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Estratto

Si intende contribuire allo studio delle modalità e dei tempi relativi ai caratteri, allo
sviluppo, ai cambiamenti e alle conquiste tecnologiche e formali della produzione
ceramica attestata in Etruria meridionale e nel Lazio, in parte dovute alle influenze e agli
apporti di ambito levantino e greco immediatamente prima della colonizzazione greca e
fenicia in Occidente e nei decenni successivi, tra la I età del Ferro e l’orientalizzante. Sono
prese in considerazione testimonianze da alcuni dei principali centri dell'Etruria
meridionale (Veio, Cerveteri e Tarquinia) e dalla necropoli di Osteria dell’Osa (Gabii) nel
Lazio. Sono messe in evidenza le differenze negli esiti della produzione locale tra il peso
dell’influenza e presenza diretta di artigiani greci e quello attribuibile a relazioni con
l’ambiente levantino. Particolarmente interessante è l’esame dei rapporti tra la
produzione in argilla depurata e in impasto, della prima red-slip ware, degli antecedenti e
dell’inizio della produzione in bucchero.

Parole chiave: Ceramica, impasto, bucchero, Etruria, Lazio.

Abstract

Evidence provided by artifacts mainly from Southern Etruria and Latium cemeteries is
taken into account, in order to verify not only the characters and the development of the
local pottery, but also how and when relations with Levantine and Greek people brought
about a change in middle-Tyrrhenian material knowledge and technical skills during the
Early Iron Age. Ceramic products from Veii, Caere and Tarquinia in Southern Etruria and
from Osteria dell’Osa (Gabii) in Latium are analyzed. The earliest imitations of Greek
painted pottery and Levantine and then Phoenician red-slip ware in Southern Etruria and
Latium provide the evidence to show the different influence of Greek and Levantine
craftsmen before Greek and Phoenician colonization, during the Early Iron Age and at the
beginning of Orientalizing period. Another interesting question is the relation between the
so-called "impasto bruno sottile" and the first bucchero pottery.

Key words: Pottery, impasto, bucchero, Etruria, Latium

1. Impasto bruno, argilla depurata dipinta e impasto rosso

L’opportunità che hanno offerto gli organizzatori del Congresso, a cui va un vivo
ringraziamento, di un confronto su temi di interesse generale nell’ambito dei
rapporti tra diverse genti e culture nel bacino del Mediteraneo, tra Oriente e

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*Sapienza Università di Roma, Dipartimento Scienze dell’Antichità, Piazzale Aldo Moro, 5, 00185 Roma, Italy
luciana.drago@uniroma1.it

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Occidente, è particolarmente stimolante nel caso della produzione ceramica
dell’Italia centrale tirrenica tra la I età del Ferro e l’orientalizzante.

Uno degli aspetti che si stanno sempre più approfondendo è quello relativo ai
caratteri delle produzioni artigianali locali, in particolare i modi e tempi delle
conquiste tecnologiche e formali in parte attribuite ad influenze e apporti di
ambito greco e levantino già dai decenni precedenti la colonizzazione greca e
fenicia in Occidente.

In Etruria meridionale e nel Lazio (fig. 1) all’inizio della I età del Ferro la ceramica
documentata in necropoli, abitati e luoghi di culto è per la maggior parte realizzata
in impasto bruno non tornito, con superfici lisciate e lucidate ma prive di ingobbio,
con decorazione incisa, impressa o applicata a lamelle metalliche (Drago Troccoli,
2009: 229-231, 234-240).

A Veio l’analisi dei materiali delle necropoli e scavi recenti nell’abitato mostrano
che già nel villanoviano antico la produzione ceramica in impasto è altamente
specializzata. In località Campetti un’area produttiva con materiali databili a
partire da Veio I costituisce un utile punto di partenza per la definizione delle
produzioni artigianali locali, del livello tecnologico raggiunto nell’apprestamento
delle fornaci e nell’organizzazione e gestione della produzione da un punto di vista
socio-economico. E’ stato supposto che la sepoltura femminile del villanoviano
antico rinvenuta presso le fornaci appartenga ad un personaggio direttamente
coinvolto nella gestione dell’attività produttiva (Boitani et alii, 2009) (fig. 2). Oltre
a quelle messe in evidenza dalle ricognizioni inglesi, è stata localizzata a Piano di
Comunità presso Piazza d’Armi un’altra area a vocazione produttiva con una
capanna e materiali della I età del Ferro, strutture, pozzi e fornaci con materiali
ceramici orientalizzanti e arcaici, con una continuità di utilizzo analoga a quella di
Campetti. L’analisi archeometrica dei materiali fittili qui rinvenuti (Ambrosini et
alii, 2009), con quelli di Casale del Fosso, Grotta Gramiccia e Portonaccio
(Saviano et alii, 2007: 75-77, 85-90, 92-96, con bibliografia precedente), ha
avviato la raccolta di dati per la caratterizzazione chimico-fisica delle argille e delle
ceramiche veienti. Si tratta di un utile punto di partenza per tentare di risolvere i
frequenti dubbi di attribuzione, soprattutto per il periodo compreso tra Veio IC e
Veio II, cioè tra la fine del IX e l’VIII secolo, non solo per le ceramiche dipinte di

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tipo greco - variamente riferite a Veio o al luogo di produzione primaria -
madrepatria o colonie - o ad altre botteghe etrusco-meridionali o laziali, in primo
luogo Roma (Colonna, 1988: 466; Boitani, Berardinetti Insam, 2001), ma anche
per alcune ceramiche d’impasto dai caratteri ben definiti, con circolazione estesa a
centri limitrofi dell’Etruria e del Lazio fino ad ambiti più remoti del Mediterraneo
occidentale, tra l’altro nella penisola iberica e negli stanziamenti fenici in Sicilia
(Drago Troccoli, 2009: 253-255, con riferimenti), sulle quali sono in corso ulteriori
approfondimenti con contributi in stampa di C. Ampolo (Mozia) e di chi scrive
(Huelva e Mozia). Per le ceramiche rinvenute negli scavi di Huelva, ancora in corso
(cfr., con la bibliografia relativa, i contributi presentati al Convegno
Contestualizzare la “prima colonizzazione”: Archeologia, fonti, cronologia e
modelli interpretativi fra l'Italia e il Mediterraneo, Roma, 21-23 giugno 2012, da
M. García Fernández, F. González de Canales Cerisola, L. Serrano Pichardo, J.
Llompart Gómez, J. Ramon Torres, A. Domínguez Monedero, “New data about the
beginning of the Phoenician colonization in Huelva”, e da F. González de Canales,
A. J. Domínguez, L. Serrano, J. Llompart, A. Montano, “First Phoenicians and
Greeks in Huelva”) non è stato ancora precisato il luogo di produzione nell’ambito
dell’Italia medio-tirrenica. Pertanto la definizione dei caratteri specifici delle
diverse botteghe locali potrà tra l’altro contribuire a meglio definire gli eventuali
rapporti privilegiati intrattenuti dalla comunità di Huelva con una delle località
dell’area compresa tra Etruria meridionale e riva latina della bassa valle tiberina
da cui presumibilmente provengono le ceramiche in un primo tempo definite
“villanoviane”, databili però non prima del momento finale della I età del Ferro o
più probabilmente all’inizio dell’orientalizzante, ovvero non prima degli ultimi
decenni dell’VIII secolo secondo la cronologia tradizionale (vedi supra per la
relativa bibliografia).

