata chiarita, ed essa è attualmente in piena revisione
(o almeno me lo auguro). In secondo luogo, se si concepisce
una storia «monumentale» è senz’altro possibile inglobare la
lingua - le lingue - in una totalità strutturale: esiste una
«struttura» dell’indo-europeo (in opposizione, per esempio,
alle lingue orientali) che è in rapporto con le istituzioni di
quell’area di civiltà: tutti sanno che la grande cesura passa tra
l’India e la Cina, l’indo-europeo e le lingue asiatiche, la reli­
giosità buddista e il taoismo o lo zen (lo zen è apparentemente
buddista, ma non si colloca dalla stessa parte del buddismo; la
sfasatura di cui parlo non attiene alla storia delle religioni, ma
appunto a quella delle lingue, del linguaggio).
Comunque sia, anche se la lingua non è una sovrastruttura,
il rapporto con la lingua è politico. Può darsi che questo non
risulti evidente in un paese storicamente e culturalmente « se­
dimentato» come la Francia, dove la lingua non è un tema po­
litico; basterebbe tuttavia risollevare il problema (con una ri­
cerca di qualsiasi genere: dall’elaborazione di una sociolingui­
stica impegnata alla semplice redazione di un numero speciale
di una rivista), per rimanere stupefatti di fronte alla sua evi­
denza, alla sua ampiezza, alla sua serietà (rispetto alla loro lin­
gua, i francesi sono semplicemente addormentati, anestetizzati
da secoli di autorità dei classici); in paesi meno privilegiati, il
rapporto con la lingua è scottante; nei paesi arabi, colonie an­
cora pochi anni fa, la lingua è un problema di Stato in cui si
investe tutta la politica. Non sono certo, del resto, che si sia
preparati a risolverlo: manca una teoria politica del linguag­
gio, una metodologia che consenta di mettere in luce i proces­
si di appropriazione della lingua e di studiare la «proprietà»
dei mezzi di enunciazione, una sorta di Capitale della scienza
linguistica (sono convinto che una teoria del genere si svilup­
perà a partire dagli attuali balbettìi della semiologia, e ne co­
stituirà in parte il senso storico); tale teoria (politica) dovrà so­
prattutto decidere dove si ferma la lingua e se si ferma da qual­
che parte; attualmente prevale, in certi paesi ancora alle prese
con l’ex lingua coloniale (il francese), l’idea reazionana che si
possa separare la lingua dalla «letteratura», insegnare la prima
DIGRESSIONI

(come lingua straniera) e rifiutare la seconda (considerata


«borghese). Purtroppo la lingua non conosce frontiere, non la
si può fermare; al massimo è possibile delimitare, isolare la
grammatica (e dunque insegnarla come un canone), ma non il
lessico, e ancor meno l’ambito associativo, connotativo; uno
straniero che impara il francese si trova ben presto - o alme­
no dovrebbe trovarsi, se l’insegnamento fosse fatto bene - di
fronte agli stessi problemi ideologici che un Francese incontra
rispetto alla propria lingua; la letteratura non è mai altro che
Γapprofondimento, l’estensione della lingua, e in quanto tale
costituisce il campo ideologico piu vasto, quello in cui si di­
batte il problema strutturale cui accennavo all’inizio (e lo dico
in funzione della mia esperienza in Marocco).
La lingua è infinita (senza fine), e da tale dato di fatto biso­
gna trarne le debite conseguenze; la lingua comincia prima
della lingua; è quel che ho voluto dire a proposito del Giappo­
ne, esaltando la comunicazione che vi ho praticato, al di fuori
di una lingua parlata che non conosco, ma nel brusio, nel re­
spiro emotivo di tale lingua sconosciuta. Vivere in un paese di
cui non si conosce la lingua, vivervi in senso lato, rifiutando
di relegarsi nei soliti luoghi turistici, è l’avventura piu perico­
losa (nel senso naïf che l’espressione può avere nei romanzi
per la gioventù); è piu rischioso (per il «soggetto») che affron­
tare la giungla, perché si deve eccedere la lingua, rimanere sul
suo margine supplementare, cioè nel suo infinito senza pro­
fondità. Se dovessi immaginare un nuovo Robinson, non lo
collocherei in un’isola deserta, ma in una città di dodici milio­
ni di abitanti, della quale non sapesse decifrare né la parola né
la scrittura: credo sia questa la forma moderna del mito.5

5. Sessualità.

La delicatezza del gioco sessuale è un’idea importantissi­


ma, che mi pare del tutto sconosciuta in Occidente (un moti­
vo fondamentale per interessarsene). La ragione è semplice.
In Occidente la sessualità si presta unicamente, e in modo
molto misero, a un linguaggio trasgressivo; fare della sessua­
lità un campo di trasgressione, però, significa continuare a te­
nerla prigioniera di uno schema binario (pro)contro), di un pa­
radigma, di un senso. Pensare la sessualità come un continen­
te nero vuol dire persistere nel sottometterla al senso (bian­
co!nero). L’alienazione della sessualità è legata in modo consu-
75
stanziale all’alienazione del senso, da parte del senso. Il diffi­
cile non è liberare la sessualità in base a un progetto piu o me­
no libertario, bensì svincolarla dal senso, ivi compresa la tra­
sgressione in quanto senso. Si pensi, ancora una volta, ai paesi
arabi. Qui si trasgrediscono senza problemi talune regole della
«buona» sessualità con una pratica piuttosto diffusa dell’o­
mosessualità (a patto di non nominarla mai: ma questa è un’al­
tra questione, quella - immensa - della verbalizzazione del
sessuale, «bollata» nelle civiltà della «vergogna» e in misura
uguale e contraria coltivata - confessioni, rappresentazioni
pornografiche - in quelle della «colpa»); tale trasgressione ri­
mane però inesorabilmente sottoposta a un rigido regime di
senso: l’omosessualità, pratica trasgressiva, riproduce cosi im­
mediatamente in sé (per una sorta di argine difensivo, di ri­
flesso impaurito) il paradigma più puro che si possa immagina­
re, quello dell’attivo/passivo, del possidente/posseduto, del ni-
queurjniqué, del tapeurltapé (questi termini pieds-noirs [che in­
dicano chi agisce e chi subisce, chi va a caccia e chi è cacciato
nel gergo appunto dei pieds-noirs, ossia degli ex coloni france­
si] servono qui a esemplificare ancora una volta il valore ideo­
logico della lingua). Il paradigma è, infatti, il senso; cosi, in
quei paesi, ogni pratica che si spinga al di là dell’alternativa, la
turbi o semplicemente la ritardi (ciò che alcuni chiamano lag­
giù, con disprezzo, far Γamore) è contemporaneamente vietata
e inintelligibile. L’«eleganza» sessuale si contrappone alla roz­
zezza di quelle pratiche non sul piano della trasgressione, ma
su quello del senso; la si può definire come un disturbo del sen­
so, i cui modi di enunciazione sono o protocolli di «educazio­
ne » oppure tecniche sensuali, oppure ancora una nuova con­
cezione del «tempo» erotico. Ma si può dire tutto ciò in
un’altra maniera: il divieto sessuale è completamente abroga­
to non a vantaggio di una «libertà» mitica (concetto buono al
massimo per soddisfare i timidi fantasmi della società cosid­
detta di massa), bensì di codici vuoti, il che esonera la sessua­
lità dalla menzogna spontaneista. Sade lo ha visto perfetta­
mente: le pratiche da lui enunciate procedono a partire da una
rigorosa combinatoria, rimanendo però contrassegnate da un
elemento mitico tipicamente occidentale: una sorta di ereti­
smo, di trance, quella che si è soliti definire propriamente una
sessualità calda; ancora una volta, il sesso viene sacralizzato
facendone l’oggetto non già di un edonismo, ma di un entusia­
smo (il dio lo anima, lo vivifica).
DIGRESSIONI

6. Significante.

Il significante: dobbiamo deciderci ad abusare ancora per


molto tempo di questo termine (notiamo una volta per tutte
che non dobbiamo definirlo, ma utilizzarlo, cioè metaforiz­
zarlo, opporlo - opporlo soprattutto al significato, del quale
si è ritenuto, agli inizi della semiologia, che fosse il semplice
correlato, mentre oggi sappiamo che ne è Γavversario). Il
compito attuale è duplice. Da una parte si deve riuscire a con­
cepire (con questo termine intendo un’operazione piu metafo­
rica che analitica) come possano essere enunciate contraddit­
toriamente la profondità e la leggerezza del significante (non si
dimentichi che leggero può essere un termine nietzschiano);
da un lato, infatti, il significante non è «profondo», non si
sviluppa su un piano di interiorità e di segretezza; dall’altro,
però, che fare di questo famoso significante se non immerger­
si, per cosi dire, in esso, tuffarsi lontano dal significato, nella
materia, nel testo? Come fuggire nel leggero? Come estender­
si senza gonfiarsi e senza scavarsi? A quale sostanza paragona­
re il significante? Certo non all’acqua, foss’anche quella del­
l’oceano, perché i mari hanno un fondo; piuttosto al cielo, allo
spazio cosmico, per quanto ha appunto di impensabile. D ’altra
parte, la stessa esplorazione metaforica dovrebbe essere con­
dotta sulla parola lavoro (in realtà, ben piu di significato, il ve­
ro correlato di significante), che è anche un teïmmz-numen
(un termine capace di armare un discorso). La analizzo cosi:
associata al problema del testo, va intesa nell’accezione datale
da Julia Kristeva, di lavoro pre-senso: lavoro fuori dal senso,
dallo scambio, dal calcolo, nell’uso, nel gioco; credo che si
debba esplorare in questa direzione, a patto di prevenire subi­
to certe connotazioni: eliminare completamente l’idea del
lavoro-fatica, e forse privarsi (per rigore e almeno all’inizio)
della metonimia che dà ad ogni lavoro una connotazione pro­
letaria - il che permette evidentemente di far passare il «la­
voro» del significante nel campo socialista (dov’è, d ’altronde,
accolto in modo diverso), ma dovrebbe forse essere pensato in
modo piu lento, piu paziente, piu dialettico. La grande que­
stione del «lavoro» si trova insomma in uno spazio vuoto,
bianco, della nostra cultura; ellitticamente, direi che questo
bianco è esattamente lo stesso che ha annullato finora il rap­
porto tra Marx e Nietzsche: rapporto di quelli che oppongono
maggiore resistenza, e nel quale di conseguenza bisogna inda­
gare. Chi se ne occuperà?
DIGRESSIONI 77

7. A n n i.

Voi opponete in modo molto netto, i segni alle armi, ma in


base a un processo che è ancora sostitutivo, e non potete fare
altrimenti; segni e armi, infatti, sono la stessa cosa; ogni com­
battimento è semantico, ogni senso guerriero; il significato è
il nerbo della guerra, la guerra è la struttura stessa del senso;
siamo oggi nella guerra non del senso (una guerra per abolire
il senso), ma dei sensi: piu significati si affrontano, muniti di
ogni tipo possibile di armi (militari, economiche, ideologiche,
per non dire nevrotiche). Non esiste attualmente nel mondo
alcun luogo istituzionale dal quale il significato sia bandito
(oggi è possibile cercare di dissolverlo solo barando con le isti­
tuzioni, in luoghi instabili, occupati provvisoriamente, inabi­
tabili, contraddittori al punto da apparire talora reazionari).
Per quanto mi riguarda, il paradigma al quale cerco rigorosa­
mente (cioè al di là di una posizione politica preferenziale) di
attenermi non è imperialismo!socialismo, ma imperialismo!al­
tro·. la cancellazione di un termine specifico nel momento in
cui il paradigma sta concludendosi, la contrapposizione resa
zoppicante dalla scorciatoia, dal supplemento o dalla devia­
zione del neutro, l’apertura all’utopia è il solo luogo che oggi
- devo prenderne atto - io possa occupare. L’imperialismo è
il pieno; di fronte c’è il resto, non segnato: un testo senza ti­
tolo.

A partire da un questionario di Guy Scarpetta. 1971, «Promesses».


Il brusio della lingua

La parola è irreversibile, questa è la sua fatalità. Ciò che è


stato detto non può piu essere modificato, se non aumentando­
lo'. correggere vuol dire qui, stranamente, aggiungere. Parlan­
do non posso mai cancellare, sopprimere, annullare; tutto
quel che posso fare è dire « annullo, cancello, rettifico » - in­
somma, ancora parlare. Chiamerò «balbettio» tale singolaris­
simo annullamento per via di aggiunte. Il balbettio è un mes­
saggio due volte mancato: da una parte lo si capisce male, ma
dall’altra, con un certo sforzo, lo si capisce comunque; non è
veramente né nella lingua né al di fuori di essa: è un rumore
del linguaggio paragonabile a quella serie di crepitìi con i quali
un motore ci segnala di non essere a punto; è proprio questo il
senso del perdere colpi, segno sonoro di un tracollo che si pro­
fila nel funzionamento dell’oggetto. Il balbettio (del motore o
del soggetto) è, in sostanza, una paura: ho paura di dovermi
fermare strada facendo.
La morte della macchina: può essere dolorosa per l’uomo,
se la descrive come quella di una bestia (si pensi al romanzo di
Zola). Insomma, per quanto la macchina sia poco simpatica
(perché costituisce, nella figura del robot, la peggiore delle mi­
nacce: la perdita del corpo), esiste tuttavia in essa la possibilità
di un tema euforico: il suo buon funzionamento; temiamo la
macchina perché funziona da sola, ne traiamo piacere perché
funziona bene. Ora, come le disfunzioni del linguaggio sono
in un certo senso riassunte in un segno sonoro, il balbettio,
cosi il buon funzionamento della macchina si manifesta in un
essere musicale: il brusio.
Il brusio è il rumore di ciò che funziona bene. Ne deriva il
seguente paradosso: il brusio denota un rumore limite, impos­
sibile, il rumore di ciò che, funzionando alla perfezione, non
fa rumore; il brusio è l’evaporazione stessa del rumore: il te­
nue, il'confuso, il tremulo sono percepiti come i segni di un
annullamento sonoro.
IL BRUSIO DELLA LINGUA

Il brusio viene dunque dalle macchine felici. Quando la


macchina erotica, immaginata e descritta mille volte da Sade,
agglomerato «pensato» di corpi i cui luoghi d’amore sono ac­
curatamente accordati gli uni agli altri, si mette in moto, per
i movimenti convulsi dei partecipanti, palpita ed emette un
leggero brusio: insomma, funziona, e funziona bene. Altrove,
quando i giapponesi di oggi si dedicano in massa, in grandi sale,
alle slot-machines (che chiamano Pachinko), gli ambienti in que­
stione sono pieni dell’enorme brusio delle palline, e tale brusio
significa che qualcosa, collettivamente, funziona: il piacere (per
altri versi enigmatico) di giocare, di muovere il corpo con pre­
cisione. Il brusio infatti (come si vede dall’esempio sadiano e
da quello giapponese) implica una comunità di corpi: nei ru­
mori del piacere che «funziona» nessuna voce si leva al di so­
pra delle altre o si spegne, nessuna si presenta per sé; il brusio
è appunto il rumore del godimento plurale - ma non certo di
massa (la massa ha una sola voce, e terribilmente forte).

E la lingua, può produrre brusio? In quanto parola, sem­


brerebbe condannata al balbettio; come scrittura, al silenzio
e alla distinzione dei segni: in ogni caso, rimane sempre troppo
senso perché il linguaggio giunga a un godimento proprio alla
sua materia. Ma quel che è impossibile non è inconcepibile: il
brusio della lingua forma un’utopia. Quale utopia? Quella di
una musica del senso; con questo voglio dire che nel suo stato
utopico la lingua sarebbe allargata, o addirittura snaturata, si­
no a formare un immenso tessuto sonoro nel quale l’apparato
semantico si troverebbe irrealizzato; il significante fonico, me­
trico, vocale, si dispiegherebbe in tutta la sua sontuosità, senza
che mai un segno se ne distacchi (venga a naturalizzare questa
pura distesa di godimento), ma anche - ed è qui il difficile -
senza che il senso sia brutalmente espulso, dogmaticamente
precluso, insomma castrato. Nel suo brusio, affidata al signifi­
cante da un moto inaudito, ignoto ai nostri discorsi razionali, la
lingua non perderebbe tuttavia di vista un orizzonte di senso:
il senso, indiviso, impenetrabile, innominabile, sarebbe co­
munque pósto in lontananza come un miraggio, farebbe del­
l’esercizio vocale un duplice paesaggio, dotato di uno «sfon­
do »; ma, per evitare che la musica dei fonemi sia lo « sfondo »
dei nostri messaggi (come avviene nella nostra Poesia), il sen­
so sarebbe qui il punto di fuga del godimento. E come, nel ca­
so della macchina, il brusio non è altro che il rumore di un’as­
senza di rumpre, cosi, riferito alla lingua, sarebbe quel senso
che fa intendere, un’assenza di senso, oppure - ed è lo stesso
IL BRUSIO DELLA LINGUA 8l
- quel non-senso che farebbe intendere in lontananza un senso
ormai liberato da tutte le aggressioni di cui il segno, formatosi
nella «triste e selvaggia storia umana», è il vaso di Pandora.
Si tratta senza dubbio di un'utopia; ma l’utopia è spesso ciò
che guida le ricerche di avanguardia. Talora, dunque, incon­
triamo qua e là quelli che potremmo definire esperimenti di
brusio: come certe produzioni della musica post-seriale (è mol­
to significativo che questa musica attribuisca un’estrema im­
portanza alla voce, che manipola, cercando di snaturare in essa
il senso, ma non il volume sonoro), certe ricerche radiofoniche,
o ancora gli ultimi testi di Pierre Guyotat o di Philippe Sollers.
Fatto ben piu importante, noi stessi possiamo condurre
questa ricerca intorno al brusio, e possiamo farlo nella vita,
nelle avventure della vita; in ciò che la vita ci offre in maniera
inattesa. L’altra sera, vedendo il film di Antonioni sulla Cina,
ho avvertito improvvisamente, all’apparire di una nuova se­
quenza, il brusio della lingua: nella strada di un villaggio alcu­
ni bambini, appoggiati a un muro, leggevano a voce alta, cia­
scuno per sé, tutti insieme, un libro diverso; era un brusio ben
riuscito, come una macchina che va bene; il senso era per me
doppiamente impenetrabile, sia perché non conosco il cinese
sia per la confusione di quelle letture simultanee; eppure sen­
tivo, in una specie di percezione allucinata tanto riceveva in­
tensamente tutta la finezza della scena, la musica, il respiro, la
tensione, l’applicazione, insomma qualcosa di simile a uno
scopo. Come! Basta forse parlare tutti insieme per ottenere
che la lingua produca il suo brusio nel modo raro, impregnato
di godimento che ho appena descritto? Evidentemente non è
cosi; alla scena sonora è necessario un erotismo (nel senso piu
lato del termine), lo slancio o la scoperta o ancora il semplice
accompagnamento di un’emozione: questo dava appunto il vi­
so dei bambini cinesi.
Mi immagino oggi un po’ alla maniera dei Greci antichi,
cosi come li descrisse Hegel: interrogavano, sosteneva, con
passione e senza stancarsi il brusio delle fronde, delle sorgen­
ti, dei venti, insomma il fremito della Natura, per trovarvi il
disegno di un’intelligenza. Ed io interrogo il fremito del senso
ascoltando il brusio del linguaggio - di quel linguaggio che è
la mia Natura peculiare di uomo moderno.

Vers une esthétique sans entraves, in Mélanges Mikel Dufrenne, copyright


Uge 1975.
Allegato
Giovani ricercatori

Questo numero di «Communications» è particolare: non è


stato concepito per esplorare una conoscenza o illustrare un
tema; la sua unità, almeno quella originaria, non è nel suo og­
getto, ma nel gruppo dei suoi autori: sono tutti studenti, da
poco dediti alla ricerca; sono stati qui volontariamente riuniti
i primi lavori di giovani ricercatori, sufficientemente liberi
per aver elaborato da soli i loro progetti di ricerca, e cionono­
stante ancora legati a un’istituzione, quella del dottorato. In
questa sede ci si interroga principalmente sulla ricerca in
quanto tale, o almeno su una certa ricerca, quella ancora lega­
ta al campo tradizionale delle arti e delle lettere. Unicamente
di tale ricerca si tratterà qui.

All’inizio del suo lavoro lo studente subisce una serie di di­


visioni. In quanto giovane appartiene a una classe economica
definita dalla sua improduttività: non possiede né produce; è
al di fuori dello scambio e anche, per cosi dire, dello sfrutta­
mento: socialmente, è escluso da qualsiasi titolo o dignità. In
quanto intellettuale è coinvolto nella gerarchia dei lavori, do­
vrebbe partecipare a un lusso speculativo, di cui non può tut­
tavia godere dal momento che non ne ha il controllo, cioè la
disponibilità di comunicare. In quanto ricercatore è votato al­
la separazione dei discorsi; da un lato il discorso della scienti­
ficità (il discorso della Legge) e dall’altro il discorso del desi­
derio, o scrittura.Il

Il lavoro (di ricerca) deve situarsi nel desiderio. Se ciò non


avviene, il lavoro è squallido, funzionale, alienato, mosso dal­
la sola necessità di superare un esame, di ottenere un diploma,
di garantirsi una promozione nella carriera. Affinché il desi­
derio si insinui nel mio lavoro, è necessario che quest’ultimo
mi sia Hchiesto non da una collettività che intende garantirsi
GIOVANI RICERCATORI

le mie prestazioni (la mia fatica) e contabilizzare la redditivi­


tà di ciò che essa mi consente, bensì da un’assemblea viva e
vitale di lettori nella quale si faccia sentire il desiderio dell’Al­
tro (e non il controllo della Legge). Tuttavia, nella nostra so­
cietà, nelle nostre istituzioni, quel che si richiede allo studen­
te, al giovane ricercatore, al lavoratore intellettuale, non è
mai il suo desiderio: non gli si chiede di scrivere, ma o di par­
lare (nel corso di innumerevoli relazioni) oppure di «riferire»
(in vista di controlli regolari).
Qui si è voluto che il lavoro di ricerca fosse sin dall'inizio
l’oggetto di una richiesta forte, formulata al di fuori dell’isti­
tuzione e che può essere soltanto la richiesta di scrittura. Evi­
dentemente, in questo numero è rappresentato soltanto un
frammento di utopia, poiché si sa benissimo che la società
non è pronta a elargire con generosità, istituzionalmente, allo
studente, e nella fattispecie allo studente «di lettere», questa
felicità: cioè che si abbia bisogno di lui, non della sua compe­
tenza o delle sue funzioni future, ma della sua passione pre­
sente.

È forse giunto il momento di mettere in discussione una


certa finzione: quella che vuole che la ricerca si esponga ma
non si scriva. Il ricercatore sarebbe essenzialmente un esplo­
ratore di materiali, e i suoi problemi si porrebbero a questo li­
vello; arrivato al punto di comunicare dei «risultati», tutto sa­
rebbe risolto; «mettere nella dovuta forma» sarebbe soltanto
una vaga operazione finale, portata rapidamente a termine
con qualche tecnica di «espressione» imparata al liceo e il cui
solo vincolo consisterebbe nel sottomettersi al codice del ge­
nere («chiarezza», soppressione delle immagini, rispetto delle
leggi del ragionamento). Eppure, pur limitandoci a semplici
compiti di «espressione», lo studente in scienze sociali è ben
lungi dall’essere sufficientemente dotato di strumenti. E
quando l’oggetto della ricerca è il Testo (ritorneremo su que­
sto termine), il ricercatore si trova di fronte un difficile dilem­
ma: o parlare del Testo secondo il codice convenzionale dello
«scrivere bene», cioè rimanere prigioniero dell’«immagina­
rio» dello studioso, che vuol essere o, ancor peggio, si crede
esterno all’oggetto del suo studio e pretende, in tutta inno­
cenza e sicurezza, di porre il proprio linguaggio in posizione
di extraterritorialità; oppure entrare in prima persona nel gio­
co del significante, nell’infinito dell’enunciazione, insomma
«scrivere» (che non vuol dire semplicemente «scrivere be-
85
ne»), ritrarre quell’«io» che crede di essere dal suo guscio im­
maginario, da quel codice scientifico che protegge ma inganna
al tempo stesso, in altri termini lanciare il soggetto attraverso
il bianco della pagina, non per «esprimerlo» (nulla a che vede­
re con la «soggettività») ma per disperderlo: e ciò significa al­
lora porsi al di là del discorso regolare della ricerca. In questo
numero entra in scena proprio tale «di piu», per tenue che
sia; «di piu» variabile a seconda degli autori: non si è cercato
di privilegiare questa o quella scrittura; l’importante è che, a
un livello qualsiasi del suo lavoro (conoscenza, metodo, enun­
ciazione), il ricercatore decida di non lasciarsi ingannare dalla
Legge del discorso scientifico (il discorso della scienza non è
necessariamente la scienza: contestando il discorso dello stu­
dioso, la scrittura non si sottrae affatto alle regole del lavoro
scientifico).

La ricerca è fatta per essere pubblicata, ma lo è raramente,


soprattutto agli inizi, che non sono obbligatoriamente meno
importanti della fine: la riuscita di una ricerca - soprattutto
testuale - non dipende dal suo «risultato», nozione inganne­
vole, ma dalla natura ùflessiva della sua enunciazione; in ogni
momento del suo percorso una ricerca può rimandare il lin­
guaggio a se stesso e far si che venga meno la malafede dello
studioso: insomma, spiazzare sia l’autore sia il lettore. Com’è
noto, però, i lavori degli studenti sono poco pubblicati: la tesi
di dottorato è in realtà un discorso rimosso. Pubblicando
frammenti di prime ricerche, speriamo di combattere tale ri­
mozione; e quel che vorremmo cosi liberare non è solo l’auto­
re dell’articolo, ma anche il suo lettore, dal momento che il
lettore (soprattutto quello di riviste) è a sua volta coinvolto
nella divisione dei linguaggi specialistici. E necessario che la
ricerca non sia piu quel lavoro parsimonioso relegato ora nella
«coscienza» del ricercatore (forma dolorosa, autistica del mo­
nologo), ora nel povero andirivieni che fa del «direttore» di
una ricerca il suo unico lettore. La ricerca deve invece essere
immessa nella circolazione anonima del linguaggio, nella di­
spersione del Testo.

Questi studi sono ricerche in quanto intendono rinnovare


la lettura (dei testi antichi). Rinnovare la lettura: non si tratta
di sostituire con nuove regole scientifiche i vecchi limiti del­
l’interpretazione, quanto piuttosto di immaginare che una let­
tura lìbera divenga finalmente la norma degli « studi lettera-
GIOVANI RICERCATORI

ri». La libertà di cui si parla non è evidentemente una libertà


qualsiasi (la libertà è in contraddizione con l’idea di qualsiasi):
dietro la rivendicazione di una libertà innocente ritornerebbe
la cultura appresa, stereotipata (la spontaneità è il campo im­
mediato del già-detto): sarebbe inevitabilmente il ritorno del
significato. La libertà messa in scena in questo numero è quel­
la del significante: ritorno delle parole, dei giochi di parole,
dei nomi propri, delle citazioni, delle etimologie, delle rifles­
sività del discorso, delle impaginazioni, dei bianchi, delle
combinatorie, dei rifiuti di certi linguaggi. Questa libertà deve
essere un virtuosismo: quello che permette di leggere final­
mente nel testo di partenza, per antico che sia, il motto di
ogni scrittura: cammina.
L’interdisciplinarità, di cui tanto si parla, non consiste nel
confrontare discipline già costituite (nessuna delle quali, in
realtà, è disposta a concedersi). Per fare dell’interdisciplinari-
tà, non basta prendere un « soggetto » (un tema) e intorno ad
esso chiamare a raccolta due o tre scienze. L’interdisciplina­
rità consiste nel creare un oggetto nuovo, che non appartenga
a nessuno. Il Testo, secondo me, è uno di questi oggetti.

Il lavoro semiotico compiuto in Francia negli ultimi quindi­


ci anni ha in effetti messo in primo piano una nuova nozione,
che dovrà poco alla volta sostituire quella di opera: il Testo. Il
Testo - che non può essere relegato nel campo tradizionale
della «Letteratura» - è stato fondato teoricamente da un cer­
to gruppo di scritti pionieristici: il Testo è stato innanzitutto
teoria. I lavori (ci piacerebbe poter dire: le testimonianze) qui
raccolti corrispondono al momento in cui la teoria deve fram­
mentarsi in ricerche particolari. Va sottolineato qui il passag­
gio dalla teoria alla ricerca: ciascun articolo riguarda un testo
particolare, contingente, appartenente alla cultura storica, ma
al tempo stesso ciascuno è nato da quella teoria « a monte » o
dai metodi di analisi che l’hanno preparata.

In fatto di «lettere», la riflessione sulla ricerca conduce al


Testo (o almeno, se ne ammetta oggi la libertà di approdarvi):
il Testo è dunque, sullo stesso piano della ricerca, l’oggetto di
questo numero.
Il Testo: cerchiamo di non fraintendere né il singolare né la
maiuscola; quando diciamo il Testo non intendiamo diviniz­
zarlo, farne il dio di una nuova mistica, bensì denotare una
massa, un campo, che costringe a far uso di un’espressione
87
partitiva, e non numerativa: tutto quello che si può dire di
un’opera è che in essa c’è del Testo. In altri termini, passando
dal testo al Testo bisogna cambiare la numerazione: da una
parte, il Testo non è un oggetto computabile, ma un campo
metodologico dove si accavallano, secondo un moto più «ein­
steiniano» che «newtoniano», l’enunciato e l’enunciazione, il
commento e il commentatore; dall’altra, non è necessario che
il Testo sia esclusivamente moderno: nelle opere antiche può
esserci del Testo; ed è per l’appunto la presenza di tale germe
non quantificabile che obbliga a ridiscutere, a superare le vec­
chie divisioni della Storia letteraria; uno dei compiti imme­
diati, evidenti, della giovane ricerca consiste nel procedere a
queste nlevazioni di scnttura, nel reperire quanto il Testo pos­
sa esservi in Diderot, Chateaubriand, Flaubert o Gide: pro­
prio quel che fanno molti degli autori qui riuniti; come dice
uno di essi, parlando implicitamente a nome di molti suoi
compagni: «Forse il nostro lavoro consiste soltanto nel repe­
rire brandelli di scrittura compresi in un discorso di cui resta
garante il Padre». È difficile definire meglio ciò che, nell’ope­
ra antica, è Letteratura e ciò che è Testo. In altre parole: co­
me quest’opera del passato può ancora essere letta? Si darà
credito a questi giovani ricercatori di collocare il loro lavoro
all’altezza di un compito critico: la valutazione presente di
una cultura passata.

Tutti questi studi formano un gesto collettivo: è il territo­


rio stesso del Testo ad essere a poco a poco tracciato e colora­
to. Seguiamo per un attimo, da un articolo all’altro, la mano
comune che, lungi dallo scrivere la definizione del Testo (non
ne esistono: il Testo non è un concetto), descnve (de-scrive) la
pratica della scrittura.
Per comprendere e accettare il ventaglio degli articoli qui
raccolti è necessario innanzitutto una precisazione: il Testo
sfugge a qualsiasi tipologia culturale: mostrare il carattere il­
limitato di un’opera vuol dire farne un testo; anche se la rifles­
sione sul Testo comincia con la letteratura (cioè con un ogget­
to costituito dall’istituzione), il Testo non si ferma necessaria­
mente ad essa; c’è Testo ovunque una significanza sia attivata
secondo regole di combinazione, di trasformazione e di spo­
stamento: nelle produzioni scritte, naturalmente, ma anche
nei giochi di immagini, di segni, di oggetti: nei film, nei fu­
metti, negli oggetti rituali.
E ancora: in quanto dispiegarsi del significante, il Testo è
GIOVANI RICERCATORI

spesso drammaticamente in conflitto con il significato che


tende a insediarvisi nuovamente: se soccombe a tale ritorno,
se il significato trionfa, il testo smette di essere Testo, lo ste­
reotipo vi diviene «verità», invece di essere l’oggetto ludico
di una combinatoria di secondo grado. E logico perciò che il
Testo coinvolga il suo operatore in quello che potremmo defi­
nire un «dramma di scrittura» (che sarà analizzato qui a pro­
posito di Flaubert), oppure il suo lettore in una valutazione
critica preventiva (come nel discorso del Diritto, qui valutato
prima di essere analizzato).
L’approccio principale e «massiccio» al Testo consiste tut­
tavia nell’esplorarne tutti i significanti manifesti: strutture
propriamente dette, reperibili attraverso la linguistica del di­
scorso, configurazioni foniche (giochi di parole, nomi propri),
impaginazioni e allineamenti, polisemie, rigetti, annunci, as­
sociazioni, bianchi, collages, tutto ciò che tocca la materia del
libro sarà presente qui, seguendo il filo di autori diversi, da
Flaubert a Claude Simon.
Infine, il Testo è prima di tutto (o dopo tutto) quella lunga
operazione attraverso la quale un autore (un soggetto enuncia­
tore) scopre (o fa scoprire al lettore) l’irrepenbilità della sua pa­
rola e giunge a sostituire questo parla con io parlo. Conoscere
l’immaginario dell’espressione significa svuotarlo, dal mo­
mento che l’immaginario è disconoscimento: proprio in que­
sta sede, alcuni studi tentano di valutare l’immaginario della
scrittura (di Chateaubriand, di Gide, di Michel Leiris) o quel­
lo dello stesso ricercatore (a proposito di una ricerca sulla su­
spense cinematografica).
Non si deve pensare che queste diverse «prospezioni» con­
tribuiscano a circoscnvere il Testo; l’intera raccolta si adopera
soprattutto a dispiegarlo. Bisogna dunque resistere alla tenta­
zione di organizzare, di programmare questi studi, la cui scrit­
tura rimane molto diversa (solo con una certa riluttanza sono
giunto ad ammettere la necessità di presentare questo nume­
ro, rischiando cosi di dargli un’unità nella quale tutti coloro
che vi hanno contribuito forse non si riconosceranno, e di da­
re a ciascuno di loro una voce che forse non è esattamente la
sua: ogni presentazione, mirando a proporsi come sintesi, è
una concessione al discorso passato). Bisognerebbe che, ad
ogni passo di questa raccolta e indipendentemente da ciò che
precede o segue, la ricerca, la giovane ricerca che qui si espri­
me, apparisse al tempo stesso sia come evidenziazione di talu­
ne strutture di enunciazione (anche laddove fossero soltanto
89
analizzate nel semplice linguaggio di una relazione) sia come
critica (autocritica) di ogni enunciazione: d ’altronde, è pro­
prio quando riesce a collegare oggetto e discorso, a mettere in
crisi la nostra conoscenza con la luce che getta su oggetti sco­
nosciuti, o meglio inattesi, che la ricerca diventa una vera e
propria interlocuzione, un lavoro per gli altri - insomma, una
produzione sociale.

1972, in «Communications».
I ll

D ei linguaggi e dello stile


La pace culturale

Dire che esiste una cultura borghese è falso, perché tutta la


nostra cultura è borghese (e dire che la nostra cultura è bor­
ghese significa reiterare un truismo che si perpetua stanca­
mente in tutte le università). Dire che la cultura si contrappo­
ne alla natura è ambiguo, perché non sappiamo dove si collo­
cano esattamente i confini delTuna e dell'altra: dov’è la natu­
ra nelPuomo? Per dirsi uomo, l’uomo ha bisogno di un lin­
guaggio, cioè appunto della cultura. Nella biologia? Nell’or­
ganismo vivente si ritrovano oggi le medesime strutture del
soggetto parlante: la vita stessa è costruita come un linguag­
gio. Insomma, tutto è cultura, dal vestito al libro, dal cibo al­
l’immagine, e la cultura è ovunque, da un capo all’altro della
scala sociale. La cultura, insomma, è decisamente un oggetto
paradossale: senza contorni, senza termine antitetico, senza
residui.
Forse possiamo addirittura aggiungere: senza storia - o al­
meno senza cesure, soggetta a una ripetizione incessante.
Prendiamo, per esempio, un serial televisivo americano di
spionaggio: c’è un cocktail su uno yacht, e gli invitati si dedi­
cano a una sorta di manvaudage mondano (civetterie, battute
a doppio senso, giochi d ’interesse); ma tutto questo è già stato
visto o detto: non solo nelle migliaia di romanzi o di film popo­
lari, ma nelle opere piu antiche, appartenute a quella che si
potrebbe ritenere un 'altra cultura, in Balzac, per esempio: è
come se la principessa de Cadignan si fosse semplicemente
trasfentay se avesse lasciato il Faubourg Saint-Germain per lo
yacht di un armatore greco. Cosi, la cultura non è solo ciò che
ritorna, ma anche e soprattutto ciò che rimane al suo posto,
come un cadavere imperituro: è uno strano giocattolo che la
Storia non rompe mai.
Oggetto unico, dal momento che non si contrappone a
niente, oggetto eterno, poiché non si rompe mai, oggetto
LA PACE CULTURALE

tranquillo insomma, nel cui seno tutti si trovano riuniti senza


conflitti apparenti: dove risiede allora il lavoro della cultura su
se stessa, dove le sue contraddizioni, dove la sua disgrazia?
Per rispondere, dobbiamo, nonostante il paradosso episte­
mologico posto dall’oggetto, tentare una definizione, la piu
vaga possibile, beninteso: la cultura è un campo di dispersione.
Di che cosa? Dei linguaggi.
Nella nostra cultura, nella pace culturale, la Pax culturalis
cui siamo soggetti, si svolge una implacabile guerra dei lin­
guaggi: i nostri linguaggi si escludono reciprocamente; in una
società divisa (dalle classi sociali, dal denaro, dall’estrazione
scolastica), anche il linguaggio divide. Quale parte di linguag­
gio io, intellettuale, posso condividere con un commesso dei
grandi magazzini? Se siamo entrambi francesi, certo il lin­
guaggio della comunicazione; ma è una parte infima: possiamo
scambiarci informazioni e banalità; ma il resto, cioè il volume
immenso, il gioco complessivo del linguaggio? Dal momento
che non esiste soggetto fuori del linguaggio, e che è il linguag­
gio a costituire ed attraversare per intero il soggetto, la sepa­
razione dei linguaggi è un lutto permanente; e tale lutto non si
produce solo quando usciamo dal nostro «ambiente» (il luogo
in cui tutti parlano lo stesso linguaggio): non è soltanto il con­
tatto materiale di altri uomini, di estrazione diversa o di altra
professione, a provocare in noi una lacerazione, bensì proprio
questa «cultura» che, secondo le buone regole democratiche,
abbiamo tutti teoricamente in comune. Nel momento stesso
in cui, per effetto di risoluzioni apparentemente tecniche, la
cultura sembra unificarsi (illusione riprodotta in modo piutto­
sto sciocco dall’espressione «cultura di massa»), la divisione
dei linguaggi culturali è all’apice. Provate a passare una serata
davanti al televisore (per limitarci alle forme piu diffuse di
cultura); sarete raggiunti, nonostante gli sforzi di generale ap­
piattimento compiuti dagli autori dei programmi, da piu lin­
guaggi diversi, che non potranno rispondere tutti non solo al
vostro desiderio (uso il termine in senso forte), ma neppure ai
vostri bisogni intellettuali: esiste sempre nella cultura una
porzione di linguaggio che l’altro (e dunque io) non capisce; il
mio vicino considera noioso quel concerto di Brahms e io giu­
dico volgare quello sketch di varietà, imbecille quel feuilleton
sentimentale: la noia, la volgarità, la stupidità sono i diversi
nomi della secessione dei linguaggi. Il risultato è che tale se­
cessione non separa soltanto gli uomini tra loro, ma lacera in­
teriormente ciascun uomo, ciascun individuo; ogni giorno in
LA PACE CULTURALE 95
me si accumulano, senza comunicare, piu linguaggi isolati; so­
no diviso, tagliato, sparso (in altro contesto, ciò corrisponde­
rebbe alla definizione stessa della «follia»). E se anche riuscis­
si mai, da parte mia, a parlare il medesimo linguaggio per tut­
to il giorno, quanti linguaggi diversi sarei comunque costretto
a ricevere! Quello dei colleghi, del postino, dei miei studenti,
del cronista sportivo della radio, dell’autore classico che leggo
di sera: è un’illusione da linguista considerare su un piano di
eguaglianza la lingua che parliamo e quella che ascoltiamo, co­
me se fossero la stessa; a questo punto bisognerebbe riprende­
re la distinzione fondamentale, proposta da Jakobson, tra
grammatica attiva e grammatica passiva: la prima è monoto­
na, la seconda è eteroclita, ecco la verità del linguaggio cultu­
rale. In una società divisa ogni uomo, se anche riuscisse a uni­
ficare il suo linguaggio, continuerebbe a dibattersi contro l’e­
strema dispersione dell’ascolto: sotto le apparenze della cultura
globale che gli è istituzionalmente proposta, ad essergli impo­
sta ogni giorno è la divisione schizofrenica del soggetto; in un
certo senso, la cultura è il campo patologico per eccellenza, in
cui si iscrive l’alienazione dell’uomo contemporaneo (termine
appropriato, sociale e mentale al tempo stesso).
Cosi, quel che si direbbe ogni classe sociale ricerchi non è il
possesso della cultura (sia che la si voglia conservare o ottene­
re), dal momento che la cultura è qui, dappertutto e per tutti,
ma l’unità dei linguaggi, la coincidenza tra parola e ascolto.
Oggi, nella nostra società occidentale, divisa nei linguaggi e
unificata nella cultura, in che modo le classi sociali, quelle che
marxismo e sociologia ci hanno insegnato a riconoscere, guar­
diano verso il linguaggio dell’Altro? Qual è il gioco d ’interlocu­
zione (molto deludente, purtroppo) nel quale, storicamente,
sono coinvolte?
La borghesia detiene teoricamente tutta la cultura, ma da
molto tempo ormai (parlo per la Francia) non ha piu una pro­
pria voce culturale. Da quando? Da quando i suoi intellettua­
li, i suoi scrittori l’hanno abbandonata; il caso Dreyfus è stato
probabilmente, in Francia, la scossa che ha dato origine a tale
distacco; d ’altronde, proprio in quel momento appare il ter­
mine «intellettuale»: l’intellettuale è quel chierico che tenta
di rompere con la buona coscienza della propria classe, se non
di origine (che uno scrittore provenga, individualmente, dalla
classe operaia non sposta affatto il problema), perlomeno di
consumo. Oggi, in classe, non si inventa nulla: il borghese
(proprietario, industriale, dirigente, alto funzionario) non ac-
96 LA PACE CULTURALE

cede più al linguaggio della ricerca intellettuale, letteraria, ar­


tistica, perché tale linguaggio lo contesta; cede optando per la
cultura di massa; i suoi figli non leggono più Proust, non
ascoltano più Chopin, ma al massimo Boris Vian o la pop mu­
sic. Non si può certo dire, però che l’intellettuale che lo mi­
naccia sia per questo vincente; ha un bel porsi come rappre­
sentante, come procuratore del proletariato, come oblato del­
la causa socialista: la sua critica della cultura borghese è co­
stretta a prendere a prestito il vecchio linguaggio della bor­
ghesia, che gli è stato trasmesso dall’insegnamento universi­
tario; l’idea stessa di contestazione diventa un’idea borghese;
forse il pubblico degli scrittori intellettuali si è spostato (an­
che se non è certo il proletariato a leggerli), ma il linguaggio
no; è vero che l’intelligencija si sforza di inventare nuovi lin­
guaggi, ma essi rimangono chiusi', nell’interlocuzione sociale
non è cambiato nulla.
Il proletariato (i produttori) non ha una sua cultura; nei
paesi cosiddetti sviluppati, il suo linguaggio è quello della pic­
cola borghesia, perché è il linguaggio che gli viene offerto dai
mezzi di comunicazione di massa (stampa ad alta tiratura, ra­
dio e televisione): la cultura di massa è piccolo borghese. Del­
le tre classi tipiche, oggi è quella intermedia, forse perché que­
sto è il secolo della sua promozione storica, a cercare più delle
altre di elaborare una cultura originale, nel senso che sarebbe
la sua cultura: è in corso, incontestabilmente, un importante
lavoro sul piano della cultura «di massa» (cioè della cultura
piccolo borghese) - un lavoro di fronte al quale sarebbe per­
ciò ridicolo storcere il naso. Ma quali strade imbocca? Quelle
già note della cultura borghese: è assumendo e degradando i
modelli (i pattems) del linguaggio borghese (i suoi racconti, i
suoi tipi di ragionamento, i suoi valori psicologici) che la cul­
tura piccolo borghese si forma e si insedia. L’idea di degrado
può apparire moralistica, degna di un borghese che rimpiange
l’alto livello della cultura passata; al contrario, io le attribuisco
un contenuto obiettivo, strutturale: c’è degrado perché non
c’è invenzione; i modelli sono ripetuti pedes tremente, appiat­
titi, nel senso che la cultura piccolo borghese (censurata dallo
Stato) esclude persino la contestazione che l’intellettuale può
muovere alla cultura borghese: è l’immobilismo, la sottomis­
sione agli stereotipi (la conversione dei messaggi in stereotipi)
a definire il degrado. Si può dire che nella cultura piccolo bor­
ghese, nella cultura di massa, è la cultura borghese a ripresen-
LA PACE CULTURALE 97

tarsi sulla scena della Storia, ma trasformata in farsa (secondo


la ben nota immagine di Marx).
La guerra culturale sembra obbedire alle regole del «gioco
dell’anello»: i linguaggi sono effettivamente separati, come i
partecipanti al gioco, seduti l’uno accanto all’altro; ma ciò che
passa, ciò che sfugge, è sempre lo stesso anello, la stessa cultu­
ra: tragica immobilità della cultura, drammatica separazione
dei linguaggi, è questa la duplice alienazione della nostra so­
cietà. Si può affidare al socialismo il compito di risolvere que­
sta contraddizione, al fine di fluidificare, di pluralizzare la
cultura, e nel contempo di porre termine alla guerra del senso,
all’esclusione dei linguaggi? E inevitabile: altrimenti, in che
cosa sperare? Non ci si deve tuttavia nascondere la minaccia
di ùfr nuovo nemico in agguato in tutte le società moderne. Pa­
re infatti che sia comparso un nuovo essere storico, e si sia in­
sediato sviluppandosi smisuratamente, il che complica (senza
superarla) l’analisi marxista (cosi come Marx e Lenin l’hanno
elaborata): tale nuova figura è lo Stato (qui risiede, d ’altra
parte, il punto enigmatico della scienza marxista): l’apparato
statale è piu coriaceo delle rivoluzioni - e la cultura detta di
massa è l’espressione diretta di tale statalismo: oggi, ad esem­
pio, in Francia, lo Stato accetta di buon grado di abbandona­
re l’Università, di disinteressarsene, di cederla ai comunisti e
ai contestatori, in quanto sa benissimo che non è quello il luo­
go in cui si forma il potere culturale; ma per nulla al mondo ri-
nuncerà alla Televisione e alla Radio: attraverso il possesso di
tali veicoli culturali impone infatti la cultura reale, e imponen­
dola ne fa la propria cultura: cultura nella quale sono costrette
a ritrovarsi la classe intellettualmente «dimissionaria» (la bor­
ghesia), la classe in ascesa (la piccola borghesia) e la classe mu­
ta (il proletariato). Si comprende allora come, pur rimanendo
ben lontana dal risolvere il problema dello Stato, la Cina po­
polare abbia appunto chiamato «rivoluzione culturale» la tra­
sformazione radicale della società che ha messo in atto.

1971, in «Times, Litterary Supplement».


La divisione dei linguaggi

La nostra cultura è divisa? Niente affatto; tutti, nella Fran­


cia attuale, sono in grado di capire una trasmissione televisiva,
un articolo di «France-Soir », il menu di un pranzo di gala; an­
zi, si può dire che, a parte un piccolo gruppo di intellettuali,
tutti consumano questi prodotti culturali: la partecipazione
oggettiva è totale; e, se si definisse la cultura di una società
dalla circolazione di simboli che vi si svolge, la nostra cultura
apparirebbe omogenea e compatta quanto quella di una picco­
la società di interesse etnografico. La differenza risiede nel
fatto che nella nostra cultura è generalizzato solo il consumo,
non la produzione: tutti comprendiamo ciò che ascoltiamo in
comune, ma non tutti «parliamo» le stesse cose che ascoltia­
mo; i «gusti» sono divisi, talora inesorabilmente opposti: mi
piace quella trasmissione di musica classica che il mio vicino
non sopporta, mentre non posso sopportare le commedie bou-
levardiéres che lui adora; ciascuno di noi accende Γ apparec­
chio quando Γaltro lo spegne. In altri termini, la cultura del
nostro tempo, che sembra cosi generalizzata, cosi pacifica, co­
si comunitaria, si fonda sulla divisione di due attività di lin­
guaggio: da una parte Yascolto, nazionale, o se si vuole l’atto
del comprendere; dall’altra, se non proprio la parola, almeno
la partecipazione creativa, e, per essere ancora piu precisi, il
linguaggio del desiderìo, a sua volta diviso: da un lato io ascol­
to, dall’altro mi piace (o non mi piace): comprendo e mi an­
noio. All’unità della cultura di massa corrisponde nella nostra
società una divisione non solo dei linguaggi, ma del linguaggio
stesso. Certi linguisti - che tuttavia, per statuto, si occupano
soltanto della lingua e non del discorso - hanno intuito que­
sta situazione: hanno suggerito - finora senza seguito - che si
distinguano chiaramente due grammatiche: una, attiva o
grammatica della lingua in quanto essa è parlata, emessa, pro­
dotta, e un’altra passiva, o grammatica del semplice ascolto.
LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI

Portata, per mutazione translinguistica, al livello del discorso,


tale divisione darebbe conto con efficacia del paradosso della
nostra cultura, unitaria nel suo codice di ascolto (di consumo),
frammentaria nei suoi codici di produzione, di desiderio: la
«pace culturale» (nessun conflitto apparente sul piano della
cultura) rimanda alla divisione (sociale) dei linguaggi.
Scientificamente, questa divisione è stata sinora parzial­
mente censurata. I linguisti sanno bene che un idioma nazio­
nale (il francese, per esempio) comprende un certo numero di
specie; ma la specificazione studiata è quella geografica (dia­
letti, patois, parlate), non quella sociale; quest’ultima è sen­
z’altro postulata, ma minimizzandola, riducendola a «modi»
di esprimersi {argot, gerghi malavitosi o settoriali, ecc.); e, in
ogni modo, si ritiene che l’unità idiomatica si ricostituisca al
livello del locutore, provvisto di un suo linguaggio, di una co­
stante discorsiva individuale, chiamata idioletto: le specie lin­
guistiche sarebbero soltanto degli stadi intermedi, fluttuanti,
«divertenti» (appartenenti a una sorta di folclore sociale).
Questa costruzione, che ha origine nel xrx secolo, corrisponde
effettivamente a una certa ideologia - dalla quale non era
esente neppure Saussure - che colloca da un lato la società
(l’idioma, la lingua) e dall’altro l’individuo (l’idioletto, lo sti­
le); tra i due poli le tensioni non possono essere che «psicolo­
giche»: all’individuo si attribuisce il compito di lottare per ve­
dersi riconoscere il proprio linguaggio - o per non essere
completamente soffocato dal linguaggio altrui. Si aggiunga
che la sociologia dell’epoca non ha saputo cogliere il conflitto
sul piano linguistico: Saussure era piu sociologo di quanto
Durkheim non fosse linguista. E stata la letteratura a intuire
la divisione dei linguaggi (se non altro in termini psicologici)
piu della sociologia (non c’è da stupirsi: la letteratura contiene
tutte le forme di conoscenza, anche se certo a livello non
scientifico: è una mathèsis.
Da quando è diventato realista, il romanzo ha incontrato
fatalmente sulla sua strada la riproduzione dei linguaggi col­
lettivi; in genere, però, l’imitazione dei linguaggi di gruppo
(dei linguaggi socio-professionali) è stata delegata dai nostri
romanzieri a personaggi secondari, a comparse chiamate a
«fissare» il realismo sociale, mentre l’eroe continua a parlare
un linguaggio fuori del tempo, la cui «trasparenza» e neutra­
lità sono ritenute confacenti all’universalità psicologica dell’a­
nimo umano. Balzac, per esempio, ha un’acuta coscienza dei
linguaggi sociali; quando li riproduce, però, li incornicia, un
po' come se fossero pezzi di bravura, esercitazioni enfatizzate,
contraddistinte da un tocco di pittoresco, di folclorico; sono
caricature di linguaggi, come il gergo di M. de Nucingen, ri­
prodotto scrupolosamente dal punto di vista fonetico, oppure
il linguaggio da portinaia di Mme Cibot, la custode del Cugino
Pons; è presente tuttavia in Balzac un’altra mimesi del lin­
guaggio, piu interessante innanzitutto perché piu ingenua, e
poi perché più culturale che sociale: è quella dei codici ài opi­
nione conente, che Balzac riprende e adotta spesso quando gli
accade di intervenire a commento della storia che racconta:
se, per esempio, fa comparire in un aneddoto la figura di
Brantôme (in Sur Catheùne de Médicis), questi parlerà di don­
ne esattamente come l’opinione comune (la doxa) si aspetta da
lui, cioè onorando il suo «ruolo» culturale di «specialista» in
storie di donne - senza che si possa giurare, purtroppo, che lo
stesso Balzac sia davvero conscio del proprio procedimento:
egli crede, infatti, di riprodurre il linguaggio di Brantôme,
mentre in realtà non fa altro che copiare la copia (culturale) di
tale linguaggio. Lo stesso sospetto di ingenuità (qualcuno dirà:
di volgarità) non può essere avanzato a proposito di Flaubert;
quest’ultimo non si accontenta di riprodurre semplicemente
dei tic (fonetici, lessicali, sintattici); cerca di cogliere, nell’imi­
tazione, valori linguistici piu sottili e piu diffusi, di afferrare
quelle che potremmo definire figure di discorso; soprattutto, se
ci riferiamo al libro piu «profondo» di Flaubert, Bouvard et
Pécuchet, la mimesi è senza fondo, senza argini: i linguaggi
culturali - linguaggi delle scienze, delle tecniche e anche delle
classi: la borghesia - sono citati (Flaubert non li prende per
oro colato), ma, attraverso un meccanismo estremamente sot­
tile e che solo ora comincia ad essere smontato, l’autore che
copia (contrariamente a Balzac) rimane in qualche modo irre­
peribile, in quanto Flaubert non dà mai a vedere in modo cer­
to se ponga se stesso come definitivamente esterno al discorso
che «adotta»: situazione ambigua, che rende un po’ illusoria
l’analisi sartriana o marxista della «borghesia» di Flaubert; se
infatti Flaubert, borghese, parla il linguaggio della borghesia,
non è mai dato sapere da quale luogo si produca tale enuncia­
zione: un luogo critico? distante? «vischioso»? In realtà il lin­
guaggio di Flaubert è utopico, e in ciò consiste la sua moderni­
tà: non stiamo forse imparando (dalla linguistica, dalla psica­
nalisi) pròprio che il linguaggio è un luogo ρήνο di esterno? Do­
po Balzac e Flaubert - per limitarci ai piu grandi -, rispetto al
LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI

problema della divisione dei linguaggi possiamo citare Proust,


perché nella sua opera si trova una vera e propria enciclopedia
del linguaggio. Senza ritornare sul problema generale dei se­
gni in Proust - che Deleuze ha trattato in modo esemplare - e
per attenerci al linguaggio articolato, in questo autore si tro­
vano tutti gli stati della mimesi verbale: pastiches caratterizza­
ti (la lettera di Gisèle, che mima il componimento scolastico,
il Diario dei Goncourt), idioletti di personaggi, perché nella
Ricerca del tempo perduto ognuno ha un suo linguaggio, carat­
teriale e sociale insieme (il signore medievale Charlus, lo snob
Legrandin), linguaggi di clan (quello dei Guermantes), un lin­
guaggio di classe (Françoise e il «popolare», anche se qui, per
la verità, riprodotto soprattutto per la sua funzione passati­
sta), un catalogo delle anomalie linguistiche (le deformazioni
«cosmopolite» del direttore del Grand Hôtel di Balbec), Γac­
curata annotazione dei fenomeni di acculturazione (Françoise
contaminata dal linguaggio «moderno» di sua figlia) e di dia­
spora lingusitica (il linguaggio Guermantes «prolifera»), una
teoria delle etimologie e del potere fondatore del nome come
significante; non manca neppure, a questo panorama sottile e
completo dei tipi di discorso, Vassenza (volontaria) di certi lin­
guaggi: il narratore, i suoi genitori, Albertine non hanno un
loro linguaggio. Per quanto la letteratura possa dirsi anticipa­
trice nella descrizione dei linguaggi divisi, sono tuttavia evi­
denti i limiti della mimesi letteraria: da una parte, il linguag­
gio riferito non riesce a superare una visione folcloristica (si
potrebbe dire: coloniale) dei linguaggi eccezionali; il linguag­
gio dell 'altro è incominciato, e l’autore (eccetto forse nel caso
di Flaubert) ne parla da una situazione di extraterritorialità;
la divisione dei linguaggi è spesso individuata con una perspi­
cacia che la sociolinguistica avrebbe motivo di invidiare a
quegli autori «soggettivi», ma rimane esterna a colui che de­
scrive: in altri termini, contrariamente alle acquisizioni della
scienza moderna, relativistica, l’osservatore non dice quale
posto occupa nell’osservazione; la divisione dei linguaggi si
ferma a chi la descrive (se questi non la denuncia), e d ’altra
parte il linguaggio sociale riprodotto dalla letteratura rimane
univoco (ancora la divisione delle grammatiche denunciata al­
l’inizio): Françoise parla da sola, noi la capiamo, ma nessuno,
nel libro, le risponde; il linguaggio osservato è monologico,
non entra mai in una dialettica (nel senso proprio del termi­
ne); il risultato è che i frammenti di linguaggi sono trattati, in
LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI 103

realtà, come altrettanti idioletti - e non come un sistema tota­


le e complesso di produzione dei linguaggi.
Volgiamoci ora verso il trattamento «scientifico» del pro­
blema: come la scienza (sociolinguistica) vede la divisione dei
linguaggi?
Non è certo da oggi che si postula un legame tra la divisio­
ne in classi e quella tra i linguaggi: la divisione del lavoro ge­
nera una divisione dei lessici; si può anche dire (Greimas) che
un lessico è appunto la suddivisione imposta alla massa se­
mantica dalla pratica di un certo lavoro: non esiste lessico sen­
za un lavoro corrispondente (non è il caso di fare eccezione
per quel lessico generale, «universale» che è soltanto il lessico
«extra-lavoro»). L ’indagine sociolinguistica presenterebbe
perciò minori difficoltà nelle società «etnografiche» che non
nelle nostre società storiche e sviluppate, dove il problema è
molto complesso; da noi, infatti, la divisione sociale dei lin­
guaggi sembra offuscata sia dal peso, dalla forza unificatrice
della lingua nazionale, sia dall’omogeneità della cultura cosid­
detta di massa, come da piu parti è stato suggerito; una sem­
plice osservazione fenomenologica è tuttavia sufficiente ad at­
testare la validità delle separazioni linguistiche: basta uscire
un attimo dal proprio ambiente e assumersi il compito, anche
soltanto per un’ora o due, non solo di ascoltare linguaggi di­
versi dal nostro, ma di partecipare il piu attivamente possibile
alla conversazione, per avere la percezione, sempre imbaraz­
zante e talvolta angosciosa, della profonda impermeabilità dei
linguaggi all’interno stesso dell’idioma francese; se tali lin­
guaggi non comunicano (salvo quando si parla «della pioggia
e del bel tempo»), ciò non avviene sul piano della lingua, che
tutti capiscono, ma del discorso (oggetto che comincia a rien­
trare nella linguistica); in altri termini, la non-comunicazione
non è, ad essere esatti, di ordine informativo, ma di ordine in­
terlocutorio: tra un linguaggio all’altro c’è mancanza di curio­
sità, indifferenza: nella nostra società ci basta il linguaggio
delVuguale, non abbiamo bisogno del linguaggio delXaltro per
vivere: a ciascuno basta il proprio linguaggio. Ci fissiamo sul
linguaggio del nostro settore sociale, professionale, e ciò è ma­
nifestazione di una nevrosi, in quanto ci permette di adat­
tarci, bene o male, alla frammentazione della nostra società.
Evidentemente, nelle forme di socialità di livello storico la
divisione del lavoro non si traduce direttamente, come un
semplice riflesso, nella divisione dei lessici e nella separazione
dei linguaggi: si hanno invece complessizzazione, sovradeter-
104 LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI

minazione o contrapposizione dei fattori. Anche in paesi dal­


lo sviluppo relativamente equivalente, poi, possono persistere
differenze di origine storica; sono convinto che, rispetto ad
altri paesi che non possono dirsi piu «democratici», la Francia
sia particolarmente divisa: esiste in Francia, forse per tradi­
zione classica, una forte coscienza delle identità e delle proprie­
tà di linguaggio; il linguaggio dell’altro è sentito attraverso le
punte piu aspre della sua alterità: donde le accuse cosi fre­
quenti di «gergalità» e una vecchia tradizione di ironia nei
confronti dei linguaggi chiusi, che sono semplicemente i lin­
guaggi altri (Rabelais, Molière, Proust).
Rispetto alla divisione dei linguaggi, disponiamo di un ten­
tativo di descrizione scientifica? Si, ed è evidentemente la so­
ciolinguistica. Senza voler affrontare in questa sede un vero e
proprio processo a tale disciplina, non si può tuttavia non ma­
nifestare una certa delusione: la sociolinguistica non ha mai
trattato il problema del linguaggio sociale (in quanto linguag­
gio diviso); da un lato ci sono stati accostamenti (a dire il vero
episodici e indiretti) tra la macrosociologia e la macrolinguisti­
ca, nei quali il fenomeno «società» era messo in relazione con
il fenomeno «linguaggio» o «lingua»; dall’altro, o per meglio
dire sul versante opposto, si sono avuti alcuni tentativi di de­
scrizione sociologica di isole di linguaggio {speech communities)'.
linguaggio delle prigioni o delle parrocchie, formule di corte­
sia, baby-talks\ la sociolinguistica (ed è proprio su questo pun­
to che affiora la delusione) vede la separazione tra i gruppi so­
ciali sotto forma di lotta per il potere; la divisione dei linguaggi
non è pensata come un fatto totale, che mette in discussione
le radici stesse del regime economico, della cultura, della civil­
tà o addirittura della storia, ma soltanto come l’attributo em­
pirico (per nulla simbolico) di una propensione a metà strada
tra sociologia e psicologia: il desiderio di promozione - visio­
ne per lo meno angusta, che non corrisponde alle nostre at­
tese.
La linguistica (e non piu la sociologia) ha fatto di meglio?
Raramente ha messo in relazione linguaggi e gruppi sociali,
ma ha compiuto indagini storiche su vocabolari, su lessici do­
tati di una certa autonomia (di una certa figura) sociale o isti­
tuzionale: è il caso di Meillet e del vocabolario religioso in­
doeuropeo, di Benveniste, la cui ultima opera sulle istituzioni
indoeuropee è davvero ammirevole, o ancora di Matoré che
tentò di fondare, una ventina d ’anni fa, una vera e propria so­
ciologia storica del vocabolario (o lessicologia); piu recente-
LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI 105

mente, è il caso di Jean Dubois che ha descritto il vocabolario


della Comune. Il tentativo che meglio mostra Γinteresse e i li­
miti della linguistica socio-storica è forse quello di Ferdinand
Brunot; nei tomi X e XI della sua monumentale Histoire de la
langue française des origines à 1900 l, Brunot ha studiato mi­
nuziosamente il linguaggio della Rivoluzione francese. L’inte­
resse consiste nel fatto che quello studiato è un linguaggio po­
litico nel senso pieno del termine; non un insieme di tic verba­
li miranti a «politicizzare» dall’esterno il linguaggio (come ca­
pita spesso oggi), ma un linguaggio che si va elaborando all’in­
terno stesso di una prassi politica, il che gli conferisce un ca­
rattere piu produttivo che rappresentativo: le parole, siano esse
scartate o promosse, sono legate quasi magicamente a un’effi­
cacia reale: abolendo la parola si pensa di abolirne il referente;
vietando la parola «nobiltà» si crede di vietare la nobiltà stes­
sa; lo studio di quel linguaggio politico potrebbe fornire un
buon quadro di riferimento per un’analisi del nostro attuale
discorso politico (o politicizzato?): termini carichi di affettivi­
tà, segnati da un tabu o da un contro-tabu, parole che ci sono
care (Nazione, Legge, Patna, Costituzione), parole esecrate (Ti­
rannia, Anstocratico, Congiura), potere esorbitante di certi vo­
caboli, tuttavia «pedanti» (Costituzione, Federalismo), «tradu­
zioni» terminologiche, creazioni sostitutive (clero -►pretaglia,
religione -> fanatismo, oggetto religioso -> cianfrusaglie delfana­
tismo, soldati nemici -* vili fantocci dei despoti, imposte -►con-
tnbuto, domestico uomo di fiducia, spione -> poliziotto,
attore artista, ecc.), connotazioni sfrenate (rivoluzionano fi­
nisce per significare rapido, accelerato si dice classificare nvo-
luzionanamente dei libri). Il limite di quest’analisi è che essa
coglie solo il lessico; è vero che la sintassi del francese è stata
scarsamente toccata dallo sconvolgimento rivoluzionario (che
cercò, in realtà, di conservare con ogni cura il buon uso clas­
sico); ma bisognerebbe forse dire piuttosto che la linguistica
non dispone ancora dei mezzi per analizzare quella sottile
struttura del discorso che si colloca tra la «costruzione» gram­
maticale, troppo elastica, e il vocabolario, troppo ristretto, e
che sembra corrispondere al campo dei sintagmi stereotipati
(per esempio: «la pressione delle masse rivoluzionarie»). Di
conseguenza, il linguista è portato a ridurre la separazione dei
linguaggi sociali a fatti lessicali - o addirittura di moda.

1 Armand Colin, Paris 1937.


LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI

Cosi, la situazione piu scottante, cioè Popacità stessa del


rapporto sociale, sembra sfuggire all’analisi scientifica tradi­
zionale. Mi pare che la ragione fondamentale sia di ordine
epistemologico: nei confronti del discorso la linguistica è ri­
masta, per cosi dire, a uno stadio newtoniano: non ha ancora
compiuto la propria rivoluzione einsteiniana; non ha teorizza­
to il posto del linguista (del punto di osservazione) nel campo
osservato. Si deve innanzitutto postulare questa relativizza-
zione.

È ora di dare un nome a quei linguaggi sociali individuabili


nella massa idiomatica, e la cui impermeabilità, per quanto sia
stata sentita innanzitutto come esistenziale, è conseguenza,
sia pure attraverso tutti i passaggi, le sfumature e le complica­
zioni che si possono concepire, della divisione e della contrap­
posizione di classe; chiameremo questi linguaggi di gruppo so­
cioletti (per contrapposizione all’idioletto, cioè al modo di par­
lare di un singolo individuo). Il carattere principale del campo
sociolettale è che nessun linguaggio può essergli esterno: ogni
discorso è fatalmente incluso in un certo socioletto. Questo
vincolo comporta un’importante conseguenza per l’analista:
anch’egli è preso nel gioco dei socioletti. Si dirà che, in altri
casi, la stessa situazione non impedisce affatto l’osservazione
scientifica: è il caso del linguista che deve descrivere un idio­
ma nazionale, cioè un campo al quale non sfugge nessun lin­
guaggio (compreso il suo); ma appunto: l’idioma è un campo
unificato (esiste una sola lingua francese), e chi ne parla non è
costretto a situarvisi. Per contro, il campo sociolettale è defi­
nito, invece, dalla sua divisione, dalla sua secessione inesora­
bile, ed è proprio alVinterno di tale divisione che l’analisi deve
collocarsi. Ne consegue che la ricerca sociolettale (che non esi­
ste ancora) non può cominciare senza un atto iniziale, fonda­
tore, di valutazione (vorremmo che tale termine fosse inteso
nel senso critico che gli seppe dare Nietzsche). Ciò significa
che non possiamo riversare tutti i socioletti (tutte le parlate
sociali), indipendentemente da quel che sono e dal loro conte­
sto politico, in un vago corpus indifferenziato, nel quale l’in-
differenziazione, Veguaglianza, sarebbe una garanzia di obiet­
tività, di scientificità; si deve rifiutare qui Yadiaforia della
scienza tradizionale, e accettare invece - ordine paradossale
agli occhi di molti - che siano i tipi di socioletti a definire l’a­
nalisi, e non il contrario: la tipologia è anteriore alla definizio­
ne. Precisiamo inoltre che la valutazione non può ridursi alla
LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI IO 7

stima: studiosi molto obiettivi si sono attribuiti il diritto (le­


gittimo) di stimare i fatti che descrivevano (è appunto quel che
ha fatto Brunot con la Rivoluzione francese); valutare è un at­
to non susseguente, ma fondante; non è un comportamento
«liberale», bensì violento; la valutazione sociolettale vive, sin
dall’origine, il conflitto tra gruppi e tra linguaggi; ponendo il
concetto sociolettale, l’analista deve dar conto immediatamen­
te sia della contraddizione sociale, sia della frattura del sogget­
to che sa (rinvio qui all’analisi lacaniana del «soggetto suppo­
sto sapere»).
Perciò, nessuna descrizione scientifica dei linguaggi sociali
(dei socioletti) è possibile senza una valutazione politica fon­
datrice. Come Aristotele, nella sua Rettonca, distingueva due
gruppi di prove - le prove alVinterno della technè (entechnoi) e
quelle al di fuori della technè (atechnoi) -, cosi suggerisco di
distinguere sin dall’inizio due gruppi di socioletti: i discorsi al-
Vinterno del potere (all’ombra del potere) e i discorsi al difuon
del potere (o senza potere, o anche nella luce del non-potere);
ricorrendo a neologismi pedanti (ma come fare altrimenti?),
chiamerò i primi discorsi encratici e i secondi discorsi aeratici.
È evidente che il rapporto di un discorso con il potere (o
con il non-potere) è raramente diretto, immediato; certo, la
legge vieta y ma il suo discorso è già mediato da una vasta cul­
tura giuridica, da una ratio che quasi tutti ammettono; e solo
la favolosa figura del Tiranno potrebbe produrre un discorso
che collimerebbe istantaneamente con il suo potere («ilRe or­
dinò che... ») In realtà, il linguaggio del potere è sempre dotato
di strutture di mediazione, di guida, di trasformazione, di in­
versione (come nel discorso dell’ideologia, di cui Marx ha in­
dicato il carattere rovesciato rispetto al potere borghese). Allo
stesso modo, il discorso acratico non si situa sempre dichiara­
tamente contro il potere; per prendere un esempio particola­
re e attuale, il discorso psicanalitico non è direttamente legato
(almeno in Francia) a una critica del potere, eppure lo si può
collocare tra i socioletti aeratici. Perché? Perché la mediazio­
ne che interviene tra il potere e il linguaggio non è di ordine
politico, bensì culturale: per riprendere una vecchia nozione
aristotelica, quella di doxa (opinione corrente, generale, «pro­
babile» ma non «vera», «scientifica»), si dirà che è la doxa la
mediazione culturale (o discorsiva) attraverso la quale il pote­
re (o il non-potere) parla: il discorso encratico è un discorso
conforme alla doxa, sottoposto ai suoi codici, che sono a loro
volta le linee strutturanti della sua ideologia; mentre il discor-
LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI

so acratico si enuncia sempre, in diversa misura, contro la do­


xa (comunque sia, è sempre un discorso para-dossale). Tale
contrapposizione non esclude Je sfumature all'interno di cia­
scun tipo: strutturalmente, però, la sua semplicità rimane va­
lida finché il potere e il non-potere sono al loro posto; può es­
sere (provvisoriamente) complicata soltanto nei rari casi in cui
avviene un mutamento di potere (dei luoghi del potere) - per
esempio, del linguaggio politico in periodo rivoluzionario: il
linguaggio rivoluzionario proviene dal linguaggio acratico an­
tecedente; passando al potere, conserva il suo carattere acra­
tico, finché esiste una lotta attiva in seno alla Rivoluzione;
ma, non appena quest’ultima si spegne, non appena si insedia
lo Stato, l'ex linguaggio rivoluzionario diventa, a sua volta,
doxa, discorso encratico.
Il discorso encratico - dal momento che P abbiamo defini­
to attraverso la mediazione della doxa - non è soltanto il di­
scorso della classe del potere; classi escluse dal potere o che
cercano di conquistarlo con il riformismo o la promozione so­
ciale possono adottarlo - o almeno accoglierlo in modo con­
senziente. Il linguaggio encratico, sostenuto dallo Stato, è
dappertutto: è un discorso diffuso, esteso e per cosi dire
osmotico, che impregna gli scambi, i riti sociali, il tempo libe­
ro, il campo socio-simbolico (soprattutto, ovviamente, nelle
società dei mass-media). Non solo il discorso encratico non si
presenta mai come sistematico, ma si costituisce sempre come
uri opposizione al sistema-, gli alibi della natura, dell’universa­
lità, del buon senso, della chiarezza, le resistenze antintellet-
tualistiche diventano le tacite figure del sistema encratico. Es­
so è, inoltre, un discorso pieno-, non vi è posto per l’altro (don­
de la sensazione di soffocamento, di avvelenamento che può
provocare in chi non ne partecipa). Infine, se ci si vuole rife­
rire allo schema marxiano («L’ideologia è un’immagine rove­
sciata del reale»), il discorso encratico - in quanto pienamen­
te ideologico - presenta il reale come il rovesciamento dell’i­
deologia. È, in sostanza, un linguaggio non marcato, che pro­
duce una intimidazione ovattata, cosicché è difficile attribuir­
gli dei tratti morfologici - a meno di non riuscire a ricostituire
con rigore e precisione (il che è un po’ una contraddizione in
termini) le figure d ell ovattato. E la natura stessa della doxa
(diffusa, piena, « naturale ») a rendere difficile una tipologia
interna dei socioletti encratici; esiste un'atipia dei discorsi del
potere: un genere che non conosce specie.
I socioletti aeratici sono senz’altro piu facili e piu interes-
LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI 109
santi da studiare: sono tutti i linguaggi che si elaborano al di
fuori della doxa e ne sono di conseguenza rifiutati (di solito,
con il nome di gerghi). Analizzando il discorso encratico, si sa
quasi anticipatamente quel che si troverà (ed è per questo che,
oggi, Γanalisi della cultura di massa segna vistosamente il pas­
so); ma il discorso acratico è sostanzialmente il nostro (quello
del ricercatore, dell’intellettuale, dello scrittore); analizzarlo
significa analizzare noi stessi in quanto parliamo - operazio­
ne sempre rischiosa e proprio per questo da intraprendere:
che cosa pensano il marxismo, o il freudismo o lo strutturali­
smo, oppure la scienza (le scienze cosiddette umane) - nella
misura in cui ciascuno di tali linguaggi costituisce un sociolet­
to acratico (para-dossale) -, che cosa pensano del loro stesso
discorso? Questo interrogativo, che non è mai fatto proprio
dal discorso del potere, è evidentemente l’atto fondante di
ogni analisi che non pretenda di porsi all’esterno del suo og­
getto.
I vantaggi principali di un socioletto (oltre a quelli che il
possesso di un linguaggio dà a ogni potere che si cerchi di con­
servare o di conquistare) consistono evidentemente nella sicu­
rezza che esso procura: come ogni chiusura, quella di un lin­
guaggio esalta, garantisce tutti i soggetti che sono dentro,
mentre respinge e mortifica quelli che ne stanno fuoù. Ma co­
me agisce un socioletto all’esterno? Com’è noto, non esistono
piu, oggi né arte della persuasione né rettorica (se non quella
che si «vergogna» di esserlo); si noti, in proposito, che la ret­
torica aristotelica, essendo fondata sull’opinione della mag­
gioranza, era di diritto, e per cosi dire volontariamente, espli­
citamente, una rettorica endoxale, e dunque encratica (in que­
sto senso, è un paradosso solo apparente il fatto che l’aristote­
lismo possa ancora fornire ottimi concetti alla sociologia dei
mass-media). Nella democrazia moderna, quel che è cambiato
è che la «persuasione» e la sua technè non sono piu teorizzate,
perché il sistematico è censurato e perché, per effetto di un
mito squisitamente moderno, il linguaggio è considerato «na­
turale», «strumentale». Si può affermare che la nostra società
rifiuta la rettorica e insieme «dimentica» di teorizzare la cul­
tura di massa (dimenticanza flagrante nella teoria marxista
posteriore a Marx).
In realtà, i socioletti non dipendono da una technè di per­
suasione, ma comportano indistintamente figure di intimida­
zione (anche se il discorso acratico appare piu brutalmente
terroristico): risultato della divisione sociale, testimonianza
no LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI

della guerra del senso, ogni socioletto (encratico o acratico) si


prefigge di impedire all·altro di parlare (sorte condivisa dal
socioletto liberale). Cosi, la divisione tra due grandi tipi di so­
cioletti contrappone soltanto dei tipi di intimidazione o, se si
preferisce, dei modi di pressione: il socioletto encratico agisce
per oppressione (del troppo-pieno endoxale, di quella che Flau­
bert avrebbe chiamato la Bêtise); il socioletto acratico (che, es­
sendo escluso dal potere, deve ricorrere alla violenza) agisce
per soggezione, spara figure offensive di discorso, piu allo sco­
po di vincolare Γaltro che non per invaderlo; e a contrapporre
le due forme di intimidazione è ancora una volta il ruolo rico­
nosciuto al sistema: il dichiarato ricorso a un sistema pensato
definisce la violenza acratica; la destrutturazione del sistema,
il rovesciamento del pensato in «vissuto» (e non-pensato) de­
finisce la repressione encratica, in un rapporto rovesciato tra
i due sistemi discorsivi: patente/nascosto.
Un socioletto non ha soltanto un carattere intimidatorio
per chi ne è escluso (a causa della sua situazione culturale o so­
ciale), ma è anche costrittivo per chi lo condivide (o meglio, lo
ha in comproprietà). Strutturalmente, ciò dipende dal fatto
che il socioletto, sul piano del discorso, è una vera e propria
lingua; sulla scorta di Boas, Jakobson ha sottolineato opportu­
namente che una lingua si definisce non per quel che permette
di dire, ma per quel che obbliga a dire; allo stesso modo, ogni
socioletto comporta delle «rubriche obbligatorie», grandi for­
me stereotipate al di fuori delle quali la clientela di tale socio­
letto non può parlare (non può pensare). In altri termini, co­
me ogni lingua il socioletto implica quella che Chomsky chia­
ma una competenza y nella quale le variazioni performative di­
ventano strutturalmente insignificanti: il socioletto encratico
non è intaccato dalle differenze di volgaHtà che si stabiliscono
tra i suoi locutori; e per contro, sappiamo benissimo che il
socioletto marxista può essere parlato da imbecilli: la lingua so-
ciolettale non si modifica a seconda delle occorrenze indivi­
duali, ma soltanto se nella storia si verifica un mutamento di
discorsività (Marx e Freud sono stati all'origine di mutamenti
del genere, ma dopo di loro la discorsività da essi fondata non
ha fatto altro che ripetersi).

Per concludere queste rapide osservazioni, che si situano in


modo ambiguo a metà strada tra il saggio e il programma di ri­
cerca, mi sia consentito di ricordare che per me la divisione
dei linguaggi sociali, ovvero la sociolettologia, è legata a un te-
LA DIVISIONE DEI LINGUAGGI III

ma in apparenza poco sociologico, finora riservato ai teorici


della letteratura: il tema in questione è ciò che oggi chiamia­
mo scnttura. Nella nostra società dai linguaggi divisi, la scrit­
tura diventa un valore degno di dar vita a un dibattito e a un
approfondimento teorico a lunga scadenza, perché costituisce
una produzione del linguaggio non piu diviso. Avendo perduto
ogni illusione, oggi sappiamo benissimo che per lo scrittore
non si tratta di parlare il «linguaggio-popolo», secondo la vi­
sione nostalgica di Michelet; non si tratta di allineare la scrit­
tura con il linguaggio della maggioranza, dal momento che in
una società alienata la maggioranza non è l’universale, e par­
lare quel linguaggio (come nella cultura di massa, dove si spia­
no continuamente le statistiche sul piu alto numero di ascolta­
tori o di telespettatori) vuol dire parlare ancora una volta un
linguaggio particolare - ancorché maggioritario. Sappiamo
che il linguaggio non può ridursi alla semplice comunicazione,
che nella parola è investito e si costituisce tutto il soggetto
umano. Nei tentativi progressisti della modernità la scrittura
occupa un posto eminente non in funzione della sua clientela
(molto ristretta), bensì della sua pratica: proprio perché mette
in discussione i rapporti tra soggetto (sempre sociale: ne esiste
forse un altro?) e linguaggio, l’obsoleta distribuzione del cam­
po simbolico e il processo del segno, la scrittura appare effet­
tivamente come una pratica di contro-divisione dei linguaggi:
immagine probabilmente utopica, certo mitica, dal momento
che si riallaccia al vecchio sogno della lingua innocente, della
lingua adamica2dei primi romantici. Non è forse vero che la
storia, secondo la bella metafora di Vico, procede disegnando
una spirale? Non dobbiamo forse nprendere (che non vuol dire
ripetere) le antiche immagini per dar loro nuovi contenuti?

Une civilisation nouvelle? Hommage à Georges Freidmann. Copyright


T973, Gallimard.

2 [In italiano nel testo].


