Che fa il lupo quando la lupa e i lupetti hanno fame e stanno a pancia vuota, lamentandosi e
bisticciandosi tra loro, che fa il lupo? Io dico che il lupo esce dalla tana e va in cerca di roba
da mangiare e magari, dalla disperazione, scende al paese ed entra in una casa. E i contadini
che l'ammazzano hanno ragione di ammazzarlo; ma anche lui ha ragione di entrare in casa
loro e di morderli. Cosi’ tutti hanno ragione e il torto non ce l'ha nessuno; e dalla ragione
nasce la morte. Quell'inverno io ero come il lupo e, anzi, proprio come un lupo non abitavo
in una casa ma in una grotta, laggiù, sotto Monte Mario, in una cava abbandonata di
pozzolana. Ce n'erano parecchie di grotte, ma le più erano ostruite dai rovi, due sole erano
abitate, quella mia e quella di un vecchio che un po' mendicava e un po' andava in giro a
raccogliere stracci e si chiamava Puliti. Il luogo, a ridosso del monte, era giallo e pelato, con le
aperture delle grotte tutte affumate e nere. Davanti la grotta di Puliti c'era sempre un mucchio
di stracci e lui che ci frugava; davanti alla mia c'era un bidone di benzina che ci serviva da
fornello e mia moglie, in piedi, con il bambino al petto, che menava la ventola per accendere i
carboni. Dentro, la grotta era perfino meglio di una camera in muratura; spaziosa, asciutta,
pulita, con il materasso in fondo e la roba appesa ai chiodi. La famiglia, dunque, la lasciavo alla
grotta e andavo a Roma a cercar lavoro; ero bracciante e per lo più lavoravo negli sterri. Poi
venne l'inverno e, non so perché, di sterri se ne fecero sempre meno, e io cambiai mestiere
tante volte ma sempre per poco tempo, e, alla fine, restai senza lavoro. La sera, quando
tornavo alla grotta, e vedevo, alla luce della lampada a olio, mia moglie accovacciata sul
materasso che mi guardava, e il bambino che teneva al petto che mi guardava, e i due
bambini più grandi che giocavano in terra che mi guardavano, e leggevo in quegli otto occhi
la stessa espressione affamata, mi pareva proprio di essere un lupo con una famiglia di lupi e
pensavo: "Uno di questi giorni se non gli porto da mangiare, vuoi vedere che mi
mozzicano?" Puliti, quel vecchiaccio, che a vederlo con la sua bella barba bianca pareva un
santo e poi invece, appena apriva bocca, subito si capiva che delinquente era, mi diceva:
"Perché li mettete al mondo i figli? Per farli soffrire? E tu, intanto, perché non fai il ciccarolo?
Con le cicche, sempre, qualche cosa ci rimedi." Ma io non me la sentivo di andare in giro a
raccattare cicche: volevo lavorare con le mie braccia. Una sera, dalla disperazione, dissi a
mia moglie: "Non ce la faccio più... sai che ti dico? Mi apposto all'angolo di una strada e il
primo che viene..." Mia moglie mi interruppe: "Vuoi andare in galera?" E io: "Almeno in
galera si mangia." E lei: "Tu sì... ma noi?" Quest'ultima obiezione, lo confesso, fu decisiva. Fu
Puliti che mi suggerì l'idea della chiesa. Frequentava le chiese per mendicare e le conosceva,
si può dire, tutte, una per una. Disse che se mi facevo chiudere la sera in una chiesa, poi, se
ci sapevo fare, la mattina potevo scappare senza che mi vedessero. Avvertì poi: "Fa'
attenzione, però... i preti mica sono scemi... la roba buona la tengono nella cassaforte e
quelli che vedi sono fondi di bicchieri." Finalmente affermò che se la sentiva, una volta che
avessi fatto il colpo, di rivendere la roba. Insomma, mi mise una pulce nell'orecchio,
sebbene, poi, non ci pensassi e non ne parlassi più. Ma le idee, si sa, sono come le pulci,
camminano da sole e, quando meno te lo aspetti, ti danno un morso e ti fanno saltare in
piedi. Così, una di quelle sere, l'idea mi diede il morso e io ne parlai a mia moglie. Ora
bisogna sapere che mia moglie è religiosa e al paese, si può dire, stava più in chiesa che in
casa. Disse subito: "Che, sei diventato matto?" Io avevo preveduto l'obbiezione e le risposi:
"Questo non è un furto... la roba, nella chiesa, perché ci sta? Per fare il bene... Se noi
prendiamo qualche cosa, che facciamo? Facciamo il bene... a chi, infatti, si dovrebbe fare il
bene se non a noi che abbiamo tanto bisogno?" Lei parve scossa e domandò: "Ma tu come le
hai pensate tutte queste cose?" Io dissi: "Non te ne occupare e rispondi: non è scritto forse
che bisogna dar da mangiare agli affamati?" "Sì." "Siamo o non siamo affamati?" "Sì"
"Ebbene in questo modo facciamo il nostro dovere... anzi facciamo un'opera buona."