Per le anforette con decorazione a zig-zag / W da Mozia è invece chiaro che si


tratta di esemplari riferibili a un tipo di origine veiente (Veio II B – C, con
continuità in diverse varianti in Veio III A), rinvenuto in contesti sia veienti che
falisci e laziali, soprattutto a Roma e dintorni, confrontabile in particolare con
alcuni esemplari dell’orientalizzante antico da Veio e Roma (oltre ai contributi in
stampa di C. Ampolo vedi quello presentato dalla scrivente al Convegno
Contestualizzare la “prima colonizzazione”: Archeologia, fonti, cronologia e

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modelli interpretativi fra l'Italia e il Mediterraneo, Roma, 21-23 giugno 2012: ,
“La bassa valle tiberina prima e dopo la colonizzazione”).

A Veio in un panorama uniforme di ossuari biconici d’impasto bruno decorati a


incisione o a lamelle metalliche all’inizio della I età del Ferro, si inseriscono
eccezionalmente nella fase Veio I C, tra fine IX e inizio VIII secolo, biconici di
impasto bruno scuro con un’ingubbiatura biancastra in superficie, tecnica che
sembra alludere alle ceramiche d’argilla depurata greche ed è documentata fino al
periodo Veio II B (Drago Troccoli, 2009: 238-240). Ma soprattutto spicca un
eccezionale biconico da Valle La Fata d’impasto semidepurato rossastro, dalla
forma e dai motivi decorativi locali ma realizzato con una tecnica decorativa
(pittura di color rosso-bruno) di probabile derivazione greca euboica (Bartoloni,
Delpino, 1979: 53, tavv. 10, 1, XVII, c; Bartoloni et alii, 2000: 531; Berardinetti
Insam 2001).

A partire dallo stesso periodo, precedente la colonizzazione, si datano un gruppo di


brocche dello stesso tipo d’impasto e analoga decorazione, anch’esse con forma e
decorazione di derivazione locale ma tecnicamente ispirate alle ceramiche
euboiche (figs. 3-4) e una brocca con collo allungato che sembra invece affine per
la forma a modelli levantini e per la decorazione a modelli euboici (fig. 5, 2),
rinvenuta nella stessa area di Quattro Fontanili da cui proviene uno degli skyphoi
euboici a semicerchi pendenti rinvenuti a Veio, così come a Roma e a Ficana nel
Lazio (fig. 5, 3). A tali skyphoi (alcuni dei quali sottoposti ad analisi
archeometriche per confermarne o meno l’attribuzione a produzione euboica; cfr.
da ultimo Naso 2012, con bibliografia relativa, e il contributo in stampa dello
stesso autore: “Pendent semi‐circle skyphoi from Central Italy in the light of the
archaeometric results”), segue nei decenni successivi, tra il secondo e il terzo
quarto dell’VIII secolo, tra Veio II A e Veio II B - II C, un buon numero di
importazioni e di imitazioni locali di coppe per lo più ma non solo euboiche (fig. 3)
con decorazione a chevrons, a metope con vari motivi geometrici o ad uccello,
parte di una produzione locale in argilla depurata dipinta di buona qualità
comprendente anche molti prodotti che del modello greco imitano solo la tecnica,
ma che dipendono per forma e motivi direttamente dalla tradizione indigena. E’
stato ampiamente messo in evidenza come l’origine di tale produzione vada
attribuita alla presenza di artigiani greci che lavorano a fianco degli artigiani locali,

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dando luogo ad una produzione originale che mescola rielaborandole
creativamente le tradizioni locali e quelle allogene (Boitani, Berardinetti 2001;
Drago Troccoli, 2009: 246-247).

Un esempio originale di tale commistione è rappresentato da un askos d’impasto


grezzo con profonde solcature forse rubricate ispirato a modelli euboici e ciprioti
(Bartoloni et alii, 2000: 528, Fig. 360; Drago Troccoli, 2009: 239-240, Fig. 6).

Più complessa è la problematica relativa all’origine delle ceramiche locali in


impasto rosso, la cui origine come è noto era stata inizialmente ricondotta, fin
dalla metà degli anni ’70 e soprattutto dall’inizio degli anni ’80 del secolo scorso,
ad una imitazione dei prodotti fenici della red-slip ware a partire
dall’orientalizzante antico, con un rilevante ruolo di mediazione da parte di
Pithecusa, per poi arrivare ad un successivo riconoscimento di un’anticipazione
del fenomeno alla metà circa dell’VIII secolo, in connessione con il fenomeno
coloniale, evidente in particolare per le comunità etrusche e latine maggiormente
interessate ai rapporti con gli euboici, in Etruria nella fase Veio II B, nel Lazio nel
III periodo (Drago Troccoli, 2009; Nizzo, ten Kortenaar, 2010: ten Kortenaar,
2011, con bibliografia relativa).

Più di recente chi scrive ha proposto di rialzare ulteriormente l’introduzione del


primo impasto rosso in area tirrenica, riconoscendo nell’ambito più generale della
produzione artigianale fittile etrusco-meridionale e laziale una vivacissima fase
sperimentale, precedente largamente come già detto la colonizzazione greca e
fenicia in Occidente, ai tempi dei primi contatti tra levantini, euboici e indigeni
ben esemplificati dalla documentazione di Sant’Imbenia in Sardegna (Drago
Troccoli, 2009, a cui aderisce, con ulteriori osservazioni, Botto 2010). In termini di
cronologia relativa si tratta in Etruria del periodo corrispondente alle fasi Veio I B
e IC - II A, fino al momento iniziale del II B, nel Lazio del periodo compreso tra il
periodo II A e II B e l’inizio del III periodo, in termini di cronologia assoluta
tradizionale (in attesa di ulteriori dati circa le proposte di cronologia alta per l’età
del Ferro in Italia: Bartoloni,, Delpino, 2005) i decenni compresi tra la metà e in
particolare gli ultimi anni del IX secolo e gli inizi dell’VIII e il passaggio tra primo
e secondo quarto del secolo, in cui si affermano e si consolidano le nuove
conquiste tecniche e formali e ci si avvia verso nuove forme di standardizzazione.