La guerra dei linguaggi

Al mio paese nel Sud-Ovest della Francia, un paese tran­


quillo di piccoli pensionati, un giorno, mentre passeggiavo, mi
è capitato di leggere nel giro di poche centinaia di metri, tre
diversi cartelli alla porta di tre ville: Cane cattivo. Cane perico-
loso. Cane da guardia. Come si può notare, è un paese che ha
uno spiccato senso della proprietà. Ma non è questo che inte­
ressa, quanto il fatto che le tre espressioni corrispondono a un
solo e identico messaggio: Non entrate (altrimenti sarete mor­
si). In altri termini, la linguistica, che si occupa esclusivamen­
te dei messaggi, potrebbe dire in proposito soltanto cose mol­
to semplici, molto banali, e rimarrebbe ben lungi dall’esaurire
il senso di quelle espressioni, dal momento che tale senso risie-
de nella loro differenza: « Cane cattivo » è aggressivo; « Cane pe­
ricoloso » è filantropico; « Cane da guardia » è apparentemente
obiettivo. Detto ancora diversamente, attraverso uno stesso
messaggio leggiamo tre scelte, tre impegni, tre mentalità, o se
si vuole tre immaginari, tre alibi della proprietà; con il lin­
guaggio del suo cartello - con quello che chiamerò il suo di­
scorso, poiché la lingua è la stessa nei tre casi -, il proprietario
della villa si mette al riparo e si garantisce dietro una certa
rappresentazione, direi quasi un certo sistema della proprietà:
in un caso selvaggio (i cane, ovvero - ovviamente - il proprie­
tario, è cattivo), nell’altro protettivo (il cane è pericoloso, la
villa è protetta), nell’ultimo legittimo (il cane sta a guardia
della proprietà, è un diritto legale). Cosi, sul piano del mes­
saggio piu semplice (Non entrate), il linguaggio (il discorso)
esplode, si fraziona, si distingue: esiste una divisione dei lin­
guaggi di cui una semplice scienza della comunicazione non
può rendere conto; la società, con le sue strutture socio-
economiche e nevrotiche, interviene a costruire il linguaggio
come un teatro di guerra.
Ovviamente, è la possibilità di dire una stessa cosa in piu
II4 LA GUERRA DEI LINGUAGGI

modi, è la sinonimia a consentire la divisione del linguaggio;


e la sinonimia è un dato statutario, strutturale e in un certo
senso naturale del linguaggio; ma la guerra del linguaggio, dal
canto suo, non è «naturale»: avviene laddove la società tra­
sforma la differenza in conflitto; qualcuno ha anche avanzato
l’ipotesi di una convergenza originaria tra la divisione in classi
sociali, la dissociazione simbolica e la schize nevrotica.
L’esempio che ho fornito, infatti, l’ho preso volontaria­
mente a minimo, nel linguaggio di una sola classe sociale,
quella dei piccoli proprietari, che contrappone nell’ambito del
proprio discorso varie sfumature di appropriazione. A maggior
ragione, sul piano della società sociale, se cosi si può dire, il
linguaggio appare diviso in grandi masse. Ci si deve tuttavia
persuadere di tre cose che non sono affatto semplici: 1. la pri­
ma è che la divisione dei linguaggi non corrisponde esatta­
mente alla divisione in classi: tra una classe e l’altra si registra­
no spostamenti, prestiti, ostacoli o mediazioni; 2. la seconda
è che la guerra dei linguaggi non è la guerra dei soggetti: ad af­
frontarsi sono sistemi di linguaggi, non individualità, sociolet­
ti , non idioletti; 3. la terza è che la divisione dei linguaggi si
delinea su uno sfondo di comunicazione: l’idioma nazionale;
per essere più precisi, dirò che su scala nazionale ci capiamo
ma non comunichiamo: nel migliore dei casi, abbiamo una
pratica liberale del linguaggio.
Nelle società attuali, la piu semplice divisione dei linguaggi
riguarda il loro rapporto con il Potere. Esistono linguaggi che
sono enunciati, si sviluppano e si delineano alla luce (o all’om­
bra) del Potere, dei suoi molteplici apparati statali, istituzio­
nali, ideologici; li chiamerò linguaggi o discorsi encratici. Sul­
l’altro versante troviamo invece i linguaggi che si elaborano,
si cercano, si armano al di fuori del Potere e/o contro di esso,
e che chiamerò linguaggi o discorsi aeratici.
Queste due grandi forme di discorso non hanno lo stesso
carattere. Il linguaggio encratico è vago, diffuso, apparente­
mente «naturale» e dunque difficilmente individuabile: è il
linguaggio della cultura di massa (stampa a grande diffusione,
radio e televisione) ed è anche, in un certo senso, il linguaggio
della conversazione, dell’opinione comune (della doxa); tale
linguaggio encratico è, nel contempo (contraddizione che ne
fa la forza), clandestino (non lo si può riconoscere facilmente)
e trionfante (non è possibile sfuggirvi): in altri termini, è vi­
schioso.
Il linguaggio acratico è, per contro, separato, distaccato dal-
LA GUERRA DEI LINGUAGGI II5
la doxa (e quindi paradossale); la sua forza di rottura gli deriva
dall’essere sistematico: è costruito su un pensiero, non su un’i­
deologia. Gli esempi piu immediati di tale linguaggio acratico
possono essere oggi il discorso marxista, il discorso psicanali­
tico, e mi sia consentito aggiungere, a un grado inferiore ma
con uno statuto non irrilevante, il discorso strutturalista.
La cosa forse piu interessante, però, è che anche nella sfera
acratica intervengono nuovamente nel linguaggio divisioni,
regionalismi e antagonismi: il discorso critico si fraziona in
parlate, in isole, in sistemi. Tenderei a chiamare tali sistemi
discorsivi Finzioni (il termine è di Nietzsche); e tenderei a ve­
dere negli intellettuali, in coloro che formano, sempre secon­
do Nietzsche, la classe sacerdotale, la casta che ha il compito
di elaborare, come si conviene a degli artisti, tali Finzioni del
linguaggio (la classe sacerdotale non è forse stata per moltissi­
mo tempo la detentrice delle tecniche e delle formule, cioè del
linguaggio?)
Da qui i rapporti di forza tra i sistemi discorsivi. Che cos’è
un sistema forte? E un sistema di linguaggio capace di funzio­
nare in tutte le situazioni e che conserva la propria energia,
indipendentemente dalla mediocrità dei soggetti che lo parla­
no: rimbecillita di certi marxisti, di certi psicanalisti o di certi
cristiani non intacca minimamente la forza del sistema, dei di­
scorsi corrispondenti.
Da che cosa dipende la forza di combattere, il potere di do­
minare di un sistema discorsivo, di una Finzione? Dopo la
Rettorica antica, definitivamente estranea al mondo del no­
stro linguaggio, nessuna analisi applicata ha piu messo in luce
le armi del conflitto tra i linguaggi: non conosciamo bene né la
fisica, né la dialettica, né la strategia di quella che chiamerei la
nostra logosfera - anche se non passa giorno senza che ciascu­
no di noi sia sottoposto alle intimidazioni del linguaggio. Mi
sembra che tali armi discorsive siano almeno di tre tipi.
1. Ogni sistema discorsivo forte è una rappresentazione (nel
senso teatrale: uno show), una messinscena di argomenti, ag­
gressioni, repliche, formule, un mimodramma nel quale il sog­
getto può investire il proprio godimento isterico.
2. Esistono indubbiamente delle figure di sistema (come si
diceva un tempo delle figure rettoriche), delle forme parziali
di discorso, costituite nell’intento di dare al socioletto una
consistenza assoluta, di rendere il sistema chiuso, di proteg­
gerlo ed escluderne irrimediabilmente l’avversario: per esem­
pio, quando la psicanalisi dice: «Il rifiuto della psicanalisi è
ιι6 LA GUERRA DEI LINGUAGGI

una resistenza che appartiene a sua volta al campo analitico »,


si tratta di una figura di sistema. Piu generalmente, le figure
di sistema si prefiggono di includere Γaltro nel discorso come
un semplice oggetto, per meglio escluderlo dalla comunità dei
soggetti che parlano il linguaggio forte.
3. Infine, e più profondamente, ci si può chiedere se la fra­
se, come struttura sintattica praticamente chiusa, non sia già
di per sé un’arma, un operatore di intimidazione: ogni frase
conclusa, per la sua struttura assertiva, ha qualcosa di impera­
tivo, di comminatorio. La disorganizzazione del soggetto, il
suo timoroso asservimento ai padroni del linguaggio, si tradu­
ce sempre in frasi incomplete dalla sostanza e dai contorni in­
decisi. In realtà, nella vita di tutti i giorni, nella vita apparen­
temente libera, noi non parliamo per frasi. E, inversamente,
esiste una padronanza della frase che può essere assimilata a
un potere: essere forti significa prima di tutto concludere le
proprie frasi. La grammatica stessa non descrive forse la frase
in termini di potere, di gerarchia: soggetto, subordinata, com­
plemento, retto da, ecc?
Dal momento che la guerra dei linguaggi è generale, che co­
sa dobbiamo fare? Dico noi, intellettuali, scrittori, esperti di
pratiche discorsive. È evidente che non possiamo fuggire: per
cultura, per scelta politica, dobbiamo impegnarci, partecipare
a uno dei linguaggi particolari nei quali ci costringono il no­
stro mondo, la nostra storia. E tuttavia non possiamo rinun­
ciare al godimento, foss’anche utopistico, di un linguaggio
non piu situato, non piu alienato. Dobbiamo perciò tenere in
una sola mano le due redini dell’impegno e del godimento, as­
sumere una filosofia plurale dei linguaggi. Ma altrove
che rimane, per cosi dire, dentro, ha un nome: è il Testo. Il Te­
sto, che non è piu Yopera, bensì una produzione di scrittura, il
cui consumo sociale non è certo neutro (il Testo è letto poco),
ma la cui produzione è sovranamente libera, dal momento che
(ancora Nietzsche) non rispetta il Tutto (la Legge) del lin­
guaggio.
Solo la scrittura può, infatti, assumere il carattere di finzio­
ne proprio delle parlate piu serie, o addirittura piu violente,
per ricollocarle nella loro distanza teatrale; posso, per esem­
pio, adottare il discorso psicanalitico nella sua ricchezza ed
estensione, ma usarlo in petto1come se fosse un linguaggio di
romanzo.

[In italiano nel testo].


LA GUERRA DEI LINGUAGGI UT
D ’altra parte, solo la scrittura può mescolare le parlate (psi­
canalitica, marxista, strutturalista, per esempio), costituire
una eterologia del sapere, conferire al linguaggio una dimen­
sione carnascialesca.
Ed. infine, solo la scrittura può dipanarsi senza luogo di on-
gine; essa sola può eludere ogni regola rettorica, ogni legge di
genere, ogni arroganza di sistema: la scrittura è atopica\ ri­
spetto alla guerra dei linguaggi, che non sopprime ma sposta,
essa anticipa uno stato delle pratiche di lettura e di scrittura
in cui circola il desiderio, non il dominio.

1973, Le conferenze dell’Associazione Culturale Italiana.


L ’analisi rettorica

La letteratura si presenta a noi come istituzione e come ope­


ra. Come istituzione, essa raccoglie tutti gli usi e tutte le pra­
tiche che regolano la circolazione della cosa scritta in una data
società: status sociale e ideologico dello scrittore, modi di dif­
fusione, condizioni di consumo, sanzioni della critica. Come
opera, è costituita essenzialmente da un messaggio verbale,
scritto, di un certo tipo. Vorrei qui attenermi all’opera-
oggetto, suggerendo di occuparci di un campo ancora poco
esplorato (anche se il termine è antichissimo), quello della ret­
torica.
L’opera letteraria comprende elementi che non sono pecu­
liari alla letteratura: ne citerò almeno uno, perché lo sviluppo
delle comunicazioni di massa permette oggi di ritrovarlo in­
contestabilmente nei film, nei fumetti e forse nella cronaca,
cioè non nel romanzo: si tratta del racconto, della storia, del­
l’argomentazione, di quella che Souriau ha chiamato, a propo­
sito del film, la diegesi. Esiste una forma diegetica comune ad
arti differenti, e che oggi si comincia ad analizzare con metodi
nuovi ispirati a Propp. Tuttavia, rispetto a quell’elemento di
fabulazione che condivide con altre creazioni, la letteratura
ne possiede un altro che la definisce specificamente: il suo lin­
guaggio. Già i formalisti russi avevano tentato di isolare e
trattare tale elemento con il nome di Literatumost, di «lettera­
rietà»; Jakobson lo chiama poetica; la poetica è l’analisi che
permette di rispondere a questa domanda: che cosa fa di un
messaggio verbale un’opera d ’arte? Da parte mia, chiamerò
rettorica tale elemento specifico, in modo da evitare ogni re­
strizione della poetica alla poesia e per sottolineare che si trat­
ta di un piano generale del linguaggio comune a tutti i generi,
sia alla prosa sia alla poesia. Vorrei chiedermi se è possibile un
confronto tra società e rettorica, e in quali condizioni.
Per secoli, dall’antichità al xix secolo, della rettorica è stata
L’ANALISI RETTORICA

data una definizione al tempo stesso funzionale e tecnica: è


un’arte, cioè un insieme di regole, che consente sia di persua­
dere sia, piu tardi, di esprimersi bene. Questa finalità dichia­
rata fa evidentemente della rettorica un’istituzione sociale, e
paradossalmente il legame che unisce le forme di linguaggio
alle società è molto piu immediato del rapporto propriamente
ideologico; nella Grecia antica la rettorica nacque per l’ap­
punto dai processi di proprietà seguiti alle esazioni dei Tiran­
ni nella Sicilia del v secolo; nella società borghese l’arte di
parlare secondo certe regole è contemporaneamente un segno
del potere sociale e uno strumento di tale potere; non è privo
di significato il fatto che la classe che corona gli studi secon­
dari del giovane borghese si chiami classe di rettorica. Non ci
soffermeremo tuttavia su quel rapporto immediato (e che si
esaurì rapidamente), perché, come è noto, se è vero che il bi­
sogno sociale genera certe funzioni, esse, una volta messe in
moto o, come si dice, determinate, acquisiscono un’autonomia
imprevista e si aprono a nuovi significati. Alla definizione
funzionale della rettorica sostituirei perciò, oggi, una defini­
zione immanente, strutturale o, per essere ancora piu precisi,
informazionale.
Com’è risaputo, ogni messaggio (e l’opera letteraria ne è
uno) comprende almeno un piano dell’espressione, o piano
dei significanti, e un piano del contenuto, o piano dei signifi­
cati; l’interrelazione tra questi due piani costituisce il segno (o
l’insieme dei segni). Tuttavia, un messaggio che procede da
quest’ordine elementare può, per differenziazione o amplifi­
cazione, diventare il semplice piano di espressione di un se­
condo messaggio, estensivo rispetto al primo; insomma, il se­
gno del primo messaggio diventa il significante del secondo.
Ci troviamo cosi in presenza di due sistemi semiotici intrec­
ciati l’uno all’altro in modo regolare; Hjelmslev ha dato al se­
condo sistema cosi costituitosi il nome di semiotica connotati­
va (per contrapposizione al metalinguaggio, nel quale il segno
del primo messaggio diventa il significato e non il significante
del secondo messaggio). In quanto linguaggio, la letteratura è
evidentemente una semiotica connotativa; in un testo lettera­
rio, un primo sistema di significazione, ossia la lingua (per
esempio, il francese), serve da semplice significante a un se­
condo messaggio, il cui significato è differente dai significati
della lingua; se leggo: Fate venire le comodità della conversazio­
ne, percepisco un messaggio denotato che ordina di far porta­
re delle poltrone, ma anche un messaggio connotato il cui si-
L’ANALISI RETTORICA 12 I

gnificato è qui il «preziosismo». In termini di informazione,


si definirà perciò la letteratura come un duplice sistema
denotato-connotato; in tale sistema il piano manifesto e spe­
cifico, quello dei significanti del secondo sistema, costituirà la
Rettorica; e i significanti rettorici saranno i connotatori.
Definito in termini di informazione, il messaggio letterario
può e deve essere sottoposto a un’esplorazione sistematica,
senza la quale non sarà mai possibile confrontarlo con la Sto­
ria che lo produce, dal momento che Tessere storico di quel
messaggio non è solo ciò che esso dice, ma anche il modo in
cui è fabbricato. E indubbio che la linguistica della connota­
zione, da non confondere con la vecchia stilistica, poiché que-
st’ultima, studiando dei mezzi espressivi, rimaneva ancorata
al piano della parola, mentre la prima, studiando dei codici, si
pone sul piano della lingua, non è ancora stata costituita. Cer­
te indicazioni dei linguisti contemporanei consentono tutta­
via di proporre alPanalisi rettorica almeno due direzioni.
La prima è stata delineata da Jakobson *, il quale distingue
in ogni messaggio sei fattori: un em ettitore/mittente, un de­
stinatario, un contesto o referente, un contatto, un codice e,
infine, il messaggio stesso; a ciascun fattore corrisponde una
funzione del linguaggio; ogni discorso mescola la maggior par­
te di tali funzioni, ma è marcato dal prevalere di questa o
quella funzione sulle altre. Per esempio, se si pone l’accento
su chi emette il messaggio, domina la funzione espressiva o
emotiva; se lo si pone sul destinatario, la funzione è connota­
tiva (esortativa o di supplica); se sul referente, il discorso è de­
notativo (è il caso piu comune); se sul contatto (tra mittente e
destinatario), la funzione fatica rinvia a tutti i segni destinati
a mantenere la comunicazione tra gli interlocutori; la funzio­
ne metalinguistica, o di elucidazione, mette l’accento sul ri­
corso al codice; infine, quando sono il messaggio stesso, la sua
configurazione, il lato palpabile dei suoi segni ad essere sotto-
lineati, il discorso è poetico, nel senso lato del termine: evi­
dentemente è questo il caso della letteratura; si potrebbe dire
che la letteratura (opera o testo) è in modo specifico un mes­
saggio che mette l’accento su se stesso. Questa definizione
permette senz’altro di capire meglio come la funzione comu­
nicativa non esaurisca affatto l’opera letteraria, ma quest’ul­
tima, resistendo alle definizioni puramente funzionali, si pre-

1 Essais de linguistique générale, Minuit, Paris 1963, cap. xi (trad. it. Milano
1966).
senti sempre in un certo modo come una tautologia, dal mo­
mento che le funzioni referenziali del messaggio rimangono in
definitiva dipendenti dalla funzione strutturale. La coesione
e la dichiarazione della funzione poetica possono tuttavia va­
riare con la Storia; e d ’altra parte, sincronicamente, questa
stessa funzione può essere assorbita da altre funzioni, feno­
meno che attenua, in un certo qual modo, il tasso di specifici­
tà letteraria dell’opera. La definizione di Jakobson comporta
dunque una prospettiva sociologica, dato che può consentire
di valutare sia il divenire del linguaggio letterario sia la sua si­
tuazione rispetto ai linguaggi non letterari.
È possibile un’altra esplorazione del messaggio letterario,
questa volta di tipo distribuzionalista. Com’è noto, tutta una
parte della linguistica contemporanea cerca di definire le pa­
role non tanto per il loro senso quanto per le associazioni sin­
tagmatiche in cui possono essere collocate; in termini appros­
simativi, le parole sono concatenate le une alle altre secondo
una certa scala di probabilità: cane è spesso associato ad ab­
baiare, ma difficilmente a miagolare, anche se dal punto di vi­
sta sintattico nulla vieta l’associazione di un verbo e di un
soggetto; a questo «riempire» sintagmaticamente il segno si
dà talora il nome di catalisi. La catalisi ha, di fatto, uno stretto
rapporto con la specificità del linguaggio letterario; entro certi
limiti, quelli appunto da studiare, piu la catalisi è aberrante
piu la letteratura è evidente. Naturalmente, se ci si limita alle
unità letterali, la letteratura non è affatto incompatibile con
una catalisi normale; in: il cielo è blu come un'arancia, nessuna
associazione letterale è deviante; se però ci si pone a un livello
superiore di unità, quello per l’appunto dei connotatori, si ri­
trova facilmente lo scarto catalitico, dal momento che è stati­
sticamente aberrante associare l’essere del blu con l’essere
dell’arancia. Il messaggio letterario può dunque essere defini­
to come uno scarto nell’associazione dei segni (P. Guiraud);
operativamente, per esempio, di fronte ai compiti normativi
della traduzione automatica, la letteratura potrebbe definirsi
come l’insieme dei casi insolubili proposti alla macchina. Det­
to in un altro modo, la letteratura è essenzialmente un sistema
costoso di informazione. Se è vero però che la letteratura è
sempre un lusso, esistono varie economie di lusso, che posso­
no mutare con le epoche e le società; nella letteratura classica,
almeno in quella appartenente alla generazione anti-preziosa,
le associazioni sintagmatiche rimangono entro margini nor­
mali, a livello denotativo, ed è esplicitamente il livello retto-
L’ANALISI RETTORICA 123

rico a sostenere l’alto costo dell’informazione; per contro, nel­


la poesia surrealista (prendendo in considerazione due estre­
mi) le associazioni sono aberranti e l’informazione costosa an­
che al livello delle unità elementari. Anche in questo caso, si
può ragionevolmente sperare che la definizione distribuziona-
lista del messaggio letterario faccia affiorare certi legami tra
ciascuna società e l’economia di informazione che assegna alla
propria letteratura.
Cosi, la forma stessa del messaggio letterario si trova in un
certo rapporto con la Storia e con la società, ma tale rapporto
è particolare e non investe necessariamente la storia e la socio­
logia dei contenuti. I connotatoti formano gli elementi di un
codice, e la validità di tale codice può essere piu o meno lun­
ga; il codice classico (in senso lato) è durato per secoli in Oc­
cidente, dato che la stessa rettorica anima un discorso di Cice­
rone o un sermone di Bossuet; è peraltro probabile che il co­
dice in questione abbia subito un profondo mutamento nella
seconda metà del xix secolo, anche se ancor oggi da esso di­
pendono le scritture tradizionali. Questo mutamento è da
mettere senz’altro in rapporto con la crisi della coscienza bor­
ghese; il problema non consiste tuttavia nel sapere se l’uno ri­
flette analogicamente l’altra, ma se, di fronte a un certo ordi­
ne di fenomeni, la storia non intervenga a modo suo esclusiva-
mente per modificare il ritmo della loro diacronia. Infatti,
non appena si tratta di forme (ed è questo il caso del codice
rettorico), i processi di cambiamento sono piu simili a una tra­
slazione che a un’evoluzione: si ha, in un certo senso, un esau­
rimento successivo dei mutamenti possibili, e la Storia è chia­
mata a modificarne il ritmo, non le forme in quanto tali; esiste
forse un certo divenire endogeno della struttura del messaggio
letterario, analogo a quello che regola i cambiamenti di moda.
È possibile valutare anche in un altro modo il rapporto tra
rettorica e società: misurando, per cosi dire, il grado di « sin­
cerità» del codice rettorico. Il messaggio letterario dell’epoca
classica mostrava deliberatamente la sua connotazione, dal
momento che le figure costituivano un codice trasmissibile
per apprendimento (ne sono la prova i numerosi trattati del­
l’epoca) e che solo attingendo a quel codice si poteva formare
un messaggio riconosciuto. Com’è noto, oggi quella rettorica
è andata in frantumi; proprio studiandone i resti, i sostituti o
le lacune, però, sarebbe forse possibile dar conto della molte­
plicità delle scritture e ritrovare per ciascuna di esse il signifi­
cato che possiede nella nostra società. Si potrebbe cosi affron-
L’ANALISI RETTORICA

tare in modo preciso il problema della divisione tra la buona


letteratura e le altre, che pure hanno una notevole importanza,
soprattutto in una società di massa. Anche in questo caso, pe­
rò, non ci si deve attendere un rapporto analogico tra un
gruppo di utenti e la sua rettorica; bisognerà invece ricostitui­
re un sistema generale di sottocodici, ciascuno dei quali si de­
finisca in un certo stato di società in base alle sue differenze,
distanze e identità nei confronti dei suoi vicini: letteratura di
élite e cultura di massa, avanguardia e tradizione costituisco­
no formalmente codici differenti e contemporanei, posti,
secondo l’espressione di Merleau-Ponty, in «modulazione
di coesistenza»; bisognerà studiare proprio quest’insieme di
codici simultanei, la cui pluralità è stata riconosciuta da
Jakobson2; e, dal momento che un codice è a sua volta solo
un certo modo di distribuire un insieme chiuso di segni, l’ana­
lisi rettorica dovrebbe essere di diretta competenza non della
sociologia in senso stretto, bensì di quella socio-logica, o so­
ciologia delle forme di classificazione, che già postulavano
Durkheim e Mauss.
Queste sono, in una presentazione rapida e astratta, le pro­
spettive generali dell’analisi rettorica. Il progetto di tale ana­
lisi non è nuovo, ma i recenti sviluppi della linguistica struttu­
rale e della teoria dell’informazione le forniscono rinnovate
possibilità di indagine; soprattutto essa richiede, però, da noi
un atteggiamento metodologico forse nuovo: infatti, la natura
formale dell’oggetto del suo studio (il· messaggio letterario)
obbliga a descrivere in modo immanente ed esaustivo il codi­
ce rettorico (o i codici rettorici) prima di stabilire un rapporto
tra questo o quei codici e la società e la Storia che li produco­
no e li consumano.

Convegno Goldmann, 1966, in Littérature et Société, Éditions de l’Insti­


tut de sociologie de l’Université libre di Bruxelles, 1967.

2 Essais de linguistique générale cit., p. 213 [trad. it. cit.].


Lo stile e la sua immagine

Chiedo il permesso di partire da una considerazione perso­


nale: da circa v en tanni la mia ricerca ha come oggetto il lin­
guaggio letterario, senza che io riesca a riconoscermi del tutto
nel ruolo del critico o in quello del linguista. Vorrei trarre
spunto da questa situazione ambigua per trattare di una no­
zione impura, che è al tempo stesso una forma metaforica e
un concetto teorico. Tale nozione è un 'immagine. Non riten­
go infatti che il lavoro scientifico possa procedere senza una
certa immagine del proprio oggetto (è noto che non vi è nulla
di piu marcatamente metaforico del linguaggio dei matematici
o di quello dei geografi); e non credo neppure che l’immagine
intellettuale, ereditata dalle antiche cosmogonie pitagoriche,
nel contempo spaziali, musicali e astratte, sia priva di un va­
lore teorico in grado di preservarla dal contingente, senza pe­
raltro sviarla esageratamente verso l’astrazione. Voglio dun­
que interrogare un’immagine, o piu esattamente una visione'.
come vediamo lo stile? Qual è l’immagine dello stile che mi dà
fastidio, quale quella che mi auguro?
Semplificando molto (è il diritto della visione), mi sembra
che lo stile (lasciando al termine il suo senso piu corrente) sia
sempre stato inteso all’interno di un sistema binario o, se si
vuole, di un paradigma mitologico a due termini; termini che,
ovviamente, hanno cambiato nome e persino contenuto, a se­
conda delle epoche e delle scuole. Soffermiamoci su due di
queste contrapposizioni.
La prima e piu antica (che ancora perdura, o almeno è mol­
to frequente, nell’insegnamento della letteratura) è quella del
Fondo e della Forma, proveniente, com’è noto, da una delle
prime classificazioni della Rettorica classica, che contrappo­
neva Res e Verba: da Res (ovvero materiali dimostrativi del di­
scorso) dipendeva YInventio, o ricerca di quel che si poteva di­
re di un soggetto (quaestio); da Verba dipendeva YElocutio (ο
I 2Ó LO STILE E LA SUA IMMAGINE

trasformazione di quei materiali in forma verbale), che corri­


spondeva approssimativamente al nostro stile. Il rapporto tra
Fondo e Forma era un rapporto fenomenologico: la Forma era
considerata l’apparenza o la veste del Fondo, che di essa era la
verità o il corpo; le metafore legate alla Forma (allo stile) era­
no perciò di ordine decorativo: figure, coloù, sfumature; oppu­
re, ancora, il rapporto tra Fondo e Forma era vissuto come
espressivo o aletico: il letterato (o il commentatore) doveva
stabilire un rapporto giusto tra il fondo (la verità) e la forma
(l’apparenza), tra il messaggio (come contenuto) e il suo me­
dium (lo stile), in modo che tra quei due termini concentrici
(essendo l’uno nell altro) vi fosse una garanzia reciproca. Tale
garanzia è stata oggetto di un problema storico: può forse la
Forma mascherare il Fondo, o deve invece essere al suovservi­
zio (al punto da non essere piu una Forma codificata)? È il di­
battito che contrappone nei secoli la rettorica aristotelica (poi
gesuitica) a quella platonica (poi pascaliana). Questa visione
sussiste, nonostante il cambiamento terminologico, quando
consideriamo il testo come la sovrapposizione di un significato
e di un significante, dove il significato è fatalmente vissuto (mi
riferisco qui a una visione piu o meno condivisa) come un se­
greto che si nasconde dietro il significante.
La seconda contrapposizione, molto piu recente e di aspet­
to piu scientifico, tributaria in gran parte del paradigma saus-
suriano Lingua/Parola (o Codice/Messaggio), è quella della Nor­
ma e dello Scarto. Lo stile è visto allora come l’eccezione (pe­
raltro codificata) ad una regola: è l’aberrazione (individuale
eppure istituzionale) di un uso corrente, inteso, a seconda dei
casi, sia come verbale (se si definisce la norma attraverso il
linguaggio parlato) sia come prosastico (se si contrappone la
Poesia ad «altro»). Come la contrapposizione Fondo/Forma
implica una visione fenomenologica, cosi la contrapposizione
Norma/Scarto ne implica una, in ultima istanza, morale (al ri­
paro della logica dell'endoxa): riduzione del sistematico al so­
ciologico (il codice è ciò che il maggior numero di utenti ga­
rantisce statisticamente) e dal sociologico al normale, luogo di
una specie di natura sociale. La letteratura, spazio dello stile,
e proprio perché è in modo specifico tale spazio, assume cosi
una funzione sciamanica, ben descritta da Lévi-Strauss nella
sua Introduction à Γoeuvre de M. Mauss: è il luogo dell’anoma­
lia (verbale), cosi com’è fissato, riconosciuto e assunto dalla
società nel momento in cui onora i propri scrittori, cosi come
il gruppo etnografico investe dell’extra-naturale lo stregone
127
(quasi ascesso di fissazione che delimita la malattia) per poter­
lo recuperare in un processo di comunicazione collettiva.
Vorrei partire da queste due visioni, non tanto per distrug­
gerle quanto per renderle piu complesse.

Prendiamo innanzitutto la contrapposizione tra Fondo e


Forma, tra Significato e Significante. Essa comporta indub­
biamente una certa parte, irriducibile, di verità. L'Analisi
strutturale del racconto, nelle sue acquisizioni e promesse, è
interamente fondata sulla convinzione (e sulla prova pratica)
che sia possibile trasformare un testo dato in una versione piu
schematica, il cui metalinguaggio non sarà piu il linguaggio in­
tegrale del testo di origine, anche se Pidentità narrativa di
quel testo rimarrà inalterata: per elencare delle funzioni, rico­
stituire sequenze o distribuire aitanti, per mettere in eviden­
za, insomma, una grammatica narrativa che non è piu quella
della lingua vernacolare del testo, è necessario scollare la pel­
licola stilistica (o piu generalmente elocutiva, enunciativa) da
un altro strato di sensi secondi (narrativi), rispetto ai quali i
tratti stilistici sono privi di pertinenza: si possono variare sen­
za alterare la struttura. Che Balzac dica di un vecchio inquie­
tante che «conservava sulle labbra bluastre un riso fisso e ir­
rigidito, un riso implacabile e sarcastico come quello della te­
sta di un morto » ha esattamente la stessa funzione narrativa
(o, piu precisamente, semantica) che avrebbe se trasformassi­
mo la frase ed enunciassimo che il vecchio aveva in sé qualco­
sa di funereo e di fantastico (un sema irriducibile, questo, in
quanto funzionalmente necessario al seguito della storia).
L'errore consisterebbe tuttavia - ed è qui che dobbiamo
modificare la nostra visione del Fondo e della Forma - nel-
l’interrompere prematuramente la sottrazione dello stile; ciò
che tale sottrazione (possibile, come si è detto) denuda non è
un fondo, un significato, ma un'altra forma, un altro signifi­
cante, o, se si preferisce un vocabolo piu neutro, un altro li­
vello, che non è mai Vultimo (il testo, infatti, si articola sempre
su codici che non esaurisce); i significati sono forme, come è
noto sulla scorta di Hjelmslev, o meglio ancora delle recenti
ipotesi degli psicanalisti, degli antropologi, dei filosofi. Ana­
lizzando di recente una novella di Balzac, mi è sembrato di
poter mettere in evidenza, al di fuori del piano stilistico, di
cui non mi sono occupato, e rimanendo all'interno del volume
significato, un gioco di cinque diversi codici: dell’azione, er­
meneutico, semico, culturale e simbolico; le «citazioni» che
128 LO STILE E LA SUA IMMAGINE

l’autore (o piu esattamente il realizzatore del testo) estrae da


tali codici sono giustapposte, mescolate, sovrapposte all’inter­
no di una stessa unità enunciativa (una sola frase, per esem­
pio, o piu generalmente una «lessia» o unità di lettura), in
modo da formare una treccia, un tessuto, oppure etimologica­
mente) un testo. Ecco un esempio; lo scultore Sarrasine è in­
namorato di una primadonna, e ignora che è un castrato; la
rapisce e la presunta cantante si difende: «L’Italiana era ar­
mata di un pugnale. “Se .ti avvicini, - disse, - sarò costretta a
conficcarti quest’arma nel cuore” ». Esiste forse, dietro l’e­
nunciato, un significato? Niente affatto; la frase è come la
treccia che formano più codici: un codice linguistico (quello
della lingua francese), uno rettorico (antonomasia, inciso del-
Yinquity apostrofe), uno dell’azione (la difesa armata della vit­
tima è un termine della sequenza Ratto) y uno ermeneutico (il
castrato bara sul proprio sesso fingendo di difendere la sua
virtù di donna) e uno simbolico (il coltello è un simbolo della
castrazione).
Non possiamo più perciò vedere il testo come la concatena­
zione binaria di un fondo e di una forma; il testo non è dupli­
ce, bensì molteplice; nel testo ci sono soltanto forme, o, più
esattamente, il testo nel suo insieme non è altro che una mol­
teplicità di forme - senza fondo. Si dirà metaforicamente che
il testo letterario è una stereografia: né melodico né armonico
(o, almeno, non senza mediazioni), è decisamente fondato sul
contrappunto; mescola le voci in un volume e non secondo
una linea, foss’anche duplice. Indubbiamente, tra queste voci
(questi codici, sistemi, forme) alcune sono più specificamente
legate alla sostanza verbale, al gioco verbale (la linguistica, la
rettorica), ma si tratta di una distinzione storica, che ha valo­
re solo per la letteratura del Significato (quella che general­
mente noi studiamo); basta infatti pensare ad alcuni testi mo­
derni per vedere che in essi il significato (narrativo, logico,
simbolico, psicologico) sfugge ancora di più, e di conseguenza
non esiste più nessuna possibilità di opporre (neppure intro­
ducendo sfumature) sistemi di forme a sistemi di contenuti: lo
stile è un concetto storico (e non universale) che è pertinente
soltanto per opere storiche. All’interno di quella letteratura,
ha forse una sua precisa funzione? Penso di si. Il sistema stili­
stico, che è un sistema come gli altri, tra gli altri, ha una fun­
zione di naturalizzazione, o di familiarizzazione, o di dome­
sticazione: le unità dei codici di contenuto sono infatti sotto­
poste a una rozza discontinuità (le azioni sono separate, le no-
129

tazioni caratteriali o simboliche sono sparse, il cammino verso


la verità è frammentato, ritardato); il linguaggio, nelle specie
elementari della frase, del periodo, del paragrafo, sovrappone
a tale discontinuità semantica, che è fondata su un piano di­
scorsivo, l’apparenza di una continuità; infatti, anche se il lin­
guaggio è a sua volta discontinuo, la sua struttura è cosi radi­
cata nell’esperienza di ogni uomo che egli la vive come una
vera e propria natura: non si parla forse di «flusso del discor­
so»? Che cos’è piu familiare, piu evidente, piu naturale di una
frase letta? Lo stile «ricopre», come una tovaglia, le articola­
zioni semantiche del contenuto; metonimicamente, esso natu­
ralizza la storia raccontata, la rende innocente.

Volgiamoci ora verso la seconda contrapposizione, quella


tra la Norma e lo Scarto, che è in realtà quella tra Codice e
Messaggio, dal momento che lo stile (o l’effetto letterario) è
vissuto in essa come un messaggio aberrante che «sorprende»
il codice. Anche in questo caso, dobbiamo affinare la nostra
visione, partendo dalla contrapposizione e non distruggen­
dola.
I tratti di stile sono indiscutibilmente attinti da un codice,
o almeno da uno spazio sistematico (questa distinzione pare
necessaria se si vuole rispettare la possibilità di un multi-
codice oppure l’esistenza di un significante il cui spazio sia
soggetto a regole eppure infinito, di un paradigma non satura­
bile): lo stile è una distanza, una differenza; ma rispetto a che
cosa? Il piu delle volte, il termine di riferimento è, implicita­
mente o esplicitamente, la lingua parlata (detta «corrente»,
«normale»). Questa proposizione mi sembra al tempo stesso
eccessiva e insufficiente: eccessiva perché i codici di riferi­
mento (o di differenza) dello stile sono numerosi, e la lingua
parlata non è mai altro che uno di quei codici (non esiste, del
resto, nessun motivo di privilegiarla facendone la lingua prin­
ceps, l’incarnazione del codice fondamentale, il riferimento
assoluto); insufficiente perché, quando si rinvia alla contrap­
posizione tra parlato e scritto, non la si sfrutta in tutta la sua
profondità. Una parola su quest’ultimo punto.
Com’è noto, l’oggetto della linguistica, quello che determi­
na nel contempo il suo lavoro e i suoi limiti, è la frase (quali
che siano le difficoltà di definirla): al di là della frase non vi è
piu linguistica, perché qui comincia il discorso, e le regole
combinatorie delle frasi sono diverse da quelle dei monemi;
neppure al di qua, però, esiste una linguistica, poiché si ritiene
LO STILE E LA SUA IMMAGINE

di trovarvi soltanto sintagmi informi, incompleti, indegni: si


pensa che solo la frase possa dare una garanzia di organizza­
zione, di struttura, di unità. Ma il linguaggio parlato, che è
anche, non dimentichiamolo, il linguaggio interiore \ è es­
senzialmente un linguaggio sub-frastico; può certamente com­
portare frasi finite, ma tale compimento non è richiesto dal
successo e dall’economia della comunicazione, cioè dal codice
del genere: parliamo continuamente senza finire le frasi.
Ascoltate una conversazione: quante sono le frasi dalla strut-,
tura incompleta o ambigua, quante le subordinate senza prin­
cipale o il cui legame è indeterminabile, quanti i sostantivi
senza verbo, gli avversativi senza correlativo, ecc.? Al punto
che è scorretto parlare ancora di «frasi», sia pure per dichia­
rarle incomplete o mal formate; sarebbe meglio parlare, in
modo piu neutro, di sintagmi la cui aggregazione resta da de­
scrivere. Aprite invece un libro: non una frase che non sia ter­
minata, attraverso una sovradeterminazione di operatori, al
tempo stesso strutturali, ritmici e di punteggiatura.
Ne derivano, teoricamente, due linguistiche autonome:
una linguistica del sintagma e una della frase, una della parola
parlata e una della traccia scritta. Ristabilendo questa distin­
zione in tutta la sua profondità, non faremmo altro che segui­
re le raccomandazioni della filosofia, che oggi dà alla parola e
alla scrittura una diversa ontologia; è per un abuso paradossa­
le, essa afferma, che la linguistica si occupa sempre e soltanto
dello scritto (del linguaggio frastico), pretendendo nel con­
tempo che la forma canonica del linguaggio sia la parola, di
cui la scrittura sarebbe soltanto la « trascrizione ».
Ci manca, com’è noto, una grammatica della lingua parlata
(ma tale grammatica è forse possibile? la nozione stessa di
grammatica non sarebbe travolta da questa divisione della co­
municazione?), dal momento che disponiamo soltanto di una
grammatica della frase. Tale carenza determina una nuova di­
stribuzione dei linguaggi: quelli della frase e gli altri. I primi
sono contrassegnati tutti da un carattere vincolante, da una
prescrizione obbligatoria: terminare la frase. Lo stile è eviden­
temente uno di questi linguaggi scritti e il suo carattere gene­
rico (che lo riconduce al genere dello scritto, ma non lo distin­
gue ancora dai suoi vicini) consiste nell’obbligo di chiudere le
frasi: per la sua finitezza, per la sua «proprietà», la frase si di­
chiara scritta, in cammino verso il suo destino letterario: la1

1 Qui si è dovuto ristabilire il testo [Nota dell'editore francese].


frase è già, in sé, un oggetto stilistico: l’assenza di sbavature,
nella quale trova compimento, è in un certo senso il primo cri­
terio dello stile; ciò è evidente da due valori propriamente sti­
listici: la semplicità e il conio: sono entrambi effetti di propne-
tày il primo litotico, l’altro enfatico: se una certa frase di Clau­
del («La notte è cosi calma che mi sembra salata») è al tempo
stesso semplice e di conio, è perché in essa la frase si compie
nella sua pienezza necessaria e sufficiente. Ciò può essere ri­
collegato a diversi fatti storici: innanzitutto, una certa eredità
gnomica del linguaggio scritto (sentenze divinatorie o formule
religiose, la cui chiusura, tipicamente frastica, garantiva la po­
lisemia); in seguito, il mito umanistico della frase viva, emana­
zione di un modello organico al tempo stesso chiuso e genera­
tore (mito che trova espressione nel trattato Del Sublime); in­
fine, i tentativi da parte della modernità, a dire il vero ancora
poco efficaci, tanto la letteratura, anche se sovversiva, è lega­
ta alla frase, per far esplodere la chiusura frastica (il Coup de
dés di Mallarmé, l’iperprolifer azione della frase proustiana, la
distruzione della frase tipografica nella poesia moderna).
La frase, nella sua chiusura e proprietà, mi appare perciò la
determinazione fondamentale della scrittura. Diventano cosi
possibili molti codici scritti (a dire il vero, mal definiti): scrit­
tura colta, universitaria, amministrativa, giornalistica, ecc.,
ciascuna delle quali può essere descritta in funzione dei suoi
fruitori, del suo lessico e dei suoi protocolli sintattici (inver­
sioni, figure, clausole, tutti tratti che contraddistinguono, con
la loro presenza o censura, l’identità di una scrittura colletti­
va). Tra tutte queste scritture, e prima ancora di parlare di sti­
le nel senso individuale in cui noi lo intendiamo di solito, vi è
il linguaggio letterario, scrittura autenticamente collettiva del­
la quale bisognerebbe elencare i tratti sistematici (e non sol­
tanto quelli storici, come si è fatto finora): per esempio, che
cosa è permesso in un testo letterario, ma non in un articolo
universitario: inversioni, clausole, ordine dei complementi, li­
cenze sintattiche, arcaismi, figure, lessico? Si deve innanzitut­
to cogliere non l’idioletto di un autore bensì quello di un’isti­
tuzione (la letteratura).
Ma non è tutto. La scrittura letteraria non deve essere si­
tuata soltanto rispetto a quelle che piu le sono vicine, ma an­
che in relazione ai suoi modelli. Per modelli non intendo fon­
ti, nel senso filologico del termine (si noti en passant che il pro­
blema delle fonti è quasi sempre stato posto sul piano del con­
tenuto), bensì dei pattems sintagmatici, dei frammenti tipici
LO STILE E LA SUA IMMAGINE

di frasi, delle formule, se vogliamo la cui origine non è rintrac­


ciabile ma che fanno parte di una memoria collettiva della let­
teratura. Scrivere significa allora lasciar venire a sé quei mo­
delli e trasformarli (nel senso che questo termine ha assunto in
linguistica).
In proposito, segnalerò liberamente tre fatti, attinti a un'e­
sperienza recente. Il primo è una testimonianza: avendo lavo­
rato a lungo su una novella di Balzac, ora mi sorprendo spesso
a trasporre istintivamente in diverse circostanze della vita
brandelli di frasi, formulazioni tratte spontaneamente dal te­
sto balzachiano; non mi interessa qui il carattere mnemonico
(banale) del fenomeno, ma il fatto che evidentemente scnvo la
vita (è vero nella mia testa) attraverso quelle formule ereditate
da una scrittura precedente; o, piu esattamente, la vita è pro­
prio ciò che ci perviene già costituito come una scrittura lette­
raria: la scrittura nascente è una scrittura passata. Il secondo
fatto è un esempio di trasformazione esterna. Quando Balzac
scrive: «Ero immerso in una di quelle fantasticherie profonde
che capitano a tutti, anche a un uomo frivolo, nel corso delle
feste piu tumultuose», la frase, fatta eccezione per l’accenno
personale («Ero sprofondato»), non è altro che la trasforma­
zione di un proverbio: A feste tumultuose, fantastichene profon­
de. In altri termini, l’enunciazione letteraria rinvia, per tra­
sformazione, a un’altra struttura sintattica: il pnmo contenuto
della frase è un’altra forma (qui, la forma gnomica) e lo stile è
frutto di un lavoro di trasformazione che non si esercita sulle
idee ma sulle forme; rimarrebbero certo da rintracciare i prin­
cipali stereotipi (come il proverbio) sulla cui base il linguaggio
letterario si inventa e si genera. Il terzo fatto è un esempio di
trasformazione interna (che l’autore genera a partire dalla sua
stessa formula): a un certo punto del suo soggiorno a Balbec,
il narratore proustiano cerca di iniziare una conversazione
con il giovane lift del Grand Hôtel, ma costui non gli rispon­
de, dice Proust, «fosse stupore per le mie parole, attenzione al
proprio lavoro, scrupolo di etichetta, durezza di udito, rispet­
to del luogo, timore del pericolo, lentezza di intelletto, o con­
segna del direttore»; la ripetizione della stessa formula sintat­
tica (il nome e il suo complemento) è evidentemente un gioco,
e lo stile consiste allora: i . nel trasformare una subordinata
virtuale in sintagma nominale perché non sentiva bene diventa
durezza d'udito); 2. nel ripetere il piu a lungo possibile tale for­
mula trasformazionale in contenuti diversi.
Da queste tre osservazioni precarie, quasi improvvisate,
vorrei trarre semplicemente un’ipotesi di lavoro: considerare
133
i tratti stilistici come delle trasformazioni, derivate sia da for­
mule collettive (dall·origine indefinibile, ora letteraria, ora
preletteraria) sia, per gioco metaforico, da forme idiolettali; in
entrambi i casi, il lavoro stilistico dovrebbe essere contrasse­
gnato dalla ricerca di modelli, di patterns: strutture frastiche,
clichés sintagmatici, aperture e clausole di frasi; ad animarlo
dovrebbe essere la convinzione che lo stile è essenzialmente
un procedimento di citazione, un corpo di tracce, una memoria
(quasi in senso cibernetico), un’eredità radicata nella cultura e
non nell’espressività. Ciò consente di situare la trasformazione
cui si allude (e di conseguenza la stilistica trasformazionale che
auspichiamo): essa può avere indubbiamente alcune affinità
con la grammatica trasformazionale, ma ne differisce in un
punto fondamentale (quello in cui la linguistica, che implica
fatalmente una certa visione del linguaggio, torna ad essere
ideologica): i «modelli» stilistici non possono essere assimilati
a «strutture profonde», a forme universali derivate da una lo­
gica psicologica; tali modelli sono soltanto depositi di cultura
(anche se appaiono antichissimi); sono ripetizioni, non fonda­
menti; citazioni, non espressioni; stereotipi, non archetipi.

Per ritornare alla visione dello stile cui accennavo all’inizio,


dirò che, secondo me, oggi essa deve consistere nel vedere lo
stile nella pluralità del testo: pluralità dei livelli semantici (dei
codici), il cui intrecciarsi forma il testo, e pluralità delle cita­
zioni che si depositano in uno di quei codici che chiamiamo
«stile», e che preferirei invece chiamare, almeno come primo
oggetto di studio, linguaggio letterano. Il problema dello stile
può essere trattato soltanto in relazione con quella che chia­
merei la «sfoglia» del discorso; e, continuando con le metafo­
re alimentari, riassumerei queste mie osservazioni dicendo
che, se finora si è visto il testo sotto forma di un frutto con
nocciolo (un’albicocca, per esempio), dove la polpa è la forma
e il nocciolo il fondo, ora è opportuno vederlo sotto forma di
una cipolla, ossia come concatenazione e sovrapposizione di
strati (di livelli, di sistemi) il cui volume non comporta, alla fi­
ne, nessun cuore, nessun nucleo, nessun segreto, nessun prin­
cipio irriducibile, se non l’infinità stesso dei suoi involucri -
che non avvolgono nient’altro che l’insieme stesso delle sue
super fici.

Convegno di Bellagio, 1969. Pubblicato in inglese in Literary Style: a


Symposium, a cura di Seymour Chatman, copyright 1971 O xford Uni­
versity Press.
IV

D alla storia al reale


Il discorso della storia

La descrizione formale degli insiemi di parole superiori alla


frase (che chiameremo per comodità discorso) non è di oggi:
da Gorgia al xix secolo, essa fu l’oggetto specifico della retto-
rica antica. I recenti sviluppi della scienza linguistica le confe­
riscono tuttavia una nuova attualità e nuovi strumenti: una
linguistica del discorso è forse ormai possibile; anzi, per la sua
incidenza sull’analisi letteraria (la cui importanza nell’inse­
gnamento è nota) costituisce uno dei primi compiti della se­
miologia.
Questa linguistica seconda, mentre da un lato deve ricerca­
re gli universali del discorso (se esistono), sotto forma di unità
e di regole generali di combinazione, deve evidentemente de­
cidere se l’analisi strutturale permette di conservare la vecchia
tipologia del discorso, se è legittimo opporre sempre il discor­
so poetico a quello romanzesco, il racconto di finzione al rac­
conto storico. Vorrei proporre qui alcune riflessioni proprio
su quest’ultimo punto: la narrazione degli avvenimenti passa­
ti, sottoposta di solito nella nostra cultura, dai Greci in poi,
alla sanzione della «scienza» storica, collocata sotto il domi­
nio del «reale», giustificata da principi di esposizione «razio­
nale», è davvero differente, per qualche tratto specifico e per
una indiscutibile pertinenza, dalla narrazione immaginaria,
quale possiamo trovare nell’epopea, nel romanzo, nel dram­
ma? E se i tratti - o la pertinenza - in questione esistono, in
quale luogo del sistema discorsivo, a quale livello dell’enun­
ciazione bisogna porli? Per tentare di suggerire una risposta a
questa domanda, esamineremo qui, liberamente e senza pre­
tese di esaustività, il discorso di alcuni grandi storici classici,
come Erodoto, Machiavelli, Bossuet e Michelet.
IL DISCORSO DELLA STORIA

i . Enunciazione.

Innanzitutto, in quali condizioni lo storico classico è indot­


to - o autorizzato - a designare egli stesso, nel suo discorso,
Tatto con il quale lo enuncia? In altri termini, quali sono, sul
piano del discorso - e non piu della lingua -, gli shifters (nel
senso dato da Jakobson a questo termine *) che garantiscono
il passaggio dalTenunciato all’enunciazione (o viceversa)?
Sembra che il discorso storico comporti due tipi regolari di
commutatori. Il primo tipo compreiide quelli che potremmo
chiamare i commutatori di ascolto. Questa categoria è stata
designata, per la lingua, da Jakobson, con il termine testimo­
niale e secondo la formula Ce C^/C*2: oltre all’avvenimento
riferito (Ce), il discorso fa riferimento sia all’atto dell’infor-
matore (Cal) sia alla parola che enuncia ciò che è stato riferito
(C32). Questo shifter designa perciò ogni citazione delle fonti,
delle testimonianze, ogni riferimento a un ascolto dello storico
che raccolga un altrove del suo discorso e lo dica. L’ascolto
esplicito è una scelta, dal momento che è possibile non farvi
riferimento; esso avvicina lo storico all’etnologo, quando cita
il suo informatore; questo shifter di ascolto è abbondantemen­
te presente in storici-etnologi, come Erodoto. Svariate sono le
sue forme: vanno dagli incisi del tipo per quanto mi è stato rì-
feHtOy per quanto ne sappiamo, al presente storico, tempo che
attesta l’intervento dell’enunciatore, fino a ogni riferimento
all’esperienza personale dello storico; è il caso di Michelet,
che «ascolta» la Storia francese a partire da un’illuminazione
soggettiva (la rivoluzione di Luglio del 1830) e ne rende conto
nel suo discorso. Lo shifter di ascolto non è certo un tratto
pertinente del discorso storico: lo si ritrova di frequente nella
conversazione e in certi artifizi espositivi del romanzo (aned­
doti raccontati sulla scorta di certi informatori fittizi espres­
samente menzionati).
Il secondo tipo di shifters comprende tutti i segni dichiarati
con i quali Tenunciatore, nel caso specifico lo storico, organiz­
za il proprio discorso, lo riprende, lo modifica strada facendo,
insomma dispone in esso espliciti punti di riferimento. E uno
shifter importante, e gli «organizzatori» del discorso possono
avere varie espressioni, tutte peraltro riconducibili all’indica­
zione di un moto del discorso rispetto alla propria materia o,1

1Jakobson, Essais de linguistique générale cit., cap. ix.


139
piu esattamente, lungo tale materia, un po’ alla maniera dei
deittici di tempo o di luogo qui/là; si avrà perciò, rispetto al
flusso dell’enunciazione: l’immobilità {come abbiamo detto
precedentemente), la risalita {altius repetere, replicare da più alto
luogo), la ridiscesa {ma ritornando alVordine nostro, dico co­
me...), il punto d ’arresto {sur lui, nous ri en dirons pas plus [di
lui non diremo altro]), l’annuncio {voici les autres actions dignes
de mémoire qu ’il fit pendant son règne [ecco le altre azioni de­
gne di memoria da lui compiute durante il suo regno]). Lo
shifter di organizzazione pone un problema rilevante, che qui
possiamo soltanto indicare: quello che nasce dalla coesistenza,
o per meglio dire dall’attrito tra due tempi: il tempo dell’e­
nunciazione e il tempo della materia enunciata. Tale attrito
produce fatti discorsivi importanti; ne citeremo tre. Il primo
rinvia a tutti i fenomeni di accelerazione della storia: un egual
numero di «pagine» (se questa è la grossolana misura del tem­
po dell’enunciazione) copre diversi lassi di tempo (tempo della
materia enunciata): nelle Istorie fiorentine di Machiavelli, la
stessa misura (un capitolo) copre in certi casi parecchi secoli e
in altri circa vent’anni; piu ci si avvicina al tempo dello stori­
co, piu la pressione dell’enunciazione si fa forte, piu la storia
rallenta; non esiste isocronia - il che significa attaccare impli­
citamente la linearità del discorso e lascia trasparire un «para-
grammatismo» possibile della parola storica2. Anche il se­
condo fatto, a modo suo, ricorda che il discorso, pur se mate­
rialmente lineare, confrontato al tempo storico, ha il compito,
si direbbe, di approfondire tale tempo: è quella che potremmo
chiamare storia a zigzag o a «denti di sega». Ad esempio, per
ogni personaggio che compare nelle sue Storie Erodoto risale
agli antenati del nuovo arrivato, poi ritorna al punto di par­
tenza per continuare un po’ piu in là, e ricominciare. Infine,
un terzo fatto discorsivo, rilevante, attesta il ruolo distruttivo
degli shifters di organizzazione rispetto al tempo cronico della
storia: si tratta degli incipit del discorso storico, luoghi in cui
si congiungono l’inizio della materia enunciata e l’esordio
dell’enunciazione3. Il discorso della storia conosce generai-

2 Sulla scorta di J. Kristeva (Baktine, le mot, le dialogue et le roman, in «Criti­


que», n. 239, aprile 1967, p. 438-65) designeremo con il nome di paragrammatismo
(derivato dagli Anagrammi di Saussure) le scritture duplici, che contengono un dia­
logo del testo con altri testi, e postulano una nuova logica.
y L’esordio (di qualsiasi discorso) pone uno dei problemi piu interessanti della
rettorica, nella misura in cui è codificazione delle rotture di silenzio e lotta contro
l’afasia.
140 IL DISCORSO DELLA STORIA

mente due forme di incipit: innanzitutto, quella che si potreb­


be chiamare l’apertura performativa, dal momento che il di­
scorso è qui un vero e proprio atto solenne di fondazione; il
modello è poetico, è il io canto dei poeti; ad esempio, Joinville
comincia la sua storia con un appello religioso {«Au nom de
Dieu le tout-puissant, je, Jehan, sire de Joinville, fais écnre la vie
de nostre Saint roi Louis» [In nome di Dio onnipotente io,
Jean, sire di Joinville, faccio scrivere la vita del nostro Santo
re Luigi]), e persino il socialista Louis Blanc non disdegna Yin­
troibo purificatore4, tanto l’inizio del discorso conserva sem­
pre qualcosa di difficile - diciamo di sacro; in seguito, un’u­
nità molto piu comune, la Prefazione, atto caratteristico di
enunciazione, sia prospettiva quando annuncia il discorso fu­
turo, sia retrospettiva quando lo giudica (è il caso della grande
Prefazione con la quale Michelet coronò la sua Histoire de
France già interamente scritta e pubblicata). Ricordare queste
unità ha lo scopo di suggerire che l’ingresso dell’enunciazione
nell’enunciato storico, per il tramite degli shifters organizzato-
ri, non ha tanto lo scopo di dare allo storico la possibilità di
esprimere la sua «soggettività», come si dice di solito, quanto
di « complicare » il tempo cronico della storia mettendolo a
confronto con un altro tempo, quello del discorso stesso, che
in modo spiccio si potrebbe il tempo-carta; insomma, la pre­
senza nella narrazione storica di segni espliciti di enunciazio­
ne mirerebbe a «decronologizzare» il «filo» della storia e a re­
stituire, non foss’altro che a titolo di reminiscenza e di nostal­
gia, un tempo complesso, parametrico, nient’affatto lineare,
il cui spazio profondo ricorderebbe il tempo mitico delle anti­
che cosmogonie, anch’esso legato per definizione alla parola
del poeta o dell’indovino; gli shifters di organizzazione stanno
infatti ad attestare - anche solo per certi giri apparentemente
razionali - la funzione predittiva dello storico: è proprio in
quanto sa quel che non è ancora stato raccontato che lo stori­
co, come l’attore del mito, ha bisogno di sovrapporre allo
svolgimento cronico degli eventi i riferimenti al tempo pro­
prio del suo discorso.
I segni (o shifters) di cui si è appena detto riguardano unica­
mente il processo stesso dell’enunciazione. Ne esistono altri
che non si riferiscono più all’atto enunciativo ma, secondo la

4 «Prima di prendere la penna, mi sono interrogato severamente, e, poiché


non trovavo in me né affetti interessati né odi implacabili, ho pensato che avrei po­
tuto giudicare gli uomini e le cose senza venir meno alla giustizia e senza tradire la
verità» (L. Blanc, Histoire de dix ans, Pagnerre, Paris 1842, 6 voll.).
141
terminologia di Jakobson, ai suoi protagonisti (Ta), destinata-
rio o enunciatore. È degno di nota e piuttosto enigmatico il
fatto che il discorso letterario comporti molto di rado i segni
del «lettore»; si può persino dire che ciò che lo caratterizza è
il suo essere - apparentemente - un discorso senza tu, anche
se in realtà tutta la struttura di tale discorso implica un «sog­
getto » della lettura. Nel discorso storico, i segni di destinazio­
ne sono di solito assenti: se ne troveranno solo quando la Sto­
ria si presenta come una lezione; è il caso della Histoire univer­
selle di Bossuet, discorso rivolto dichiaratamente dal precet­
tore al principe, suo allievo; eppure anche questo schema è
possibile, in un certo senso, solo nella misura in cui si presume
che il discorso di Bossuet riproduca omologicamente il discor­
so che Dio stesso rivolge agli uomini, proprio sotto forma del­
la Storia che dà loro: in quanto la Storia degli uomini è la
Scrittura di Dio, Bossuet, mediatore di tale scrittura, può sta­
bilire un rapporto di destinazione tra il giovane principe e sé.
I segni dell’enunciatore (o destinatore) sono evidentemente
molto piu frequenti; tra essi bisogna collocare tutti i fram­
menti di discorso in cui lo storico, soggetto vuoto dell’enun­
ciazione, si riempie a poco a poco di predicati di varia natura,
destinati a fondarlo in quanto persona, dotata di una pienezza
psicologica, oppure (il termine è un preziosismo) di una conte­
nenza. Segnaliamo qui una forma particolare di questo «riem­
pimento », che è collegabile piu direttamente alla critica lette­
raria. Si tratta del caso in cui l’enunciatore intende «assentar­
si » dal proprio discorso e si determina, di conseguenza, una
carenza sistematica di qualsiasi segno in grado di rinviare al­
l’emettitore del messaggio storico: la storia sembra raccontar­
si da sola. Questo incidente ha un risvolto considerevole, dal
momento che corrisponde in realtà al discorso storico cosid­
detto «obiettivo» (nel quale lo storico non interviene mai). In
effetti, in questo caso Penunciatore annulla la propria perso­
na, le proprie passioni, cui però sostituisce un’altra persona, la
persona «obiettiva»: il soggetto sussiste nella sua pienezza,
ma come soggetto obiettivo; è quella che Fustel de Coulanges
chiamava significativamente (e piuttosto ingenuamente) la
«castità della Storia». Sul piano del discorso, l’obiettività - o
carenza di segni dell’enunciatore - appare cosi una forma
particolare di immaginario, il prodotto di ciò che si potrebbe
definire come l’illusione referenziale, dal momento che in
questo caso lo storico pretende di lasciare che il referente parli
da solo. Tale illusione non è soltanto del discorso storico:
142 IL DISCORSO DELLA STORIA

quanti romanzieri - all’epoca realista - hanno immaginato di


essere «obiettivi» perché sopprimevano nel discorso i segni
dell’io! Gli apporti congiunti della linguistica e della psicana­
lisi ci rendono oggi molto più lucidi nei confronti dell’enun­
ciazione privativa: sappiamo che le carenze di segni sono an-
ch’esse significanti.
Per terminare rapidamente con l’enunciazione, dobbiamo
menzionare il caso particolare - previsto da Jakobson, al li­
vello della lingua, nella griglia dei suoi shifters - in cui l’enun-
ciatore del discorso è al tempo stesso partecipe del processo
enunciato, in cui il protagonista dell’enunciato coincide con
quello dell’enunciazione (Te/Ta), in cui lo storico, dopo essere
stato attore dell’evento, ne diventa il narratore; è il caso di
Senofonte, che partecipò alla ritirata dei Diecimila e ne di­
venne successivamente lo storico. L’esempio piu illustre di
coincidenza tra io enunciato e io enunciante è senz’altro Vegli
di Cesare. Quel celebre egli appartiene all’enunciato; quando
Cesare diventa esplicitamente enunciatore, passa al noi {ut su­
pra demonstravimus). Y!egli di Cesare appare, a prima vista,
confuso tra gli altri partecipanti al processo enunciato, e in
questo senso si è visto in esso il segno supremo dell’obiettivi­
tà; sembra tuttavia che sia possibile differenziarlo formalmen­
te; come? osservando che i suoi predicati sono costantemente
selezionati: Vegli di Cesare regge soltanto certi sintagmi, che
si potrebbero chiamare sintagmi del capo {dare ordini, tenere
assise, visitare, far fare, congratularsi, spiegare, pensare), molto
simili, in realtà, a certi performativi nei quali la parola si con­
fonde con l’atto. Esistono altri esempi di questo egli, attore
passato e narratore presente (soprattutto in Clausewitz): essi
dimostrano che la scelta del pronome impersonale è soltanto
un alibi rettorico, e che la situazione autentica dell’enunciato-
re si manifesta nella scelta dei sintagmi con i quali avvolge i
suoi atti passati.

2. Enunciato.

L’enunciato storico deve prestarsi a una suddivisione aven­


te lo scopo di produrre unità di contenuto, che potranno suc­
cessivamente essere classificate. Tali unità di contenuto rap­
presentano ciò di cui parla la storia; in quanto significati, esse
non sono né il referente puro né il discorso completo: il loro
insieme è costituito dal referente suddiviso, nominato, già in-
M3
telligibile, ma non ancora regolato da una sintassi. Non cer­
cheremo in questa sede di approfondire Pesame delle classi di
unità in questione: sarebbe un lavoro prematuro; ci limitere­
mo ad alcune osservazioni introduttive.
L’enunciato storico, come quello frastico, comporta delle
«esistenze» e delle «occorrenze», degli esseri, delle entità e i
loro predicati. Un primo esame fa prevedere che entrambi (se­
paratamente) possano costituire liste relativamente circoscrit­
te, e di conseguenza controllabili - collezioni insomma -, le
cui unità finiscono per ripetersi, attraverso combinazioni evi­
dentemente variabili; in Erodoto, ad esempio, le «esistenze»
si riducono a dinastie, principi, generali, soldati, popoli e luo­
ghi, mentre le «occorrenze» sono azioni quali devastare, as­
servire, allearsi, compiere una spedizione, regnare, usare uno
stratagemma, consultare l’oracolo, ecc. Queste collezioni, es­
sendo (relativamente) chiuse, devono sottostare a certe regole
di sostituzione e di trasformazione, e dev’essere possibile
strutturarle - compito quest’ultimo piu o meno facile, evi­
dentemente, a seconda degli storici; le unità di Erodoto, per
esempio, dipendono in sostanza da un solo lessico, quello del­
la guerra: si tratterebbe di sapere se, per gli storici moderni, ci
si deve aspettare associazioni piu complesse di lessici diversi
e se, anche in questo caso, il discorso storico non sia sempre
fondato, in ultima istanza, su collezioni forti (è preferibile
parlare di collezioni, non di lessici, dal momento che siamo qui
esclusivamente sul piano del contenuto). Machiavelli sembra
aver avuto l’intuizione di tale struttura: all’inizio delle sue
Istorie fiorentine presenta la sua «collezione», cioè la lista degli
oggetti giuridici, politici, etnici che saranno poi chiamati in
causa e combinati nella narrazione.
Nel caso di collezioni piu fluide (in storici meno arcaici di
Erodoto), le unità di contenuto possono tuttavia ricevere una
strutturazione forte non dal lessico, ma dalla tematica perso­
nale dell’autore; tali oggetti tematici (ricorrenti) sono nume­
rosi in uno storico romantico come Michelet, ma possono be­
nissimo essere rintracciati anche in autori considerati intellet­
tuali: in Tacito la fama è un’unità personale, e Machiavelli
fonda la sua storia su una contrapposizione tematica, quella
tra mantenere (verbo che rinvia all’energia fondamentale del­
l’uomo di governo) e minare (che implica, al contrario, una lo­
gica della decadenza delle cose)5. E ovvio che, attraverso

Cfr. E. Raimondi, Opere di Niccolo Machiavelli, Mursia, Milano 1966.


IL DISCORSO DELLA STORIA

queste unità tematiche, il piu delle volte prigioniere di una pa­


rola, si ritrovano unità discorsive (e non piu del solo contenu­
to); si arriva cosi al problema della nominazione degli oggetti
storici: la parola può condensare una situazione o una succes­
sione di azioni; favorisce la strutturazione in quanto, proiet­
tata sul piano del contenuto, è a sua volta una piccola struttu­
ra. Per esempio, Machiavelli si serve di congiura per rispar­
miarsi Pesplicitazione di un dato complesso, in grado di desi­
gnare la sola possibilità di lotta possibile quando un governo
ha avuto la meglio su tutte le inimicizie dichiarate apertamen­
te. La nominazione, permettendo un’articolazione forte del
discorso, ne rafforza la struttura; le storie fortemente struttu­
rate sono storie sostantivate: Bossuet, per il quale la storia de­
gli uomini è strutturata da Dio, fa abbondante uso di succes­
sioni di sintesi sostantivate6.
Queste osservazioni riguardano sia le occorrenze sia le esi­
stenze. In quanto tali, i processi storici (indipendentemente
dal loro sviluppo terminologico) pongono - tra gli altri - un
problema interessante: quello del loro statuto. Lo statuto di
un processo può essere assertivo, negativo, interrogativo.
Quello del discorso storico è uniformemente assertivo, con-
statativo; il fatto storico è legato linguisticamente a un privi­
legio di esistenza: si racconta ciò che è stato, non ciò che non
è stato oppure è stato in dubbio. Insomma, il discorso storico
non conosce la negazione (o molto raramente, in modo eccen­
trico). Questo fatto può stranamente - ma significativamente
- essere collegato con la disposizione che si riscontra in un
soggetto enunciante molto diverso dallo storico, ossia lo psi­
cotico, incapace di far subire a un enunciato una trasforma­
zione negativa7; si direbbe che, in un certo senso, il discorso
«obiettivo» (è il caso della storia positivista) corrisponda alla
situazione del discorso schizofrenico; nell’un caso come nel­
l’altro, vi è una radicale censura dell’enunciazione (e solo la
sua percezione ne consente la trasformazione negativa), riflus­
so massiccio del discorso verso l’enunciato e addirittura (nel
caso dello storico) verso il referente: non vi è nessuno che as­
suma su di sé l’enunciato.

6 Esempio: «Vi si vede innanzitutto l’innocenza e la saggezza del giovane Jo­


seph...; i suoi sogni misteriosi...; i suoi fratelli gelosi...; la vendita di quel grand’uo­
mo...; la fedeltà che egli conserva verso il suo padrone...; la sua castità ammirevole;
le persecuzioni che dssa gli attira; la sua prigionia e la sua costanza... » (Bossuet, Dis­
cours sur Γhistoire universelle in Œuvres, Gallimard, Paris 1961, p. 674).
7 L. Irigaray, Négation et transformation négative dans le langage des schizophrè­
nes, in «Langage», n. 5, marzo 1967, pp. 84-98.
M3
Per affrontare un altro aspetto, essenziale, dell’enunciato
storico, occorre fare un accenno alle classi di unità di contenu­
to e alla loro successione. Tali classi sono, in base a un primo
sondaggio, le stesse che si è creduto di poter individuare nel
racconto di finzione8. La prima classe comprende tutti i seg­
menti del discorso che rimandano a un significato implicito,
secondo un processo metaforico; ad esempio, Michelet descri­
ve la varietà dei colori degli abiti, Palterazione dei blasoni e la
mescolanza degli stili architettonici, all’inizio del xv secolo,
come altrettanti significanti di un significato unico, che è la
divisione morale del Medioevo declinante; questa classe è
perciò quella degli indizi, o piu esattamente dei segni (classe
abbondantissima nel romanzo classico). La seconda classe di
unità è costituita dai frammenti del discorso di natura razio­
nale, sillogistica, o per essere piu precisi entimematico, poiché
si tratta quasi sempre di sillogismi imperfetti, approssima­
tivi 9. Gli entimemi non appartengono soltanto al discorso
storico; sono frequenti nel romanzo, dove le biforcazioni del­
l’aneddoto sono di solito giustificate agli occhi del lettore da
pseudoragionamenti di tipo sillogistico. L’entimema introdu­
ce nel discorso storico un’intelligibilità non simbolica, ed è in­
teressante proprio per questo: ma esso permane nelle storie
recenti, in cui il discorso tenta di rompere con il modello clas­
sico, aristotelico? Infine, una terza classe di unità - e certo
non la meno rilevante - comprende quelle che, sulla scorta di
Propp, sono definite «funzioni» del racconto, o punti cardi­
nali dai quali l’aneddoto può prendere un diverso corso; que­
ste funzioni sono raggruppate sintagmaticamente in succes­
sioni finite, logicamente saturate, dette sequenze; cosi in Ero­
doto troviamo piu volte una sequenza Oracolo, composta da
tre termini ciascuno dei quali è un’alternativa (consultare o
no, rispondere o no, seguire o no), e che possono essere sepa­
rati gli uni dagli altri da altre unità estranee alla sequenza: tali
unità sono sia i termini di un’altra sequenza, e allora lo sche­
ma è ad incastro, sia espansioni minori (informazioni, indizi),
e in questo caso lo schema è quello di una catalisi che colma
gli interstizi dei nuclei.
Generalizzando - forse abusivamente - queste poche os-

8 Cfr. Introduction à Γanalyse structurelle du récit, in «Communications», n. 8,


novembre 1966 [ripreso nella collana «Points», Editions du Seuil, Paris 1961].
9 Ecco lo schema sillogistico di un pezzo di Michelet (Histoire du Moyen Age,
tomo III, libro VI, cap. π): i. Per distogliere il popolo dalla rivolta, bisogna tenerlo
occupato. 2. Il mezzo migliore è di dargli in pasto un uomo. 3. Perciò, i principi
scelsero il vecchio Aubriot, ecc.
IL DISCORSO DELLA STORIA

sensazioni sulla struttura dell’enunciato, si potrebbe suggerire


che il discorso storico oscilla tra due poli, a seconda della ri­
spettiva densità dei suoi indizi e delle sue funzioni. Quando
in uno storico le unità indiziarie predominano (rinviando con­
tinuamente a un significato implicito), la Storia scivola verso
una forma metaforica, e si accosta alla lirica e al simbolico: è
il caso, per esempio, di Michelet. Quando invece sono le uni­
tà funzionali ad avere la meglio, la Storia assume una forma
metonimica, si avvicina all’epopea: un esempio puro di tale
tendenza potrebbe essere la storia narrativa di Augustin
Thierry. A dire il vero, esiste una terza Storia: quella che, at­
traverso la struttura del discorso, tenta di riprodurre la strut­
tura delle scelte vissute dai protagonisti del processo narrato;
in essa dominano i ragionamenti; è una storia riflessiva, o an­
che strategica, di cui il Machiavelli sarebbe il miglior esempio.

3. Significazione.

Affinché la Storia non significhi, è necessario che il discor­


so si limiti a una pura serie non strutturata di annotazioni: è il
caso delle cronologie e dell’annalistica (nel senso puro del ter­
mine). Nel discorso storico piu «istituzionale» («paludato», si
potrebbe dire), i fatti riferiti funzionano irresistibilmente sia
come indizi sia come nuclei la cui successione ha a sua volta
valore indiziario; e, anche se i fatti fossero presentati in ma­
niera anarchica, starebbero a significare almeno l’anarchia e
rimanderebbero a una certa idea negativa della storia umana.
I significati del discorso storico possono situarsi ad almeno
due livelli diversi. Esiste innanzitutto un livello immanente
alla materia enunciata; tale livello contiene tutti i sensi che lo
storico dà volontariamente ai fatti che riferisce (la varietà dei
colori negli abiti del xv secolo per Michelet, l’importanza di
certi conflitti per Tucidide, ecc); di questo tipo possono essere
le «lezioni», o morali o politiche, che il narratore trae da certi
episodi (in Machiavelli, in Bossuet). Se la «lezione» è conti­
nua, si tocca un secondo livello, quello di un significato tra­
scendente tutto il discorso storico, trasmesso dalla tematica
dello storico, che può essere perciò identificata con la forma
del significato; cosi, la stessa imperfezione della struttura nar­
rativa in Erodoto (nata da certe sene di fatti non concluse) ri­
manda fondamentalmente a una certa filosofia della Storia,
ossia alla disponibilità del mondo degli uomini sotto la legge
147

degli dei; oppure ancora, in Michelet, la fortissima struttura­


zione dei singoli significati, articolati in contrapposizioni (an­
titesi sul piano del significante), ha come senso finale una fi­
losofia manicheista della vita e della morte. Nel discorso sto­
rico della nostra civiltà, il processo di significazione mira sem­
pre a «colmare» il senso della Storia: lo storico è colui che
mette insieme piu significanti che fatti e li riferisce, cioè li or­
ganizza al fine di stabilire un senso positivo e di colmare il
vuoto della pura serie.
Come si può notare, per la sua stessa struttura e senza che
occorra richiamarsi alla sostanza del contenuto, il discorso
storico è essenzialmente elaborazione ideologica, o per essere
piu precisi immaginario, se è vero che Pimmaginario è il lin­
guaggio con il quale P enunciatore di un discorso (entità pura­
mente linguistica) «colma» il soggetto dell’enunciazione (en­
tità psicologica o ideologica). Si capisce allora come la nozione
di «fatto» storico abbia spesso suscitato qua e là una certa dif­
fidenza. Già Nietzsche diceva: «Non esistono fatti in sé. Bi­
sogna sempre cominciare con Pintrodurre un senso perché
possa esserci un fatto». Dal momento in cui interviene il lin­
guaggio (e quando non interverrebbe?), il fatto può essere de­
finito solo in modo tautologico: ciò che è notato discende da
ciò che è degno di nota, ma è degno di nota - sin da Erodoto,
nel quale il termine ha perduto la sua accezione mitica - sol­
tanto quel che è degno di memoria, cioè di essere notato. Si
giunge cosi al paradosso che regge tutta la pertinenza del di­
scorso storico (rispetto ad altri tipi di discorso): il fatto non ha
mai altro che un’esistenza linguistica (in quanto termine di un
discorso), e tuttavia tutto si svolge come se quell’esistenza
fosse soltanto la «copia» pura e semplice di un’altra, situata in
un campo extrastrutturale, il «reale». Questo discorso è con
ogni probabilità il solo in cui il referente sia inteso come ester­
no al discorso, senza che sia mai possibile, tuttavia, pervenirvi
al di fuori di esso. Ci si deve chiedere perciò con maggior pre­
cisione come si collochi il «reale» nella struttura discorsiva.
Il discorso storico presuppone, diciamo cosi, una duplice
operazione, molto contorta. In un primo tempo (questa sud-
divisione, com’è ovvio, ha valore esclusivamente metaforico),
il referente è staccato dal discorso, gli diviene esterno, fonda­
tore, e si ritiene che ne detti le regole: è il tempo delle res ge­
stae, e il discorso si presenta semplicemente come historia re­
rum gestarum\ in un secondo tempo, però, è il significato stes­
so ad essere respinto, confuso nel referente; il referente entra
148 IL DISCORSO DELLA STORIA

in rapporto diretto con il significante, e il discorso, cui è de­


mandato soltanto di espnmere il reale, crede di poter far a me­
no del termine fondamentale delle strutture immaginarie,
cioè del significato. Come ogni discorso che si vuole «realisti­
co », quello della storia ritiene di conoscere soltanto uno sche­
ma semantico a due termini, il referente e il significante: la
confusione (illusoria) tra referente e significato definisce, co-
m’è noto, i discorsi autoreferenziali, come il discorso perfor­
mativo; si può affermare che il discorso storico è un discorso
performativo truccato, nel quale il constativo (il descrittivo)
apparente è in realtà solo in significante dell’atto di parola in­
teso come atto di autorità 101.
In altri termini, nella storia «obiettiva» il «reale» non è
mai altro che un significato non formulato, nascosto dietro
l’onnipotenza apparente del referente. Questa situazione de­
finisce quello che si potrebbe chiamare Veffetto di reale. L’eli­
minazione del significato dal discorso «obiettivo», lasciando
che si affrontino apparentemente il «reale» e la sua espressio­
ne, non manca di produrre un nuovo senso, tanto è vero, an­
cora una volta, che in un sistema ogni carenza di elementi è
anch’essa significante. Il nuovo senso - estensivo a tutto il
discorso storico e che ne definisce in ultima istanza la perti­
nenza - è il reale stesso, trasformato surrettiziamente in si­
gnificato dissimulato: il discorso storico non segue il reale,
non fa altro che significarlo, continuando a ripetere è accadu­
to, anche se tale asserzione è sempre e soltanto l’altra faccia,
il significato, di tutta la narrazione storica.
Il prestigio delY è accaduto ha un’importanza e un’ampiezza
veramente storiche. Tutta la nostra civiltà ha una propensio­
ne per l’effetto di reale che è attestato dallo sviluppo di generi
specifici quali il romanzo realista, il diario intimo, la lettera­
tura di testimonianza, il fatto di cronaca, il museo storico, l’e­
sposizione di oggetti antichi e soprattutto il massiccio svilup­
po della fotografia, il cui solo tratto pertinente (rispetto al di­
segno) consiste appunto nel significare che l’evento rappre­
sentato è realmente accaduto11. Secolarizzata, la reliquia con-

10 Thiers ha espresso con molta purezza e candore questa illusione referenzia­


le, o questa confusione tra referente e significato, fissando cosi l’ideale dello sto­
rico: «Essere semplicemente veri, essere ciò che sono le cose stesse, non essere nul­
la di piu, null’altro che attraverso di esse, come esse, quanto esse» (cit. da C. Yul-
lian, Historiens français du x ix e siècle, Hachette, Paris s.d., p. l x h i ).
11 Cfr. La rhétorique de limage, in «Communications», n. 4, novembre 1964.
Anche in UObvie et l ’Obtus, Paris 1982 [trad. it. 1985]. Cfr. anche La Chambre
claire, Paris 1980 [Nota d ell editore francese].
IL DISCORSO DELLA STORIA 149

serva di sacro soltanto ciò che è legato all’enigma di quel che


è stato, non è piu, eppure si offre alla lettura come segno pre­
sente di una cosa morta. Per contro, la profanazione delle re­
liquie è in realtà distruzione del reale stesso, secondo l’intui­
zione per cui il reale non è mai altro che un senso, revocabile
quando la storia lo esige e richiede un vero e proprio sovver­
timento dei fondamenti stessi della civiltà 12.
Con il suo rifiuto di assumere il reale come significato (op­
pure di disgiungere il referente dalla sua semplice asserzione),
la storia è quindi approdata, nel momento privilegiato in cui
ha tentato di costituirsi come genere, cioè nell’Ottocento, a
vedere nella relazione «pura e semplice» dei fatti la prova mi­
gliore dei fatti stessi, e a istituire la narrazione come signifi­
cante privilegiato del reale. Augustin Thierry divenne il teo­
rico di quella storia narrativa, che attinge la propria «verità»
dall’accuratezza stessa della narrazione, dall’architettura delle
sue articolazioni e dall’abbondanza delle sue espansioni (nel
caso specifico chiamate «dettagli concreti»)13. Si chiude cosi
il cerchio paradossale: la struttura narrativa, elaborata nel cro­
giolo dei racconti di finzione (attraverso i miti e le prime epo­
pee), diventa al tempo stesso segno e prova della realtà. È
chiaro allora che la cancellazione (per non dire la scomparsa)
della narrazione nella scienza storica attuale, che si prefigge di
parlare piu delle strutture che non delle cronologie, va ben al
di là di un semplice cambiamento di scuola, e anzi implica una
vera e propria trasformazione ideologica; la narrazione storica
muore perché il segno della storia è ormai piu l’intelligibile
che il reale.

1967, Information sur le sciences sociales.

12 È il senso che con ogni probabilità va attribuito, al di là di ogni sovverti­


mento specificamente religioso, al gesto delle Guardie Rosse quando profanaro­
no il tempio del luogo in cui nacque Confucio (gennaio 1967); ricordiamo che l’e­
spressione «rivoluzione culturale» traduce, male del resto, «distruzione delle fon­
damenta della civiltà ».
13 « Si è detto che lo scopo dello storico era di raccontare, non di provare; non
so, ma sono certo che nella storia il genere migliore di prova, quella che piu colpisce
e convince le menti, quella che meno consente di diffidare e lascia meno dubbi, è
la narrazione completa... » (A. Thierry, Récits des temps mérovingiens, Furne, vol.
II, Paris 1851, p. 227).
L’effetto di reale

Quando Flaubert, descrivendo la sala in cui si trova Mada­


me Aubain, la padrona di Félicité, ci dice che «un vecchio
pianoforte sosteneva, sotto un barometro, una piramide di
scatole e di cartoni» \ quando Michelet, raccontando la mor­
te di Charlotte Corday e riferendo che nella sua prigione, pri­
ma dell’arrivo del carnefice, ricevette la visita di un pittore
che le fece il ritratto, arriva a precisare che «dopo un’ora e
mezzo qualcuno bussò dolcemente a una porticina che si tro­
vava dietro di lei» 2, questi autori (come molti altri) produco­
no notazioni che l’analisi strutturale, tutta presa a individuare
e sistematizzare le grandi articolazioni del racconto, lascia da
parte, di solito e per il momento, sia quando lascia fuori del­
l’inventario (non parlandone) tutti i dettagli «superflui» ri­
spetto alla struttura), sia quando tratta quegli stessi dettagli
(l’autore di queste righe l’ha a sua volta ten tato 3) come al­
trettanti «riempitivi» (catalisi), dotati di un valore funzionale
indiretto, in quanto, messi l’uno dopo l’altro, costituiscono
indizi di carattere o di atmosfera, e possono essere cosi, alla
fin fine, recuperati dalla struttura.
Eppure sembra che, se è vero che l’analisi vuole essere
esaustiva (e che valore potrebbe avere un metodo che non
desse conto dell’integralità del proprio oggetto, cioè, nel caso
specifico, di tutta la superficie del tessuto narrativo?), cercan­
do di cogliere, per assegnare loro un posto nella struttura, il

1 G. Flaubert, Un cœur simple, in Trois Contes, Charpentier-Fasquelle, Paris


1893, p. 4.
2 J. Michelet, Histoire de France, La Révolution, Éditions Rencontre, tomo V,
Lausanne 1967, p. 292.
3 Introduction à Vanalyse structurelle du récit, in «Communications», n. 8,
1966, pp. 1-27. [Ripreso in «Points», Éditions du Seuil, Paris 1981].