Insomma tanto dissi, sempre insistendo sulla religione che era, come sapevo, il suo punto
debole, che la convinsi. Soggiunsi, poi: "Ma siccome non voglio che rimani sola, verrai con
me... così, in galera, se ci scoprono, ci andremo insieme." "E le creature?" "Le creature le
lasciamo a Puliti... poi ci penserа il Signore." Così ci mettemmo d'accordo e quindi ne
parlammo a Puliti. Lui discusse il piano, approvandolo; ma alla fine disse, lisciandosi la barba:
"Domenico, dа retta a me che sono vecchio... i cuori d'argento lasciali stare... è roba da poco...
attaccati alle gioie." Quando ripenso a Puliti, alla sua barba e alla gravitа con cui mi dava questi
consigli, quasi quasi mi viene da ridere. Il giorno fissato, lasciammo i bambini a Puliti e
scendemmo con il tram a Roma. Proprio come due lupi affamati che scendono dal monte al
paese; e chiunque, vedendoci, ci avrebbe preso per due lupi: mia moglie bassa e tarchiata,
tutto petto e spalle, con i capelli crespi ritti che le facevano come una fiamma sulla testa, la
faccia risoluta; io magro scannato, il viso a coltello nero di barba, gli occhi incavati e
scintillanti. Avevamo scelta una chiesa antica, dalle parti del Corso, in una traversa. Era una
chiesa grande e molto buia per via che ci aveva case tutt'intorno; con due file di colonne e, al
di là delle colonne, due navate strette e buie con tante cappelline, piene di tesori. Di vetrine
con cuori d'argento e dorati, ce n'erano in quantità, appese alle pareti. Ma io avevo messo gli
occhi su una vetrinetta più piccola, dove, tra pochi cuori più preziosi, stava in mostra una
collana di lapislazzuli su un fondo di velluto rosso. Questa vetrinetta si trovava in una cappella
dedicata alla Madonna; e, infatti, in cima all'altare, sotto un baldacchino, c'era la statua della
Madonna, di grandezza naturale, tutta dipinta, con la testa circondata da un nimbo di
lampadine e, ai piedi, molti vasi di fiori e molti candelabri. Entrammo in chiesa che era già
notte e, un momento che non c'era nessuno, ci nascondemmo dietro l'altare, in quella
cappella dove era la vetrina. C'erano due o tre scalini, dietro la statua, e sedemmo su quelli.
A un'ora tarda, il sacrestano prese a girare per la chiesa, strascicando i piedi e borbottando: "Si
chiude;" ma dietro quell'altare non ci venne e si limitò a spegnere tutte le lampadine all'infuori
di due lumettini rossi, uno per parte. Poi lo udimmo che chiudeva le porte e alla fine traversò
la chiesa per tutta la sua lunghezza e se ne andò dalla parte della sacristia. Eccoci dunque al
buio, in quel corridoietto, tra l'altare e la parete dell'abside. Io avevo la febbre e dissi
sottovoce a mia moglie: "Su, facciamo presto... apriamo la vetrina." La udii rispondere:
"Aspetta... che fretta c'è?;" e poi la vidi uscire dal nascondiglio. Andò in mezzo alla cappella,
fece là, in quella penombra, un inchino, si segnò, poi, camminando a ritroso, fece un altro
inchino e si segnò una seconda volta. Finalmente la vidi inginocchiarsi in terra, in un angolo
della cappella, e giungere le mani come per pregare. Che preghiere fossero non saprei, ma
capii che non era poi tanto convinta di far bene, come le avevo detto, e voleva premunirsi
per quanto poteva. La vedevo chinar la testa nascondendo il viso sotto la massa dei capelli e
poi rialzare il viso in quella lucetta rossa muovendo le labbra e poi riabbassarlo, proprio come
al rosario. Mi avvicinai e le mormorai, inquieto: "Le preghiere potevi anche dirle a casa, no?"
Ma lei, rude: "Lasciami perdere... va', gira, la chiesa è tanto grande... proprio qui hai da
stare?" Sussurrai: "Vuoi intanto che tu preghi, che io apra la vetrina?" E lei, sempre
sgarbata: "Non voglio nulla... anzi, quel ferro, dallo a me." Il ferro era un paletto più che
sufficiente per aprire quella vetrinetta traballante: glielo diedi e mi allontanai. Presi a girare
per la chiesa, senza sapere che fare. La chiesa, in penombra, mi faceva paura, con le volte alte
e buie che a un sospiro rintronavano; con l'altare maggiore, laggiù in fondo, monumentale,
luccicante appena, con i confessionali neri e chiusi, appiattati al buio nelle navate laterali.