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Nel Lazio il primo impasto rosso di tipo sperimentale con accurata ingubbiatura
superficiale di un color rosso più o meno brillante, da non confondersi con
l’impasto di colore bruno rossastro dovuto ad una cottura non uniforme, è
rappresentato da una forma assai peculiare, fortemente simbolica, legata all’uso di
sostanze liquide ritualmente versate, il vaso a fiasco, rappresentato da una forte
variabilità tipologica e realizzato anche in impasto bruno (fig. 5: 4-8). Vi
appartengono, oltre a due vasetti biansati da Osteria dell’Osa e da Anzio che
sembrano riecheggiare in via ipotetica forme levantine (fig. 5: 6, 8), il vasetto di
dimensioni quasi miniaturistiche dalla tomba 452 della necropoli di Osteria
dell’Osa della fase II A iniziale, la più antica attestazione in assoluto dell’impasto
rosso nell’Italia medio tirrenica (fig. 5: 7), e il notissimo vaso graffito dalla tomba
482 della stessa necropoli, attribuito alla fase II B, con la più antica iscrizione
alfabetica della penisola (bibliografia completa in Drago Troccoli, 2009: 267-268,
note 270-272 (fig. 5: 5). Si è ipotizzata per la forma un rapporto con prodotti
meridionali, ma va sottolineato che vasi a fiasco sono ampiamente attestati nel
Lazio sui Colli Albani e nel territorio di Tivoli, e in Etruria a Veio, quindi tra la
valle dell’Aniene e del Tevere, fra la fine del IX e la metà dell’VIII secolo (Drago
Troccoli, 2009: 269, 271; Drago Troccoli, 2012a: 00).

Sia nel Lazio che in Etruria meridionale il nuovo tipo d’impasto rosso è utilizzato,
in alternativa all’impasto bruno, per lo più per forme legate all’uso rituale di
liquidi. La sua peculiarità è sottolineata dalla bassa percentuale nei corredi (il 2%
circa) e nel periodo successivo a quello iniziale della produzione dal gusto di
comporre set di vasi di forma uguale in cui si contrappone l’impasto bruno
tradizionale a quello rosso di origine esotica. Sempre nel III periodo laziale a
Roma la nuova tecnica è prescelta per le deposizioni eccezionali del Quirinale
entro sarcofago fittile a forma di tronco d’albero (La Rocca, 1976: tav. XIX E ;
Colonna, 1988 a: 466, 489, Fig. 366) (fig. 7).

A Veio il primo impasto rosso è documentato tra le fasi Veio I C e II A, ovvero tra
fine IX e inizio VIII secolo, dall’olla ossuario della tomba 1094 di Casale del Fosso
(fig. 5: 1) e da un dolio della necropoli di Quattro Fontanili (Drago Troccoli, 2009:
240-243), associato ad un’olletta secondo gli editori ugualmente realizzata in
“impasto rosso” (NSc 1972: 239, tomba U2, nn. 1-2; cfr. ten Kortenaar, 2011: 28,
nota 90). Le manifestazioni più mature della fase Veio II B, nell’età della

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colonizzazione fenicia in Occidente, sono rappresentate soprattutto da olle e piatti
deposti in tombe delle principali necropoli veienti, mentre più tardi l’impasto
rosso viene utilizzato in quanto materiale ceramico pregiato rispetto agli impasti
bruni per riprodurre in argilla recipenti esotici peculiari delle sepolture
principesche, metallici o in vetro azzurro, di origine assira o genericamente
orientale, come le patere baccellate e le coppe emisferiche (Drago Troccoli, 2009;
ten Kortenaar, 2011: 296-298).).

Una precoce introduzione dell’impasto rosso tra fine IX e inizio VIII secolo, in
concomitanza con iniziative probabilmente parallele e presenze forse congiunte
levantine ed euboiche, che importano anche qui coppe a semicerchi pendenti, è
documentata a Cerveteri da olle cinerario o accessorie al corredo funebre, in
concomitanza con la produzione di brocche d’impasto rossastro con decorazione
geometrica dipinta analoghe a quelle veienti già ricordate (Drago Troccoli, 2009:
245-246, con bibliografia).

A Tarquinia nello stesso periodo appare ancor più significativa - come esempio di
confluenza di tradizioni e stimoli diversi complementari tra loro - l’adozione del
nuovo tipo d’impasto (più ampiamente diffuso dalla fase II B, come sottolinea
Medori, 2010: 6), seguendo una tecnica levantina, per la produzione di olle-cratere
ispirate invece per forma e funzione ai crateri greci per il consumo cerimoniale del
vino (Delpino, 1997), come un cratere sporadico d’impasto da Veio (Berardinetti
Insam, 1990: 11, Fig. 33), con rielaborazioni locali per adattare i recipienti ai
costumi e alle necessità conviviali dei membri della comunità collocati ai suoi più
alti vertici. Anche a Tarquinia l’innovazione tecnica è impiegata soprattutto per
olle e brocche, come componente di gusto esotico all’interno dei servizi per il
banchetto e il simposio e le cerimonie funebri, anche in corredi significativamente
connotati dalla presenza di oggetti di importazione e d’imitazione nuragica (Drago
Troccoli, 2009: 244-245; Drago Troccoli, 2012a). Questi ultimi tradiscono il
possibile ambiente mediatore del complesso intreccio di relazioni fin qui
adombrate tra prospectors esterni e comunità indigene protagoniste della gestione
dei traffici e delle risorse naturali, soprattutto quelle minerarie. Nel caso della
bassa valle tiberina è stato suggerito che tali traffici fossero regolati da un sistema
di pedaggi pretesi da parte delle comunità locali dai naviganti e mercanti di
provenienza egea interessati a stringere accordi di natura economica (Colonna,

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1976), patti di collaborazione che potevano anche essere suggellati tramite la
concessione di “artigiani in prestito” (Drago Troccoli, 2009: 252, con bibliografia
relativa).

Uno dei problemi più rilevanti ai fini della definizione dell’origine della classe, con
particolare riguardo alle motivazioni che hanno portato all’introduzione di questo
innovativo tipo di impasto in area tirrenica, come recentemente sottolineato da
Silvia ten Kortenaar, che prende in considerazione in parallelo la possibilità che si
tratti di un’innovazione solo locale (ten Kortenaar, 2011: 317-320), è la
constatazione che l’impasto rosso, qualora si accetti la sua derivazione da prototipi
levantini, sarebbe stato introdotto in assenza quasi totale di importazioni e di
precisi modelli formali di riferimento, a differenza della ceramica greca o di tipo
greco. L’estrema scarsità in generale delle importazioni di ceramiche fenicie è stata
del resto messa in evidenza per l’Italia centrale da Massimo Botto anche per l’VIII
secolo avanzato e tutto l’orientalizzante fino all’età arcaica, a fronte di un numero
cospicuo di imitazioni e rielaborazioni di forme ceramiche dedotte dal repertorio
vascolare di questo ambito (Botto, 2010: 151).