6
L’EFFETTO DI REALE

dettaglio assoluto, Punita indivisibile, la transizione fuggiti­


va, essa debba fatalmente incontrare notazioni che nessuna
funzione (neppure la piu indiretta) consente di giustificare:
tali annotazioni sono scandalose (dal punto di vista della
struttura), oppure, il che è ancora piu inquietante, sembrano
corrispondere a una specie di lusso della narrazione, prodiga al
punto da dispensare dettagli «inutili» e da alzare di conse­
guenza, qua e là, il costo dell’informazione narrativa.
Se infatti, nella descrizione di Flaubert, è possibile al limite
vedere nella notazione del pianoforte un indizio del livello
borghese di vita della sua proprietaria e in quella delle scatole
vuote un segno di disordine e quasi di estinzione familiare in
grado di connotare l’atmosfera di casa Aubain, nessuna fina­
lità sembra giustificare il riferimento al barometro, oggetto
che non è né incongruo né significativo e non appartiene per­
ciò, a prima vista, all’ordine del degno di nota\ anche nella fra­
se di Michelet è presente la stessa difficoltà di dar conto strut­
turalmente di tutti i dettagli: solo l’arrivo, dopo il pittore, del
carnefice è necessario alla storia; la durata della posa, le di­
mensioni e l’ubicazione della porta sono inutili (ma il tema
della porta, la dolcezza della morte che bussa hanno un indi­
scutibile valore simbolico). Anche se non sono numerosi, i
«dettagli inutili» sembrano dunque inevitabili: ogni racconto,
almeno ogni racconto occidentale di tipo corrente, ne possie­
de alcuni.
La notazione insignificante4 (prendendo questo termine
in senso stretto: di apparentemente estraneo alla struttura se­
miotica del racconto) è assimilabile alla descrizione, anche se
l’oggetto sembra essere denotato da una sola parola (in realtà,
il termine puro non esiste: il barometro di Flaubert non è ci­
tato in se stesso; è collocato, inserito in un sintagma al tempo
stesso referenziale e sintattico); si evidenzia cosi il carattere
enigmatico di ogni descrizione, sul quale dobbiamo ora soffer­
marci. La struttura generale del racconto, o almeno quella che
è stata finora analizzata qua e là, appare essenzialmente come
predittiva; schematizzando al massimo, e senza tener conto dei
numerosi ritardi, deviazioni, cambiamenti di rotta e disingan-

4 In questa breve analisi non daremo esempi di notazioni «insignificanti»,


perché Pinsignificante si può denunciare solo al livello di una struttura molto am­
pia: citata, una notazione non è né significante né insignificante; richiede un con­
testo già analizzato.
153
ni che il racconto impone instituzionalmente a tale schema, si
può dire che, ad ogni articolazione del sintagma narrativo,
qualcuno dice all’eroe (o al lettore, poco importa): se agisci in
questo modo, se tra le alternative scegli questa, ecco che cosa
otterrai (il fatto che tali predizioni siano HfeHte indirettamen­
te non ne altera affatto la natura pratica).
Del tutto diversa è la descrizione: essa non ha alcun carat­
tere predittivo; «analogica», la sua struttura è puramente
sommatoria e non contiene quell’itinerario di scelte e di alter­
native che dà alla narrazione la configurazione di un ampio di­
spatching,, dotato di una temporalità refenziale (e non piu sol­
tanto discorsiva). Si tratta di una contrapposizione che dal
punto di vista antropologico ha la sua importanza: quando,
sotto l’influenza dei lavori di von Frisch, si è cominciato a im­
maginare che le api potessero avere un loro linguaggio, si è do­
vuto constatare che, se quegli animali disponevano di un si­
stema predittivo di danze (per raccogliere il cibo), nulla pote­
va assimilarlo a una descrizione5. La descrizione appare quin­
di come una specie di «specificità» dei linguaggi cosiddetti su­
periori, dal momento che, cosa all’apparenza paradossale, essa
non è giustificata da alcuna finalità di azione o di comuni­
cazione.
La singolarità della descrizione (o del « dettaglio inutile »)
nel tessuto narrativo, la sua solitudine, designa un problema
della massima importanza per l’analisi strutturale del raccon­
to. Il problema è il seguente: tutto, nel racconto, è significan­
te, o altrimenti, se permangono nel sintagma narrativo alcune
zone insignificanti, qual è in definitiva, per cosi dire, il signi­
ficato di tale insignificanza?
Bisogna innanzitutto ricordare che la cultura occidentale,
in una delle sue principali correnti, non ha affatto posto la de­
scrizione fuori del senso e l’ha dotata di una finalità perfetta­
mente riconosciuta dall’istituzione letteraria. La corrente in
questione è la rettorica, e la finalità è il «bello»: la descrizione
ha avuto per molto tempo una funzione estetica. L’Antichità
aveva aggiunto ben presto ai due generi specificamente fun­
zionali al discorso, il giuridico e il politico, un terzo genere,
l’epidittico, discorso ornamentale, destinato a suscitare l’am-

5 F. Bresson, La signification, in Problèmes de psycho-linguistique, PUF, Paris


1963 .
I 54 L’EFFETTO DI REALE

mirazione del pubblico (e non piu persuaderlo), che contene­


va in germe - quali che fossero le regole rituali del suo uso:
elogio dell’eroe o necrologio - l’idea stessa di una finalità
estetica del linguaggio; nella neorettorica alessandrina (quella
del π secolo d. C.) si registrò un gusto diffuso per Vekphrasis,
pezzo brillante, isolabile (e che aveva dunque il proprio fine
in sé, indipendente da qualsiasi funzione complessiva), il cui
oggetto era la descrizione dei luoghi, dei tempi, delle persone
o delle opere d ’arte - tradizione che si conservò per tutto il
Medioevo. In quest’epoca (come ha giustamente sottolineato
C urtius67) la descrizione non è assoggettata ad alcun realismo;
poco importa la sua verità (o la sua verisimiglianza); nessun
problema a collocare leoni o ulivi in un paese nordico; conta
soltanto il vincolo del genere descrittivo; qui il verosimile non
è referenziale, ma apertamente discorsivo: a predominare so­
no le regole generiche del discorso.
Se si salta fino a Flaubert, ci si accorge che il fine estetico
della descrizione è ancora molto forte. In Madame Bovary la
descrizione di Rouen (referente reale se mai ve ne furono) è
sottoposta ai vincoli tirannici di quella che non si può non
chiamare verosimiglianza estetica, come attestano le correzio­
ni apportate a quel brano nel corso di sei redazioni succes­
sive \ In esse si constata innanzitutto che le correzioni non
dipendono affatto da una maggior considerazione per il mo­
dello: Rouen, vista da Flaubert, rimane sempre la stessa, o piu
esattamente, se cambia un po’ da una versione all’altra è sol­
tanto perché è necessario rafforzare un’immagine o evitare
una ridondanza fonica condannata dalle regole del bello stile,
o ancora «far posto» a un’espressione felice del tutto contin­
gente 8; in seguito, poi, si verifica che il tessuto descrittivo,
che a prima vista sembra dare grande importanza (per dimen­
sioni e cura dei dettagli) all’oggetto Rouen, è in realtà soltanto
una specie di sfondo destinato ad accogliere i gioielli di qual­
che rara metafora, l’eccipente neutro, prosaico che avvolge la
preziosa sostanza simbolica, come se di Rouen importassero

6 E. R. Curtius, La littérature européenne et le Moyen Age latin, PUF, Paris


1956, cap. x.
7 Le sei versioni successive di questa descrizione sono date da A. Albalat, Le
Travail de style, A. Colin, Paris 1903, pp. 72 sgg.
8 Meccanismo definito bene da Valéry, in Littérature, quando commenta il
verso di Baudelaire: «La servante au grand cœur... » («Questo verso è venuto a
Baudelaire... E Baudelaire ha continuato. Ha sepolto la cuoca in un’aiuola, contro
la consuetudine ma secondo la rima, ecc. »).
τ55
solo le figure rettoriche alle quali si presta la veduta della cit­
tà, come se Rouen fosse degna di nota solo in quanto pretesto
a sostituzioni (gli alben delle navi come una foresta di guglie, le
isole come grandi pesci neri immobili, le nubi come flutti aerei
che si infrangono in silenzio contro uno scoglio); infine, si sco­
pre che tutta la descrizione è costruita per assimilare Rouen a
un quadro: il linguaggio riprende una scena dipinta («Cosi, vi­
sto dall’alto, tutto il paesaggio aveva Paria immobile di un
quadro»); lo scrittore realizza qui la definizione che Platone
dava dell’artista: un facitore di terzo grado, dal momento che
imita ciò che è già simulazione di un’essenza9.
In questo modo, anche se la descrizione di Rouen è del tut­
to «non pertinente» rispetto alla struttura narrativa di Mada­
me Bovary (non è possibile, infatti, collegarla ad alcuna se­
quenza funzionale né ad alcun significato di carattere, di at­
mosfera o di conoscenza), essa non è affatto scandalosa, ed è
giustificata, se non proprio dalla logica dell’opera, per lo me­
no dalle leggi della letteratura: il suo «senso» esiste, e dipende
dalla conformità non al modello, ma alle regole culturali della
rappresentazione.
La finalità estetica della descrizione flaubertiana è tuttavia
impregnata di imperativi «realistici», come se l’esattezza del
referente, superiore o indifferente ad ogni altra funzione, im­
ponesse e giustificasse da sola, apparentemente, il fatto di de­
scriverlo o - nel caso di descrizioni ridotte a una sola parola -
di denotarlo: i vincoli estetici si intrecciano qui - almeno a ti­
tolo di alibi - a quelli referenziali: è probabile che, se si arri­
vasse a Rouen in diligenza, la vista che si godrebbe scendendo
dalla collina che porta in città non sarebbe «obiettivamente»
diversa dal panorama descritto da Flaubert. Questa mescolan­
za - questo incrociarsi - di vincoli ha un duplice vantaggio:
da una parte, la funzione estetica, dando un senso «al brano»,
blocca quella che potremmo chiamare la vertigine della nota­
zione; se infatti il discorso non fosse piu guidato e limitato da­
gli imperativi strutturali dell’aneddoto (funzioni e indizi), non
vi sarebbe più niente per indicare perché si debba chiudere
con i dettagli della descrizione qui e non altrove; se quest’ul­
tima non obbedisse a una scelta estetica o rettorica, nessuna
«veduta» sarebbe mai esaurita dal discorso: vi sarebbe sem-

9 Platone, Repubblica, X, 599.


1^6 L’EFFETTO DI REALE

pre un angolo, un dettaglio, una sfumatura di spazio o di colo­


re da riferire; e d’altra parte, ponendo il referente come reale,
fingendo di seguirlo in modo subalterno, la descrizione reali­
stica evita di lasciarsi coinvolgere in un’attività fantasmatica
(precauzione che si riteneva necessaria all’«obiettività» della
relazione); la rettorica classica aveva istituzionalizzato, in un
certo senso, il fantastico con il nome di una figura particolare,
l’ipotiposi, che aveva il compito di «mettere le cose sotto gli
occhi del fruitore » non in modo neutro, constativo, ma la­
sciando alla rappresentazione tutta la forza del desiderio (ciò
faceva parte del discorso fortemente illuminato, dai contorni
coloriti: Villustris oratió)\ rinunciando dichiaratamente alle co­
strizioni del codice rettorico, il realismo deve cercare una
nuova ragione di descrivere.
I residui irriducibili dell’analisi funzionale hanno in comu­
ne la denotazione di quello che va comunemente sotto il no­
me di «reale concreto» (piccoli gesti, atteggiamenti momenta­
nei, oggetti insignificanti, discorsi ridondanti). La «rappre­
sentazione» pura e semplice del «reale», la nuda relazione di
«ciò che è» (o è stato) appare dunque una resistenza al senso;
tale resistenza conferma la grande contrapposizione mitica tra
vissuto (vivente) e intelligibile; basti ricordare che, nell’ideo­
logia del nostro tempo, il riferimento ossessivo al «concreto»
(in ciò che si chiede rettoricamente alle scienze umane, al­
la letteratura, ai comportamenti) è sempre armato come una
macchina da guerra contro il senso, come se, per un’esclu­
sione di diritto, quel che vive non potesse significare, e vi­
ceversa.
La resistenza del «reale» (nella sua forma scritta, ovvia­
mente) alla struttura è molto limitata nel racconto di finzio­
ne, costruito per definizione su un modello che, per grandi
linee, ha come unici vincoli quelli dell’intelligibile; ma que­
sto stesso «reale» diventa il riferimento essenziale nel raccon­
to storico, che ha il compito di riferire «ciò che è realmente
accaduto»: poco importa allora la non-funzionalità di un det­
taglio, dal momento che esso denota «ciò che è avvenuto»;
il «reale concreto» diventa la giustificazione sufficiente del
dire.
La storia (il discorso storico: historìa rerum gestarum) è in
realtà il modello dei racconti che ammettono di colmare gli in­
terstizi delle loro funzioni con notazioni strutturali superflue,
ed è logico che il realismo letterario sia stato, con qualche de-
L’EFFETTO DI REALE 157

cennio di approssimazione, contemporaneo al regno della sto­


ria «obiettiva», al che bisogna aggiungere Fattuale sviluppo
delle tecniche, delle opere e delle istituzioni fondate sull’in­
cessante bisogno di autenticare il «reale»: la fotografia (testi­
monianza immediata di «ciò che vi è stato»), il reportage, le
esposizioni di oggetti antichi (il successo dello show Tut anka­
men lo dimostra a sufficienza), il turismo dei monumenti e dei
luoghi storici. Tutto ciò dice come il «reale» sia ritenuto suf­
ficiente a se stesso, abbastanza forte per smentire ogni idea di
«funzione», al punto che la sua enunciazione non ha alcun bi­
sogno di essere integrata in una struttura, e che Yesserci-stato
delle cose è un principio sufficiente del discorso.
Fin dall’Antichità il «reale» è stato dalla parta della Storia,
ma soprattutto per meglio contrapporsi al verosimile, cioè al­
l’ordine stesso del racconto (dell’imitazione o «poesia»).
Tutta la cultura classica è vissuta per secoli sull’idea che il
reale non potesse in alcun modo contaminare il verosimile; in­
nanzitutto, perché il verosimile non è mai altro che l’opinabi­
le: è completamente assoggettato all’opinione (del pubblico);
Nicole diceva: «Non bisogna guardare le cose come sono in sé
né quali le conosce chi parla o scrive, ma soltanto in relazione
a ciò che ne sanno coloro che leggono o che ascoltano » 10; in
secondo luogo, perché si pensava fosse generale, e non parti­
colare come la Storia (donde la propensione, nei testi classici,
a rendere funzionali tutti i dettagli, a produrre strutture forti
e a non lasciare nessuna notazione sotto la sola garanzia del
«reale»); infine, perché nel verosimile il contrario non è mai
impossibile, dal momento che la notazione si fonda su un’opi­
nione maggioritaria, ma non assoluta.
La parola chiave, sottintesa all’inizio di ogni discorso clas­
sico (sottoposto al verosimile antico), è: Esto (,Sia, Ammet­
tiamo...) La notazione «realista», parcellare, potremmo di­
re interstiziale di cui qui ci occupiamo rinuncia a quell’impli-
cita introduzione, e si è liberata di qualsiasi postulato caute­
lativo per collocarsi all’interno del tessuto strutturale. Esi­
ste perciò una rottura tra il verosimile antico e il realismo
moderno; proprio per questo, però, nasce un nuovo verosi­
mile, per l’appunto il realismo (con questo termine intendia-

10 Citato da R. Bray, Formation de la doctrine classique, Nizet, Paris 1963,


p. 208.
L’EFFETTO DI REALE

mo ogni discorso che accetti enunciazioni legittimate dal


solo referente).
Semioticamente, il «dettaglio concreto» è costituito dalla
collusione diretta di un referente e di un significante; il signi­
ficato è espulso dal segno, e con esso, ovviamente, anche la
possibilità di sviluppare una forma del significato, cioè, in real­
tà, la stessa struttura narrativa (la letteratura realistica è in­
dubbiamente narrativa, ma perché in essa il realismo è sol­
tanto frammentario, erratico, confinato ai «dettagli», e il rac­
conto piu realistico che si possa immaginare si svolge secondo
modi irrealistici). E quella che potremmo chiamare Γillusione
referenziale11. La verità di questa illusione è la seguente: sop­
presso dall’enunciazione realistica in quanto significato di de­
notazione, il «reale» vi ritorna come significato di connota­
zione; infatti, proprio nel momento in cui quei dettagli do­
vrebbero denotare direttamente il reale, non fanno altro, sen­
za dirlo, che significarlo; il barometro di Flaubert, la porti­
cina di Michelet non dicono insomma nient’altro che questo:
noi siamo ilreale\ cosi, è la categoria del «reale» (e non i suoi
contenuti contingenti) ad essere significata; in altri termini,
proprio la carenza del significato a vantaggio del solo refe­
rente diventa il significante stesso del realismo: si produce un
effetto di reale, fondamento di quel verosimile inconfessato
che costituisce l’estetica di tutte le opere correnti della mo­
dernità.
Questo nuovo verosimile è molto diverso dall’antico, poi­
ché non è né il rispetto delle «leggi del genere» e nemmeno la
loro maschera, ma prende le mosse dall’intenzione di alterare
la natura tripartita del segno per fare della notazione il puro
incontro tra un oggetto e la sua espressione. La disintegrazio­
ne del segno - che sembra essere effettivamente il grande
problema della modernità - è certamente presente nell’im­
presa realista, ma in modo in un certo senso regressivo, dal
momento che avviene nel nome di una pienezza referenziale,
mentre oggi, al contrario, si tratta di svuotare il segno e di al-1

11 Illusione illustrata chiaramente dal programma che Thiers assegnava al­


lo storico: «Essere semplicemente veri, essere ciò che sono le cose stesse, non
essere nulla di piu, nulTaltro che attraverso di esse, come esse, quanto esse»
(cit. da C. Yullian, Historìens français du x ix e siècle, Hachette, Paris s.d., p.
LXIIl).
159
lontanarne alPinfinito l’oggetto, fino a mettere in discussio­
ne in modo radicale la secolare estetica della «rappresenta­
zione ».

1968, in «Communications».
Allegato
La scrittura dell’evento

Descrivere Γevento implica che Pevento sia stato scritto.


Come può essere scritto un evento? Che cosa può significare
la «scrittura delPevento»?
L’evento del Maggio ’68 sembra essere stato scritto in tre
modi, con tre scritture, la cui unione poligrafica costituisce
forse la sua originalità storica.

i . La parola.

Ogni scossone nazionale produce un florilegio improvviso


di commenti scritti (giornali e libri). Ma non di questo si in­
tende parlare in questa sede. La parola del Maggio ’68 ha avu­
to aspetti originali, che devono essere sottolineati.
i. La parola radiofonica (quella delle stazioni cosiddette
«periferiche») ha seguito passo passo l’evento, man mano che
si svolgeva, in modo ansimante, drammatico, imponendo l’i­
dea che la conoscenza dell’attualità non dipende piu dalla car­
ta stampata, ma dalla parola. La storia «calda», in corso di
svolgimento, è una storia auditiva \ l’udito torna ad essere
quel che era nel Medioevo: non soltanto il primo dei sensi
(precedente il tatto e la vista), ma il senso che sta alla base del­
la conoscenza (come per Lutero era alla base della fede del cri­
stiano). Ma non è tutto. La parola informativa (del reporter)
si è cosi strettamente mescolata all’evento, all’opacità stessa
del suo presente (basti pensare a certe notti di barricate), da
esserne il senso immediato e consustanziale, il suo modo per
accedere a un’intelligibilità istantanea; ciò significa che, nei1

1 Bisogna ricordare quelle strade piene di uomini immobili, che non vedono
nulla, non guardano nulla, gli occhi bassi, ma con l’orecchio incollato al transistor
che tengono all’altezza del viso, raffiguranti cosi una nuova anatomia umana.
IÓ2 LA SCRITTURA DELL,EVENTO

termini della cultura occidentale, in cui nulla può essere per­


cepito come privo di senso, essa era Tevento stesso. La distan­
za millenaria tra Tatto e il discorso, Tevento e la testimonian­
za, si è ridotta: è apparsa una nuova dimensione della storia,
legata ormai immediatamente al suo discorso, mentre tutta la
«scienza» storica aveva invece il compito di riconoscere tale
distanza, al fine di controllarla. Non solo la parola radiofonica
ragguagliava i partecipanti sulle propaggini della loro stessa
azione (a pochi metri di distanza), tanto che il transistor di­
ventava l’appendice corporea, la protesi auditiva, il nuovo or­
gano fantascientifico di certi manifestanti, ma anche, per la
comprensione del tempo, per l’eco immediata dell’atto, essa
orientava, modificava Tevento, insomma, lo scriveva: fusione
tra il segno e Ü suo ascolto, reversibilità tra scrittura e lettura
che è richiesta altrove, ovvero da quella rivoluzione della
scrittura che la modernità tenta di compiere.
2. I rapporti di forza tra i diversi gruppi e partiti impegnati
nella crisi sono stati essenzialmente parlati, nel senso che lo
spostamento tattico o dialettico di tali rapporti durante le
giornate del Maggio è avvenuto attraverso e per mezzo (confu­
sione tra veicolo e causa che contraddistingue il linguaggio)
del comunicato, della conferenza stampa, della dichiarazione,
del discorso. Non solo la crisi ha avuto un suo linguaggio, ma
è stata essa stessa linguaggio (un po’ nel senso in cui André
Glucksmann ha parlato di linguaggio della guerra): è stata la
parola ad avere, in un certo senso, arato la storia, ad averla
fatta esistere come un reticolo di tracce, come una scrittura
operante, spiazzante (non è certo per un polveroso pregiudi­
zio che consideriamo la parola come un’attività illusoria, rumo­
rosa e vana, e che la contrapponiamo agli atti); la natura «par­
lata » della crisi è qui tanto piu visibile in quanto non ha avu­
to, per essere precisi, alcun effetto omicida, irrimediabile (la
parola è infatti ciò che può essere «ripreso»; il suo antonimo
rigoroso, al punto da definirla, non può che essere la morte)2.
3. La parola studentesca è straripata come un fiume in pie­
na, diffondendosi per ogni dove, arrivando e insinuandosi
dappertutto, tanto che sarebbe in una certa misura legittimo
definire superficialmente - ma forse anche in modo essenzia­
le - la rivolta universitaria una Presa della Parola (come si di-

2 L’insistenza con cui si è ripetuto, in ogni dove, che qualunque cosa accada
dopo non potrà essere come prima, traduce indubbiamente, in modo denegatorio,
il timore (o la speranza) che per l’appunto dopo ridivenga prima: dal momento che
l’evento è parola, può, miticamente, annullarsi.
LA SCRITTURA DELL’EVENTO 163
ce: Presa della Bastiglia). Retrospettivamente, sembra che lo
studente sia stato un essere defraudato di parola; defraudato,
ma non privo: per provenienza di classe, per vaga pratica cul­
turale, lo studente dispone del linguaggio; il linguaggio non gli
è sconosciuto, egli non ne ha (o non ne ha piu) paura; il pro­
blema era di conquistarne il potere, Fuso attivo. Cosi, per un
paradosso solo apparente, nel momento stesso in cui la parola
studentesca rivendicava unicamente in nome dei contenuti,
essa comportava in realtà un aspetto profondamente ludico;
lo studente ha cominciato a maneggiare la parola come attivi­
tà, come lavoro libero, e non, nonostante le apparenze, come
semplice strumento. Tale attività ha assunto forme diverse,
che corrispondono forse ad altrettante fasi del movimento
studentesco nel corso della crisi.
a) Una parola «selvaggia», fondata sull’«invenzione», che
perciò, naturalmente, incontra sulla sua strada le « trovate »
della forma, le sintesi rettoriche, i piaceri dello slogan, insom­
ma la felicità espressiva (« Vietato vietare», ecc.); molto simile
alla scrittura, la parola in questione (che ha colpito vivamente
l’opinione pubblica) ha assunto logicamente la forma dellΊ-
scrizione; la sua dimensione naturale è stata il muro, luogo
fondamentale della scrittura collettiva.
b) Una parola «missionaria», concepita in modo puramente
strumentale, destinata a trapiantare altrove (alle porte delle
fabbriche, sulle spiagge, per la strada, ecc.) gli stereotipi della
cultura politica.
c) Una parola «funzionalista», veicolo dei progetti di rifor­
ma, che assegnava all'Università una funzione sociale, a volte
politica a volte economica, e recuperava cosi certe parole d ’or­
dine della tecnocrazia precedente («adattare l’insegnamento
ai bisogni della società», «collettivizzazione della ricerca»,
primato del «risultato», prestigio dell’«interdisciplinarità»,
«autonomia», «partecipazione», ecc.3).
La parola «selvaggia» è stata ben presto eliminata, imbal­
samata nelle pieghe inoffensive della «letteratura» (surreali­
sta) e nelle illusioni della «spontaneità»; in quanto scrittura,
poteva solo essere inutile (in attesa di diventare intollerabile)
per qualsiasi forma di potere, posseduto o rivendicato; le altre
due parole sono spesso mescolate: miscuglio che riproduce ef-

3 Se si raccolgono queste parole d’ordine, disseminate in un buon numero di


mozioni come le tessere di un puzzle, ci si accorge che l’immagine finale che esse
formano non è altro che quella dell’Università americana.
LA SCRITTURA DELL’EVENTO

ficacemente Γ ambiguità politica dello stesso movimento stu­


dentesco, minacciato, per la sua situazione storica e sociale,
dal sogno di una «social-tecnocrazia».

2. Il simbolo.

In questa crisi, come è stato spesso notato, i simboli non


sono mancati; sono stati prodotti e consumati con grande
energia, e soprattutto, fatto sintomatico, sono stati coltivati
da un generale e condiviso compiacimento. Il paradigma delle
tre bandiere (rossa/nera/tricolore), con le sue associazioni per­
tinenti di termini (rosso e nero contro tricolore, rosso e trico­
lore contro nero), è stato «parlato» (bandiere issate, brandite,
tolte, invocate, ecc.) da tutti o quasi: un bell’accordo, se non
sui simboli, almeno sul sistema simbolico (che, in quanto tale,
dovrebbe essere il bersaglio finale di una rivoluzione occiden­
tale). Stesse vicissitudini simboliche per la barricata: simbolo
di per sé, dacché fu elevata la prima, della Parigi rivoluziona­
ria, nonché luogo in cui si investe un’intera rete di altri sim­
boli. Emblema completo, la barricata ha permesso di distur­
bare e smascherare altri simboli: quello della proprietà, per
esempio, riposto ormai per i Francesi, a quanto si è visto, mol­
to piu nell’auto che non nella casa. Altri simboli sono stati
mobilitati: il monumento (la Borsa, l’Odeon), la manifestazio­
ne, l’occupazione, l’abbigliamento e ovviamente il linguaggio,
nei suoi aspetti piu codificati (cioè simbolici, rituali4). Di tut­
ti questi simboli bisognerebbe redigere un inventario; non
tanto perché ci si debba aspettare un elenco molto eloquente
(è poco probabile, nonostante o a causa della «spontaneità»
che è stata alla base del loro sprigionarsi), ma perché il regime
simbolico con il quale un evento funziona è strettamente lega­
to al grado di integrazione dell’evento stesso nella società, di
cui è insieme espressione e perturbamento: un campo simbo­
lico non è solo un’unione (o un antagonismo) di simboli; è co­
stituito anche da un gioco omogeneo di regole, da un ricorso
comunemente consentito a tali regole. Una specie di adesione
quasi unanim e5 ad uno stesso discorso simbolico sembra in
4 Ad esempio: lessico dell’attività rivoluzionaria («comitati», «commissioni»,
«mozioni», «ordini del giorno», ecc.), rituale della comunicazione (dare del tu,
chiamarsi per nome, ecc.).
5 La cosa piu importante, in questo inventario, sarebbe in fondo trovare il mo­
do in cui ogni gruppo ha o non ha giocato il gioco simbolico: rifiuto della bandiera
(rossa o nera), rifiuto della barricata, ecc.
LA SCRITTURA DELL’EVENTO 165
fondo aver contrassegnato protagonisti e avversari della con­
testazione: quasi tutti hanno praticato il medesimo gioco sim­
bolico.

3. La violenza.

La violenza, che nella mitologia moderna è ricondotta, co­


me se fosse scontato, alla spontaneità e all’effettività, e che in
questo caso è simboleggiata, concretamente prima e verbal­
mente poi, dalla «strada», luogo della parola liberata, del con­
tatto libero, spazio contro-istituzionale, antiparlamentare e
andiniellettuale, opposizione dell’immediato contro le possi­
bili astuzie di ogni mediazione, ebbene, la violenza è una
scrittura: è (secondo la nota argomentazione di Derrida) la
traccia nel suo gesto piu profondo. La scrittura stessa (se si ac­
cetta di non confonderla piu necessariamente con lo stile o la
letteratura) è violenta. È proprio ciò che di violento si trova
nella scrittura a separarla dalla parola, a rivelare in essa la for­
za di iscrizione, la portata di una traccia irreversibile. A tale
scrittura della violenza (scrittura eminentemente collettiva)
non manca neppure un codice; comunque si renda conto di
essa, tatticamente o in modo psicanalitico, la violenza implica
un linguaggio della violenza, cioè segni (operazioni o pulsioni)
ripetuti, combinati in figure (azioni o complessi), insomma:
un sistema. Approfittiamone per ripetere che la presenza (o la
postulazione) del codice non intellettualizza l’evento (contra­
riamente a ciò che asserisce reiteratamente la mitologia anti-
intellettualistica): l’intelligibile non è l’intellettuale.

A prima vista sono questi gli orientamenti che potrebbe


prendere una descrizione delle tracce di cui è costituito l’e­
vento. Questo genere di descrizione rischierebbe tuttavia di
essere inerte se non lo si collegasse fin dall’inizio a due postu­
lati, anch’essi di portata polemica.
Il primo consiste nel separare rigorosamente, sulla scorta di
Derrida, i concetti di parola e di scrittura. La parola non è sol­
tanto ciò che è parlato realmente, ma anche ciò che è trascrit­
to (o meglio translitterato) dell’espressione orale, e che può
benissimo essere stampato (o ciclostilato); legata al corpo, alla
persona, al voler-afferrare, essa è la voce stessa di ogni riven­
dicazione, ma non necessariamente della rivoluzione. La scrit­
tura invece è integralmente «ciò che è da inventare», la rottu-
ι66 LA SCRITTURA DELL’EVENTO

ra vertiginosa con il vecchio sistema simbolico, il cambiamen­


to di tutto un settore del linguaggio. Ciò significa da un lato
che la scrittura (nel senso in cui la si intende qui, e che non ha
nulla a che fare con il bello stile e neppure con lo stile lettera­
rio) non è per niente un fatto borghese (ciò che tale classe ha
elaborato è piuttosto parola stampata), e dall’altro che l’even­
to attuale può fornire soltanto alcuni frammenti marginali di
scrittura, che come si è visto non sono necessariamente stam­
pati; si considererà con sospetto ogni esclusione della scrittu­
ra, ogni primato sistematico della parola, perché, quale che sia
l’alibi rivoluzionario, entrambe tendono a conservare il vec­
chio sistema simbolico e rifiutano di collegarne la rivoluzione
a quella della società.
Il secondo postulato consiste nel non aspettarsi dalla de­
scrizione scritturale una «decifrazione». Considerare l’evento
dal punto di vista delle possibilità di mutazione simbolica che
esso può comportare vuol dire innanzitutto rompere in prima
persona, per quanto è possibile (non è facile, richiede un lavo­
ro continuo, iniziato qua e là, è giusto ricordarlo, da qualche
anno), con il sistema di senso che l’evento, se vuol essere rivo­
luzionario, deve incaricarsi di minare. Il versante critico del
vecchio sistema è l’interpretazione, cioè l’operazione con la
quale si attribuisce a un gioco di apparenze confuse o addirit­
tura contraddittorie una struttura unitaria, un senso profon­
do, una spiegazione «autentica». All’interpretazione bisogna
dunque sostituire un po’ alla volta un discorso nuovo, che ab­
bia come fine non il disvelamento di una struttura unica e
«vera», bensì l’instaurazione di un gioco di strutture molte­
plici: instaurazione a sua volta scrìtta, cioè svincolata dalla ve­
rità di parola; ancor piu esattamente, l’oggetto di una nuova
teoria dovranno essere le relazioni che si intrecciano tra que­
ste strutture concomitanti, rette da regole ancora sconosciute.

1968, in «Communications».
V

L ’am atore di segni


Una folgorazione

Il Berliner Ensemble è venuto in Francia per la prima volta


nel 1954. Alcuni di quelli che l’hanno visto allora hanno avu­
to la rivelazione di un sistema nuovo, che rendeva drastica­
mente superato tutto il nostro teatro. Quella novità non ave­
va nulla di provocatorio e non attingeva al solito repertorio
dell’avanguardia. Era invece, in certo senso, una rivoluzione
sottile.
Tale rivoluzione dipendeva dal fatto che il drammaturgo
(nella fattispecie Brecht) considerava perfettamente compati­
bili valori che il nostro teatro aveva sempre ricusato di riuni­
re. Com’è noto, il teatro brechtiano è un teatro pensato, una
pratica elaborata a partire da una teoria dichiarata, materiali­
stica e semantica al tempo stesso. Quando si è auspicato un
teatro politico alla luce del marxismo e un’arte che sorvegli ri­
gorosamente i propri segni, come non essere folgorati dal la­
voro del Berliner? Inoltre, nuovo paradosso, quel lavoro poli­
tico non rifiutava la bellezza: la tuta piu modesta, i materiali
piu sobri, la fibbia di un cinturone, uno straccio grigio costi­
tuivano in ogni occasione un quadro che non copiava mai la
pittura e che tuttavia non sarebbe stato possibile senza un gu­
sto molto raffinato: quel teatro che voleva essere impegnato
non temeva di essere distinto (termine che bisognerebbe libe­
rare dalla sua futilità corrente per dargli un senso vicino allo
«straniamento» brechtiano). L’insieme di quei due valori pro­
duceva un fenomeno pressoché sconosciuto in Occidente (e,
per l’appunto, Brecht l’aveva forse appreso dall’Oriente): un
teatro senza isterismo.
Infine, ultima squisitezza, quel teatro intelligente, politico
e di una sontuosità ascetica era anche, del resto in conformità
con un precetto di Brecht, un teatro divertente: mai una tira­
ta, mai una predica, mai neppure quell’edificante manichei­
smo che oppone di solito, in ogni arte politica, i buoni prole-
170 UNA FOLGORAZIONE

tari e i cattivi borghesi, ma sempre un argomento inatteso,


una critica sociale condotta fuori della noia degli stereotipi e
capace di far scattare la molla piu segreta del piacere, la finez­
za. Un teatro al tempo stesso rivoluzionario, significante e vo­
luttuoso, chi poteva pretendere di piu?
Quel sorprendente connubio non aveva tuttavia nulla di
magico; non sarebbe stato possibile senza un dato materiale,
che mancava - e manca ancora - al nostro teatro. Da noi ha
regnato, a lungo eredità di una tradizione spiritualista che Co­
peau ha simboleggiato benissimo, la comoda convinzione che
si possa fare dell’ottimo teatro senza denaro: la povertà dei
mezzi diventava allora un valore sublime, e trasformava gli at­
tori in officianti. Il teatro brechtiano è invece un teatro costo­
so, per la cura inaudita degli allestimenti, l’elaborazione dei
costumi - la cui meditata esecuzione costa infinitamente di
piu del lusso sfrenato di certe scene altamente spettacolari -,
il numero delle prove, la sicurezza professionale degli attori,
tanto necessaria alla loro arte. Un teatro cosi popolare e insie­
me raffinato è impossibile in un'economia privata, dove non
potrebbe essere sostenuto né dal pubblico borghese, che fa in­
casso, né da quello piccolo-borghese, che fa numero. Dietro
il successo del Berliner, dietro la perfezione del suo lavoro,
che tutti potevano constatare, bisognava quindi vedere tutta
un'economia, tutta una politica.
Non so che cosa ne sia stato del Berliner dopo la morte di
Brecht, ma so che il Berliner del 1954 mi ha insegnato molte
cose - e ben al di là del teatro.

19 7 1, in « Le Monde ».
Un bellissimo regalo

Jokobson ha fatto un bellissimo regalo alla letteratura: le ha


dato la linguistica. Certo, la letteratura non ha dovuto aspet­
tare questo per sapere di essere Linguaggio: tutta la rettorica
classica, fino a Valéry, sta ad attestarlo; ma da quando una
scienza del linguaggio è andata elaborandosi (innanzitutto
sotto forma di linguistica storica e comparativa delle lingue),
essa si è stranamente disinteressata degli effetti di senso, soc­
combendo a sua volta, nel secolo del positivismo (il x l x ), al ta­
bu dei terreni riservati: da un lato la Scienza, la Ragione, il
Fatto; dal?altro l’Arte, la Sensibilità, l’Impressione. Fin da
giovane Jakobson è stato coinvolto nella correzione di tale
stato di cose: perché questo linguista ha tenuto a rimanere
sempre un grande amatore di poesia, di pittura, di cinema,
perché nella sua ricerca scientifica non ha mai censurato il
proprio piacere di uomo colto, e ha sentito che Γautentico fat­
to scientifico della modernità non era il fatto, bensì la relazio­
ne. All’origine della linguistica generalizzata da lui delineata
vi fu un gesto decisivo di apertura delle classificazioni, delle
caste, delle discipline: parole che con lui hanno perduto il loro
lezzo separatista, penale, razzista; non esistono piu proprieta­
ri (della Letteratura, della Linguistica) e i cani da guardia sono
stati ricacciati nei loro recinti.
Jakobson ha toccato la Letteratura in tre modi. Anzitutto,
ha creato all’interno stesso della linguistica un dipartimento
speciale, la Poetica; questo settore (ed è qui la novità del suo la­
voro, il suo apporto storico) non è stato definito partendo dalla
Letteratura (come se la Poetica dipendesse sempre dal «poeti­
co» o dalla «poesia»), ma dall’analisi delle funzioni del linguag­
gio: ogni enunciazione che mette l’accento sulla forma del mes­
saggio è poetica; egli ha potuto cosi, a partire da un posizione lin­
guistica, ricollegarsi alle forme vitali (spesso le piu emancipate)
della Letteratura: il diritto all’ambiguità dei sensi, il sistema
delle sostituzioni, il codice delle figure (metafora e metonimia).
172 UN BELLISSIMO REGALO

Piu ancora di Saussure, Jakobson ha agito a favore di una


pansemiotica, di una scienza generalizzata (e non soltanto ge­
nerale) dei segni; anche in questo caso, però, la sua posizione
è stata doppiamente di avanguardia: da una parte, infatti, ha
mantenuto in questa scienza, la preminenza del linguaggio ar­
ticolato (sapendo benissimo che il linguaggio è dappertutto, e
non soltanto à côté), e dall’altra ha immediatamente aggiunto
alla semiotica i campi dell’Arte e della Letteratura, postulan­
do di conseguenza che la semiologia è scienza della significa­
zione - e non della semplice comunicazione (egli elimina cosi
nella linguistica ogni rischio di finalità o di uso tecnocratici).
Infine, la sua stessa linguistica prepara mirabilmente quello
che oggi possiamo pensare del Testo: cioè che il senso di un
segno è in realtà soltanto la sua traduzione in un altro segno,
il che vuol dire definire il senso non come un significato ulti­
mo, ma come un altro livello significante; e anche che il lin­
guaggio piu comune comporta un numero rilevante di enun­
ciati metalinguistici, che attestano la necessità per l’uomo di
pensare il proprio linguaggio nel momento stesso in cui parla:
attività capitale che la Letteratura non fa altro che portare al
suo massimo grado di incandescenza.
Lo stile stesso del suo pensiero, stile brillante, generoso,
ironico, espansivo, cosmopolita, mobile e, si potrebbe dire,
diabolicamente intelligente, predisponeva Jakobson a tale storica
funzione di apertura, di abolizione della proprietà disciplinare.
E comunque possibile anche un altro stile, fondato sia su una
cultura piu storica sia su una nozione piu filosofica del soggetto
parlante: penso qui all’opera indimenticabile (eppure un po’ di­
menticata, a parer mio) di Benveniste, che non deve mai essere
dissociato (e Jakobson sarebbe d ’accordo) da qualsiasi omaggio
reso al ruolo decisivo della Linguistica nella nascita di quell’tf/-
tra cosa che agita il nostro secolo. Jakobson, attraverso tutte le
proposte nuove e irreversibili di cui è intessuta la sua opera in
cinquantanni, è per noi quel protagonista storico che, con una
mossa intelligente, fa cadere definitivamente nel passato alcune
cose molto rispettabili alle quali tenevamo: egli trasforma il
pregiudizio in anacronismo. Tutto il suo lavoro ci ricorda che
«ciascuno di noi ha definitivamente capito che un linguista sor­
do alla funzione poetica, come uno specialista della letteratura
indifferente ai problemi e ignorante dei metodi linguistici, so­
no entrambi, fin d ’ora, flagranti anacronismi».

1971, in « Le Monde ».
Perché amo Benveniste

i.

L’attuale preminenza dei problemi del linguaggio irrita al­


cuni, che in essa vedono una moda eccessiva. Costoro dovran­
no tuttavia farsene una ragione: probabilmente abbiamo ap­
pena cominciato a parlare del linguaggio: insieme alle scienze
che tendono oggi a ricollegarsi ad essa, la linguistica entra nel­
l’aurora della sua storia; dobbiamo scoprire il linguaggio come
stiamo scoprendo lo spazio: il nostro secolo sarà forse contras-
segnato da queste due esplorazioni.
Ogni libro di linguistica generale risponde oggi a un’esigen­
za impellente della cultura, a un bisogno di sapere formulato
da tutte le scienze il cui oggetto è, direttamente o indiretta­
mente, apparentato con il linguaggio. Ora, la linguistica è dif­
ficile da esporre, poiché partecipa sia di una necessaria specia­
lizzazione sia di un progetto antropologico che sta per disper­
dersi in mille rivoli. Di conseguenza, i libri di linguistica gene­
rale sono poco numerosi, almeno in francese; esistono gli Ele­
menti di M artinet e i Saggi di Jakobson; tra poco, saranno
tradotti i Fondamenti di Hjelmslev. E oggi c’è l’opera di Ben­
veniste.
Si tratta di una raccolta di articoli (unità normali della ri­
cerca linguistica), alcuni dei quali già celebri (sull’arbitrarietà
del segno, sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudia­
na, sui livelli dell’analisi linguistica). I primi testi riguardano
la descrizione della linguistica attuale: è d ’obbligo raccoman­
dare qui il bellissimo articolo che Benveniste dedica a Saussu­
re, il quale in realtà non ha scritto niente dopo la sua memoria
sulle vocali indoeuropee, poiché pensava di non poter portare
a compimento tutta in una volta quella totale sovversione del­
la linguistica precedente che gli occorreva per edificare la pro­
pria, e il cui «silenzio» ha la grandezza e la portata del silen­
zio di un autentico scrittore. Gli articoli successivi si colloca­
no ai punti cardinali dello spazio linguistico: la comunicazione,
PERCHÉ AMO BENVENISTE

ossia il segno articolato, situato rispetto al pensiero, al lin­


guaggio animale e al linguaggio onirico; la struttura (ho citato
il testo capitale sui livelli dell’analisi linguistica: è il caso di se­
gnalare anche quello, affascinante per la sua chiarezza, in cui
Benveniste stabilisce il sistema sublogico delle preposizioni in
latino, che tante spiegazioni aveva richiesto quando facevamo
versioni in latino: ora tutto si chiarisce grazie alla struttura);
la significazione (Benveniste infatti esamina il linguaggio sem­
pre dal punto di vista del senso); la persona, secondo me parte
decisiva dell’opera, in cui Benveniste analizza essenzialmente
Γorganizzazione dei pronomi e dei tempi. L’opera si conclude
con alcuni studi sul lessico.
Tutto ciò forma il bilancio di un sapere impeccabile, ri­
sponde con forza e chiarezza alle domande concrete che pos­
sono porsi tu tti coloro che hanno un qualche interesse per il
linguaggio. Ma non è tutto. Il libro non soddisfa soltanto una
domanda presente nella cultura: la anticipa, le dà forma, la di­
rige. Insomma, non è soltanto un libro indispensabile; è anche
un libro importante, insperato: è un libro bellissimo.
Quando la scienza di cui si è specialisti è presa d ’assalto
dalla curiosità di dilettanti di ogni stampo, è molto forte la
tentazione di difenderne gelosamente i confini. Benveniste, al
contrario, ha il coraggio di porre deliberatamente la linguisti­
ca come punto di partenza di un movimento molto vasto e di
individuarne già gli sviluppi futuri in quanto autentica scienza
della cultura, nella misura in cui la cultura è essenzialmente
linguaggio; egli non esita a prendere atto della nascita di una
nuova obiettività, imposta allo studioso dalla natura simbolica
dei fenomeni culturali; lungi dall’abbandonare la lingua ai
margini della società, come se non fosse altro che uno stru­
mento, egli afferma con speranza che «è proprio la società che
comincia a riconoscersi come lingua ». Ora, è di capitale im­
portanza per tutto un insieme di ricerche e di rivoluzioni che
un linguista rigoroso come Benveniste sia personalmente co­
sciente dei poteri della sua disciplina, e che, rifiutandosi di
considerarsene il proprietario, riconosca in essa il germe di
una nuova configurazione delle scienze umane.
Questo coraggio è accompagnato da una visione profonda.
Benveniste coglie sempre il linguaggio - e in questo consiste
il suo successo - a quel livello decisivo in cui, senza cessare di
essere pienamente linguaggio, esso porta con sé tutto ciò che
eravamo abituati a considerare come esterno o anteriore ad
esso. Prendete tre contributi, tra i piu importanti: il primo
175
sulla voce media dei verbi indoeuropei, il secondo sulla strut­
tura dei pronomi personali, il terzo sul sistema dei tempi in
francese; tutti e tre trattano diversamente una nozione capi­
tale in psicologia: quella di persona. E Benveniste riesce ma­
gistralmente a radicare tale nozione in una descrizione pura­
mente linguistica. Più generalmente, ponendo il soggetto (nel
senso filosofico del termine) al centro delle grandi categorie
del linguaggio, e mostrando, a partire da fatti diversissimi,
che tale soggetto non può mai essere distinto da una «istanza
del discorso», differente dall’istanza della realtà, Benveniste
fonda linguisticamente, cioè scientificamente, l’identità del
soggetto e del linguaggio, posizione che è al centro di molte ri­
cerche attuali e che interessa sia la filosofia sia la letteratura;
analisi del genere segnalano forse l’uscita da una vecchia anti­
nomia, mal liquidata: quella del soggettivo e dell’oggettivo,
dell’individuo e della società, della scienza e del discorso.
I libri di cultura, di ricerca, hanno anch’essi uno «stile».
Questo è di altissima classe. Esiste una bellezza, un’esperien­
za dell’intelletto che conferisce all’opera di certi studiosi quel­
la specie di chiarezza inesauribile di cui sono fatte anche le
grandi opere letterarie. Tutto è chiaro nel libro di Benveniste,
tutto può esservi immediatamente riconosciuto come vero; e
ciononostante, in esso tutto non fa che iniziare.

1966, in «La Quinzaine littéraire», in occasione della pubblicazione degli


Essais de linguistique générale.

2.

Il ruolo di Benveniste nel concerto dei grandi linguisti che


con il loro influsso hanno segnato tutto il lavoro intellettuale
della nostra epoca è estremamente originale - al punto da es­
sere talvolta, a mio avviso, sottovalutato. La sua opera è ancor
oggi doppiamente paradossale: nei confronti della tradizione
e nei confronti di quella che definirei l’avanguardia facile,
quella che ripete invece di ricercare.
Che cosa ci dice dunque? Innanzitutto questo: che il lin­
guaggio non è mai disgiunto da una forma di socialità. Questo
linguista puro, i cui oggetti di studio appartengono in appa­
renza al settore della linguistica generale, trascendente, in
realtà considera sempre il linguaggio in quelle che potremmo
176 PERCHÉ AMO BENVENISTE

chiamare le sue concomitanze: il lavoro, la storia, la cultura, le


istituzioni, insomma tutto ciò che costituisce il reale dell’uo­
mo. Il Vocabulaire des institutions indo-européennes, gli studi
sui nomi di agente, sui preverbi prae-o vor-, sono testi che sna­
turano la disciplina linguistica, compiono quel movimento
sovversivo che dissolve la compartimentazione disciplinare e
lascia apparire una nuova scienza, senza nome; è il momento
in cui la linguistica cessa di detenere una leadership teatrale e
diventa veramente la «sociologia» universale: la scienza della
società che parla, che è società proprio perché parla. A questo
livello, il lavoro di Benveniste è sempre critico; nel suo inten­
to demistificatore, cerca senza sosta di rovesciare dei pregiudi­
zi coltile di gettare una luce implacabile (è infatti uno studioso
di grande rigore) sulla natura sociale del linguaggio. Tale po­
tere gli deriva dal giusto situarsi - oggi, però, raro e scarsa­
mente apprezzato - del suo lavoro: è un linguista delle lingue,
e non soltanto un linguista del linguaggio.
All’altro capo della catena (ma lo iato sorprenderà soltanto
quei fatui che continuano imperturbabili a contrapporre sto­
ria e struttura), Benveniste ha dato consistenza scientifica a
una nozione che ha assunto la massima importanza nel lavoro
dell’avanguardia: l’enunciazione. L’enunciazione non è l’e­
nunciato (è ovvio), e non è neppure (proposizione piu sottile
e piu rivoluzionaria) la semplice presenza della soggettività
nel discorso; essa è l’atto, rinnovato, con il quale il locutore
prende possesso della lingua (se ne appropria, dice giustamen­
te Benveniste): il soggetto non precede il linguaggio; diventa
soggetto proprio perché parla; insomma, non esistono «sogget­
ti» (e di conseguenza non esiste «soggettività»), bensì soltanto
locutori; anzi - e Benveniste non si stanca di ricordarlo -, sol­
tanto interlocutori.
Da tale punto di vista, Benveniste estende notevolmente la
nozione di shifter, brillantemente suggerita da Jakobson; egli
fonda una nuova linguistica, che esiste soltanto nella sua ope­
ra (e soprattutto non in Chomsky): la linguistica dell’interlo­
cuzione; il linguaggio, e di conseguenza il mondo, si articola­
no su questa forma: io/tu. Si capisce allora l’insistenza di Ben­
veniste nel trattare, per tutta la sua opera, dei pronomi cosid­
detti personali, della temporalità, della diatesi, della compo­
sizione (atto privilegiato di appropriazione del lessico). Si
capisce anche perché Benveniste abbia saputo stabilire, fin
dai primi lavori, un ponte tra linguistica e psicanalisi; perché
questo specialista del persiano antico abbia potuto senza sfor-
177
20 comprendere - o quanto meno vietarsi deliberatamente di
censurare - le nuove ricerche della semiologia (Metz, Sche-
fer) e il lavoro dell’avanguardia sulla lingua. L’interesse primo
del nuovo libro di Benveniste è proprio questo: è il libro del­
l’enunciazione.
I doni intellettuali di uno studioso (non ciò che gli è dato,
bensì quel che ci dà) dipendono, ne sono convinto, da una
forza che non è soltanto quella del sapere e del rigore, ma an­
che quella della scrittura, o, per riprendere un termine di cui
si conosce ora l’accezione radicale, dell’enunciazione. La lin­
gua di cui si appropria Benveniste (dal momento che tale è la
sua definizione dell’enunciazione) non è del tutto quella dei
normali studiosi, e questa lieve differenza basta a costituire
una scrittura. La scrittura di Benveniste è molto difficilmente
a descriversi perché è quasi neutra; solo un termine, talora, è
talmente esatto, l’esattezza sembra accumularsi in esso a tal
punto che brilla, ci affascina come un incantesimo, sull’onda
di una sintassi la cui misura, finitezza e precisione (qualità da
ebanista) stanno ad attestare il piacere che questo studioso ha
provato nel formare la sua frase. La scrittura di Benveniste
presenta cosi quella sottile mescolanza di dispendio e di riser­
bo su cui si fonda il testo, o meglio ancora la musica. Benveni­
ste scrive silenziosamente (la musica non è forse l’arte del si­
lenzio intelligente?), cosi come suonano i piu grandi musicisti:’
c’è, in Benveniste, qualcosa di Richter.
Lavorando con lui, con i suoi testi (che non sono mai sem­
plici articoli), riconosciamo sempre la generosità di un uomo
che sembra ascoltare il lettore e prestargli la propria intelli­
genza, anche quando affronta gli argomenti piu specialistici o
improbabili. Noi leggiamo altri linguisti (bisogna pur farlo),
ma amiamo Benveniste.

1974, in «La Quinzaine littéraire», in occasione della pubblicazione degli


Essais de linguistique générale, IL
La straniera

Anche se recente, la semiologia ha già una storia. Derivata


da una olimpica formulazione di Saussure («È possibile con­
cepire una scienza che studi la vita dei segni nell’ambito della
vita sociale»), essa continua a mettersi in discussione, a fra­
zionarsi, a collocarsi altrove, a entrare in quel gran carnevale
dei linguaggi descritto da Julia Kristeva. Il suo ruolo storico
consiste oggi nell’essere l’intrusa, la terza, colei che interviene
a disturbare quelle buone coppie esemplari di cui ci riempiono
la testa e che sono costituite, a quanto pare, dalla Storia e dal­
la Rivoluzione, dallo Strutturalismo e dalla Reazione, dal de­
terminismo e dalla scienza, dal progressismo e dalla critica dei
contenuti. Nello scombussolare la vita di tali coppie codifica­
te, il lavoro di Julia Kristeva costituisce oggi la strumentazio­
ne finale: ne attiva la spinta e ne detta la teoria.
Già largamente debitore (e sin dall’inizio) di tale lavoro, ne
ho provato ancora una volta, e ora nel suo insieme, la forza.
Forza vuol dire qui spostamento. Julia Kristeva cambia il posto
delle cose: distrugge sempre l ’ultimo pregiudizio , quello di cui
si credeva di poter essere sicuri e orgogliosi; ciò che sposta è il
già-dettOy cioè l’insistenza del significato, ovvero la stupidità;
ciò che sovverte è l’autorità, quella della scienza monologica,
della filiazione. Il suo lavoro è del tutto nuovo, esatto, non
per puritanesimo scientifico, ma perché occupa interamente il
luogo in cui si colloca, lo riempie esattamente , obbligando
chiunque se ne escluda a scoprirsi in posizione di resistenza o
di censura (è quello che, con aria sconvolta, chiamano terro­
rismo).
Dal momento che sto parlando di un luogo della ricerca, di­
rò che per me l’opera di Julia Kristeva consiste nel seguente
avvertimento: che procediamo sempre troppo lentamente,
che perdiamo tempo a «credere», cioè a ripeterci e a compia­
cerci, che basterebbe spesso un piccolo supplemento di libertà
ι8ο LA STRANIERA

in un pensiero nuovo per guadagnare anni di lavoro. In Julia


Kristeva tale supplemento è teorico. Che cos’è la teoria? Non
è né un’astrazione, né una generalizzazione, né una specula­
zione, è una riflessività; è, in un certo senso, lo sguardo rivol­
to da un linguaggio a se stesso (per questo, in una società pri­
va di una pratica socialista e condannata di conseguenza a di­
scorrere, il discorso teorico è transitoriamente necessario). E
in questo senso che, per la prima volta, Julia Kristeva propone
la teoria della semiologia: « Ogni semiotica può essere fatta sol­
tanto come critica della semiotica ». Tale proposta non dev’es­
sere intesa come un auspicio pio e ipocrita (« Critichiamo i se­
miotici che ci hanno preceduto»), bensì come l’affermazione
del fatto che, nel suo discorso stesso e non solo in qualche
clausola, il lavoro della scienza semiotica è intessuto di ripen­
samenti distruttivi, di coesistenze molto difficili, di stravolgi­
menti produttivi.
La scienza dei linguaggi non può essere olimpica, positiva
(meno ancora positivista), in-differente, adiaforica, come dice
Nietzsche; è essa stessa (perché è linguaggio del linguaggio)
dialogica - nozione ridefinita da Julia Kristeva a partire da
Bachtin, da lei introdotto in Francia. Il primo atto di tale dia­
logismo consiste, per la semiotica, nel pensarsi al tempo stesso
e contraddittoriamente sia come scienza sia come scrittura -
cosa che credo non sia mai stata fatta per nessuna scienza, ec­
cetto forse per quella materialistica dei presocratici, e che for­
se permetterebbe, sia detto en passant, di uscire dalla impasse
scienza borghese (parlata) / scienza proletana (scritta, almeno po-
stulativamente).
Il valore del discorso kristeviano risiede nel fatto che è
omogeneo alla teoria che enuncia (e tale omogeneità è la teo­
ria stessa): in esso la scienza è scrittura, il segno è dialogico, il
fondamento è distruttivo; se ad alcuni appare «difficile» è ap­
punto perché è scntto. Questo che cosa significa? Innanzitut­
to che il discorso in questione afferma e pratica al tempo stes­
so la formalizzazione e il suo spostamento, facendo si che la
matematica diventi, tutto sommato, analoga all’opera del so­
gno (cosi si spiegano molte proteste). In secondo luogo, che
esso assume nell’ambito stesso della teoria lo slittamento ter­
minologico delle definizioni cosiddette scientifiche. Infine,
che instaura un nuovo tipo di trasmissione del sapere (il pro­
blema non è il sapere, bensì la sua trasmissione): la scrittura di
Kristeva possiede insieme una discorsività, uno « sviluppo »
(in senso piu «ciclistico» che rettorico) e una formulazione,
l8 l
un marchio (traccia di percezione e di registrazione), una ger­
minazione; è un discorso che non agisce tanto perché «rap­
presenta» un pensiero quanto perché, immediatamente, senza
la mediazione della semplice e mediocre «stesura», lo produce
e lo destina. Ciò significa che la semanalisi può essere fatta
soltanto da Julia Kristeva stessa: il suo discorso non è prope­
deutico, non contempla la possibilità di un «insegnamento»;
ma significa anche, per converso, che il discorso ci trasforma,
ci sposta, ci dà parole, sensi, frasi che ci consentono di lavora­
re e mettono in moto in noi Pattività creativa per eccellenza:
la permutazione.
Insomma, quel che Julia Kristeva fa emergere è una critica
della comunicazione (la prima, credo, dopo quella della psica­
nalisi). Ci mostra come la comunicazione, piatto prelibato del­
le scienze positive (quali la linguistica), delle filosofie e delle
politiche del «dialogo», della «partecipazione» e dello «scam­
bio », sia una merce. Non ci viene forse continuamente ripetu­
to che un libro «chiaro» si compra meglio, che un carattere
comunicativo trova facilmente una sua collocazione? Quello
di Julia Kristeva è perciò un lavoro politico quando è inteso a
ridurre teoricamente la comunicazione al livello mercantile
della relazione umana, e ad integrarla, come un semplice livel­
lo fluttuante alla significanza, al Testo, apparato al di fuori
del senso, affermazione vittoriosa del Dispendio sullo Scam­
bio, dei Numeri sulla Contabilità.
Che risonanza avrà tutto ciò? Dipenderà dall’incultura
francese, che oggi sembra sciabordare e salire intorno a noi
come una marea. Perché? Per ragioni politiche, indubbiamen­
te; ma tali ragioni sembrano stranamente pesare proprio su
quanti dovrebbero opporre loro una piu efficace resistenza:
esiste un certo nazionalismo dell’intelligencija francese, che
non riguarda evidentemente le diverse nazionalità (dopo tut­
to, Ionesco non è forse il Puro e Perfetto Piccolo-Borghese
Francese?), bensì l’ostinato rifiuto dell 'altra lingua. L’altra lin­
gua è quella che si parla da un luogo politicamente e ideologi­
camente inabitabile: luogo dell’interstizio, del margine, del­
l’obliquità e del passo claudicante, luogo cavaliere perché si
pone attraverso, a cavallo, apre una prospettiva panoramica,
e offende. La lingua cui dobbiamo un sapere nuovo, venuto
dall’Est e dall’Estremo Oriente, e quei nuovi strumenti di
analisi e di studio che corrispondono ai nomi di paragramma,
dialogismo, testo, produttività, intertestualità, numero e for­
mula ci insegna a lavorare nella differenza, cioè al di sopra
182 LA STRANIERA

delle differenze in nome delle quali ci è vietato di far germina­


re insieme scrittura e scienza, Storia e forma, scienza dei se­
gni e distruzione del segno: tutte queste belle antitesi, como­
de, conformiste, ostinate e sufficienti sono state affrontate
obliquamente dal lavoro di Julia Kristeva, che ha sfregiato la
nostra giovane scienza semiotica con un marchio straniero (il
che è ben piu difficile di «strano»), sulla scorta della prima
frase di Sèméiotikè: «Fare della lingua un lavoro, operare nella
mateHalità di ciò che, per la società, è un mezzo di contatto e
di comprensione, non significa forse porsi, immediatamente,
come stranieri o estranei alla lingua? »

1970, in «L a Q uinzaine littéraire», in occasione della pubblicazione di


S èm éiotikè.
Il ritorno del poéticien

Quando si pone di fronte all·opera letteraria, il poéticien


non si chiede: che cosa vuol dire? Da dove proviene? A che
cosa si ricollega? Bensì, cosa piu semplice e insieme difficile:
in che modo è fatta? Nella nostra storia questa domanda è già
stata posta tre volte: la Poetica ha tre padroni: Aristotele (cui
si deve, nella sua Poetica, la prima analisi strutturale dei livelli
e delle parti dell’opera tragica), Valéry (per il quale la lettera­
tura doveva essere considerata un oggetto fatto di linguaggio),
Jakobson (che chiama poetico qualsiasi messaggio ponga 1’ac­
cento sul proprio significante verbale). La Poetica è dunque
antichissima (legata a tutta la cultura rettorica della nostra
civiltà) e al tempo stesso nuovissima, proprio perché oggi
può trarre vantaggio dal rinnovamento delle scienze del lin­
guaggio.
Genette - e questo definisce la personalità del suo lavoro -
si muove perfettamente sia nel passato sia nel presente della
Poetica: è insieme studioso di rettorica e di semiotica; le figure
sono per lui forme logiche, modi discorsivi, il cui campo non
è costituito soltanto da un piccolo gruppo di parole, ma dalla
struttura complessiva del testo; giustamente, perciò, l’opéra
scritta di Genette si chiama Figure (I, II, III); appartengono
infatti alla Figura non solo l’immagine poetica, ma anche, per
esempio, la forma del racconto, attualmente oggetto della nar-
ratologia. Il lavoro di Genette si colloca di conseguenza in
uno spazio vasto e attuale: è un lavoro nel contempo critico
(affine alla critica letteraria), teorico (che milita per una teoria
della letteratura, oggetto cosi trascurato in Francia), pratico
(applicato ad opere precise), epistemologico (poiché propone,
grazie al testo, una nuova dialettica tra particolare e generale)1

1 [Studioso e, in un certo senso, «creatore» di poetica, cosi come il mathéma­


ticien è matematico, il physicien fisico, ecc.].
18 4 IL RITORNO DEL « POÉTICIEN »

e pedagogico (tendente a rinnovare l’insegnamento della let­


teratura indicandone i mezzi).
Il poéticien: fino a poco tempo fa, questo personaggio sa­
rebbe potuto passare per il parente povero del poeta. Ma, per
l’appunto, la poetica praticata da Genette ha come oggetto
tutto il fare del linguaggio - o il fare di tutto il linguaggio.
Non solo la poetica include nel proprio campo il racconto (la
cui analisi ha già avuto notevoli sviluppi) e in futuro certa­
mente anche il saggio, il discorso intellettuale - a patto che
voglia scnversi -, ma anche, riflettendo sul proprio linguag­
gio, essa acconsente, si obbliga a considerare se stessa, in un
certo senso, come oggetto di poetica. Tale ritorno su se stessa,
ben piu importante di un semplice allargamento del campo,
tende a fare del poéticien uno scrittore, ad abolire la distanza
gerarchica tra «creatore» e «glossatore». In altri termini, il
poéticien accetta il ritorno del significante nel proprio discor­
so. È questo, almeno, il caso di Genette. Non giudico qui la
scrittura in nome dello «stile» (in ogni caso perfetto in Genet­
te), ma in base a quella sorta di potenza fantasmatica che in­
duce colui che scrive ad abbandonarsi al demone della classi­
ficazione e della denominazione, ad accettare di mettere in
scena il proprio discorso. Genette possiede questa potenza,
sotto le apparenze di una discrezione estrema - a sua volta,
del resto, sufficientemente scaltra per diventare ghiotta (attri­
buto capitale del piacere di scrivere e di leggere).
Genette classifica, con forza e rigore (in particolare le figu­
re del racconto {récit) in Proust, che è l’oggetto principale del
suo ultimo libro): divide e suddivide forme, primo punto in
cui il poéticien diventa poeta, poiché significa creare nel pro­
filo dell’opera (in questo caso il romanzo di Proust) un secon­
do quadro, risultato non tanto di un metalinguaggio quanto,
piu semplicemente, di un secondo linguaggio (che non è l’ul­
timo, dal momento che io stesso, tra gli altri, scrivo su Genet­
te). La descrizione che Genette fa dei modi del récit proustia­
no mi fa pensare a quel testo in cui Edgar Allan Poe, nello
stesso tempo, descrive, smonta e crea il Giocatore di scacchi
di Maetzel: un uomo si nasconde nell’automa, ma non si vede;
il problema (per Poe, e di conseguenza per Genette) non con­
siste nel descrivere l’uomo (l’oggetto nascosto), e neppure, ad
essere precisi, il modo in cui è nascosto (dal momento che
l’interno della macchina è apparentemente sempre visibile),
bensì nello spostamento quasi impercettibile degli schemi,
delle porte e delle pareti, che fa si che l’uomo non sia mai là
IL RITORNO DEL «POETICÏEN» 185

dove lo si guarday allo stesso modo, Genette vede Proust dove


noi non lo guardiamo; poco importa allora che vi sia: non è
chi occupa il senso a determinare Topera, ma il suo posto; cosi,
Proust, l’aroma proustiano, ritorna in forze e circola nella
macchina di Genette; le citazioni passano in una luce nuova,
generano un vibrato diverso da quello cui ci aveva abituati
una lettura compatta dell’opera.
E poi, Genette denomina ciò che la sua classificazione tro­
va: discute sulle accezioni consolidate, crea neologismi, vivi­
fica vecchi nomi, costruisce una terminologia, cioè una rete di
oggetti verbali sottili e nitidi; ed è proprio l’attenzione (o il
coraggio) per il neologismo a fondare nel modo piu diretto
quello che chiamerei il grande romanzesco critico. Fare del la­
voro di analisi una finzione elaborata è forse, oggi, un’inizia­
tiva di punta: non contro la verità e in nome dell’impressioni­
smo soggettivo, bensì perché la verità del discorso critico non
è di ordine referenziale, ma attiene al linguaggio: per il lin­
guaggio non esiste altra verità se non quella di confessarsi lin­
guaggio; i buoni critici, gli studiosi utili saranno quelli che di­
chiareranno il colore del loro discorso, che vi apporranno
chiaramente la firma del significante. È quel che fa Genette
(il suo « après-propos » non lascia dubbio alcuno sul suo pro­
getto di scrittura).
Ecco ora per quale motivo il progetto di Genette ci riguar­
da: quel che egli ritrova in Proust, con predilezione (lo sotto-
linea egli stesso), sono le devianze narrative (in questo senso
il récit proustiano contrasta con l’idea che possiamo avere di
un racconto semplice, lineare, «logico»). E le devianze (ri­
spetto a un codice, a una grammatica, a una norma) sono sem­
pre manifestazioni di scrittura: laddove la regola è trasgredita,
appare la scrittura come eccesso, dal momento che si fa cari­
co di un linguaggio che non era previsto. Insomma, ciò che in­
teressa Genette, in Proust, è la scrittura, o, per essere piu pre­
cisi, la differenza che separa lo stile dalla scrittura. Il termine
devianza sarebbe senz’altro imbarazzante se con esso si inten­
desse che esiste un modello antropologico del récit (dal quale
il creatore «si allontanerebbe»), oppure un’ontologia narrati­
va (di cui l’opera sarebbe una sorta di filiazione mostruosa); in
realtà, il «modello» narrativo è a sua volta soltanto un’«idea»
(una finzione), un ricordo di lettura. Vorrei dire piuttosto che
Genette attinge al serbatoio proustiano ed espone i luoghi in
cui la storia «sbanda» (questa metafora tende a rispettare il
movimento, la produttività del testo). E, proprio oggi, è neces-
l86 IL RITORNO DEL «POETICIEN»

saria una teoria della «sbandata». Perché? Perché siamo in


quel momento storico della nostra cultura in cui il récit non
può ancora abbandonare una certa leggibilità, una certa con­
formità alla pseudologica narrativa che la cultura ha introdot­
to in noi e in cui, di conseguenza, le sole innovazioni possibili
consistono non nel distruggere la storia, Γ aneddoto, ma nel
deviarli: nel far sbandare il codice pur avendo l’aria di rispet­
tarlo. Genette ha saputo vedere e farci vedere nell’opera di
Proust appunto questo fragilissimo stato del récit. Il suo lavo­
ro è al tempo stesso strutturale e storico perché precisa le con­
dizioni alle quali Tinnovazione narrativa è possibile senza es­
sere suicida.

1972, in «La Q uinzaine littéraire», in occasione della pubblicazione di


Figures III.
Imparare e insegnare

Prima ancora che si alzi il sipario sul libro, Metz ci dice del
suo « specifico », di tutto ciò che vi è di inimitabile nella sua
voce. Ascoltiamo l’ouverture della sua ultima opera: «Il tomo
I di questa racccolta, elaborato nel 1967 e apparso nel 1968
(2a ed. 1971) raggruppava articoli scritti tra il 1964 e il 1967,
pubblicati tra il 1964 e il 1968. Questo tomo II è formato da
testi successivi (scritti tra il 1967 e il 1971, pubblicati tra il
1968 e il 1972), insieme a due inediti scritti nel 1971 (i testi
nn. 8 e 9) S>.
Queste precisazioni numeriche sono indubbiamente richie­
ste dal codice scientifico - o per lo meno erudito - dell’esat­
tezza; ma chi non sente che qui, in questa funzione di insi­
stenza e di eleganza che ne contraddistingue l’enunciato, c’è
qualcosa di piu? Che cosa? Appunto la voce stessa del sogget­
to. Di fronte a qualsiasi messaggio, Metz, per cosi dire, ag­
giunge eccedendo; ma ciò che mette in piu non è né futile, né
vago, né disgressivo, né verboso: è un supplemento opaco, l’o­
stinazione dell’idea a dirsi completamente. Chi conosce Metz
sotto il triplice aspetto dello scrittore, dell’insegnante e dell’a­
mico è sempre colpito da un paradosso, in realtà solo apparen­
te: da un’esigenza radicale di precisione e di chiarezza nasce
un tono libero, come sognante, e direi quasi come drogato
(Baudelaire non faceva forse dell’haschish la fonte di un’inau­
dita precisione?): qui regna un’esattezza da anabbiato. Da que­
sto punto in poi siamo nel Dispendio - e non nel solo sapere:
quando Metz enuncia cifre e riferimenti, quando riassume,
classifica, chiarisce, quanto inventa e propone (e in tutte que­
ste operazioni il suo lavoro è attivo, instancabile, efficace),
non si limita a comunicare, ma dà nel senso pieno del termine:
vi è un vero e proprio dono, di sapere, di linguaggio, dono del1

1 Essais sur la signification du cinéma, Klincksieck, Paris 1972, tomo IL


soggetto nel senso che gli sta a cuore enunciare (lui, il cui lavo­
ro proviene cosi esplicitamente dalla linguistica, non ci dice
forse, a modo suo, che Terrore di questa scienza consiste nel
farci credere che i messaggi «si scambino» - sempre Tideolo-
gia dello Scambio - mentre il reale della parola è appunto nel
darsi o nel riprendersi, insomma nel chiederei) Esistono due
modi di sovvertire la legalità del sapere (iscritta nell’Istituzio­
ne): disperderlo o darlo. Metz sceglie di darlo; il modo in cui
tratta un problema di linguaggio e/o di cinema è sempre gene­
roso; non con l’invocazione di idee «umane», ma con la solle­
citudine continua di cui circonda il lettore, prevenendo con
pazienza la sua richiesta di chiarimenti, a proposito della qua­
le sa che è sempre, in fondo* una richiesta di amore.

Esistono forse due mezzi per evitare l’imposizione del sa­


pere (non è forse questa, oggi, la posta in gioco in ogni inse­
gnamento, in ogni «ruolo» intellettuale?): o produrre un di­
scorso lacunoso, ellittico, che derivi e sbandi; oppure, al con­
trario, caricare il sapere di un eccesso di chiarezza. E questa la
via scelta (assaporata?) da Metz. Christian Metz è un meravi­
glioso didatta; quando lo leggiamo, sappiamo tutto, come se
lo avessimo imparato da soli. Non è difficile scoprire il segreto
di tale efficacia: quando Metz insegna una conoscenza, una
classificazione, una sintesi, quando mette a punto concetti
nuovi, palesa sempre, con la perfezione didattica del suo
enunciato, il fatto che insegna a se stesso ciò che si ritiene co­
munichi agli altri. Il suo discorso - è questa la sua specificità,
la sua virtù idiolettale - riesce a confondere due tempi: quel­
lo dell’assimilazione e quello dell’esposizione. Si capisce allora
perché la trasparenza di questo discorso non è riduttiva; la so­
stanza (eteroclita) del sapere si chiarisce sotto i nostri occhi;
ciò che resta non è né uno schema né un tipo, ma piuttosto
una «soluzione» del problema, sospesa per un attimo sotto il
nostro sguardo con l’unico scopo che noi possiamo attraver­
sarla ed abitarla personalmente. Metz sa e inventa molte co­
se, e le dice benissimo: non certo per volontà di imposizione
(Metz non intende mostrarsi superiore a nessuno), bensì per
talento: con questo termine antico bisogna intendere non una
qualche disposizione innata, ma la felice sottomissione dello
studioso, dell’artista, all’effetto che vuole produrre, all’incon­
tro che vuole suscitare; si potrebbe dire: al transfert, che egli
accetta lucidamente, al di fuori di ogni immaginario scientifi­
co, come principio stesso della scrittura.
IMPARARE E INSEGNARE 189

Un'opera teorica - soltanto agli inizi - si edifica cosi a par­


tire da un moto (un po' come si dice: moto d ’umore, moto del
cuore); Metz ha voluto scuotere uno stanco stereotipo: «Ilci­
nema è un linguaggio». E se andassimo a vedere? Se, d’un trat­
to, cogliessimo la metafora - ridicola a forza di essere ripetu­
ta - nella luce implacabile della Lettera? Da questa scommes­
sa, nuova e quasi innocente (ogni ritorno alla lettera non lo è
forse?), Metz ha tratto un’opera le cui parti sono concatena­
te secondo un progetto implacabile ed elastico: se infatti, nel­
la nostra epoca, la sensibilità al linguaggio cambia rapidamen­
te, Metz ne segue i meandri e le esplosioni; non è l’uomo di
una semiologia (di una griglia), ma di un oggetto: il testo filmi­
co, superficie variegata in cui si leggono disegni differenti, a
seconda dei momenti del nostro discorso intellettuale. Credo
sia questo il ruolo storico di Metz (non esiste una storia mino­
re): egli ha saputo dare a quella che era (o rischiava di essere)
soltanto una metafora la pienezza di una pertinenza scientifi­
ca; in ciò è fondatore, come attesta il suo posto di spicco e ri­
conosciuto nella semiotica generale e nell’analisi del fatto
cinematografico; eppure, dopo aver fondato, egli si sposta:
ora lo troviamo alle prese con la psicanalisi. E in questo senso,
forse, che la semiologia gli deve e gli dovrà molto: per averle
conquistato, nel campo da lui prescelto, il diritto al mutamen­
to. Con il suo lavoro Metz ci fa capire che la semiologia non è
una scienza come le altre (il che non le impedisce di essere ri­
gorosa), e non vuole affatto sostituirsi alle grandi epistéme che
costituiscono la verità storica del nostro secolo, ma piuttosto
che ne è l’ancella: ancella vigile che, con la rappresentazione
dei tranelli del Segno, impedisce loro di cadere proprio in ciò
che quei grandi nuovi saperi hanno la pretesa di denunciare:
il dogmatismo, l’arroganza, la teologia - in altri termini, que­
sto mostro: il Significato Ultimo.
VI
L ettu re
Letture I

Per ragioni stilistich e - piu esattam en te, m etod ologiche, o m eglio


ancora testuali - , queste letture sono state d ivise in due gruppi, separati
a loro volta da tre nletture di M ichelet e di Brecht [Nota dell*editore fran­
cese].
(M anca qui una prefazione alla Bestia umana di Zola, pubblicata in
italiano - R izzoli, M ilano 1976 - , il cui originale sembra sia andato per­
duto).
La cancellatura

Jamais je n ’aurai le tem ps, si je dois


raturer sans fin ce que j’ai à dire 1.

In tutta Topera di Cayrol qualcuno vi parla, ma non si sa


mai chi. Si tratta forse di narratori particolari, la cui indivi­
dualità si rinnova romanzo dopo romanzo, e Gaspard è diver­
so da Armand come Fabrice da Julien Sorel? È un narratore
unico, la cui voce riprende di libro in libro? È lo stesso Cay­
rol, a malapena celato dietro quest’altro che parla? In tutta
Topera in questione la persona del narratore rimane tecnica-
mente indecisa: qui non si troverà né la duplicità narrativa del
romanzo classico, né la complessità della prima persona prou­
stiana, né l’io del poeta; in letteratura, di solito, la persona è
un’idea compiuta (anche se riesce a diventare ambigua): nes­
sun romanziere può cominciare a scrivere, se non ha scelto la
persona profonda della sua narrazione: scrivere è insomma
decidere (poter decidere) chi parlerà. L’uomo di Cayrol è inve­
ce appena appena un personaggio; non dispone di alcuna cer­
tezza pronominale; sia che rimanga direttamente molto al di
qua dell’identità (nei primi romanzi), sia che, apparentemente
costituito, esso disfaccia senza posa la sua persona per una
continua delusione del ricordo e del racconto, è sempre e sol­
tanto una voce (che non si può neppure definire anonima,
poiché significherebbe qualificarla), e per di piu una voce che
non affida la propria indecisione originaria ad alcuna tecnica
romanzesca: né collettiva né nominata, è la voce di qualcuno.
Incessantemente impostata e sottratta, la persona del nar­
ratore è qui soltanto il supporto parsimoniosamente prestato
a una parola mobilissima, appena legata, e che va da un luogo
all’altro, da un oggetto all’altro, da un ricordo all’altro, pur ri­
manendo ovunque una pura sostanza articolata. Questa è sol­
tanto una metafora; in Cayrol esiste una vera e propria imma-

[Non farò mai in tempo, se devo cancellare continuamente quel che ho da


dire].
LA CANCELLATURA

ginazione della voce, che sostituisce la sensibilità visiva degli


scrittori e dei poeti. Innanzitutto, la voce può levarsi, sgorga­
re non si sa dove; non localizzata, è tuttavia presente, da qual­
che parte, intorno a voi, dietro di voi, al vostro fianco, ma
mai davanti a voi; la vera dimensione della voce è quella indi­
retta, laterale; prende Γaltro di fianco, lo sfiora e se ne va; può
toccare senza dire la propria origine; è perciò il segno stesso
dell’innominato, di ciò che nasce o resta dell’uomo se gli si to­
glie la materialità del corpo, l’identità del viso o l’umanità del­
lo sguardo; è la sostanza al tempo stesso piu umana e piu disu­
mana; senza di essa non si dà comunicazione tra gli uomini,
ma per contro si crea con essa i disagio di un doppio, prove­
niente in modo insidioso da una super-natura, ctonica o cele­
ste, insomma da uno spaesamento; un testo noto dice che nes­
suno sopporta del tutto di sentire la propria voce (al registra­
tore), e che spesso addirittura non la si riconosce; il fatto è
che la voce, se viene separata dalla sua fonte, provoca sempre
una sorta di familiarità inquietante che è, in definitiva, quella
stessa del mondo cayroliano, un mondo che si offre al ricono­
scimento per la sua precisione, e tuttavia se ne sottrae per il
suo sradicamento. La voce è un altro segno ancora: quello del
tempo; nessuna voce è immobile, nessuna voce cessa di passa­
re; anzi, il tempo che la voce manifesta non è un tempo sere­
no; per quanto essa sia eguale e discreta, per quanto continuo
ne sia il flusso, ogni voce è minacciata; sostanza simbolica del­
la vita umana, alla sua origine vi è sempre un grido e alla sua
fine un silenzio; tra questi due momenti si svolge il tempo fra­
gile di una parola; sostanza fluida e minacciata, la voce è dun­
que la vita stessa, e forse è perché un romanzo di Cayrol è
sempre un romanzo della voce pura e sola che esso è sempre
anche un romanzo della fragilità della vita.
Di certe voci si dice che sono carezzevoli. La voce di Cay­
rol dà al mondo una carezza irrisoria, una carezza perduta.
Come la carezza, la parola rimane qui alla superficie delle co­
se, la superficie è il suo regno. Questa descrizione in superfi­
cie degli oggetti è stata considerata una caratteristica comune
a un certo numero di romanzieri contemporanei; eppure, al
contrario di uno scrittore come Robbe-Grillet, in Cayrol la
superficie non è oggetto di una percezione che ne esaurisca
l’esistenza; il suo modo di descrivere è spesso profondo, dà alle
cose un’espansione metaforica che non si discosta del tutto da
una certa scrittura romantica; per Cayrol, infatti, la superficie
non è una qualità (per esempio, ottica), bensì una situazione
LA CANCELLATURA 195
delle cose. Tale situazione di superficie degli oggetti, dei pae­
saggi, persino dei ricordi è, diciamo cosi, bassa, come si po­
trebbe dire di un mondo visto al livello del pavimento; qui, da
parte dello scrittore, non si troverà nessun sentimento di po­
tenza o di elevazione nei confronti delle cose descritte; lo
sguardo e la voce che le seguono allo stesso livello rimangono
prigionieri (e noi con loro) della loro superficie; tutti gli ogget­
ti (e ce ne sono molti nei romanzi di Cayrol) sono percorsi mi­
nuziosamente, ma tale minuzia è prigioniera, qualcosa in essa
non può elevarsi, e il mondo cosi completo che la scrittura
accarezza rimane come marchiato da una specie di sotto­
familiarità; l’uomo non entra bene nell’uso delle cose che in­
contra nella vita, non perché le sublimi (come avverrebbe in
un romanzo tradizionale, tutto volto alla psicologia), ma al
contrario perché non riesce ad elevarsi a quest’uso, perché ri­
mane condannato a un certo al di qua degli oggetti che non
può raggiungere alla loro esatta altitudine.
Questa letteratura del pavimento (espressione di cui una vol­
ta si è servito lo stesso Cayrol) potrebbe avere come animale
totemico il topo. Il topo infatti, come l’uomo di Cayrol, si
mantiene a contatto con le cose; ne tralascia poche sul suo
passaggio, interessandosi di tutto ciò che il suo sguardo obli­
quo, da terra, può afferrare; lo anima un’ostinazione minima­
le, mai trionfante e mai scoraggiata; pur rimanendo al livello
delle cose, le vede tutte; cosi è per la descrizione in Cayrol,
che percorre con il suo passo fragile e insistente gli innumere­
voli oggetti di cui la vita moderna intasa l’esistenza del narra­
tore; è il trotterellare del topo, che scivola e salta al tempo
stesso, a conferire la sua ambiguità alla descrizione cayroliana
(importante, dal momento che i romanzi di Cayrol sono es­
senzialmente esterni). Questa descrizione non risparmia nulla,
scivola alla superficie di ogni cosa, ma il suo scivolare non ha
l’euforia del volo e del nuoto, non evoca alcuna risonanza sul
fronte delle sostanze nobili dell’immaginario poetico, l’aereo
o il liquido; è uno scivolare terrestre, sul pavimento, il cui mo­
vimento apparente è fatto di sobbalzi impercettibili, di una
discontinuità rapida e pudica: neanche i «buchi» della descri­
zione, qui, sono silenzi pieni, bensì soltanto umana impotenza
nel collegare gli incidenti delle cose: c’è un’infelicità in Cayrol
per non poter ripristinare una logica familiare, un ordine ra­
gionevole tra i fenomeni che il tempo e il viaggio fanno sfilare
davanti al narratore. È qui che ritroviamo, in forma irrisoria,
il tema della carezza: al carezzevole bisogna opporre, benché
196 LA CANCELLATURA

ne derivi, una sorta di percezione graffiante delle cose, un


contatto stridente che percorre il mondo degli oggetti (ma an­
che la seta può emettere uno stridio, e spesso non vi è nulla di
piu sontuoso, nella sua modestia, di una descrizione di Cay­
rol); di qui tante immagini di ciò che è aspro, corroso e acido,
forme irrisorie di una sensazione che non riesce mai a ritrova­
re la felice continuità della carezza; ciò che è liscio, altrove te­
ma miracoloso del «senza cucitura», è qui un elemento che
«va a male», che si copre di una specie di asprezza «superfi­
ciale»: la superficie delle cose si mette a vibrare, a stridere lie­
vemente.
Il tema dell'aspro, della carezza mancata, nasconde un’im­
magine ancor piu disperante, quella di un certo freddo. L’abra­
sione non è, in fondo, altro che il mondo attivo dell’infreddo­
lito. In Cayrol, dove le marine abbondano, da Dieppe a Biar­
ritz, il vento è sempre piuttosto aspro; ferisce leggermente,
ma piu sicuramente del grande freddo, fa rabbrividire conti­
nuamente senza tuttavia alterare il cammino delle cose, senza
stupirle; il mondo continua, familiare, vicinissimo, eppure in
esso abbiamo freddo. In Cayrol il freddo non è quello delle
grandi immobilità, lascia intatta, persino agile, la vita, ma la
scolora, la invecchia; l’uomo di Cayrol, per quanto vulnerabi­
le, non è mai raggelato, paralizzato; cammina sempre, ma il
suo ambiente fisico lo fa raggricciare senza sosta: il mondo è
da riscaldare. Questo freddo trattenuto è, come dice da qual­
che parte Cayrol, un vento dimenticato. In fondo, tutto l’ag­
gricciare freddoloso dell’habitat cayroliano è quello dell’oblio;
in Cayrol non vi sono rovine nobili, né ruderi in piedi, o fram­
menti solidi e ben radicati di vecchi edifici sontuosi; neppure
- o poche - dimore fatiscenti, sfatte; tutto è anzi al suo po­
sto, ma segnato da una sorta di scoperto oblio che fa rabbrivi­
dire (non è forse uno dei temi di Muriel?); niente in questo
mondo cayroliano è danneggiato, gli oggetti funzionano, ma
in esso tutto è diseredato, come quella camera dei Corps étran­
gers che il narratore scopre un giorno in casa sua, sotto la tap­
pezzeria delle pareti, e dove gli oggetti del passato (forse ad­
dirittura un cadavere?) sono presenti, immobili, dimenticati,
incantati senza incantesimo, tremanti al vento «contrario»
del camino.
Bisogna forse spingersi oltre, lasciare quest’ultima immagi­
ne, ancora troppo poetica, dell 'infreddolito, dare ai temi della
vita insistente e delusa un altro nome, al tempo stesso piu vol­
gare e piu terribile, quello della fatica. La fatica è un modo di
LA CANCELLATURA 197
esistere misconosciuto; se ne parla poco, è un colore della vita
che non ha neppure il prestigio dell’atroce o del maledetto:
che discorso fare, con la fatica? Eppure essa è la dimensione
del tempo: infinita, è l’infinito stesso. La percezione superfi­
ciale dell’uomo di Cayrol, quella carezza sospesa, scandita,
volta rapidamente in brivido, di cui egli tenta di seguire il
mondo, non è forse nient’altro che un certo contatto con la
fatica. («Perché tutto si complica non appena lo si sfiora?» di­
ce da qualche parte un personaggio di Cayrol). Ciò che esau­
risce è inesauribile, questa è forse la verità di questa coscienza
acuta, ostinata, che non lascia mai la presa sul mondo e tutta­
via non può mai trovarvi riposo. Fatica, ma non stanchezza:
l’uomo di Cayrol non è né depresso né indifferente, non si la­
scia andare e non se ne va; sorveglia, combatte, partecipa, ha
l’energia stessa della fatica. «Sembri sopraffatto dal dolore, -
dice qualcuno in La Gaffe, - eppure non conosco nessuno piu
resistente al male di te... Tu sei inattaccabile quando si sfiora­
no alle tue riserve segrete». Questo mondo fragile, sensitivo,
è un mondo resistente; sotto l’asprezza e la direzione contra­
ria del vento, dietro l’oblio che scolora le cose, dietro quel
passo attento e irritato, qualcosa (o qualcuno) brucia, anche se
la sua riserva rimane segreta, come una forza che non conosce
mai il proprio nome.
Tale forza è segreta perché non si trova nell’eroe descritto
dal libro, ma nel libro stesso. Si potrebbe dire, sbrigativamen­
te, che è la forza dello stesso Cayrol, la forza che lo fa scrive­
re. Ci si è chiesto a lungo che cosa passasse di un autore nella
sua opera; ebbene ancor piu della sua vita o del suo tempo è la
forza stessa dello scrittore a passare nella sua opera. In altri
termini, la letteratura è essa stessa una dimensione morale del
libro: poter scrivere una storia è il senso ultimo di tale storia.
Ciò spiega il fatto che, con un mondo estremamente spoglio,
Cayrol riesca a far passare una potenza, una violenza persino,
(penso a Muriel); ma tale potenza non è interna a quel mondo,
è la potenza dello scrittore Cayrol, la potenza della letteratu­
ra: non si può mai dissociare il senso di un mondo romanzesco
dal senso stesso del romanzo. E dunque vano chiedersi in fun­
zione di quale filosofia, interna all’uomo cayroliano ma pudi­
camente taciuta, la separatezza di questo mondo possa essere
recuperata; basta infatti che la letteratura si faccia carico fino
in fondo di «ciò che non va nel mondo » (come in questo caso)
perché l’assurdo cessi. Portato fino al limite del freddo e del­
l’inutile, ogni lettore di Cayrol si ritrova contemporaneamente
198 LA CANCELLATURA

dotato di un calore e di un senso di vita che gli vengono dallo


spettacolo stesso di qualcuno che scrive Cosi, ciò che si chiede
al lettore è forse di affidarsi all’opera non per quanto contiene
di filosofico, ma per quanto di letteratura porta con sé.