Camminando in punta di piedi, andai alla porta, tutto solo, tra le due file di banchi vuoti, e mi
sentivo freddo alle spalle, come se qualcuno mi seguisse. Provai ad aprire la porta, vidi che era
proprio chiusa, e allora tornai indietro e andai a sedermi nella navata di sinistra, davanti una
tomba illuminata da una lucernetta rossa. La tomba, murata nella parete, aveva una grande
lapide di marmo nero, lucido, e due figure, una per parte; uno scheletro che impugnava una
falce e una donna nuda avvolta nei propri capelli. Ambedue le figure erano di marmo giallino,
brillante, scolpito benissimo; e io mi distrassi un poco a osservarle e a furia di guardare mi
pareva, forse a causa del buio, che si muovessero e che la donna accennasse a fuggire dallo
scheletro e questi, galante, la trattenesse per un braccio. Allora, per rinfrancarmi, pensai alla
grotta, ai figli, a Puliti, e mi dissi che, se in quel momento mi avessero proposto di tornare
indietro e di scegliere di nuovo quello che dovevo fare, avrei fatto la stessa cosa o per lo meno
una cosa molto simile a questa. Insomma, non era un caso che fossi in quella chiesa, e non era
un caso che ci fossi per quello scopo, e non era un caso che non avessi trovato niente di
meglio da fare. Tra questi pensieri mi venne sonno e mi addormentai. Fu un sonno pesante,
senza sogni, sigillato dal freddo che in quella chiesa pareva di cantina. Così dormii e non mi
accorsi di nulla. Poi qualcuno mi scoteva e io, nel sonno, dissi: "Ahù, vacci piano... che ti
prende?" Finalmente, siccome continuavano a scuotermi, aprii gli occhi e vidi gente: il
sacrestano che mi guardava con gli occhi fuori dalla testa; il parroco, un vecchio, coi capelli
bianchi spettinati e la veste ancora sbottonata; due o tre guardie e, tra le guardie, mia
moglie, più tetra che mai. Dissi, così, senza muovermi: "Lasciateci stare... siamo sfollati e
siamo entrati in chiesa per dormire." Allora una delle guardie mi mostrò qualcosa che, lì per
lì, tanto ero intontito dal sonno, scambiai per un rosario: la collana di lapislazzuli: "E
questa... anche questa per dormire?" Insomma dopo qualche altra spiegazione, le guardie ci
presero in mezzo e uscimmo dalla chiesa. Era ancora notte, ma verso l'alba, con le strade
deserte e bagnate di guazza. Andavamo di fretta, per quelle straducce, tra le guardie, a testa
china, muti. Vedendo mia moglie che camminava davanti, poveretta, così tarchiata e bassa,
con la gonnella corta e i capelli ritti sulla testa, mi venne compassione e dissi a una delle
guardie: "Mi dispiace per lei e per i miei figli." La guardia mi domandò: "Dove ce l'hai i figli?"
Glielo dissi, e lui: "Ma tu, un padre di famiglia... come ti è saltato in mente?... Non hai pensato
ai tuoi figli?" Io gli risposi: "è proprio perché ci pensavo che ho fatto quello che ho fatto." Al
Commissariato, un giovane biondo, seduto dietro una scrivania, come ci vide, disse: "Ladri
sacrileghi, eh." Ma mia moglie, tutto ad un tratto, gridò con una voce terribile: "Davanti a
Dio, non sono colpevole." Io non le conoscevo quella voce e rimasi a bocca aperta. Il
commissario disse "Allora è tuo marito il colpevole." "Neppure." "Sta' a vedere che il
colpevole sono io... e la collana come l'hai avuta?" E mia moglie: "La Madonna è scesa
dall'altare, ha aperto con le sue mani la vetrina e mi ha dato la collana." "La Madonna eh... e
anche il più di porco ti ha dato la Madonna?" E mia moglie, sempre con quella voce, alzando
una mano: "Potessi morire se non ho detto la verità." Continuarono a interrogarci, non so
quanto tempo, ma io dicevo che non avevo visto niente, come era vero; e mia moglie ripeteva
che la Madonna le aveva dato la collana. Ogni tanto gridava: "Uomo inginocchiati davanti al
miracolo." Insomma, pareva esaltata o addirittura matta. Andò a finire che la portarono via,
mentre continuava a gridare e a invocare la Madonna: credo che la mandassero all'infermeria.
Poi il commissario voleva sapere da me se mi risultava che mia moglie fosse matta e io gli
risposi: "Magari lo fosse davvero;" pensando che i matti non soffrono e le cose le vedono
come pare a loro. Ma pensavo pure che poteva darsi che mia moglie avesse detto la verità e
quasi quasi mi dispiaceva di non aver visto coi miei occhi la Madonna scendere dall'altare,
aprire la vetrina e consegnarle la collana.