A mio avviso la differenza evidente nell’ambito della produzione ceramica locale


riguardo al rapporto con i modelli allogeni, da un lato quelli greci, dall’altro quelli
levantini, è imputabile a motivi culturali, con particolare riferimento alle
limitazioni forse imposte dall’ideologia funeraria. Secondo tale chiave di lettura
interpretativa mi sembra di poter sostenere l’ipotesi che il primo impasto rosso di
area medio-tirrenica imiti, limitatamente all’aspetto esteriore e alla tecnica, ancora
non “canonica”, le contemporanee produzioni levantine fin dalla I età del Ferro
probabilmente grazie all’incontro diretto nelle botteghe a fianco degli artigiani
locali con artigiani levantini al seguito di mercanti, che portano nuove tecniche
prontamente recepite e apprezzate per la loro origine esotica e per la possibilità di
imitare a buon mercato le superfici brillanti dei vasi metallici (cfr. per
l’orientalizzante antico il suggestivo esempio, relativo ad olle di forma affine in
metallo e in impasto rosso dall’Urartu, della fine dell’VIII - inizi del VII secolo, in
ten Kortenaar, 2011: 322-323, Fig. 1). Se si accetta un rapporto tra i prodotti locali
datati tra la seconda metà dell’VIII e il VII secolo e le ceramiche levantine o
fenicie, appare plausibile riconoscerne gli antecedenti nei vasi del IX e della prima
metà dell’VIII secolo su citati, sottolineando che anche in Occidente come nel

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Levante la fase sperimentale del primo impasto rosso vede una grande varietà
nelle tonalità cromatiche e nel trattamento delle superfici dei vasi (Drago Troccoli,
2009: 241-242, con riferimenti).

In effetti si può osservare come le imitazioni non soltanto non appaiono aderenti
ai modelli (come si può constatare invece per le ceramiche di tipo greco anche
quando si tratta non di vere e proprie imitazioni ma di rielaborazioni locali), ma
risentono spesso di una più o meno diretta influenza culturale greca.

Come già detto ciò è particolarmente evidente a Tarquinia, dove sono realizzate in
impasto rosso molte delle olle accostate per forma e funzione ai crateri greci su cui
di recente si è nuovamente soffermato Filippo Delpino nella relazione “Modalità
del bere a Tarquinia villanoviana”, presentata in occasione delle Giornate di Studi
in memoria di Francesca Romana Serra Ridgway (Tarquinia, settembre 2010), i
cui Atti sono ancora inediti. Lo studioso a proposito di tali vasi, in particolare del
più antico dei “crateri” indigeni tarquiniesi, quello della tomba SS 158, assegnabile
ad un momento avanzato ma non finale della prima fase, ancora nell’ambito del IX
secolo, per i quali in importanti contributi precedenti si era limitato ad evidenziare
il rapporto formale con i crateri greci, in questo intervento concorda con quanto
sostenuto in Drago Troccoli, 2009, seguita da Botto, 2010, a proposito
dell’evidenza fornita dalla superficie del vaso, lisciata e levigata e caratterizzata da
una tonalità rossastra, del tutto insolita a questo livello cronologico nella
produzione ceramica villanoviana. Analoghe osservazioni possono farsi per le
ceramiche locali in impasto rosso ingubbiato in rosso e suddipinto in bianco, la
cosiddetta «White-on-red» (Micozzi, 1994; Medori, 2010) e l’impasto rosso
ingubbiato in bianco e suddipinto in rosso (la cosiddetta ceramica «red-on-white»,
ora tema della ricerca di Alessandro Conti nell’ambito della scuola di Dottorato in
Archeologia - curriculum Etruscologia), entrambe decorate con motivi desunti dal
repertorio greco fuso con elementi di quello locale, al pari della ceramica locale
depurata di tradizione geometrica (Neri, 2010).

Per tali ceramiche infatti esame tipologico e analisi delle argille hanno consentito
di circoscrivere con sempre maggiori dettagli circolazione, distribuzione in settori
privilegiati delle comunità locali e, per quanto riguarda la provenienza degli

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originali e la rielaborazione o diretta ispirazione a singoli modelli o prototipi, di
individuare ambienti, centri e addirittura singole aree produttive se non botteghe.

Nel caso degli impasti rossi dell’Italia medio tirrenica invece niente di tutto ciò è
possibile. Sembra che essi si riducano solo a mera testimonianza (di cui
sottolinerei però la indiscutibile ed estremamente significativa valenza culturale,
visivamente rappresentata dall’isolamento nel contesto dei corredi, soprattutto i
più antichi tra la fine del IX secolo e nei primi tre decenni dell’VIII ) della volontà
di inserire nei corredi ceramiche che, attraverso esclusivamente il colore e l’aspetto
della superficie, in contrasto con la stragrande maggioranza delle ceramiche locali
- il cd impasto bruno - alludano semplicemente alla conoscenza e all’esibizione
volontaria di una ceramica immediatamente riconducibile ad un modello allogeno,
ma in forma generica, in apparenza come messaggio culturale aspecifico, cioè
svincolato, al contrario della ceramica di tipo greco, da un rapporto diretto e
quindi in qualche modo di tipo più politico oltre che commerciale, con singoli
individui, gruppi familiari o comunità della Grecia propria o delle colonie. Non è
data agli studiosi in definitiva, anche per la totale assenza di importazioni, con
poche eccezioni tra VIII e VII secolo, alcuna possibilità di ricondurre tali
attestazioni a specifici prototipi e quindi a rapporti privilegiati con questa o quella
specifica comunità levantina. Tale situazione potrebbe spiegarsi ricorrendo ad un
diverso modello, ovvero circolazione o anche “prestito” di artigiani - a sancire
accordi economici tra commercianti levantini più o meno itineranti e le élites locali
- artigiani che si sono limitati a stimolare nell’ambito delle botteghe locali già da
tempo specializzate, almeno fin dal villanoviano antico, una produzione innovativa
limitatamente ad un generico aspetto esteriore. Naturalmente questi sono solo
spunti di riflessione, tutti da approfondire con analisi mirate e incrociate, ad
ampio spettro.

Si tratta insomma a mio avviso di una produzione decisamente locale ma stimolata


dalla conoscenza di modelli artigianali prima genericamente levantini e poi fenici.

Nella questione, ancora dibattuta, sull’origine dell’impasto rosso nell’Italia


mediotirrenica (ten Kortenaar, 2011: 305-327), si può inoltre sottolineare come il
fattore cronologico appaia dirimente. Non è possibile postulare per un così alto
livello cronologico un’influenza profonda e processi di acculturazione tali da

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giustificare un confronto con i fenomeni ben noti per le fasi successive, in
particolare per l’orientalizzante, quando tuttavia a fianco del modello di stile di
vita greco i principi locali adottano non il modello fenicio ma quello dei dinasti
della costa vicino-orientale (Sciacca 2003; Sciacca 2010, con ampia bibliografia).