Cosi come le sostanze non si offrono mai se non a una spe­


cie di carezza mancata, a una percezione discontinua e quasi
per sobbalzi, il tempo in Cayrol è un tempo mangiato, qua e là
corroso insidiosamente. E quando l’oggetto di questo tempo
è una vita (come nei Corps étrangers), ecco sorgere qualcosa
che costituisce tutto il romanzo di Cayrol (gli spettatori di
Munel ricorderanno bene questo tema): la malafede del ri­
cordo.
Ogni romanzo di Cayrol potrebbe intitolarsi Memorie di
uno smemorato. Non che il narratore si dia molto da fare per
ricordarsi la sua vita: essa sembra persentarglisi del tutto na­
turalmente al ricordo, come è solito nelle memorie correnti;
piu il racconto procede, però, piu appare bucato; alcuni episo­
di stentano a concatenarsi, qualcosa stride nella distribuzione
degli atti (o piu esattamente, trattandosi di un romanzo: nel
loro dispatching); ma soprattutto, senza che si possa mai co­
gliere il narratore in flagrante delitto di preterizione (o di
menzogna), l’insieme di una narrazione apparentemente rego­
lare rinvia a poco a poco alla sensazione di un oblio piu impor­
tante, situato da qualche parte nell’esistenza, e che si irradia
a sproposito sotto di essa, la divora, le conferisce un’aria di
falsità. In altri termini, la narrazione di Cayrol è sottoposta a
un montaggio, la cui rapidità e dispersione designano una par­
ticolarissima alterazione del tempo, che lo stesso Cayrol ha
descritto dapprima in Lazare e che è illustrata nel montaggio
di Muriel. L’oblio, nel quale i personaggi si dibattono senza
rendersene conto, non è una censura; l’universo cayroliano
non è oppresso dal peso di una colpa nascosta, da sempre in­
nominata; di fronte a questo mondo non vi è nulla da decifra­
re; ciò che vi manca non sono frammenti di tempo colpevole,
ma soltanto frammenti di tempo puro, che il romanziere non
deve dire per separare un poco l’uomo dalla sua vita e da quel­
la degli altri, per renderlo al tempo stesso familiare e privo di
legami.
Altra forma di questo tempo mangiato: i ricordi sono inter­
cambiabili all’interno di una stessa vita, sono oggetto di un
baratto, analogo a quello del trafficante e ricettatore Gaspard
(un camembert contro una camera d ’aria): il ricordo è materia
LA CANCELLATURA 199

di ricettazione e di traffico al tempo stesso; l’eroe di Corps


étrangers ha cosi due infanzie, che chiama a testimoni a secon­
da che gli sia necessario attribuirsi un’origine contadina o di
bambino abbandonato. Il tempo in Cayrol è fatto di pezzi di
seconda mano, rubati, e tra questi pezzi esiste un gioco che
costituisce tutto il romanzo. Les corps étrangers comincia pas­
sando in rivista tutti gli oggetti che possono entrare indebita­
mente nel corpo, per negligenza o per disgrazia; ma per l’uo­
mo di Cayrol il vero corpo estraneo è, in definitiva, il tempo:
quest’uomo non è ritagliato nella stessa durata degli altri uo­
mini, il tempo è rapportato a lui, a volte troppo breve quando
dimentica, a volte troppo esteso quando inventa. D ’altro can­
to, è inevitabile lottare contro tale tempo improprio (non­
adeguato), e tutto il romanzo consiste in un certo modo nel
dire gli sforzi di un uomo per ritrovare il tempo esatto degli
altri uomini. Durante tutto il monologo cayroliano nasce cosi
(soprattutto nei Corps étrangers) una parola denegatrice, la cui
funzione non è di negare le colpe, bensì, in modo piu elemen­
tare, meno psicologico, di cancellare senza sosta il tempo. La
cancellazione cayroliana è tuttavia di secondo grado: il nar­
ratore non cerca di sopprimere ciò che esiste, di stendere l’o­
blio su ciò che è stato, ma al contrario tenta di ridipingere il
vuoto del tempo con alcuni colori pieni, di riproiettare sui bu­
chi della sua memoria un ricordo inventato, destinato non
tanto a scagionarlo (sebbene il collaborazionista Gaspard ab­
bia un gran bisogno di un tempo adattato) quanto a farlo per­
venire al tempo degli altri, cioè a umanizzarlo.
E questo, in fondo, il grande nodo del romanzo di Cayrol:
dire - con tutta la potenza di recupero della letteratura di cui
si è già parlato - come un uomo sia separato dagli altri uomini
non per la singolarità romantica del suo destino, ma per una
specie di vizio della sua temporalità. Il dato caratteristico del
mondo cayroliano è che qui gli esseri sono, nello stesso tempo
e atto, insieme mediocri e insoliti, naturali e incomprensìbili.
Cosi non sappiamo mai se l’eroe di questo mondo è «simpati­
co», se possiamo amarlo fino in fondo. Tutta la nostra lettera­
tura tradizionale ha puntato sulla positività dell’eroe roman­
zesco, mentre qui ci sentiamo spaesati al cospetto di un essere
di cui conosciamo bene il mondo, ma del quale ignoriamo il
tempo segreto: il suo tempo non è il nostro, eppure ci parla fa­
miliarmente di luoghi, oggetti e storie che condividiamo con
lui: è dei nostri, eppure viene da «qualche parte» (ma da do­
ve?) Di fronte a tale eroe comune e singolare si crea allora un
LA CANCELLATURA

sentimento di solitudine, anche se questa solitudine non è


semplice; infatti, quando la letteratura ci presenta un eroe so­
litario, è proprio la sua solitudine che noi capiamo, che amia­
mo e che per ciò stesso facciamo cessare: né l’eroe né i suo let­
tore sono piu soli, dal momento che sono soli insieme. L’arte
di Cayrol va oltre: ci fa vedere una solitudine e ci impedisce
tuttavia di parteciparne; non solo la letteratura non riscatta la
solitudine cayroliana, ma anzi si sforza di purificarla da ogni
compiacimento positivo: non vediamo vivere un uomo solo
(in tal caso non sarebbe piu solo del tutto), ma un uomo che ci
impone, nei suoi confronti, quella tenace insensibilità di cui si
parla in Lazare. Cosi, ultimo risultato conseguito dall’opera, il
lettore vive l’eroe cayroliano esattamente come quest’ultimo
vive il mondo: sensibile e insensibile, insediato in quella sim­
patia «parassitarla» che contraddistingue questo mondo in
cui si può amare soltanto per procura.
Da dove viene esplicitamente quest’opera è noto: dai cam­
pi di concentramento. Prova ne sia che Lazare panni nous, che
costituisce il primo legame tra l’esperienza dei campi e la ri­
flessione letteraria, contiene in germe con grande esattezza
tutta l’opera successiva di Cayrol. Lour un romanesque laza-
réen è un programma che si realizza ancora oggi in modo quasi
letterale: il miglior commento a MuHel è Lazare. Ciò che si de­
ve suggerire, se non spiegare, è come una simile opera, il cui
germe è in una storia datata, sia tuttavia pienamente lettera­
tura attuale.
Il primo motivo è che forse il Sistema Concentrazionario
non è morto; emergono nel mondo strane spinte in tal senso,
insidiose, deformate, familiari, scisse dal loro modello storico,
ma diffuse come può esserlo uno stile; i romanzi di Cayrol so­
no appunto questo passaggio dall’evento concentrazionario al
quotidiano concentrazionario: in essi ritroviamo oggi, ven­
ta n n i dopo i Lager, una certa forma dell’umano malessere,
una certa qualità dell’atroce, del grottesco o dell’assurdo, che
ci colpisce con violenza di fronte a certi eventi o, peggio anco­
ra a certe immagini del nostro tempo.
Il secondo motivo è che l’opera di Cayrol, sin dagli inizi, è
stata immediatamente moderna; tutte le tecniche letterarie
che attribuiamo oggi all’avanguardia, e in particolare al nou­
veau roman, si trovano non solo in tutta l’opera di Cayrol, ma
anche, in quanto programma cosciente, nel Romanesque laza-
réen (testo che risale al 1950): l’assenza di aneddoti, la scom­
parsa dell’eroe a favore di un personaggio anonimo ridotto al-
LA CANCELLATURA 201

la sua voce o al suo sguardo, la promozione degli oggetti, il si­


lenzio affettivo, che non si sa se attribuire a pudore o insensi­
bilità, il carattere di odissea dell’opera, che è sempre la lunga
marcia di un uomo in uno spazio e in un tempo labirintici. Se
però Popera di Cayrol è rimasta al di fuori dei dibattiti teorici
di questi ultimi anni sul romanzo è perché il suo autore si è
sempre rifiutato di sistematizzarla, e anche perché la comu­
nanza tecnica cui si accennava è lungi dall’essere completa; il
nouveau roman (supposto che si possa unificarlo) propone de­
scrizioni opache y laddove l’insensibilità dei personaggi si co­
munica alle cose di cui parla, cosicché il suo mondo (che da
parte mia ridurrei volentieri a quello di Robbe-Grillet) è un
mondo neutro. Quello di Cayrol, al contrario, anche se l’amo­
re vi è presente solo in forma parassitarla (secondo le parole
stesse dell’autore), è un mondo vibrante di aggettivi, irradian­
te metafore; è vero che gli oggetti sono promossi a un nuovo
rango romanzesco, ma l’uomo continua a investirli senza posa
di un linguaggio soggettivo, dà loro subito non solo un nome,
ma anche una ragione, un effetto, un rapporto, un’immagine.
E proprio questo commento al mondo, che qui non è piu sol­
tanto un enunciato, ma un ornato, a fare dell’opera di Cayrol
una comunicazione del tutto particolare: priva di qualsiasi in­
tenzione sperimentale eppure audace, al tempo stesso eman­
cipata e integrata, violenta senza il teatro della violenza, con-
centrazionaria e attuale, è un’opera che sfugge senza posa in
avanti, spinta dalla propria fedeltà a se stessa, verso il nuovo
che il nostro tempo reclama.

P ostfazion e a Les Corps étrangers di Jean Cayrol, copyright U ge 1964.


Bloy

Nel lasciare la Grande-Chartreuse dove ha trascorso un pe­


riodo di ritiro, Marchenoir (alias Léon Bloy) riceve dal Padre
superiore una banconota da mille franchi.
È strano: di solito la carità si fa in natura, non in denaro;
Marchenoir non si inganna; vede nel gesto del certosino un
giusto scandalo: quello che consiste nel guardare il denaro in
faccia, come un metallo, non come un simbolo.
Bloy ha sempre considerato il denaro non nelle sue cause,
conseguenze, trasformazioni e sostituzioni, ma nella sua opa­
cità, come un oggetto testardo, sottoposto al piu doloroso dei
moti: la ripetizione. Il Journal di Bloy ha, a dire il vero, un so­
lo interlocutore: il denaro. Sono continue lamentele, invetti­
ve, iniziative, smacchi, rincorse dei pochi luigi necessari al
fuoco, al cibo, all’affitto; qui la miseria dell’uomo di lettere
non ha nulla di simbolico; è una miseria contabile, la cui in­
stancabile descrizione ben si accorda con uno dei momenti
piu duri della società borghese.
Il carattere desiderabile del denaro (e non della ricchezza)
è enunciato da Léon Bloy attraverso un comportamento la cui
confessione ci appare singolare: con sicurezza, persino con or­
goglio, lo scrittore «batte cassa» continuamente da tutti, ami­
ci, conoscenti, sconosciuti. E ovvio che allo «scroccone»
Léon Bloy corrisponde un esercito di «vigliacchi che lo ab­
bandonano» («Io sono colui che bisogna abbandonare»): im­
mobile, intasato, il denaro rifiuta la piu elementare delle sue
trasformazioni: la circolazione.
Attraverso richieste e rifiuti reiterati, Bloy edifica cosi
un’esperienza profonda (perché arcaica) del denaro: oggetto
di una richiesta immediata e ripetuta (la psicanalisi non avreb-
BLOY

be sicuramente grandi difficoltà nel ritrovarvi un rapporto di


tipo materno), il denaro, per Bloy, resiste ad ogni ragione.
Poiché Bourget ha osato scrivere che « non è la mancanza di
denaro a rendere poveri i poveri, ma è stato il loro carattere a
renderli tali, per cui è impossibile cambiare alcunché in questa
faccenda», Bloy non si lascia sfuggire l’occasione di sottoli­
neare con asprezza quell’affermazione piuttosto ignobile. Per
Bloy la povertà non può essere sminuita da alcun discorso
(psicologico, politico o morale); essa si ostina a non essere al­
tro che se stessa e si sottrae implacabilmente ad ogni sublima­
zione.
«L ’autentica povertà è involontaria e la sua essenza consi­
ste nel non poter mai essere desiderata». Bloy ha potuto tro­
vare parole tanto profonde soltanto perché il denaro è stato,
in fondo, la grande e unica idea della sua opera: sempre è
ritornato al segreto del metallo («... nessuno ha mai espres­
so la sensazione di mistero che questo termine sorprendente
emana»), ne ha sempre descritto l’opacità, esplorando con
le sue parole, come ogni poeta, al modo di un uomo che fa
scorrere le mani su un muro, ciò che non capiva e che lo affa­
scinava.
Il denaro, nell’opera di Bloy, ha due facce: una, se non pro­
prio positiva (sarebbe sublimarlo), perlomeno interrogativa,
che si manifesta nella Prostituzione: «... quella prostituzione
figurativa del Sesso di cui soltanto i bigotti hanno un orrore
evidente, e che io mi ostino a credere misteriosa e inesplicabi­
le»; e un’altra imbecille: «Avete notato la prodigiosa imbecil­
lità del denaro, l’infallibile stupidità, l’eterna inquietudine di
tutti coloro che lo possiedono? » Sotto tale duplice faccia, il
denaro costituisce l’argomento esplicito del Désespéré, libro
emblematico di Bloy, articolato al tempo stesso sullo sfigurar­
si della prostituta (che si compie simbolicamente nel momen­
to in cui smette di prostituirsi) e sull’atroce miseria dell’artista
(quando rifiuta di prostituirsi).
Siamo qui al tema essenziale di tutte le opere di Bloy: la se­
parazione tra lo scrittore e la società cui appartiene, cioè la
borghesia. Tutte le cronache di Bloy dipingono una sorta di
immagine demoniaca dello scrittore arrivato, cioè prostituito
alla borghesia («... quella borghesia feroce, adiposa e vigliac­
ca, che ci appare come il vomito dei secoli»). Com’è noto,
verso la fine del secolo la parola «borghesia» designava un
205
male estetico, una volgarità disgustosa, intollerabile per Γ ar­
tista; in seguito tale visione fu considerata parziale, e tutta la
letteratura di quell’epoca (da Flaubert in poi) si trovò compro­
messa dalla cecità che le nascondeva, nel borghese, il capita­
lista.
Ma la letteratura può forse essere lucida, se non molto in­
direttamente? Per costruire il suo discorso, per inventarlo
e svilupparlo nella sua verità intrinseca, lo scrittore può par­
lare solo di ciò che lo turba personalmente, dal momento che
non si può scrivere per procura; e ciò che turba lo scrittore,
nel borghese, è la stupidità; certo, la volgarità borghese è
soltanto il segno di un male piu profondo, ma lo scrittore è
condannato a lavorare sui segni, per variarli e far si che si
dispieghino, non per deflorarli: la sua forma è metafora, non
la definizione.
Il lavoro di Bloy consiste quindi nel metaforizzare il bor­
ghese. Il suo disgusto ricade sempre e con sicurezza sullo
scrittore arrivato, quale la borghesia lo recupera e lo delega.
Basta essere nconosciuto dall’istituzione borghese (la stampa,
i salotti, la Chiesa) per essere condannato dall’arte. Le viru­
lente demistificazioni enunciate da Bloy colpiscono dunque
indifferentemente tutte le ideologie, in quanto esse appaiono
ricche, da Vernilot a Richepin, da Père Didon a Renan. Bloy
non fa molte differenze tra il populismo di Vallès e le opere
di carità della duchessa de Galliera, servilmente incensata
dalla stampa per la favolosa donazione di milioni, che non
rappresentavano altro, secondo Bloy, che una restituzione. Per
contro, nessuno dei rari scrittori da lui sostenuti era dalla
parte dell’Avere; o, piu esattamente, lo sguardo di Bloy sur
Barbey d ’Aurevilly, su Baudelaire o su Verlaine è quasi un
modo per immunizzarli, per renderli impropri ad ogni uso
borghese.
Il discorso di Léon Bloy non è fatto di idee, ma la sua opera
è critica nella misura in cui ha saputo discernere nella lettera­
tura del suo tempo le resistenze all’ordine, il potenziale di ir-
recuperabilità, lo scandalo permanente che essa riuscì a costi­
tuire nei confronti dei gruppi sociali e delle istituzioni, l’infi­
nita distanza dei problemi che poneva - in una parola: la sua
ironia. Proprio perché ha sempre visto nell’arte un anti­
denaro, non si è quasi mai sbagliato: gli scrittori che ha stron­
cato (Dumas figlio, Daudet, Bourget, Sarcey) oggi ci appaiono
2o 6 BLOY

effettivamente come degli assoluti fantocci; per contro, Bloy


è stato uno dei primi a riconoscere Lautréamont, e in Lautréa­
mont, profezia singolarmente penetrante, la trasgressione
senza ritorno rispetto alla letteratura stessa: « Quanto alla for­
ma letteraria, non ve n’è traccia. Solo lava liquida. È insensa­
to, nero e divorante». Non ha forse visto in Sade «una rabbia
famelica di assoluto », prefigurando cosi in una formula, sen­
z’altro unica per la sua epoca, tutta la teologia negativa di cui
Sade è stato oggetto in seguito?
Chissà? Forse un consimile stato negativo della parola let­
teraria Bloy lo cercava a sua volta in quello stile violento e in­
sieme affettato che in fondo non rivela mai altro che la passio­
ne per le parole.
Allora, sul finire del secolo borghese, la distruzione dello
stile poteva forse compiersi soltanto attraverso gli eccessi del­
lo stile. L’invettiva sistematica, utilizzata senza alcun limite
nei suoi bersagli (lo schiaffo surrealista al cadavere di Anatole
France è un gesto davvero timido in confronto alle profana­
zioni di Bloy), costituisce in un certo senso un’esperienza ra­
dicale del linguaggio; la felicità dell’invettiva è soltanto una
varietà di quella felicità di espressione che Maurice Blanchot ha
giustamente rovesciato in espressione della felicità. Di fronte
a una società di contabili, in cui il denaro è elargito solo sotto
forma di compenso (della prostituzione), la parola dello scrit­
tore povero è intrinsecamente dispendiosa; in Bloy essa si dà,
infinitamente piacevole, per un salano zero, e appare cosi non
come un sacerdozio, un’arte o persino uno strumento, ma co­
me un’attività, legata alle zone profonde del desiderio e del
piacere.
È proprio questa irresistibile voluttà del linguaggio, testi­
moniata da una straordinaria «ricchezza» di espressioni, a
conferire alle scelte ideologiche di Bloy una specie di irreali­
smo incongruo: che Bloy sia stato furiosamente cattolico, che
abbia ingiuriato alla rinfusa la Chiesa conformista e moderni­
sta, i protestanti, i massoni, gli inglesi e i democratici, che
questo forsennato dell’illogicità si sia infatuato di Luigi XVIII
o di Mélanie (la pastorella della Salette), non è nient’altro che
materia variabile, ricusabile, che non inganna nessun lettore
di Bloy; l’illusione sono i contenuti, le idee, le scelte, le cre­
denze, le professioni, le cause; la realtà sono le parole, l’eroti­
smo del linguaggio che questo scrittore povero, a salano, zero,
BLOY 207

ha praticato con furore e di cui ancor oggi ci induce a condivi­


dere la violenza.

1966, in Tableau de la littérature française , copyright G allim ard, Paris


1974.
Tre riletture
Michelet, oggi

Vent’anni fa, rileggendo Michelet, ero stato colpito dall’in­


sistenza tematica della sua opera: ogni figura si ripresenta
sempre vestita degli stessi epiteti, derivanti da una lettura
corporale e morale al tempo stesso; sono, in altri termini,
«epiteti di natura», che avvicinano la Storia di Michelet all’e­
popea omerica: Bonaparte è cereo e fantasmagorico esatta­
mente come Atena è la dea dagli occhi cerulei. Oggi, proba­
bilmente perché la mia lettura è impregnata delle idee che
hanno modificato la concezione del testo negli ultimi vent’an­
ni (chiamiamo approssimativamente l’insieme di tali idee
«strutturalismo» o «semiologia»), è un’altra cosa a colpirmi
(oltre all’evidenza di ordine tematico, sempre altrettanto vi­
va); la cosa in questione è un certo annebbiamento nella di­
scorsività. Se ci si limita all’impressione che si trae dalla lettu­
ra, Michelet, quando racconta una storia (la Storia), spesso
non è chiaro (penso alla sua ultima opera, L'Histoire du x i x e
siècle, che in realtà è soltanto la storia del Consolato e dell’Im­
pero); in essa non è facile capire, almeno a prima vista, il con­
catenarsi dei fatti; sfido chiunque abbia della storia francese
unicamente una lontanissima conoscenza scolastica a capire
qualcosa di quel che accadde il 18 Brumaio, in base al raccon­
to di Michelet: quali erano i protagonisti? Dov’erano? In qua­
le ordine si sono svolte le operazioni? Tutta la scena è piena di
lacune: intelligibile frase per frase (lo stile di Michelet è chia­
rissimo), essa diventa enigmatica sul piano del discorso.
Le ragioni di tale annebbiamento sono tre. Innazitutto, la
discorsività di Michelet è continuamente ellittica; Michelet
pratica a oltranza l’asindeto, la rottura, il salto delle connes­
sioni, si cura poco della distanza che viene a stabilirsi tra le
sue frasi (è quello che è stato chiamato il suo stile verticale); si
tratta - fenomeno stilistico molto interessante e poco studia­
to, per quanto mi consta - di una struttura enatica che privi-
MICHELET, OGGI

legia gli enunciati-blocco, senza che l’autore si preoccupi della


visibilità degli interstizi, dei varchi: ogni idea è presentata
senza quell’eccipiente anodino con il quale di solito colmiamo
le lacune del nostro discorso; questa struttura è evidentemen­
te «poetica» (la ritroviamo nella poesia e nell’aforisma) e si ac­
corda perfettamente con la struttura tematica di cui ho parla­
to all’inizio; ciò che l’analisi tematica aveva individuato po­
trebbe senza dubbio essere confermato e ampliato dall’analisi
semiologica.
In seguito, com’è noto, l’enunciazione è piena di giudizi;
Michelet non espone prima per giudicare poi: opera una con­
fusione immediata, un vero e proprio schiacciamento, tra il de­
gno di nota e il degno di condanna (o di lode): «Due uomini as­
solutamente sinceri, Daunou e Dupont de l’Eure...»; «Per
concludere finalmente questa ridicola commedia... »; «Sieyès
rispose arditamente... »; ecc. Il racconto di Michelet è scoper­
tamente di secondo grado; è una narrazione (sarebbe meglio
dire un’enunciazione) che si innesta su di un racconto soggia­
cente, che si suppone già noto; anche in questo caso ritrovia­
mo una costante: a interessare Michelet è il predicato, ciò che
si aggiunge al fatto (al «soggetto»); si direbbe che per Miche­
let il discorso cominci soltanto, imprescindibilmente, con l’at­
tributo; l’essere del linguaggio non è il constativo (il tetico),
bensì il valutativo (l’epitetico): tutta la grammatica di Miche­
let è ottativa; sappiamo benissimo che l’indicativo, reso dal­
l’insegnamento scolastico un modo semplice, fondamentale -
tutti i verbi si coniugano innanzitutto all’indicativo -, è in
realtà un modo complesso (il grado zero del congiuntivo e del­
l’ottativo, come è stato detto), probabilmente acquisito molto
tardivamente. Il «lirismo» di Michelet non dipende tanto dal­
la sua soggettività quanto dalla struttura logica della sua enun­
ciazione: egli pensa per attributi - predicati -, non per esseri,
per constatazioni, e ciò spiega gli annebbiamenti della sua ra­
zionalità discorsiva; il ragionamento, o l’esposizione raziona­
le, «chiara», consiste nel progredire di tesi in tesi (di verbo in
verbo), e non nello scatenare immediatamente il turbine degli
aggettivi; per Michelet i predicati, non dipendono più dall’es­
sere del soggetto, possono mostrarsi in contraddizione: se un
certo eroe «cattivo» (Bonaparte) compie un’azione «buona»,
Michelet dice semplicemente che è «inspiegabile»; il fatto è
che la tirannia del predicato comporta una specie di carenza
del soggetto (in senso logico; ma, trattandosi di discorso, il
senso logico non è lontano dal senso psicologico: il discorso
211
puramente predicativo non è per l’appunto quello del delirio
paranoico?)
Infine, ed è forse il dato piu problematico, in Michelet non
è soltanto la concatenazione dei fatti a vacillare, ma il fatto
stesso. Che cos'è un fatto? Si tratta di un problema di dimen­
sioni filosofiche, sul quale, per l’epistemologia storica, casca
l’asino. Dal canto suo, Michelet accetta che la nozione sia
messa in discussione. Non che la sua Storia manchi di «fatti»,
anzi, spesso sono tra i piu precisi; ma tali fatti non sono mai
dove ce li aspettiamo, oppure ne è valutata la risonanza mora­
le, non le dimensioni. Il fatto, per Michelet, oscilla tra l’ecces­
so di precisione e l’eccesso di evanescenza; non ha mai la sua
esatta dimensione: Michelet ci dice che il 18 Brumaio (io no­
vembre) erano state accese delle stufe nel salone dell’Orange­
rie, e che davanti alla porta c’era una bussola rivestita di tap­
pezzeria: ma le dimissioni di Barras? I due tempi dell’opera­
zione? Il ruolo di Sieyès, quello di Talleyrand? Nessun accen­
no a questi fatti, o almeno nessun accenno che «estragga» da
un discorso bizzarro (per le nostre abitudini di lettura storica)
qualche elemento decisamente narrativo. Insomma, quel che
Michelet altera è la proporzione dei fatti (è forse necessario ri­
cordare che la critica delle relazioni è molto .piu sovversiva di
quella delle nozioni?) Filosoficamente, o almeno dal punto di
vista di una certa filosofia, è Michelet ad aver ragione. Qui,
per esempio, lo scopriamo paradossalmente vicino a Nietz­
sche: «Non esistono fatti in sé. Quel che avviene è un gruppo
di fenomeni, scelti e raggruppati da un essere che li interpre­
ta... Non esiste uno stato di fatto in sé; al contrario, bisogna
introdurre innanzitutto un senso prima ancora che possa darsi
uno stato di fatto ». Michelet è insomma lo scrittore (lo storico)
del prima ancora: la sua Storia è impetuosa non perché il suo
discorso sia rapido, impaziente, non perché l’autore sia parti­
giano, ma perché essa non fissa il linguaggio sul fatto, perché,
in questa immensa messa in scena di una realtà millenaria, il
linguaggio precede il fatto all 1infinito; proposizione ardua agli
occhi di uno storico classico (ma, non appena la Storia si
strutturalizza, non tende forse ad avvicinarsi all’attuale filo­
sofia del linguaggio?), proposizione produttiva per il teorico
moderno, il quale pensa che, come ogni scienza (è questo il
problema delle «scienze umane»), anche la scienza storica,
non essendo algoritmica, incontri fatalmente un discorso, e
tutto cominci di qui. Dobbiamo essere grati a Michelet (tra gli
altri doni che ci ha fatto - doni ignorati, rimossi) di averci
MICHELET, OGGI

rappresentato, attraverso il pathos della sua epoca, le condi­


zioni reali del discorso storico, inducendoci a superare la mi­
tica contrapposizione tra «soggettività» e «oggettività» (una
distinzione esclusivamente propedeutica, necessaria sul piano
della ricerca), per sostituire ad essa quella tra enunciato ed
enunciazione, tra prodotto dell’indagine e produzione del
testo.

Il processo intentato a Michelet da numerosi storici, e dalla


stessa opinione corrente - di cui Lucien Febvre ha ricordato
ironicamente le argomentazioni1 -, non è soltanto, ovvia­
mente, un processo scientifico (riguardante le informazioni e
le interpretazioni dello storico), ma anche un processo alla
scrittura: Michelet è per molti (non per tutti: lo prova lo stes­
so Febvre) un cattivo storico perché scrive, invece di limitarsi
a «redigere». Oggi non intendiamo piu la scrittura come il
semplice prodotto di una padronanza stilistica. Quel che fa di
Michelet uno scrittore (un esperto della scrittura, un operato­
re del testo) non è il suo stile (che non è sempre eccellente, poi­
ché è appunto, talora, Vostentazione dello stile), ma quello che
oggi chiameremmo Veccesso del significante. Tale eccesso si
può leggere ai margini della rappresentazione. Michelet è certa­
mente uno scrittore classico (leggibile): racconta ciò che sa,
descrive ciò che vede, il suo linguaggio imita la realtà, cerca di
far aderire il significante al referente e produce cosi segni
chiari (nessuna «chiarezza» è possibile senza una concezione
classica del segno, con il significante da un lato e il referente
dall’altro, il primo al servizio del secondo). La leggibilità di
Michelet non è tuttavia cosi sicura; spesso anzi è in pericolo,
compromessa da eccessi, rumori di fondo, rotture, fughe; tra
quel che Michelet pretende di vedere (il referente) e la sua de­
scrizione (il tessuto dei significanti), vi è spesso un resto - o
una distanza. Si è visto come in lui la narratività sia facilmen­
te offuscata da ellissi, asideti, dalla stessa indeterminatezza
del concetto di «fatto». Il significante (nel senso semanalitico
del termine: per metà semiologico, per metà psicanalitico) fa
pressione in ben altri punti. A questo dominio del significante
si può dare come emblema il regno di quella che potrebbe es­
sere chiamata la tentazione etimologica. L’etimologia di un
nome è, dal punto di vista del significante, un oggetto privile-

1 Lucien Febvre, Michelet, in Traits, Éditions des Trois Collines, Genève-


Paris 1946.
213
giato, perché rappresenta al tempo stesso la lettera e Vorigine
(la storia della scienza etimologica, della filosofia etimologica,
da Cratilo al Brichot di Proust, rimane tutta da scrivere); e,
cosi come tutta una parte della Recherche du temps perdu pro­
mana dal nome di Guermantes, tutta la Storia di Michelet sul-
ΓOttocento deriva da un gioco di parole etimologico: Buona­
parte, la Buona Parte, il premio piu grosso; Napoleone è ricon­
dotto al suo nome, il nome alla sua etimologia, e tale etimolo­
gia, come un segno magico, introduce il portatore del nome in
una tematica fatale: quella della lotteria, del caso sinistro, del
giocatore, figura fantasmagorica che Michelet sostituisce pari
pari all’eroe nazionale; vent’anni della nostra Storia dipendo­
no da quell’origine di Bonaparte: origine (ed è qui il folle ec­
cesso del testo) che non è affatto storica, sociologica, politica
(sarebbe stata un’origine referenziale), ma letterale: sono le
lettere del Nome a dare fondamento alla narrazione di Miche­
let; e tale narrazione è perciò un autentico sogno, che la psica­
nalisi attuale potrebbe analizzare.
Nel leggere Michelet, questo peso, o ardore, del significan­
te non dev’essere usato contro di lui. Sappiamo forse - alme­
no, oggi piu di ieri - che cos’è la scienza storica, ma il discor­
so della Storia? Oggi la Storia non si racconta piu, e il suo rap­
porto con il discorso è diverso. Michelet è condannato in no­
me di una nuova discorsività, che non poteva essere la sua,
quella del suo tempo; esiste, insomma, una totale eterogeneità
tra queste due Storie (e non soltanto errori, mancanze della
prima rispetto alla seconda). Michelet ha ragione contro tutti
gli storici del suo tempo, e tale ragione rappresenta nella sua
opera la parte che oggi ci appare giusta. Egli non ha «defor­
mato» la «realtà» (oppure ha fatto molto piu di questo), ha si­
tuato il punto in cui affiorano tale «realtà» e il suo discorso in
un luogo inatteso: ha spostato il livello di percezione della
Storia; nella sua opera storica gli esempi sarebbero abbondan­
ti (fenomeni di mentalità collettiva, costumi, realtà ecologi­
che, storia materiale, tutto quello che ha trovato ampio spazio
nella Storia successiva), ma l’esempio che voglio fornire di ta­
le «decisione percettiva» lo trarrò dalla sua storia naturale (La
mer). Dovendo descrivere la terribile tempesta dell’ottobre
1859, con un’audacia che lo avvicina ai poeti simbolisti Mi­
chelet la descrive dalVintemo\ ma va oltre, nel senso che qui
l’interno in questione non è metaforico, soggettivo, ma lette­
rale, spaziale: la descrizione è interamente condotta dall’in­
terno della stanza in cui la tempesta lo tiene rinchiuso; in al-
MICHELET, OGGI

tri termini, descrive quel che non vede, non come se lo vedesse
(sarebbe una veggenza poetica piuttosto banale), ma come se
la realtà della tempesta fosse una materia inaudita, venuta da
un altro mondo, percepibile a tutti i nostri organi, eccetto a
quello della vista. È una percezione veramente drogata, poi­
ché reconomia dei cinque sensi ne risulta sconvolta. Michelet
conosceva d'altra parte la posta in gioco fisiologica della sua
descrizione: la tempesta lo spinge a fare un esperimento sul
propno corpo, come un qualsiasi consumatore di hascisch o di
mescalina: «Perseveravo nel lavoro, curioso di vedere se
quella forza selvaggia sarebbe riuscita ad opprimere, ad osta­
colare uno spirito libero. Mantenni attivo il mio pensiero, e
padrone di sé. Scrivevo e mi osservavo. Solo alla lunga, la
stanchezza e la privazione di sonno colpivano in me una facol­
tà - la piu delicata, credo, per uno scrittore -, ossia il senso
del ritmo. La mia frase diventava disarmonica. Nel mio stru­
mento, questa corda fu la prima a spezzarsi». L'allucinazione
non tarda a venire: «[Le onde]... mi facevano l’effetto di uno
spaventoso mob, di un'orribile orda, non di uomini, ma di ca­
ni che abbaiavano, un milione, un miliardo di mastini infero­
citi, anzi, pazzi... Ma che dico? cani, mastini? non era neppu­
re questo. Erano apparizioni esecrabili e innominabili, bestie
senza occhi né orecchie, che avevano soltanto musi schiuman­
ti di rabbia». Quando si dice che tutta la Storia di Michelet è
allucinata in questo modo, non si svaluta in lui il senso stori­
co, ma si esalta un linguaggio moderno: la sua intuizione, o il
suo coraggio, di fare come se il nostro discorso attraversasse il
mondo, il tempo, da parte a parte, all’infinito, come se le allu­
cinazioni di ieri fossero le verità di domani, e cosi via.

Ci sono due modi per demistificare un grand'uomo: umi­


liarlo come individuo oppure disperderlo nelle leggi storiche
generali, farne il prodotto determinato di una situazione, di
un momento, il delegato di una classe. Michelet non ha igno­
rato questo secondo sistema, e ha sottolineato piu volte i lega­
mi tra Napoleone e l’alta finanza, con un procedimento che
precorre la critica marxista; ma la base - o l'ossessione - della
sua dimostrazione è la svalutazione di Bonaparte nel suo corpo.
Il corpo umano - sarebbe meglio dire il corpo storico, quale lo
vede Michelet - non esiste, com'è noto, se non in rapporto
agli affetti o alle ripugnanze che provoca; è al tempo stesso un
corpo erotico (che implica desiderio o repulsione: pulsione) e
un corpo morale (Michelet è pro o contro, a seconda dei prin-
MICHELET, OGGI 215
dpi morali dichiarati). In un certo senso, è un corpo contenu­
to interamente nello spazio di una metafora; per esempio,
quella della nausea, spasmo fisico e rifiuto filosofico. Rileg­
gendo Michelet dopo molti anni, sono ancora una volta im­
pressionato dal carattere impenoso dei suoi ritratti. Eppure il
ritratto è un genere spesso noioso, dal momento che non ba­
sta descrivere un corpo per farlo esistere (desiderare); Balzac,
per esempio, non ottiene mai un rapporto erotico tra sé (e di
conseguenza noi) e i suoi personaggi; i suoi ritratti sono mor­
tali. Michelet, invece, non descrive (almeno nel ritratto al
quale penso, quello di Bonaparte): nell’insieme del corpo (pe­
santemente percorso, organo dopo organo, da Balzac), si con­
centra decisamente su due o tre punti e li riprende incessante­
mente; in Bonaparte (dovremmo dire su di lui) sono i capelli,
castani ma cosi lucidi di brillantina da sembrare neri, il volto
gialllo, cereo, senza ciglia né sopracciglia, gli occhi grigi come il
vetro di un bicchiere, e i denti bianchi, bianchissimi. («Ma
com’è nero, questo Bonaparte!... E nero, ma che denti bian­
chi! ») Il ritratto possiede una sua forza, ma ciò che attesta il
potere di Michelet (l’eccesso del suo testo, il suo sfuggire lon­
tano da ogni rettorica) è che non si riesce a dire esattamente
perché; non perché la sua arte sia indicibile, misteriosa, na­
scosta in un’«impronta», in un «non so che», ma piuttosto
perché è un’arte pulsionale, che collega direttamente il corpo
(quello di Bonaparte e quello di Michelet) al linguaggio, senza
passare attraverso alcuna mediazione razionale (si intenda
l’assoggettamento della descrizione a una griglia, sia anatomi­
ca - quella presa in considerazione da Balzac - sia rettorica -
com’è noto, il ritratto dipende tradizionalmente da un codice
forte, la prosopografia). Delle pulsioni non è mai possibile
parlare direttamente; tutto quel che si può fare è indovinarne
il luogo; in Michelet, un passo dopo l’altro, tale luogo si lascia
individuare: è, in senso lato - e che include degli stati della
materia, in parte visivi, in parte tattili -, il colore. I colori di
Bonaparte sono sinistri (nero, bianco, grigio, giallo); altrove
- fuori della Storia, nella Natura -, il colore è esaltante; si ve­
da la descrizione degli insetti: «... esseri affascinanti, esseri
bizzarri, mostri mirabili, con ali di fuoco e corazze di smeral­
do, rivestiti di smalti di ogni tipo, armati di strani apparati ri­
lucenti quanto minacciosi, gli uni di acciaio brunito ricoperto
d ’oro, gli altri con ciuffi di seta, felpati di velluto nero: simili
a sottili pennelli di seta fauve su un fastoso sfondo acajou; ta­
luno in velluto granata picchiettato d ’oro; altri con inauditi
MICHELET, OGGI

blu satinati, cosparsi di punti vellutati in rilievo; altri ancora


con bande metalliche, alternate da velluti opachi»; pressione,
pulsione del colore multiplo (quello che si percepisce dietro le
palpebre chiuse), che giunge sino alla trasgressione percettiva:
« Spossato, chiusi gli occhi e domandai grazia; il mio cervello
infatti era come paralizzato, cieco, diventava ottuso». Sem­
pre la stessa facoltà di far significare la pulsione senza tuttavia
sradicarla mai dal corpo; in questo caso, la varietà dei colori
rinvia all’inesauribile prodigalità della natura generatrice di
insetti; altrove però, improvvisamente, troviamo il contrario,
l’audace riduzione a un colore ossessivo: che cos’è la catena
dei Pirenei? Del verde: «Nei Pirenei, il verde acqua cosi parti­
colare dei ruscelli, certe praterie di smeraldo... il marmo ver­
de... » Non si deve dire che Michelet è «pittore»: il colore va
ben al di là della pittura (rimando qui alle recenti osservazioni
di J.-L. Schefer e di Julia Kristeva); il colore appartiene all’or­
dine della succulenza, al corpo profondo; esso introduce nel
testo di Michelet delle zone, delle aree offerte a una lettura
che si potrebbe definire nutritiva.

Si, il significante è sontuoso in Michelet. Eppure Michelet


non è letto. Forse il significante è troppo forte (un vero e pro­
prio veleno), se si legge Michelet come uno storico o come un
moralista - cioè secondo quello che fa il suo ruolo pubblico
fino a quando non cadde nell’oblio. Non dobbiamo dimenti­
care che i nostri linguaggi sono codificati: la società si vieta in
mille modi di mescolarli, di trasgredire la loro separazione e la
loro gerarchia: il discorso della Storia, quello della grande
ideologia morale (o quello della filosofia) sono mantenuti in­
contaminati da ogni desiderio: non leggendo Michelet, è il
suo desiderio che censuriamo. Cosi, Michelet non è al posto
che gli spetta innanzitutto perché infrange la legge discrimi­
natoria dei «generi»: le persone serie, conformiste, lo esclude­
ranno dalle loro letture. Su un secondo versante, però, nessu­
na avanguardia (o piu semplicemente: la «letteratura») rico­
nosce questo principe del significante. Tale seconda esclusio­
ne è piu interessante, e anche piu attuale: è opportuno soffer­
marvisi un istante, poiché è proprio di qui che si può arrivare
a comprendere non solo perché Michelet non è letto dai letto­
ri attivi, produttivi (dai giovani, per esempio), ma anche, piu
in generale, quali sono certe intolleranze della lettura contem­
poranea.
Noi non tolleriamo il pathos, il tono altisonante (d’altra
217
parte, bisognerebbe vedere se non ne abbiamo uno anche
noi). Il discorso di Michelet è evidentemente pieno di quelle
parole dall’apparenza vaga e sublime, di quelle frasi nobili e
commosse, di quei pensieri roboanti e conformisti che oggi
vediamo ormai solo come oggetti lontani, bizzarri e piuttosto
indigeste del romanticismo francese: tutto un «vibrato» che
non tocca piu niente in noi (Azione, Natura, Educazione, Po­
polo, ecc.); in che modo può essere accolta, oggi, una frase
(presa a caso) come questa: «Il Padre è per il figlio una rivela­
zione di giustizia», ecc.? Un simile linguaggio a lettere maiu­
scole non «passa» piu, per ragioni diverse, che attengono sia
alla Storia2sia al linguaggio (non vi è nulla di piu importante
e di meno studiato della moda delle parole); e, non «passan­
do» piu, questo linguaggio si accumula nel discorso di Miche­
let e forma una barriera: se è vero che il libro non ci cade dalle
mani - perché la presenza del significante ne rilancia la lettu­
ra -, dobbiamo perlomeno decantarlo continuamente, scinde­
re Michelet - e, quel che è peggio, scusarlo.
Questo patetico scarto è molto forte in Michelet. Parados­
salmente si può dire che ciò che è piu sincero invecchia piu ra­
pidamente (il motivo, di ordine psicanalitico, è che la « since­
rità» appartiene all’ordine dell’immaginario, laddove l’incon­
scio ignora meglio se stesso). Inoltre, e dobbiamo pur accet­
tarlo, nessuno scrittore produce mai un discorso puro (impec­
cabile, integralmente incorruttibile): l’opera si disgrega per
azione del tempo, come una montagna carsica; nei piu grandi,
nei più audaci, in quelli che piu amiamo, esistono sempre luo­
ghi di discorso perfettamente antipatici. Accettarlo è saggezza
(o, in modo più vivo, aggressivo, è il plurale stesso della scrit­
tura a costringerci a farlo). Questo liberalismo semplicistico
non è tuttavia sufficiente a pareggiare i nostri conti con M i­
chelet; dobbiamo andare oltre. È possibile rinnovare quelle
parole, la cui magia è ormai morta per noi.
Innanzitutto, quelle parole hanno avuto, al loro tempo, un
senso vivo, talora anche aspramente combattivo. Michelet le
usava con passione contro altre parole, a loro volta attive, op­
pressive (il linguaggio procede sempre in modo polemico).
Qui, la cultura storica deve aiutare la nostra lettura: dobbia­
mo indovinare quale fosse la posta in gioco nel linguaggio al­
l’epoca in cui Michelet scriveva. Il senso storico di una parola

2 Se qui metto una maiuscola alla Storia non è per divinizzarla, ma per distin­
guere la Storia come scienza e materia di questa scienza dalla storia come aneddoto.
MICHELET, OGGI

(non nell’accezione angusta della filologia, ma in quella, molto


piu ampia, della lessicologia: penso al termine «civiltà» {civi­
lisation) studiato da Lucien Feb vre) dev’essere sempre valuta­
to dialetticamente: talora, infatti, il richiamo alla Storia intral­
cia e limita la lettura odierna, assoggettandola a un’eguaglian­
za intempestiva, della quale è bene liberarsi con la massima
disinvoltura; altre volte, invece, la Storia serve a rigenerare la
parola, e allora quel senso storico va ricuperato come un con­
dimento gustoso, per nulla autoritario, testimone di una veri­
tà, ma libero, plurale, consumato nel piacere stesso di una fin­
zione (quella della nostra lettura). Trattandosi di un testo, in­
somma, dobbiamo far uso del riferimento storico con cinismo:
rifiutarlo se è riduttivo e impoverisce la nostra lettura, accet­
tarlo se la amplia e la rende piu piacevole.
Più una parola è passibile di un uso magico, piu ha una
funzione mobile: può essere usata per tutto. Tale parola è un
po’ un termine-mana, un termine-jolly: è vero che può essere
vuoto, ma occupa anche, al tempo stesso, il posto piu impor-
tante\ e la sua giustificazione non dipende tanto dal suo senso
quanto dalla sua collocazione, dalla sua relazione con altre pa­
role. La parola vive soltanto in funzione del suo contesto, e
tale contesto dev’essere inteso in modo illimitato: è tutto il si­
stema tematico e ideologico dello scrittore, ed è anche la no­
stra personale situazione di lettori, in tutta la sua ampiezza e
fragilità. Il termine «Libertà» è abusato (a forza di essere usa­
to da impostori)? Ma la Storia può riattivarne la terribile at­
tualità; oggi siamo perfettamente coscienti del fatto che la li­
bertà, nel senso che questo termine ha avuto dalla Rivoluzio­
ne francese in poi, era un’entità troppo astratta (troppo parti­
colare, anche: libertà di stampa, di pensiero) per soddisfare le
esigenze concrete del lavoratore alienato nel lavoro e nel tem­
po libero; ma tale crisi può indurre a ripiegarsi sull’astrazione
stessa del termine; tale astrazione ritornerà ad essere una for­
za, e Michelet sarà di nuovo leggibile (nulla vieta che raggra­
varsi di certi pericoli «ecologici» dia nuova vita al termine
«Natura» di Michelet: è un fenomeno già in atto). Insomma,
le parole non muoiono mai, perché non sono «esseri», bensì
funzioni: esse subiscono soltanto metamorfosi (in senso pro­
prio), reincarnazioni (anche in questo caso, il testo di Febvre,
pubblicato all’indomani dell’invasione nazista, palesa con
grande evidenza come allora, nel 1946, l’opera di Michelet fa­
cesse di nuovo eco, e bruscamente, alle sofferenze dei francesi
oppressi dall’occupazione straniera e dal fascismo).
MICHELET, OGGI 219

Ciò che ci separa da Michelet è, evidentemente ed eminen­


temente, il passaggio del marxismo: non solo Pavvento di un
nuovo tipo di analisi politica, ma anche una serie implaca­
bile di demistificazioni concettuali e verbali. Michelet non
avrebbe probabilmente capito nulla della razionalità marxista
(dubito che ne sia venuto a conoscenza, anche se mori nel
1874); la sua ideologia, nel senso stretto del termine, era
piccolo-borghese; egli ha tuttavia assunto apertamente la mo­
rale (anche se il termine è sgradevole) che è presente, come un
quantum inevitabile, in ogni scelta politica: la sua opera è ef­
fettivamente politica, non per i suoi strumenti di analisi, poco
realistici e poco dialettici, ma per il progetto, che consisteva
nel rintracciare sistematicamente gli elementi intollerabili del­
la Storia e della socialità. La parola «Popolo», cosi importante
per lui (era una parola della Rivoluzione), oggi non può piu es­
sere analizzata come ai suoi tempi; noi non parliamo piu del
Popolo, ma diciamo ancora «le forze, le masse popolari», e
con il «popolare» Michelet ha avuto un rapporto vivo, un
rapporto giusto, poiché ha saputo porre tale rapporto al cen­
tro stesso della sua situazione di scrittore (cioè del suo mestie­
re). Come prova fornirò quella che oggi mi tocca di piu: non
le sue numerose testimonianze sulla condizione operaia (che
tuttavia non sono trascurabili), bensì queste parole gravi:
«Sono nato popolo, avevo il popolo nel cuore... Ma la lingua,
la sua lingua, mi era inaccessibile. Non ho potuto farlo parla­
re». Michelet pone qui il problema attuale, il problema scot­
tante della separazione sociale dei linguaggi. Ai tempi di Mi­
chelet ciò che egli chiamava Popolo non era certo privo di lin­
guaggio (sarebbe inconcepibile), ma certo il linguaggio del Po­
polo (qual era in realtà?) si trovava, per mancanza di comuni­
cazioni di massa e di scuole, fuori della sfera di influenza dei
modelli borghesi e piccolo-borghesi; voler parlare «popolare»
- anche se non ci si riusciva - significava pretendere di con­
seguire, con qualche verosimiglianza, una certa « spontanei­
tà», uno stato extraideologico del linguaggio (molto sensi­
bile in talune bellissime canzoni popolari); oggi tale materia
romantica è distrutta: il linguaggio «popolare» non è altro che
il linguaggio borghese imbastardito, generalizzato, volga­
rizzato, imbalsamato in una specie di « senso comune », che
stampa, televisione e radio diffondono indistintamente presso
tutte le classi sociali. Per Michelet il linguaggio-popolo era
una terra promessa; per noi è un purgatorio da attraversare
MICHELET, OGGI

(donde, per certuni, il rifiuto rivoluzionario di affrontarne il


transito). Non vi è nulla di piu tragico e desolante, per Miche­
let e per noi - tante sono le difficoltà in esso annunciate -,
del brano seguente, che conclude un capitolo di un libro di
Michelet (Nos fils, 1869), e che è tuttavia pieno di pathos:
«Dopo rom bile e tenebrosa vicenda del 24 giugno 1848, chi­
no sotto il peso del dolore, dissi a Béranger: 'O h , chi saprà
parlare al popolo?... Senza questo moriremo”. E quello spirito
saldo e freddo rispose: "Pazienza! toccherà a loro fare i loro
libri” . Sono trascorsi diciotto anni. E quei libri, dove sono?»
Forse questo problema, che ci viene dal vecchio Michelet,
è quello di domani.

1972, in «L’Arc».
Modernità di Michelet

Michelet non è di moda. Michelet non è moderno. Il gran­


de storico è caduto a sua volta nel trabocchetto della Storia.
Perché?
E un problema serio, persino drammatico, almeno per una
persona che ami profondamente l’opera di Michelet e voglia
nel contempo partecipare all’avvento di quei nuovi valori la
cui offensiva costituisce ciò che passa sotto il comodo nome
di avanguardia. La persona in questione crede cosi di vivere
nella contraddizione - cosa che la nostra civiltà da Socrate in
poi, considera la piu grave ferita che un essere umano possa
ricevere dagli altri e da se stesso. Eppure: se ad essere con­
traddittorio non fosse quel soggetto, ma la Modernità stessa?
In questo caso, l’evidente censura che l’avanguardia impone
a Michelet le si rivolterebbe contro come a un’illusione, a una
fantasticheria negativa che dev’essere spiegata: può la Storia
- di cui fa parte la Modernità - essere ingiusta, per non dire
qualche volta imbecille? E stato lo stesso Michelet ad inse­
gnarcelo.
La Modernità di Michelet - voglio dire la sua modernità
effettiva, scandalosa, non la sua modernità umanistica, in no­
me della quale lo inviteremmo a rimanere sempre giovane nel­
la storia delle lettere francesi - mi sembra emergere prepo­
tentemente in almeno tre punti.
Il primo riguarda gli storici. Com’è noto, Michelet ha fon­
dato quella che ancor oggi va timidamente sotto il nome di et­
nologia della Francia: un modo di inserire i morti del passa­
to non in una cronologia o in una Ragione, ma in un reticolo
di comportamenti materiali, in un sistema di cibi, di vestia­
rio, di pratiche quotidiane, di rappresentazioni mitiche, di at­
ti amorosi. Michelet svela quella che potremmo chiamare la
sensualità della Storia: con lui il corpo diventa il fondamento
stesso del sapere e del discorso, del sapere come discorso. E
MODERNITÀ DI MICHELET

l’istanza del corpo a unificare tutta la sua opera, dal corpo me­
dievale - quel corpo che aveva il gusto delle lacrime - al cor­
po gracile della Strega: la Natura stessa, mare, montagna, ani­
malità, non è mai altro che il corpo umano in espansione e,
per cosi dire, in contatto. La sua opera corrisponde a un ine­
dito livello di percezione che rimane ancora ampiamente oc­
cultato dalle scienze cosiddette umane. Quel modo di sposta­
re l’asse dell’intelligibile storico rimane particolarissimo, poi­
ché contraddice la credenza, tuttora attuale, secondo la quale
per capire bisogna astrarre e, in un certo senso, scorporare la
conoscenza.
La seconda modernità di Michelet riguarda l’epistemolo­
gia. Tutta l’opera di Michelet postula - e spesso mette in at­
to - una scienza autenticamente nuova, per la quale tuttora
si combatte. Non chiamiamola ancora scienza dell’Inconscio,
e neppure, in senso piu lato, Simbolico; chiamiamola con il
nome molto generico che Freud le ha dato nel suo Mosè, os­
sia scienza dello spostamento: Entstellungswissenschaft. Come
potremmo dire (senza cadere nel neologismo)? Metabologiaì
Poco importa. È indubbio che operazioni di spostamento, di
sostituzione, metaforiche o metonimiche, hanno contrasse­
gnato in ogni epoca il logos umano, anche quando tale logos è
divenuto scienza positiva. Ma ciò che assegna a Michelet un
posto già grandioso in questo nuovo discorso della Scienza è
che in tutta la sua opera - forse sotto l’influenza di Vico,
che, non dobbiamo dimenticarlo, molto prima dello struttu­
ralismo contemporaneo ha indicato quali cifre della Storia
umana le grandi figure della Rettorica - la sostituzione, l’e­
quivalenza simbolica costituisce una via sistematica di cono­
scenza, o, se si vuole, la conoscenza non può essere separata
dagli strumenti, dalla struttura stessa del linguaggio. Quan­
do Michelet ci dice, per esempio e alla lettera, che « il caffè è
Γalibi del sesso », è come se formulasse sotto banco una logi­
ca nuova che oggi si afferma in tutto il sapere: il freudiano, lo
strutturalista, e, non esito a dirlo, lo stesso marxista, tutti de­
bitori di questa scienza delle sostituzioni, dovrebbero sentirsi
a loro agio nell’opera di Michelet.
La terza modernità di Michelet è quella piu difficile da co­
gliere e forse anche da ammettere, perché si presenta in una
veste ridicola: quella del partito preso. Michelet è l’uomo del
partito preso - quanti critici, quanti storici, insediati super­
bamente negli agi della scienza oggettiva, gliel’hanno rimpro­
verato! Per scrivere, diciamo cosi, deve prendere partito: tut-
MODERNITÀ DI MICHELET 223
to il suo discorso è apertamente derivato da una scelta, da una
valutazione del mondo, delle sostanze, dei corpi; non vi è
fatto che non sia preceduto dal suo valore intrinseco: il sen­
so e il fatto sono dati nello stesso tempo, metodo inaudito agli
occhi della Scienza. Un filosofo lo fece proprio: Nietzsche.
Nietzsche e Michelet sono separati dalla piu incolmabile delle
distanze, quella dello stile. Eppure, si osservi come Michelet
valuta il suo secolo, l’Ottocento: con un volto ben noto a
Nietzsche e in seguito a Bataille (attento lettore di Michelet,
non lo si dimentichi), cioè quello della Noia, dell’appiattimen­
to dei valori. La vigorosa reazione di Michelet nei confronti
del suo secolo, che giudicava in un certo qual senso «spento»,
è consistita nell’aver brandito ostinatamente il Valore come
una sorta di fiamma apocalittica; la sua idea piu moderna, in­
fatti - quella che condivide, per l’appunto, con Nietzsche e
Bataille -, è che ci troviamo alla fine della Storia: idea che
probabilmente nessuna avanguardia oserebbe ancora rivendi­
care. Troppo scottante, troppo pericoloso.
Eppure, come si è detto, la modernità di Michelet non
«passa». Perché? In Michelet, un certo linguaggio costituisce
un ostacolo, pesa come una pelle morta sulla sua opera, le im­
pedisce di propagarsi. Nella lotta della modernità, la forza
storica di un autore si misura in base alla diffusione delle sue
citazioni. E Michelet si diffonde poco, non è citato.
Tale linguaggio corrisponde a ciò che non si può non chia­
mare il pathos, l’enfasi di Michelet. Tale enfasi non è costan­
te, dal momento che lo stile di Michelet è per fortuna etero­
clito, fino a diventare barocco (la modernità avrebbe qui un
motivo in piu per recuperare l’opera di Michelet), ma ritoma
incessantemente, rinchiude Michelet nella ripetizione, nello
scacco. Ora, che cosa si ripete in un linguaggio? La firma. E
vero che Michelet folgora in continuazione, che è costante-
mente nuovo, ma la grandissima ed inesauribile forza della
sua scrittura è altresì incessantemente segnata da un marchio
ideologico, ed è proprio tale marchio, tale firma, che la mo­
dernità rifiuta. Michelet scrive candidamente la propria ideo­
logia, ed è questo a perderlo. Laddove Michelet crede di es­
sere autentico, sincero, ardente, ispirato, appare oggi morto,
imbalsamato: démodé fino alla nausea.
La forza attuale di uno scrittore del passato si misura in ba­
se alle deviazioni che ha saputo imporre all’ideologia della sua
classe. Lo scrittore non può mai distruggere la propria ideo­
logia originaria, può solo barare con essa. Michelet non ha sa-
MODERNITÀ DI MICHELET

puto o non ha voluto barare con il linguaggio ereditato dal Pa­


dre: piccolo editore, poi gerente di una casa di cura, repubbli­
cano, voltairiano, insomma piccolo-borghese. Ma l’ideologia
piccolo-borghese, palesata esplicitamente come faceva Miche­
let, è di quelle che oggi non perdonano, perché è ancora in
gran parte la nostra, quella delle nostre istituzioni, delle no­
stre scuole, e perciò non può essere presa contro tempo, come
nel caso dell’ideologia progressista della borghesia settecen­
tesca. Da un punto di vista moderno, Diderot è leggibile, Mi­
chelet non lo è quasi piu. La sua enfasi deriva dalla sua ideo­
logia di classe, dall’idea, potremmo dire dalla finzione, secon­
do la quale le istituzioni repubblicane hanno come scopo non
di sopprimere la divisione tra capitale e salariato, ma di atte­
nuarne e in qualche modo armonizzarne l’antagonismo. Co­
me conseguenza abbiamo da un lato tutto un discorso unita­
rio (oggi diremmo: un discorso del significato) che non può
non alienare a Michelet qualsiasi lettura psicanalitica, e dal­
l’altro una visione organicista della Storia che non può non
precludergli la lettura marxista.
Che fare, dunque? Nulla. Che ognuno legga il testo di Mi­
chelet come piu gli piace. Evidentemente non siamo ancora
maturi per una lettura discùminatona, che accetti di frammen­
tare, distribuire, pluralizzare, distaccare, dissociare il testo di
un autore secondo la legge del Piacere. Siamo ancora dei teo­
logi, non dei dialettici. Preferiamo gettar via con l’acqua della
vasca il bambino, piuttosto che sporcarci. Non siamo ancora
abbastanza «educati» per leggere Michelet.

1974, in «Revue d’histoire littéraire de la France».


Brecht e il discorso:
contributo allo studio della discorsività

Il terzo discorso.

Del povero B. B.: è il titolo di una poesia di Bertolt Brecht,


scritta nel 1921 (all’età di ventitré anni). Non sono le iniziali
della gloria; è la persona ridotta a due estremità; le due lettere
(per di piu ripetitive) inquadrano un vuoto, e questo vuoto è
l’apocalisse della Germania di Weimar; da questo vuoto sor­
gerà (verso il 1928-30) il marxismo brechtiano. Nell’opera di
Brecht esistono perciò due discorsi: anzitutto, un discorso
apocalittico (di stampo anarchico); bisogna dire e produrre la
distruzione, senza tentare di vedere ciò che viene «dopo», dal
momento che il «dopo » è altrettanto indesiderabile; da que­
sto discorso discendono le prime pièces di Brecht {Baal, Tarn-
bun nella notte, Nella giungla delle città); in secondo luogo, un
discorso escatologico: si costruisce una critica in vista di far
cessare la fatalità dell’alienazione sociale (o la credenza in tale
fatalità): quel che non va nel mondo (la guerra, lo sfruttamen­
to) è rimediabile, ed è concepibile il tempo della guarigione;
da questo secondo discorso deriva tutta l’opera di Brecht po­
steriore all Opera da tre soldi.
Manca.un terzo discorso: quello apologetico. In Brecht non
esiste nessun catechismo marxista: nessuno stereotipo, nessun
ricorso alla vulgata. E stata con ogni probabilità la forma tea­
trale a proteggerlo da tale pericolo, poiché in teatro, come in
qualsiasi testo, non è possibile rintracciare l’origine dell’enun­
ciazione: è impossibile la collusione, sadica, del soggetto e del
significato (che produce invece il discorso fanatico), oppure
quella, mistificatrice, del segno e del referente (dalla quale è
prodotto il discorso dogmatico). Anche nei saggi1, Brecht

1 Penso qui - e sempre, nel corso di questo testo - a Ecrits sur la politique et
la société, L’Arche, Paris 1970, opera di fondamentale importanza e passata, mi
pare, quasi inosservata.
22Ó BRECHT E IL DISCORSO

non si concede mai il lusso di firmare Γorigine del proprio di­


scorso, di apporvi il marchio del potere marxista: il suo lin­
guaggio non è una moneta. Anche in seno al marxismo,
Brecht è un inventore permanente; reinventa le citazioni, ac­
cede all’intertesto: «Pensava in altre teste; e, nella sua, altri
pensavano per lui. E questo il vero pensiero ». Il vero pensiero
è piu importante del pensiero (idealista) della verità. In altri
termini, in campo marxista il discorso di Brecht non è mai
quello di un sacerdote.

La scossa.

Tutto quello che leggiamo e sentiamo ci ricopre come una


coltre, ci circonda e ci avvolge come un ambiente: è la logo­
sfera. La logosfera ci è data dalla nostra epoca, dalla nostra
classe, dal nostro mestiere: è un «dato» del nostro soggetto.
Di conseguenza, spostare ciò che è dato può essere frutto sol­
tanto di una scossa; bisogna sommuovere la massa equilibrata
dei discorsi, lacerare la coltre, spezzare l’ordinato concatenar­
si delle frasi, infrangere le strutture del linguaggio (ogni strut­
tura è un edificio fatto di vari livelli).
L’opera di Brecht si prefigge di elaborare una pratica del­
la scossa (non della sovversione: la scossa è molto piu «reali­
stica» della sovversione); l’arte critica è quella che apre una
crisi: che lacera, squarcia la coltre, produce fessure nell’incro­
stazione dei linguaggi, interrompe e diluisce l’avvelenamen­
to della logosfera; è un’arte epica che rende discontinui i tes­
suti discorsivi, che distanzia la rappresentazione senza annul­
larla.
In che cosa consistono allora lo straniamento, la disconti­
nuità provocati dalla scossa brechtiana? Solo una lettura può
separare il segno dal suo oggetto. Sapete che cos’è uno spil­
lo giapponese? E uno spillo da sarta, la cui testa è munita di un
minuscolo campanello, in modo che non lo si possa dimenti­
care nell’abito terminato.
Brecht rifà la logosfera lasciandovi gli spilli con i campanel­
lini, i segni dotati del loro tintinnio appena percepibile: cosi,
quando ascoltiamo un linguaggio, non dimentichiamo mai da
dove viene, come è stato fatto: la scossa è una ri-produzione;
non un’imitazione, ma una produzione distaccata, spostata:
che fa rumore.
BRECHT E IL DISCORSO 227
Piu che una semiologia, dunque in Brecht dovremmo pren­
dere in considerazione una sismologia. Strutturamente, che
cos’è una scossa? Un momento difficilmente controllabile (e
perciò antipatico all’idea stessa di «struttura»); Brecht non
vuole che si ricada sotto la cappa di un’altra coltre, di un’al­
tra «natura» di linguaggio: niente eroe positivo (l’eroe posi­
tivo è sempre ingombrante), nessuna pratica isterica della
scossa: la scossa è netta, discreta (nei due sensi del termine),
rapida, ripetuta se necessario, ma mai permanente (non è
un teatro della sovversione, non implica nessuna grande mac­
china contestataria). Per esempio, se esiste un campo sepol­
to sotto la coltre della logosfera quotidiana è proprio quello
dei rapporti di classe; ebbene, Brecht non lo sovverte (non
è questo il ruolo che attribuisce alla sua drammaturgia: e
d ’altra parte, come potrebbe un discorso sovvertire tali rap­
porti?), ma gli imprime una scossa, gli appunta uno spillo
tintinnante.
Si prenda la sbornia di Puntila, strappo passeggero e ricor­
rente imposto al socioletto del grosso proprietario terriero; al
contrario di tante scene del teatro e del cinema borghese,
Brecht non tratta affatto l’ubriachezza in sé (viscida noia del­
le scene di ubriaconi); essa non è mai altro che il fattore che
modifica un rapporto e, di conseguenza, lo fa leggere (un rap­
porto può essere letto retrospettivamente solo quando da qual­
che parte, in un punto qualsiasi, per quanto lontano e tenue,
esso si è spostato). Rispetto a un trattamento cosi esatto (per­
ché strettamente legato alla sua rigorosa economia), quanto
appaiono ridicoli tanti film sulla «droga»!
Dietro l’alibi dell’underground, si rappresenta sempre la
droga «in sé», con i suoi effetti, i suoi misfatti, le sue estasi,
il suo stile: insomma, i suoi «attributi», non le sue funzioni.
Ed essa permette forse di leggere in modo critico una qualche
configurazione cosiddetta «naturale» dei rapporti umani?
Dov’è la scossa della lettura?

Ripetere sottovoce.

Nei suoi scritti politici Brecht propone un esercizio di let­


tura: legge davanti a noi un discorso nazista (di Hess) e sug-
BRECHT E IL DISCORSO

gerisce le regole di lettura veridica di un simile genere di


scritto \
Brecht si unisce cosi al gruppo dei Propositori di Esercizi,
dei «Regolatori», di coloro che offrono non una regolamen­
tazione, ma mezzi regolati per raggiungere un fine; dio stesso
modo Sade fornisce le regole del piacere (Juliette impone al­
la bella contessa de Donis un vero e proprio esercizio), Fou­
rier quelle della felicità, Loyola quelle della comunicazione
divina.
Le regole insegnate da Brecht si prefiggono di ristabilire
la verità di uno scritto: non la sua verità metafisica (o filolo­
gica), ma quella storica: la verità di uno scritto governativo
in un paese fascista, verità-azione, verità prodotta e non as­
serita.
L’esercizio consiste nel saturare lo scritto menzognero in­
tercalando tra le sue frasi il complemento critico che demisti­
fica ciascuna di esse: «Legittimamente fieri dello spirito di sa­
crificio... », esordiva pomposamente Hess in nome della
«Germania»; e Brecht, sottovoce, completa: «Fieri della ge­
nerosità di quei possidenti che hanno sacrificato un po’ di
quello che i non-possidenti avevano sacrificato loro... », ecc.
Ogni frase è rovesciata perché è accompagnata da un supple­
mento: la critica non taglia, non sopprime, aggiunge.
Per produrre il supplemento veritiero, Brecht raccomanda
di npetere sottovoce lo scritto, l’esercizio. La critica è anzitutto
prodotta da una specie di clandestinità: ciò che è letto è il te­
sto per séynon in sé; la voce bassa è quella che mi coinvolge: vo­
ce riflessiva (e talora erotica), produttrice di intelligibile, voce
originaria della lettura.
Ripetere l’esercizio (leggere piu volte lo scritto) significa
liberarne a poco a poco i «supplementi»; cosi l’haiku com­
pensa la sua brevità insigne con la ripetizione: il minuscolo
poema è salmodiato tre volte, come in un’eco; tale pratica è
cosi ben codificata che l’ampiezza dei supplementi (la «lun­
ghezza di risonanza») porta un nome: è Yhibiki; mentre Y ut-
suri è l’infinità dei collegamenti che scaturiscono dalla ripe­
tizione.
Quel che sorprende, fino al limite estremo del paradosso,
è che questa pratica raffinata, strettamentedegata a una for-

1 Écrits sur la politique et la société cit., p. 150.


BRECHT E IL DISCORSO 229

ma di erotismo del testo, sia applicata da Brecht alla lettura


di uno scritto detestabile. La distruzione del discorso mo­
struoso è condotta qui secondo una tecnica amorosa; essa mo­
bilita non le armi riduttive della demistificazione, bensì le ca­
rezze, le amplificazioni, le sottigliezze ancestrali del manda­
rinato letterario, come se non esistessero da un lato il rigore
vendicativo della scienza marxista (quella che conosce la real­
tà dei discorsi fascisti) e dall’altro i compiacimenti dell’uomo
di lettere, ma anzi come se fosse naturale trane piacere dalla
verità, come se si avesse il diritto semplicissimo, il diritto im­
morale di sottoporre lo scritto borghese a una critica costituita
a sua volta dalle tecniche di lettura di un certo passato bor­
ghese; e in effetti, da dove proverrebbe la critica del discor­
so borghese, se non da questo discorso stesso? Finora la di­
scorsività è senza alternativa.

La concatenazione.

Proprio perché sono concatenati, dice Brecht, gli errori


producono un’illusione di verità; il discorso di Hess può sem­
brare vero in quanto si presenta come un discorso conseguen­
te. Brecht processa la concatenazione, il discorso «incatena-
to/concatenato» (giocando su enchaînê)\ tutta la pseudologi­
ca del discorso - i collegamenti, i passaggi logici, la coltre
dell’elocuzione, insomma il continuo della parola - possiede
una specie di forza, genera un’illusione di sicurezza: il discor­
so enchaîné è indistruttibile, trionfante. Il primo attacco con­
sisterà perciò nel renderlo discontinuo: fare a pezzi, letteral­
mente, lo scritto menzognero è un atto polemico. «Svelare»
non significa tanto togliere il velo quanto farlo a pezzi; nel ve­
lo, di solito si commenta soltanto l’immagine di ciò che na­
sconde o sottrae; ma l’altro senso dell’immagine è altrettan­
to importante: la coltre, 'Aprolungato, il conseguente; attacca­
re lo scritto menzognero vuol dire separare il tessuto, ridur­
re il velo a tante pieghe lacerate.
La critica del continuum (qui applicata al discorso) è costan­
te in Brecht. Una delle sue prime opere teatrali, Nella giungla
delle città, appare ancora enigmatica a molti commentatori
perché due interlocutori si scontrano in modo incomprensi­
bile non sul piano di ogni singola peripezia, ma su quello del-
BRECHT E IL DISCORSO

Γinsieme, cioè secondo una lettura continua. Fin da quel mo­


mento il teatro di Brecht è una sequenza (non una conseguen­
za) di frammenti separati, privi di quello che in musica va sot­
to il nome di effetto Zeigarnik (nel quale la risoluzione fina­
le di una sequenza musicale le conferisce retrospettivamente
il suo senso). Il discontinuo del discorso impedisce al senso fi­
nale di coagularsi: la produzione critica non aspetta, vuole es­
sere istantanea e ripetuta: è la definizione stessa del teatro
epico secondo Brecht. L’epica è ciò che taglia (trancia) il ve­
lo, disgrega la pece della mistificazione (si veda la prefazione
di Mahagonny).

La massima.

L’elogio del frammento (della scena che si propone «di per


sé») non è quello della massima. La massima non è un fram­
mento, innanzitutto perché in generale costituisce il punto di
partenza di un ragionamento esplicito, l’inizio di un continuo
che si sviluppa surrettiziamente nell’interi es to di saggezza
che è nel lettore, e poi perché il frammento brechtiano non è
mai generalizzante, non è «conciso», non «riassume», anzi,
può essere molto allentato,-molto diluito, pieno di fatti con­
tingenti, di specificazioni, di dati dialettici; la massima è in­
vece un enunciato dal quale si sottrae la Storia: è il bluff della
«Natura».
Di qui l’incessante sorveglianza esercitata da Brecht sulla
massima. L’Eroe è condannato, è il caso di dirlo, perché la
massima è il suo linguaggio «naturale» («Ovunque si trovino
grandi virtù, si può essere sicuri che c’è qualcosa che va stor­
to»); lo stesso vale per la Grande Tradizione, dal momento
che si fonda su verità gnomiche: «Chi fa il primo passo deve
fare anche il secondo »: chi lo dice, e in quale forma? È il co­
dice culturale, la cui falsa logica è deviante, poiché chi fa
il primo passo non deve necessariamente fare il secondo.
Infrangere l’uso significa anzitutto spezzare la massima,
lo stereotipo: sotto la regola, scoprite l’abuso; sotto la
massima, scoprite la concatenazione; sotto la Natura, scoprite
la Storia.
BRECHT E IL DISCORSO 2 31

La metonimia.

Nel suo discorso, Hess parla continuamente della Germa­


nia. Qui però la Germania non è altro che i possidenti tede­
schi. Il Tutto è proposto, abusivamente, per la parte. La si­
neddoche è totalitaria: è una violenza. «Il tutto per la parte»,
definizione classica della metonimia, vuol dire: una parte con­
tro un’altra, i possidenti tedeschi contro il resto della Germa­
nia. Il predicato («tedeschi») diventa soggetto («i Tedeschi»):
si verifica una specie di putsch logico; la metonimia diventa
un’arma di classe.
Come lottare contro la metonimia? Come, sul piano del di­
scorso, ricondurre la somma alle sue parti, come disfare il No­
me abusivo? È un problema molto brechtiano. In teatro la de­
fezione del Nome è facile, perché vi sono rappresentati, for­
zatamente, soltanto dei corpi. Se sulla scena si deve parlare
del « Popolo » (anche questo termine può essere metonimico,
generare abusi), bisogna dividere il concetto: neÏÏInterrogato­
lo di Lucullo il «Popolo» è rappresentato dalla presenza di un
contadino, uno schiavo, un maestro elementare, una pesci-
vendola, un fornaio e una cortigiana. Da qualche parte Brecht
dice che la Ragione non è mai altro che ciò pensa Γinsieme
delle persone ragionevoli: il concetto (sempre abusivo?) è ri­
condotto a una somma di corpi storici.
La de-nominazione - o l’ex nominazione - , proprio perché
è infinitamente sovversiva, è tuttavia difficile da sostenere. Esi­
ste sempre la tentazione di assolvere una Causa, di scusare gli
errori e le stupidaggini dei suoi sostenitori, separando l’eccel­
lenza del Nome dall’imbecillità dei soggetti. Berdjajev ha
scritto una volta un breve saggio intitolato Della dignità del
cristianesimo e dell'indegnità dei cnstianr. ah, se si potesse allo
stesso modo depurare il discorso marxista dal dogmatismo dei
marxisti, la Rivoluzione dall’isteria dei rivoluzionari e, piu ge­
neralmente, l’Idea dalla nevrosi dei suoi sostenitori! Ma tutto
ciò è vano: il discorso politico è fondamentalmente metonimi­
co, dal momento che può fondarsi soltanto sulla forza del lin­
guaggio, e tale forza è appunto la metonimia.
Cosi nel discorso ritorna la figura religiosa fondamentale,
quella del Contagio, della Colpa, del Terrore, cioè, in tutti
questi casi, l’assoggettamento violento della parte al tutto, del
corpo al Nome; il discorso religioso è effettivamente il model-
BRECHT E IL DISCORSO

lo di ogni discorso politico: nessuna teologia potrebbe ricono­


scere che la Fede non è altro che l’insieme delle persone che
credono. E qui, dal punto di vista della «tradizione» marxi­
sta, Brecht è decisamente eretico: resiste a tutte le metoni­
mie. Vi è una specie di individualismo brechtiano: il «Popo­
lo» è una serie di individui riuniti sulla scena; la «Borghesia»
è un proprietario, oppure un ricco, ecc. Il teatro obbliga a di­
sfare il Nome. E facile immaginare un qualche teorico, vinto
alla lunga dal disgusto del Nome e tuttavia niente affatto ras­
segnato ad accettare il rifiuto di ogni linguaggio: immagino
dunque questo epigono brechtiano mentre rinuncia ai suoi di­
scorsi passati e decide di scrivere soltanto romanzi.

Il segno.

Si, il teatro di Brecht è un teatro del Segno. Ma se si vuole


capire in che senso questa semiologia può essere, piu profon­
damente, una sismologia, bisogna sempre ricordarsi che l’ori-
ginalità del segno brechtiano consiste nell’essere letto due vol­
te: ciò che Brecht ci fa leggere è, per un effetto di distacco, lo
sguardo di un lettore, non direttamente l’oggetto della sua let­
tura; tale oggetto ci giunge infatti soltanto attraverso l’atto in­
tellettivo (atto alienato) di un primo lettore che è già sulla sce­
na. L’esempio migliore di questo «trucco», paradossalmente,
non lo trarrò da Brecht, ma dalla mia esperienza personale (è
facile che una copia sia piu esemplare dell’originale; «alla
Brecht » può essere piu brechtiano di « Brecht »).
Ecco dunque una «scena di strada» della quale sono stato
spettatore. D ’estate la grande spiaggia di Tangeri è ben sorve­
gliata; è vietato spogliarsi all’aperto, certo non per pudore, ma
per costringere i bagnanti a servirsi delle cabine a pagamento
che costeggiano il lungomare - cioè per fare in modo che i
«poveri» (in Marocco questa categoria esiste) non possano ac­
cedere alla spiaggia, riservata cosi ai borghesi e ai turisti. Sul
lungomare passeggia un adolescente solo, triste e misero (se­
gni per me, lo ammetto, frutto di una lettura semplice, non an­
cora brechtiana); un poliziotto (miserabile quasi quanto lui) lo
incontra e lo scruta dall’alto in basso, io vedo il suo sguardo, lo
vedo arrivare e soffermarsi sulle scarpe; a questo punto, il po­
liziotto ordina al ragazzo di andarsene immediatamente dal­
la spiaggia.
233
La scena comporta due commenti. Il primo conterrà l’indi­
gnazione suscitata in noi dalle spiagge irreggimentate, dalla
sottomissione passiva del ragazzo, dall’arbitrio della polizia,
dalla segregazione legata al denaro, dal regime marocchino.
Questo commento non sarebbe quello di Brecht (ma sarebbe
sicuramente la sua «reazione»). Il secondo commento stabili­
rà il gioco speculare dei segni; comprenderà anzitutto che,
nell’abbigliamento del ragazzo, è presente un elemento che
costituisce il segiio piu rilevante della miseria: le scarpe; pro­
prio qui esplode in tutta la sua violenza il segno sociale (fino a
non molto tempo fa esisteva da noi, quando ancora vi erano
dei «poveri», una mitologia della scarpa scalcagnata: se è vero
che l’intellettuale marcisce a partire dalla testa, come il pesce,
il povero invece marcisce dai piedi; proprio per questo Fou­
rier, volendo invertire l’ordine civile, immagina una fiorente,
fulgida comunità di ciabattini); tra le calzature, poi, il punto
estremo della miseria è rappresentato dalle vecchie scarpe da
tennis, senza lacci, con la tomaia schiacciata dietro sotto il
calcagno, proprio come le portava il nostro ragazzino. Ma
questo secondo commento noterà soprattutto come tale segno
sia letto anche dal poliziotto: quando, scendendo lungo il cor­
po, il suo sguardo mette a fuoco l’infame ciabatta, di colpo il
tutore dell’ordine, con un vero e proprio salto paradigmatico,
colloca il poveretto nella classe degli emarginati: capiamo che
ha capito - e perché ha capito. Il gioco, forse, non si ferma
qui: il poliziotto, a sua volta, è male in arnese quasi quanto la
sua vittima, fatta eccezione, appunto, per le scarpe! Con la lo­
ro punta rotonda, lucide, solide, fuori moda, come tutte le
scarpe degli sbirri. In tutto ciò possiamo leggere due alienazio­
ni che si fronteggiano (situazione tratteggiata in una pièce poco
nota di Sartre, Nekrassov). La nostra esteriorità non è sempli­
ce, anzi dà spunto a una critica dialettica (e non manicheista).
La «verità-azione» consiste nello svegliare il ragazzo, ma an­
che lo sbirro.Il

Il piacere.