Del resto non è possibile nemmeno per le fasi più recenti paragonare, ponendoli su
un piano paritario, i rapporti tra le produzioni delle comunità locali e l’influenza
dell’artigianato di ambito greco con quelli di ambito levantino e poi fenicio. I primi
trovano le loro ben più profonde ragioni in un dialogo avviato da tempo con genti
interessate a contatti più stretti e regolari, in apparenza già relativamente
strutturati e forse fecondi di successivi sviluppi anche prima di insediarsi
stabilmente nei territori prossimi a quelli delle comunità etrusche e latine, i
secondi sono motivati da relazioni di ben altra natura, legate ad interessi
contingenti e più dichiaratamente economici, non supportati da affinità culturali e
religiose, tant’è che nel corso di due secoli le importazioni di materiali levantini e
poi fenici, lungi dall’essere paragonabili con quelle greche, si limitano a pochi
esemplari e poche forme, solo eccezionalmente e solo tardivamente supportate
dall’adozione, sempre rielaborata e assimilata secondo le norme locali e le esigenze
del momento e solo se consono agli sviluppi e alla naturale evoluzione, in rapporto
alla struttura socio-economica, delle usanze delle nuove famiglie aristocratiche, di
nuovi costumi che comportano tra l’altro l’adozione di innovazioni nel campo
alimentare con l’introduzione di nuove ed appropriate suppellettili, come nel caso
della comparsa di piatti con più o meno larga tesa.

Ben diversa è la motivazione della comparsa nei corredi locali e negli abitati della
ceramica euboica o meglio, più precisamente delle coppe euboiche,
indifferentemente d’importazione o prodotte in loco, con la successiva
assimilazione e rilevante produzione di manufatti ad esse direttamente ispirati o
più liberamente rielaborati, dovuta ad una profonda acculturazione, ovvero ad
un’adesione convinta ad un modello e ad uno stile di vita che esteriormente si
rivela archeologicamente soprattutto attraverso la presenza di un complesso
coerente di oggetti legati all’ideologia del banchetto e del simposio e al peculiare
modo greco di bere il vino, modello che ora si sente strettamente aderente, anche
per le ben più profonde affinità culturali e religiose, che affondano le proprie radici
in epoche più o meno remote, ma anche affinità sul piano dell’organizzazione

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sociale, in armonia con lo status e l’adattamento naturale di tali profondi
cambiamenti nell’alveo delle proprie tradizioni. Un tale atteggiamento mentale,
con la conseguente adozione di oggetti in relazione alla loro funzione e di
conseguenza al loro significato culturale, sarebbe stato impensabile nei confronti
della cultura levantina o più tardi specificamente fenicia, e quindi inevitabili sono
le limitazioni e il relativamente scarso interesse nei confronti della cultura
materiale di tale ambito intesa come “sistema”. Ci si limita ad adottare solo
marginalmente e ove necessario le poche innovazioni consone da una parte alla
trasmissione della cultura tradizionale, dall’altra alle nuove esigenze che
gradatamente si affermano in un crescendo esponenziale, quasi in progressione
geometrica, man mano che ci si allontana dall’inizio dell’VIII secolo, soprattutto
evidenti nell’incremento e quasi nella ricerca spasmodica di innovazioni e
sperimentazioni tecnologiche, finalizzato alla valorizzazione delle forme esteriori
che possano al meglio esaltare, sia nelle occasioni pubbliche di incontri e
cerimonie che in occasione delle esequie dei componenti di spicco della comunità,
le crescenti potenzialità delle più importanti famiglie locali e alla loro esigenza di
esibirle a fini politico-economici sia in relazione agli equilibri interni che ai
rapporti interregionali e internazionali.

E’ per questo che alla base dell’introduzione dell’impasto rosso non va visto
semplicemente il perfezionamento delle tecniche di cottura ossidanti all’interno di
una tradizione ed un’abilità artigianale specializzata già consolidata, ma una
precisa volontà, suggerita dal contatto o dalla presa visione di prodotti già
circolanti nel Mediterraneo occidentale, con particolare riguardo alla Sardegna
con cui da tempo le comunità villanoviane intrattenevano stretti rapporti, di far
propria, senza alcun bisogno di importare o imitare le forme realizzate con quella
tecnica, per le quali non esiste nessuna specifica motivazione in questo momento,
di realizzare oggetti prestigiosi, ma non particolarmente pregiati per la materia
adoperata, con il principale intento e un nuovo gusto di imitare nella produzione
ceramica la lucentezza e il colore rossastro del rame o del bronzo con forte
percentuale di rame. Poiché in questo periodo sono assai scarse le attestazioni di
vasi metallici nelle necropoli tali da giustificare una tale esigenza, appare assai
plausibile che lo stimolo non sia diretto, esclusivamente locale, ma mediato da
un’esperienza esterna già ampiamente radicata, ravvisabile in questo orizzonte

961
cronologico esclusivamente nelle produzioni levantine, note nel Tirreno come
dimostrano le attestazioni e le relative imitazioni documentate dagli scavi di
Sant’Imbenia, databili in questa età grazie all’associazione con skyphoi euboici a
semicerchi penduli del tipo più antico. La Sardegna potrebbe essere l’ambiente che
ha contribuito alla trasmissione e circolazione di ciò che possiamo definire un
gusto, piuttosto che, in termini più rigidi, alla circolazione di tecniche e modelli
adottati meccanicamente nella loro forma più compiuta, dando impulso ad una
produzione che possiamo definire indubbiamente locale, pur se stimolata dalla
conoscenza di prodotti artigianali levantini, come recentemente prospettato per la
bronzistica sarda (Bernardini, Botto 2010).

L’origine dell’impasto rosso nell’Italia centrale, fissata nei decenni a cavallo tra IX
e VIII secolo, va ad ogni modo cercata non in rapporto alla ceramica fenicia, da
chiamare eventualmente in causa semmai per il pieno VIII secolo, ma alla più
variegata esperienza della più antica produzione genericamente definibile
“levantina”, cui si devono ad esempio gli apporti e i prodotti ibridi testimoniati
chiaramente in Sardegna dalle attestazioni di Sant’Imbenia associate ad esemplari
di skyphoi a semicerchi penduli del tipo più antico. Sicuramente utili potranno
essere in ogni caso le analisi caratterizzanti la ceramica levantina e fenicia (cfr. ad
esempio Acquaro, Fabbri, 1998) in rapporto all’impasto rosso locale (S. Levi in ten
Kortenaar, 2011: 329-342), che potrebbero forse contribuire all’eventuale
riconoscimento di nuove importazioni fenicie tra i materiali già messi in luce in
passato, non ancora attuato per mancanza di evidenze macroscopiche rilevabili
con la sola analisi autoptica.

2. Impasto bruno e bucchero

Particolare interesse riveste l’esame dei rapporti tra le produzioni ceramiche in


impasto bruno delle fasi Veio II B - II C e III A e quella dei primi buccheri, ai fini
dello studio e della definizione degli antecedenti e dell’origine della produzione in
bucchero nell’Etruria meridionale, di recente oggetto di un vivace dibattito (cfr.
soprattutto Locatelli, 2001; Palmieri, 2001; Locatelli, 2004; Bonghi Jovino, 2009;
Palmieri, 2009; Palmieri, 2010).

Purtroppo la parzialità dei dati relativi a scavi vecchi e nuovi non permette di
verificare appieno eventuali differenze tra le produzioni veienti attestate nei

962
corredi funerari e quelle documentate in aree di abitato e luoghi di culto. In questi
ultimi, in particolare, in diversi casi sono presenti esemplari sia in impasto che in
bucchero che evocano l’esistenza di produzioni realizzate ad hoc per l’offerta
votiva, assenti sia in contesti abitativi che funerari. L’analisi di prodotti di questa
speciale categoria potrebbe apportare ulteriori dati relativi all’esistenza di una fase
sperimentale, da mettere in eventuale relazione con le realizzazioni più antiche in
bucchero, messa in atto da artigiani altamente specializzati operanti nelle botteghe
locali che producevano impasti.

Tuttavia, alla luce di quanto finora edito soprattutto tra i materiali dagli scavi delle
necropoli, unitamente ai dati emersi dallo studio di materiali ancora inediti del
sepolcreto di Casale del Fosso, sembra possibile effettuare un primo tentativo di
verifica dei dati utili a dirimere la questione anche per Veio, centro finora
trascurato nell’ambito di tale problematica.

In sintesi, i punti essenziali del dibattito sono incentrati sul primato


tradizionalmente attribuito a Cerveteri nell’invenzione del bucchero - supportata
non solo dal dato cronologico relativo alla comparsa dei primi buccheri in questo
centro verso il 680-675 a.C. ma anche dalla qualità e ricercatezza dei prodotti
ceretani - e sulla posteriorità più o meno accentuata delle testimonianze
tarquiniesi, così come di quelle veienti, capisaldi da tempo acquisiti in letteratura
(cfr. la sintesi di Martelli, 1994, con bibliografia relativa) ai quali si contrappone la
proposta avanzata in anni recenti per Tarquinia sulla base dei rinvenimenti della
Civita (Locatelli, 2001) di un’avvio della produzione in bucchero (il caratteristico
primo bucchero locale a superficie bruno-marrone, ben esemplificato nel tumulo
di Poggio Gallinaro) “in prossimità del volgere del primo quarto del VII secolo”
(Locatelli, 2004: 50). Alcuni materiali dallo stesso scavo nell’abitato (Locatelli,
2004: 50, con bibliografia precedente) e da contesti tombali dell’Orientalizzante
antico (Palmieri, 2001; cfr. Bonghi Jovino, 2009) testimonierebbero
parallelamente una “fase di transizione dalla produzione in impasto bruno, cui
rimandano anche le tipologie formali, all’acquisizione della tecnologia del
bucchero” (Palmieri, 2009: 183, con riferimento a Palmieri, 2001 e valorizzazione
dei materiali dal tumulo 1 del Caiolo a San Giuliano). Nel passaggio dall’impasto al
bucchero si vedono indizi di sviluppi progressivi anche se non sempre lineari nella
definizione di forme, tecniche di lavorazione e cottura, spessore, colore e

963
trattamento delle superfici che portano al riconoscimento di una c.d. fase
sperimentale - supportato dalle analisi archeometriche comparate di impasti coevi
ai primi buccheri - attuata all’interno delle botteghe che producono impasti bruni
a partire dall’ultimo quarto dell’VIII secolo (un bilancio critico con bibliografia
aggiornata in Bonghi Jovino, 2009).

Il rapporto tra l’impasto bruno più evoluto degli ultimi decenni dell’VIII secolo e
dei primi decenni del VII e l’inizio della produzione in bucchero non
comporterebbe necessariamente però il riconoscimento di “una continuità nella
produzione e una precocità tarquiniese, rispetto alle attestazioni ceretane, vulcenti
e veienti, nella elaborazione e selezione del repertorio morfologico canonico della
classe. Questione estremamente complessa che può avvalersi al momento di un
insieme di dati suscettibili di letture non univoche, che consigliano una posizione
problematica, aperta al contributo di future acquisizioni”: si tratta di una posizione
equilibrata che tuttavia continua a far preferire l’ipotesi di legare le prime
esperienze tarquiniesi all’attività di botteghe ceretane (Palmieri, 2009: 185; da
ultimo, con ulteriori considerazioni, Palmieri, 2010).

D’altro canto è stata considerata verosimile nella prima metà del VII secolo una
compartecipazione agli esordi della classe anche di Veio, accanto all’indiscusso
ruolo di Cerveteri (Sciacca, 2003: 182).

E’ evidente come alla base della questione vada posta la necessità di una precisa
definizione della classe, senza la quale il dato cronologico perde il proprio valore
assoluto. In altre parole andrebbero tenuti distinti i prodotti riferibili alla “fase
sperimentale” da quelli che presentano in forma compiuta le caratteristiche che
vengono riconosciute unanimemente come peculiarità assolute del bucchero.

Per quanto riguarda il primo aspetto non si può negare come proprio la storia
dell’origine della classe, che non può prescindere dalla valutazione degli
antecedenti in impasto bruno, differenziati come è naturale da centro a centro,
renda difficoltosa tale operazione, portando a risultati che rischiano di essere
ambigui e non oggettivi.

A tal proposito va sottolineato come premessa che impasti bruni sottili e buccheri
convivono a lungo sia a Veio che a Cerveteri e Tarquinia presentando spesso, in

964
particolare nei decenni centrali del VII secolo, caratteri comuni (depurazione
dell’argilla, sottigliezza delle pareti, superfici nere lucenti, in taluni casi di buccheri
con difetti di cottura colore non uniforme in sezione). Poiché molti di questi
caratteri compaiono già negli impasti bruni dell’ultimo quarto dell’VIII secolo, fin
da questo periodo molto depurati, senza che sia possibile riconoscerne uno
sviluppo lineare e continuo, è assai difficile isolare precise testimonianze di
rapporti di derivazione del bucchero da singole produzioni in impasto.

D’altro canto, se si riconosce il cd. bucchero tarquiniese come attestazione del più
antico bucchero locale, anche una definizione univoca dei caratteri del bucchero
attribuibili al momento in cui è definitivamente compiuta la fase sperimentale
(operazione che dovrebbe presentare minori difficoltà) non appare possibile se a
confronto poniamo i più antichi buccheri ceretani dalla caratteristica superficie
nero lucente.

In altre parole non sembra possibile al momento né sostenere né confutare le


ipotesi relative al primato tarquiniese se non viene affrontato in modo omogeneo e
sistematico lo studio analitico della produzione ceramica sia in impasto che in
bucchero in tutti i centri coinvolti in tale problematica, essendo ancora inediti i
contesti che permettono tale analisi.

Essendo in particolare in gioco il finora indiscusso primato di Cerveteri, non è


possibile prescindere dall’esame complessivo degli impasti tardo-villanoviani e
dell’orientalizzante antico ceretano, che non può attuarsi senza l’edizione dei
recenti scavi della necropoli di Laghetto, alla cui pubblicazione sono stata
chiamata a partecipare dalla collega Maria Antonietta Rizzo, nonché di quelli dei
corredi di Cava della Pozzolana, in corso di studio da parte di Laura D’Erme.