Il teatro deve dare piacere, Brecht lo ha detto mille volte:


i grandi compiti critici (liquidazione, teorizzazione, messa in
crisi) non escludono il piacere.
Il piacere brechtiano è soprattutto una forma di sensuali­
tà; non ha nulla di orgiastico, è piu orale che erotico: è il «bel
234 BRECHT E IL DISCORSO

vivere» (piu che non il «vivere-bene»), il «mangiar-bene»,


non nel senso francese, ma in quello rurale, forestale, bava­
rese. Nella maggior parte delle pièces di Brecht si vede pas­
sare del cibo (si noti che il cibo è al crocevia tra Bisogno e De­
siderio, e costituisce perciò, alternativamente, un tema rea­
listico e un tema utopico); il piu complesso tra gli eroi brech­
tiani (e quindi niente affatto un «eroe»), Galileo, è un uòmo
sensuale: dopo aver abdicato a tutto, solo sul fondo della sce­
na, mangia oca con lenticchie, mentre di fronte a noi, fuori
della sua visuale, i suoi libri, impacchettati febbrilmente, si
apprestano ad attraversare le frontiere e a diffondere il nuo­
vo spirito scientifico, antiteologico.
La sensualità brechtiana non si contrappone all’intellettua­
lismo; tra Puno e l’altro esiste una circolazione: «Per un pen­
siero vigoroso darei qualsiasi donna, o quasi. Ci sono molto
meno pensieri che donne. La politica funziona soltanto quan­
do i pensieri sono in numero sufficiente (anche in questo ca­
so, come sono noiosi i tempi morti!)... » La dialettica è un go­
dimento. È perciò possibile concepire, in modo moluzionario,
una cultura del piacere; l’apprendistato del «gusto» è progres­
sista; Pavel Vlasov, il figlio militante della Madre [di Gor'kij],
è diverso dal padre in questo (secondo quanto dice sua ma­
dre): legge libri e fa il difficile con la minestra. Nelle Proposte
per la pace (1954), Brecht delinea il programma di una Scuola
di estetica: gli oggetti di uso comune (gli utensili) devono es­
sere luoghi di bellezza, è lecito recuperare stili antichi (nessun
premio progressista per il mobile «moderno»). In altri termi­
ni, l’estetica è assorbita in un’arte di vivere: «Tutte le arti
contribuiscono alla piu grande di tutte: l’arte di vivere»; quin­
di non si tratta tanto di fare quadri quanto mobili, vestiti,
piatti e posate che concentrino in sé tutto il succo delle arti
«pure»; l’avvenire socialista dell’arte non sarà perciò l’opera
(se non in quanto gioco produttivo), ma l’oggetto d ’uso, nel
quale troverà realizzazione piena e ambìgua (tra il funzionale
e il ludico) il significante. Il sigaro è un emblema del capitali­
smo, d’accordo; ma se dà piacere? Si deve forse smettere di fu­
mare, entrare nella metonimia della Colpa sociale, rifiutare di
compromettersi nel Ségno? Pensarlo sarebbe poco dialettico:
sarebbe gettar via il bambino con l’acqua sporca. Uno dei
compiti dell’era critica consiste appunto nel pluralizzare l’og­
getto, nel separare il piacere dal segno; è necessario deseman-
tizzare l’oggetto (il che non vuol dire desimbolizzarlo), dare
una scossa al segno: che il segno cada, come una vecchia pelle.
235
Tale scossa è il frutto stesso della libertà dialettica: quella che
giudica ogni cosa in termini di realtà, e prende i segni al tem­
po stesso sia come operatori di analisi sia come giochi, ma mai
come leggi.

1975, in «L’Autre Scène».


Letture II
F. B . 1

i . Schegge di linguaggio.

I testi di F. B. possono veramente essere i segni premoni­


tori di una grande opera «legata», in cui Fautore non crea al­
cun vincolo al lettore e quel che ciascuno dei testi stessi ci di­
ce è il suo compimento. Ad essere compiuta, qui, è la scrittu­
ra. Di tutte le materie dell’opera, infatti, soltanto la scrit­
tura può dividersi senza cessare di essere totale: un frammento
di scrittura è sempre un’essenza di scrittura. Proprio per que­
sto, piaccia o no, ogni frammento è concluso, dal momento
che è scritto; sempre per questo, non è possibile paragonare
un’opera spezzettata a una compatta; ancora per questo, in­
fine, nessuno riesce a negare la grandezza delle opere fram­
mentarie: grandezza non della rovina o della promessa, ma del
silenzio che succede a ogni compimento (soltanto l’erudizio­
ne, che è il contrario della lettura, può guardare ai Pensieri di
Pascal come a un’opera incompiuta). Proprio perché scritti,
i testi di F. B. non sono né schizzi, né annotazioni, né mate­
riali, né esercizi; non fanno pensare né al taccuino né al dia­
rio: sono schegge di linguaggio.
Edgar A. Poe sosteneva che non esistono poemi lunghi; nel
Paradiso perduto, per esempio, vedeva «un susseguirsi di ec­
citazioni poetiche intercalate inevitabilmente da depressioni».
F. B. fa a meno delle depressioni; la sua scrittura è di un lusso
senza perdita, cioè senza durata; è la scrittura stessa, e non la

1 Inedito, questo testo fu scritto in margine a frammenti di un giovane scrit­


tore che sembra non abbia poi proseguito sulla strada della letteratura e che non
ha pubblicato nulla. Si tratta dunque di un testo di commento, destinato all'au­
tore di cui viene preso in considerazione il lavoro. A ciò si debbono un tono e un
taglio chiaramente ludici. Ma questo non gli impedisce affatto, anzi, di costituire
un sistema di proposizioni molto acute su un nuovo tipo di romanzesco - non
abbiamo detto: di romanzo - dove non si può non riconoscere in nuce, già nel
1964, alcuni tratti della piu recente pratica - le ultime e piu nuove realizzazioni
- di Barthes scrittore [Nota dell*editore francese].
F. B.

storia, che cessa qui di essere diseguale, quindi noiosa, quindi


periodicamente brutta, come capita a tante opere belle: tut­
to è rimesso alla scrittura, ma tale delega non ha nulla a che
vedere con l’elaborazione della forma; Γartigianato non è piu
la condizione necessaria dello stile: Stendhal se la rideva già
di Chateaubriand e non correggeva praticamente niente. Qui
lo scrittore spende le sue fatiche non sulla materia verbale,
bensì sulla decisione di scrivere: tutto avviene prima della
scrittura. Anche il piu piccolo testo di F. B. rivela questa
« transunzione » anteriore; il lusso tenero e sontuoso di una
scrittura assolutamente liberay nella quale non esiste un solo
atomo di morte, invulnerabile in virtù della sua grazia, pale­
sa la decisione primitiva che fa del linguaggio la fragile salvez­
za di una certa sofferenza.

2. Incidenti.

Potenza della scrittura: questi testi sono anche, a modo lo­


ro, schegge di romanzo. Del romanzo i testi di F. B. hanno
due segni indistruttibili: anzitutto, l’incertezza della coscien­
za narrativa, che non dice mai chiaramente egli oppure io;
quindi, una maniera corsiva, cioè una continuità che avvici­
na la scrittura alle forme «legate» della natura (acqua, pian­
ta, melodia); nulla si preleva da un romanzo, lo si «divora» (il
che significa che il «legato» della lettura romanzesca non di­
pende dallo scrupolo eventuale di leggere tutto, bensì dalla ra­
pida scorsa che ci fa dimenticare certi tratti dell’itinerario: il
continuo della scrittura è una questione di velocità, e forse ta­
le velocità non è, in definitiva, che quella della mano). Lo
stesso vale per i testi di F. B.: anch’essi vengono «divorati»:
un minimo spazio di parole racchiude qui (paradosso della
scrittura) un’essenza di continuità. La scrittura di F. B., non
appena si conclude (sempre troppo presto), è tuttavia già pas­
sata: leggera, profonda, luminescente come il mare di cui par­
la spesso, ci trascina, ci dà nel contempo l’idea del punto d ’ap­
prodo e della circonvoluzione; non è mai chiusa in sé, frappée
(termine che si riferisce al ghiaccio, alla ferita, allo stupore,
tutte cose estranee alla scrittura di F. B.); fisicamente sotti­
le, essa partecipa dell’essenza romanzesca perché la sua fine
- il suo fine - non è mai aforistica; la sua brevità (materiale)
non implica nessuno gnomismo; situazione paradossale per
dei testi brevi, questi constatano, non giudicano: del romanzo
F . B. 239

hanno la profonda amoralità; in essi regna il tempo fondamen­


tale delle letterature libere, l’ultima conquista del linguaggio
(se si pensa alla sua preistoria): Yindicativo. Per questa ragione
potremmo definire i testi di F. B. non frammenti, ma inciden­
ti, cose che ac-cadonoy senza urti e tuttavia con un moto che
non è infinito: continuo discontinuo del fiocco di neve. Lo si
potrebbe dire in un altro modo: la brevità della massima ha
la funzione di instillare in noi una certa ambiguità e reversi­
bilità del senso: la sua figura è l’ellissi; i testi di F. B. sono sul
versante opposto di tale regime di scrittura: non sono «bre­
vi», ritorti e ripiegati su se stessi; hanno lo sviluppo della me­
tafora infinita (nel senso in cui si parla di sviluppo di una ruo­
ta), hanno la lunghezza e lo slancio della linea (concetto legato
al vestiario); l’autore può fermarli rapidamente, poiché han­
no già il soffio del tempo: è una scnttura che, pur rifiutando il
tempo del romanzo, ha tempo. In essa non regna l’ambiguità,
bensì il mistero.

3. La descrizione.

Le «descrizioni» nel romanzo sono necessarie, e proprio


per questo ingrate; sono «servizi», o piu esattamente servitù;
l’aneddoto costringe l’autore a fornire certe informazioni sui
luoghi e sui personaggi; comunicando uno statuto, esse costi­
tuiscono in qualche modo delle pause, e accade spesso che si
leggano con fastidio. Rinunciando ancora al romanzo, F. B.
ne trae tuttavia le parti morte trasformandole in materia at­
tiva. Cosi, in uno dei suoi testi piu belli, F. B. descrive un ra­
gazzo che cammina per le vie di Roma; non sappiamo, non sa­
premo mai da dove viene, dove va, a che cosa serve questo ra­
gazzo, che non è connesso ad alcuna logica narrativa; il suo
creatore gli conferisce tuttavia una suspense; meglio è descrit­
to il ragazzo, piu siamo curiosi della sua essenza, tesi verso
qualcosa che dobbiamo capire. F. B. sostituisce cosi alla gram­
matica dell’aneddoto una nuova intelligibilità: quella del de­
siderio. Il desiderio stesso diventa storia e intelligenza, dove
descrizione e suspense finiscono per coincidere. In una descri­
zione romanzesca, se non è troppo malfatta, la storia penetra
in profondità tutti i dettagli, facendoli partecipare a un sen­
so generale (la povertà di una casa, l’austerità di un personag­
gio); analogamente il desiderio rende qui la descrizione «pro­
fonda», o, se si preferisce, alienata: il desiderio diventa ratio,
F. B.

logos: potere che non può fondarsi sul suo appagamento, ma


soltanto sulla parola, il che giustifica tutta la letteratura. Cosi
come Γaneddoto deborda sempre verso un certo senso, chia­
mato per molto tempo destino, il desiderio raccontato perde
misteriosamente il suo carattere contingente: il disagio, la tri­
stezza, la lucidità, il sonno, la città, il mare diventano i nomi
del desiderio. Di qui nasce questa nuova letteratura che fa le­
va nel contempo sulla metafora e sul racconto, sulla variazio­
ne dell’essere e sulla concatenazione degli atti: qualcosa di si­
mile a nuovi Caractères \ non dei costumi ma del corpo.

4. Sublimazione.

Cosi, F. B. non tace soltanto la moralità del racconto, ma


anche la sua logica (forse è la stessa cosa); le sue descrizioni
sono sovversioni, non spingono, ma distaccano e «sorpassa­
no ». Come? Ogni testo parte come un romanzo, ogni testo è
un simulacro di romanzo: vi sono oggetti, personaggi, una si­
tuazione, un narratore, insomma un’istanza realistica; ma ben
presto (cioè, insieme, improvvisamente e insensibilmente, co­
me se decollassimo da terra) tutta la familiarità del romanzo
comincia a spostarsi altrove: siamo sollevati verso un altro sen­
so (ciò che sarà dato di tale senso non è niente di più che: è al-
tro; un’alterità pura, ovvero la definizione sufficiente dello
strano/estraneo): un personaggio arriva in una stazione; la sta­
zione è descritta, poi d ’improvviso essa è il luogo, o meglio
ancora il trionfo del desiderio. È un’identità immediata: la
stazione non diventa altro da sé, non vi è metafora, impeto
della visione; con un sillogismo particolare, riceviamo la suc­
cessione e la coincidenza dei due luoghi. Questo montaggio
del tutto peculiare cancella qualcosa di cui la letteratura può
difficilmente sbarazzarsi: lo stupore di fronte alle proprie no­
tazioni; la scrittura di F. B. non è mai, in nessun modo, com­
plice dell’effetto che produce: è una scrittura che non strizza
Vocchio. Un altro testo comincia alla maniera di un romanzo
di avventure: un uomo penetra in un hangar e stordisce con
un colpo il pilota che vi si era addormentato; subito dopo, una
descrizione « troppo » amorosa del giovane pilota (è tutto in
questo « troppo ») spiazza quello che era un incipit cosi clas­
sico; la fantasia «attecchisce» e, senza abbandonare l’ambi-

[II riferimento è alla celebre opera di La Bruyère].


241
to del racconto tradizionale, la scena di evasione cambia es­
sere e si ritrova scena erotica. Per F. B. il romanzo è a piaci­
mento; offre al desiderio i suoi incipit; la narrazione è come
una rampa di lancio, ma ciò che avviene alla fine non appar­
tiene più all'ordine della successione logica degli eventi, cioè
della suspense, ma all’ordine delle essenze. Nel romanzo
(quello vero) il desiderio è forte grazie agli atti, agli effetti, al­
le situazioni che esso produce; è sempre trattato secondo una
logica causale (che lo rende forzatamente moraleggiante); nei
brevi romanzi simulati di F. B. tutto si ferma al desiderio, tut­
to lo glorifica (teologicamente, la glorificazione è la manife­
stazione dell'essenza); il romanzo sparisce come una tenda
che si solleva per mostrare il desiderio nella sua «gloria». Ve­
rità dei ribaltamenti: il desiderio sublima la ragione.

5. Eros.

E indubbio che il desiderio circola in tutta la letteratura,


da quando il linguaggio, diventato sovrano, inutile, si è messo
a dire qualcosa che è stato chiamato bellezza; sinora, però,
questo desiderio scritto è sempre stato solo l’elemento di
un’algebra morale, psicologica, teologica: la letteratura servi­
va a comprendere il desiderio, in nome di un insieme piu va­
sto; ogni letteratura di conseguenza tendeva alla morale, cioè
a un’economia del bene e del male, dell’oscuro e del lumino­
so: Eros raccontato vuol dire altro da Eros. Nei testi di F. B.
il movimento è rovesciato: qui è Eros a «comprendere»; non
vi è nulla che non dipenda da lui; l’amore per i ragazzi forma
un cerchio puro al di fuori del quale non esiste piu nulla; tutta
la trascendenza è concentrata; il cerchio, tuttavia, è formale;
la sua chiusura non dipende dalla società oppure da una scelta
esistenziale, come in altre opere sullo stesso soggetto: è solo
la scrittura a tracciarlo; qui il desiderio per i ragazzi non è mai
« culturalizzato », ma ha la naturalezza di ciò che non ha né
causa né effetto, è privo al tempo stesso sia di libertà sia di fa­
talità. Questa naturalezza ha grandi conseguenze sulla scrit­
tura (o piuttosto ne esce?): ciò che è scritto non rinvia ad al­
tro:; dolce e ricca al tempo stesso, la scrittura è tuttavia opa­
ca; in questo senso in sintonia con i linguaggi piu nuovi di og­
gi, ma senza la loro freddezza, essa si vieta e ci vieta qualsiasi
induzione; dal momento che non contengono nessuna ellissi,
da questi testi non possiamo inferire nulla. Ora, il prezzo di
F. B.

un’arte, in un mondo sovraffoliato, è definito dalle operazioni


privative di cui ha l’audacia: non per ottemperare a un’este­
tica della costrizione (secondo il modello classico), ma per sot­
tomettere pienamente il senso, per togliergli qualsiasi altra via
di uscita. Si può dire che, giungendo al termine di una tradi­
zione pesantissima, una letteratura del desiderio è la cosa piu
difficile; quella di F. B. non trae la sua essenza erotica dal rea­
lismo delle figure, ma da una incondizionata sottomissione a
Eros, scelto come il solo dio dell’opera (Satana è eliminato, e
quindi anche Dio). Garantito questo regno, niente sembre­
rebbe piu fuon posto di un repertorio di gesti erotici. I testi di
F. B. non si collocano perciò nella tradizione erotica (nel sen­
so comune del termine), proprio nella misura in cui Eros, in
essi, non è una raccolta e una rubrica (di «posizioni»), ma un
principio sovrano di scrittura. Si deve perciò contrapporre al­
le erotiche tradizionali un erotismo nuovo; nel primo caso lo
scrittore è portato ad insistere sulla descrizione di «quel che
è accaduto », finché non abbia trovato ad Eros una trascen­
denza - Dio, Satana o l’Innominato -, mentre negli «inci­
denti» scritti da F. B. Eros, essendo l’intelligenza ultima, non
può conoscere alcun parossismo. Altra differenza: ogni ero­
tica è pesante o tesa; qui, al contrario, l’erotismo è leggero (la
scrittura scorre sulla superficie degli incontri senza mai rea­
lizzarli) e profondo (la scrittura è il pensiero delle cose); è
un’aura, uno spazio, si potrebbe dire una geometria, dal mo­
mento che oggi abbiamo geometrie che attingono dal cosmo;
è presente, senza provocazioni né complicità: non ingenuo,
poiché Eros sa tutto, è saggio; ecco dove risiede, forse, la nota
estrema di questa scrittura: nel fatto che il desiderio è una fi­
gura della sophrosunia. La grazia e la saggezza: cioè quella im­
possibilità che gli Antichi consideravano come perfezione,
rappresentandola nel bellissimo mito del puer senilis, dell’ado­
lescente signore di tutte le età. Già da molto tempo la nostra
letteratura, nel migliore dei casi, ci coinvolge, ma non ci se­
duce; un fascino del genere è nuovo.

6. Generale, individuale, peculiare.

Fremito della Sehnsucht romantica, fatta di una confusione


sognante tra sensuale e sensibile, e tuttavia profondo silenzio
metafisico: F. B. prende del linguaggio, categoria del genera­
le, soltanto l’estremo margine di peculiarità, senza mai lasciar-
243
si indurre a una sentenza, senza mai compendiare la descrizio­
ne nell’area di quel discorso lirico o morale che la rettorica an­
tica aveva chiamato epifenomeno: nella scrittura di F. B.
niente si sovrappone mai a ciò che è scritto - metallo serico e
indeformabile. Tra le diverse scritture F. B. occupa una po­
sizione pericolosa. Dal momento che il linguaggio è generale
(e perciò morale), la letteratura è condannata all’universale;
tutto ciò che avviene in letteratura è originariamente cultu­
rale: le pulsioni che vi si manifestano sono già rivestite di un
linguaggio che le precede; l’universalità che da secoli si attri­
buisce allo scrittore, complimentandolo costantemente perché
sa trasformare in umano l’individuale, è in realtà una terribile
schiavitù: come compiacersi di una costrizione imposta dal­
la natura stessa del linguaggio? Il problema dello scrittore è
perciò, al contrario, quello di ritrovare una peculiarità estre­
ma nonostante lo strumento generico e morale che gli è dato.
E esattamente il problema trattato (ma non discusso) nei te­
sti di F. B.; in essi l’autore impara e ci insegna che il peculiare
non è Vìndividuale\ anzi, si può dire che è la parte impersonale
e in-collettiva dell’uomo; in questi testi non troveremo dun­
que nulla che abbia un rapporto con una persona costituita,
cioè con una storia, una vita, un carattere, ma non vi trove­
remo neppure un qualsivoglia specchio dell’umanità. In altri
termini, la sostanza di tale scrittura non è il «vissuto» (il «vis­
suto» è banale, ed è per l’appunto ciò che lo scrittore deve
combattere), ma non è nemmeno la ragione (categoria gene­
rale adottata con diversi stratagemmi da tutte le letterature
facili); di questo celebre conflitto, apparentemente cosi irri­
ducibile agli occhi di certuni da impedire loro di scrivere,
F. B. rifiuta i termini, e proprio con tale rifiuto innocente è sul
punto di realizzare l’utopia di un linguaggio peculiare. L’azio­
ne ha una grande conseguenza sul piano critico: anche se i te­
sti di F. B. possono venir descritti come in essere, nulla al
mondo può impedire loro di divenire: oggetti perfetti e tutta­
via da fare, secondo vie che sono appannaggio esclusivo del­
l’autore; raggiunto nella scrittura, il peculiare lotta qui con
Yopera che ogni società, in quanto morale, esige da chi scrive.

7. Tecnica.

Materia della letteratura è la categoria generale del linguag­


gio; nel suo farsi non solo deve uccidere ciò che l’ha genera-
F. B.

ta, ma per di piu, ai fini di tale omicidio, non dispone di al­


tri strumenti se non di quello stesso linguaggio che deve di­
struggere. Questo feed-back quasi impossibile costituisce i te­
sti di F. B.: laddove il quasi è lo spazio angusto in cui Fauto­
re scrive. Ciò non può avvenire senza una tecnica, che non è
necessariamente il risultato di un apprendistato, bensì, se­
condo la definizione di Aristotele, la facoltà di produrre ciò
che può essere o non essere. Il fine di tale tecnica è di descri­
vere un mondo scelto non come mondo desiderabile, ma co­
me il desiderabile stesso; qui il desiderio non è Γattributo di
una creazione ad esso preesistente, ma è immediatamente una
sostanza. In altri termini, Fautore non scopre (per azione di
una soggettività privilegiata) che il mondo è desiderabile, ben­
sì lo determina come desiderabile; ciò che qui viene eluso è
perciò il tempo del giudizio, il tempo psicologico: peculiare,
ma niente affatto individuale, Fautore non racconta quel che
vede e sente, non sciorina i preziosi aggettivi che ha la fortuna
di trovare, non si comporta come uno psicologo che si servi­
rebbe di un linguaggio felicemente appropriato per elencare
gli attributi originali della sua visione, ma agisce sin dall’inizio
da scrittore; non rende desiderabili i corpi, ma rende il desi­
derio corporeo, invertendo, attraverso il paradosso stesso del­
la scrittura, la sostanza e l’attributo: tutto è portato sugli og­
getti, per dire non ciò che sono (che cosa sono?), ma l’essen­
za del desiderio che li costituisce, proprio come la luminescen­
za costituisce il fosforo; nei testi di F. B. non vi è mai nessun
oggetto in-desiderabile. Così, Fautore crea una vasta metoni­
mia del desiderio: scrittura contagiosa che riversa sul suo let­
tore il desiderio stesso con cui ha costruito le cose.

8. Signum facere.

La rettorica antica distingueva tra dispositio ed elocutio.


Dalla dispositio (taxis) dipendevano le grandi unità dell’ope­
ra, il suo montaggio complessivo, il suo «sviluppo»; dall 'elo­
cutio (lexis) le figure, i giri di frase, tutto quello che oggi chia­
meremmo scrittura, cioè una classe (e non una somma) di
«dettagli». I testi di F. B. sono pienamente (almeno per il
momento) testi di elocutio. L’unità delVelocutio ha un nome
antico: è il canto. Il canto non è un’eufonia o una qualità delle
immagini, bensì, secondo il mito orfico, un modo di tenere il
mondo sotto il proprio linguaggio. Qui non cantano diretta-
245
mente le parole, bensì quella scrittura seconda, quella scrittu­
ra mentale che si forma e procede « tra le parole e le cose ». E
dunque una specie di canto anteriore (come si dice «una vi­
ta anteriore»). Vico parla a un certo punto degli universali del­
la fantasia: ecco, è questo lo spazio in cui F. B. costruisce una
scrittura peculiare, senza tradizione e senza provocazione; né
ammantata, e neppure «naturale», tale scrittura sfugge a tutti
i modelli senza mai investirsi della pesante segnaletica dell’o­
riginalità. Forse da questo proviene la sua disponibilità nuda,
al di fuori di qualsiasi umanesimo. Leggere F. B. significa sen­
tir nascere continuamente dentro di sé degli aggettivi: fresco,
semplice, serico, lieve, sensibile, giusto, intelligente, deside­
rabile, forte, ricco (Valéry: «Dopo tutto, Γoggetto dell'artista,
Vunico oggetto, si riduce ad ottenere un attributo »); in ultima
istanza, però, tali aggettivi si elidono a vicenda, la verità è sol­
tanto nell’insieme, e l’insieme non può sopportare alcuna de­
finizione. La funzione stessa di questa scrittura consiste nel
dire ciò che noi non potremo mai dire di essa: se potessimo
farlo, non avrebbe piu giustificazione. F. B. si situa proprio
allo snodo di un duplice postulato: da un lato la sua scrittura
produce senso, e in questo non possiamo definirla, dal momen­
to che tale senso è infinitamente piu lontano di noi; dall’altro
produce segno. Signum facere, questo potrebbe essere il motto
dei testi in questione: quelle frasi, quell’insieme di frasi flut­
tua nella mente come una memoria futura, predeterminando
il discorso della modernità ultima.
La faccia barocca

La cultura francese ha sempre attribuito un evidente privi­


legio alle «idee», o, per dirla in modo piu neutro, al contenuto
dei messaggi. Per i francesi conta il «qualcosa da dire», quel
che si designa di solito con una parola dal suono ambiguo, mo­
netario, commerciale e letterario insieme: il fondo (o i fondi
da investire, o quelli di una biblioteca). In fatto di significante
(speriamo di poter ormai usare questo termine senza doverce­
ne scusare), la cultura francese ha conosciuto per secoli soltan­
to il lavoro sullo stile, i vincoli della rettorica aristotelico-
gesuitica, i valori dello « scrivere bene », a loro volta del resto
incentrati, con un feed-back ostinato, sulla trasparenza e la
distinzione del «fondo». Si è dovuto attendere Mallarmé per­
ché la letteratura francese concepisse un significante libero,
sul quale non pesasse piu la censura del falso significato, e ten­
tasse l’esperienza di una scrittura finalmente liberata dalla ri­
mozione storica in cui la mantenevano i privilegi del «pensie­
ro». E anche l’impresa di Mallarmé, tanto è forte la resisten­
za, può soltanto essere, qua e là, «variata», cioè ripetuta, in
opere rare, tutte di rottura: soffocata per due volte nella no­
stra storia, al momento della spinta barocca e della poetica di
Mallarmé, la scrittura francese si trova sempre in situazione
di rimozione.
Un libro ci ricorda ora che, al di fuori dei casi di comunica­
zione transitiva o morale (Passami il formaggio o Desidenamo
sinceramente la pace in Vietnam), esiste un piacere del linguag­
gio della stessa stoffa, della stessa seta del piacere erotico, e
che tale piacere del linguaggio è la sua stessa verità. Questo li­
bro proviene non da Cuba (non parla di folclore, neppure di
quello castrista), ma della lingua di Cuba, di quel testo cubano
(città, parole, bevande, vestiti, corpi, odori, ecc.) che è esso
stesso inscrizione di culture e di epoche diverse. Ora accade
questo, che interessa noi francesi: trasposta nella nostra lin-
248 LA FACCIA BAROCCA

gua, questa lingua cubana ne sovverte il paesaggio: è una delle


rarissime occasioni in cui una traduzione riesce a smuovere una
lingua di arrivo, anziché semplicemente pervenirvi. Se è vero
che per la storia il barocco verbale è spagnolo, gongoresco o
quevediano, e che tale storia è presente nel testo di Severo
Sarduy, nazionale e «materno» comfe qualsiasi codice, questo
testo ci rivela anche la faccia barocca esistente nell’idioma
francese, suggerendoci cosi che la scrittura può fare qualsiasi
cosa di una lingua, e innanzitutto renderle la sua libertà.
Tale barocco (termine provvisoriamente utile finché per­
mette di provocare Γinveterato classicismo delle lettere fran­
cesi), nella misura in cui manifesta l’ubiquità del significante,
presente a tutti i livelli del testo, e non, come si dice di solito,
soltanto alla sua superficie, modifica l’identità stessa di ciò
che chiamiamo récit, senza che il piacere del racconto venga
mai meno. Écrit en dansant è composto di tre episodi, di tre ge­
sti - termine che riprende qui il titolo del primo libro di Seve­
ro Sarduy e che si dovrebbe intendere sia al maschile sia al
femminile -, ma non vi si troverà nessuna di quelle protesi
narrative (personalità dei protagonisti, indicazione di luoghi
e tempi, strizzatine d’occhio del narratore, e Dio che vede nel
cuore dei personaggi) che contrassegnano di solito il diritto
abusivo (e d ’altronde illusorio) della realtà sul linguaggio. Se­
vero Sarduy racconta si «qualcosa», che ci aspira verso la sua
conclusione e si dirige verso la morte della scrittura, ma que­
sto qualcosa è liberamente spostato, «sedotto» da quella so­
vranità del linguaggio che già Platone confutava a Gorgia,
inaugurando la rimozione della scrittura che caratterizza la
nostra cultura occidentale. In Ecnt en dansant, testo edonista
e per ciò stesso rivoluzionario, si dispiega il grande tema pro­
prio del significante, il solo predicato di essenza che esso pos­
sa sopportare effettivamente, cioè la metamorfosi: cubane, ci­
nesi, spagnole, cattoliche, drogate, teatrali, pagane, vaganti
dalle caravelle ai self-services e da un sesso all’altro, le creatu­
re di Severo Sarduy passano e ripassano attraverso il vetro di
un balbettio purificato che «rifilano» all’autore, dimostrando
cosi che tale vetro non esiste, che non c’è niente da vedere
dietro il linguaggio, e che la parola, lungi dall’essere l’attributo
finale e l’ultimo tocco della statua umana, come vuole il mito
fallace di Pigmaliorrer, non ne è mai altro che l’irriducibile
estensione.
Si rassicurino tuttavia gli umanisti, almeno a metà. La cit­
tadinanza attribuita alla scrittura da ciascun soggetto, sia da
LA FACCIA BAROCCA 249

chi scrive sia da chi legge - atto che non ha alcun rapporto
con ciò che la rimozione classica, con un disconoscimento in­
teressato, chiama «verbalismo» o piu nobilmente «poesia» -,
non sopprime nessuno dei «piaceri» della lettura, purché si
sia minimamente disposti a individuarne il giusto ritmo. Il te­
sto di Severo Sarduy merita tutti gli aggettivi che costituisco­
no il lessico del valore letterario: è un testo brillante, allegro,
sensibile, divertente, inventivo, inatteso e tuttavia chiaro,
persino culturale, continuamente affettuoso. Temo tuttavia
che, per essere accolto senza difficoltà nella buona società del­
le lettere, gli manchi quella venatura di rimorso, quel minimo
di colpa, quell’ombra di significato che trasforma la scrittura
in lezione e cosi facendo la recupera, sotto il nome di «opera
buona», come merce utile all’economia dell’«umano». Forse
questo testo ha anche una cosa di troppo, che infastidirà: l’e­
nergia del discorso, che basta allo scrittore per rassicurarsi.

1967, in «La Quinzaine littéraire», in occasione della pubblicazione di


Ecrit en dansant.
Quel che accade al significante

Èden, Èden, Èden è un testo libero: libero da ogni soggetto,


da ogni oggetto, da ogni simbolo: è scritto in quell’incavo
(quell’abisso o quella macchia cieca) dove i tradizionali costi­
tuenti del discorso (colui che parla, ciò che racconta, il modo
in cui si esprime) sarebbero di troppo. La conseguenza imme­
diata è che la critica, dal momento che non può parlare né del­
l’autore, né del suo soggetto, né del suo stile, non può piu nul­
la sul testo in questione: bisogna «entrare» nel linguaggio di
Guyotat; non crederci, essere complici di un’illusione, parte­
cipare a una fantasticheria, ma scrivere tale linguaggio con lui,
al suo posto, firmarlo insieme a lui.
Essere nel linguaggio (come si dice: essere al corrente, esse­
re partecipi): ciò è possibile perché Guyotat produce non una
maniera, un genere, un oggetto letterario, ma un elemento
nuovo (perché non aggiungerlo ai quattro Elementi della co­
smogonia?); tale elemento è una frase: sostanza discorsiva che
ha la peculiarità di una stoffa, di un alimento, frase unica che
non finisce, la cui bellezza non proviene dal suo «riferimen­
to» (il reale al quale si suppone rinvìi), ma dal suo soffio, in­
terrotto, ripetuto, come se l’autore volesse rappresentarci non
delle scene immaginate, bensì la scena del linguaggio, facen­
do si che il modello di questa nuova mimesis non sia piu l’av­
ventura di un eroe, ma l’avventura stessa del significante:
quel che gli accade.
Èden, Èden, Èden costituisce (o dovrebbe costituire) una
sorta di spinta, di shock storico: tutta un’azione anteriore, ap­
parentemente duplice, ma di cui vediamo sempre meglio la
coincidenza, da Sade a Genet, da Mallarmé ad Artaud, è rac­
colta, dislocata, purificata delle sue circostanze d ’epoca; non
vi è piu né Récit né Colpa (probabilmente è la stessa cosa), ri­
mangono soltanto il desiderio e il linguaggio, non nel senso
QUEL CHE ACCADE AL SIGNIFICANTE

che l’uno esprime Paltro, ma entrambi collocati in una meto­


nimia reciproca, indissolubile.
La forza di tale metonimia, che presiede a tutto il testo di
Guyotat, lascia prevedere una forte censura, che vi troverà i
suoi due alimenti abituali, il linguaggio e il sesso; anche tale
censura, però, che potrà assumere forme molteplici, proprio
per la sua forza sarà immediatamente smascherata: condanna­
ta ad essere eccessiva se colpisce il sesso e il linguaggio al tem­
po stesso, e ad essere ipocrita se pretende di colpire soltanto il
soggetto e non la forma, o viceversa: in entrambi i casi, con­
dannata a rivelare la propria essenza di censura.
Quali che siano le sue peripezie istituzionali, la pubblica­
zione di questo testo è tuttavia importante: tutto il lavoro cri­
tico, teorico, ne trarrà vantaggio, mentre il testo continuerà
nella sua opera di seduzione: al tempo stesso inclassificabile e
indubitabile, nuovo punto di riferimento e di partenza per la
scrittura.

Prefazione a Eden, Eden, Eden di P. Guyotat, Gallimard, Paris 1970.


Le uscite dal testo

Ho sotto gli occhi un testo di Bataille: Le Gros Orteil \


Non lo spiegherò. Mi limiterò soltanto ad enunciare pochi
frammenti, che costituiranno come delle uscite dal testo. Tali
frammenti saranno in posizione di rottura piu o meno accen­
tuata gli uni rispetto agli altri: non tenterò di collegare né di
organizzare queste uscite; e, per essere sicuro di sfuggire a
qualsiasi collegamento (qualsiasi pianificazione del commen­
to), per evitare ogni rettorica dello «svolgimento», del sogget­
to sviluppato, ho dato un nome a ciascun frammento e ho
messo i nomi (i frammenti) in ordine alfabetico12- che è, co­
me ognun sa, un ordine e un disordine al tempo stesso, un or­
dine privo di senso, il grado zero dell’ordine. Sarà una specie
di dizionario (Bataille ne presenta uno alla fine di Documents)
che investirà trasversalmente il testo di partenza.

Aplatissement des valeurs [Appiattimento dei valori].

In Nietzsche e in Bataille è presente uno stesso tema: quel­


lo del Rimpianto. È sottovalutata una certa forma del presen­
te, esaltata una certa forma del passato; a dire il vero, però,
né questo presente né questo passato sono storici; si leggo­
no entrambi secondo il moto ambiguo, formale, di una deca­
denza. Nasce cosi la possibilità di un rimpianto non reaziona­
rio, di un rimpianto progressista. La decadenza non è letta, con­
trariamente alla connotazione corrente del termine, come

1 Georges Bataille, Documents, Mercure de France, Paris 1968, pp. 75-82 [ri­
prodotto nel tomo I delle Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1970].
2 [Nella traduzione italiana Γordine alfabetico, ovviamente, «salta»; si è rite­
nuto opportuno, comunque, mantenere inalterata la sequenza originale, conservan­
do ai «frammenti» i titoli francesi e fornendo la relativa traduzione tra parentesi
quadre].
25 4 LE USCITE DAL TESTO

uno stato sofisticato, iperculturale, bensì come un appiatti­


mento dei valori: ritorno in forze della tragedia (Marx), clan­
destinità degli eccessi festivi nella società borghese (Bataille),
critica della Germania, malattia, declino delPEuropa, tema
dell 'ultimo uomo, del piccolo parassita «che riduce tutto alla
propria misura» (Nietzsche). Si potrebbero aggiungere le dia­
tribe di Michelet contro ΓOttocento - il suo secolo -, secolo
dell’Ennui. In tutti ritroviamo lo stesso disgusto provocato
dall'appiattimento borghese: il borghese non distrugge il va­
lore, lo appiattisce, lo riduce alla propria misura, fonda un si­
stema di meschinità. È un tema storico ed etico nel contem­
po: caduta del mondo al di fuori della dimensione tragica,
ascesa della piccola borghesia, scritta sotto forma di avvento:
la rivoluzione (in Marx) e il superuomo (in Nietzsche) sono al­
trettante scosse vitali procurate all’appiattimento; tutta l’ete-
rologia di Bataille appartiene allo stesso ordine: quello elettri­
co. In questa storia apocalittica del valore, Le Gros Orteil ri­
manda a due tempi: un tempo etnologico (contrassegnato nel
testo dai verbi al presente), quello «degli uomini», «della gen­
te», che antropologicamente disprezzano il basso ed esaltano
l’alto, e un tempo storico (contraddistinto dagli episodi al pas­
sato), quello della cristianità e della sua quintessenza, la Spa­
gna, per la quale il basso è puramente e scrupolosamente da
censurare (il pudore). Cosi per la dialettica del valore: quando
è antropologica, il rifiuto (il disgusto) nei confronti del piede
designa il luogo stesso di una seduzione: quest’ultima risiede
proprio là dove la si nasconde selvaggiamente, il valore sta nel­
la trasgressione selvaggia del divieto; ma quando è storica, su­
blimata sotto la specie del pudore, la condanna del piede di­
venta un valore rimosso, appiattito, che suscita la smentita
del Riso.

Codes du savoir [Codici del sapere].

Nel testo di Bataille sono presenti numerosi codici «poeti­


ci»: tematico (alto/basso, nobile/ignobile, sottile/denso), an­
fibologico (il termine «erezione», per esempio), metaforico
(«l’uomo è un albero»); vi sono anche codici scientifici: ana-
tonomico, zoologico, etnologico, storico. È ovvio che il testo
eccede il sapere - non il valore; anche all’interno del campo
del sapere, però, esistono differenze di pressione, di «serie­
tà», e tali differenze producono un’eterologia. Bataille mette
*55

in scena due saperi. Un sapere endoxale: quello di Salomon


Reinach, e dei Signori del Comitato di redazione di «Docu­
ments» (rivista dalla quale è tratto il testo in questione); sape­
re citatorio, referenziale e reverenziale. E un sapere piu lon­
tano, prodotto da Bataille (dalla sua cultura personale). Il co­
dice di questo sapere è etnologico; corrisponde abbastanza a
quello che una volta andava sotto il nome di « Magasin pitto­
resque», raccolta di «curiosità», sia linguistiche sia etnogra­
fiche; nel discorso del secondo sapere vi è un duplice riferi­
mento: all ' estraneo! strano (alTaltrove) e al particolare; cosi av­
viene che si cominci a minare il sapere (la sua legge) renden­
dolo futile, miniaturizzandolo; al limite di questo codice vi è
lo stupore («spalancare gli occhi»); è il sapere paradossale in
quanto si stupisce, si de-naturalizza, mette in discussione il
«va da sé». Questa caccia al fatto etnologico è senza dubbio
molto vicina alla caccia romanzesca: il romanzo è infatti una
mathésis truccata, avviata a uno sviamento del sapere. Tale
contatto e attrito di codici di diversa origine, di diverso stile,
è contrario alla monologia del sapere, che consacra gli «spe­
cialisti» e disdegna i poligrafi (i dilettanti). È prodotto in so­
stanza un sapere burlesco, eteroclito (etimologicamente: che
oscilla dall’uno e dall’altro lato), che è già un’operazione di
scrittura (invece la «scrivenza» [écnvance] impone la separa­
zione dei saperi - come si suol dire: la separazione dei gene­
ri); proveniente dalla mescolanza dei saperi, la scrittura tiene
in scacco «le arroganze scientifiche»3e al tempo stesso man­
tiene una leggibilità apparente: discorso dialettico che potreb­
be essere quello del giornalismo, se non fosse appiattito sotto
l’ideologia dei mass media.

Commencement [Incipit].

L’«incipit» è un’idea da retori: in che modo cominciare un


discorso? Per secoli si è dibattuto questo problema. Bataille
pone la questione dell’incipit laddove non era mai stata posta:
dove comincia il corpo umano? L’animale comincia dalla boc­
ca: «la bocca è l’inizio, o, in un certo senso, la prua degli ani­
mali... Ma l’uomo non ha un’architettura semplice come le
bestie, e non è nemmeno possibile dire dove comincia»4. Ciò

3 Documents cit., ρ·. 23.


4 Ibid., p. 171.
LE USCITE DAL TESTO

pone il problema del senso del corpo (non si dimentichi che in


certe lingue - preziosa ambiguità - senso vuol dire sia signifi­
cato sia direzione del vettore). Diamo tre momenti della que­
stione.
1. Nel corpo animale un solo elemento è marcato, Vinizio,
la bocca (le fauci, il muso, le mandibole, Porgano predatorio);
essendo il solo degno di nota (o notato), questo elemento non
può essere un termine (un relatum)', perciò non esiste paradig­
ma, e di conseguenza nemmeno senso. L’animale è in un certo
senso provvisto di un inizio mitologico: esiste, per cosi dire,
ontogenesi a partire da un essere, l’essere della manduca-
zione.
2. Quando il corpo umano è considerato nel discorso psi­
canalitico, vi è semantizzazione («senso») perché esiste un pa­
radigma, una contrapposizione di due «termini»: la bocca e
l’ano. Questi due termini permettono due tragitti, due récits',
da una parte quello del cibo, che va dalla succulenza all’escre­
mento: il senso nasce qui da una temporalità, quella della tra­
sformazione alimentare (il cibo serve da riferimento esterno);
dall’altra, il tragitto della genesi libidinale; alla contrappo­
sizione (semantica) tra orale e anale si sovrappone un’esten­
sione sintagmatica: lo stadio anale segue quello orale; è cosi
un’altra storia a dare senso al corpo umano, una storia filoge­
netica: come specie, come realtà antropologica, il corpo si dà
un senso sviluppandosi.
3. Bataille non rifiuta la psicanalisi, ma non ne fa il proprio
punto di riferimento; un testo sul piede, com’è questo, richie­
derebbe naturalmente estesissimi riferimenti al feticismo,
mentre qui vi è solo una rapida allusione al «feticismo classi­
co». Per Bataille il corpo non comincia da nessuna parte, è lo
spazio del dovunque', vi si può riconoscere un senso solo a
prezzo di un’operazione violenta: sogjgettiva-collettiva; il senso
nasce grazie all’intrusione di un valore', il nobile e l’ignobile
(l’alto e il basso, la mano e il piede).

Déjouer [Eludere].

Il testo di Bataille insegna come ci si deve comportare con


il sapere. Non bisogna rifiutarlo, anzi, a volte bisogna persi­
no fingere di metterlo in primo piano. Bataille non era per
nulla turbato dal fatto che il comitato di redazione di Docu­
ments fosse composto di professori, scienziati e bibliotecari. E
necessario far nascere il sapere laddove non ce lo si aspetta.
Come si è detto, questo testo, che tratta di una parte del cor­
po umano, evita in modo discreto ma ostinato la psicanalisi; il
gioco (discorsivo) del sapere è capriccioso, contorto: i «tacchi­
alti» appaiono sulla scena del testo, eppure Bataille elude lo
stereotipo scontato sul tacco-fallo (che i custodi dei musei ta­
gliano alle donne che percuotono i bei parquet incerati!); ep­
pure, subito dopo, parla ancora di sessualità, giungendovi con
una connessione («inoltre») falsamente ingenua. Il sapere è
frantumato, pluralizzato, come se Yuno del sapere fosse inces­
santemente portato a dividersi in due: la sintesi è truccata,
elusa; il sapere è presente, non distrutto, ma dislocato; il suo
nuovo posto è - secondo un’espressione di Nietzsche - quello
di una finzione: il senso precede e predetermina il fatto, il va­
lore precede e predetermina il sapere. Nietzsche: «Non esiste
un fatto in sé. Ciò che accade è un gruppo di fenomeni scelti
e riuniti da un essere che li interpreta... Non esiste uno stato
di fatto in sé; bisogna anzi introdurre un senso prima ancora
che vi possa essere un fatto ». Il sapere sarebbe insomma una
finzione interpretativa. Cosi, Bataille ottiene che il sapere sia
truccato attraverso una polverizzazione dei codici, ma soprat­
tutto con l’irruzione del valore (il nobile e Y ignobile, il sedu­
cente e Yappiattito). Il ruolo del valore non è di distruzione, né
di dialettizzazione, né tanto meno di soggettivizzazione; forse
è, semplicemente, un ruolo di nposo... «mi basta sapere che la
verità possiede una grande potenza. Ma è necessario che essa
possa lottare, e che abbia un’opposizione, e che ogni tanto ci
si possa Hposare di essa nel non-vero. Altrimenti per noi diven­
terebbe noiosa, senza gusto né forza, e renderebbe tali anche
noi» (Nietzsche). Insomma, il sapere è accettato come poten­
za, ma è combattuto come noia; il valore non è ciò che di­
sprezza, relativizza o rifiuta il sapere, ma ciò che gli toglie la
noia e di esso si riposa; non si contrappone al sapere in una
prospettiva polemica, ma in senso strutturale; esiste un’alter­
nanza di sapere e valore, un riposo dell’uno per mezzo dell’al­
tro, secondo una specie di ùtmo amoroso. Ecco, insomma, che
cos’è la scrittura, e particolarmente la scrittura saggistica (par­
liamo di BataiJle), il ritmo amoroso della scienza e del valore:
eterologia, godimento.
25S LE USCITE DAL TESTO

Habillé [Vestito].

Presso gli antichi cinesi, il marito non doveva vedere i pie­


di nudi di sua moglie: «I turchi del Volga considerano immo­
rale mostrare i piedi nudi e arrivano a coricarsi con le calze».
Bisognerebbe ampliare il piccolo dossier etnografico messo in­
sieme da Bataille, ricordando i petting-parties statunitensi, l’u­
sanza di certe popolazioni arabe presso le quali la donna non
si spoglia per fare l’amore, il tic, riferito da un autore contem­
poraneo, di alcuni gigolo che si tolgono tutti i vestiti ad ecce­
zione delle calze. Tutto ciò ci condurrebbe a riflettere sul rap­
porto tra abbigliamento e pratica amorosa; e non si tratta af­
fatto del problema, trattato abbondantemente, dello strip-
tease; la nostra società, infatti, che pure si considera «eroti­
ca», non parla mai delle pratiche reali dell’amore, del corpo in
stato amoroso: è la cosa che meno conosciamo gli uni degli al­
tri - forse non per tabù morale, ma per tabu di futilità. Biso­
gnerebbe insomma - e non sarebbe poi cosi banale - ripensa­
re la nudità. Per noi, in realtà, il nudo è un valore plastico, o
anche erotico-plastico; in altri termini, il nudo è sempre in po­
sa, in figurazione (è appunto il caso dello strip-tease); stretta-
mente legato all’ideologia della rappresentazione, esso è la fi­
gura per eccellenza, la figura della figura. Ripensare il nudo
vorrebbe dire perciò da una parte concepire la nudità come
un concetto storico, culturale, occidentale (greco?), e dall’al­
tra farla passare dal Quadro dei corpi a un ordine delle prati­
che erotiche. Ora, dal momento in cui si comincia a intravve-
dere la complicità tra nudo e rappresentazione, si è portati a
sospettare del suo potere di godimento: il nudo sarebbe un
oggetto culturale (legato forse a un ordine del piacere, ma non
a quello della perdita, del godimento), e di conseguenza, in ul­
tima istanza, un oggetto morale: il nudo non è perverso.

Idiomatique [Idiomatica].

Come far parlare il corpo? È possibile far passare nel testo


i codici del sapere (di quel sapere che riguarda il corpo); si può
anche documentare la doxa} l’opinione della gente sul corpo
(quel che ne dice). Esiste un terzo mezzo, al quale Bataille ri­
corre sistematicamente (e che è interessante dal punto di vista
del lavoro attuale sul testo): articolare il corpo non sul discor-
259
so (quello degli altri, quello del sapere, o anche il mio persona­
le), ma sulla lingua: lasciar intervenire le formule idiomatiche,
esplorarle, svilupparle, rappresentarne la letteralità (cioè la si-
gnificanza). Bocca porterà a «bocca da fuoco» (espressione
cannibalesca del cannone), a «bocca chiusa» («bella come una
cassaforte»); occhio susciterà un’esplorazione completa di tut­
te le espressioni idiomatiche nelle quali è presente questa pa­
rola; e lo stesso per piede («piedi piatti», «bête [stupido] com­
me un pied», ecc.). In questo modo il corpo si genera insieme
alla lingua: forme idiomatiche ed etimologia sono le due gran­
di risorse del significante (prova a contrario: la «scrivenza»
[1écrìvance], che non è la scrittura, censura di solito il lavoro di
ciò che nella lingua è al tempo stesso centro equilibrante ed
eccesso; avete mai visto una metafora in un saggio sociologico
o in un articolo di «Le monde»?) In Bataille si tratta di un la­
voro testuale dello stesso tipo, della stessa energia produttrice
che vediamo all’opera, al lavoro, in scena, in Lois di Philippe
Sollers.

Orteil [Dito del piede].

Basti ricordare, senza andare oltre - dal momento che già


di per sé è un patrimonio - la lessicografia della parola. V or­
teil è un dito del piede, uno qualunque; l’origine è articulus, il
piccolo membro, cioè das Kleines, la cosuccia, il fallo infantile.
Nell’espressione le gros orteil [il dito grosso, l’alluce], la signi-
ficanza è rafforzata: da un lato, grosso suscita repulsione [gran­
de no); dall’altro, il diminutivo [articulus) può suscitarla a sua
volta (il nanismo turba): Vorteile seducente-rivoltante, affa­
scinante come una contraddizione: quella del fallo tumescente
e miniaturizzato.·

Paradigme [Paradigma].

Si è parlato del valore. Il termine è stato preso in senso


nietzscheano; il valore è la fatalità di un paradigma inesorabi­
le: nobile/vile. In Bataille, però, il valore - che sostiene tutto
il discorso - si fonda su un paradigma particolare, anomico,
perché ternario. Esistono, per cosi dire, tre poli: il nobile / l’i­
gnobile / il basso. Diamo l’equivalente terminologico di questi
2Ó0 LE USCITE DAL TESTO

tre termini (gli esempi sono attinti dal testo di cui ci stiamo
occupando e dall·articolo sulla nozione di Dépense Ο­
ι . Polo «Nobile»: «forme sociali grandi e libere»; «gene­
roso, orgiastico, smisurato»; «luce troppo forte, splendore piu
grande»; «la generosità»; «la nobiltà».
2. Polo «Ignobile»: «malattia, logorio. Vergogna di sé. Ipo­
crisia meschina. Oscurità. Eruzioni vergognose. Incedere
guardingo. Dietro i muri. Convenzioni cariche di noia e de­
primenti. Avvilire. Rancori fastidiosi. Piccole «sceneggiate».
Società ammuffita. Meschini esibizionismi. Un sinistro indu­
striale con la vecchia moglie, ancor piu sinistra. Servigi incon­
fessabili. Coppia di bottegai. Ebetudine e bassa idiozia. Puro
e superficiale. La “cucina” poetica».
3. Polo «Basso»: «Sputo. Fango. Il sangue scorre a rivoli.
La rabbia. Gioco di capricci e di sgomenti. I flussi rumorosi
delle viscere. Orrendamente cadaverico. Orgoglioso e volgar­
mente esibizionista. La violenta discordia degli organi».
L’eterologia di Bataille consiste in questo: vi è contraddi­
zione, paradigma semplice, canonico, tra i primi due termini:
nobile e ignobile («la divisione fondamentale tra le classi uma­
ne in nobili e ignobili»); ma il terzo termine non è regolare:
basso non è termine neutro (né nobile né ignobile) e neppure
termine misto (nobile e ignobile insieme). E un termine in­
dipendente, pieno, eccentrico, irriducibile: il termine della se­
duzione fuorilegge (strutturale).
Il basso è infatti valore per due motivi: da una parte, è ciò
che è senza scimmiottare F autorità56; dall’altra, rientra nel
paradigma alto/basso, cioè nella simulazione di un senso, di
una forma, e in tal modo elude Vin-sédella materia: «... il ma­
terialismo presente, voglio dire un materialismo che non im­
plichi che la materia sia la cosa in sé » 7. Insomma, il vero pa­
radigma è quello che mette di fronte due valori positivi (il no­
bile / il basso) nel campo stesso del materialismo; è il termine
normalmente contraddittorio (Fignobile) a diventare il neutro,

5 Georges Bataille, La part maudite. Éditions de Minuit, Paris 1967.


6 « Si tratta, infatti, soprattutto di non sottomettersi, e di non sottomettere la
propria ragione, a qualsivoglia di piu elevato, a qualsiasi cosa possa imporre all’es­
sere che io sono, alla ragione che arma questo essere, un’autorità proveniente dal­
l’esterno. Questo essere e la sua ragione non possono sottomettersi, infatti, che a
ciò che è piu basso, a ciò che non può servire in nessun caso a scimmiottare una
qualsiasi autorità... La materia bassa è esterna ed estranea alle aspirazioni ideali
umane e rifiuta di lasciarsi ridurre alle grandi macchine ontologiche che risultano
da tali aspirazioni» (Documents, p. 103).
7 Ibid., p. 102.
261
il mediocre (il valore negativo, la cui negazione non è opposi­
zione, bensì appiattimento). Ancora Nietzsche: «Che cos’è
mediocre nell·uomo medio? Egli non capisce che il rovescio
delle cose è necessario ». In altri termini, ancora una volta:
Γapparato del senso non è distrutto (il balbettio è evitato), ma
è reso eccentnco, zoppicante (è il senso etimologico di «scan­
daloso»). Questo gioco è garantito da due operazioni: da una
parte, il soggetto (della scrittura) devia in extremis il paradig­
ma: il pudore, per esempio, non è negato a vantaggio del suo
contrario previsto, legale e strutturale (Γesibizionismo); spun­
ta un terzo termine: il Riso, che elude il Pudore, il senso del
Pudore; dall’altra, la lingua, la lingua stessa è sviluppata in
modo audace: basso è usato come valore positivo, elogiativo
(«il basso materialismo della gnosi»), ma il suo avverbio cor­
relativo, bassamente, che secondo la lingua dovrebbe avere il
medesimo valore dell’aggettivo da cui deriva, è usato negati­
vamente, in modo spregiativo («l’orientamento bassamente
idealistico del Surrealismo»): è il tema dell’appiattimento che
separa, come un valore violento, tranciante, la parola-ceppo e
il suo germoglio.

Quoi et qui? [Che cosa e chi?]Il

Il sapere dice di ogni cosa: «Che cos'è?» Che cos’è il dito


grosso del piede? Che cos’è questo testo? Chi è Bataille? Ma
il valore, secondo la parola d ’ordine nietzschiana, prolunga la
domanda: che cos'è per me?
Il testo di Bataille risponde in modo nietzschiano alla do­
manda: che cos'è il dito grosso del piede, per me, Bataille? E, per
dislocazione: che cos’è questo testo, per me, che lo leggo? (Ri­
sposta: è il testo che avrei desiderato scrivere).
E dunque necessario - e forse urgente - rivendicare aper­
tamente una certa soggettività: la soggettività del non-sogget-
to contrapposta al tempo stesso sia alla soggettività del sog­
getto (impressionismo) sia alla non-soggettività del soggetto
(oggettivismo). E possibile concepire tale revisione sotto due
forme: innanzitutto, rivendicare il per me che è in ogni «Che
cos’è?», richiedere e proteggere l’introduzione del valore nel
discorso del sapere. In seguito, interrogarsi sul chi, sul soggetto
dell’interpretazione; anche in questo caso, Nietzsche: « Non si
ha forse il diritto di chiedersi chi dunque interpreta? E l’inter-
2Ó2 LE USCITE DAL TESTO

pretazione stessa, forma della volontà di potenza, ad esistere


(non come un “essere”, ma come un processo, un divenire) in
quanto passione...» «Nessun soggetto, ma un'attività, un’in­
venzione creatrice, né “cause” né “effetti” ».

Vocables [Vocaboli].

Il valore sorge insieme a certe parole, certi termini, certi


vocaboli («vocabolo» [vocable] va bene perché [in francese]
vuol dire contemporaneamente «denominazione» e «patrona­
to di un Santo»: si tratta, infatti, d iparole-numen, di parole-
segni, di parole-pareri). Questi vocaboli fanno irruzione nel
discorso del sapere: il vocabolo sarebbe il punto di discrimine
tra scrittura e «scrivenza» [«écHvance] (si pensi a un’espressio­
ne quale «la sporcizia piu disgustosa», che nessun discorso
«scientifico» tollererebbe). Sarebbe indubbiamente utile -
dovrà esserci uri giorno - una teoria delle parole-valori (dei
vocaboli). Nell’attesa, si può notare che i vocaboli sono parole
sensibili, parole sottili, parole d ’amore, che denotano seduzio­
ni o repulsioni (richiami di godimento). Un altro morfema in­
dicante valore è talora il corsivo oppure le virgolette; le virgo-
lette servono a inquadrare il codice ( a snaturalizzare, demisti­
ficare la parola), mentre il corsivo è la traccia della pressio­
ne soggettiva imposta alla parola, di un’insistenza che si sosti­
tuisce alla sua consistenza semantica (le parole in corsivo so­
no numerosissime in Nietzsche). Della contrapposizione tra
parole-sapere e parole-valore (tra nomi e vocaboli) lo stes­
so Bataille sembra aver avuto coscienza teorica. Nel suo scrit­
to 8, però, vi è un fitto intreccio terminologico: la «parola» è
l’elemento dell’analisi filosofica, del sistema ontologico, «che
denota le proprietà che permettono u n ’azione verso l’ester­
no», mentre 1’«aspetto» (il nostro «vocabolo») è ciò che «in­
troduce i valori decisivi delle cose» e proviene «dai moti de­
cisivi della natura».
Esiste perciò nel testo (di Bataille e secondo Bataille) tutto
un tessuto del valore (attraverso vocaboli, grafismi), tutto «un
fasto verbale». Linguisticamente, questi vocaboli che cosa sa­
rebbero? (Naturalmente, la linguistica non lo sa e non vuole
saperlo; è adiaforica, indifferente). Indicherò soltanto alcune
ipotesi.

8 Documents , p. 45.
263
1. Contrariamente a un diffuso pregiudizio modernista at­
tento soltanto alla sintassi, come se la lingua potesse emanci­
parsi (entrare nell’avanguardia) soltanto a quel livello, bisogna
riconoscere una certa erraticità delle parole: alcune sono, nella
frase, come blocchi erratici; il ruolo della parola (nella scrittu­
ra) può consistere nel tagliare la frase, con il suo bagliore, la
sua diversità, la sua potenza di fissione, di separazione, per la
sua situazione di feticcio. Lo «stile» è piu palpabile di quanto
non si creda.
2. Bataille diceva: «Un dizionario potrebbe cominciare dal
momento in cui non desse piu il senso ma i compiti [les beso­
gnes] delle p aro le»9. E u n ’idea decisamente linguistica
(Bloomfield, Wittgenstein); ma besogne va oltre (del resto, è
una parola-valore); passiamo dall’i o , dall9impiego (nozioni
funzionali) al lavoro della parola, al suo godimento: come la
parola «balbetta», nell’in ter-tes to, nella connotazione, agisce
lavorando se stessa; è, in sostanza, il per me nietzschiano della
parola.
3. Il tessuto delle parole-valore costituisce un apparato ter­
minologico, un po’ alla materia dell’«apparato di potere»: la
parola ha una sua forza di rapimento, fa parte di una guerra
dei linguaggi.
4. Perché non concepire (un giorno) una «linguistica» del
valore - non piu nel senso saussuriano {che ha valore per, ele­
mento di un sistema di scambi), ma nel senso quasi morale,
guerriero - oppure erotico? Le parole-valore (i vocaboli) in­
troducono il desiderio nel testo (nel tessuto dell’enunciazione)
- e da esso lo fanno uscire: il desiderio non è nel testo attra­
verso le parole che lo «rappresentano», che lo raccontano, ma
grazie a parole abbastanza rilevate, abbastanza brillanti,
trionfanti, per farsi amare come feticci.

Convegno di Cerisy-la Salle 1972, estratto di Bataille, coll. 10/18, copy­


right Uge 1973.

9Ibid., p. 177.

IO
Lettura di Brillat-Savarin

Gradi.

Brillat-Savarin (che d'ora in poi chiameremo B.-S.) osserva


che lo champagne in un primo tempo è eccitante, e successiva­
mente stupefacente (non ne sono certo: da parte mia, lo direi
piuttosto del whisky). Ecco affermata a proposito di un nulla
(ma il gusto implica una filosofia del nulla) una delle categorie
formali piu importanti della modernità: quella della gradualità
dei fenomeni. Si tratta di una forma del tempo, molto meno
conosciuta del ritmo, ma presente in un numero cosi grande
di produzioni umane che non sarebbe eccessivo designarla
con un neologismo: chiamiamo questo «stacco», questa scala
dello champagne, una «batmologia». La batmologia sarebbe
dunque il campo dei discorsi sottoposti a un gioco di gradi. Al­
cuni linguaggi sono come lo champagne: sviluppano una signi­
ficazione posteriore al loro primo ascolto, e la letteratura na­
sce per Γappunto in questo ritardo del senso. La gradualità de­
gli effeti dello champagne è grossolana, puramente fisiologica,
perché conduce dall’eccitazione al torpore; ma è proprio que­
sto principio di sfasamento, epurato, a regolare la qualità del
gusto: il gusto è il senso che conosce e pratica apprendimenti
molteplici e successivi: entrate, ritorni, intrecci, tutto un con­
trappunto della sensazione: alla disposizione per piani della vi­
sta (nei grandi piaceri panoramici) corrisponde la disposizione
per gradi del gusto. B.-S. scompone cosi nel tempo (non si trat­
ta infatti di un’analisi semplice) la sensazione gustativa: i . di­
retta (quando il sapore impressiona ancora la lingua anteriore);
2. completa (quando il sapore arriva al retrobocca); 3. Hfles­
siva (nel momento finale del giudizio). Tutto il lusso del gusto
è in questa scala; il fatto che la sensazione gustativa sia sot­
tomessa al tempo consente infatti di svilupparla quasi come
un racconto, o come un linguaggio: temporalizzato, il gusto
conosce sorprese e sottigliezze; sono i profumi e le fragran-
266 LETTURA DI BRILLAT-SAVARIN

ze, costituiti in anticipo, se cosi si può dire, come ricordi: nul­


la avrebbe impedito alla madeleine di Proust di essere analiz­
zata da B.-S.

Bisogno/desiderio.

Se B.-S. avesse scritto il suo libro oggi, avrebbe certamente


annoverato tra le perversioni quel gusto per il cibo che egli di­
fendeva e illustrava. La perversione è, per cosi dire, Γesercizio
di un desiderio che non serve a nulla, come quello del corpo
quando si abbandona all’amore senza pensare alla procreazio­
ne. Ora, B.-S. ha sempre sottolineato, per quanto riguarda il
cibo, la distinzione tra bisogno e desiderio: «Il piacere di
mangiare esige, se non la fame, almeno l’appetito; il piacere
della tavola è nella maggior parte dei casi indipendente da en­
trambi». In un’epoca in cui il borghese non aveva alcun senso
di colpa sociale, B.-S. propone una contrapposizione cinica:
da un lato c’è Vappetito naturale, che appartiene all’ordine del
bisogno, e dall’altro Yappetito di lusso, che appartiene all’ordi­
ne del desiderio. In effetti, è tutto qui: la specie ha bisogno
della procreazione per sopravvivere, l’individuo ha bisogno di
mangiare per sostentarsi; e tuttavia la soddisfazione di questi
due bisogni non è sufficiente per l’uomo: egli deve mettere in
scena, per cosi dire, il lusso del desiderio, amoroso o gastrono­
mico: supplemento enigmatico, inutile, il cibo desiderato -
quello descritto da B.-S. - è una perdita incondizionata, una
sorta di cerimonia primitiva con cui l’uomo celebra il proprio
potere, la propria libertà di bruciare la sua energia «per nul­
la». In questo senso, il libro di B.-S. è da un capo all’altro il li­
bro del «propriamente umano», perché è il desiderio (in
quanto parla a se stesso) a distinguere l’uomo. Questo fondo
antropologico dà un’impronta paradossale alla Fisiologia del
gusto: ciò che si esprime attraverso gli orpelli dello stile, infat­
ti, il tono mondano degli aneddoti e la garbata futilità delle
descrizioni, è la grande avventura del desiderio. Fermo resta,
tuttavia, il problema di sapere perché il soggetto sociale (alme­
no nelle nostre società) debba assumere la perversione sessua­
le in uno stile nero, selvaggio, maledetto, come la piu pura
delle trasgressioni, mentre la perversione gastronomica, de­
scritta da B.-S. (e nell’insieme non si vede come la si potrebbe
descrivere altrimenti), implica sempre una sorta di confessio-
LETTURA DI BRILLAT-SAVARIN 267

ne amabile e graziosamente compiacente che non esce mai dal


bon ton.

Il corpo del gastronomo.

Il cibo provoca un piacere interno: interno al corpo, rin­


chiuso in esso, neppure sotto la pelle, ma in quella zona pro­
fonda, centrale, tanto piu originale in quanto è molle, confu­
sa, permeabile, che chiamiamo, in senso molto generale, vi­
scere; anche se il gusto è uno dei cinque sensi riconosciuti,
classificati, dell’uomo, e anche se tale senso è localizzato (sulla
lingua e, come descrive benissimo B.-S., in tutta la bocca), il
godimento gustativo è diffuso, esteso a tutto il tessuto segreto
delle mucose; esso dipende da quello che si dovrebbe conside­
rare il nostro sesto senso - se B.-S. non riservasse per l’ap­
punto questo posto al senso genesico -, e che è la cinestesia,
sensazione globale del nostro corpo interno. Certo, B.-S., co­
me tutti, riconosce questa disposizione diffusa del piacere del
cibo: è il benessere che si prova dopo un buon pranzo; curiosa­
mente, però, egli non analizza, non scompone, non «poetiz-
za » tale sensazione interna; quando vuole cogliere gli effetti
voluttuosi del cibo, li va a cercare sul corpo della controparte;
gli effetti in questione sono in un certo senso segni, partecipi
di una interlocuzione: si decifra il piacere dell’altro; talvolta,
poi, se si tratta di una donna, addirittura la si spia, la si sor­
prende, come se si avesse a che fare con un piccolo rapimento
erotico; la convivialità, il piacere di mangiar bene insieme, è
dunque un valore meno innocente di quanto non appaia; c’è
nella messa in scena di un buon pranzo qualcosa che va al di là
dell’applicazione di un codice mondano, per quanto l’origine
storica sia molto antica; intorno alla tavola si aggira una vaga
pulsione scopica: si guardano (si scrutano?) nell’altro gli effet­
ti del cibo, si coglie in che modo il corpo sia lavorato dall’in­
terno; come quei sadici che godono se vedono trapelare sul
volto del partner un’emozione, si osservano i mutamenti del
corpo che si nutre bene. L’indizio di questo piacere crescen­
te è, secondo B.-S., una qualità tematica molto precisa: la lu­
centezza; la fisionomia si rischiara, il colorito si accende, gli
occhi brillano, mentre il cervello si rinfresca e un dolce calore
invade il corpo. La lucentezza è evidentemente un attributo
erotico: essa rinvia allo stato di una materia al tempo stesso
incendiata e bagnata, dal momento che il desiderio dà al cor-
LETTURA DI BRILLAT-SAVARIN

po splendore, l’estasi radianza (l’espressione è di B.-S.), e il


piacere lubrificazione. Il corpo del gourmand è visto quindi
come un dipinto dolcemente radioso, illuminato dall'interno.
Questo sublime comporta tuttavia un sottile pizzico di trivia­
lità: pizzico inatteso che risulta evidentissimo nel ritratto del­
la belle gourmande («une jolie gourmande sous les armes»,
«una bella ghiottona in servizio», dice B.-S.): con gli occhi
brillanti e le labbra lucide e scarlatte, morde la sua ala di per­
nice; sotto l’edonismo amabile, che è il genere obbligato delle
descrizioni di convivialità, nella lucentezza bisogna leggere al­
lora un altro indizio: quello dell’aggressione carnivora, di cui
è qui portatrice, paradossalmente, la donna; la donna non di­
vora il cibo, morde, e il suo morso irradia; forse in tale lampo
un po’ brutale si deve cogliere un pensiero antropologico: a
tratti il desiderio ritorna all’origine e si ribalta in bisogno, la
ghiottoneria in appetito (trasferito nell’ordine amoroso, que­
sto ribaltamento riporterebbe l’umanità alla pratica elementa­
re dell’accoppiamento stagionale). La cosa strana è che nel
quadro eccessivamente civilizzato che B.-S. fornisce sempre
degli usi gastronomici, la nota stridente della Natura - del
nostro fondo naturale - è data dalla donna. Si sa che nell’im­
mensa mitologia elaborata dagli uomini intorno all’ideale fem­
minile il cibo è sistematicamente dimenticato; vediamo quasi
sempre la donna in situazione di amore o di innocenza; non la
vediamo mai mangiare: è un corpo glorioso, purificato da ogni
necessità. Mitologicamente, il cibo concerne gli uomini; la
donna ne partecipa solo in quanto cuoca o serva; è colei che
prepara o serve, ma non mangia. Con una soave annotazione,
B.-S. sovverte due tabu: quello di una donna priva di ogni at­
tività digestiva, e quello di una gastronomia che sarebbe pura
replezione: mette il cibo nella Donna, e nella Donna l’appeti­
to (gli appetiti).

L 'antidroga.

Baudelaire rimproverava B.-S. perché non aveva parlato


bene del vino. Per Baudelaire il vino è il ricordo e l’oblio, la
gioia e la malinconia; è ciò che permette al soggetto di uscire
da sé, di far cedere la consistenza del suo io a vantaggio di una
condizione di spaesamento, di straniamento e di estraneità; è
una strada di devianza, in breve: è una droga.
Per B.-S., invece, il vino non è affatto un generatore di
269
estasi. La ragione è chiara: il vino fa parte del cibo, e il cibo,
per B.-S., è essenzialmente conviviale; il vino non può quin­
di far parte di un protocollo solitario: si beve e si mangia
contemporaneamente, e si mangia sempre in parecchi; una
rigida socialità sorveglia i piaceri del cibo; certo, i fumatori
di hashish possono riunirsi in bande, come i convitati di un
buon pranzo; ma, in teoria, è perché ciascuno possa «parti­
re» meglio nel proprio sogno individuale; questo scarto è in­
vece interdetto al convitato gastronomo, perché mangiando
questi si sottopone a una pratica comunitaria rigorosa: la con­
versazione. La conversazione (a piu voci) è in un certo senso
la legge che difende il piacere culinario da ogni rischio psico­
tico e mantiene il gourmand in una «sana» razionalità: parlan­
do - conversando - mentre mangia, il convitato conferma il
proprio io e si protegge con Γimmaginario del discorso, da
ogni fuga soggettiva. Per B.-S. il vino non ha alcun privilegio
particolare: come il cibo, e con esso, amplifica leggermente il
corpo (lo rende «brillante»), ma non lo altera. E un’anti-
droga.

Cosmogonie.

Poiché concerne sostanze trasformabili, la pratica culinaria


induce spontaneamente lo scrittore che ne parla a trattare di
una tematica generale della materia. Come le antiche filosofie
davano molta importanza agli stati fondamentali della materia
(l’acqua, il fuoco, l’aria, la terra) e traevano da tali stati attri­
buti generici (l’aereo, il liquido, l’ardente, ecc.), in grado di
passare in tutte le forme del discorso, a cominciare da quello
poetico, cosi il cibo, attraverso il trattamento delle sue sostan­
ze, assume una dimensione cosmogonica. Lo stato vero del ci­
bo, quello che determina l’avvenire umano dell’alimento, pen­
sa B.-S., è lo stato liquido: il gusto è il risultato di un’opera­
zione chimica che si compie sempre per via umida, ed «è sapi­
do solo ciò che è già dissolto o sta per esserlo». Il cibo, ed è lo­
gico, in questo senso si identifica con il grande tema materno
c talassale: l’acqua è nutrice; fondamentalmente, il cibo è un
bagno interiore, e tale bagno - precisazione sulla quale insiste
B.-S. - non è solo vitale, ma anche felice, paradisiaco; da esso
infatti dipende il gusto, cioè il piacere di mangiare.
Il liquido è lo stato anteriore o posteriore dell’alimento, la
sua storia totale, e quindi la sua verità. Ma nel suo stato soli-
LETTURA DI BRILLAT-SAVARIN

do, secco, la materia alimentare conosce differenze di valore.


Osservate i chicchi del caffè al naturale: si possono pestare o
macinare. B.-S. preferisce di gran lunga il primo metodo di ri­
duzione, per il quale rende onore ai turchi (non si comprano
forse a caro prezzo il mortaio e il pestello di legno che per tan­
to tempo sono serviti a triturare i chicchi?) B.-S., facendo
sfoggio delle sue conoscenze, offre prove sperimentali e teori­
che circa la superiorità di una manipolazione sulPaltra. Ma
non è difficile indovinare la «poetica» di tale differenza: il
macinato deriva da un fatto meccanico; la mano si applica al
macinino come una forza, non come un’arte (prova ne sia che
il macinino manuale si è trasformato del tutto naturalmente
in macinacaffè elettrico); ciò che il macinino produce in tal
modo - in un certo senso astrattamente - è una sbriciolatura
di caffè, una sostanza secca e spersonalizzata; al contrario, il
pestato deriva da un insieme di gesti corporei (premere, girare
in modi diversi), e tali gesti sono trasmessi direttamente dalla
piu nobile, la più umana delle materie: il legno; ciò che esce
dal mortaio non è piu una semplice sbriciolatura, ma una pol­
vere, una sostanza di cui tutta una mitologia attesta la voca­
zione alchemica, cioè quella di legarsi all’acqua per produrre
bevande magiche: la polvere di caffè è, per cosi dire, irrigabi­
le, dunque piu vicina allo stato per eccellenza della materia
alimentare, che è quello liquido. Nel sottile conflitto che con­
trappone il pestato al macinato si deve dunque leggere un ri­
flesso del grande mito che oggi piu che mai investe Yhomo
technologicus: l’eccellenza dell’utensile (contrapposto alla mac­
china), la preminenza dell’artigianale sull’industriale, insom­
ma, la nostalgia del Naturale.

La ricerca dell'essenza.

Dal punto di vista scientifico, alla fine del Settecento il


meccanismo della digestione è stato ormai in gran parte chia­
rito: si sa perciò in qual modo la lista piu varia e piu eteroclita
di alimenti che si possa immaginare (tutti quelli che l’umanità,
sin dall’origine della vita, ha potuto scoprire e ingerire) pro­
duca una medesima sostanza vitale, grazie alla quale l’uomo
sopravvive. Con un leggero ritardo storico, la chimica, a par­
tire dal 1825, scopre i corpi semplici. Tutta l’ideologia culina­
ria di B.-S. si arma di una nozione al tempo stesso medica,
chimica e metafisica: quella di un’essenza semplice, che è il
271
succo nutritivo (o gustativo - perché, per B.-S., non vi è di
fatto cibo se non gustato). Lo stato compiuto dell·alimento è
dunque il sugo, essenza liquida e rarefatta di un pezzo di cibo.
La riduzione all’essenza, o quintessenza, antico sogno alche­
mico, impressiona molto B.-S.: ne gode come di uno spettaco­
lo sorprendente; il cuoco del principe di Soubise, come un
mago delle Mille e una notte, non ha forse concepito l’idea di
rinchiudere cinquanta prosciutti in un flacone di cristallo non
piu grosso di un pollice? Equazione miracolosa: l’essere del
prosciutto è nel suo sugo, e tale sugo è a sua volta riducibile a
un succo, a un’essenza - di cui è degno solo il cristallo. L’es­
senza alimentare cosi progettata assume uri aura divina; prova
ne è il fatto che, come il fuoco di Prometeo, al di fuori delle
leggi umane, può essere rubata: ad alcuni inglesi, che si face­
vano cuocere un cosciotto di montone in una taverna, B.-S.
ruba il succo (per farsi fare delle uova al sugo); incide la carne
che gira sullo spiedo e ne ruba la quintessenza per effrazione
(con, inoltre, una sfumatura di anglofobia).

Etica.

È stato possibile svelare la fisica del piacere amoroso (ten-


sione/distensione), ma il piacere gustativo sfugge a ogni ridu­
zione, e di conseguenza a ogni scienza (come dimostra la natu­
ra eteroclita dei gusti e dei disgusti attraverso la storia e la ter­
ra). B.-S. parla come un erudito e il suo libro è una fisiologia;
ma la sua scienza (lo sapra?) è solo ironia della scienza. Tutto
il godimento gustativo risiede nella contrapposizione di due
valori: il piacevole e lo spiacevole; e tali valori sono semplice-
mente tautologici: è piacevole ciò che fa piacere, e spiacevole
ciò che dispiace. B.-S. non può procedere oltre: il gusto deriva
da un «potere di apprezzamento», proprio come in Molière il
sonno proviene da una virtù dormitiva. La scienza del gusto
si trasforma quindi in etica (è la sorte abituale della scienza).
B.-S. associa immediatamente alla sua fisiologia (cha altro po­
trebbe fare, se vuole continuare a discorrere?) delle qualità
morali. Le piu importanti sono due. La prima è legale, castra-
trice: è Yesattezza («Di tutte le qualità del cuoco, l’esattezza è
la piu indispensabile»); ritroviamo qui la regola classica: non
c’è arte senza costrizione, non c’è piacere senza ordine; la se­
conda è ben nota alle morali della Colpa: è il discernimento,
che permette di separare sottilmente il Bene dal Male; c’è una
LETTURA DI BRILLAT-SAVARIN

casuistica del gusto: il gusto deve essere sempre vigile, eserci­


tarsi alla sottigliezza, alla minuzia; B.-S. cita con rispetto i
gourmands di Roma, che sapevano distinguere dal gusto i pe­
sci pescati tra i ponti della città da quelli presi piu in basso, o
quei cacciatori che riescono a percepire il sapore particolare
della coscia su cui la pernice si è appoggiata dormendo.

La lingua.

Cadmo, che portò la scrittura in Grecia, era stato cuoco del


re di Sidone. Ricordiamo questo dato mitologico come apolo­
go al rapporto che unisce il linguaggio e la gastronomia. Que­
ste due potenze non hanno forse lo stesso organo? E, in senso
piu lato, non hanno forse lo stesso apparato, di produzione o
di apprezzamento - le guance, il palato, le cavità nasali -, il
cui ruolo gustativo è ricordato da B.-S., e che produce il canto?
Mangiare, parlare, cantare (è il caso di aggiungere: baciare?) so­
no operazioni che hanno come origine lo stesso luogo del cor­
po: tagliate la lingua, e non si avrà piu né gusto né parola.
Platone aveva accostato (anche se in senso negativo) la ret-
torica e la cucina. B.-S. non approfitta esplicitamente di tale
precedente: non c’è in lui nessuna filosofia del linguaggio. Dal
momento che il simbolismo non è il suo forte, è in osservazio­
ni empiriche che va ricercato l’interesse di questo gastronomo
per il linguaggio, o più precisamente per le lingue. Tale inte­
resse è enorme. B.-S., come egli stesso ricorda, conosce cin­
que lingue; è cosi in possesso di un repertorio immenso di pa­
role di tutte le specie, che utilizza con disinvoltura, traendole
dalle diverse caselle del suo cervello. In questo B.-S. è moder­
nissimo: è persuaso che la lingua francese sia povera, e che
perciò sia lecito prendere in prestito o rubare le parole altro­
ve; analogamente, apprezza il fascino delle lingue marginali,
come la lingua popolare; trascrive e cita con piacere il dialetto
del suo paese, il Bugey. Infine, ogni volta che gliene si presen­
ta l’occasione, registra questa o quella curiosità linguistica,
per estranea che sia al suo discorso gastrosofico: «fare le brac­
cia» significa suonare il pianoforte con i gomiti alzati, come se
si fosse soffocati dal sentimento; «fare gli occhi» significa al­
zarli al cielo come se si stesse per svenire; «fare brioches»
(una metafora che doveva piacergli) significa sbagliare una no­
ta, un’intonazione. La sua attenzione al linguaggio è dunque
meticolosa, come dev’esserlo l’arte del cuoco.
273
Bisogna tuttavia andare al di là di queste prove contingenti
di interesse. B.-S. è certamente legato alla lingua - come lo fu
al cibo - da un rapporto d ’amore: desidera le parole, nella lo­
ro stessa materialità. Non ha forse inventato quella cosa stu­
pefacente che è la classificazione dei movimenti della lingua
quando è coinvolta nella manducazione, con l’aiuto di paro^
le curiosamente erudite? Tra le altre troviamo la spicazione
(quando la lingua si dispone a mo’ di spiga) e la verrizione
(quando spazza via tutto). Doppio godimento? B.-S. si fa lin­
guista, tratta il cibo come farebbe (e come in seguito farà) uno
studioso di fonetica per la vocalità, e svolge tale discorso eru­
dito con uno stile radicalmente - potremmo dire sfrontata­
mente? - neologico. Il neologismo (o la parola molto rara) ab­
bonda in B.-S.; ne usa senza alcun freno, e ognuna di queste
parole sorprendenti 0irroratore, garrulità, esculento, gulturazio-
ne> soporoso, comessazione, ecc.) è la traccia di un piacere pro­
fondo, che rinvia al desiderio della lingua: B.-S. desidera la
parola come desidera dei tartufi, un’omelette al tonno, una
matelote; come ogni neologo, ha un rapporto feticistico con la
parola isolata, scelta proprio per la sua singolarità. E poiché
tali parole-feticcio sono inscritte in una sintassi purissima, che
restituisce al piacere neologico la cornice di un’arte classica,
fatta di costrizioni, di protocolli, possiamo dire che la lingua
di B.-S. è alla lettera gourmande: ghiotta di parole che mani­
pola come delle pietanze cui si riferisce; fusione o ambiguità
che lo stesso B.-S. palesa quando evoca con simpatia quei
gourmands di cui si può riconoscere la passione e la competen­
za dal modo - ghiotto come loro - in cui pronunciano la paro­
la «buono».
È noto come la modernità abbia insistito nello svelare la
sessualità che si cela nell’esercizio del linguaggio: parlare, sot­
to certe censure o certi alibi (tra cui quello della pura «comu­
nicazione»), è un atto erotico; un nuovo concetto ha consen­
tito questa estensione dal sessuale al verbale: il concetto di
oralità. B.-S. fornisce qui ciò che suo cognato Fourier avrebbe
chiamato una transizione: quella del gusto, orale come il lin­
guaggio, libidico come Eros.

Morte.

E la Morte? Come entra nel discorso di un autore che il suo


stesso soggetto e il suo stesso stile designano come modello
274 LETTURA DI BRILLAT- SAV ARIN

del bon vivant? Non è difficile immaginarlo: in modo assolu­


tamente futile. Partendo dalla considerazione domestica che
lo zucchero preserva gli alimenti e ne permette la conservazio­
ne, B.-S. si chiede perché non si usi lo zucchero nell’arte del-
Γimbalsamazione: cadavere squisito, sciroppato, candito, in
confettura! (Fantasia bislacca, che non può non ricordare
Fourier).
(Mentre il godimento d ’amore è incessantemente associato
- da quante mitologie! - alla morte, nulla di analogo per il go­
dimento dato dal cibo; metafisicamente - o antropologica­
mente -, è un godimento opaco).

Vobesità.