Per quanto riguarda Veio, centro per il quale si presenta particolarmente proficuo,
come già detto, l’esame dei materiali della necropoli di Casale del Fosso, che
mostra senza soluzione di continuità il passaggio tra villanoviano e orientalizzante,
è utile sintetizzare i dati attualmente in nostro possesso per poi tentare di
impostare correttamente un’eventuale analisi comparata rispetto alle evidenze
tarquiniesi e ceretane.

965
E’ stato più volte sottolineato come nel complesso le attestazioni veienti precedenti
la metà del VII secolo non siano numericamente rilevanti (cfr. Boitani, 1983: 545;
De Santis, 1997: 114, nota 66; Marchetti, 2004: 17, nota 3) e si è ancora in attesa di
uno studio complessivo e sistematico che ne tratteggi in modo compiuto origini,
sviluppo e rapporto con le produzioni di impasto bruno, nonché - per le forme -
con le altre produzioni di vasellame sia ceramico (impasto rosso e argilla depurata
con decorazione dipinta) che metallico. Tra i contesti veienti editi e inediti di tale
orizzonte cronologico sono compresi quelli, già elencati nei contributi su citati, di
Monte Michele, tomba 5 (Boitani, 1982; Boitani, 1983; Boitani, 2001) e tomba C
(Cristofani, 1969: 25, Fig. 7, 8), Vaccareccia, tombe X e XXIII (Palm, 1952: 66, tav.
XXI, 8; 72, tav. XXXI, 1-3), Picazzano, tomba XVIII (Palm, 1952: 58, tav. VI, 4-6),
Casalaccio, tomba III (Vighi, 1935: tav I, 3), Macchia della Comunità, tombe III, VI
(Adriani, 1930: 50, 52, tav. I, 1), 13, 35, 44, 62, 64, 71 (materiali inediti, cfr.
Boitani, 1983: 545, nota 27), Riserva del Bagno, tomba II, III, V (materiali inediti),
Casale del Fosso, tombe 864 e 867 (materiali inediti per cui vedi infra).

Sulla base del materiale finora edito, in letteratura la produzione più antica del
bucchero veiente è fatta risalire al secondo quarto del VII secolo. I primi esempi
sarebbero infatti costituiti dal notevole gruppo di raffinati vasi in bucchero nero
dalle pareti sottilissime, con decorazione a linee impresse a cordicella e ventaglietti
puntinati aperti e semiaperti (1 kotyle, 2 kylikes, 1 kantharos, 4 tazze carenate, 4
anforette globulari, 1 kyathos, 7 calici carenati con piede a tromba senza collarino,
1 coperchio), deposti nella principesca tomba 5 di Monte Michele, assegnata a
questo orizzonte cronologico, negli anni 670-650 a.C. (Boitani, 1982; Boitani,
1983; Boitani, 2001; cfr. Marchetti, 2004: 17-18). Si è sottolineato come alcune
delle forme qui attestate riflettano gli stretti legami con la contemporanea
produzione d’impasto bruno sottile veiente e più in generale con il repertorio
derivato dalla tradizione etrusco-meridionale, falisca e laziale tra l’avanzata età del
Ferro e l’orientalizzante e siano da attribuire alla più antica produzione locale in
bucchero, come altre siano invece avvicinabili alla produzione ceretana del
secondo quarto del VII sec. a.C.

Tra i materiali inediti degli stessi decenni vanno annoverati i buccheri dalle tombe
a camera 864 e 867 di Casale del Fosso, che sembrano confermare quanto
osservato per i buccheri della tomba 5 di Monte Michele.

966
Nella tomba 864 è stata rinvenuta una sola kotyle con linea a zig-zag sotto l’orlo e
una serie di linee verticali incise sul corpo (fig. 7: 1), associata a 2 vasi d’argilla
depurata, 9 vasi e 3 fuseruole d’impasto. Del corredo della tomba 867, già nota per
l’anforetta a spirali di impasto bruno sottile iscritta con inizio di alfabetario, con
alpha coricata di tipo fenicio, studiata da Giovanni Colonna (Buranelli et alii: 82,
nota 79; Colonna, 2003; Colonna, Maras, 2006, n. 6668), si sono conservati 3 vasi
(fig. 7: 2-4), i più antichi buccheri della necropoli, associati a 19 vasi d’impasto e a
9 vasi d’argilla depurata dipinta: 1 kotyle con due ventaglietti aperti puntinati tra
le anse, cui seguono otto linee incise parallele e triangoli con vertice in alto campiti
da incisioni oblique sulla vasca, 1 anforetta con corpo baccellato con una serie di
ventaglietti aperti puntinati sul collo, tra due gruppi di tre linee incise, e 1 skyphos
con decorazione analoga, forse parte di un servizio di analoga manifattura,
prodotto probabilmente nella stessa bottega, con fitte baccellature sulla vasca e
serie di ventaglietti aperti puntinati tra due gruppi di tre linee puntinate sotto
l’orlo.

Se nei contributi finora dedicati al bucchero veiente si è affermato che la


documentazione della produzione iniziale si presenta omogenea, con pareti molto
sottili, da 1 a 3 mm., superfici lucide, frattura netta, pasta interna di colore nero,
decorazioni eseguite a incisione – linee verticali o orizzontali – o a impressione –
ventaglietti aperti o semiaperti puntinati – oppure a rilevo – baccellature sulla
vasca o il fondo nelle forme aperte - (Marchetti, 2004: 17), una ricognizione
completa dei materiali andrebbe compiuta con maggiore attenzione, anche per
confermare o individuare eventuali ulteriori importazioni ceretane (cfr. Marchetti,
2004: 18).

Uno dei dati tra gli altri da verificare con grande scrupolo è ad esempio quello
riportato da Palm a proposito dell’unico vaso di bucchero - un calice emisferico su
alto piede a tromba - della tomba X di Vaccareccia: il materiale in cui è prodotto il
calice è da Palm definito “dark brown thin bucchero” (Palm, 1952: 66). Si tratta di
un’evidenza, da sottoporre a controllo e valutare con estrema attenzione, su cui mi
riprometto di tornare dopo un’analisi autoptica comparata con altri materiali
veienti dei diversi complessi menzionati, con i buccheri tarquiniesi classificati tra i
prodotti locali a superficie bruno-marrone e con i buccheri componenti un’intero
servizio vascolare nella tomba di Cerveteri, Bufolareccia 324, caratterizzati da una

967
colorazione bruno-marrone (Duranti, 2002: 500-501, nota 41, la attribuisce a una
cottura difettosa dell’intero set), da sottoporre a confronto con il complesso della
produzione ceramica ceretana in impasto e in bucchero, tenendo conto come
sottolineato dei numerosi contesti inediti tra l’ultimo quarto dell’VIII secolo e la
metà del VII.