Una rivista, questa settimana, risveglia l’interesse dei suoi


lettori: un medico ha scoperto il segreto per dimagrire, dall’al­
to o dal basso, a volontà. Questo annuncio avrebbe interessa­
to B.-S., che si descrive egli stesso, con allegria, vittima di
un’obesità del tronco «che si limita al ventre» e che non esiste
nelle donne; è ciò che egli chiama la gastro/οήα; coloro che ne
soffrono sono dei gastrofori (sembra, infatti, che portino il
ventre in fuori): «Ne faccio parte anch’io, - dice B.-S., - ma,
per quanto portatore di un ventre molto prominente, ho an­
cora la parte inferiore delle gambe asciutta, e il tendine in ri­
lievo come un cavallo arabo ».
È nota la fortuna immensa di questo tema nella nostra cul­
tura di massa: non passa settimana senza che i giornali pubbli­
chino un articolo sulla necessità e i mezzi per dimagrire. Que­
sta corsa forsennata alla magrezza risale con ogni probabilità,
per fasi successive, alla fine del Settecento; sotto l’influsso di
Rousseau e dei medici svizzeri Tronchin e Tissot, si forma
una nuova idea dell’igiene: il principio è la riduzione (e non
piu la replezione); l’astinenza sostituisce l’universale salasso;
l’alimentazione ideale è costituita da latte, frutta, acqua fre­
sca. Quando B.-S. dedica un capitolo del suo libro all’obesità
e ai mezzi per combatterla, si conforma perciò al senso di
quella Storia mitologica di cui iniziamo a conoscere l’impor­
tanza. In quanto gastronomo, tuttavia, B.-S. non può mettere
l’accento sull’aspetto naturalistico del mito: come potrebbe
difendere nello stesso tempo il naturale rurale (latte e frutta)
e l’arte culinaria che produce le quaglie tartufate al midollo e
le piramidi di meringa alla vaniglia e alla rosa? L’alibi filosofi-
275
co - di origine roussoviana - sparisce a vantaggio di una mo­
tivazione specificamente estetica: certo, non siamo ancora al
momento storico (il nostro) in cui va da sé che essere magri è
meglio che essere grassi (proposizione della quale storia ed et­
nologia attestano la relatività); Γestetica del corpo evocata da
B.-S. non è direttamente erotica; è pittorica: il difetto princi­
pale dell’obesità è di «riempire certe cavità che la natura ave­
va destinate a fare ombra», e di «rendere pressoché insignifi­
canti fisionomie molto spiccate »; il modello del corpo è in­
somma il disegno di genere, e la dietetica è una specie di arte
plastica.
Che idea ha B.-S. della dieta dimagrante? Pressappoco la
nostra. Conosce benissimo, nell’essenziale, le differenze di
potere calorico tra gli alimenti; sa che i pesci, e in particolare
i molluschi e le ostriche, hanno poche calorie, mentre i farina­
cei, le fecole, ne hanno molte; sconsiglia le minestre, i dolci
zuccherati, la birra; raccomanda le verdure, la carne di vitello,
il pollame (per la verità, però, consiglia anche il cioccolato!);
suggerisce di pesarsi regolarmente, di mangiare poco, di dor­
mire poco, di fare molto esercizio fisico, e sgombera il campo
da alcuni pregiudizi (come quello che aveva provocato la mor­
te di una ragazza, convinta che sarebbe dimagrita se avesse
bevuto molto aceto); si aggiunga a tutto ciò una guaina anti-
obesità e della china.
Il contributo di B.-S. al mito del dimagramento, oggi cosi
potente, non è irrilevante; egli ha abbozzato una sintesi molto
moderna della dietetica e della gastronomia, postulando la
possibilità di conservare alla cucina il prestigio di un’arte
complessa pur considerandola secondo una prospettiva piu
funzionale; sintesi un po’ speciosa, perché la dieta dimagrante
rimane una vera e propria ascesi (e riesce solo a questo prezzo
psicologico); se non altro, è stata fondata una letteratura: quel­
la dei libri di cucina elaborati secondo una certa ragione del
corpo.

V osmazoma.

È noto che nel Medioevo la tecnica culinaria obbligava


sempre a far bollire le carni (perché erano di cattiva qualità)
prima di friggerle. B.-S. sarebbe stato inorridito da tale tecni­
ca: innanzitutto perché egli ha, per cosi dire, un’opinione ele­
vata della frittura, il cui segreto - e dunque il senso tematico
276 LETTURA DI BRILLAT-SAVARIN

- è quello di sorprendere (con un calore molto forte) l’alimento


che vi è sottoposto: quel che ci piace nel croccante di una frit­
tura (il cHspy degli americani) è in un certo senso l’aggressione
di cui è stata oggetto la sostanza; in secondo luogo, e soprattut­
to, perché B.-S. condanna il lesso (non il brodo): la carne bol­
lita perde infatti (secondo la chimica dell’epoca) una sostanza
preziosa (per la sua sapidità), contenuta naturalmente nelle
carni rosse (o nelle carni frollate). Tale sostanza è l’osmazoma.
Fedele alla sua filosofia dell’essenza, B.-S. attribuisce all’o-
smazoma una sorta di potere spirituale; esso (la parole è infat­
ti di genere maschile) è l’assoluto stesso del gusto: una sorta di
alcool della carne, in qualche modo; come un principio uni­
versale (demoniaco?) assume sembianze diverse e seduttive;
ne derivano il soffritto delle carni, il rosolato degli arrosti, l’a­
roma penetrante della selvaggina; ad esso dobbiamo il sugo e
il brodo, forme dirette della quintessenza (l’etimologia della
parola rinvia all’idea congiunta di odore e di brodo).
Dal punto di vista chimico, l’osmazoma è un principio re­
lativo alla carne; ma il simbolismo non rispetta l’identità chi­
mica; per metonimia, l’osmazoma conferisce le proprie virtù
a tutto quanto è rosolato, .caramellato, tostato: al caffè, per
esempio. La chimica (anche se fuori moda) di B.-S. fa capire
la voga attuale della «grigliata»: nell’uso della grigliata, oltre
all’alibi funzionalista (è un piatto di preparazione rapida), c’è
una ragione filosofica: la grigliata riunisce due principi mitici,
quello del fuoco e quello della crudità, entrambi trascesi nel­
l’immagine della tostatura, forma solida del succo vitale.

Piacere.

Ecco che cosa scrive B.-S. del piacere: «Pochi mesi fa,
mentre dormivo, ho provato una sensazione di piacere assolu­
tamente straordinaria. Consisteva in una specie di fremito de­
lizioso di tutte le particelle che compongono il mio essere. Era
una sorta di formicolio pieno di fascino che, partendo dall’e­
pidermide, dai piedi alla testa, mi prendeva fino al midollo
delle ossa. Mi sembrava di vedere una fiamma violetta che mi
tremolava intorno alla fronte».
Questa descrizione lirica è abbastanza rivelatrice dell’am­
biguità della nozione di piacere. Il piacere gastronomico è
quasi sempre descritto da B.-S. come un benessere raffinato e
ragionevole; certo, dà al corpo uno splendore (la lucentezza),
LETTURA DI BRILLAT-SAVARIN 277
ma non lo spersonalizza: né il cibo né il vino hanno il potere
della droga. Al contrario, qui si descrive una sorta di limite
del piacere; il piacere è sul punto di scivolare nel godimento:
trasforma il corpo, che si sente in stato di dispersione elettri­
ca. Tale eccesso è probabilmente attribuibile al sogno; indica
tuttavia una cosa molto importante: il carattere incommensu­
rabile del piacere. Basta quindi socializzare Yignoto del piace­
re per produrre un’utopia (ritroviamo ancora Foùrier). Come
dice benissimo B.-S.: «I limiti del piacere non sono ancora né
conosciuti né posti, e non sappiamo fino a che punto il nostro
corpo possa essere reso felice». Parole sorprendenti in un vec­
chio autore, il cui stile di pensiero è in genere epicureo: parole
che introducono in tale pensiero il sentimento di una sorta di
infinito storico della sensazione, di plasticità insospettata del
corpo umano, che si trova solo nelle filosofie molto marginali,
e che significa postulare una sorta di misticismo del piacere.

Domande.

L’oggetto indicato da un segno si chiama referente. Ogni


volta che parlo di cibo, emetto segni (linguistici) che si riferi­
scono a un alimento o a una qualità alimentare. Questa situa­
zione banale ha implicazioni poco conosciute quando l’ogget­
to indicato dalla mia enunciazione è un oggetto desiderabi­
le. È questo il caso, evidentemente, della Fisiologia del gusto.
B.-S. parla, e io desidero ciò di cui parla (soprattutto se in
quel momento ho appetito). Dal momento che il desiderio che
suscita è apparentemente semplice, l’enunciato gastronomico
presenta in tutta la sua ambiguità il potere del linguaggio: il
segno evoca le delizie del proprio referente nel momento stes­
so in cui ne esprime l’assenza (com’è noto, lo stesso vale per
qualsiasi parola, da quando Mallarmé lo ha detto del fiore,
«assente da ogni bouquet»). Il linguaggio evoca ed esclude.
Di conseguenza, lo stile gastronomico ci pone tutta una serie
di domande: che cos’è rappresentare, raffigurare, progettare,
dire? Che cos’è desiderare? Che cos’è desiderare e parlare nel­
lo stesso tempo?

La prìma ora.

Come ogni soggetto edonista, B.-S. sembra avere una viva


esperienza della noia. E, come sempre, la noia, legata a ciò
LETTURA DI BRILLAT-SAVARIN

che la filosofia e la psicanalisi hanno indicato con il nome di


ripetizione, implica, per via opposta (che è quella della con­
trapposizione di senso), l’eccellenza della novità. Tutto ciò
che ha a che fare con una temporalità originaria è investito di
una specie di incantesimo, di magia; il primo momento, la pri­
ma volta, la primizia di un piatto, di un rito, in breve Vinizio
rinvia a una specie di stato puro del piacere, laddove si mesco­
lano tutte le determinazioni di una felicità. Cosi del piacere
della tavola: «La tavola, - dice B.-S., - è il solo luogo in cui
non ci si annoia durante la prima ora». Questa prima ora è se­
gnata qui dalla comparsa di nuovi piatti, dalla scoperta della
loro originalità, dallo slancio delle conversazioni, in breve,
con una parola che B.-S. applica all’eccellenza delle buone
fritture: dalla sorpresa.

Il sogno.

L’appetito è simile al sogno, perché è al tempo stesso me­


moria e allucinazione, ed è per questo, d ’altronde, che sareb­
be forse meglio dire che è affine alla fantasticheria. Quando
ho voglia di un cibo, non è forse vero che mi immagino men­
tre lo mangio? Non è forse vero che in questa fantasia predit­
tiva c’è tutto il ricordo dei nostri piaceri precedenti? Sono ve­
ramente il soggetto costituito di una scena futura, di cui sono
il solo attore.
B.-S. ha dunque riflettuto sul sogno, «vita a parte, sorta di
romanzo prolungato». Ha colto bene il paradosso del sogno,
che può essere piacere intenso, privo però di sensualità reale:
nel sogno non c’è né odore né gusto. I sogni sono ricordi o
combinazioni di ricordi: «I sogni sono solo la memoria dei
sensi». Come una lingua che si elaborasse unicamente a parti­
re da certi segni selezionati, resti isolati di un’altra, il sogno è
un racconto frantumato, fatto di rovine della memoria. B.-S.
lo paragona alla reminiscenza di una melodia, della quale si
suonassero solo alcune note senza aggiungervi l’armonia. La
discontinuità del sogno si contrappone alla velatura del son­
no, e tale contrapposizione si riflette nell’organizzazione stes­
sa degli alimenti; alcuni sono sonniferi: il latte, il pollame, la
lattuga, i fiori d ’arancio, la mela renetta (mangiata prima di
andare a letto); altri risvegliano i sogni: le carni scure, la lepre,
gli asparagi, il sedano, i tartufi, la vaniglia; sono cibi forti,
279

profumati o afrodisiaci. B.-S. fa del sogno uno stato forte, po­


tremmo quasi dire virile.

Scienza.

«La sete, - dice B.-S., - è il sentimento interiore del biso­


gno di bere». Non è una novità, e l’interesse di frasi del gene­
re non risiede certo nell’informazione che offrono (qui decisa­
mente assente). Con simili tautologie, evidentemente, B.-S. si
cimenta nella scienza, o almeno nel discorso scientifico; pro­
duce enunciati senza sorprese, il cui unico valore consiste nel
presentare un’immagine pura della proposizione scientifica
(definizione, postulato, assioma, equazione): esiste forse una
scienza piu rigorosa di quella che definisce un concetto per
mezzo di quel concetto stesso? In questo caso, nessun rischio
di errore; B.-S. è al riparo da quella potenza maligna che rovi­
na la scienza: il paradosso. La sua audacia è nello stile: usare
un tono dotto per parlare di un senso ritenuto futile (perché
piattamente sensuale), il gusto.
La scienza è il grande Super-Io della Fisiologia. Il libro,
come è noto, fu scritto con l’avallo di un biologo ufficiale, e
B.-S. dissemina nel proprio discorso solennità scientifiche.
Immagina cosi di sottoporre il desiderio di cibo a misure spe­
rimentali: «Ogni volta che si servirà una pietanza di un sapore
ben preciso e conosciuto, si osserveranno attentamente i con­
vitati, e si giudicheranno indegni tutti coloro la cui fisionomia
non paleserà estasi». Con i suoi «provini gastronomici» B.-S.,
al di là della stravaganza dell’idea, tiene conto di due fattori
molto seri e molto moderni: la socialità e il linguaggio; i piatti
che presenta a titolo di esperimento ai suoi soggetti variano a
seconda della classe sociale (del reddito) dei medesimi: una
fetta di vitello o bianco d ’uovo sbattuto a neve per i poveri,
un filetto di bue o un rombo al naturale per gli agiati, quaglie
tartufate al midollo e meringhe alla rosa per i ricchi, ecc. - il
che fa pensare che il gusto sia modellato dalla cultura, cioè
dalla classe sociale; e poi, metodo sorprendente, per leggere il
piacere gustativo (è questo infatti lo scopo dell’esperienza)
B.-S. suggerisce di esaminare non la mimica (probabilmente
universale), bensì il linguaggio, oggetto socializzato per eccel­
lenza: l’espressione dell’assenso muta a seconda della classe
sociale del locutore: davanti al bianco d’uovo a neve il povero
dirà: «Accidenti! », mentre gli uccelletti alla provenzale strap-
28ο LETTURA DI BRILLAT-SAVARIN

peranno al ricco un «Monsignore, il vostro cuoco è un uomo


ammirevole! »
Queste facezie, cui si mescolano alcune vere intuizioni,
spiegano molto bene come B.-S. considerasse la scienza: in un
modo al tempo stesso serio e ironico; il suo progetto di fonda­
re una scienza del gusto, di sottrarre il piacere culinario alle
sue abituali connotazioni di futilità, gli stava senza dubbio a
cuore; ma gli dà esecuzione con enfasi, cioè con ironia; è simi­
le a uno scrittore che mettesse tra virgolette le verità che
enuncia, non per prudenza scientifica, ma per timore di appa­
rire come un ingenuo (il che dimostra come Γironia sia sempre
frutto della timidezza).

Sesso.

I sensi sono cinque, si dice. Sin dalle prime righe del suo li­
bro, B.-S. ne postula un sesto: il genesico, o amore fisico. Tale
senso non può essere ridotto al tatto; implica un apparato
completo di sensazioni. «Diamo al genesico, - dice B.-S., - il
posto sensuale che non gli può essere rifiutato, e lasciamo ai
nostri nipoti Γonere di assegnargli il rango » (e noi, suoi nipo­
ti, non siamo venuti meno al nostro compito, com’è noto). Il
progetto di B.-S. è evidentemente quello di suggerire una spe­
cie di scambio metonimico tra la prima delle voluttà (anche se
è censurata) e il senso di cui egli intraprende la difesa e Γillu­
strazione, cioè il gusto; dal punto di vista della sensualità, il
gusto assume un particolare significato se lo si assimila al pia­
cere amoroso. B.-S. insiste quindi, quando può, sulle virtù
afrodisiache di certi alimenti: i tartufi, ad esempio, o il pesce,
di cui si stupisce (piccola ironia anticlericale) che sia Γalimen­
to della quaresima dei monaci, votati alla castità. Eppure,
checché lui ne dica, esistono ben poche analogie tra la lussuria
e la gastronomia; tra i due piaceri corre una differenza fonda-
mentale: l’orgasmo, cioè il ritmo stesso dell’eccitazione e del
suo placarsi. Il piacere della tavola non comporta né rapimen­
ti, né trasporti, né estasi - e neppure aggressioni; il suo godi­
mento, se esiste, non è parossistico: nessun crescendo del pia­
cere, nessun culmine, nessuna crisi; solo una durata; si direb­
be che Tunico elemento critico della gioia gastronomica sia la
sua attesa; non appena comincia la soddisfazione, il corpo en­
tra nell’insignificanza della replezione (anche se essa assume
un atteggiamento di ghiotta compunzione).
281

Socialità.

L’etnologia generale non avrebbe probabilmente difficoltà


a dimostrare che P assunzione di cibo è in ogni luogo e in ogni
epoca un atto sociale. Si mangia in compagnia, questa è la leg­
ge universale. Tale socialità alimentare può assumere molte
forme, molti alibi, molte sfumature, a seconda delle società e
delle epoche. Per B.-S. la collettività gastronomica è essen­
zialmente mondana, e la sua figura rituale è la conversazione.
La tavola è in un certo senso il luogo geometrico di tutti gli ar­
gomenti di intrattenimento; è come se il piacere alimentare li
vivificasse, li facesse rinascere; la celebrazione di un alimento
è laicizzata nella forma di un nuovo modo di riunirsi (e di par­
tecipare): la convivialità. Sommata alla buona tavola, la convi-
vialità produce ciò che Fourier (che ritroviamo sempre accan­
to a B.-S.) chiamava un piacere composto. Il vigile edonismo
dei due cognati ha ispirato loro il pensiero che il piacere deb­
ba essere sovradeterminato, che debba avere piu cause simulta­
nee, tra le quali non vi sia modo di distinguere quale procuri
il godimento; il piacere composto, infatti, non deriva da una
semplice contabilità delle eccitazioni: configura invece uno
spazio complesso nel quale il soggetto non sa piu da dove vie­
ne né ciò che vuole - se non godere. La convivialità - cosi im­
portante nell’etica di B.-S. - non è dunque soltanto un fatto
sociologico; esso induce a considerare (cosa che sinora le
scienze umane hanno fatto raramente) la comunicazione come
un godimento - e non piu come una funzione.

Classi sociali.

Si è visto che nel gioco (o esperimento) dei provini gastro­


nomici B.-S. collegava la differenza dei gusti alla differenza
dei redditi. L’originalità non consiste nel riconoscere classi
basate sul denaro (mediocrità, agiatezza, ricchezza), ma nel
concepire che anche il gusto (cioè la cultura) sia socializzato:
se esiste affinità tra i bianchi d ’uovo a neve e un reddito mo­
desto non è solo perché si tratta di un piatto poco dispendio­
so, ma anche, pare, a causa di una determinazione sociale del
gusto, i cui valori si stabiliscono non certo in assoluto, ma al­
l’interno di un campo ben delimitato. E dunque sempre attra­
verso la cultura - e non attraverso i bisogni - che B.-S. socia-
LETTURA DI BRILLAT- SAV ARIN

lizza il cibo. Cosi, quando passa dai redditi alle classi profes­
sionali (a ciò che egli chiama gli «stati» o le «condizioni»),
stabilendo che i grandi gourmands della società sono principal­
mente i finanzieri, i medici, gli uomini di lettere e i devoti, ciò
che egli prende in considerazione è un certo insieme di abitu­
dini, insomma: una psicologia sociale. Il gusto gastronomico
sembra ai suoi occhi prerogativa legata sia a un certo positivi­
smo della professione (finanzieri, medici) sia a un’attitudine
particolare a dislocare, sublimare o introiettare il godimento
(uomini di lettere, devoti).
In questa sociologia culinaria, per quanto pudica, è tuttavia
presente il sociale puro: e precisamente là dove esso è assente
dal discorso. Proprio in ciò che non dice (in ciò che occulta)
B.-S. mette in luce con maggiore sicurezza la condizione so­
ciale, nella sua nudità: e ciò che è rimosso, inesorabilmente, è
il cibo popolare. Da che cosa è costituito, fondamentalmente,
tale cibo? Da pane e, in campagna, da una sorta di polenta che
la cuoca preparava con un grano che pestava lei stessa nel
mortaio, evitando cosi di sottostare al monopolio dei mulini e
dei forni comunali; niente zucchero, bensì miele. Il cibo es­
senziale del povero erano le patate; si vendevano, bollite, per
la strada (come accade ancora oggi in Marocco), insieme alle
castagne; snobbata per molto tempo dalle persone di «un cer­
to ceto», che ne lasciavano il consumo «agli animali e ai pove­
ri», la patata non deve certo la sua ascesa sociale a Parman-
tier, farmacista dell’esercito, il quale voleva soprattutto che la
sua fecola sostituisse la farina per il pane. Anche al tempo di
B.-S. la patata, pure essendo in via di «redenzione», rimane
segnata dal discredito che accompagnava socialmente ogni co­
sa bollita. Si considerino i menu dell’epoca: vi sono solo piatti
separati, ben distinti: il legato appartiene solo alle salse.

Topica.

B.-S. ha capito che, come argomento di discorso, il cibo era


una sorta di griglia (di topica, avrebbe detto l’antica rettorica),
attraverso la quale si potevano far passare con successo tutte
le scienze che oggi chiamiamo sociali e umane. Il suo libro
tende all’enciclopedia, anche se non fa che abbozzarne il ge­
sto. In altri termini, il discorso ha il diritto di affrontare il ci­
bo da vari punti di vista; si tratta, insomma, di un fatto socia­
le totale, intorno al quale si possono far confluire metalin-
283
guaggi diversi: quelli della fisiologia, della chimica, della geo­
grafia, della storia, dell’economia, della sociologia e della po­
litica (oggi aggiungeremmo la simbologia). Questo enciclope­
dismo - questo «umanesimo» - è l’area coperta, secondo
B.-S., dal termine gastronomia: «La gastronomia è la cono­
scenza di tutto ciò che si rapporta all’uomo, in quanto egli si
nutre ». Questa apertura scientifica corrisponde effettivamen­
te a ciò che B.-S. fu nella sua vita cioè, essenzialmente, un
soggetto polimorfo: giurista, diplomatico, musicista, uomo di
mondo, buon conoscitore sia dell’estero sia della provincia, il
cibo per lui non fu una mania, quanto piuttosto una sorta di
operatore universale del discorso.

Forse è necessario, come conclusione, meditare un po’ sulle


date. B.-S. è vissuto dal 1755 al 1826. Fu, con una leggera
approssimazione, contemporaneo (ad esempio) di Goethe
(1749-1832). Goethe e Brillat-Savarin: l’accostamento di que­
sti due nomi risulta enigmatico. È vero, W erther non disde­
gnava di farsi cucinare dei piselli al burro, nel suo ritiro di
Wahlheim; ma possiamo immaginarlo interessato alle virtù
afrodisiache del tartufo e ai lampi di desiderio che attraversa­
no il viso delle belle gourmandes? La realtà è che l’Ottocento
sta iniziando il suo duplice viaggio, positivista e romantico (e
forse questo a causa di quello). Intorno al 1825, anno in cui
viene pubblicato La fisiologia del gusto, si intreccia una dupli­
ce istanza della Storia, o perlomeno dell’ideologia, dalla quale
non è certo che siamo ancora usciti: da un lato una sorta di
riabilitazione delle gioie terrene, un sensualismo legato al sen­
so progressista della Storia, e dall’altro un’esplosione grandio­
sa del male di vivere, legata, da parte sua, a tutta una nuova
cultura del simbolo. L’umanità occidentale stabilisce cosi un
doppio repertorio delle sue conquiste, dei suoi valori: da una
parte le scoperte chimiche (garanti dello sviluppo industriale
e della trasformazione sociale), e dall’altra una grandissima
avventura simbolica: il 1825, l’anno di B.-S., non è forse lo
stesso in cui Schubert compone il quartetto della Fanciulla e la
Mortel B.-S., che ci insegna la concomitanza dei piaceri sen­
suali, ci presenta anche, indirettamente, come si addice a un
buon testimone, l’importanza, ancora sottovalutata, delle cul­
ture e delle storie composte.

In Physiologie du goût di Brillat-Savarin, C. Hermann, Éditions des


Sciences et des Arts, Paris 1975.
Un’idea di Ricerca

Sul trenino di Balbec, una signora solitaria legge la «Reveu


des deux mondes »; è brutta, volgare; il Narratore la scambia
per la tenutaria di una casa di tolleranza; ma durante il viaggio
successivo il piccolo clan che ha invaso il treno informa il Nar­
ratore che quella signora è la principessa Sherbatoff, donna di
nobili origini, la perla del salotto Verdurin.
Questo schema - che congiunge in uno stesso oggetto due
condizioni assolutamente inconciliabili e rovescia radicalmen­
te un’apparenza nel suo contrario - ricorre di frequente nella
Ricerca del tempo perduto. Ecco alcuni esempi, tratti da una
lettura dei primi volumi: i . dei due cugini Guermantes, il piu
gioviale è in realtà il piu altezzoso (il duca), il piu freddo è il
piu schietto (il principe); 2. Odette Swann, donna superiore
secondo il giudizio del suo ambiente, passa per una stupida
presso i Verdurin; 3. Norpois, che pontifica al punto di inti­
midire i genitori del Narratore e di persuaderli che il loro fi­
glio non ha alcun talento, viene di colpo distrutto da Bergotte
(«ma quello è un vecchio merlo»); 4. lo stesso Norpois, aristo­
cratico monarchico, viene incaricato di missioni diplomatiche
straordinarie da parte di gabinetti radicali «che un semplice
borghese reazionario si sarebbe rifiutato di servire e ai quali il
passato del signor di Norpois, i suoi attacchi e le sue opinioni
avrebbero dovuto renderlo sospetto»; 5. Swann e Odette so­
no pieni di piccole attenzioni per il Narratore; tuttavia vi fu
un tempo in cui Swann non si degnò neppure di rispondere al­
la lettera «cosi persuasiva e completa» che questi gli aveva
scritto; il portinaio del palazzo degli Swann è ormai trasfor­
mato in una benevola Eumenide; 6. il signor Verdurin parla
di Cottard in due modi diversi: lo magnifica, se suppone che
il professore sia poco noto al suo interlocutore, ma usa un pro­
cedimento inverso e assume un’aria sempliciotta per parlare
del genio medico di Cottard, se questi è conosciuto; 7. subito
U N ’IDEA DI RICERCA

dopo aver letto nel libro di un grande scienziato che la traspi­


razione è nociva ai reni, il Narratore incontra il dottor E. che
gli dichiara: «Il vantaggio di questi tempi caldi, in cui la tra­
spirazione è abbondante, è che il rene ne trae un particolare
beneficio». E cosi di seguito.
Queste notazioni risultano cosi frequenti, vengono applica­
te a individui, oggetti, situazioni, linguaggi tanto differenti
con una tale costanza, che ci si sente autorizzati a vedervi una
forma di discorso la cui ossessività stessa è enigmatica. Pro­
viamo, piu o meno provvisoriamente, a chiamare tale forma
inversione, e immaginiamo (senza poterlo per ora realizzare) di
compilare Γinventario dei casi in cui ricorre, di analizzare i
modi della sua enunciazione, la molla che la provoca, e di in­
dividuare le considerevoli estensioni che essa sembra dover
assumere nell’opera di Proust, a livelli molto diversi. Avremo
cosi impostato un’«idea di Ricerca» - senza tuttavia lasciarci
prendere dalla minima ambizione positivista: la Ricerca del
tempo perduto è una di quelle grandi cosmogonie che il xix
secolo, soprattutto, ha saputo produrre (Balzac, Wagner,
Dickens, Zola), il cui carattere, al tempo stesso statuario e
storico, è precisamente questo: esse costituiscono spazi (galas­
sie) infinitamente esplorabili; il che sottrae al lavoro critico
ogni illusione di «risultato», per spingerlo verso la semplice
produzione di una scrittura supplementare, il cui testo tutore
(il romanzo proustiano) - se noi scrivessimo la nostra ricerca
- non sarebbe che il pre-testo.

Ecco dunque due identità di uno stesso corpo: da un lato la


tenutaria di una casa di tolleranza e dall’altro la principessa
Sherbatoff, dama d ’onore della granduchessa Eudossia. Si
può essere tentati di vedere in questo schema il gioco banale
dell’apparenza e della verità: la principessa russa, perla del sa­
lotto Verdurin, non è che una donna della piu bassa volgarità.
Questa interpretazione sarebbe propriamente moralistica (la
forma sintattica non... che è costante in La Rochefoucauld,
per esempio); si riconoscerebbe allora (cosa che a volte è stata
fatta) nell’opera proustiana un progetto aletico [rivelatorio],
un’energia di decifrazione, una ricerca di essenza, il cui primo
compito sarebbe quello di liberare la verità umana delle appa­
renze contrarie che la vanità, la mondanità, lo snobismo le so­
vrappongono. Tuttavia, facendo dell’inversione proustiana
una semplice riduzione, si sacrificano le efflorescenze della
UN'IDEA DI RICERCA 287
forma e si rischia di venir meno al testo. Tali efflorescenze
(verità del discorso e non verità del progetto) sono le seguenti:
la temporalità y o piu esattamente un effetto di tempo; i due
termini della contraddizione sono separati da un tempo, da
un’avventura: non è, alla lettera, lo stesso Narratore a vedere
la padrona di bordello e la gran dama russa: due treni li sepa­
rano. Il colmo\ Pinversione si attua secondo una figura esatta,
come se un dio - un fatum - controllasse con malizia il per­
corso che conduce la principessa fino a coincidere con il suo
contrario assoluto, determinato geometricamente; lo si direb­
be uno di quegli indovinelli di cui Proust andava d ’altra parte
ghiotto: qual è il colmo per una tenutaria di bordello? - Esse­
re la dama di compagnia della granduchessa Eudossia - o vi­
ceversa. La sorpresa: il rovesciamento delle apparenze - non
diciamo piu dell’apparenza in verità - procura sempre al Nar­
ratore uno stupore delizioso: essenza di sorpresa - torneremo
su questo punto - e non essenza di verità, autentico giubilo,
cosi completo, cosi puro, cosi trionfante - come risulta dalla
felice riuscita dell’enunciazione - che questo modo d ’inver­
sione non può evidentemente derivare altro che da un’eròtica
(del discorso), come se il tracciato del rovesciamento fosse il
momento stesso in cui Proust trae godimento dallo scrivere:
è, punteggiato qua e là nel grande continuum della ricerca, il
plus-àfouir, il tocco in piu di godibilità del racconto, del lin­
guaggio.

Una volta trovato il piacere, il soggetto non può che ripe­


terlo incessantemente. L’inversione - come forma - invade
tutta la struttura della Ricerca. Essa inaugura il racconto stes­
so: la prima scena, da cui scaturirà, attraverso Swann, tutto il
romanzo, si articola sul rovesciamento di una disperazione
(quella di doversi addormentare senza il bacio materno) in
gioia (quella di passare la notte in compagnia della madre); an­
che qui si trovano iscritti i caratteri dell’inversione proustia­
na: non solo la madre, alla fine (temporalità), verrà ad abbrac­
ciare suo figlio contro ogni previsione {sorpresa), ma inoltre
{colmo) è dalla disperazione piu cupa che nascerà la gioia piu
luminosa,, dal momento che il Padre severo si trasforma inopi­
natamente in Padre gentile («... di’ a Françoise di prepararti
il letto grande e dormi vicino a lui per stanotte»). Il rovescia­
mento non resta limitato alle mille notazioni di dettaglio di
cui abbiamo dato qualche esempio; esso struttura il divenire
U N ’IDEA DI RICERCA

stesso dei principali personaggi, soggetti ad elevazioni e a ca­


dute «esatte»: dal colmo della grandezza aristocratica, Char­
tas, nel salotto Verdurin, precipita al rango di piccolo borghe­
se; Swann, commensale dei piu grandi principi, è per le prozie
del Narratore un personaggio scialbo e senza classe; cocotte,
Odette diventa la signora Swann; la signora Verdurin finisce
principessa di Guermantes, ecc. Una permutazione incessante
anima, sconvolge il gioco sociale (l’opéra di Proust è molto piu
sociologica di quanto si dica: descrive con esattezza la gram­
matica della promozione, della mobilità delle classi), al punto
che la mondanità può definirsi attraverso una forma: il rove­
sciamento (di situazioni, di opinioni, di sentimenti, di lin­
guaggi).
L’inversione sessuale è a questo riguardo esemplare (ma
non necessariamente fondante), poiché fa leggere in uno stes­
so corpo la sovraimpressione di due contrari assoluti, l’Uomo
e la Donna (contrari, come si sa, definiti da Proust biologica­
mente, e non simbolicamente: una questione di epoca, proba­
bilmente, dal momento che Gide, per riabilitare l’omosessua­
lità, si rifà a storie di piccioni e di cani); la scena del calabro­
ne, durante la quale il Narratore scopre la Donna sotto il ba­
rone Chartas, vale teoricamente per ogni lettura del gioco dei
contrari; a partire da qui, e tango tutta l’opera, l’omosessua­
lità sviluppa quella che si potrebbe chiamare la sua « enantio-
logia» (o discorso del rovesciamento); da un lato essa dà luogo
nel mondo a mille situazioni paradossali, controsensi, equivo­
ci, sorprese, colmi e malizie, che la Ricerca rivela scrupolosa­
mente; e dall’altro, in quanto rovesciamento esemplare, è ani­
mata da un movimento irresistibile di espansione; attraverso
una larga curva che occupa tutta l’opera, curva paziente ma
infallibile, la popolazione della Ricerca, eterosessuale all’ini­
zio, si trova alla fine in posizione esattamente inversa, cioè
omosessuale (cosi Saint-Loup, il principe di Guermantes,
ecc.): vi è una pandemia dell’inversione, del rovesciamento.
Il rovesciamento è una legge. Ogni tratto è chiamato a ro­
vesciarsi, attraverso un movimento di rotazione implacabile:
dotato di un linguaggio aristocratico, Swann a un certo punto
non può che invertirlo in linguaggio borghese. Questa costri­
zione è cosi regolamentare che rende inutile, dice Proust, l’os­
servazione dei costumi: li si può dedurre dalla legge dell’inver­
sione. La lettura del rovesciamento vale dunque come un sa­
pere. Attenzione, però: tale sapere non mette a nudo dei con-
U N ’IDEA DI RICERCA 289
tenuti, o perlomeno non si arresta ad essi: ciò che è notevole
(regolamentare) non è tanto il fatto che la dama russa sia vol­
gare o che il signor Verdurin adatti la presentazione di Cot-
tard al suo interlocutore, ma è la forma di questa lettura, la lo­
gica di inversione che struttura il mondo, cioè la mondanità;
tale inversione in se stessa non ha senso, non la si può ferma­
re, uno dei termini permutati non è piu «vero» dell·altro:
Cottard non è né «grande» né «piccolo», la sua verità, se ne
ha una, è una verità di discorso, aperta ad ogni oscillazione
che la parola dell’Altro (in questo caso il signor Verdurin) le fa
subire. Alla sintassi classica, che ci direbbe che la principessa
Sherbatoff non è che la tenutaria di una casa di tolleranza,
Proust sostituisce una sintassi concomitante: la principessa è
anche una padrona di bordello; nuova sintassi che bisognereb­
be chiamare metaforica, perché la metafora, contrariamente
a quanto la rettorica ha per lungo tempo pensato, è un lavoro
di linguaggio privo di qualsiasi vettorizzazione: essa si sposta
si da un termine all’altro, ma solo circolarmente e infinita­
mente. Si comprende allora perché Vethos dell’inversione
proustiana è la sorpresa; è lo stupore di un ntomo, di un colle­
gamento, di un ritrovamento (e di una riduzione): enunciare i
contrari significa riunirli finalmente nell’unità stessa del te­
sto, del viaggio di scrittura. Niente di strano quindi nel fatto
che la grande contrapposizione, che sembra all’inizio ritmare
insieme le passeggiate di Combray e le scansioni del romanzo
{La strada di Swann / 1 Guermantes), risulti infine, se non falla­
ce (non siamo nell’ordine della verità), perlomeno revocabile:
com’è noto, il Narratore scopre un giorno con stupore (lo stes­
so che prova nel constatare che il barone di Charlus è una
Donna, la principessa Sherbatoff una tenutaria di casa chiusa,
ecc. ) che le due strade divergenti che si dipartono dalla casa
di famiglia finiscono col ricongiungersi e che il mondo di
Swann e quello di Guermantes, attraverso mille anostomosi,
finiscono per coincidere nella persona di Gilberte, figlia di
Swann e sposa di Saint-Loup.
Vi è tuttavia un momento, nella Ricerca, in cui la grande
forma dell’inversione non funziona piu. Cos’è che la blocca?
Nient’altro che la Morte. Si sa che tutti i personaggi di Proust
si ritrovano nel volume finale dell’opera (Il tempo ritrovato);
ma in quali condizioni? Nient’affatto invertiti (come avrebbe
consentito il grande lasso di tempo al fine del quale essi si tro­
vano riuniti alla matinée della principessa di Guermantes), ma
290 U N ’IDEA DI RICERCA

al contrario prolungati, fissati (piu ancora che invecchiati), pre­


servati, e si vorrebbe poter dire: «perseverati». Nella vita in
proroga l’inversione non ha piu presa: il racconto non può che
finire - al libro non resta che cominciare.

1971, «Paragone»; poi in «aut-aut», n. 193-94, gennaio-aprile 1983, tra­


duzione di Rosella Prezzo (lievemente modificata).
«Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera»

Qualcuno avrà riconosciuto la frase che ho scelto come ti­


tolo per questa conferenza: «Per molto tempo, mi sono cori­
cato presto la sera. Qualche volta, appena spenta la candela,
gli occhi mi si chiudevano cosi in fretta che non avevo il tem­
po di dire a me stesso: “Mi addormento,\ E, una mezz’ora
piu tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi sveglia­
va... »: è l’inizio della Ricerca del tempo perduto. Ciò significa
che vi propongo una conferenza «su» Proust? Si e no. Sarà
piuttosto, se volete: Proust ed io. Che pretesa! Nietzsche iro­
nizzava sull’uso che i tedeschi facevano della congiunzione
«e»: «Schopenhauer e Hartmann», diceva con sarcasmo.
«Proust ed io» è ancora più forte. Vorrei suggerire che, para­
dossalmente, la pretesa cade dal momento stesso in cui sono
io a parlare, e non qualche testimone: perché, disponendo su
una stessa riga Proust e me stesso, non voglio affatto dire che
mi paragono a questo grande scrittore, ma, in un modo del
tutto diverso, che mi identifico con lui: confusione di pratica,
non di valore. Mi spiego: nella letteratura figurativa, nel ro­
manzo, ad esempio, mi sembra che ci si identifichi piu o meno
(intendo dire a tratti) con uno dei personaggi rappresentati;
questa proiezione, credo, è la molla stessa della letteratura; in
alcuni casi marginali, però, quando il lettore è un soggetto che
vuole a sua volta scrivere un’opera, questo soggetto non si
identifica piu solo con questo o quel personaggio fittizio, ma
anche e soprattutto con l’autore stesso del libro letto, in quan­
to ha voluto scrivere quel libro e c’è riuscito. Proust, dunque,
rappresenta il luogo privilegiato di tale identificazione parti­
colare nella misura in cui la Ricerca è il racconto di un deside­
rio di scrivere: io non mi identifico con l’autore prestigioso di
un’opera monumentale, ma con l’artigiano, talvolta tormen­
tato, talvolta esaltato, comunque modesto, che ha voluto in­
traprendere un compito cui, sin dall’origine del suo progetto,
ha conferito un carattere assoluto.
« PER MOLTO TEMPO...

I.

Perciò, innanzitutto, Proust.


La Ricerca è stata preceduta da numerosi scritti: un libro,
qualche traduzione, alcuni articoli. La grande opera prende
effettivamente il via, pare, solo durante l’estate del 1909; da
allora, come è noto, è tutta una corsa ostinata contro la morte
che minaccia il libro di rimanere incompiuto. In quel 1909 vi
è stato apparentemente (anche se è vano cercar di datare con
precisione l’avvio di un’opera) un periodo cruciale di esitazio­
ne. Proust è infatti al bivio di due vie, di due generi, sospeso
tra due côtés dei quali ignora che potranno congiungersi, cosi
come il Narratore non saprà per molto tempo, fino al matri­
monio tra Gilberte e Saint-Loup, che il côté de chez Swann è
approdato al côté de Guermantes: il côté del Saggio (della Cri­
tica) e il côté del Romanzo. Quando gli muore la madre, nel
1905, Proust attraversa un periodo di prostrazione, ma anche
di sterile agitazione: ha voglia di scrivere, di produrre un’ope­
ra, ma quale? O piuttosto, in che forma? Scrive a Mme de
Noailles, nel dicembre del 1908: «Vorrei, benché malato,
scrivere su Sainte-Beuve [incarnazione dei valori estetici da
lui aborriti]. La cosa si è costruita nella mia mente in due mo­
di diversi tra i quali devo scegliere. Ma mi mancano la volontà
e la chiaroveggenza».
Voglio far osservare che l’esitazione di Proust, cui egli, co­
me è normale, dà una forma psicologica, corrisponde a un’al­
ternativa strutturale: i due côtés tra i quali egli esita sono i due
termini di una contrapposizione evidenziata da Jakobson:
quella tra\Metafora e Metonimia. La Metafora è alla base di
ogni discorso che ponga la domanda: «Che cos’è? Che cosa si­
gnifica?»; è appunto la domanda che si pone ogni Saggio. La
Metonimia, invece, propone un altro interrogativo: «Da che
cosa ciò che enuncio può essere seguito? Che cosa può genera­
re l’episodio che racconto?»; è la domanda del Romanzo. Ja­
kobson ricordava l’esperimento condotto in una classe di
bambini, ai quali era stato chiesto di reagire alla parola «ca­
panna»; alcuni rispondevano che la capanna era una casetta
(metafora), altri che era stata bruciata (metonimia); Proust è
un soggetto diviso come lo era la classe di Jakobson; sa che
qualunque incidente della vita può dar luogo o a un commen­
to (una interpretazione) o a una fabulazione che ne dà o ne
immagina il prima e il dopo narrativi: interpretare significa av-
293
viarsi sulla via della Critica, discuterne la teoria, prendendo
posizione contro Sainte-Beuve; collegare gli incidenti, le im­
pressioni, e svilupparli, vuol dire invece tessere a poco a poco
un racconto, anche se in senso lato.
L’indecisione di Proust è profonda, nella misura in cui
Proust non è un novellino (nel 1909 ha trentotto anni); ha già
scritto, e ciò che ha scritto (in particolare per quanto concerne
alcuni frammenti) è spesso caratterizzato da una forma mista,
incerta, esitante, nello stesso tempo romanzesca e intellettua­
le; ad esempio, per esporre le proprie idee su Sainte-Beuve
(campo del Saggio, della Metafora) Proust scrive un dialogo
fittizio tra se stesso e sua madre (campo del Racconto, della
Metonimia). Non solo questa indecisione è profonda, ma è
anche, forse, prescelta: Proust ha amato e ammirato scrittori
dei quali ha constatato che hanno praticato a loro volta una
certa indecisione tra i generi: Nerval e Baudelaire.
Dobbiamo restituire a questo intimo contrasto la sua pate­
ticità. Proust cerca una forma che raccolga la sofferenza (l’ha
appena conosciuta, assoluta, con la morte della madre) e la
trascenda; ora 1’«intelligenza» (parola proustiana) cui Proust
fa il processo iniziando Contro Sainte-Beuve è, secondo la tra­
dizione romantica, una potenza che ferisce o inaridisce l’af­
fetto; Novalis presentava la poesia come «ciò che guarisce le
ferite dell’intelletto »; anche il Romanzo può farlo, ma non
uno qualsiasi: un romanzo che non sia scritto secondo le idee
di Sainte-Beuve.
Ignoriamo con quale determinazione Proust sia uscito da
questa incertezza, e perché (se mai c’è stata una causa circo-
stanziale), dopo aver rinunciato a Contro Sainte-Beuve (del re­
sto rifiutato dal «Figaro» nell’agosto del 1909), si sia dedicato
interamente alla Ricerca: romanzo? Saggio? Nessuno dei due
o entrambi simultaneamente: ciò che chiamerei una terza for­
ma. Interroghiamoci per un momento su questo terzo genere.
Se ho posto a capo di queste riflessioni la prima frase della
Ricerca, è perché essa apre un episodio di una cinquantina di
pagine che, come il mandala tibetano, riunisce nella sua visio­
ne l’intera opera proustiana. Di che cosa parla questo episo­
dio? Del sonno. Il sonno proustiano ha un valore fondante:
organizza l’originalità (il «tipico») della Ricerca (ma tale orga­
nizzazione, come vedremo, è in realtà una disorganizzazione).
Naturalmente, c’è un sonno buono e uno cattivo. Il sonno
buono è quello che è aperto, inaugurato, permesso, consacra­
to dal bacio vespertino della madre; è il sonno retto, giusto,
« PER MOLTO TEMPO...

conforme alla Natura (dormire di notte, agire di giorno). Il


sonno cattivo è il sonno lontano dalla madre: il figlio dorme di
giorno, mentre la madre veglia; si vedono solo nel breve in­
crociarsi del tempo retto e del tempo invertito: risveglio per la
prima, momento di andare a letto per il secondo; non basterà
tutta l’opera per giustificare questo cattivo sonno (sotto l’a­
zione del veronal), per riscattarlo, perché è al prezzo doloroso
di tale inversione che la Ricerca, notte dopo notte, si scriverà.
Che cos’è allora in buon sonno (dell’infanzia)? È un «se­
mi-risveglio». («Ho cercato di avvolgere il mio primo capitolo
nelle impressioni del semi-risveglio»). Benché Proust parli a
un certo punto delle «profondità del nostro inconscio», que­
sto sonno non ha nulla di freudiano; non è onirico (ci sono po­
chi sogni veri e propri nella Ricerca); è invece costituito dalle
profondità del conscio in quanto disordine. Un paradosso lo
definisce bene: è un sonno che può essere scritto, perché è
una coscienza del sonno; l’intero episodio (e di conseguenza,
credo, tutta l’opera che ne consegue) si tiene sospeso in una
sorta di scandalo grammaticale: dire «dormo» è infatti, alla
lettera, tanto impossibile quanto dire « sono morto »; la scrit­
tura è appunto quell’attività che elabora la lingua - le impos­
sibilità della lingua - a vantaggio del discorso.
Che cosa fa questo sonno (o semi-risveglio)? Introduce a
una «falsa coscienza», o piuttosto, per evitare lo stereotipo,
a una coscienza falsa: una coscienza sregolata, vacillante, inter­
mittente; la corazza logica del Tempo è intaccata; non c’è piu
crono-logia (se si vogliono separare le due parti della parola):
«Un uomo che dorme [si legga: del sonno proustiano, che è un
semi-risveglio] tiene in cerchio intorno a sé il filo delle ore,
l’ordine degli anni e dei mondi... ma i loro ranghi possono spez­
zarsi, confondersi [il corsivo è mio]». Il sonno fonda un’altra
logica, una logica del Vacillamento, dell’Abbattimento delle
barriere, ed è proprio questa la nuova logica che Proust scopre
nell’episodio della madeleine, o meglio della fetta biscottata,
quale è riferito in Contro Sainte-Beuve (cioè prima della Ricer­
ca): «Rimasi immobile... quando all’improvviso le già vacil­
lanti pareti della mia memoria cedettero». Naturalmente, una
simile rivoluzione logica non può che suscitare una reazione
di inettitudine: Humblot, lettore delle edizioni Ollendorf,
dopo aver ricevuto il manoscritto della Strada di Swann, di­
chiara: « Non so se sono particolarmente ottuso, ma non capi­
sco l’interesse che può esserci nel leggere trenta pagine [per
l’appunto il nostro mandala] sul modo in cui un Signore si ri-
. . . M I SONO CORICATO PRESTO LA SERA» 295

gira nel letto prima di addormentarsi». L’interesse è invece


capitale: si tratta di aprire le paratie del Tempo: scardinata la
crono-logia, dei frammenti, intellettuali o narrativi, si orga­
nizzeranno in una successione sottratta alla legge ancestrale
del Racconto o del Ragionamento, e tale successione produrrà
la terza forma, né Saggio né Romanzo. La struttura di quest’o­
pera sarà, precisamente, rapsodica, cioè (etimologicamente)
cucita; si tratta del resto di una metafora proustiana: l’opera si
fa come un vestito; il testo rapsodico implica un’arte origina­
le, come quella della sarta: parti, pezzi, sono sottoposti a in­
croci, collegamenti, richiami: un vestito non è un patchwork,
come non lo è la Ricerca.
Nata dal sonno, l’opera (la terza forma) riposa su un princi­
pio provocatorio: la disorganizzazione del Tempo (della crono­
logia). E, questo, un principio molto moderno. Bachelard
chiama ritmo quella forza che mira a «sbarazzare l’anima dalle
false persistenze delle durate riuscite male», e tale definizione
si applica benissimo alla Ricerca, il cui sforzo, grandioso, è di
sottrarre il tempo rammemorato alla falsa persistenza della
biografia. Nietzsche, in modo piu lapidario, dice che «bisogna
sbriciolare l’universo, perdere il rispetto del tutto», e John
Cage, profetizzando circa l’opera musicale, annuncia: «In
ogni modo, il tutto produrrà una disorganizzazione». Questo
vacillamento non è un’anarchia aleatoria di associazioni di
idee: «Vedo, - dice Proust con una certa amarezza, - i lettori
immaginare che io scriva, affidandomi ad arbitrarie e fortuite
associazioni di idee, la storia della mia vita». In effetti, per ri­
prendere l’espressione di Bachelard, si tratta di un ritmo, e
molto complesso: «sistemi di istanti» (ancora Bachelard) si
susseguono, ma si nspondono anche. Ciò che il principio di va­
cillamento disorganizza, infatti, non è l’intelligibile del Tem­
po, ma la logica illusoria della biografia, in quanto essa segue
tradizionalmente l’ordine puramente matematico degli anni.
Tale disorganizzazione della biografia non ne è la distruzio­
ne. Nell’opera, numerosi elementi della vita personale sono
conservati, in modo reperibile, ma in un certo senso, vengono
dislocati. Segnalerò due casi, in quanto non si riferiscono a
dettagli (le biografie di Proust ne sono piene), ma a grandi op­
zioni creative.
Il primo spostamento è quello della persona enunciatrice
(nel senso grammaticale della parola «persona»). L’opera
proustiana mette in scena - o in scrittura - un «io» (il Narra­
tore); tale «io», però, se cosi si può dire, non è già piu un moi
296 « PER M OLTO T E M P O . ..

(soggetto e oggetto dell’auto-biografia tradizionale): «io» non


è quello che si ricorda, si confida, si confessa, è quello che
enuncia; quello che questo «io» mette in scena è un moi di
scrittura, i cui legami con il moi civile sono incerti, spostati.
Proust stesso lo ha spiegato bene: il metodo di Sainte-Beuve
misconosce «che un libro è il prodotto di un “io” [moi] diver­
so da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella so­
cietà, nei nostri vizi ». Il risultato di tale dialettica è che è va­
no chiedersi se il Narratore della Ricerca sia Proust (nel senso
anagrafico del patronimico): è semplicemente un altro Proust,
spesso sconosciuto da lui stesso.
Il secondo spostamento è piu flagrante (piu facile da defini­
re): nella Ricerca c’è sicuramente del récit (non è un saggio),
ma tale récit non è quello di una vita che il Narratore prende
dalla nascita e porta avanti di anno in anno fino al momento
in cui prende la penna per raccontarla. Ciò che Proust raccon­
ta, ciò che mette in récit (insistiamo), non è la sua vita, ma il
suo desiderio di scrivere: il Tempo pesa su tale desiderio, lo
mantiene in una cronologia; egli1(i campanili di Martinville,
la frase di Bergotte), va incontro a prove, scoraggiamenti (il
giudizio del signor di Norpois, il prestigio ineguagliabile del
Journal dei Goncourt), per trionfare infine, quando il Narra­
tore, recandosi alla matinée Guermantes, scopre ciò che dovrà
scrivere: il Tempo ritrovato, e nello stesso tempo si rassicura
che potrà scrivere: la Ricerca (peraltro già scritta).
E evidente, ciò che accade nell’opera è davvero la vita del­
l’autore, ma una vita disorientata. Painter, il biografo di
Proust, ha visto giustamente che la Ricerca era costituita da
quella che egli ha chiamato una «biografia simbolica», o anco­
ra «una storia simbolica della vita di Proust»: Proust ha com­
preso (è questo il suo genio) che non doveva «raccontare» la
sua vita, ma che la sua vita aveva nondimeno il significato di
un’opera d’arte: «La vita di un uomo di un certo valore è una
continua allegoria», ha detto Keats, citato da Painter. La po­
sterità dà sempre piu ragione a Proust: la sua opera non è piu
letta solo come un monumento della letteratura universale,
ma come l’espressione appassionante di un soggetto assoluta-
mente personale che ritorna incessantemente sulla propria vi­
ta, non come su un curriculum vitae ma come su una costella­
zione di circostanze e figure. Cominciamo ad amare sempre
piu non «Proust» (nome anagrafico di un autore schedato nel-

[Errore di stampa nel testo francese che lo rende incomprensibile].


297
le Storie della letteratura), ma «Marcel», essere singolare,
bambino e adulto insieme, puer senilis, appassionato e saggio,
preda di manie eccentriche e luogo di una riflessione sovrana
sul mondo, l’amore, Parte, il tempo, la morte. Ho proposto di
chiamare questo interesse specialissimo che i lettori riservano
alla vita di Marcel Proust (l’album fotografico della sua vita è
esaurito da molto tempo nella collana della «Pleiade») il
«marcellismo», per distinguerlo dal «proustismo», che an­
drebbe a rappresentare solo il gusto per un’opera o per una
maniera letteraria.
Se ho messo in luce nell’opera-vita di Proust il tema di una
nuova logica che permette - che ha in ogni caso permesso a
Proust - di abolire la contraddizione tra Romanzo e Saggio, è
perché questo tema mi riguarda personalmente. Perché? È
quanto spiegherò ora. Parlerò dunque di «me». «M e» deve
intendersi qui nel senso piu forte: non è il sostituto asettico di
un lettore generico (ogni sostituzione è una asepsi); non è altri
se non colui cui nessuno può sostituirsi, nel meglio come nel
peggio. E Vintimo che vuole parlare in me, far sentire il suo
grido, di fronte alla generalità, alla scienza.

Dante (ancora un incipit celebre, ancora un punto di riferi­


mento schiacciante) inizia cosi la sua opera: «Nel mezzo del
cammin di nostra vita...» Nel 1300 Dante aveva trentacinque
anni (morirà ventun anni più tardi). Io ne ho molti di piu, e
quel che mi rimane da vivere non sarà mai piu la metà di quel
che avrò vissuto. Perché il «mezzo... di nostra vita» non è
evidentemente un punto aritmetico: nel momento in cui par­
lo, come potrei conoscere la durata totale della mia esistenza,
tanto da poterla dividere in due parti uguali? E un punto se­
mantico, l’istante, forse tardivo, in cui nella mia vita soprav­
viene il richiamo di un nuovo senso, il desiderio di una muta­
zione: cambiare vita, rompere e inaugurare, sottopormi a
un’iniziazione, come Dante quando si inoltra nella selva oscu­
ra, sotto la guida di un grande iniziatore, Virgilio (e per me,
almeno nel tempo di questa conferenza, l’iniziatore è Proust).
L’età, non è necessario ricordarlo - ma bisogna ricordarlo,
dal momento che ciascuno vive con indifferenza l’età dell’al­
tro -, è solo parzialmente un dato cronologico, un rosario di
anni; ci sono classi, scompartì di anni: percorriamo la vita di
« PER MOLTO TEMPO...

chiusa in chiusa; in certi punti del percorso ci sono soglie, di­


slivelli, scosse; l’età non è progressiva, è mutativa: considera­
re la propria età, se è una certa età, non è perciò una civetteria
che debba comportare benevole proteste; piuttosto è un com­
pito attivo: quali sono le forze reali che la mia età implica e
vuole mobilitare? Questa è la domanda, sorta recentemente,
che, mi pare, ha fatto del momento presente il «mezzo del
cammin della mia vita ».
Perché oggi?
Sopraggiunge un tempo (si tratta di un problema di co­
scienza) in cui «i giorni sono contati»: inizia un conto alla ro­
vescia impreciso e tuttavia irreversibile. Ci sapevamo mortali
(tutti ce lo hanno detto, da quando abbiamo avuto le orecchie
per intendere); improvvisamente, ci sentiamo mortali (non è
una sensazione naturale; narurale è piuttosto credersi immor­
tali, donde tanti incidenti dovuti a imprudenza). Questa evi­
denza, dal momento in cui è vissuta, provoca uno sconvolgi­
mento del paesaggio: devo, imperiosamente, sistemare il mio
lavoro in uno scomparto dai contorni incerti, ma di cui so
(nuova coscienza) che sono finiti: l’ultimo scomparto. O me­
glio, visto che lo scomparto è disegnato, perché non vi sono
piu «extra», il lavoro che mi appresto a collocarvi assume una
sorta di solennità. Come Proust malato, minacciato dalla mor­
te (o convinto di esserlo), ritroviamo le parole di san Giovan­
ni, citate, in modo approssimativo, nel Contro Sainte-Beuve:
«Lavorate finché avete ancora la luce».
E poi arriva un tempo (il medesimo) in cui ciò che si è fat­
to, lavorato, scritto, sembra come votato alla ripetizione: ma
come, fino alla morte scriverò articoli, terrò corsi, farò confe­
renze su «argomenti» chevsaranno i soli a variare, e cosi poco!
(È il «su» che mi turba). E una sensazione crudele, perché mi
rinvia alla preclusione di qualsiasi Nuovo, o dell’Avventura
(ciò che mi «accade»); vedo il mio avvenire, fino alla morte,
come un «tran-tran»: quando avrò finito questo testo, questa
conferenza, non avrò nient’altro da fare che cominciarne
un’altra, un’altra ancora? No, Sisifo non è felice: è alienato
non dallo sforzo richiesto dal suo lavoro, e neppure dalla sua
inutilità, ma dalla sua ripetitività.
Può infine sopravvenire un evento (e non piu solo una con­
sapevolezza) che segnerà, inciderà, articolerà quell’insabbia­
mento progressivo del lavoro, e determinerà quella mutazio­
ne, quel rovesciamento di paesaggio che ho chiamato «mez­
zo... di nostra vita». Rancé, cavaliere della fronda, dandy
299

mondano, ritorna da un viaggio e scopre il corpo della sua


amante, decapitata da un incidente: si ritira e fonda la Trap-
pa. Per Proust, il «mezzo del cammin» fu certamente la mor­
te della madre (1905), anche se il mutamento della sua esi­
stenza, Γinizio dell’opera nuova ebbe luogo solo alcuni anni
dopo. Un lutto crudele, un lutto unico e irrimediabile può co­
stituire per me quel «vertice del privato» di cui parlava
Proust; benché tardivo, questo lutto sarà per me il mezzo del­
la mia vita; perché il «mezzo... di nostra vita» non è forse al­
tro che il momento in cui si scopre che la morte è reale, e non
piu solo temibile.
Cosi andando, affiora all’improvviso questa evidenza: da
un lato, non ho piu il tempo di sperimentare varie vite: devo
scegliere la mia ultima vita, la mia vita nuova, «Vita Nova»,
come diceva Michelet sposando a cinquantanni una ragazza
che ne aveva venti, e apprestandosi a scrivere nuovi libri di
storia naturale; e dall’altro, devo uscire da quello stato tene­
broso (la teologia medievale parlava di acidia) cui mi conduco­
no l’usura dei lavori ripetuti e il lutto. Ora, per chi scrive, per
chi ha scelto di scrivere, non ci può essere «vita nuova», pen­
so, se non nella scoperta di una nuova pratica di scrittura.
Cambiare dottrina, teoria, filosofia, metodo, credenza, anche
se sembra spettacolare, è in realtà banalissimo: lo si fa come si
respira; si investe, si disinveste, si reinveste: le conversioni in­
tellettuali sono la pulsione stessa dell’intelligenza, se è attenta
alle sorprese del mondo; ma la ricerca, la scoperta, la pratica
di una forma nuova, questo, credo, è a misura di quella Vita
Nova di cui ho detto come si determina.
È qui, in questo mezzo del mio cammino, in questo vertice
del mio privato, che ho ritrovato due letture (in verità fatte
cosi spesso che non le posso datare). La prima è quella di un
grande romanzo, come, ahimè, non se ne scrivono piu: Guena
e pace di Tolstoj. Non parlo qui di un’opera, ma di uno scon­
volgimento: sconvolgimento che ha per me il suo apice quan­
do muore il vecchio principe Bol’konskij, nelle ultime paro­
le che egli rivolge alla figlia Maria, nell’esplosione di tenerez­
za che, con l’approssimarsi della morte, lacera questi due es­
seri che si amavano senza mai pronunciare il discorso (il vani­
loquio) dell’amore. La seconda lettura è quella di un episodio
della Ricerca (quest’opera interviene qui a tu tt’altro titolo ri­
spetto all’inizio di questa conferenza: mi identifico ora con il
Narratore, non con lo scrittore), cioè la morte della nonna; è
un racconto di una purezza assoluta; voglio dire che in esso il
« PER MOLTO TEMPO...

dolore è puro nella misura in cui non è commentato (contra­


riamente ad altri episodi della Ricerca) e in cui l’atrocità della
morte che sopraggiunge, che separerà per sempre, è detta solo
attraverso oggetti e incidenti indiretti: la sosta nel padiglione
degli Champs Élysées, la povera testa che ciondola sotto i col­
pi di pettine di Françoise.
Da queste due letture, dall’emozione che esse suscitano
sempre in me, trarrò due lezioni. La prima constatazione è
stata che recepivo questi due episodi (non trovo altra espres­
sione) come «momenti della verità»: all’improvviso la lettera­
tura (poiché di essa si tratta) coincide in modo assoluto con
una lacerazione emotiva, con un «grido»; direttamente dal
corpo del lettore che vive, come ricordo o previsione, la sepa­
razione dall’essere amato, è posta una trascendenza: quale Lu­
cifero ha creato al tempo stesso l’amore e la morte? Il «mo­
mento di verità» non ha nulla a che vedere con il «realismo»
(è del resto assente da tutte le teorie del romanzo). Il «mo­
mento della verità», supposto che si accetti di farne una no­
zione analitica, implicherebbe un riconoscimento del pathos,
nel senso semplice e non peggiorativo del termine, e la scienza
letteraria, cosa strana, misconosce il pathos come forza di let­
tura; Nietzsche ci potrebbe aiutare a fondare la nozione, ma
siamo ancora lontani da una teoria o da una storia patetica del
Romanzo; bisognerebbe infatti, per abbozzarla, accettare di
frantumare il «tutto» dell’universo romanzesco, non porre
più il senso del libro nella sua struttura, ma riconoscere invece
che l’opera commuove, vive, germina, attraverso una specie
di « sfacelo » che lascia intatti solo certi momenti, che ne costi­
tuiscono propriamente i vertici, la lettura viva, coinvolta, che
segue in un certo senso solo il profilo di una cresta: i momenti
della verità sono, in un certo senso, i punti di plusvalore dell’a­
neddoto.
La seconda lezione, dovrei dire il secondo coraggio che ho
tratto dal contatto bruciante con il Romanzo, è che bisogna
accettare che l’opera da fare (perché mi definisco come «colui
che vuole scrivere») rappresenta attivamente, senza dirlo, un
sentimento di cui ero sicuro, ma che fatico a nominare, per­
ché non posso uscire da una cerchia di parole logorate, di dub­
bia validità a forza di essere usate senza rigore. Ciò che posso
dire, ciò che non posso far altro che dire, è che questo senti­
mento che deve animare l’opera attiene al campo dell’amore:
che cos’è? La bontà? La generosità? La carità? Forse, molto
3OI

semplicemente, dal momento che Rousseau gli ha dato la di­


gnità di un «filosofema»: la pietà (o la compassione).
Mi piacerebbe un giorno sviluppare questo potere del Ro­
manzo - potere amante e magnetico {aimant) o amoroso (certi
mistici non dissociavano Agapé da Eros) - o in un Saggio (ho
parlato di una Storia patetica della Letteratura) o in un Ro­
manzo, fermo restando che chiamo cosi, per comodità, ogni
Forma che sia nuova rispetto alla mia pratica passata, al mio
discorso passato. Questa forma, non posso sottometterla in
anticipo alle regole strutturali del Romanzo. Posso soltanto
chiederle di adempiere ai miei occhi a tre missioni. La prima
sarebbe di permettermi di dire quelli che amo (Sade - si, pro­
prio Sade - diceva che il romanzo consiste nel dipingere chi
si ama), e non di dir loro che li amo (il che sarebbe un proget­
to specificamente lirico); spero dal Romanzo una sorta di tra­
scendenza dell’egotismo, nella misura in cui dire coloro che si
amano è testimoniare che essi non hanno vissuto (e molto
spesso sofferto) «per nulla»: dette, attraverso la scrittura so­
vrana, la malattia della madre di Proust, la morte del vecchio
principe Borkonskij, il dolore della figlia Maria (persone della
famiglia stessa di Tolstoj), l’infelicità di Madeleine Gide (in
Et nunc manet in te) non cadono nel nulla della Storia: queste
vite, queste sofferenze sono raccolte, giustificate (cosi va in­
teso il tema della Resurrezione nella Storia di Michelet). La
seconda missione che affiderei a tale Romanzo (vagheggiato,
e probabilmente impossibile) sarebbe di permettermi la rap­
presentazione di un ordine affettivo, pienamente, ma indiret­
tamente. Leggo un po’ dappertutto che è segno di una sensi­
bilità molto «moderna» «nascondere la propria tenerezza»
(sotto giochi di scrittura); ma perché? Sarebbe piu «vera»,
avrebbe maggior valore perché si affetta di nasconderla? Una
certa morale oggi disprezza e condanna l’espressione del pa­
thos (nel senso semplice che ho detto), sia a vantaggio del ra­
zionale politico, sia a vantaggio del pulsionale, del sessuale; il
Romanzo, come io lo leggo o lo desidero, è per l’appunto
quella Forma che, delegando a dei personaggi il discorso affet­
tivo, permette di dire apertamente tale affetto: in esso il pate­
tico è enunciabile, perché il Romanzo, essendo rappresenta­
zione e non espressione, non può mai essere per colui che lo
scrive un discorso in malafede. Infine, e forse soprattutto, il
Romanzo (intendo sempre quella Forma incerta, poco canoni­
ca nella misura in cui non la concepisco, ma la rammemoro o
la desidero soltanto), dal momento che la sua scrittura è me-
« PER MOLTO TEM PO ...

diata (presenta le idee, i sentimenti solo attraverso interme­


diari), non fa pressione sull'altro (il lettore); la sua istanza è la
verità degli affetti, non quella delle idee: non è dunque mai
arrogante, terroristico: secondo la tipologia nietzschiana, si
pone dalla parte dell'Arte non del Sacerdozio.
Tutto questo significa forse che scriverò un romanzo? Non
lo so. Non so se sarà possibile chiamare ancora «romanzo»
l'opera che desidero e dalla quale mi aspetto che rompa con la
natura uniformemente intellettuale dei miei scritti passati (an­
che se molti elementi romanzeschi ne alterano il rigore). Di
questo Romanzo utopico, mi interessa fare come se dovessi
scriverlo. E ritrovo qui, in conclusione, il metodo. Mi pongo
infatti nella posizione di colui che fa qualcosa, e non piu di co­
lui che parla su qualcosa: non studio un prodotto, assumo una
produzione; abolisco il discorso sul discorso; il mondo non
viene piu a me sotto forma di un oggetto, ma di una scrittura,
cioè di una pratica: passo a un altro tipo di sapere (quello del­
l’Amatore), ed è in questo che sono metodico. «Come se»:
questa formula non è forse l'espressione propria di un cammi­
no scientifico, quale vediamo in matematica? Faccio un’ipote­
si ed esploro, scopro la ricchezza di ciò che ne deriva; postulo
un romanzo da fare, e cosi facendo posso sperare di imparare
di piu sul romanzo che non considerandolo solo come un og­
getto già fatto dagli altri. Forse è proprio nel cuore di questa
soggettività, di questa stessa intimità sulla quale vi ho intrat­
tenuto, forse è al «vertice del mio privato» che sono scienti­
fico senza saperlo, confusamente volto verso quella Scienza
Nuova di cui parlava Vico: non dovrà forse, tale scienza,
esprimere al tempo stesso lo splendore e il dolore del mondo,
ciò che in esso mi seduce e mi indigna?

Conferenza al Collège de France, 1978. Questo testo è stato pubblicato


fuori commercio nella serie degli «Inédits du Collège de France», n. 3,
1982.
Prefazione a Tricks
di Renaud Camus

- Perché ha accettato di scrivere la prefazione al libro di


Renaud Camus?
- Perché Renaud Camus è uno scrittore, il suo testo è let­
teratura, non può dirlo lui e perciò bisogna che qualcuno lo
dica al suo posto.
- Se questo testo è letterario, si dovrebbe vedere.
- Si vede, o si capisce, sin dal primo giro di frase, da un
certo modo immediato di dire «io», di condurre il racconto.
Ma siccome questo libro sembra parlare, e crudamente, di
sesso, di omosessualità, qualcuno forse dimenticherà la lette­
ratura.
- Sarebbe come dire che per lei affermare la natura lettera­
ria di un testo è un modo di sdoganarlo, di sublimarlo, di pu­
rificarlo, di conferirgli una sorta di dignità che quindi, secon­
do lei, il sesso non avrebbe?
- Niente affatto: la letteratura è fatta per dare un supple­
mento di piacere, non di decenza.
- Ebbene, inizi pure; ma sia breve.
L’omosessualità scandalizza meno, ma continua a interes­
sare; è ancora a uno stadio di eccitazione tale per cui provoca
quelle che potremmo chiamare prodezze del discorso. Parlar­
ne permette a coloro «che non c’entrano» (espressione già re­
gistrata da Proust) di mostrarsi aperti, liberali, moderni; e a
coloro «che c’entrano» di testimoniare, rivendicare, militare.
Ognuno si dà da fare, in sensi diversi, per esibirla.
Proclamarsi qualcosa, tuttavia, significa sempre parlare sot­
to l’istanza di un Altro vendicatore, entrare nel suo discorso,
discutere con lui, chiedergli una parte di identità: «Lei è ...-
Si, io sono...» In fondo, non conta molto l’attributo; ciò che
la società non tollererebbe è che io sia... nulla, o, per essere
piu precisi, che il qualcosa che sono sia dato apertamente per
transitorio, revocabile, insignificante, inessenziale, insomma:
PREFAZIONE A «TRICKS » DI R. CAMUS

impertinente. Dite soltanto: «Io sono», e socialmente sarete


salvi.
Rifiutare Γingiunzione sociale è possibile adottando quella
forma di silenzio che consiste nel dire le cose semplicemente.
Dire semplicemente appartiene a un’arte superiore: la scrittu­
ra. Prendete le produzioni spontanee, le testimonianze parla­
te e poi trascritte, che sono sempre piu usate dalla stampa e
dall’editoria. Quale ne sia l’interesse «umano», c’è in esse
qualcosa che suona falso (almeno alle mie orecchie): forse, pa­
radossalmente, un eccesso di stile (fare dello «spontaneo», del
«vivo», del «parlato»). Si produce insomma una intersezione:
lo scritto autentico sembra fabulatorio; perché risulti vero de­
ve diventare testo, passare attraverso gli artifici culturali della
scrittura. La testimonianza sale di tono, chiama a testimoni la
natura, gli uomini, la giustizia; il testo avanza lentamente, si­
lenziosamente, ostinatamente - e arriva piu in fretta. La real­
tà è finzione, la scrittura è verità: è questo il trucco del lin­
guaggio.
I Tricks di Renaud Camus sono semplici. Ciò significa che
parlano l’omosessualità, ma non parlano mai di essa: in nes­
sun momento la invocano (la semplicità consisterebbe in que­
sto: non invocare mai, non permettere che nel linguaggio in­
tervengano i Nomi, fonte di dispute, di arroganze, di morali).
La nostra epoca interpreta molto, ma i racconti di Renaud
Camus sono neutri, non entrano nel gioco dell’Interpretazio­
ne. Sono una specie di fondo uniforme, senza ombre e come
senza anière-pensées. Solo la scrittura, ancora una volta, per­
mette quella purezza, quel mattino dell’enunciazione, scono­
sciuto alla parola, che è sempre un intreccio contorto di inten­
zioni nascoste. Se non fosse per le loro dimensioni e il loro
soggetto, i Tricks dovrebbero far pensare a degli haiku\ Γhai­
ku, infatti, unisce un ascetismo della forma (che spegne ogni
velleità di interpretazione) e un edonismo cosi tranquillo che
è possibile parlare del piacere solo dicendo che c'è (e anche
questo è il contrario dell’Interpretazione).
Le pratiche sessuali sono banali, povere, ripetitive, e tale
povertà è sproporzionata rispetto alla meraviglia per il piacere
che procurano. Ma, poiché tale meraviglia non può essere det­
ta (in quanto appartiene all’ordine del godimento), al linguag­
gio non resta altro che raffigurare, o meglio ancora cifrare, nel
modo piu economico, una serie si operazioni che in ogni caso
gli sfuggono. Le scene erotiche devono essere descritte con
parsimonia. Parsimonia che, in questo caso, è l’economia del-
PREFAZIONE A «TRICK S» DI R. CAMUS 305

la frase. Il buon scrittore è quello che lavora la sintassi in mo­


do da concatenare piu azioni nello spazio di linguaggio piu
breve (in Sade c’è tutta un’arte delle subordinate); la funzione
della frase è, in un certo senso, di alleggerire l’operazione car­
nale delle sue lungaggini e dei suoi sforzi, dei suoi rumori e
dei suoi pensieri accessori. In questo senso, le scene finali di
Tricks restano interamente sotto il potere della scrittura.
Ma ciò che preferisco in Tricks sono i «preparativi»: la
deambulazione, la vigile attesa, i giochi di seduzione, l’ap­
proccio, la conversazione, il dirigersi verso la camera, l’ordine
(o il disordine) domestico del luogo. Il realismo si sposta: non
è la scena d ’amore ad essere realistica (o almeno, il suo reali­
smo non è pertinente), ma la scena sociale. Due ragazzi, che
non si conoscono ma sanno che diventeranno partners in un
gioco, rischiano tra di loro quel po’ di linguaggio cui li obbliga
il tragitto che devono percorrere insieme prima di raggiungere
il terreno d’incontro. Il tnck lascia allora la pornografia (prima
ancora di averla sfiorata) e raggiunge il romanzo. La suspence
(perché questi Tricks, credo, si leggono con coinvolgimento)
concerne non le pratiche, scontate (è il meno che si possa di­
re), ma i personaggi: chi sono? Come si differenziano gli uni
dagli altri? Ad affascinarmi, in Tùcks, è il gioco di intersezio­
ni: le scene, indubbiamente, sono tu tt’altro che pudiche,
mentre lo sono le espressioni: esse dicono in sordina che il ve­
ro oggetto del pudore non è la Cosa («La Cosa, sempre la Co­
sa», diceva Charcot citato da Freud), ma la persona. E questo
passaggio dal sesso al discorso che trovo riuscito, in Tricks.
Si tratta di una forma si sottigliezza del tutto sconosciuta al
prodotto pornografico, che inscena desideri, non fantastiche­
rie. Ciò che eccita la fantasia, infatti, non è il sesso, ma il ses­
so piu «l’anima». È impossibile spiegare i colpi di fulmine,
piccoli o grandi che siano, semplici attrazioni o rapimenti
wertheriani, senza ammettere che ciò che si ricerca nell’altro
è qualcosa che chiameremo, in mancanza di meglio e a prezzo
di una grande ambiguità, la persona. Alla persona è legata una
sorta di quid che agisce come una testata di missile a ricerca
automatica del bersaglio, e fa si che proprio quella particolare
immagine, tra migliaia di altre, mi raggiunga e mi conquisti. I
corpi si possono suddividere in un numero finito di tipi (« E
proprio il mio tipo»), ma la persona è assolutamente indivi­
duale. I Tncks di Renaud Camus cominciano sempre con rin ­
contro del tipo cercato (perfettamente codificato: potrebbe fi­
gurare in un catalogo o in una pagina di inserzioni); non appe-
PREFAZIONE A «TRICKS » DI R. CAMUS

na compare il linguaggio, però, il tipo si trasforma in persona


e la relazione diventa inimitabile, qualunque sia la banalità
dei primi approcci. La persona si svela a poco a poco, legger­
mente, senza supporti psicologici, nel modo di vestire, nel di­
scorso, nell’accento, nell’arredamento della camera, in tutto
quel che potremmo chiamare il «domestico» dell’individuo,
ciò che eccede la sua anatomia e di cui egli ha tuttavia la ge­
stione. Tutto ciò viene a poco a poco ad arricchire o a rallen­
tare il desiderio. Il trick é dunque omogeneo al movimento
amoroso: è un amore virtuale, sospeso volontariamente da en­
trambe le parti, per contratto, sottomissione al codice cultu­
rale, che assimila la drague al dongiovannismo.
I THcks si ripetono: il soggetto fa del surplace. La ripetizio­
ne è una forma ambigua: talvolta denota lo scacco, l’impoten­
za; talaltra si può leggere come un’aspirazione, come il movi­
mento ostinato di una ricerca che non si scoraggia: si potreb­
be benissimo far passare il racconto di drague come la metafo­
ra di un’esperienza mistica (forse anche questo è stato fatto;
nella letteratura, infatti, esiste tutto: il problema è sapere do­
ve). Né l’una né l’altra di queste interpretazioni, apparente­
mente, si addice a THcks: né alienazione né sublimazione; ma
è comunque un po’ come la conquista metodica di una felicità
(ben disegnata, ben delimitata: discontinua). La carne non è
triste (ma farlo capire è una forma d ’arte).
I THcks di Renaud Camus hanno un tono inimitabile. Ciò
deriva dal fatto che la scrittura implica qui un’etica del dialo­
go. Tale etica è quella della Benevolenza, che è sicuramente la
virtù piu contraria alla caccia amorosa, e dunque la piu rara.
M entre a presiedere al contratto erotico sono di solito delle
specie di Arpie, che lasciano ciascuno nella sua gelida solitu­
dine, qui è la dea Eunoia, l’Eumenide, la Benevola ad accom­
pagnare i due partners: certo, letterariamente parlando, de­
v’essere piacevole essere «triccati» da Renaud Camus, anche
se i suoi compagni non sembrano sempre consapevoli di tale
privilegio (ma noi lettori siamo il terzo orecchio di questi dia­
loghi: grazie a noi, quel po’ di Benevolenza non è stato dato
invano). La dea ha del resto il suo corteggio: l’Educazione,
l’Amabilità, lo Humour, lo Slancio generoso, come quello che
coglie il narratore (durante un tHck americano) e lo fa delirare
garbatamente sull’autore di questa prefazione.
Tnck è l’incontro che ha luogo una sola volta: meglio di
una drague, meno di un amore: un’intensità che passa, senza
rimpianto. Per me, trick diventa perciò la metafora di molte
PREFAZIONE A «TRICKS » DI R. CAMUS 307

avventure, e non soltanto sessuali: incontro di uno sguardo,


di un’idea, di un’immagine, cameratismo effimero e forte,
che accetta di snodarsi leggermente, bontà infedele; un modo
di non invischiarsi nel desiderio, senza però evitarlo: una for­
ma di saggezza, insomma.

© Éditions Persona, 1979.