Analoghe verifiche meritano la coppa emisferica analoga a quella della tomba X,


ma con piede più alto, della tomba XXIII di Vaccareccia, secondo Palm in “coarse
bucchero”, la coppa affine, l’anfora a spirali e l’anforetta strigilata dalla tomba
XVIII di Picazzano, per Palm rispettivamente in “buccheroid impasto” e “brown
advanced impasto”, associati a due calici, non menzionati tra i buccheri nei
contributi citati, secondo Palm in “coarse bucchero” (Palm, 1952: 72, tav. XXXI, 3;
57-58, tav. VI, 1-2, 4-6).

Per quanto riguarda gli impasti bruni sottili più evoluti della fase Veio IIC e III A,
nulla emerge a supporto di una precoce derivazione del bucchero veiente
attraverso una fase sperimentale all’interno delle botteghe produttrici di impasti.
Una particolare attenzione meritano gli impasti del periodo immediatamente
precedente l’introduzione del bucchero, tra cui quelli di uno dei corredi di più
recente scoperta, quello della tomba dei Leoni Ruggenti datata verso il 690 a.C.
(Boitani, 2010; Boitani et alii, 2010).

Non si può andare in effetti al momento al di là della constatazione generica di un


progressivo ma non lineare perfezionamento degli impasti nella sottigliezza delle
pareti e nel trattamento e lucidatura delle superfici. Questo aspetto non riguarda
comunque tutta la produzione ma solo determinati gruppi di prodotti, con
particolare riguardo non a caso per alcuni tipi che saranno tra i principali fossili
guida dell’orientalizzante, a partire dalle anforette a spirali i cui più antichi
esemplari sono attestati nella nota sepoltura di guerriero di Veio, la tomba 871 di
Casale del Fosso (Drago, 2005), in cui erano deposte anche tazze di impasto
semidepurato bruno scuro ben lucidato all’esterno e provviste di ingubbiatura
nera interna (Saviano et alii, 2005) e, poco più tardi, alcune oinochoai fenicio-
cipriote, su cui si attende il lavoro monografico di Maria Taloni, e alcune tall
kotylai in impasto bruno sottile dalle tombe 800 e 980 della stessa necropoli,

968
inedite, identiche a quelle in bucchero della tomba del Duce di Vetulonia,
attribuite a produzione ceretana.

I rapporti con le produzioni di Cerveteri sono a partire almeno dall’ultimo quarto


dell’VIII secolo evidenti sia nell’impasto bruno, come dimostra la presenza a Veio,
Casale del Fosso, di anforette pertinenti a tipi estranei al repertorio locale, attestati
tra i materiali inediti dagli scavi di M. A. Rizzo nella necropoli ceretana di
Laghetto, più tardi - come già messo in evidenza - anche per il bucchero, dato che
non contrasta con l’inizio di una precoce produzione locale attestata da una parte
degli esemplari della tomba 5 di Monte Michele, riconducibili a tipi affermati già
nell’impasto locale, affini a prodotti falisci e laziali.

Questi dati - da un lato un’accertata produzione locale legata a tipi di impasti già
attestati in loco nelle fasi precedenti i primi buccheri, dall’altro uno stretto
rapporto con le produzioni particolarmente raffinate di Cerveteri - sembrano
supportare l’ipotesi già avanzata di una compartecipazione di Veio alle prime
esperienze maturate a Cerveteri, di cui al momento non sembra possibile smentire
il primato nella realizzazione del primo bucchero.

Come ulteriore supporto alla ricerca del ruolo di Veio negli esordi della classe si
ritiene utile approfondire in parallelo il confronto tra le analisi archeometriche
degli impasti e dei buccheri tanto a Cerveteri quanto a Veio, dove gli studi
effettuati sul bucchero da corredi funerari veienti, non in contrasto con le anali
effettuate su ceramiche dall’abitato e, come è noto, da altri centri dell’Etruria
meridionale, mostrano che non esiste nessuna differenza nella composizione
mineralogica tra interno ed esterno dei campioni analizzati e che oltre ai minerali
in buona parte presenti in altri campioni ceramici di altre classi, soprattutto
quarzo e silicati, si evidenzia la presenza di mica muscovite e una minore quantità
di calcio, una piccola percentuale di materiale organico fossile, ovvero carbone, e -
nel bucchero grigio - una certa abbondanza di ferro (Saviano et alii, 2007, con
bibliografia precedente; Ambrosini et alii, 2009, con altri riferimenti bibliografici;
Bonghi, 2009, con bibliografia per Tarquinia e Cerveteri).

969
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Fig. 1. Carta dell’Etruria meridionale e del Lazio con localizzazione dei siti menzionati nel
testo (da Colonna, Maras, 2006: 4, Fig. 1)

Fig. 2. Veio, Campetti, scavi Boitani 2003-2009. 1. pianta della I età del Ferro
(deposizione, capanna e complesso produttivo); 2. tipologia delle fornaci rinvenute nel
saggio (da Boitani et alii, 2009: 38, Figg. 3-4).

975
Fig. 3. Veio, Grotta Gramiccia, tomba 581 con brocca locale d’impasto dipinto e skyphos
d’argilla dipinta d’importazione euboica (da Berardinetti, Drago, 1997: 54, Fig. 21).

976
Fig. 4. Veio, Grotta Gramiccia, tomba 780 con brocca locale d’impasto dipinto (da
Berardinetti, Drago, 1997: 55, Fig. 22).

977
Fig. 5. 1. Olla ossuario ed elmo d’impasto, da Veio, Casale del Fosso, tomba 1094 (da
Drago Troccoli, 2009: 241, Fig. 7); 2. Brocca d’impasto, da Veio, Quattro Fontanili,
quadrato F 16 (da NSc 1963: 93, Fig. 7a, rielaborata da Sergio Barberini); 3. Skyphos
euboico a semicerchi pendenti, da Veio, Quattro Fontanili, quadrato F 13 (da Bartoloni et
alii, 2000: 527, Fig. 357); 4. Vaso a fiasco d’impasto, da Osteria dell’Osa, tomba 484 (da
Bietti Sestieri, 1992: tav. 20, 16a); 5. Vaso a fiasco d’impasto iscritto, da Osteria dell’Osa,
tomba 482 (da Bietti Sestieri, 1992: tav. 20, 16a var I); 6. Vaso a fiasco d’impasto, da
Osteria dell’Osa, tomba 185 (da Bietti Sestieri, 1992: tav. 20, 16a var III ); 7. Vaso a fiasco
d’impasto, da Osteria dell’Osa, tomba 452 (da Bietti Sestieri 1992: tav. 20, 16b); 8. Vaso
biansato d’impasto, da Anzio (da Gierow, 1966: 158, Fig. 41, 3) (1. 1:8; 2-8. 1:4).

978
Fig. 6. Sarcofago d’impasto rosso da Roma, Quirinale, tomba II (da Colonna, 1988: 420,
Fig. 366, senza scala).

Fig. 7. Buccheri da Veio, Casale del Fosso, tombe 864 e 867: 1. Kotyle dalla tomba 864; 2-
4. Kotyle , anforetta e skyphos dalla tomba 867 (1:2).

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