Non si riesce mai a parlare di ciò che si ama

Qualche settimana fa ho fatto un breve viaggio in Italia. Di


sera, alla stazione di Milano, faceva freddo, c’era una leggera
nebbia mista a una pioggia sottile. Un treno partiva; su ogni
vagone un cartello giallo recava la scritta «Milano-Lecce ». Al­
lora ho fatto un sogno: prendere quel treno, viaggiare tutta la
notte e ritrovarmi il mattino nella luce, la dolcezza, la calma
di una città del tutto diversa. È almeno ciò che immaginavo,
e non ha molta importanza come sia realmente Lecce, che non
conosco. Parodiando Stendhal \ avrei potuto esclamare: RNF π
«Vedrò dunque questa bella Italia! Che pazzo sono ancora al­
la mia età! » Perché la bella Italia è sempre piu lontana, al­
trove.
L’Italia di Stendhal è infatti una fantasia, anche se in parte
l’ha realizzata (Ma l’ha realizzata davvero? Dirò in conclusio­
ne in che modo). L ’immagine fantastica ha fatto irruzione
nella sua vita, bruscamente, come un colpo di fulmine. Il col­
po di fulmine ha assunto le sembianze di un’attrice che canta­
va a Ivrea II matrìmonio segreto di Cimarosa; l’attrice aveva un H B 428
dente spezzato proprio sul davanti, ma in verità questo non
ha molta importanza per il colpo di fulmine: W erther si è in­
namorato di Charlotte scorgendola attraverso il riquadro di
una porta intenta a spalmare di burro delle fette di pane per i
fratellini, e questa prima visione, pur cosi semplice e domesti­
ca, lo porterà alla piu forte delle passioni e al suicidio. E noto
che l’Italia è stata per Stendhal oggetto di un vero e proprio
transfert, ed è altrettanto noto che a caratterizzare il transfert
è la sua gratuità, il suo determinarsi senza una ragione appa-1

1 I riferimenti a margine rinviano a Rom e, Naples, Florence (impaginazione


dell’edizione J.-J. Pauvert, Paris 1955, oppure, quando è accompagnata dalla sigla
PI, dell’edizione «Pléiade», Gallimard, Paris 1973), a Henrì Brulard (impaginazione
dell’edizione «Folio», Gallimard, Paris 1973), alla Chartreuse de Parme e a D e l ’a-
m our (edizione «Livre de Poche», Paris 1969).
NON SI RIESCE M A I...

rente. La musica è per Stendhal il sintomo dell’atto misterioso


con cui ha avuto inizio il suo transfert - il sintomo, cioè la co­
sa che libera e maschera insieme l’irrazionale della passione.
Una volta fissata la scena iniziale, infatti, Stendhal la riprodu­
ce ininterrottamente, come un innamorato che voglia ritrova­
re quell’elemento capitale che regola tante delle nostre azioni:
RNF i2 il primo piacere. «Arrivo alle sette di sera, morto di stanchez­
za; corro alla Scala. Il mio viaggio è ripagato, ecc. »: si direb­
be un maniaco che sbarca in una città propizia alla sua passio­
ne e la sera stessa si precipita nei luoghi di piacere che ha già
individuato.
I segni di una vera passione sono sempre un po’ incongrui,
al punto che gli oggetti sui quali si riversa il transfert si fanno
fragili, futili, imprevedibili. Ho conosciuto qualcuno che ama­
va il Giappone come Stendhal amava l’Italia; in lui riconosce­
vo la stessa passione dal fatto che era innamorato, tra l’altro,
delle bocche antincendio dipinte di rosso che si incontrano
per le vie di Tokyo, cosi come Stendhal adorava il granoturco
H B 430 della campagna milanese (definita «lussureggiante»), il suono
RNF 64 delle otto campane del Duomo, perfettamente « intonate » (in
H B 431 italiano nel testo), o le cotolette impanate che gli ricordavano
Milano. In questa promozione amorosa di quanto è comune­
mente ritenuto un dettaglio insignificante è individuabile un
elemento costitutivo del transfert (o della passione): la parzia­
lità. C ’è nell’amore per un paese straniero una sorta di razzi­
smo alla rovescia: si è incantati dalla differenza, ci si annoia
del Medesimo, si esalta l’Altro; la passione è manichea: per
Stendhal sul versante cattivo c’è la Francia, cioè la patria -
ovvero il luogo del Padre -, e su quello buono c’è l’Italia, cioè
la matria, lo spazio in cui sono riunite «le Donne» (senza di­
menticare che fu la zia Elisabeth, sorella del nonno materno,
a indicare al bambino un paese piu bello della Provenza, affer­
mando che ne era originario il ramo migliore della famiglia,
quello dei Gagnon). E una contrapposizione che si potrebbe
HB π definire fisica: l’Italia è l’habitat naturale, dove la Natura si ri­
trova grazie alle Donne, «che ascoltano il genio naturale del
paese», al contrario degli uomini, «rovinati dai pedanti»; la
Francia, al contrario, è il luogo che ripugna «fino al disgusto
431 fisico». Tutti noi che abbiamo sperimentato la passione sten-
dhaliana per un paese straniero (è accaduto anche a me per l’I­
talia - che ho scoperto tardi scendendo a Milano attraverso il
Sempione alla fine degli anni cinquanta -, e poi per il Giap­
pone) conosciamo bene l’insopportabile fastidio che provoca
A PARLARE DI CIO CHE SI AMA 3 11

rincontro casuale con un compatriota nel paese adorato: R N F 32


«Confesserò, anche se Tonore nazionale dovesse ripudiarmi,
che un Francese in Italia ha il dono di distruggere il mio buon­
umore in un attimo »; inversioni del genere sono, evidente­
mente, la specialità di Stendhal: appena varcata la Bidassoa,
trova affascinanti i soldati e i doganieri spagnoli; possiede
quella rara passione che è la passione dell’altro - o, per dirlo
in modo piu sottile: la passione di quell’altro che è in lui
stesso.
Stendhal è dunque innamorato dell’Italia: non bisogna
prendere questa frase per una metafora. E quanto cerco di di­
mostrare. «E come l ’amore, - dice: - eppure non sono inna­ RNF
morato di nessuno». Questa passione non è confusa né diffu­ PI 98
sa; si riversa, come ho detto, su dettagli precisi; ma rimane
plurale. Ciò che è amato e, se cosi posso esprimermi, ciò che è
goduto sono collezioni, concomitanze: contrariamente allo
schema romantico dell’Amore folle, non è la Donna ad essere
adorabile in Italia, sono sempre le Donne; non è un piacere
quello che l’Italia offre, è una simultaneità, una sovradetermi-
nazione dei piaceri: la Scala, vero e proprio luogo eidetico del­
le gioie italiche, non è un teatro nel senso piattamente funzio­
nale del termine (vedere ciò che è rappresentato); è una poli­
fonia di piaceri: l’opera stessa, il balletto, la conversazione,
l’informazione, l’amore e i sorbetti («gelati», «crepé» e «pez­
zi duri», tutti in italiano nel testo). Questo plurale amoroso, RNF
analogo insomma a quello che oggi pratica un dragueur, è pa­ 24-25
lesemente un principio stendhaliano: comporta una teoria im­
plicita del discontinuo inegolare, che possiamo definire al tem­
po stesso estetica, psicologica e metafisica; la passione plurale
obbliga infatti - una volta che ne sia stata ammessa l’eccel­
lenza - a saltabeccare da un oggetto all’altro, via via che il ca­
so li presenta, senza provare il minimo senso di colpa nei con­
fronti del disordine che tale passione plurale provoca. Questa
condotta è cosi cosciente in Stendhal che egli giunge persino
a ritrovare nella musica italiana - che ama - un principio di
irregolarità perfettamente omologo a quello dell’amore di­
spersivo: quando suonano, gli italiani non osservano il Tempo; R N F PI
il tempo appartiene ai tedeschi; da un lato sta la rumorosità 229-32
tedesca, il frastuono della musica tedesca, ritmato da una mi­
sura implacabile («i primi tempisti del mondo»); dall’altro l’o­
pera italiana, somma di piaceri discontinui e quasi ribelli: è il
naturale, garantito da una civiltà femminile.
Nel sistema italiano di Stendhal, la Musica ha un ruolo pri-
NON SI RIESCE M A I...

vilegiato perché può intervenire al posto di tutto: è il grado


zero di tale sistema: a seconda delle esigenze dell’entusiasmo,
sostituisce e significa i viaggi, le Donne, le altre arti e piu ge­
neralmente ogni sensazione. Il suo statuto significante, pre­
zioso piu di ogni altro, è di produrre effetti senza che ci si
debba interrogare sulle cause, perché tali cause sono inacces­
sibili. La musica costituisce una sorta di primitività del piace­
re: produce un piacere che si cerca sempre di ritrovare, ma
mai di spiegare; è il luogo del puro effetto, nozione centrale
dell’estetica stendhaliana. Ma che cos’è un effetto puro? È un
effetto disgiunto e come purificato da qualsiasi ragione espli­
cativa, cioè in ultima analisi da ogni ragione responsabile. L’I­
talia è il paese in cui Stendhal, che non è né del tutto viaggia­
tore (turista) né del tutto indigeno, si ritrova con voluttà esen­
te dalla responsabilità del cittadino; se Stendhal fosse cittadi-
R N F iG no italiano, morirebbe « avvelenato di malinconia »: mentre,
milanese di cuore, ma non di stato civile, deve solo raccogliere
i brillanti effetti di una civiltà di cui non è responsabile. Ho
avuto modo di sperimentare io stesso la comodità di una simi­
le dialettica contorta: ho amato molto il Marocco. Vi sono an­
dato spesso come turista, facendovi anche soggiorni di piacere
piuttosto lunghi; mi è cosi venuta l’idea di trascorrervi un an­
no come docente: l’incanto si è dissolto; posto di fronte a pro­
blemi amministrativi e professionali, immerso nel mondo in­
grato delle cause, delle determinazioni, ho abbandonato la
Festa per ritrovare il Dovere (è quanto probabilmente accad­
de a Stendhal divenuto console: Civitavecchia non era già più
l’Italia). Credo si debba includere nel sentimento italiano di
Stendhal questo fragile statuto di innocenza: l’Italia mila­
nese (e il suo sancta sanctorum, la Scala) è letteralmente un
Paradiso, un luogo senza Male, o meglio - diciamo le cose in
RNF positivo - il Bene Supremo: « Quando mi trovo con i milanesi
io 9 e parlo milanese dimentico che gli uomini sono cattivi, e tutta
la parte cattiva della mia anima si tace all’istante».
Questo Bene Supremo deve tuttavia essere «detto», deve
affrontare una potenza che non è per nulla innocente: il lin­
guaggio. Ciò è necessario innanzitutto perché il Bene ha una
forza naturale di espansione, prorompe incessantemente ver­
so l’espressione, vuole a tutti i costi trasmettersi, farsi condi­
videre; poi, perché Stendhal è scrittore e per lui non vi è pie­
nezza da cui sia assente la parola (e in questo la sua gioia ita­
liana non ha nulla di mistico). Ora, per quanto possa apparire
paradossale, Stendhal non sa «dire» bene l’Italia: o meglio, la
A PARLARE DI CIÒ CHE SI AMA 3 13

dice, la canta, ma non la rappresenta; proclama il suo amore,


ma non può farlo fruttare, o come si dice ora (metafora del
linguaggio automobilistico) non può «trattarlo». Ne è co­
sciente, ne soffre, e se ne lamenta; constata continuamente
che non è in grado di «rendere il suo pensiero», e che spiegare R N F
la differenza posta dalla sua passione tra Milano e Parigi « è il PI 98
colmo della difficoltà». Infiasco è dunque in agguato anche XXXIX
per il desiderio lirico. Tutte le relazioni del viaggio in Italia so­
no perciò intessute di dichiarazioni d’amore e fallimenti espres­
sivi. Il fiasco stilistico ha un nome: banalità; Stendhal ha a
sua disposizione solo una parola vuota - «bello», «bella» RNF
«In tutta la vita non ho mai visto insieme tante donne cosi PI 37
belle; la loro bellezza fa abbassare gli occhi»; «gli occhi piu PI 77
belli che abbia incontrato nella vita li ho visti a quella soirée;
quegli occhi sono cosi belli, e hanno un’espressione piu celeste
di quelli di Mme Tealdi... »; per ravvivare una simile litania,
poi, ha a disposizione soltanto la piu vuota delle figure, il su­
perlativo: «I volti delle donne, al contrario, presentano spesso R N F 38
la finezza piu appassionata, unita alla piu rara bellezza», ecc.
Questo «ecc. » che aggiungo, ma che si evidenzia nella lettura,
è importante perché rivela il segreto di quell’impotenza, o for­
se, nonostante i lamenti di Stendhal, di quell’indifferenza nei
confronti della variazione: la monotonia del viaggio in Italia­
no è puramente algebrica; la parola, la sintassi, nella loro ba­
nalità, rinviano direttamente a un altro ordine di significanti;
una volta che tale rinvio è suggerito si passa ad altro, cioè si ri­
pete l’operazione: «E bello come le piu vivaci sinfonie di R N F 15
Haydn»; «i volti degli uomini presenti al ballo di questa notte 38
avrebbero fornito magnifici modelli a uno scultore come Dan-
neken di Chantrey, che scolpisce busti». Stendhal non descri­
ve la cosa, e neppure l’effetto; dice, semplicemente: qui c’è un
effetto; sono inebriato, incantato, commosso, abbagliato, ecc.
In altri termini, la parola banale è una cifra, rinvia a un siste­
ma di sensazioni; si deve leggere il discorso italiano di Sten­
dhal come un basso cifrato. Sade usa lo stesso procedimento:
descrive molto male la bellezza, in modo banale ed enfatico;
questo perché la bellezza non è altro che l’elemento di un al­
goritmo il cui scopo è di edificare un sistema di pratiche.
Ciò che Stendhal vuole edificare è, diciamo cosi, un insie­
me non sistematico, un perpetuo scorrere di sensazioni: que­
sta Italia, dice, «che in verità è solo un’occasione di sensazio­ PI
ni». Dal punto di vista del discorso vi è dunque un primo sva­ XXXVIII
R N F 92
porare della cosa: «Non pretendo di dire che cosa sono le co-
NON SI RIESCE M A I...

se, racconto la sensazione che mi diedero ». La racconta davve­


ro? Niente affatto. La dice, la segnala e la asserisce senza de­
scriverla. Proprio qui, infatti, al livello della sensazione, ini­
zia la difficoltà del linguaggio; non è facile rendere una sensa­
zione: ricordate la famosa scena di Knock in cui la vecchia
contadina, costretta dal medico implacabile a dire che cosa
sente, esita e si ingarbuglia tra «mi fa il solletico» e «mi pru­
de ». Ogni sensazione, se se ne vuole rispettare la vivacità e
l’acutezza, induce all’afasia. Ma Stendhal deve procedere ve­
locemente, è la regola del suo sistema; ciò che vuole notare,
RNF infatti, è «la sensazione del momento»; e i momenti, come
n4 n7 abbiamo visto a proposito del Tempo, arrivano irregolarmen­
te, ribelli alla misura. E dunque per fedeltà al suo sistema, per
fedeltà alla natura stessa della sua Italia, «paese di sensazio­
ni», che Stendhal vuole una scrittura rapida: per andare in
fretta la sensazione è sottoposta a una stenografia elementare,
a una sorta di grammatica sommaria del discorso in cui si
combinano instancabilmente due stereotipi: il bello e il suo
superlativo; perché nulla è piu rapido dello stereotipo, per la
semplicissima ragione che esso si confonde, purtroppo e sem­
pre, con lo spontaneo. Bisogna procedere oltre nell’economia
del discorso italiano di Stendhal: se la sensazione stendhalia-
na si presta cosi bene a un trattamento algebrico, se il discorso
che essa alimenta è costantemente infiammato e costantemen­
te banale, è perché tale sensazione, stranamente, non è sen­
suale; Stendhal, la cui filosofia è sensualistica, è forse il meno
sensuale dei nostri autori, ragione per cui, probabilmente, è
difficile applicargli una critica tematica. Nietzsche, ad esem­
pio - scelgo apposta un esempio che si colloca all’estremo op­
posto -, quando parla dell’Italia è molto piu sensuale di Sten­
dhal: sa descrivere tematicamente il cibo piemontese, il solo al
mondo che apprezzasse.
Se insisto qui sulla difficoltà a «dire» l’Italia, nonostante il
gran numero di pagine che raccontano le passeggiate di Sten­
dhal, è perché vedo in essa una specie di sospetto nei confron­
ti del linguaggio stesso. I due amori di Stendhal, la Musica e
l’Italia, sono, se cosi si può dire, spazi al di fuori del linguag­
gio; la musica lo è per statuto, perché sfugge a ogni descrizio­
ne, non si lascia «dire», come si è visto, se non nel suo effet­
to; e l’Italia finisce per confondersi con lo statuto dell’arte;
p. 171 non solo perché la lingua italiana, come dice Stendhal in Del­
l ’amore, «fatta piu per essere cantata che parlata, sarà difesa
contro la chiarezza francese che la invade solo dalla musica»,
A PARLARE DI CIÒ CHE SI AMA 3 15

ma anche per due ragioni piu insolite. La prima è che alle


orecchie di Stendhal la conversazione italiana tende incessan­
temente verso quel limite del linguaggio articolato che è l’e-
sclamazione: «In una soirée milanese, - osserva ammirato R N F 28
Stendhal, - la conversazione era fatta solo di esclamazioni.
Per tre quarti d ’ora di orologio non fu pronunciata una sola
frase di senso compiuto »; la frase, armatura perfetta del lin­
guaggio, rappresenta il nemico (basti ricordare Γ antipatia di
Stendhal per Fautore delle piu belle frasi della lingua france­
se, Chateaubriand). La seconda ragione, che esenta preziosa­
mente l’Italia dal linguaggio, da quello che chiamerei il lin­
guaggio militante della cultura, è appunto la sua incultura: l’I­
talia non legge, non parla, ma esclama, canta. È questo il suo
genio, il suo «naturale», e per questo è adorabile. Quella stes­
sa sorta di sospensione deliziosa del linguaggio articolato, ci­
vilizzato, Stendhal la ritrova in tutto ciò che per lui caratteriz­
za l’Italia: nell’« ozio profondo sotto un cielo incantevole [cito
da DeH’amore\...; è la mancanza della lettura dei romanzi e di P -H 9
quasi ogni altra a lasciare ancor piu ampio spazio all’ispirazio­
ne del momento; è la passione della musica a eccitare nell’ani­
mo un moto tanto simile a quello dell’amore».
Cosi, un certo sospetto nei confronti del linguaggio va a
sommarsi a quella specie di afasia che nasce dall’eccesso di
amore: davanti all’Italia e alle Donne, e alla Musica, Stendhal
è letteralmente interdetto, cioè continuamente interrotto nel
suo dire. Tale interruzione è in realtà un’intermittenza: Sten­
dhal parla dell’Italia con un’intermittenza quasi quotidiana,
ma duratura. Lo spiega benissimo lui stesso (come sempre):
«Che partito prendere? Come dipingere la pazza felicità?... In
fede mia, non posso continuare, il soggetto travalica colui che
dovrebbe esprimerlo. La mia mano non può piu scrivere, ri­
mando a domani. Sono come un pittore che non ha piu il co­
raggio di dipingere un angolo del suo quadro. Per non sciupa­
re il resto, abbozza alla meglio [in italiano nel testo] ciò che
non può dipingere... » Questa pittura alla meglio dell’Italia,
che occupa tutti i racconti del viaggio italiano di Stendhal, è
una sorta di scarabocchio, di tentativo, se vogliamo, che dice
insieme l’amore e l’impotenza a dirlo, perché tale amore sof­
foca con la sua vivacità. Questa dialettica dell’amore estremo
e della difficoltà di espressione è un po’ quella del bambino -
ancora infans, privo del linguaggio adulto - quando gioca con
quello che Winnicott chiama un oggetto transizionale; lo spa­
zio che separa e lega al tempo stesso la madre e il bambino è il
316 NON SI RIESCE M A I...

medesimo del gioco del bambino e del gioco di rimando della


madre: è lo spazio ancora informe della fantasia, dell’immagi­
nazione, della creazione. Cosi è, mi pare, l’Italia di Stendhal:
una specie si oggetto transizionale il cui uso, ludico, produce
quegli squiggles riscontrati da Winnicott e che qui sono diari
di viaggio.
Se ci si attenesse soltanto a tali Diari, che «dicono» l’amo­
re per l’Italia ma non lo comunicano (questo, almeno, è il giu­
dizio della mia lettura), si avrebbero le migliori ragioni per ri­
petere malinconicamente (o tragicamente) che non si riesce
mai a parlare di ciò che si ama. Ventiquattro anni dopo, però,
con una sorta di après-coup che fa parte anch’esso della logica
contorta dell’amore, Stendhal scrive sull’Italia pagine trion­
fali, che questa volta accendono in un lettore come me (ma
non credo di essere il solo) quell’esultanza, quel fuoco che il
diario diceva ma non comunicava. Le pagine sono quelle, in-
C H 41 cantevoli, che formano l’inizio della Certosa di Vanna. Vi è
una sorta di accordo prodigioso tra «la massa di felicità e di
piacere che fece irruzione» a Milano con l’arrivo dei francesi
e il godimento che provoca in noi la lettura: l’effetto narrato
coincide finalmente con l’effetto provocato. Perché questo
rovesciamento? Perché Stendhal, passando dal Diario al Ro­
manzo, dall’Album al Libro (per riprendere una distinzione di
Mallarmé), ha abbandonato la sensazione, frammento vivo
ma irriproducibile, per affrontare quella grande forma media­
trice che è il Racconto, p meglio ancora il Mito. Che cosa ci
vuole per fare un Mito? E necessaria l’azione di due forze: in­
nanzitutto un eròe, una grande figura liberatrice: è Bonapar­
te, che entra in Milano e penetra in Italia, come fece piu umil­
mente Stendhal, scendendo dal San Bernardo; occorre poi
una contrapposizione, un’antitesi, un paradigma insomma,
che metta in scena la lotta tra il Bene e il Male e produca cosi
ciò che manca alBAlbum ed è proprio del libro, cioè un senso:
da un lato, in queste prime pagine della Certosa, abbiamo la
noia, la ricchezza, l’avarìzia, l’Austria, la Polizia, Ascanio,
Grianta; dall’altro l’ebbrezza, l’eroismo, la povertà, la Repub­
blica, Fabrìzio, Milano; e soprattutto, da una parte c’è il Pa­
dre, dall’altra le Donne. Abbandonandosi al Mito, affidando­
si al libro, Stendhal ritrova gloriosamente ciò che aveva in
qualche modo fallito nei suoi album: l’espressione di un effet­
to. Tale effetto - 1’effetti italiano - ha finalmente un nome,
che non è piu quello, Banale, della Bellezza: è la festa. L’Italia
è una festa, ecco infine che cosa comunica il preambolo mila-
A PARLARE DI CIÒ CHE SI AMA 317

nese della Certosa, che Stendhal aveva ben ragione di difende­


re contro le reticenze di Balzac: la festa, cioè la trascendenza
stessa dell’egotismo.
Insomma, ciò che è accaduto - ciò che è passato - tra il
Diario di viaggio e la Certosa, è la scrittura. Che cos’è la scrit­
tura? E una potenza, probabilmente frutto di una lunga ini­
ziazione, che sconfigge Pimmobilità sterile dell’immaginario
amoroso e dà alla sua avventura una generalità simbolica.
Quando era giovane, al tempo di Roma, Napoli, Firenze, Sten­
dhal poteva scrivere: «... quando mento sono come M. de
Goury, mi annoio»; non conosceva ancora l’esistenza di una
menzogna, la menzogna romanzesca, che al tempo stesso -
miracolo - sarebbe stata sia aggiramento della verità sia
espressione finalmente trionfante della sua passione ita­
liana2.

1980, in «Tel Q uel».

2 Destinato al Colloquio Stendhal di Milano, questo è con ogni probabilità


l’ultimo testo scritto da Roland Barthes. La prima pagina era dattiloscritta. Il 25
febbraio 1980, la seconda era inserita nella macchina da scrivere. Enunciato da
considerare finito? Si, nel senso che il manoscritto è completo. No, perché quando
trascriveva a macchina Barthes apportava sempre lievi modifiche al testo; è quanto
aveva fatto, qui, nella prima pagina [Nota d ell editore francese].
VII

Nei dintorni dell’immagine


Scrittori, intellettuali, professori

Quanto segue è legato all’idea che esiste un legame fonda-


mentale tra l’insegnamento e la parola. È una constatazione
antichissima (il nostro insegnamento non è forse interamente
derivato dalla retorica?), ma oggi è possibile argomentarla in
un modo completamente diverso da ieri; in primo luogo, per­
ché è in corso una crisi (politica) dell’insegnamento; seconda­
riamente, perché la psicanalisi (lacaniana) ha smontato tutte
le sfaccettature della parola vuota; infine, perché la contrap­
posizione tra parola e scrittura ha acquistato un’evidenza dal­
la quale bisogna cominciare a trarre a poco a poco le conse­
guenze.
A fronte del professore, che è dalla parte della parola, chia­
miamo scnttore ogni operatore di linguaggio che sia dalla parte
della scrittura; tra i due, l’intellettuale: colui che stampa e
pubblica la sua parola. Non c’è particolare incompatibilità tra
il linguaggio del professore e quello dell’intellettuale (coesisto­
no spesso in uno stesso individuo); ma lo scrittore è solo, se­
parato: la scrittura inizia là dove la parola diventa impossibile
(si intenda: come si dice di un bambino).

Due costrizioni.

La parola è irreversibile: non si può correggere una parola,


salvo dicendo per l’appunto che la si corregge. In questo caso
eliminare vuol dire aggiungere; se voglio cancellare ciò che ho
appena enunciato posso farlo solo mostrando la gomma (de­
vo dire «o meglio...», «mi sono espresso male...»)\ parados­
salmente, è la parola, effimera, ad essere indelebile, e non la
scrittura, monumentale. Alla parola si può aggiungere solo
un’altra parola. Il movimento che modifica e perfeziona la pa­
rola è il balbettio, tessitura che si esaurisce nel continuo cor-
322 SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI

reggersi, catena di rettificazioni accrescitive in cui viene di


preferenza a collocarsi la parte inconscia del nostro discorso
(non a caso la psicanalisi è legata alla parola e non alla scrittu­
ra: un sogno non si scrive): la figura eponima del parlante è
Penelope.
Non è tutto: non possiamo farci capire (bene o male) se
parlando non manteniamo una certa velocità di enunciazione.
Siamo come un ciclista o un film, condannati a procedere, a
scorrere, se non vogliono cadere o incepparsi; il silenzio o la
titubanza nell’esprimer mi mi sono proibiti entrambi: la velo­
cità articolatoria subordina ogni punto della frase a quanto lo
precede o lo segue immediatamente (impossibile far «scatta­
re» la parola verso paradigmi estranei, strani); il contesto è un
dato strutturale non del linguaggio, ma della parola; ora, il
contesto è per statuto riduttore del senso, la parola parlata è
« chiara »; la messa al bando della polisemia (la « chiarezza »)
ottempera alla Legge: ogni parola è dalla parte della Legge.
Chiunque si appresti a parlare (in una situazione di inse­
gnamento) deve essere consapevole della messa in scena che
gli impone Tuso della parola, semplicemente per effetto di
una determinazione naturale (che dipende dalla natura fisica:
quella del soffio articolatorio). Tale messa in scena si sviluppa
nel modo seguente: o il lettore sceglie in perfetta coscienza il
ruolo dell’Autorità; in questo caso è sufficiente «parlare be­
ne », cioè parlare conformemente alla Legge che è in ogni di­
scorso: senza correggersi, a buona velocità, e soprattutto in
modo chiaro (è quanto viene richiesto a un buon discorso pro­
fessionale: la chiarezza, Γautorità); non a caso la frase precisa
e netta è una sentenza, sententia, una clausola penale. Oppure
il locutore è messo a disagio dal peso della Legge che la sua
parola introdurrà nel discorso; non può alterare il proprio elo­
quio (che lo condanna alla «chiarezza»), ma può scusarsi di
parlare (di esporre la Legge): si serve allora dell’irreversibilità
della parola per turbarne la legalità; si corregge, aggiunge, si
impappina, entra nell’infinitudine del linguaggio, sovrappone
al messaggio semplice, che tutti si aspettano da lui, un nuovo
messaggio, che distrugge l’idea stessa di messaggio, e, proprio
attraverso il gioco di specchi delle sbavature, delle scorie con
cui accompagna la sua linea di discorso, ci chiede di credere
con lui che il linguaggio non si riduce alla comunicazione. Con
tutte queste operazioni, che avvicinano il balbettio al Testo,
l’oratore imperfetto spera di attenuare il ruolo ingrato che fa
di ogni parlante una sorta di poliziotto. Eppure, dopo tutto
323
questo sforzo per «parlare male», gli è ancora imposto un
ruolo: Γuditorio infatti (che non ha niente a che fare con il let­
tore), immerso nel proprio immaginario, recepisce questi ten­
tativi incerti come altrettanti segni di debolezza e gli rinvia
l’immagine di un maestro umano, troppo umano: liberale.
L’alternativa è cupa: funzionario corretto o libero artista,
il docente non sfugge né al teatro della parola né alla Legge
che vi si rappresenta: perché la Legge si produce non in ciò che
dice, ma in quanto egli parla. Per sovvertire la Legge (e non
semplicemente aggirarla) egli dovrebbe scomporre il flusso
della voce, la velocità delle parole e il ritmo fino a un'altra in­
telligibilità - oppure non parlare del tutto; in questo caso, pe­
rò, rappresenterebbe altri ruoli: o quello della grande intelli­
genza silenziosa, carica di esperienza e di mutismo, oppure
quello del militante che, in nome della prassi, respinge ogni di­
scorso futile. Non c’è niente da fare: il linguaggio è sempre
potere; parlare è esercitare una volontà di potenza: nello spa­
zio della parola non c’è innocenza, non c’è sicurezza.

Il riassunto.

Per statuto, il discorso del professore è segnato da questo


carattere: che si può (o si possa) riassumerlo (è un privilegio
che condivide con il discorso dei parlamentari). Com’è noto,
nelle nostre scuole c’è un esercizio che si chiama nduzione di
un testo; tale formulazione esprime bene l’ideologia del rias­
sunto: da un lato c’è il «pensiero», oggetto del messaggio, ele­
mento dell’azione, della scienza, forza transitiva o critica, e
dall’altro lo «stile», ornamento che ha a che fare con il lusso,
con l’ozio e quindi con il futile; separare il pensiero dallo stile
significa in qualche modo liberare il discorso dei suoi parame­
tri sacerdotali, laicizzare il messaggio (donde il connubio bor­
ghese tra docente e deputato); la «forma», si ritiene, è com­
primibile, e tale compressione non è giudicata essenzialmente
dannosa: da lontano, infatti, cioè a partire dalla nostra rotta
occidentale, c’è poi tanta differenza tra una testa di jivaro vi­
va e una rimpicciolita*?
È difficile che un professore veda gli «appunti» che vengo­
no presi durante il cuo corso; non ci tiene affatto, sia per di-1

1 [Gli jivaro sono amerindi del Peru settentrinale e dell’Equador, noti come
cacciatori di teste, che mummificano riducendole alle dimensioni di un pugno].
SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI

screzione (niente è piu personale degli «appunti», nonostante


il carattere protocollare di tale pratica) sia, piu probabilmen­
te, per paura di contemplarsi in formato ridotto, morto e so­
stanziale al tempo stesso, come un jivaro « trattato » dai suoi
simili; non sappiamo se ciò che è preso (prelevato) dal flusso
delle parole consiste in enunciati erratici (formule, frasi) o nel­
la sostanza di un ragionamento: in entrambi i casi, ad andare
perduto è quel «di piu» in cui si rischia la posta del linguag­
gio: il riassunto è un diniego di scrittura.
Di conseguenza e inversamente, è possibile dichiarare
« scrittore » (parola che designa sempre una pratica, non un
valore sociale) ogni mittente il cui «messaggio» (distruggendo
per ciò stesso anche la propria natura intrinseca) non possa es­
sere riassunto: condizione che lo scrittore condivide con il fol­
le, il parolaio e il matematico, ma che per Pappunto la scrittu­
ra (e cioè una certa pratica del significante) ha il compito di
specificare.

Il rapporto di docenza.

Come possiamo assimilare il docente allo psicanalista? Ac­


cade esattamente il contrario: è lui lo psicanalizzato.
Immaginiamo che io sia un docente: parlo, parlo in conti­
nuazione, davanti e, per qualcuno che non parla. Sono colui
che dice io (contano ben poco le scappatoie del noi o della for­
ma impersonale), che, attraverso Patto di espone un sapere,
propone un discorso; di tale discorso non so mai come viene rì-
cevuto, e di conseguenza non posso mai avere la sicurezza di
un’immagine definitiva, magari offensiva, che mi costituisca:
nell’esposizione - termine piu appropriato di quanto non si
creda - non si espone il sapere, ma il soggetto (si espone a pe­
nose avventure). Lo specchio è vuoto: mi rimanda soltanto la
defezione del mio linguaggio man mano che esso procede. Co­
me i fratelli Marx travestiti da aviatori russi (in Una notte al­
l'Opera - lavoro che ritengo allegorico di innumerevoli pro­
blemi testuali), all’inizio della mia esposizione sono cammuf­
fato da una gran barba posticcia; ma, inondato a poco a poco
dal fluire della mia stessa parola (sostituto della caraffa d ’ac­
qua con cui il Muto, Harpo, si disseta avidamente sulla tribu­
na del sindaco di New York), sento la mia barba scollarsi lem­
bo a lembo davanti a tutti: subito dopo aver fatto sorridere
l’auditorio con qualche osservazione «fine», o averlo rassicu-
SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI 325

rato con qualche stereotipo progressista, sento tutta la com­


piacenza insita in tali sollecitazioni; rimpiango la pulsione
isterica e vorrei correggerla, preferendo troppo tardi un di­
scorso austero a uno ammiccante (quando avviene il contra­
rio, però, è la «severità» del discorso a sembrarmi isterica); in
effetti, se qualche sorriso risponde alla mia osservazione o
qualche consenso alla mia intimidazione, mi persuado subito
che simili manifestazioni di complicità provengono da imbe­
cilli o da adulatori (descrivo qui un procedimento immagina­
rio); basta che mi si risponda - proprio a me, che cerco la ri­
sposta e mi lascio andare a provocarla - perché io diffidi; e se
tengo un discorso tale da raffreddare o respingere qualsiasi ri­
sposta, non mi sento piu in tono (nel senso musicale) per que­
sto; devo infatti, allora, gloriarmi della solitudine della mia
parola, fornirle l’alibi dei discorsi missionari (scienza, verità,
ecc.).
Cosi, conformemente alla descrizione psicanalitica (quella
di Lacan, di cui ogni parlante può verificare qui la perspica­
cia), quando il docente parla al suo auditorio l’Altro è sempre
li, a bucarne il discorso; discorso che, se anche fosse corazza­
to da un’intelligenza impeccabile, armato di «rigore» scien­
tifico o di radicalità politica, sarebbe bucato comunque: è suf­
ficiente che io parli, è sufficiente che la mia parola scorra per­
ché finisca col dileguarsi. Naturalmente, anche se ogni docen­
te è in posizione di psicanalizzato, nessun uditorio studente­
sco può vantare la situazione inversa; innanzitutto perché il
silenzio psicanalitico non ha nulla di preminente, e in secondo
luogo perché a volte un soggetto si distacca, non può essere
trattenuto e viene a bruciarsi al fuoco della parola, a mescolar­
si all’orgia oratoria (e se il soggetto si ostina a tacere, non fa
che «parlare» l’ostinazione del proprio mutismo); per il do­
cente, però, l’uditorio studentesco è comunque l’Altro per ec­
cellenza, perché ha Varia di non parlare - e quindi, dal fondo
della sua apparente opacità, parla in noi ancora piu forte: la
sua parola implicita, che è la mia, mi tocca tanto piu in quanto
il suo discorso non mi assilla.
È questa la croce di ogni pubblico discorso: che parli il do­
cente o che l’uditorio rivendichi di parlare, in entrambi i casi
si arriva dritti al divano dello psicanalista; il rapporto di do­
cenza non è altro che il transfert da esso stesso istituito; la
«scienza», il «metodo», il «sapere», l’«idea» entrano in cam­
po per via indiretta; sono forniti in piu\ sono resti.
SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI

Il contratto.

Perloppiu, i rapporti tra gli uomini risento­


no, spesso sino alla distruzione, del fatto che
il contratto stabilito tra loro non è rispettato.
Dal momento in cui due esseri umani entrano
in relazione reciproca, il loro contratto, il più
delle volte tacito, entra in vigore. Regola la
forma delle loro relazioni, ecc.
BRECHT

Anche se la domanda che si enuncia nello spazio comunita­


rio di un corso è fondamentalmente intransitiva, come si con­
viene in ogni situazione di transfert, non per questo è meno
sovradeterminata, e si nasconde dietro altre domande, appa­
rentemente transitive; tali domande formano le condizioni di
un contratto implicito tra docente e discente. È un contratto
«immaginario», che non contraddice affatto la determinazio­
ne economica che spinge lo studente ad aspirare a una carriera
e il docente a onorare un impiego.
Ecco alla rinfusa (manca infatti, nell’ordine immaginario,
un movente fondamentale) ciò che il docente chiede al discen­
te: i. di riconoscerlo in qualsiasi «ruolo»: di autorità, di bene­
volenza, di contestazione, di sapere, ecc. (ogni estraneo di cui
non si capisce sotto quale immagine vi solleciti diventa inquie­
tante); 2. di subentrargli, di diffonderlo, di farsi portatore, in
campi piu estesi, delle sue idee, del suo stile; 3. di lasciarsi se­
durre, di prestarsi a un rapporto amoroso (concediamo tutte
le sublimazioni, tutte le distanze, tutti gli ossequi dovuti alla
realtà sociale e alla prevedibile vanità di tale rapporto); 4. in­
fine, di permettergli di onorare il contratto che egli stesso ha
sottoscritto con il suo datore di lavoro, cioè con la società: il
discente è l’ambito di una pratica (retribuita), l’oggetto di un
mestiere, la materia di una produzione (anche se delicata da
definire).
Da parte sua, ecco alla rinfusa ciò che il discente chiede al
docente: 1. di condurlo a un buon inserimento professionale;
2. di assolvere ai ruoli tradizionalmente demandati all’inse­
gnante (autorità scientifica, trasmissione di un capitale di sa­
pere, ecc.); 3. di rivelare i segreti di una tecnica (di ricerca, di
analisi, ecc.); 4. sotto le insegne di quel santo laico che è il
Metodo, di essere un iniziatore all’ascesi, un guru; 3. di rap­
presentare un «movimento di idee», una Scuola, una Causa,
di esserne il portavoce; 6. di ammettere lui, discente, nella
327
complicità di un linguaggio particolare; 7. per quelli che han­
no il mito della tesi (timida pratica di scrittura, al tempo stes­
so travisata e protetta dalla sua finalità istituzionale), di ga­
rantirne la realtà; 8. viene infine chiesto al docente di essere
un fornitore di servizi: firma, iscrizioni, attestazioni, ecc.
Questa è semplicemente una Topica, una riserva di scelte
che non sono tutte necessariamente in atto nello stesso tempo
in uno stesso individuo. Tuttavia, è al livello della totalità
contrattuale che si gioca la riuscita di un rapporto di docenza:
il «buon» professore e il «buon» studente sono quelli che ac­
cettano filosoficamente la pluralità delle loro determinazioni,
forse perché sanno che la verità di un rapporto di parola è al­
trove.

La ricerca.

Che cos’è una «ricerca»? Per saperlo bisognerebbe avere


un’idea di che cosa sia un «risultato». Che cosa si trova? Che
cosa si vuole trovare? Che cosa mancai In quale campo assio­
matico andranno a collocarsi il fatto scoperto, il significato
messo in luce, la rilevazione statistica? Tutto questo, con ogni
probabilità, dipende volta per volta dalla scienza chiamata in
causa. Ma, dal momento in cui una ricerca interessa il testo (e
il testo va molto piu lontano dell’opera), la ricerca diventa a
sua volta testo, produzione: ogni «risultato» è, alla lettera, in­
pertinente. La «ricerca» è allora il nome prudenziale che, sotto
il vincolo di certe condizioni sociali, diamo al lavoro di scrit­
tura: la ricerca è dalla parte della scrittura, è un’avventura del
significante, un eccesso dello scambio; è impossibile sostenere
l’equazione: un «risultato» in cambio di una «ricerca». Ecco
perché la parola cui si deve sottoporre una ricerca (insegnan­
dola), oltre alla funzione parenetica («Scrìvete »), ha la partico­
larità di ricordare alla «ricerca» stessa la sua condizione epi­
stemologica: non deve, qualunque cosa cerchi, dimenticare la
sua natura di linguaggio - appunto ciò che le rende infine ine­
vitabile l’incontro con la scrittura. Nella scrittura l’enuncia­
zione disattende l’enunciato sotto l’effetto del linguaggio che
lo produce: questo definisce abbastanza bene l’elemento criti­
co, progressivo, insoddisfatto, produttivo che persino l’uso co­
mune riconosce alla «ricerca». E questo il suo ruolo storico:
insegnare al sapiente che egli parla (ma se lo sapesse scrìvereb­
be - e l’intera idea di scienza, tutta la scientificità ne risulte­
rebbe mutata).
12
SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI

La distruzione degli stereotipi.

Qualcuno mi scrive che «un gruppo di studenti rivoluzio­


nari prepara una distruzione del mito strutturalista». L’e­
spressione mi incanta per la sua consistenza stereotipica; la di­
struzione del mito inizia, a partire dall’enunciato dei suoi
agenti putativi, con il piu bello dei miti: il «gruppo degli stu­
denti rivoluzionari» ha la stessa forza delle «vedove di guer­
ra» o degli «ex combattenti».
Di solito, lo stereotipo è triste, perché è costituito da una
necrosi del linguaggio, da una protesi intervenuta a tappare
un buco nella scrittura; nello stesso tempo, però, non può non
suscitare una clamorosa risata: si prende sul serio, si crede piu
vicino alla verità perché indifferente alla sua natura di lin­
guaggio: è logoro e serioso insieme.
Tenere a distanza lo stereotipo non è un compito politico,
perché il linguaggio politico è a sua volta fatto di stereotipi; è
invece un compito critico, cioè mira a mettere in crisi il lin­
guaggio. In primo luogo, questo permette di isolare quel piz­
zico di ideologia che c’è in ogni discorso politico, e di affron­
tarlo come un acido capace di dissolvere i grassi del linguaggio
«naturale» (cioè del linguaggio che finge di ignorare di essere
linguaggio). Poi, significa distaccarsi dalla ragione meccanici­
stica, che fa del linguaggio semplicemente la risposta a stimoli
di situazione o di azione; significa contrapporre la produzione
del linguaggio alla sua semplice e fallace utilizzazione. Anco­
ra, vuol dire scuotere il discorso dell’Altro e costituire, insom­
ma, un’operazione permanente di pre-analisi. E per finire: lo
stereotipo è in fondo un opportunismo: ci si conforma al lin­
guaggio dominante, o meglio a ciò che nel linguaggio sembra
reggere (una situazione, un diritto, una lotta, un’istituzione,
un movimento, una scienza, una teoria, ecc. ); parlare per ste­
reotipi significa passare dalla parte della forza del linguaggio;
un simile opportunismo deve essere (oggi) rifiutato.
Ma è possibile «superare» lo stereotipo, invece di «distrug­
gerlo»? È un desiderio irrealizzabile; gli operatori di lin­
guaggio non hanno altra attività in loro potere se non quella
di svuotare ciò che è pieno; il linguaggio non è dialettico: per­
mette solo una marcia a due tempi.
SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI 329

La catena dei discorsi.

E perché il linguaggio non è dialettico (permette il terzo


termine solo come clausola, asserzione rettorica, pio deside­
rio) che il discorso (la discorsività), nella sua spinta storica, si
sposta a sbalzi. Ogni discorso nuovo può scaturire solo come
il paradosso che investe a ritroso (e spesso a parte) la doxa at­
tuale o precedente; può nascere solo come differenza, come
distinzione, distaccandosi contro ciò che gli sta accanto. Per
esempio, la teoria chomskiana si edifica contro il behaviori­
smo bloomfeldiano; una volta liquidato da Chomsky il beha­
viorismo linguistico, poi, si va alla ricerca di una nuova semio­
tica contro il mentalismo (o l’antropologismo) chomskiano,
mentre Chomsky stesso, per trovare alleati, è costretto a sal­
tare i suoi predecessori immediati e a risalire fino alla Gram­
matica di Port-Royal. Ma è probabilmente presso uno dei piu
grandi pensatori dialettici, Marx, che potrebbe essere piu in­
teressante constatare la natura adialettica del linguaggio: il
suo discorso è quasi sempre paradossale, e la doxa è rappresen­
tata qui da Proudhon, là da un altro, ecc. Tale doppio movi­
mento di distacco e di ripresa non produce un cerchio, ma, se­
condo la bella e grande immagine di Vico, una spirale, ed è in
questo sfasamento della circolarità (della forma paradossale)
che vengono ad articolarsi le determinazioni storiche. Bisogna
dunque cercare sempre di scoprire a quale doxa si contrappo­
ne un autore (a volte può trattarsi di una doxa molto minori­
taria, che regna su un gruppo ristretto). Un insegnamento può
essere valutato anche in termini di paradosso, purché si edifi­
chi su questa convinzione: che un sistema che esiga correzio­
ni, traslati, aperture e denegazioni è piu utile di un’assenza
non formulata di sistema; si evita allora, per fortuna, l’immo-
bilità del balbettio, si riallaccia la catena storica dei discorsi,
il progresso (progressus) della discorsività.Il

Il metodo.

Alcuni parlano del metodo con gusto, con avidità; nel lavo­
ro, ciò che desiderano è il metodo; esso non sembra mai loro
abbastanza rigoroso, abbastanza formale. Il metodo diventa
una Legge; ma è una Legge priva di qualsiasi effetto ad essa
eterogeneo (nessuno può dire che cosa sia, nelle «scienze
SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI

umane», un «risultato»), e perciò perpetuamente disattesa;


proponendosi come un puro meta-linguaggio, partecipa della
vanità di tutti i meta-linguaggi. Inoltre, accade costantemente
che ogni lavoro che proclami in continuazione la propria vo­
lontà di metodo finisca per rivelarsi sterile: tutto è passato nel
metodo, e alla scrittura non è rimasto piu nulla; il ricercatore
ripete che il suo testo sarà metodologico, ma il testo non arri­
va mai: per uccidere una ricerca e farla confluire nella grande
discarica dei lavori abbandonati non c’è sistema piu sicuro del
Metodo.
Il pericolo del Metodo (della fissazione per il Metodo) de­
riva da questo: il lavoro di ricerca deve rispondere a due do­
mande; la prima è una domanda di responsabilità: è necessa­
rio che il lavoro accresca la lucidità, giunga a smascherare le
implicazioni di una procedura, gli alibi di un linguaggio, costi­
tuisca insomma una critica (ricordiamo ancora una volta che
criticare significa mettere in crisi); qui il Metodo è inevitabi­
le, insostituibile, non per i suoi «risultati», ma appunto - o al
contrario - perché tocca il piu alto grado di coscienza di un
linguaggio che non si dimentica di se stesso; ma la seconda do­
manda è di tu tt’altro ordine: è quella della scrittura, spazio di
dispersione del desiderio, in cui viene congedata la Legge; bi­
sogna perciò, a un certo punto, rivoltarsi contro il Metodo, o
almeno trattarlo non privilegiandolo quale fondamento, ma
come una tra le voci della pluralità: come una vista, insomma,
come uno spettacolo inserito nel testo - quel testo che in fin
dei conti è II solo risultato «vero» di ogni ricerca.

Le domande.

Fare una domanda vuol dire desiderare di sapere qualcosa.


In molti dibattiti intellettuali, tuttavia, le domande che se­
guono l’esposizione del conferenziere non sono affatto l’e­
spressione di un vuoto, ma l’asserzione di una pienezza. Fin­
gendo di fare una domanda, organizzo un’aggressione contro
l’oratore; fare una domanda recupera allora il suo senso poli­
ziesco, rimanda all’interrogatorio, al fermo di polizia. L’inter­
pellato, tuttavia, deve fingere di rispondere alla lettera della
domanda, non all’intenzione. Si crea un gioco delle parti: an­
che se ciascuno sa che cosa pensare circa le mire dell’altro, il
gioco obbliga a rispondere al contenuto, e non all’intenzione.
Se, con un certo tono, mi si chiede: «A che cosa serve la lingui-
331
stica? », facendomi capire che non serve a niente, devo fingere
di rispondere ingenuamente: «Serve a questo e a quest'altro»,
e non, conformemente alla verità del dialogo: «Perché mi ag­
gredisce? » Ricevo la connotazione, ma devo restituire la deno­
tazione. Nello spazio della parola la scienza e la logica, il sape­
re e il ragionamento, le domande e le risposte, le proposizioni
e le obiezioni sono le mascherature del rapporto dialettico. I
nostri dibattiti intellettuali non sono meno codificati delle di­
spute scolastiche; vi si trovano sempre dei ruoli di servizio (il
«sociologo professante», il «goldmanniano», il «telqueliano»,
ecc.), ma, a differenza di quanto accadeva nella disputatio, in
cui i ruoli in questione sarebbero stati cerimoniali e avrebbero
evidenziato Γartificio della loro funzione, il nostro «commer­
cio» intellettuale si dà sempre arie di «naturalezza»: pretende
di scambiare solo significati, e non significanti.

In nome di che cosa?

In nome di che cosa parlo? Di una funzione? Di un sapere?


Di un’esperienza? Che cosa rappresento? Una capacità scien­
tifica? Una istituzione? Un servizio? In realtà, parlo solo in
nome di un linguaggio: parlo perché ho scritto; la scrittura è
rappresentata dal suo contrario, la parola. Questa distorsione
significa che, scrivendo della parola (a proposito della parola),
sono condannato alla seguente aporia: denunciare l’immagi-
nario della parola attraverso l’irrealismo della scrittura; cosi,
al presente, non descrivo alcuna esperienza «autentica», non
fotografo alcun insegnamento «reale», non apro alcun dossier
«universitario». La scrittura, infatti, può dire il vero sul lin­
guaggio, ma non il vero sul reale (attualmente cerchiamo di
sapere che cosa sia un reale senza linguaggio).

Stare in piedi.

È possibile immaginare una situazione piu tenebrosa di


quella che consiste nel parlare per (o davanti) a persone in pie­
di o sedute in modo palesemente scomodo? Che tipo di scam­
bio può avvenire? E quel disagio, di che cosa è il prezzo? Che
cosa vale la mia parola? La scomodità in cui si trova l’uditorio
come potrebbe non indurlo ben presto a interrogarsi sulla va­
lidità di ciò che sta ascoltando? Stare in piedi non rappresenta
SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI

forse una posizione eminentemente cùtica> E non è forse cosi,


a un altro livello, che inizia la coscienza politica: nel dis-agio?
L’ascolto mi rinvia la vanità della mia parola, il suo prezzo,
perché, che io lo voglia o no, rientro in un circuito di scambio;
e l’ascolto è anche la posizione di colui al quale mi rivolgo.

Dare del tu.

Accade talvolta, vestigio del Maggio, che uno studente dia


del tu a un professore. E un segno forte, un segno pieno, che
rinvia al piu psicologico dei significati: la volontà di contesta­
zione o di cameratismo: il muscolo. Dal momento che qui è
imposta una morale del segno, la si può a sua volta contestare,
e preferirle una semantica piu sottile: i segni devono essere
maneggiati su uno sfondo neutro, e in francese tale sfondo è il
darsi del voi. Darsi del tu non può sfuggire al codice se non
nel caso in cui costituisca una semplificazione della grammatica
(se ci si rivolge, ad esempio, a uno straniero che parla male la
nostra lingua); si tratta allora di sostituire una pratica transi­
tiva a una condotta simbolica: invece di cercare di significare
per chi prendo l’altro (e dunque per chi prendo me stesso),
cerco solo di farmi capire bene da lui. Anche questa soluzio­
ne, però, finisce per rivelarsi una scappatoia: darsi del tu di­
venta una tattica di fuga come un’altra; quando un segno non
mi piace, quando la significazione mi imbarazza, mi sposto
verso l’operatività: l’operatività diventa censura del simboli­
co, e perciò simbolo dell’asimbolismo; molti discorsi politici,
molti discorsi scientifici sono caratterizzati da uno sposta­
mento del genere (da cui dipende in particolare tutta la lingui­
stica della «comunicazione»).

Un odore di parola.

Dopo aver finito di parlare, inizia la vertigine dell’immagi­


ne: si esalta o si rimpiange ciò che si è detto, il modo in cui lo
si è detto, si immagina (si rovescia in immagine); la parola è
soggetta a persistenza, emana un odore.
La scrittura non ha odore: prodotta (dopo aver compiuto il
suo processo di produzione), cade, non come un soffio che si
affloscia, ma come una meteorite che scompare; va a viaggiare
lontano dal mio corpo, eppure non ne è un frammento stacca-
333
to, trattenuto narcisisticamente, come la parola; la sua scom­
parsa non provoca delusione; passa, attraversa, è tutto. Il tem­
po della parola eccede l’atto di parola (solo un giurista poteva
far credere che le parole scompaiano, verba volani). La scrittu­
ra, invece, non ha passato (se la società vi obbliga a gestire ciò
che avete scritto, riuscite a farlo solo con sommo fastidio, il
fastidio di un falso passato). Ecco perché il discorso con cui si
commenta la vostra scrittura impressiona meno vivamente di
quello con cui si commenta la vostra parola (anche se la posta
in gioco è più importante): del primo posso tener conto ogget­
tivamente, perché «io» non c’entro piu; del secondo, anche se
lusinghiero, posso solo cercare di sbarazzarmi, perché non fa
che rendere ancor piu impenetrabile il vicolo cieco del mio
immaginario.
(Da che cosa dipende, allora, il fatto che questo testo mi
preoccupa, che una volta finito, corretto, deliberato, rimane
o ritorna in me sotto forma di dubbio e, per dirla tutta, di
paura? Non è forse scrìtto, liberato dalla scrittura? Eppure mi
rendo conto che non posso migliorarlo, che ho raggiunto la
forma esatta di ciò che volevo dire: non è piu una questione di
stile. Ne deduco che è il suo stesso statuto a imbarazzarmi: a
crearmi impaccio è proprio il fatto che, trattando della parola,
non può, neanche nella scrittura, liquidarla del tutto. Per scri­
vere della parola - sulla parola -, quali che siano le distanze
dalla scrittura, sono costretto a riferirmi a parvenze di espe­
rienze, di ricordi, di sentimenti appartenuti al soggetto che io
sono nel momento in cui parlo, che ero nel momento in cui
parlavo: in questa scrittura c'è ancora del referente, ed è tale re­
ferente che emana odore alle mie narici).Il

Il nostro posto.

Come la psicanalisi, con Lacan, sta estendendo la topica


freudiana a topologia del soggetto (dove l’inconscio non è mai
al suo posto), cosi bisognerebbe sostituire allo spazio magi­
strale del passato, che era sostanzialmente uno spazio religio­
so (la parola in cattedra, in alto, gli uditori in basso; le pecorel­
le, il branco, il gregge), uno spazio meno geometrico, meno
euclideo, in cui a nessuno, né al docente né agli studenti, spet­
terà mai Vultimo posto. Si vedrà allora che ciò che bisogna
rendere reversibile non sono i «ruoli» sociali (perché mai di­
sputarsi 1’«autorità», il «diritto» di parlare?), ma le aree della
SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI

parola. Dov’è? Nella locuzione? Nell’ascolto? Nella loro reci­


procità? Il problema non è di abolire la distinzione tra le fun­
zioni (il docente, lo studente: dopo tutto, come ci ha insegnato
Sade, l’ordine è una garanzia di piacere), ma di proteggere
l’instabilità, e, per cosi dire, la «vertigine» dei luoghi di paro­
la. Nello spazio dell’insegnamento nessuno dovrebbe essere al
suo posto da nessuna parte (questa mobilità costante mi ras­
sicura: se mi accadesse di trovare il mio posto, non fingerei
neanche piu di insegnare, ci rinuncerei).
Il docente, tuttavia, non ha forse un posto fisso, che è quel­
lo della sua retribuzione, il posto che ha nell’economia, nella
produzione? E sempre lo stesso problema, il solo di cui conti­
nuiamo instancabilmente ad occuparci: l’origine di una parola
non la esaurisce; una volta che la parola in questione ha preso
il via, le capitano mille avventure, la sua origine diventa tor­
bida, non tu tti i suoi effetti appartengono alla sua causa; è
questo sovrannumero che interroghiamo.

Due critiche.

Gli errori che si possono fare copiando un manoscritto a


macchina sono altrettanti incidenti significanti, che, per ana­
logia, permettono di capire come dobbiamo comportarci nei
confronti del senso quando commentiamo un testo.
Da un lato, infatti, la parola prodotta dall’errore (se una
lettera sbagliata la stravolge) può non significare nulla, non ri­
trovare alcun tracciato testuale; il codice è semplicemente in­
terrotto: è stata creata una parola asemica, un puro significan­
te; ad esempio, invece di scrivere «officiare» scrivo «offivia-
re », che non vuole dire nulla. Può invece accadere che la pa­
rola sbagliata (battuta male), pur non essendo quella che in­
tendevamo scrivere, sia una parola che il lessico permette di
identificare, che vuol dire qualcosa: se scrivo «rade» invece di
«rude», questa nuova parola esiste, la frase conserva un sen­
so, anche se eccentrico; è la via (la voce?)23del gioco di paro­
le, dell’anagramma, della metatesi significante, della contre-
pétene3 : c’è scivolamento alVintemo dei codici; il senso sussi-

2 [Qui Barthes introduce appunto un gioco di parole, ovviamente intraducibi­


le, tra voie, via, e voix, voce, che, oltre a pronunciarsi allo stesso modo, potrebbero
anche costituire un esempio di equivoco derivante da un errore di battitura].
3 [In una frase, inversione di lettere o di sillabe per ottenere un effetto comico
o osceno].
335
ste, ma pluralizzato, falsificato, senza legge di contenuto, di
messaggio, di verità.
Entrambi i tipi di errore configurano (o prefigurano) un ti­
po diverso di critico. Il primo licenzia ogni senso dal testo tu­
tore: il testo deve prestarsi solo a un’efflorescenza significan­
te; solo il suo fonismo dev’essere preso in considerazione, ma
non interpretato: si deve associare, non decifrare; dando a
leggere «offiviare» anziché «officiare», l’errore mi concede il
dmtto di associazione (posso portare, a mio piacimento, «offi­
viare» verso «ovviare», «ravviare», ecc. ); l’orecchio di que­
sto primo critico non solo sente i fruscii del pick-up, ma vuole
sentire esclusivamente quelli e ne fa una nuova musica. Per il
secondo critico la «testina» non rifiuta nulla: percepisce sia il
senso (i sensi) sia i suoi fruscii. L’oggetto (storico) di queste
due critiche (mi piacerebbe poter dire che il campo della pri­
ma è la significosi e quello della seconda la significala) è evi­
dentemente diverso.
La prima ha dalla sua il diritto del significante di dispiegar­
si dove vuole (dove può?): quale legge e quale senso, venuti da
dove, dovrebbero impedirglielo? Dal momento che si sono al­
lentati i vincoli della legge filologica (monologica) e si è di­
schiuso il testo alla pluralità, perché fermarsi? Perché rifiu­
tare di spingere la polisemia fino all’asemia? In nome di che
cosa? Come ogni diritto radicale, anche questo presuppone
una visione utopica della libertà: si elimina la legge subito,
fuori da ogni storia, nel disprezzo di ogni dialettica (ecco dove
questo stile di rivendicazione può finalmente palesarsi pic­
colo-borghese). Tuttavia, dal momento in cui si sottrae a ogni
ragione tattica, restando comunque saldamente insediato in
una società intellettuale determinata (e alienata), il disordine
del significante si trasforma in erranza isterica: liberando la
lettura da ogni senso, è la mia lettura quella che finisco per
imporre, perché, in questo momento della Storia, l’economia
del soggetto non è ancora trasformata, e il rifiuto del senso
(dei sensi) si muta in soggettività; nella migliore delle ipotesi,
si può dire che questa critica radicale, definita da una preclu­
sione del significato (e non dalla sua fuga), anticipa sulla Sto­
ria, su una condizione nuova e sconosciuta, nella quale l’efflo­
rescenza del significante non si accontenterebbe di nessuna
contropartita idealistica, di nessuna chiusura della persona.
Criticare (fare della critica), però, significa mettere in crisi, e
non è possibile mettere in crisi senza valutare le condizioni
della crisi (i suoi limiti), senza tener conto del suo momento.
SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI

Cosi la seconda critica, quella che si occupa della divisione dei


sensi e del «trucco» (in senso teatrale) dell’interpretazione,
appare (almeno ai miei occhi) piu giusta storicamente: in una
società in cui vige la guerra dei sensi, e per ciò stesso limitata
da regole di comunicazione che ne determinano Γefficacia, la
liquidazione della vecchia critica non può progredire se non
nel senso (nel volume dei sensi), e non fuori di esso. In altri
termini, bisogna praticare un certo entrismo semantico. Oggi,
in effetti, la critica ideologica è condannata alle operazioni di
sottrazione: il significato, la «liberazione» dal quale è il com­
pito materialista per eccellenza, si sottrae meglio nell’illusione
del senso che nella sua distruzione.

Due discorsi.

Distinguiamo due discorsi.


Il discorso terrorista non è necessariamente legato all’asser­
zione perentoria (o alla difesa opportunistica) di una fede, di
una verità, di una giustizia; può semplicemente voler realizza­
re il lucido adeguamento dell’enunciazione alla violenza au­
tentica del linguaggio, violenza innata, derivante dal fatto che
nessun enunciato può esprimere direttamente la verità e non
ha altro regime a disposizione se non quello della forza della
parola; quindi, un discorso apparentemente terrorista cessa di
esserlo se, quando lo si legge, si seguono le sue stesse indica­
zioni: ristabilirvi il bianco o la dispersione, cioè l’inconscio; è
una lettura non sempre facile; certi terrorismi di certo respiro,
che funzionano soprattutto per stereotipi, realizzano anch’es­
si, come qualunque discorso della buona coscienza, la preclu­
sione dell’altra scena; questi terrorismi, in breve, rifiutano di
scrìversi (li si riconosce perché vi è in essi qualcosa che non va:
quell’odore di serioso che esala dal luogo comune).
Il discorso repressivo non si lega alla violenza dichiarata,
ma alla Legge. La Legge passa allora nel linguaggio come equi­
librio: viene postulato un equilibrio tra ciò che è proibito e ciò
che è permesso, tra il senso consigliato e il senso indegno, tra
la costrizione del senso comune e la libertà vigilata delle inter­
pretazioni: donde il gusto di tale discorso per le equidistanze,
le contropartite verbali, la posizione e l’aggiramento delle an­
titesi; non essere né per questo né per quello (se però calcolate
la partita doppia dei né, scoprirete che quel locutore impania-
337
le, obiettivo, umano, è per questo e contro quello). Questo di­
scorso repressivo è il discorso della buona coscienza, il discor­
so liberale.

Il campo assiomatico.

« Sarà sufficiente, - dice Brecht, - stabilire quali interpre­


tazioni dei fatti, apparse in seno al proletariato impegnato
nella lotta di classe (nazionale o internazionale), gli consenta­
no di utilizzare i fatti stessi per la sua lotta. Bisogna farne una
sintesi al fine di creare un campo assiomatico». Ogni fatto
possiede cosi parecchi sensi (una pluralità di «interpretazio­
ni»), e tra essi ce n ’è uno che è proletario (o per lo meno che
serve al proletariato per la sua lotta); connettendo questi di­
versi sensi proletari, si costruisce un’assiomatoica (rivoluzio­
naria). Ma chi stabilisce il senso? Il proletariato stesso, secon­
do Brecht {«apparse in seno al proletariato»). Tale visione im­
plica che alla divisione tra le classi corrisponda fatalmente una
divisione dei sensi, e che alla lotta di classe corrisponde non
meno fatalmente una guèrra dei sensi: finché c’è lotta di clas­
se (nazionale o internazionale), la divisione del campo assio­
matico è inevitabile.
La difficoltà (a dispetto della disinvoltura verbale di Brecht:
«sarà sufficiente») deriva dal fatto che un certo numero di og­
getti di discorso non interessano direttamente il proletariato
(nessuna interpretazione «appare» su di essi «nel suo seno»),
e tuttavia il proletariato non può disinteressarsene, perché
costituiscono, almeno negli Stati avanzati, dove sono stati li­
quidati sia la miseria sia il folklore, la pienezza dell 'altro di­
scorso, in seno al quale il proletariato stesso è costretto a vive­
re, nutrirsi, distrarsi, ecc.: questo discorso è quello della cul­
tura (può darsi che ai tempi di Marx la pressione della cultura
sul proletariato fosse meno forte di oggi: non esisteva ancora
la «cultura di massa», perché non esistevano le «comunica­
zioni di massa»). Come attribuire un senso di lotta a ciò che
non vi concerne direttamente? Come potrebbe il proletariato,
nel suo senoy stabilire un’interpretazione di Zola, di Poussin,
del pop, di «Sport-Dimanche» o dell’ultimo fatto di cronaca?
Per «interpretare» tutti questi fenomeni culturali ha bisogno
di rappresentanti: quelli che Brecht chiama «artisti» o «lavora­
tori dell’intelletto» (l’espressione è molto maliziosa, almeno in
338 SCRITTORI, INTELLETTU A LI, PROFESSORI

francese: Pintelletto è cosi vicino al cappello4), tutti coloro


che hanno a disposizione il linguaggio dell’indiretto, l’indiret-
to come linguaggio; in breve, degli oblati che si votano all’in­
terpretazione proletaria dei fatti culturali.
Inizia allora, per questi procuratori del senso proletario, un
vero e proprio rompicapo, perché la loro situazione di classe
non è quella del proletariato: non sono produttori, situazione
negativa che condividono con la gioventù (che studia), classe
ugualmente improduttiva con la quale formano di solito un’al­
leanza di linguaggio. Ne consegue che la cultura, di cui devo­
no far emergere il senso proletario, li rinvia a se stessi, non al
proletariato: come valutare la cultura? Secondo la sua origi­
ne? E borghese. Secondo la sua finalità? Ancora borghese. Se­
condo la dialettica? Benché borghese, quest’ultima conterreb­
be degli elementi progressisti; ma chi, a livello di discorso, di­
stingue la dialettica dal compromesso? E poi, con quali stru­
menti? Storicismo, sociologismo, positivismo, formalismo,
psicanalisi? Tutti imborghesiti. Qualcuno, alla fine, preferisce
rompere il rompicapo e congedare ogni «cultura», il che con­
duce necessariamente alla distruzione di ogni discorso.
In realtà, anche all’interno di un campo assiomatico illumi­
nato, si pensa, dalla lotta di classe, i compiti sono diversi, tal­
volta contraddittori, e soprattutto stabiliti su tempi diversi. Il
campo assiomatico è fatto di piu assiomatiche particolari: la
critica culturale si muove successivamente, diversamente e si­
multaneamente contrapponendo il Nuovo all’Antico, il socio­
logismo allo storicismo, l’economismo al formalismo, il logico-
positivismo alla psicanalisi, e poi nuovamente, secondo un al­
tro giro, la storia monumentale alla sociologia empirica, lo
strano (lo straniero) al Nuovo, il formalismo allo storicismo, la
psicanalisi allo scientismo, ecc. Applicato alla cultura, il di­
scorso critico non può essere se non un intersecarsi di tatti­
che, un tessuto di elementi talvolta passati, talvolta circostan­
ziali (legati a contingenze di moda), talvolta infine francamen­
te utopistici: alle necessità tattiche della guerra dei sensi si
somma il pensiero strategico delle nuove condizioni che sa­
ranno offerte al significante quando la guerra cesserà: è tipico
della critica culturale, infatti, essere impaziente, perché non
può muoversi senza desiderio. Nella sua scrittura sono dun-

4 [In francese, «lavoratori dell’intelletto» suona travailleurs de Γintellect, e


Barthes scherza sull’affinità di questa espressione con travailler du chapeau (lette­
ralmente, «lavorare di cappello»), che vuol dire «dare i numeri».
339
que presenti tutti i discorsi del marxismo: il discorso apologe­
tico (esaltare la scienza rivoluzionaria), il discorso apocalittico
(distruggere la cultura borghese) e il discorso escatologico (de­
siderare, invocare la non-divisione del senso, concomitante al­
la non-divisione tra le classi).

Il nostro inconscio.

Il problema che ci poniamo è il seguente: come fare perché


i due grandi epistemi della modernità, cioè la dialettica mate­
rialistica e la dialettica freudiana, si incontrino, si congiunga­
no e producano un nuovo rapporto umano (non bisogna esclu­
dere che un terzo termine sia celato nell’inter-detto dei due
precedenti)? E cioè: come aiutare l’inter-azione di questi due
desideri: cambiare Peconomia dei rapporti di produzione e
cambiare Peconomia del soggetto? (La psicanalisi ci appare
per il momento come la forza piu adatta al secondo di tali
compiti; sono però immaginabili altre topiche, per esempio
quelle dell’Oriente).
Questo lavoro di insieme passa attraverso la seguente do­
manda: che rapporto c’è tra la determinazione di classe e l’in­
conscio? Per quale spostamento tale determinazione si insinua
tra i soggetti? Non certo attraverso la «psicologia» (come se ci
fossero contenuti mentali: borghesi/proletari/intellettuali,
ecc.), ma evidentemente attraverso il linguaggio, il discor­
so: l’Altro, che parla, che è ogni parola, l’Altro è sociale. Da
un lato, il proletariato ha un bell’essere separato: nel suo di­
scorso culturale parla inconsciamente il linguaggio borghese,
nella sua forma degradata, piccolo-borghese; dall’altro, ha un
bell’essere muto: parla nel discorso dell’intellettuale, non co­
me voce canonica, fondatrice, ma come inconscio; è sufficien­
te vedere come colpisce tutti i nostri discorsi (il riferimento
esplicito dell’intellettuale al proletariato non impedisce affat­
to che quest’ultimo occupi, nei nostri discorsi, il ruolo dell’in­
conscio: l’inconscio non è l’in-coscienza); solo il discorso bor­
ghese della borghesia è tautologico: l’inconscio del discorso
borghese è si l’Altro, ma tale Altro è un altro discorso bor­
ghese.
340 SCRITTORI, INTELLETTU A LI, PROFESSORI

La scrittura come valore.

La valutazione precede la critica. Non è possibile mettere


in crisi senza valutare. Il nostro valore è là scrittura. Questo
riferimento ostinato, oltre al fatto che spesso può irritare,
sembra comportare secondo taluni un rischio: quello di svi­
luppare una certa mistica. Il rimprovero è malizioso, perché
rovescia punto per punto la portata che attribuiamo alla scrit­
tura: quella di essere, in questa piccola isola intellettuale del
nostro mondo occidentale, il campo matenalista per eccellenza.
Benché proceda dal marxismo e dalla psicanalisi, la teoria del­
la scrittura cerca di spostare, senza tagliare di netto, il proprio
luogo di origine; da un lato respinge la tentazione del signifi­
cato, cioè la sordità al linguaggio, al ritorno e al sovrannumero
dei suoi effetti; dall’altro si oppone alla parola in quanto que-
st’ultima non si presta al transfert ed elude - certo in modo
parziale, entro limiti sociali strettissimi, persino particolaristi­
ci - le trappole del «dialogo»; c’è in essa l’abbozzo di un ge­
sto di massa; contro tutti i discorsi (parole, «scrivenze», ritua­
li, protocolli, simbologie sociali), essa sola, attualmente, anche
solo sotto forma di un lusso, fa del linguaggio qualcosa di ato­
pico: senza luogo; è questa dispersione, questa non-situazione
ad essere materialista.

La parola pacifica.

Una delle cose che ci si può aspettare da una riunione rego­


lare di interlocutori è semplicemente questa: la benevolenza; il
fatto che tale riunione si configuri come uno spazio di parola
privo di aggressività.
Questa privazione non può realizzarsi senza resistenze. La
prima è di ordine culturale: il rifiuto della violenza è conside­
rato una menzogna umanistica, la cortesia (modo minore del
medesimo rifiuto) un valore di classe, e la disponibilità una
mistificazione della stessa natura del dialogo liberale. La se­
conda resistenza è di ordine immaginario: molti auspicano
una parola conflittuale perché liberatoria, in quanto comune­
mente si ritiene che evitare il confronto sia una cosa frustran­
te. La terza resistenza è di ordine politico: la polemica è un’ar­
ma essenziale di lotta; ogni spazio di parola deve essere frazio-
341

nato per farne emergere le contraddizioni, deve essere sotto­


posto a sorveglianza.
Tuttavia, ciò che in questi tre tipi di resistenze viene salva­
to è in ultima analisi Punita del soggetto nevrotico, che si nu-
nisce nelle forme del conflitto. Come tutti sanno, però, la vio­
lenza è sempre presente (nel linguaggio), e proprio per questo
si può decidere di metterne i segni tra parentesi e in tal modo
risparmiarsi una retorica: la violenza non deve essere assorbi­
ta dal codice della violenza.
Il primo vantaggio sarebbe di sospendere, o almeno ritar­
dare, i ruoli della parola: nell’ascoltare, nel parlare o nel ri­
spondere io non sarò mai l’attore di un giudizio, di un assog­
gettamento, di un’intimidazione, il procuratore di una Cau­
sa. Con ogni probabilità la parola pacifica finirà per palesa­
re il proprio ruolo, perché, qualunque cosa io dica, l’altro mi
legge sempre come un’immagine; nel tempo che impiegherò
per eludere tale ruolo, però, nel lavoro di linguaggio che la
comunità sarà chiamata a compiere, settimana dopo settima­
na, per espellere dal proprio discorso ogni sticomitia, verrà
realizzata una certa espropriazione della parola (vicina del re­
sto alla scrittura), oppure una certa generalizzazione del sog­
getto.
È forse quanto si prova facendo certe esperienze di droga
(sperimentando certe droghe). Senza fumare personalmente
(anche solo per l’impossibilità dei bronchi di inghiottire il fu­
mo), come rimanere insensibili alla benevolenza generale che
impregna certi locali stranieri dove si fuma il k if5? I gesti, le
parole (rare), tutto il rapporto dei corpi (rapporto nondimeno
immobile e distante) è disteso, disarmato (niente a che vede­
re, quindi, con l’ebbrezza alcolica, forma legale della violenza
in Occidente): lo spazio sembra piuttosto prodotto da una
sorta di ascesi sottile (vi si può leggere a volte una certa iro­
nia). La riunione di parola dovrebbe, a mio parere, ricercare
questa «sospensione» (non importa di che cosa: è una forma
quella che si desidera), tentare di realizzare uri arte di vivere,
la piu grande tra tutte le arti, diceva Brecht (questa visione sa­
rebbe piu dialettica di quanto non si creda, per il fatto che ob­
bligherebbe a distinguere e a valutare gli usi della violenza).
Insomma, nei limiti stessi dello spazio di insegnamento, quale
è dato, si tratterebbe di lavorare a tracciare pazientemente

5 [Miscuglio di tabacco e canapa indiana].


SCRITTORI, INTELLETTUALI, PROFESSORI

una forma pura, quella del fluttuamento (che è la forma stessa


del significante); tale fluttuamento non distruggerebbe nulla;
si accontenterebbe di disorientare la Legge: la necessità della
promozione, gli obblighi del mestiere (che nulla del resto im­
pedisce di onorare con scrupolo), gli imperativi del sapere, il
prestigio del metodo, la critica ideologica, tutto è presente,
ma fluttuante.

1 971, in « T el Q uel».
Al seminario

È un luogo reale o un luogo fittizio? Né l’uno né l’altro. È


un’istituzione tracciata sul modello utopico: delineo uno spa­
zio e lo chiamo seminaùo. È vero che l’assemblea cui mi rife­
risco si tiene ogni settimana a Parigi, cioè qui e ora; ma questi
avverbi sono a loro volta fantastici. Non esiste cosi alcuna ga­
ranzia di realtà, ma neppure vi è gratuità nell’aneddoto. Si
potrebbe anche dire diversamente: e cioè che il seminario
(reale) è per me l’oggetto di un (leggero) delirio, e che io sono,
letteralmente, innamorato di questo oggetto.I

I tre spazi.

La nostra adunanza è ristretta, non per ricerca di intimità,


ma di complessità: è necessario che alla geometria grossolana
dei grandi corsi pubblici succeda una topologia sottile dei rap­
porti corporei, di cui il sapere sarebbe il pre-testo. Tre spazi so­
no dunque presenti nel nostro seminario.
II primo è istituzionale. L’istituzione stabilisce una fre­
quenza, un orario, un luogo, talvolta un curricolo. Impone di
riconoscere dei livelli, una gerarchia? Niente affatto, almeno
qui; altrove la conoscenza è cumulativa: si sa più o meno Zit­
tita, si conosce piu o meno la scienza demografica. Ma il Te­
sto? Si possiede più o meno la lingua del testo? Il seminario -
questo seminario - non è fondato su una comunità di scienza,
quanto piuttosto su una complicità di linguaggio, cioè di desi­
derio. Si tratta di desiderare il Testo, di mettere in circolazio­
ne un desiderio di Testo (accettiamo lo slittamento del signi­
ficante: Sade parlava di un desiderio di testa).
Il secondo spazio attiene al transfert (la parola è usata qui
senza alcun rigore psicanalitico). Dov’è la relazione trasferen-
ziale? Secondo il punto di vista classico, si stabilisce tra il di-
AL SEMINARIO

rettore (del seminario) e il suo uditorio. Anche in questo sen­


so, tuttavia, tale relazione non è sicura: non dico ciò che so,
espongo ciò che faccio; non sono avvolto nel discorso intermi­
nabile del sapere assoluto, non sono nascosto nel silenzio ter­
rificante dell’Esaminatore (ogni docente - è questo il vizio
del sistema - è virtualmente un esaminatore); non sono né un
soggetto sacro (consacrato) né un compagno, ma solo un reg­
gente, un conduttore di seduta, un moderatore: colui che dà
regole o protocolli, non leggi. Il mio ruolo (se ne ho uno) è di
liberare la scena in cui si stabiliranno dei transfert orizzontali:
quel che conta, in un seminario del genere (la sede del suo
successo), non è il rapporto tra uditori e direttore, bensì quel­
lo degli uditori tra loro. Ecco che cosa bisogna dire (e che io
ho capito a forza di percepire il disagio delle adunanze troppo
numerose, dove tutti si lamentavano di non conoscere nessu­
no): il famoso rapporto di docenza non è quello tra docente e
discente, ma quello dei discenti tra loro. Lo spazio del semi­
nario non è edipico, ma attiene al falansterio, cioè, in un certo
senso, è romanzesco (il romanzesco è distinto dal romanzo, di
cui rappresenta l’esplosione: nell’opera di Fourier il discorso
armonico finisce in brandelli di romanzo: è il Nuovo Mondo
amoroso); il romanzesco non è né il falso né il sentimentale, è
soltanto lo spazio in cui circolano desideri sottili, desideri mo­
bili; è, nell’artificio stesso di una socialità la cui opacità sareb­
be per miracolo attenuata, il fitto intreccio dei rapporti amo­
rosi.
Il terzo spazio è testuale: sia che il seminario si proponga di
produrre un testo, di scrivere un libro (per montaggi successi­
vi di scritture) sia invece che consideri la sua stessa pratica -
non-funzionale - come costituente già di per sé un testo: il te­
sto piu raro, quello che non passa attraverso lo scritto. Un cer­
to modo di stare insieme può realizzare l’impugnazione di si-
gnificanza: esistono scrittori senza libro (io ne conosco), vi so­
no testi che non sono prodotti, ma pratiche; si può persino di­
re che il testo, con tutta la sua gloria, sarà un giorno una pra­
tica allo stato puro.
Di questi tre spazi nessuno è giudicato (disprezzato o loda­
to), nessuno prevale sugli altri. Ogni spazio è, a turno, il sup­
plemento, la sorpresa degli altri due; tutto è indiretto. (Orfeo
non si volge indietro a guardare il proprio godimento: quando
lo fa, lo perde; se noi ci volgiamo a considerare il sapere, o il
metodo, o l’amicizia, o il teatro stesso della nostra comunità,
AL SEMINARIO 34 5
tutta questa pluralità scompare: rimane soltanto Fistituzione,
o il compito, o lo psicodramma. L’indiretto è ciò davanti a cui
procediamo senza guardarlo).

La differenza.

In quanto falansterio, il seminario lavora sulla produzione


delle differenze.
La differenza non è il conflitto. Nei piccoli spazi intellet­
tuali il conflitto non è altro che lo scenario realistico, la paro­
dia grossolana della differenza, una fantasmagoria.
Ma che cosa vuol dire differenza? Che ogni relazione, a po­
co a poco (ci vuole del tempo), diventa originale', ritrova l’ori­
ginalità dei corpi presi uno ad uno, spezza la riproduzione dei
ruoli, la ripetizione dei discorsi, smantella qualsiasi esibizione
di prestigio, di rivalità.

La delusione.

Dal momento che ogni assemblea ha un certo rapporto con


il godimento, è fatale che sia anche uno spazio di delusione.
La delusione viene dopo due negazioni, la seconda delle
quali non distrugge la prima. Se constato che X... (docente,
coordinatore, relatore) non mi ha spiegato perché, come, ecc.,
tale constatazione rimane accettabile, e in un certo senso pri­
va di conseguenze: niente si sfalda, perché niente si era conso­
lidato; se però raddoppio il momento negativo, faccio sorgere
la figura del colmo, mi rivolto aggressivamente contro un de­
stino aggressivo; ricorro allora alla clausola della delusione per
eccellenza, il « neppure», che esprime insieme l’indignazione
intellettuale e il fallimento sessuale: «X... non ci ha neppure
detto, spiegato, dimostrato,... fatto godere». Quando la delu­
sione è generalizzata, ecco la débandade - lo sbando e il man­
cato godimento - dell’assemblea.

Moralità.

Decidiamo di parlare di erotismo ovunque il desiderio ha


un oggetto. Qui gli oggetti sono molteplici, mobili, o meglio
ancora fuggevoli, presi in un moto di apparizione/scomparsa:
346 AL SEMINARIO

sono frammenti di sapere, sogni di metodo, brandelli di frasi;


è l’inflessione di una voce, l’aria di un vestito, msomma tutto
quel che costituisce 1’«abito» di una comunità. E qualcosa che
si diffonde, che circola. Simile forse al semplice profumo di
una droga, questo lieve eretismo svincola, libera il sapere, lo
alleggerisce del suo peso di enunciati; ne fa appunto una enun­
ciazione , e agisce come garanzia testuale del lavoro.
Tutto ciò è detto solo in virtù del fatto che di solito non
viene detto. Partiamo da cosi lontano che sembra incongruo
che un luogo d ’insegnamento abbia anche la funzione di con­
siderare i corpi che in esso sono rappresentati; niente è piu tra­
sgressivo del tentativo di leggere Y espressione corporale di
un’assemblea. Provate a rimettere il corpo là donde è stato
cacciato, ed ecco determinarsi tutto uno slittamento di civiltà:
« Considero la moralità greca [oggi non potremmo dire: asiati­
caP] come la più alta che sia mai esistita; me lo prova il fatto
che essa ha portato al suo più alto livello l’espressione corpo­
rale. Ma la moralità alla quale penso è la moralità effettiva del
popolo, non quella dei filosofi. Con Socrate, comincia il decli­
no della morale... » In odio a ogni socratismo.

La conversazione.

La scrittura interviene quando si produce un certo effetto


(contraddittorio): che il testo sia nel contempo un folle di­
spendio e una riserva inesauribile - come se, toccato il fondo,
rimanesse ancora, illimitatamente, qualcosa da parte in vista
del testo successivo.
Forse Mallarmé suggeriva questo, quando chiedeva che il
Libro fosse analogo a una conversazione. Nella conversazione
infatti esiste anche una riserva, e tale riserva è il corpo. Il cor­
po è sempre l’avvenire di ciò che viene detto «tra noi». Pochi
millimetri, come l’inizio di una sconnessione, separano il di­
scorso dal corpo: appunto quei tre decimi la cui caduta defini­
sce lo stile, secondo l’attore Zeami (Giappone, xiv secolo):
«Fate muovere il vostro spirito ai dieci decimi, fate muovere
il vostro corpo ai sette decimi».
347

La «note étourdie».

Sapete a che cosa risale, etimologicamente, la parola étour­


di [stordito, distratto]? Al tordo ebbro di uva. Non è affatto
inverosimile, allora, che il seminario sia un poco étourdi: de­
viato fuori dal senso, dalla Legge, abbandonato a una qualche
euforia leggera, con le idee che nascono come per caso, indi­
rettamente, da un ascolto elastico, da una specie di swing del-
Γattenzione (vogliono «prendere la parola», mentre è «pren­
dere l’ascolto» che inebria, spiazza, sovverte; il punto debole
della Legge è nell’ascolto).
Nel seminario non vi è nulla da rappresentare, da imitare;
la note [voto e annotazione], pesante strumento di registrazio­
ne, suonerebbe stonata; si annota soltanto, a un ritmo im­
prevedibile, ciò che attraversa l’ascolto, ciò che nasce da un
ascolto étourdi. La note si diparte dal sapere come modello
(cosa da copiare); è scrittura, non memoria; è nella produzio­
ne, non nella rappresentazione.

Pratiche.

Immaginiamo - o ricordiamo - tre pratiche educative.


La prima pratica è l’insegnamento. Un sapere (anteriore) è
trasmesso dal discorso orale o scritto, involto nel flusso degli
enunciati (libri, manuali, corsi).
La seconda pratica è Vapprendistato. Il «maestro» (nessuna
connotazione di autorità; il riferimento sarebbe piuttosto
orientale) lavora perse stesso davanti all’apprendista; non par­
la, o almeno non tiene discorsi; quel che dice è puramente
deittico: «Qui faccio questo per evitare quello...» Silenziosa­
mente, si trasmette una competenza, si monta uno spettacolo
(quello di un fare), nel quale l’apprendista, salendo un gradino
dopo l’altro, s’introduce a poco a poco.
La terza pratica è Yattenzione materna. Quando il bambino
impara a camminare, la madre non parla né dimostra; non in­
segna a camminare, non rappresenta neppure l’atto (non cam­
mina davanti al bambino): sostiene, incoraggia, chiama (indie­
treggia e chiama); incita e tende le braccia: il bambino vuole
la madre e la madre desidera che il bambino cammini.
Nel seminario (per definizione) ogni insegnamento è pre­
cluso: non viene trasmesso alcun sapere (ma un sapere può es-
AL SEMINARIO

sere creato), non si tiene alcun discorso (ma si va alla ricerca


di un testo): l’insegnamento è frustrato. O qualcuno lavora, ri­
cerca, produce, riunisce, scrive di fronte agli altri; oppure tut­
ti si incitano, si chiamano, mettono in circolazione Poggetto
da produrre, il procedimento da organizzare, che si passano
cosi di mano in mano, sospesi al filo del desiderio, come Pa­
nello nel gioco che da esso prende il nome.

La catena.

Alle due estremità della metafora, due immagini della cate­


na: una, detestata, rinvia alla catena di montaggio; l’altra, vo­
luttuosa, rinvia alla figura sadiana, al rosario del piacere. Nel­
la catena alienata gli oggetti si trasformano (un motore di auto­
mobile), i soggetti si rìpetono: la ripetizione del soggetto (la sua
reiterazione) è il prezzo della merce. Nella catena del godi­
mento, del sapere, Poggetto è indifferente, ma i soggetti pas­
sano.
Il movimento del seminario potrebbe essere pressappoco
questo: passare da una catena all’altra. Lungo la prima catena
(classica, istituzionale) il sapere si costituisce, aumenta, pren­
de la forma di una specialità, cioè di una merce, mentre i sog­
getti persistono, ognuno al proprio posto (al posto della pro­
pria origine, della propria capacità, del proprio lavoro); ma,
lungo l’altra catena, Poggetto (il tema, la questione), indiret­
to, o nullo, o fallito, comunque alla deriva del sapere, non è la
posta di nessuna ricerca, di nessun mercato: non-funzionale,
perverso, è sempre solo lanciato, gettato a fondo perduto; nel­
l’arco della sua progressiva dispersione i soggetti fanno circo­
lare i desideri (analogamente, nel gioco dell’anello, l’intento
dichiarato è quello di passarselo l’un l’altro, ma il fine è di toc­
carsi le mani).
Lo spazio del seminario può essere regolato (un gioco lo è
sempre), ma non è regolamentato; nessuno è il capoclasse de­
gli altri, nessuno è li per sorvegliare, contabilizzare, accumu­
lare; ciascuno, di volta in volta, può diventare maestro di ce­
rimonia; la sola segnalazione è iniziale; c’è solo una figura di
partenza, il cui ruolo - che è soltanto un gesto - consiste nel
lanciare in lizza Panello. Da questo punto in poi la metafora
del gioco non funziona piu; non abbiamo piu a che fare, infat­
ti, con una catena, ma con un ordine di ramificazioni, un al­
bero di desideri: catena tesa, franta, cosi descritta da Freud:
349
«Le scene... non formano semplici file, come in una collana di
perle, ma insiemi che si ramificano come gli alberi genealo­
gici... »

Il sapere, la morte.

Durante il seminario sono messi in discussione i rapporti


tra il sapere e il corpo. Quando si dice che bisogna mettere in
comune il sapere, tale fronte si schiera dunque anche contro
la morte. Tutti per tutti: che il seminario sia il luogo in cui il
passo del sapere si demoltiplica, in cui il mio corpo non è co­
stretto a riprendere ogni volta da capo il sapere appena morto
in un altro corpo (da studente, il solo professore che io abbia
amato e ammirato è stato Γellenista Paul Mazon; quando è
morto, non ho mai smesso di rimpiangere il fatto che tutto il
sapere della lingua greca scomparisse con lui, e che un altro
corpo dovesse ricominciare rinterminabile tragitto della gram­
matica, a partire dalla coniugazione di deiknumi). Il sapere,
come il godimento, muore con ogni corpo. Donde Pidea vitale
di un sapere che scorre, che « si rifornisce » attraverso corpi
diversi, al di fuori dei libri; imparate questo per me, imparerò
questo per voi: economia del giro, dell’alternanza, illustrata da
Sade nell’ordine del piacere («Ora vittima di un momento,
mio bell’angelo, e poco fa persecutrice... »).

Come passare la mano?

Quando il «maestro» mostra (o dimostra) qualcosa, non


può evitare di manifestare una certa superiorità {magister: co­
lui che è al di sopra). Tale superiorità può derivare da uno sta­
tuto (quello di «professore»), da una competenza tecnica (ad
esempio, quella di un maestro di pianoforte), o da un control­
lo eccezionale del corpo (nel caso del guru). Comunque, l’oc­
casione di superiorità si trasforma in rapporto di autorità. Co­
me fermare (deviare) questa tendenza? Come sfuggire all’au­
torità?
Questa domanda discende da un’altra: qual è di fatto il mio
posto nel nostro seminario? Professore? Tecnico? Guru? Non
sono nulla di tutto ciò. Tuttavia (negarlo sarebbe pura dema­
gogia), qualcosa che non posso dominare (e che dunque mi
precede) mi istituisce come differenza. O meglio, io sono co-
AL SEMINARIO

lui il cui ruolo si orìginalizza per primo (supposto, come si è


detto, che nel seminario, spazio di differenze, ogni rapporto
debba tendere all’originalità). La mia differenza consiste in
questo (e in nient’altro): ho scùtto. Ho dunque qualche chan­
ce per essere collocato nel campo del godimento, non in quel­
lo dell’autorità.
Tuttavia, la Legge resiste, il dominio continua a pesare, la
differenza rischia di essere saltuariamente percepita come va­
gamente repressiva: sono colui che parla più degli altri, sono
colui che contiene, misura o ritarda il crescendo irreprimibile
della parola. Lo sforzo personale per passare la mano (la paro­
la) non può prevalere sulla situazione strutturale, che stabili­
sce qui un plusvalore di discorso e li, di conseguenza, un man­
cato godimento. Ogni volta che cerco di affidare il seminario
ad altri, mi ritorna indietro: non posso liberarmi di una sorta
di «presidenza», sotto il cui sguardo la parola si blocca, si
confonde o si imballa. Dunque, rischiamo di piu: scriviamo al
presente, produciamo davanti agli altri e talvolta con loro un
libro in fieri\ mostriamoci in stato di enunciazione.

L'uomo dagli enunciati.

Il Padre (continuiamo per un po’ a fantasticare su questo


principio di intelligibilità), il Padre, dunque, è il Parlatore: co­
lui che tiene discorsi al di fuori del fare, scissi da ogni produ­
zione; il Padre è l’Uomo dagli enunciati. Nulla di piu trasgres­
sivo, quindi, del sorprendere il Padre in stato di enunciazio­
ne; è come sorprenderlo in stato di ebbrezza, di godimento,
di erezione: spettacolo intollerabile (forse sacro, nel senso da­
to da Bataille a questa parola), che uno dei figli si affretta a
sottrarre alla vista - altrimenti Noè perderebbe la sua pater­
nità.
Colui che mostra, che enuncia, che mostra l’enunciazione
non è piu il Padre.

Insegnare.

Insegnare ciò che ha avuto luogo una sola volta: che con­
traddizioni in termini! Insegnare non è forse, sempre, ripe­
tere?
È proprio quanto il vecchio Michelet credeva di aver fatto:
351

«Ho sempre badato di insegnare solamente ciò che non sape­


vo... Avevo trasmesso queste cose come le sentiva allora la
mia passione, nuove, animate, ardenti (e per me affascinanti),
sotto il primo richiamo delPamore».

GuelfojGhibellino.

Lo stesso Michelet contrapponeva il Guelfo al Ghibellino.


Il Guelfo è l’uomo della Legge, l’uomo del Codice, il Legista,
10 Scriba, il Giacobino, il Francese (vogliamo aggiungere l’In­
tellettuale?) Il Ghibellino è l’uomo del legame feudale, del
giuramento con il sangue, l’uomo della devozione affettiva, il
Tedesco (e anche Dante). Se si potesse estendere questa gran­
de simbologia ad altri fenomeni minori, si potrebbe dire che
11 seminario è di spirito ghibellino, non guelfo - implicando
ùna preminenza del corpo sulla legge, del contratto sul codice,
del testo sullo scritto, dell’enunciazione sull’enunciato.
O meglio: tale paradigma, che Michelet viveva direttamen­
te, dobbiamo circoscriverlo, sottilizzarlo; non contrapponia­
mo piu l’intelligenza arida al cuore caloroso, ma ci serviamo di
strumenti eccezionali come la scienza, il metodo, la critica,
per enunciare dolcemente, qualche volta e da qualche parte (e
queste intermittenze sono la giustificazione stessa del semina­
rio) ciò che potremmo chiamare, secondo uno stile desueto, le
mozioni del desiderio. O ancora: come per Brecht la Ragione
non è mai altro se non l’insieme delle persone ragionevoli, co­
si per noi, gente del seminario, la ricerca non è mai altro se
non l’insieme delle persone che cercano (che si cercano?).

Giardino sospeso.

Nell’immagine del giardino sospeso (in realtà, da dove de­


riva questo mito, questa immaginazione?) è la sospensione che
attira ed affascina. Collettività in pace in un mondo in guerra,
il nostro seminario è un luogo sospeso; si tiene ogni settimana,
nel bene o nel male, espresso dal mondo che lo circonda ma al
tempo stesso opponendovi resistenza, assumendo pian piano
l’immoralità di un’incrinatura nella totalità che preme da ogni
parte (meglio dire: il seminario ha la propria moralità). L’idea
sarebbe poco tollerabile se non si conferisse legittimità mo­
mentanea alla non-comunicazione dei comportamenti, delle
AL SEMINARIO

ragioni, delle responsabilità. In breve, a modo suo il semina­


rio dice no alla totalità; realizza, per cosi dire, uri utopia par­
ziale (donde il riferimento costante a Fourier).
Questa sospensione, tuttavia, è di per sé storica; interviene
in una certa apocalisse della cultura. Le scienze cosiddette
umane non hanno piu alcun rapporto autentico con la pratica
sociale - salvo confondersi e perdersi in essa (come la sociolo­
gia); e la cultura, nel suo insieme, non essendo piu sostenuta
dall’ideologia umanista (o rifiutandosi sempre piu di sostener­
la), ritorna nella nostra esistenza solo sotto specie di comme­
dia: ormai è recepibile, in un certo senso, solo in secondo gra­
do, non piu come valore rettilineo, ma come valore rovescia­
to: kitsch, plagio, recita, piacere, gioco di specchi di un
linguaggio-farsa al quale crediamo e non crediamo (è tipico del­
la farsa), frammento di pastiche; siamo condannati all’antolo­
gia, salvo ripetere una filosofia morale della totalità.

A l seminario.

A l seminario', questa espressione deve essere intesa come


un locativo, come un elogio (quale quello che il poeta von
Schober e il musicista Schubert rivolsero «Alla Musica»), e
come una dedica.
Il processo che si istruisce periodicamente

Il processo che si istruisce periodicamente agli intellettuali


(a partire dall 'affaire Dreyfus, che ha visto, credo, la nascita
della parola e della nozione) è un processo per magia: l’intel­
lettuale è trattato come potrebbe esserlo uno stregone da una
tribù di mercanti, di uomini d ’affari e di legisti: è colui che
turba degli interessi ideologici. L’antiintellettualismo è un mi­
to storico, legato con ogni probabilità all’ascesa della piccola
borghesia. Poujade ha espresso una volta tale mito nella forma
piu cruda («il pesce comincia a marcire dalla testa»). Un pro­
cesso del genere può periodicamente eccitare la platea, come
qualsiasi processo alle streghe; non deve però esserne misco­
nosciuto il rischio politico, il quale non è altro che il fascismo,
il cui obiettivo primario consiste, sempre e ovunque, nel liqui­
dare la classe intellettuale.
I compiti dell’intellettuale sono definiti da quelle stesse re­
sistenze, dal luogo da cui partono; Brecht le ha formulate piu
volte: si tratta di analizzare l’ideologia borghese (e piccolo­
borghese), di studiare le forze che fanno muovere il mondo e
di far progredire la teoria. Sotto queste formule devono evi­
dentemente essere poste una grande varietà di pratiche di
scrittura e di linguaggio (dal momento che l’intellettuale si as­
sume il ruolo di essere il linguaggio, il che per l’appunto turba
la sicurezza di un mondo che contrappone superbamente le
«realtà» alle «parole», come se il linguaggio fosse per l’uomo
solo la cornice inutile di interessi piu sostanziali).
La situazione storica dell’intellettuale non è comoda; non
per i ridicoli processi che vengono istruiti contro di lui, ma
perché è una situazione dialettica: la funzione dell’intellettua­
le è di criticare il linguaggio borghese sotto il regno stesso del­
la borghesia; deve essere nello stesso tempo un analista e un
utopista, rappresentare insieme le difficoltà e i folli desideri
del mondo; vuole essere un contemporaneo storico e filosofi-
IL PROCESSO CHE SI ISTRUISCE PERIODICAMENTE

co del presente: che cosa varrebbe e che ne sarebbe di una so­


cietà che rinunciasse a superarsi? E come guardarsi altrimenti
se non parlandosi?

1974, in «Le M onde».


Uscendo dal cinema

Il soggetto che parla qui deve riconoscere una cosa: gli pia­
ce uscire da una sala cinematografica. Ritrovandosi nella stra­
da illuminata e quasi deserta (ci va sempre di sera e lungo la
settimana) e dirigendosi mollemente verso qualche caffè,
cammina in silenzio (non gli piace parlare subito del film che
ha appena visto), un po’ intorpidito, goffo, infreddolito - in­
somma, assonnato: ha sonno, ecco a che cosa pensa; nel suo
corpo si è diffuso un senso di sopore, di dolcezza, di calma:
languido come un gatto addormentato, si sente un po’ disar­
ticolato, o meglio (perché per un’organizzazione morale il ri­
poso non può consistere che in questo) irresponsabile. In bre­
ve, è evidente, esce da uno stato di ipnosi. E dell’ipnosi (vec­
chia arma psicanalitica che la psicanalisi sembra ormai tratta­
re con condiscendenza1) ciò che percepisce è il piu antico dei
poteri: quello di guarire. Pensa allora alla musica: non ci sono
forse delle musiche ipnotiche? Il castrato Farinelli, la cui mes­
sa di voce12 fu incredibile « sia per durata sia per emissione »,
leni la malinconia morbosa di Filippo V di Spagna cantandogli
la stessa romanza ogni sera per quattordici anni.

Dal cinema si esce spesso proprio cosi. Come vi si entra?


Fatta eccezione per il caso - a dire il vero sempre più fre­
quente - di una ricerca culturale ben precisa (film scelto, vo­
luto, cercato, oggetto di una vera e propria vigilanza prelimi­
nare), si va al cinema approfittando di un momento di ozio, di
disponibilità, di vacanza. Tutto si svolge come se, prima anco­
ra di entrare nella sala, si sommassero le condizioni classiche
dell’ipnosi: vuoto, ozio, disimpegno; non è davanti al film o a
causa del film che si sogna; inconsapevolmente, si sogna pri-

1 Cfr. «Ornicar?», n. i, p. n .
2 [In italiano nel testo].
USCENDO DAL CINEMA

ma ancora di diventarne spettatori. C ’è una «situazione da ci­


nema», e tale situazione è pre-ipnotica. Per citare una meto­
nimia che risponde al vero, il nero della sala è prefigurato dal­
la «fantasticheria crepuscolare» (preliminare all’ipnosi, secon­
do Breuer-Freud) che precede il nero e conduce il soggetto, di
strada in strada, di manifesto in manifesto, a inabissarsi infi­
ne in un cubo oscuro, anonimo, indifferente, dove deve pro­
dursi quel festival di affetti che viene chiamato film.

Che cosa vuol dire il «nero» del cinema (non posso mai,
parlando di cinema, impedirmi di pensare «sala», piu che
«film»)? Il nero non è solo la sostanza stessa della fantastiche­
ria (nel senso pre-ipnotico del termine); è anche il colore di un
erotismo diffuso; grazie alla sua condensazione umana, alla
sua assenza di mondanità (contraria all’«apparire» culturale
di ogni sala di teatro), all’affossamento delle posizioni (quanti
spettatori, al cinema, si lasciano scivolare nella loro poltrona
come in un letto, con il cappotto o i piedi sul sedile anteriore),
la sala cinematografica (di tipo comune) è un luogo di disponi­
bilità, ed è la disponibilità (ancor piu della drague), l’ozio dei
corpi, a definire meglio l’erotismo moderno, non quello della
pubblicità o degli strip-teases, ma quello della grande città. È
in questo nero urbano che si esercita la libertà del corpo; quel
lavorio invisibile degli affetti possibili trae origine da quello
che si può considerare un vero e proprio bozzolo cinematogra­
fico; lo spettatore di cinema potrebbe far suo il motto del ba­
co da seta: Inclusum labor illustrat; è perché sono rinchiuso
che lavoro e risplendo di tutto il mio desiderio.
In questo nero del cinema (nero anonimo, popolato, nume­
roso: oh, la noia, la frustrazione delle proiezioni cosiddette
private!) risiede il fascino stesso del film (qualunque esso sia).
Ricordate l’esperienza opposta: alla televisione, che proietta
anch’essa dei film, quel fascino ipnotico è del tutto assente; il
nero è cancellato, l’anonimato rimosso; lo spazio è familiare,
articolato (dai mòbili, dagli oggetti ben noti), addomesticato:
l’erotismo - diciamo meglio, per farne comprendere la levità,
l’incompiutezza: Verotizzazione - del luogo è precluso: dalla
televisione, siamo condannati alla Famiglia, di cui essa è dive­
nuta lo strumento domestico, come un tempo il focolare, con
la sua grande pentola comune.
357

In questo cubo opaco, una luce: il film, lo schermo? Si, cer­


tamente. Ma anche (ma soprattutto?), visibile e inosservato,
quel cono danzante che perfora il nero, come un raggio di la­
ser. Tale raggio si converte, secondo la rotazione delle sue
particelle, in figure cangianti; giriamo il volto verso il contro-
valore di una vibrazione brillante, il cui getto imperioso rasen­
ta la nostra testa, sfiora, di spalle, di sbieco, una capigliatura,
un volto. Come nei vecchi esperimenti di ipnotismo, siamo
affascinati, senza vederlo in faccia, da questo spazio brillante,
immobile e danzante.

Tutto accade come se un lungo stelo di luce delineasse i


contorni di una serratura, e tutti noi, attoniti, guardassimo at­
traverso il buco. Che cosa? Nulla, in quell’estasi, è originato
dal suono, dalla musica, dalle parole? Di solito - nella produ­
zione corrente - il protocollo sonoro non può produrre alcun
ascolto affascinante; concepito per rafforzare la verosimiglian­
za dell’aneddoto, il suono è solo uno strumento supplementa­
re di rappresentazione; lo si vuole integrare con docilità al­
l’oggetto mimato, non lo si distanzia minimamente da tale og­
getto; e dire che basterebbe pochissimo per distaccare quella
pellicola sonora: un suono spostato o reso piu forte, una voce
che «macini» la sua grana, vicinissima nel cavo delle nostre
orecchie, e il fascino ricomincia; perché esso deriva sempre
solo dall’artificio - o meglio ancora: àùY artefatto - come il
raggio danzante del proiettore, che afriva, dall’alto o di fian­
co, a confondere la scena mimata dallo schermo, senza tuttavia
sfigurarne Vimmagine (la gestalt, il senso).

Questa è infatti la stretta spiaggia - almeno per il soggetto


che qui sta parlando - in cui si gioca l’intontimento filmico,
l’ipnosi cinematografica: bisogna che io sia nella storia (la vero­
simiglianza mi richiede), ma bisogna anche che io sia altrove:
un immaginario leggermente distanziato, ecco, da feticista
scrupoloso, consapevole, organizzato - insomma, difficile -,
che cosa esigo dal film e dalla situazione in cui vado a cercarlo.

L’immagine filmica (compreso il suono) che cos’è? X]vl illu­


sione. Questa parola va intesa nel senso analitico. Sono chiuso
con l’immagine come se fossi compreso nella famosa relazio­
ne duale che fonda l’Immaginario. L’immagine è li, davanti a
me, per me: coalescente (significante e significato ben fusi in-
USCENDO DAL CINEMA

sieme), analogica, globale, pregnante; è un’illusione perfetta:


mi precipito su di essa come un animale sul pezzo di stoffa
«somigliante» che gli tendo; e, beninteso, essa tiene vivo nel
soggetto che io credo di essere Pequivoco legato all’Io e al­
l’Immaginario. Nella sala cinematografica, per quanto io sia
seduto lontano, incollo il naso, fino a schiacciarlo, allo spec­
chio dello schermo, a quell’«altro» immaginario nel quale mi
identifico narcisisticamente (si dice che gli spettatori che scel­
gono di mettersi il piu vicino possibile allo schermo sono i
bambini e i cinefili); l’immagine mi cattura, mi rapisce: mi in­
collo alla rappresentazione, ed è questa colla a fondare la na­
turalità (la pseudo-natura) della scena filmata (colla preparata
con tutti gli ingredienti della «tecnica»); il Reale, da parte
sua, conosce solo distanze, il Simbolico maschere; solamente
l’Immagine (l’Immaginario) è vicina, solamente l’immagine è
vera (può produrre l’eco della verità). In fondo, l’immagine
non ha forse, per statuto, tutti i caratteri à Æ ideologico? Il
soggetto storico, come lo spettatore di cinema che sto imma­
ginando, aderisce (si incolla) anch’egli al discorso ideologico:
ne prova la coalescenza, la sicurezza analogica, la pregnanza,
la naturalezza, la «verità»: è un’illusione (la nostra illusione,
perché chi vi sfugge?); l’Ideologico sarebbe in fondo l’Imma­
ginario di un periodo, il Cinema di una società; come il film
che sa attirare gli spettatori, ha anch’essa i suoi fotogrammi:
gli stereotipi con cui articola il suo discorso; lo stereotipo non
è anch’esso un’immagine fissa, una citazione cui il nostro lin­
guaggio aderisce? Non abbiamo nei confronti del luogo comu­
ne un rapporto duale: narcisistico e materno?

Come scollarsi dallo specchio? Tentiamo una risposta che


sarà un gioco di parole: «decollando» (nel senso aereonautico
e relativo alla droga del termine). Certo, è sempre possibile
concepire un’arte che rompa il cerchio duale, la fascinazione
filmica, e liberi dalle pastoie, dall’ipnosi del verosimile (dell’a­
nalogico), ricorrendo allo sguardo (o all’ascolto) critico dello
spettatore; non è quello che accade nell’effetto brechtiano di
straniamento? A risvegliare dall’ipnosi (immaginaria e/o ideo­
logica) possono contribuire molte cose: i procedimenti dell’ar­
te epica, la cultura dello spettatore o la sua vigilanza ideologi­
ca; contrariamente all’isteria classica, l’immaginario scompa­
rirà dal momento stesso in cui sarà osservato. Ma c’è un altro
modo di andare al cinema (non piu armati del discorso della
contro-ideologia); lasciandosi affascinare due volte, dall’imma-
359
gine e dai suoi contorni, come se avessi due corpi nello stesso
tempo: un corpo narcisistico che guarda, perduto nello spec­
chio vicino, e un corpo perverso, pronto a feticizzare non
Pimmagine, ma per l’appunto ciò che la eccede: la grana del
suono, la sala, il nero, la massa oscura degli altri corpi, i raggi
della luce, l’entrata, l’uscita; in breve, per straniarmi, per
«decollare», complico una «relazione» con una «situazione».
Ciò di cui mi servo per prendere le distanze dall’immagine,
ecco, in fin dei conti, ciò che mi affascina: sono ipnotizzato
da una distanza; e tale distanza non è critica (intellettuale); è,
per cosi dire, una distanza amorosa: esisterebbe, anche al ci­
nema (e considerando la parola nel suo profilo etimologico),
un godimento possibile della discrezione?

1975, in «Communications».

13
L’immagine

Si dà il caso che questo testo, preparato qualche giorno fa


frettolosamente, sembrerà copiare ciò che è stato detto dopo, e
che voi potrete occasionalmente riconoscere. E un richiamo a
temi persistenti, collocato in una certa prospettiva: la prospet­
tiva della mia attualità in quanto inattuale.

All’origine del tutto, la Paura. (Di che cosa? Dei colpi, delle
umiliazioni?) Parodia del Cogito, come istante fittizio in cui,
dopo che tutto è stato spazzato via, questa tabula rasa possa es­
sere rioccupata: «Ho paura, dunque vivo». Un’osservazione:
secondo i costumi odierni (sarebbe necessaria un’etologia degli
intellettuali), non si parla mai della paura: è preclusa al discor­
so, e anche alla scrittura (potrebbe esistere una scrittura della
paura?) Situata all’origine, ha un valore di metodo; da essa
prende avvio un cammino iniziatico.

In greco, Maché significa tenzone, battaglia - la singoiar


tenzone, il duello, la lotta in una gara. Ludismo del conflitto,
della sfida: io lo detesto. Pare che ai francesi piaccia: rugby,
«faccia a faccia», tavole rotonde, scommesse, sempre stupide,
ecc. C’era un senso piu penetrante: «contraddizione in termi­
ni»; cioè tranello logico, double bind, origine di psicosi. L’anto­
nimo logico di Maché è Acolouthia, il seguito naturale, conse­
guenza, extra-conflittualità; questa parola ha anche un altro
senso, che ritroveremo.
Il linguaggio è il campo della Maché: pugna verborum. C’è un
intero dossier da costituire - un libro da fare: quello delle con­
testazioni regolate di linguaggio; lo sono sempre: nel linguaggio
non c’è mai nulla di selvaggio, tutto è codificato, anche e so­
prattutto le prove di forza: Sofistica, Disputatio, Hain-Tenys,
faccia a faccia politici, dibattiti intellettuali di oggi. Il modello
- o l’assunto - ne è la «scena», nel senso domestico (scenata)
del termine.
L’IMMAGINE

In questo campo chiuso del linguaggio, costruito come un


terreno da football, ci sono due luoghi estremi, due porte che
non è mai possibile aggirare: la Stupidità da una parte, ΓIlleg­
gibile dall’altra. Sono due diamanti: inoffuscabile trasparenza
della Stupidità; infrangibile opacità dell’Illeggibile.

La Stupidità non è legata all’errore. Sempre trionfante (im­


possibile da vincere), il suo trionfo deriva da una forza enig­
matica: è Vessere-li nella sua nudità, nel suo splendore. Donde
un terrore e un fascino: quello del cadavere. (Cadavere di che
cosa? Forse della verità: la verità in quanto morta). La Stupi­
dità non soffre (Bouvard e Pécuchet: piu intelligenti, soffriro­
no di piu). Dunque è li, ottusa come la Morte. Lo scongiuro
non può essere che un’operazione formale, che la investe in
blocco, dall’esterno: «La stupidità non è il mio forte» (M. Te­
ste). Questa parola è sufficiente in un primo tempo. Ma c’è
uno scaglionamento infinito degli argomenti: ed è di nuovo
stupido.
Questa meccanica dei « tempi » (come si dice dei tempi di
un motore), in materia di linguaggio, è importante. Si vedano
i sistemi forti (Marxismo, Psicanalisi); in un primo tempo,
hanno una funzione (efficace) di contro-Stupidità: passare at­
traverso di essi significa smaliziarsi; coloro che li rifiutano
completamente entrambi (quelli che dicono di no, visceral­
mente, ciecamente, testardamente, sia al marxismo sia alla
psicanalisi) dimostrano, nella visceralità del loro atteggiamen­
to, una sorta di stupidità, di triste opacità. In un secondo
tempo, però, gli stessi sistemi diventano stupidi. Appena «at­
tecchiscono », comincia la stupidità. Si ha voglia di fuggire al­
trove: Ciao! \ Obbligato!

Un certo testo è considerato «illeggibile». Ho un rapporto


scottante con l’illeggibilità. Soffro se un testo mi riesce illeg­
gibile, eppure sono stato a mia volta accusato di esserlo. Ri­
trovo qui lo stesso affanno che mi provoca la Stupidità. Di­
pende da me? O dall’altro? È l’altro ad essere illeggibile (o
stupido)? O sono io limitato, inetto, sono io a non capire?
Davanti al testo che non so né posso leggere sono, letteral­
mente, « scombussolato »; si produce in me una vertigine, una
turba dei canali labirintici: tutti gli «otoliti» cadono da una
sola parte; nel mio ascolto (nella mia lettura) la massa signifi-

[In italiano nel testo].


L’IMMAGINE 363
cante del testo vacilla, non è piu aerata, non è piu equilibrata
da un gioco culturale.
Lo statuto di «illeggibilità» è inafferrabile «scientificamen­
te» (linguisticamente), salvo ricorrere a norme, che però sono
incerte, variano gradualmente. Ciò rinvia inesorabilmente a
una situazione di linguaggio {language in use); la linguistica sa
bene che in questo momento deve occuparsene, altrimenti
morirà; ma in tal caso deve attirare a sé tutta la superficie del
mondo, del soggetto. L?illeggibilità è una sorta di cavallo di
Troia nella fortezza delle scienze umane.
A poco a poco, tuttavia, si afferma in me un desiderio cre­
scente di leggibilità. Voglio che i testi che ricevo siano «leggi­
bili», e voglio che siano «leggibili» anche i testi che scrivo.
Come? Grazie a un lavoro sulla Frase, sulla Sintassi; accetto il
«tetico» (legato alla Frase da Julia Kristeva, a proposito del-
YOlophrase), anche a costo di truccarlo con mezzi diversi dalla
sintassi. Una frase «ben fatta» (secondo un modello classico)
è chiara; semplicemente, può essere tesa verso una certa oscu­
rità da un certo uso dell*ellissi: bisogna dosare le ellissi; cosi
pure le metafore; una scrittura continuamente metaforica mi
sfinisce.
Mi viene un'idea un po' bizzarra (bizzarra per eccesso di
umanesimo): «Non si dirà mai abbastanza quale amore (per
l’altro, il lettore) ci sia nel lavoro sulla frase». Carità del Teti­
co, Agapé della sintassi? Nella teologia negativa, YAgapé è pe­
netrata dAYEros; perciò: erotismo della Frase «leggibile»?

Ritorno alle intimidazioni del linguaggio - al linguaggio


come Tenzone, come Maché. Mi viene in mente una metafo­
ra: quella della ventosa. Penso ai linguaggi forti, sistematici,
come quello dei soggetti che hanno una fede, una certezza,
una convinzione, e che è per me un enigma permanente: come
può un corpo ademe a un’idea - o un’idea a un corpo? Ci so­
no dei linguaggi-ventosa, il cui enigma raddoppia quando un
sistema di linguaggio demistificatorio, critico, che mira in teo­
ria a «de-ventosizzare» il linguaggio di cui sopra, diventa a
sua volta un « collante », grazie al quale il soggetto militante
diventa il parassita (felice) di un tipo di discorso.
Ho suggerito piu volte (a dire il vero, dovrei farlo io stesso)
di redigere una lista, un codice di «figure sistemiche»; analo­
ghe alle «figure rettoriche», sarebbero delle fogge di pensiero,
delle «argomentazioni», per cosi dire, che avrebbero, da un
sistema all’altro, la stessa funzione (e in questo senso si tratte-
L’IMMAGINE

rebbe di una «forma»): assicurare in anticipo al sistema la ή-


sposta che è possibile dare alle sue proposizioni; in altri termi­
ni, integrare al proprio codice, alla propria lingua, le resisten­
ze a quello stesso codice, a quella stessa lingua: spiegare tali re­
sistenze, secondo il proprio sistema di spiegazione; ad esem­
pio, quando proprio qui François Wahl ci dice che la Psicana­
lisi è oggi la sola riserva della Metafora (differenziandosi cosi
dalla decadenza generale del tempo presente), produce, a pa­
rer mio, una figura di sistema: la Psicanalisi dichiara di essere
la sola a onorare una funzione che è stata la sola a postulare e
a descrivere; la stessa cosa, detto in modo piu rozzo, accade
quando la psicanalisi eleva la venalità dell’atto psicanalitico a
procedura che non rinvia all’economia di mercato, ma agli ob­
blighi immanenti alla cura; o quando il marxismo - o almeno
la sua vulgata - «riconduce» ogni opposizione alla propria
teoria a una tematica di classe; o infine, per riferirci al cristia­
nesimo, linguaggio-sistema a suo tempo «forte», quando Pa­
scal fa rientrare nel discorso cristiano la resistenza stessa a ta­
le discorso («Non mi cercheresti se non mi avessi già tro­
vato»).
Queste figure di sistema hanno una grande forza (è il loro
motivo di interesse) ed è molto difficile sfuggirvi - per quan­
to si voglia evitare di contraddire il sistema in nome di un al­
tro sistema, ma solo «sospendere», fuggire la volontà di domi­
nio che linguaggi del genere implicano. Come tollerare, limi­
tare, allontanare i poteri del linguaggio? Come sfuggire ai «fa­
natismi» (i «razzismi» di linguaggio)?
A questa vecchia domanda non è stata data, mi pare, nes­
suna nuova risposta. La Storia non ha prodotto alcun salto
del Discorso: là dove la Rivoluzione ha avuto luogo, non ha
potuto «cambiare il linguaggio». Il rifiuto delle intimidazioni
del linguaggio consiste perciò, modestamente, nel deHvare al­
l’interno di parole conosciute (senza preoccuparsi troppo se
sono fuori moda); ad esempio: Tolleranza, Democrazia, Con­
tratto.
Tolleranza: bisognerebbe recuperare la nozione, definire
una nuova Tolleranza, dal momento che esiste una nuova In­
tolleranza (sarebbe istruttivo fare una carta del mondo attuale
in funzione di queste nuove Intolleranze). Democrazia: è una
parola satura di delusioni, fino al disgusto, talvolta fino alla
violenza; le false apparenze della democrazia borghese sono
state ampiamente demistificate. Forse però non è il caso di
gettar via, con l’acqua sporca, anche il bambino. Mi piacereb-
L’IMMAGINE 365
be una teoria degli «strati di acquisizione» della Storia: la
borghesia, come la terra, è costituita da molti strati, alcuni
buoni, altri cattivi; bisogna distinguere, istituire una geologia
differenziale. E poi, si può avere un'idea difficile della Demo­
crazia: definirla non come la realizzazione di una gregarietà
soffocante, ma come «ciò che dovrebbe produrre delle anime
aristocratiche» (dice un commentatore di Spinoza). Contratto:
intorno a questa parola c’è tutto un dossier sociopolitico, e
anche psicanalitico; lasciamolo da parte; definiamo il Contrat­
to, a minimo, come un dispositivo artigianale (fragile) che im­
pedisce all’altro (e perciò, inversamente, a me stesso) di strin­
germi nella morsa di un’alternativa: o essere un mascalzone
(se devo rispondere ai suoi colpi, alla sua volontà di potenza),
o essere un santo (se devo rispondere alla sua generosità); in
fondo, il Contratto ha questa virtù: dispensare chiunque dal­
l’essere o un Maledetto o un Eroe (Brecht: «Beati i popoli che
non hanno bisogno di eroi»).

Tutto ciò implica che a mio avviso esiste una pusillanimità,


una insignificanza dei conflitti, e anche, me ne accorgo molto
spesso, una sorta di ridicolo esibizionismo delle volontà di
conflitto, la speranza puerile di «far colpo». Questa impres­
sione di mediocrità assume la forma di un aforisma: chi si
vuole violento ha un’idea ben misera della violenza. Per me la
violenza reale è quella del «Tutto passa», quella della deca­
denza, dell’oblio, dell’impotenza somma. La violenza della
scomparsa è più forte di quella della frattura; la morte è vio­
lenta: lo è meno quella che si dà, che si dà volontariamente, di
quella che viene da sola (una violenza che forse solo le persone
di una certa età possono comprendere).

Lotta tra i sistemi di linguaggio: metafora della ventosa.


Ritorniamo ora alla lotta delle Immagini («immagine»: ciò
che credo l’altro pensi di me); come può una mia immagine
«prendere» al punto da ferirmi? Ecco una nuova metafora:
«Nella padella l’olio è sparso, piano, liscio, insonoro (appena
un po’ di vapore): una specie di matena prìma. Gettatevi un
pezzo di patata: è come un’esca lanciata ad animali che dor­
mono con un occhio solo, ma in realtà stanno in agguato: tutti
si precipitano, circondano, attaccano rumorosamente; è un
banchetto vorace. Il pezzetto di patata è accerchiato: non di­
strutto, ma indurito, rosolato, caramellato; diventa un ogget­
to: una patata fritta». Cosi, su ogni oggetto, il buon sistema
L’IMMAGINE

di linguaggio agisce, si dà da fare, accerchia, rumoreggia, indu­


risce e indora. Tutti i linguaggi sono micro-sistemi di bollizio-
ne, ossia fritture. Ecco la posta della Maché del linguaggio. Il
linguaggio (altrui) mi trasforma in immagine, come la patata
allo stato naturale è trasformata in patata fritta.

Ecco come divento un’immagine (una patata fritta) sotto


l’offensiva di un sistema di linguaggio assolutamente minore:
il «pariginismo» dandy è «impertinente» quando scrive dei
Frammenti di un discorso amoroso: «Saggista delizioso, predi­
letto dagli adolescenti intelligenti, collezionista di avanguar­
die, Roland Barthes sgrana ricordi che non hanno nulla da in­
vidiare al tono della piu brillante conversazione da salotto,
pur mantenendo una certa rigida pedanteria per quanto con­
cerne 1’“estasi” . Vi si ritroveranno Nietzsche, Freud, Flau­
bert e gli altri» 2. Non c’è niente da fare, devo passare attra­
verso l’Immagine; l’immagine è una specie di servizio militare
sociale: non posso esserne esentato; non posso farmi riforma­
re, disertare, ecc. Vedo l’uomo malato di Immagini, malato
della sua Immagine. Conoscere la propria Immagine diventa
una ricerca disperata e disperante (non si finisce mai), analoga
alla testardaggine di una persona che voglia sapere se ha ragio­
ne di essere gelosa («Miseria della mia vita», dice Golaud in­
terrogando invano Melisenda morente).
Per essere immortali (perché fosse immortale il corpo, non
l’anima, della quale si preoccupava poco), il Tao raccomanda­
va l’Astinenza dai Cereali. Io auspico, anelo l’Astinenza dal­
le Immagini, perché ogni Immagine è cattiva. L’Immagine
«buona» è surrettiziamente cattiva, avvelenata: o falsa, o di­
scutibile, o incredibile, o instabile, o reversibile (anche il com­
plimento mi ferisce). Ad esempio: ogni «onore» che ci sia ri­
conosciuto è un’istituzione di immagine; devo perciò rifiutar­
lo; cosi facendo, però, istituisco un’altra immagine, quella di
colui-che-rifiuta-gli-onori (immagine morale, stoica). Dunque,
non distruggere le Immagini, ma staccarsene, distanziarle.
Nella «Meditazione» Tao c’è un’operazione iniziatica, il
Wang-Ming: perdere coscienza del Nome (per me: dell’Imma­
gine). L’Astinenza dal Nome è il solo problema reale di que­
sto Convegno. Immagino il Wang-Ming sotto forma di due vie
possibili, alle quali attribuisco nomi greci: Epoché, la Sospen­
sione, Acolouthia, il Corteo.

2 «L’Égoïste», n. o, maggio 1977.


367

UEpoché, nozione scettica, è la sospensione di giudizio.


Per me: sospensione delle Immagini. La sospensione non è la
negazione. Questa differenza era ben nota alla teologia nega­
tiva: « Se l’ineffabile è ciò che non può essere detto, cessa di
essere ineffabile nel momento stesso in cui se ne dice qualcosa
chiamandolo cosi». Se rifiuto ΓImmagine, produco l’immagi­
ne di colui che rifiuta le Immagini; sant’Agostino consigliava
di evitare questa aporia con il silenzio. Bisognerebbe ottenere
da se stessi un silenzio delle Immagini. Ciò non significa che
tale silenzio sarebbe un’indifferenza superiore, la serenità di
una padronanza: YEpocbé, la sospensione, rimane un pathos:
continuerei ad essere commosso (dalle immagini), ma non piu
tormentato.

Ecco una forma spontanea di questa Epoché: mi sento inca­


pace di indignarmi contro delle «idee». Certo posso irritarmi,
innervosirmi - o forse anche spaventarmi - per delle idee
«stupide»; le idee «stupide» costituiscono una doxa, un’opi­
nione pubblica, non una dottrina. Nell’intelligencija, per de­
finizione, non esistono idee «stupide»; l’intellettuale fa pro­
fessione di intelligenza (sono i suoi comportamenti, a volte,
ad essere poco intelligenti). Questa specie di equanimità nei
confronti delle «idee» è compensata da una vivace sensibilità,
positiva o negativa, per gli uomini, per le personalità: Miche­
let contrapponeva lo spirito guelfo (mania della Legge, del
Codice, dell’Idea, mondo degli uomini di legge, degli Scribi,
dei Gesuiti, dei Giacobini - aggiungerei: dei Militanti) allo
spirito ghibellino, derivato da un’attenzione al corpo, ai lega­
mi di sangue, legato a una devozione dell’uomo per l’uomo,
secondo un patto feudale. Mi sento piu ghibellino che guelfo.

Un modo per eludere l’Immagine è forse quello di corrom­


pere i linguaggi, i vocabolari; la prova che vi si riesce consiste
nel suscitare l’indignazione, la riprovazione dei puristi, degli
specialisti. Cito gli altri, accettando di deformarli: faccio slit­
tare il senso delle parole (qui rinvio al Montaigne di Antoine
Compagnon). Per la Semiologia, ad esempio, che avevo con­
tribuito a costituire, sono stato il corruttore di me stesso, so­
no passato dalla parte dei Corruttori. Si potrebbe dire che il
campo di tale Corruzione è l’estetica, la letteratura: «catastro­
fe» è un termine tecnico in matematica, in R. Thom; posso
usare male «Catastrofe», e farla diventare qualcosa di «bel­
lo». Esiste Storia solo perché le parole si corrompono.
368 L ’IMMAGINE

Ho parlato della, lotta dei linguaggi, della Tenzone delle


Immagini {Mache). Ho detto che la principale che deriva lon­
tano da queste lotte era la sospensione: Epoché. C ’è un’altra
prospettiva di liberazione: Acolouthia. In greco, Maché desi­
gna la lotta in generale, ma anche, in un’accezione tecnica che
concerne la logica, la contraddizione in termini (vi si ricono­
sce la trappola nella quale, combattendo con il linguaggio, si
cerca di far cadere l’altro); in questo senso, Maché ha un anto­
nimo: Acolouthia, cioè il superamento della contraddizione
(interpreto: l’eliminazione della trappola). Ma Acolouthia ha
anche un altro senso: è il corteo di amici che mi accompagna­
no, mi guidano, ai quali mi abbandono. Vorrei designare con
questa parola quel campo raro in cui le idee si impregnano di
affettività, in cui gli amici, accompagnando in corteo la nostra
vita, ci permettono di pensare, di scrivere, di parlare. Gli ami­
ci, penso per loro, pensano nella mia testa. In questo colore
del lavoro intellettuale (o di scrittura) vi è un che di socratico:
Socrate teneva il discorso dell’Idea, ma il suo metodo, il cam­
mino del suo discorso, era amoroso; per parlare aveva bisogno
della certezza dell’amore ispirato, del consenso di una persona
amata le cui risposte segnavano il progredire del ragionamen­
to. Socrate conosceva YAcolouthia; ma (cosa alla quale io re­
sisto) conservava in essa la trappola delle contraddizioni, l’ar­
roganza della verità (non sorprende affatto che abbia finito
per «sublimare» - rifiutare Alcibiade).

1977, Convegno di Cerisy-la-Salle, estratto da Prétexte: Poland Barthes,


coll. 10/18. Copyright Uge 1978.
Riflessione

per Éric Marty

Non ho mai tenuto un diario - o meglio, non ho mai sapu­


to se dovevo tenerne uno. Talvolta inizio, e poi molto presto,
lascio perdere - e tuttavia, piu tardi, ricomincio. È un deside­
rio lieve, intermittente, senza gravità e senza consistenza dot­
trinale. Credo di poter diagnosticare questa «malattia» del
diario: un dubbio insolubile sul valore di ciò che vi si scrive.
Questo dubbio è pieno di insidie: è un dubbio-ritardo. In
un primo tempo, quando scrivo l’appunto (quotidiano), provo
un certo piacere: è semplice, facile. Nessuna sofferenza, nes­
suna fatica per trovare che cosa dire: il materiale è li, pronto;
è come una miniera a cielo aperto; devo solo chinarmi; non
devo trasformarlo: è genuino e ha un certo valore, ecc. In un
secondo tempo, non lontano dal primo (ad esempio, se rileggo
oggi ciò che ho scritto ieri), l’impressione e cattiva: non regge,
come un alimento fragile che va a male, si corrompe, diventa
inappetibile da un giorno all’altro; percepisco con scoraggia­
mento l’artificio della «sincerità», la mediocrità artistica dello
«spontaneo»; peggio ancora: mi disgusto e mi irrito nel con­
statare una «posa» che non ho affatto voluto: in situazione di
diario, e precisamente perché non «lavora» (non si trasforma
sotto l’azione di un lavoro), io è un posatore: è un problema di
effetto, non di intenzione, tutta la difficoltà della letteratura
consiste in questo. Molto presto, procedendo nella mia rilet­
tura, ne ho abbastanza di quelle frasi senza verbo (« Notte di
insonnia. Già la terza di seguito, ecc. ») o il cui verbo è abbre­
viato negligentemente («Incrociato due ragazze in piazza
St.-S. ») - e ho un bel ristabilire la decenza di una forma com­
pleta («Ho incrociato, ho avuto una notte di insonnia»): la
matrice di ogni diario, e cioè la riduzione del verbo, persiste al
mio orecchio e mi irrita come una nenia. In un terzo tempo,
se rileggo le pagine del diario molti mesi o molti anni dopo
averle scritte, pur persistendo il mio dubbio, provo un certo
piacere nel ricordare, grazie ad esse, gli avvenimenti che vi so­
no riferiti, e ancor piu le modulazioni (di luce, di atmosfera,
di umore) che mi fanno rivivere. Insomma, a questo punto,
non vi è piu alcun interesse letterario (se non per i problemi di
formulazione, cioè delle frasi), ma una sorta di attaccamento
narcisistico (debolmente narcisistico: non bisogna esagerare)
per le mie avventure (la cui reminiscenza non cessa mai di es­
sere ambigua, perché ricordare significa anche constatare e
perdere una seconda volta ciò che non ritornerà piu). Ma, an­
cora una volta, questa benevolenza finale, raggiunta dopo
aver attraversato una fase di rigetto, giustifica il fatto di tene­
re (sistematicamente) un diario? Ne vale la pena?
Non sto abbozzando un'analisi del genere «Diario» (sono
stati scritti interi libri sull’argomento), ma solo una riflessione
personale, destinata a dar luogo a una decisione pratica: devo
tenere un diario in vista della sua pubblicazione? Posso fare del
diario un’«opera»? Per questo considero solo le funzioni che
possono sfiorarmi la mente. Ad esempio, Kafka ha tenuto un
diario per «estirpare la sua ansietà», o, se si preferisce, «tro­
vare la salvezza». Questo motivo per me non sarebbe natura­
le, o per lo meno costante. Analogamente per i fini che tradi-
zionalmenté si attribuiscono al Diario intimo; non mi sembra­
no piu pertinenti. Li si collegava tutti ai benefici e ai meriti
della «sincerità» (dirsi, illuminarsi, giudicarsi); ma la psicana­
lisi, la critica sartriana della cattiva coscienza, quella marxista
delle ideologie hanno vanificato la confessione: la sincerità è
solo un immaginario di secondo grado. No, la giustificazione
di un Diario intimo (come opera) non potrebbe essere che let­
teraria, nel senso assoluto, anche se nostalgico, della parola.
Individuo qui quattro ragioni.
La prima è di offrire un testo colorito di un’individualità di
scrittura, di uno «stile» (si sarebbe detto in passato), di un
idioletto specifico dell’autore (si sarebbe detto poco tempo
fa); chiamiamo questa ragione «poetica». La seconda è di di­
sperdere in polvere, giorno dopo giorno, le tracce di un’epoca,
mescolando tutte le diverse grandezze, dall’informazione piu
importante al dettaglio di costume; non provo forse un vivo
piacere nel leggere nel Diario di Tolstoj la vita di un signore
russo nell’Ottocento? Chiamiamo questa ragione «storica».
La terza è di costituire l’autore in oggetto di desiderio: di uno
scrittore che mi interessa posso desiderare di conoscere l’inti­
mità, l’uso quotidiano del suo tempo, dei suoi gusti, dei suoi
umori, dei suoi scrupoli; posso arrivare al punto di preferire la
371

sua persona alla sua opera, di gettarmi avidamente sul suo


Diario e trascurare i suoi libri. Posso quindi, diventando au­
tore del piacere che altri hanno saputo darmi, cercare a mia
volta di sedurre, grazie a quel meccanismo che consente di
passare dall'autore alla persona e viceversa; o, piu seriamente,
posso cercar di provare che «valgo di piu di quel che scrivo»
(nei miei libri): la scrittura del Diario si erge allora come una
forza-in-più (Nietzsche: Plus von Macht), che si pensa possa
supplire alle cadute della scrittura vera e propria; chiamiamo
questa ragione «utopica», dal momento che in effetti non si
viene mai a capo dell’Immaginario. La quarta ragione è di co­
stituire il Diario in laboratorio di frasi: non di «belle» frasi,
ma di frasi giuste; affinare incessantemente la giustezza dell’e­
nunciazione (e non dell’enunciato), con un trasporto e un’ap­
plicazione, una fedeltà di disegno che somiglia molto alla pas­
sione: «E le mie viscere esulteranno quando le tue labbra
esprimeranno cose giuste» (Prov. 23.16). Chiamiamo questa
ragione «amorosa» (forse anche «idolatra»; io idolatro la
Frase).
Malgrado queste impressioni poco propizie, la voglia di te­
nere un diario è dunque concepibile. Posso ammettere che è
possibile, nel contesto stesso del Diario, passare da ciò che mi
sembrava in un primo tempo improprio alla letteratura a una
forma che ne racchiuda le qualità: individuazione, traccia, se­
duzione, feticismo del linguaggio. In questi ultimi anni ho fat­
to tre tentativi; il primo, il piu serio perché si svolgeva duran­
te la malattia di mia madre, è il piu lungo, forse perché rispon­
deva in parte al disegno kafkiano di estirpare l’angoscia con la
scrittura; gli altri due si riducevano entrambi a una sola gior­
nata; sono piu sperimentali, benché non possa rileggerli senza
provare una certa nostalgia del giorno che è trascorso (ne pre­
sento uno solo, perché il secondo coinvolge, oltre a me, altre
persone).

U..., iß luglio 1977

Mme ***, la nuova cameùera, ha un nipote diabetico, di cui


si occupa, cosi ci ha detto, con dedizione e competenza. La visio­
ne che ha di questa malattia è confusa: da un lato non vuole am­
mettere che il diabete sia ereditario (sarebbe un segno di cattiva
razza), e dallaltro pretende che sia fatale, declinando cosi ogni re-
RIFLESSIONE

sponsabilità originaria. Considera la malattia come un'immagine


sociale, e tale immagine è insidiosa. Il Marchio appare evidente­
mente come una fonte di orgoglio e di fastidio insieme: è ciò che
fu per Giacobbe-Israele, sciancato, lussato dall'Angelo: il piacere
e la vergogna di farsi ri-marcare.

Pensieri oscuri, paure, angosce: vedo la morte della persona ca­


ra, ne sono spaventato, ecc. Tale immaginazione è l'esatto contra­
rio della fede. Immaginare continuamente la fatalità della disgra­
zia.t infatti.} significa continuamente accettarla: parlarne significa
affermarla {ancora il fascino della lingua). Immaginando la mor­
te, scoraggio il miracolo. Il folle di Ordet non parlava, rifiutava
la lingua pettegola e perentoria dell'interiorità. Che cos'è dunque
questa impotenza nei confronti della fede? Forse un amore troppo
umano? L'amore escluderebbe la fede? E viceversa?

La vecchiaia e la morte di Gide (che leggo nei Cahiers de la


Petite DameJ sono state circondate da testimoni. Che cosa sia ac­
caduto di essi, non lo so: probabilmente, per la maggior parte,
morti a loro volta? C'è un momento in cui anche i testimoni
muoiono senza testimoni. La Storia è fatta di piccoli frammenti
di vita, di morti senza legami. Impotenza dell'uomo nei confronti
dei «gradi», della scienza dei gradi. Inversamente, si potrebbe at­
tribuire al Dio classico la capacità di vedere l'infinità dei gradi:
«Dio » sarebbe l'Esponenziale assoluto.
(La morte, la vera morte, avviene quando muore anche il testi­
mone. Chateaubriand ha detto della nonna e della prozia: «Sono
forse il solo uomo al mondo a sapere che queste persone sono esi­
stite»: si, ma poiché lo ha scrìtto, ebbene, lo sappiamo anche noi,
almeno fino a quando leggeremo Chateaubriand).

14 luglio 1977

Un ragazzino, nervoso, eccitato, come molti ragazzini francesi,


che si atteggiano subito ad adulti, è mascherato da granatiere da
operetta (bianco e rosso); probabilmente precederà la banda.

Perché la Preoccupazione è piu dura qui che a Parigi? Questo


villaggio è un mondo cosi normale, cosi scevro da ogni fantasia,
che i moti della sensibilità vi appaiono assolutamente fuori posto.
Io sono eccessivo, e perciò escluso.
373

Mi sembra di imparare piu cose sulla Francia facendo un giro


del villaggio che non a Pangi nel corso di intere settimane. È forse
un'illusione? L'illusione realista? Il mondo rurale, paesano, pro­
vinciale costituisce la materia tradizionale del realismo. Essere
scrittori, nell'Ottocento, significava scrivere, stando a Pangi, sulla
provincia. La distanza fa si che tutto sia significante. In città,
per la strada, sono bombardato di informazioni - non di signifi­
cati.
15 luglio 1977

Alle cinque del pomerìggio, la calma della casa, della campa­


gna. Mosche. Le gambe mi fanno un po ' male, come quando ero
bambino e avevo quella che chiamavano una crisi di crescenza -
o come se covassi un'influenza. Tutto è vischioso, addormentato.
E come sempre, spirito sveglio, vivacità della mia «fiacca» (con­
traddizione in termini).

Visita di X ...: nella stanza accanto, parla in continuazione.


Non oso chiudere la porta. A disturbarmi non è il rumore, ma la
banalità della conversazione (se almeno parlasse una lingua a me
sconosciuta, e musicale). Sono sempre stupito, persino sconcerta­
to dalla resistenza altrui: l'Altro, per me, è l'Infaticabile. L'ener­
gia - e soprattutto l'energia di linguaggio - mi stupisce:forse è il
solo momento (a parte la violenza) in cui credo alla follia.

16 luglio 1977
Di nuovo, dopo giorni di cielo coperto, una mattina di bel
tempo: l'atmosfera è tersa, sottile: una seta fresca e luminosa.
Questo momento vuoto (privo di senso) produce la pienezza di
un'evidenza: che vale la pena vivere. Non rìnuncerei per nulla al
mondo alle commissioni del mattino (dal droghiere, dal panettie­
re, mentre il villaggio è ancora quasi deserto).

Mam. sta meglio oggi. È seduta in giardino, con un gran cap­


pello di paglia. Non appena sta un po' meglio è attratta dalla ca­
sa, e desidera occuparsene; rimette in ordine ogni cosa, e spegne il
riscaldamento durante il giorno, cosa che io non faccio mai.

Nel pomerìggio, con un bel sole rinfrescato dal vento, verso il


tramonto, ho bruciato le immondizie in fondo al giardino. C'è
RIFLESSIONE

tutta una fìsica da osservare; armato di una lunga canna di bambù,


giro i mucchi di carta che si consumano lentamente; ci vuole pa­
zienza; è incredibile quanto può resistere la carta. A l contrano, un
sacco di plastica verde smeraldo (quello delle immondizie, appun­
to, brucia prestissimo, senza scorie: letteralmente, svanisce. Que­
sto fenomeno potrebbe servire, in molte occasioni, come metafora.

Piccoli fatti incredibili (letti sul «Sud-Ouest » o sentiti alla ra­


dio? Non ricordo): In Egitto, si sarebbe deciso di punire con la
morte i musulmani che si convertissero a un'altra religione. In
Russia una cooperante1francese è stata espulsa perché avrebbe
regalato della bianchena a un'amica sovietica. Pare un dizionario
contemporaneo delle intolleranze (la letteratura, in questo caso
Voltaire, non può essere abbandonata, finché sussiste il male di
cui è stata testimone).

17 luglio 1977
Si direbbe che la domenica mattina accresce il bel tempo. Due
intensità eteroclite si rafforzano reciprocamente.

Cucinare non mi dà fastidio. Ne amo le operazioni. Mi piace


osservare le forme mutevoli del cibo che cuoce (colorazioni, con­
densazioni, contrazioni, cristallizzazioni, polarizzazioni, ecc.).
Questa osservazione ha un che di morboso. A l contraHo, ciò che
non so fare, che sbaglio, sono le dosi e i tempi: metto troppo olio,
perché ho paura che bruci; lascio un po' troppo sulfuoco, perché
ho paura che non sia abbastanza cotto. In breve, ho paura perché
non so (quanto, quanto tempo). Donde la sicurezza di un codice
(una specie di nlancio del sapere): mi piace di piu far cuocere del
nso che non delle patate, perché so che occonono diciassette mi­
nuti. Questa cifra mi affascina, nella misura in cui è precisa (al
punto da diventare ridicola); tonda, mi sembrerebbe truccata e
per prudenza aggiungerei.

18 luglio 1977
Compleanno di mam. Posso offnrle soltanto un bocciolo di ro­
sa del giardino; se non altro, è il solo e il pnmo da quando siamo
qui. Stasera Myr. viene a cena e cucina: minestra e un 'omelette

1 [Sono detti coopérants coloro che svolgono (anche in sostituzine del servizio
di leva) attività professionali o tecniche in un altro paese, sulla base di accordi bi­
laterali].
375
alle spezie; porta dello champagne e dei dolci alle mandorle di
Peyrehorade. Mme L. ha fatto mandare dei fioH del suo giardino
da una delle figlie.

Umori, nel senso forte, schumanniano: suite spezzata di senti­


menti contraddittori; ondate di angoscia, rappresentazioni del
peggio ed eufone intempestive. Stamattina, in seno alla Preoccu­
pazione, un'isola di felicità: il tempo (bellissimo, leggenssimo), la
musica (Haydn), il caffè, il sigaro, una bella penna, i rumon do­
mestici (il soggetto umano come capnccio: la sua discontinuità
spaventa, sfinisce).

19 luglio 1977
A l mattino, presto, dopo essere andato a comprare il latte, en­
tro in chiesa, per vedere. È stata nfatta secondo il new-look con­
ciliare: è in tutto e per tutto un tempio protestante (solo le gailene
in legno rivelano una tradizione basca); nessuna immagine, l'al­
tare è diventato una semplice tavola. Nessun cero, naturalmente:
peccato, no?

Verso le sei di sera, sono semiaddormentato sul letto. La fine­


stra è spalancata sul crepuscolo più luminoso di una giornata gri­
gia. Provo allora una sorta di eufona di galleggiamento; tutto è li­
quido, aereo, bevibile (bevo Ι'αήα, il tempo, il giardino). E sicco­
me sto leggendo Suzuki, mi sembra di essere abbastanza vicino al­
lo stato che lo Zen chiama sabi; o meglio (dal momento che leggo
anche Blanchot) alla «fluida pesantezza» di cui egli parla a pro­
posito di Proust.

21 luglio 1977
Stanno facendo saltare in padella lardo, cipolle, timo, ecc.
Crepitano, l'odore è meraviglioso. Ma questo odore non è quello
del cibo che si porterà in tavola. Esiste un odore di ciò che si
mangia e un odore di ciò che si prepara (osservazioni per la
«scienza delle Vanazioni» o «diaforalogia»).2

22 luglio 1977

Da qualche anno, un solo progetto, si direbbe: esplorare la mia


personale stupidità, o meglio ancora dirla, fame l'oggetto dei miei
376 RIFLESSIONE

libri. Ho già parlato iella stupidità «egotista» e della stupidità


amorosa. Rimane una terza stupidità, della quale sarebbe bene
parlare un giorno: la stupidità politica. Ciò che penso politica-
mente degli eventi (e non smetto di pensarne qualcosa), giorno
dopo giorno, è stupido. È questa stupidità che bisognerebbe ora
enunciare nel terzo libro della mia piccola triologia; una sorta di
Diario politico. Ci vonebbe un enorme coraggio, ma forse esor­
cizzerebbe quel miscuglio di fastidio, di paura e di indignazione
che costituisce per me il Politico (o piuttosto la Politica).

Io è più difficile da scrivere che da leggere.

Ieri sera, da Casino, supermercato di Anglet, con E. M., siamo


stati affascinati da quel tempio babilonico della Merce. È vera­
mente il Vitello dO ro: accumulo di «ricchezze» (a buon merca­
to), affastellamento delle specie (classificate per generi), arca di
Noe delle cose (dagli zoccoli svedesi alle melanzane), accatastarsi
predatore dei canelli. Abbiamo avuto di colpo la certezza che la
gente compra qualsiasi cosa (lo faccio anch'io); ogni canello,
mentre staziona alla cassa prima dell'uscita, è la carta impudica
delle manie, delle pulsioni, delle perversioni, degli enori e dei col­
pi di testa di chi lo ha spinto fin li; a riprova, davanti a un canello
che passa maestosamente davanti a noi come un calesse, che non
c'era alcuna necessità di comprare la pizza che fa bella mostra di
sé nel cellophane.

Mi piacerebbe leggere (esiste?) una Storia dei grandi magazzini.


Che cosa succedeva prima del «Bonheur des dames»?

5 agosto 197-J

Mentre proseguo Guerra e pace, provo una violenta emozione


leggendo la morte del vecchio Boi' konskij, le sue ultime parole
di tenerezza alla figlia («Mia cara, amica mia»), gli scrupoli della
principessa per non disturbarlo la notte precedente, mentre in
realtà lui la chiamava, il senso di colpa di Maria per avere un
istante desiderato che il padre morisse, sicura di trovare la libertà.
E tutto ciò, questa tenerezza, questa lacerazione, in mezzo alla
più volgare confusione, l'arrivo minaccioso dei Francesi, la neces­
sità di partire, ecc.
377

La letteratura ha su di me un effetto di venta molto più violen­


to della religione. Con questo voglio dire, semplicemente, che è
come la religione. Eppure, nella « Quinzaine», Lacassin dichiara
perentonamente: «La letteratura, ormai, esiste solo nei manua­
li». Eccomi negato, in nome... dei Fumetti.

13 agosto 19 j 7
Stamattina verso le otto, il tempo è superbo. Mi viene voglia di
prendere la bicicletta di Myr per andare dal panettiere. Non sono
più andato in bicicletta da quando ero bambino. Il mio corpo
trova questa operazione stranissima, molto difficile, e ho paura
(di salira, di scendere). Dico tutto questo alla panettiera - e
uscendo dal negozio, mentre cerco di nsalire sulla bicicletta, na­
turalmente, cado. Per istinto, mi lascio andare e cado eccessiva­
mente, gambe alVarìa, nella posizione più ndicola che esista. E
capisco che è proprio questo ndicolo a salvarmi (dalfarmi troppo
male): ho accompagnato la mia caduta, e cosifacendo ho dato
spettacolo, mi sono reso ndicolo; con questo, però, ne ho anche,
diminuito Veffetto.

ΑΙΓ improvviso, mi è diventato indifferente il fatto di non es­


sere moderno.
(...e come un cieco che con il dito percorre a tastoni il testo
della vita e riconosce da questo o da quello « ciò che è già stato
detto»).

Parigi, 25 aprile 1979


Serata futile.
Ieri sera, verso le sette, sotto una pioggia fredda di brutta pri­
mavera, ho preso con una corsa il58. Stranamente, sul!àutobus
c'erano solo vecchi. Lina coppia parlava a voce altissima di una
Storia della Guena (quale? non lo so più): «Nessuna superficia­
lità intorno agli avvenimenti, - diceva l'uomo con ammirazione,
- tutti i dettagli». Sono sceso al Pont-Neuf. Siccome ero in anti­
cipo, ho passeggiato un po' lungo il quai della MégisseHe. Alcuni
addetti in grembiule blu (capivo che erano pagati male) allineava­
no in modo brutale delle grandi gabbie a rotelle in cui anatre e
piccioni (sempre stupidi, i volatili) si agitavano spaventati e scivo­
lavano in massa da un lato all'altro. I negozi stavano chiudendo.
RIFLESSIONE

Dalla porta ho visto due cagnolini: uno, per gioco, stuzzicava


Valtro, che lo «faceva conere» propno come avrebbe fatto un uo­
mo. Dna volta di più, ho avuto voglia di avere un cane: avrei
comperato volentieù quello (una specie di fox-terrier) che era in­
fastidito e lo dava a vedere in modo non indifferente e tuttavia su­
perbo. Cerano anche piante, vasi di erbe. Mi sono visto (con de-
sideno e onore) fame provvista pùma di nentrare a U., dove avrei
abitato definitivamente, recandomi a Parigi solo per «affari» e
acquisti. Ho preso poi per rue des Bourdonnais, deserta e sinistra.
Un automobilista mi ha chiesto dove fosse il BHV: cosa strana,
sembrava che conoscesse solo Γabbreviazione, e non sapeva affat­
to né dove né cosa fosse l'Hotelde Ville. Alla galleria dell'lmpas-
se (molto mal ridotta) sono rìmasto deluso: non per le fotografie
di D. B. (finestre, tende blu realizzate in chiaroscuro con la Pola­
roid) ma per l'atomosfera gelida del vernissage: W. non c'era (pro­
babilmente è ancora in Amenca), R. neppure (dimenticavo: han­
no litigato). D. S., bella e imponente, mi ha detto: «Bello, vero?»
«Si, bellissimo» (ma è poco, non ce n ’è abbastanza, ho aggiunto
dentro di me). L'insieme era povero. E dal momento che invec­
chiando ho sempre piti il coraggio di fare quel che mi pare, do­
po un rapido secondo giro della sala (guardare a lungo non mi
avrebbe dato niente di più) sono filato all'inglese, e ho vagabon­
dato qua e là oziosamente, da un autobus all'altro e da un cine­
ma all'altro. Ero gelato, ho avuto paura di aver preso una bron­
chite (ci ho pensato più volte). Alla fine, mi sono un po' Hscalda-
to al Flore, prendendo delle uova e un bicchiere di bordeaux, an­
che se era una pessima giornata: clientela insipida e anogante;
nessuna faccia interessante, sulla quale fantasticare o alméno in­
ventare una stona, il penoso fallimento della serata mi ha spinto
a cercare di realizzare finalmente quel cambiamento di vita cui
penso da tanto tempo. Ciò di cui questo primo appunto è la
traccia.
(Rilettura: questo pezzo mi piaceva abbastanza, perchéfaceva
nvivere le sensazioni di quella serata; ma, cosa cunosa, nel rileg­
gerlo le cose che nvivevo di più erano quelle non sentie, gli inter­
stizi dell'annotazione; ad esempio, il grigio di rue de Rivoli men­
tre aspettavo l'autobus; inutile del resto cercare ora di descriverlo,
perché finirei per perderlo un'altra volta a vantaggio di un'altra
sensazione sottaciuta, e cosi via, come se la resunezione avvenisse
sempre di fianco alla cosa detta: luogo del Fantasma, dell'Ombra).

Per quanto io rilegga questi due frammenti, niente mi dice


che siano pubblicabili; e neppure che non lo siano. Eccomi di
379
fronte a un problema insormontabile: quello della «pubblica-
bilità»; non: «È buono, è cattivo?» (forma che ogni autore dà
alla domanda), ma: «È pubblicabile o no?» Non è solo un pro­
blema editoriale. Il dubbio è mal posto, scivola dalla qualità
del testo alla sua immagine. Mi pongo il problema del testo
dal punto di vista dell’altro; l’altro in questo caso non è il pub­
blico, o un pubblico (problema che concerne l’editore); l’altro,
coinvolto in una relazione duale e quasi personale, è colui che
mi leggerà. In breve, immagino che le pagine del mio Diario
siano poste sotto gli occhi di «colui verso il quale guardo», o
sotto il silenzio di «colui cui parlo». - Non è la situazione di
ogni testo? - No. Il testo è anonimo, o almeno prodotto da
una sorta di Nome di Battaglia, quello dell’autore. Il Diario
no (anche se il suo «io » è un nome falso): il Diario è un «di­
scorso» (una sorta di parola «w ritée»2 secondo un codice
particolare), non un testo. La domanda che mi pongo: «Devo
tenere un diano? » è immediatamente seguita, nella mia mente,
da una risposta sgarbata: «Chi se ne frega», o, più psicanali­
ticamente: «E affar tuo».
Non mi rimane altro che analizzare le ragioni del mio dub­
bio. Perché mi riesce sospetta, dal punto di vista delVlmmagi-
ney la scrittura del Diario? Credo dipenda dal fatto che ai miei
occhi tale scrittura è affetta, come da un male insidioso, da
caratteri negativi - deludenti - che cercherò di indicare.
Il diario non risponde a nessuna missione. Non bisogna ri­
dere di tale parola. Le opere letterarie, da Dante a Mallarmé,
a Proust, a Sartre, hanno sempre avuto, per coloro che le han­
no scritte, un certo fine, sociale, teologico, mitico, estetico,
morale, ecc. Il libro, «progettato e premeditato», è supposto
riprodurre un ordine del mondo, implica sempre, cosi almeno
credo, una filosofia monista. Il Diario non può assurgere a Li­
bro (ad Opera); è solo un Album, per riprendere la distinzio­
ne di Mallarmé (è la vita di Gide ad essere un’«opera», non il
suo Diario). L’Album è una raccolta di fogli non solo permu­
tabili (questo non vorrebbe dire nulla) ma soprattutto soppn-
mibili allinfinito: rileggendo il mio Diario posso cancellare un
appunto dopo l’altro, fino alla distruzione completa dell’Al­
bum, con il prestesto che «questo non mi piace»: cosi fanno,
in due, Groucho e Chico Marx, leggendo e strappando via via
ogni clausola del contratto che dovrà legarli. - Ma il Diario
non può essere considerato e praticato appunto come la forma

2 [Dall’inglese w ritte n , scritto (qui nel senso di «trascritto», «registrato»)].


RIFLESSIONE

che esprime essenzialmente Γinessenziale del mondo, il mon­


do come inessenziale? - Per questo bisognerebbe che il sog­
getto del Diario non fossi io, ma il mondo; altrimenti, ciò che
viene enunciato è una sorta di egotismo che fa schermo tra il
mondo e la scrittura; per quanto faccia, divento consistente,
nei confronti del mondo che non lo è. Come tenere un Diario
senza egotismo? Ecco per Γappunto la domanda che mi trat­
tiene dallo scriverne uno (perché, dell’egotismo, ne ho un po’
abbastanza).
Inessenziale, il Diario non è neppure necessario. Non pos­
so investire in un Diario come investirei in un’opera unica e
monumentale, che mi fosse dettata da un desiderio inconte­
nibile. La scrittura del Diario, regolare, quotidiana come
una funzione fisiologica, implica evidentemente un piacere, un
agio, non una passione. È una piccola smania di scrittura, la
cui necessità si perde nel percorso che va dall’appunto prodot­
to all’appunto riletto: «Non mi sembra che ciò che ho scritto
finora sia particolarmente prezioso, e neppure che meriti di
essere decisamente scartato» (Kafka). Come il perverso (si di­
ce) che è costretto al «si, ma», so che il mio testo non ha mol­
to valore, ma nello stesso tempo (con lo stesso movimento)
non posso impedirmi di credere che esista.
Inessenziale, poco sicuro, il Diario è inoltre inautentico.
Non voglio dire con questo che colui che vi si esprime non sia
sincero. Voglio dire che la sua forma stessa non può che deri­
vare da una Forma antecedente e immobile (quella, per l’ap­
punto, del Diario intimo), che non è possibile sovvertire. Nel­
lo scrivere il mio Diario sono, per statuto, condannato alla si­
mulazione. A una duplice simulazione, anzi: poiché, infatti,
ogni emozione è copia della medesima emozione che si è letta
da qualche parte, riferire un umore nel linguaggio codificato
del Trattato degli Umori significa copiare una copia; anche se
il testo fosse «originale», sarebbe già una copia; a maggior ra­
gione se è usato: «Lo scrittore, dei suoi mali, dragoni che ha
vezzeggiato, o di un’allegria, deve istituirsi, nel testo, istrione
spirituale» (Mallarmé). Che paradosso! Scegliendo la forma di
scrittura piu «diretta», piu «spontanea», mi ritrovo ad essere
il piu grossolano degli istrioni. (E perché no? Non ci sono mo­
menti « storici » in cui si deve essere istrioni? Nel praticare a
oltranza una forma desueta di scrittura non dichiaro forse che
amo la letteratura, che la amo in modo struggente, nel mo­
mento stesso in cui va decadendo? La amo, dunque la imito -
ma appunto: non senza complessi).
381
Tutto questo dice pressappoco la stessa cosa: che il peggio­
re dei tormenti, quando cerco di tenere un Diario, è l’instabi­
lità del mio giudizio. Instabilità? Piuttosto, una curva ineso­
rabilmente discendente. Nel Diario, faceva osservare Kafka,
il fatto che un’annotazione non abbia valore viene sempre ri­
conosciuto troppo tardi. Come trasformare una cosa scritta a
caldo (e che di questo si fa un vanto) in un buon piatto fred­
do? È proprio questa dispersione a costituire il disagio del
Diario. Ancora Mallarmé (che tuttavia non ne ha tenuto uno):
«O altro parlare a vuoto divenuto tale per poco che lo si
esponga, da persuasivo, sognatore e vero quando lo si confida
sommessamente»: come nelle fiabe, sotto l’effetto di una con­
danna o di un potere malefico i fiori che escono dalla mia boc­
ca sono trasformati in rospi. « Quando dico una cosa, essa per­
de immediatamente e definitivamente la sua importanza. An­
che quando la annoto la perde, ma a volte ne acquista una di­
versa» (Kafka). La difficoltà del Diario sta nel fatto che que­
sta importanza seconda, liberata dalla scrittura, non è certa:
non sono sicuro che il Diario recuperi la parola e le dia la resi­
stenza di un nuovo metallo. Certo, la scrittura è proprio quel­
la strana attività (sulla quale fino a oggi la psicanalisi ha avuto
poca presa, comprendendola male) che arresta miracolosa­
mente l’emorragia dell’Immaginario, di cui la parola è il fiume
potente e irrisorio. Ma per l’appunto: il Diario, per quanto
«ben scritto», è scrittura? Si sforza, si gonfia e si irrigidisce:
sono grande come il testo? Niente affatto, non ti avvicini
neanche. Ed ecco, di conseguenza, l’effetto depressivo: accet­
tabile quando scrivo, frustrante quando rileggo.
In fondo, tutte queste carenze indicano abbastanza bene
un certo difetto del soggetto. È un difetto di esistenza. La do­
manda posta dal Diario non è quella tragica, la domanda del
Folle: «Chi sono?», ma quella comica, la domanda dell’Alloc­
co: «Sono?» Un comico, ecco che cos’è chi tiene un Diario.
In altri termini, non ne vengo a capo. E se non ne vengo a
capo, se non riesco a decidere quanto «vale» il Diario, è per­
ché il suo statuto letterario mi sfugge di mano: da un lato,
sento che proprio perché è facile e desueto esso non è altro
che il limbo del Testo, la sua forma incostituita, inevoluta e
immatura; dall’altro, però, è comunque un vero e proprio lem­
bo di tale Testo, perché ne comporta il tormento essenziale.
Credo che tale tormento consista in questo: che la letteratura
è senza prove. Ciò va inteso nel senso che essa non può prova­
re non solo ciò che dice, ma neanche che valga la pena di dir-
RIFLESSIONE

lo. Questa dura condizione (Gioco e Disperazione, dice Kaf­


ka) raggiunge il parossismo proprio nel Diario. Ma a questo
punto tutto si rovescia, perché dalla sua impotenza alla prova,
che lo esclude dal cielo sereno della Logica, il Testo trae un V
gilità che in un certo senso è la sua essenza, ciò che esso pos­
siede di specifico. Kafka - il cui Diario è forse il solo che pos­
sa essere letto senza alcuna irritazione - esprime in modo am­
mirevole questa duplice esigenza della letteratura, la Giustez­
za e lTnanità: «... Analizzavo le speranze che riponevo nella
vita. Tra di esse, la piu importante, o la piu avvincente, si ri­
velò il desiderio di acquistare un modo di vedere la vita (e, di
conseguenza, di poterne convincere gli altri per iscritto) nel
quale essa conservasse il suo pesante moto di caduta e di risa­
lita, ma fosse riconosciuta nello stesso tempo, e con una non
meno grande chiarezza, per un nulla, un sogno, uno stato di
fluttuazione». Si, è proprio questo il Diario ideale: un ritmo
(caduta e risalita, elasticità) e insieme un'illusione (non posso
raggiungere la mia immagine); uno scritto, in definitiva, che
dice la verità dell'illusione e garantisce tale verità con la piu
formale delle operazioni, il ritmo. Da tutto ciò bisognerebbe
probabilmente concludere che posso salvare il Diario alla sola
condizione di lavorarlo a morte, fino all’estenuazione, come
un Testo pressappoco impossibile: lavoro al cui termine è pos­
sibilissimo che il Diario cosi tenuto non somigli piu per nulla
a un Diario.

1979, in «Tel Q uel».


S ta m p a to p e r c o n to d e lla C asa e d itr ic e E in a u d i
p resso lo S ta b ilim e n to T ip o lito g ra fic o G . C a n a le & C, s .p . i., T o rin o

C.L. 59898
Ristampa Anno

0 1 2 3 4 5 6 7 8 88 89 90 91 92 93 94
Gli struzzi 231 Brecht, Drammi didattici.
232 Dostoevskij, L'idiota.
Ultimi volumi pubblicati 233 Volponi, Memoriale.
234 Broch, G li incolpevoli.
235 Thomas, Poesie.
236 Schulz, Le botteghe color cannella.
237 Dostoevskij, D elitto e castigo.
238 Pasolini, Le ceneri di Gramsci.
239 Dostoevskij, I fratelli Karamazov
(due volumi).
240 Levi (Primo), La ricerca delle radi­
ci. Antologia personale.
241 Lewis, Il Monaco.
242 Eluard, Poesie.
243 Pasolini, La nuova gioventù. Poesie
204 Sciascia, Nero su nero. friulane 1941-1974.
205 Revelli, La guena dei poveri. 244 Mark Twain, Le avventure di Tom
206 Fiabe africane. Sawyer.
207 Roncaglia, Il jazz e Usuo mondo. 245-46 Il teatro italiano.
208-10Il teatro italiano. V: La tragedia dell'O ttocento
V: La commedia e il dramma (due tomi).
borghese d e ll'O tto c e n to (tre 247 Fabre, Ricordi di un entomologo.
tomi). Studi sull'istinto e i costumi degli
Ponchiroli, Le avventure di Barza- insetti.
mino. 248 Mark Twain, Le avventure di
212 Bruzzone, Ci chiamavano matti. Huckleberry Finn.
213 Reed, Il Messico insorge. 249 Casula, Tra vedere e non vedere.
214 Gallo Barbisio, Ifigli piu amati. Una guida ai problem i della per­
215 Un processo per stupro. cezione visiva.
216 Pasolini, Lettere luterane. 250 Pasolini, L'usignolo della Chiesa
217 Belyj, Pietroburgo. Cattolica.
218 Michelet, La strega. 251 Salvatorelli, Vita di san Francesco
219 Calvino, Una pietra sopra. Discorsi d ’Assisi.
di letteratura e società. 252 Flaubert, Bouvard e Pécuchet.
220 Barthes di Roland Barthes. 253 Casula, Il libro dei segni.
221 Butler, C osi muore la carne. 254 Puskin, Romanzi e racconti.
222 Opere di Elio Vittorini: 2 5 5 Hawthorne, La lettera scarlatta.
1. Piccola borghesia. 256 Kipling, Capitani coraggiosi.
2. Sardegna come un ’infanzia. Döblin, Novembre 1918. Una rivo­
3. Il garofano rosso. 57 luzione tedesca.
4. Conversazione in Sicilia. (257) Borghesi e soldati.
5. Uomini e no. (258) Il popolo tradito (in pre­
6. Il Sempione strizza l'occhio parazione).
al Frejus.
7. Le donne di Messina. (259) Ritorno dalfronte (in pre­
8. Erica e i suoi fratelli - La parazione).
garibaldina. (260) Karl e Rosa (in prepara­
9. Diario in pubblico, zione).
io . Le città del mondo. 261 Marin, La vita xe fìama e altri versi
223 Rodari, Il gioco dei quattro cantoni. 1978-1981.
224 Signoret, La nostalgia non è più 262 Volponi, Sipario ducale.
quella d'un tempo. 263 Lawrence, Donne innamorate.
223 Malerba, Legaliine pensierose. 264 Dickinson, Lettere 1845-1886.
226 Einstein, Il Ulto umano. Nuovi 265 Sciascia, La corda pazza. Scrittori e
spunti per un ritratto. cose della Sicilia.
227 Revelli, La strada del davai. 266 Dostoevskij, Umiliati e offesi.
228 Beauvoir, Lo spirituale un tempo. 267 Persio Fiacco, Le Satire.
229 Fellini, Fare un film . 268 Tolstoj, Resurrezione.
230 Barthes, La camera chiara. Nota 269 Pasolini, La religione d el m io
sulla fotografia. tempo.
270 Beauvoir, Q uando tu tte le don n e 307 Ginzburg (Natalia), Lessico fami­
d e l m o n d o ... gliare.
271 Wu Ch’êng-ên, L o S cim m io tto . 308 Barthes, La grana della voce. Inter­
272 Dostoevskij, V a d o lescen te. viste 1962-1980.
273 Dickens, II nostro com u n e am ico. 309 Vassalli, L'alcova elettrica.
274 De Sanctis, Saggio crìtico s u l Pe- 310 Szymusiak, Il romanzo di Peuw,
trarca. bambina cambogiana (1975-1980).
275 Conrad, Vittoria. Un racconto delle 311 Saba, Antologia d e l «C anzoniere».
isole. 312 Einaudi, Le prediche della dome­
276 De Sanctis, M an zon i. nica.
277 Rodari, Storie d i re M id a . 313 Leandri, Scusa i m an cati giorni.
278 Brecht, D iari 1920-1922. A p p u n ti 314 L iriche cinesi. A cura di Giorgia
autobiografici 1920-1954. Valensin.
279 Frank, R a cco n ti dell'alloggio se- 315 Fo, Manuale minimo dell'attore.
greto. 316 Ara-Magris, Trieste. Un'identità di
280De Sanctis, Leopardi. frontiera.
281Sciascia, C ruciverba. 317 Balzac, Fisiologìa d e l m atrim onio.
282Queneau, E sercizi di stile. 318 Storici arabi delle Crociate. A cura
283Giovenale, L e satire. di Francesco Gabrieli.
284Hugo, I m ise ra b ili (tre tomi). 319 A cton, G li u ltim i M ed ici.
285-87II teatro italiano. 320 James, D aisy M iller.
V: I l lib retto d e l m elodram m a 321 Stevenson, Emigrante per diletto
d e ll'O tto c e n to (tre tomi). seguito da Attraverso le pianure.
288 Barthes, L 'im pero dei segni. 322 Cummings, Poesie.
289 Le commedie di Dario Fo. 323-24 Il teatro italiano.
VI: La Marcolfa - G li imbian­ IV: La commedia del Settecento
chini non hanno ricordi - I tre (due tomi).
bravi - Non tutti i ladri vengono 325 Breton, M anifesti d e l Surrealism o.
per nuocere - Un morto da ven- 326 London, L a crociera d ello Snark.
dere - 1 cadaveri si spediscono e ^ 2 7 Rodari, G li esam i d i A rlecch in o .
le donne si spogliano - L'uomo . 2g Gadda, La cognizione del dolore.
nudo e l'uomo in frak - Canzo­ Edizione critica a cura di E m i­
ni e ballate.
lio M anzotti.
290 Rodari, Giochi nell'Urss. Appunti
di viaggio. 329 Levi (Primo) - Regge, Dialogo.
291 Revelli, L'anello forte. La donna: 33° Le commedie di Dario Fo.
storie di vita contadina. VII: Morte accidentale di un a-
292 Levi (Primo), L 'altrui mestiere . narchico - La signora è da but­
293 Morante, Lo scialle andaluso. tare.
294 'O penziero e altre poesie di 331 Eça de Queiroz, Il Mandarino se­
Eduardo. guito da La buonanima.
295 Asor Rosa, L'ultim o paradosso. 332 Lastrego-Testa, Dalla televisione al
296 Comandante ad Auschwitz. Memo­ libro.
riale autobiografico di R u dolf
Dostoevskij, Le notti bianche.
tìo ss. 333
297 Fiori, Il cavaliere dei Rossomori. 33<* Baroni-Fubini-Petazzi-Santi-
Vita di Em ilio Lussu. Vinay, Storia della musica.
298 Barthes, L 'ovvio e l'ottuso. Saggi 335 Zamponi-Piumini, Calicanto. La
critici III. poesia in gioco.
299 Rodari, Il secondo libro delle fila- 336 Dostoevskij, Memorie del sotto­
strocche. suolo.
300 Vassalli, Sangue e suolo. Viaggio fra 33-7 Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il po­
gli italiani trasparenti. pulismo nella letteratura italiana
301 Lévi-Strauss, La via delle maschere. contemporanea.
302 Kipling, Qualcosa di me. g Queneau, Piccola cosm ogonia p o r­
303 Zamponi, I Draghi locopei. ”
tatile seguita da Piccola guida al­
304 De Filippo, Lezioni di teatro.
305 Levi (Primo), Isommersi e i salvati. la Piccola cosm ogon ia di Italo
306 Thiess, Tsushima. Calvino.
339 Grimmelshausen, Vita dell'arcitruf-
fatrìce e vagabonda Coraggio.
340 Yourcenar, Memorie di Adriano se­
guite dai Taccuini di appunti.
341 Teatro Dada. A cura di Gian Ren­
zo Morteo e Ippolito Simonis.
342 Frank, Diario.
343 Tozzi, Con gli occhi chiusi.
344 Barthes, Il brusio della lingua.
Dal catalogo Einaudi

Letteratura francese

SAGGISTICA E CRITICA

Bachtin, L ’opera di Rabelais e la cultura popolare


Barthes di R oland Barthes
Barthes, Il piacere d el testo
- La grana della voce
- Lezione
- L ’ovvio e l ’ottuso
- Sade, Fourier, Loyola
- Saggi critici
- S/Z
Blanchot, L ’infinito intrattenimento
- Lo spazio letterario
Breton, Antologia dello humour nero
- Manifesti del Surrealismo
Cajumi, Pensieri di un libertino
Deleuze, Marcel Proust e i segni
Gabellone, L ’oggetto surrealista
Garavini, La casa dei giochi. Idee e form e nel Seicento francese
Genette, Figure. Retorica e strutturalismo
- Figure II. La parola letteraria
- Figure III. Discorso del racconto
Lugli, La cortigiana innamorata
- Pagine ritrovate. Memorie , fantasie e lettere
Macchia, Il m ito di Parigi
- Il paradiso della ragione
- La letteratura francese nel M edioevo
Magnani, L ’idea della Chartreuse
Orlando, Illuminismo e retorica freudiana
- Lettura freudiana della «Phèdre»
- Lettura freudiana d el «Misanthrope » e due scritti teorici
- Per una teoria freudiana della letteratura
Pauvert, Sade
Queneau, Segni, cifre e lettere
Raymond, Da Baudelaire al sunealismo
Roscioni, L ’arbitrio letterario
Roudaut, Il libro futuro. Saggio su M ichel Butor
Rousset, Forma e significato
Saulnier, Storia della letteratura francese
Serini, Pascal
Spitzer, Marcel Proust e altri saggi dì letteratura francese moderna
Starobinski, L'occhio vivente
Tzara, Manifesti del dadaismo e Lampisterie
La parola parlata, non quella scritta: il suono, il tono, il brusio
della voce, i rapporti che la parola permette con gli altri,
la collaborazione, la sensualità dei contatti. Non l’altra parte
della medaglia verbale, ma un’altra verità, altre ragioni,
una diversa ideologia e diversi modi di motivare, dire, pensare.
In questo volume sono raccolti gli interventi in pubblico
di Barthes, interviste, conversazioni, tavole rotonde,
dichiarazioni. Il filo conduttore è continuo: il rumore,
la materialità della voce a margine e oltre il lavoro letterario,
il chiarimento della scrittura, le ragioni del semiologo.

Di Roland Barthes (1915-1980) Einaudi ha pubblicato: Elementi


di semiologia (1966); Saggi critici (1972); Critica e verità (1969);
Sistema della Moda (1970) ; S/Z (1981); Miti d ’oggi (1974) ;
Il piacere del testo (1975); Sade, Fourier, Loyola (1977);
Frammenti di un discorso amoroso (1979); Barthes di Roland
Barthes e La camera chiara (1980); Lezione (1981); Il grado
zero della scrittura (1982); L’impero dei segni (1984); L’ovvio
e l ’ottuso (1985); La grana della voce (1986).

In copertina un disegno di Roland Barthes. 1972.

ISBN 8 8 - 0 6 - 5 9 8 9 8 - 8

Lire 20.000 9 788806 598983

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