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Franz Kafka

58 Racconti
INDICE
La via verso casa
I due frettolosi
Il passeggero
Gran chiasso
L'infelicità dello scapolo
L'improvvisa passeggiata
Propositi
La trasformazione
Davanti alla legge
Il maestro di scuola
Uno studente ambizioso
Blumfeld
Un sogno
In loggione
Un fretricidio
Il ponte
A cavallo di un secchio
Sciacalli e arabi
Ieri una perdita dei sensibilità
Avrei dovuto
Un messaggio imperiale
Una vecchia pagina
Estate
La mia ditta
Un incrocio
Una visita in miniera
Il più vicino villaggio
La preoccupazione del padre di famiglia
K. era un gran prestigiatore
Una normale confusione
Lampade nuove
La verità su Sancho Pansa
Il silenzio delle Sirene
Ospite dei morti
Di notte
La nostra cittadina
La questione delle leggi
Coscrizione
Poseidon
Lo stemma cittadino
Il timoniere
Farsi le ossa
La prova
L'avvoltoio
La trottola
La partenza
Primo dispiacere
Difensore
nella colonia penale
Un virtuoso del digiuno
Nella nostra sinagoga
C'era una volta un gioco di pèazienza
La coppia coniugale
Un commento
Sulle similitudini
Ritorno a casa
La tana
Josefine la cantante
La via verso casa

Si consideri la forza di persuasione dell'aria dopo il temporale! Mi compaiono


davanti i miei meriti e mi sopraffanno, per quanto io neppure mi opponga.
Marcio e il mio ritmo è il ritmo di questo lato della via, di questa via, di questo
quartiere. Con ragione rispondo di tutti i pugni dati contro le porte, sui piani
dei tavoli, di tutti i brindisi, degli amanti nei loro letti, sotto le impalcature
degli edifici in costruzione, pigiati contro i muri delle case nelle viuzze buie,
sulle ottomane dei bordelli.
Valuto la mia vita passata in rapporto al mio futuro, ma trovo entrambi
perfetti, nessuno dei due è in grado di dar la precedenza e devo solo
biasimare l'ingiustizia della provvidenza, che mi favorisce tanto.
Solo quando entro in camera mia sono un po' pensieroso, ma senza che
abbia, mentre facevo le scale, trovato qualcosa che fosse degno di pensiero.
Non mi serve a molto aprire completamente la finestra né la musica che viene
ancora da un giardino. (Der Nachhauseweg, 1908)

Sguardo distratto all'esterno

Che cosa faremo in questi giorni primaverili che ora arrivano veloci? Stamani
presto il cielo era grigio, ma se si va alla finestra ci si sorprende e vi si
appoggia una gota alla maniglia.
Giù si vede la luce del sole che però già cala sul viso della fanciullina,
cammina e si guarda intorno, ed insieme si vede l'ombra dell'uomo che
subito dopo arriva più svelto.
Poi l'uomo è già passato oltre e il viso della bambina è completamente chiaro.
(Zerstreutes Hinausschaun, 1908)
I due frettolosi

Quando passeggiamo di notte per una via e un uomo che era già visibile a
distanza – infatti la via sale, davanti a noi, e la luna è piena – ci viene incontro
svelto, non per questo lo agguanteremo, anche se è misero e cencioso,
anche se dietro di lui qualcuno si affretta e urla, ma lo lasceremo correre
oltre.
Infatti è notte e non dipende da noi che la via ci salga davanti illuminata in
pieno dalla luna, inoltre forse questi due hanno organizzato l'inseguimento
per divertirsi, forse entrambi inseguono un terzo, forse il primo viene
inseguito senza colpa, forse il secondo vuole uccidere e noi diverremmo
complici dell'assassinio, forse i due non sanno niente l'uno dell'altro e
ognuno si affretta soltanto verso il suo letto rispondendone personalmente,
forse si tratta di sonnambuli, forse il primo è armato.
E infine, non possiamo essere stanchi, non abbiamo bevuto tanto vino?
Siamo lieti di non vedere più nemmeno il secondo. (Die Vorueberlaufenden,
1908)

Il passeggero

Mi trovo sulla piattaforma del tram elettrico, completamente incerto riguardo


alla mia posizione in questo mondo, in questa città, nella mia famiglia.
Nemmeno per caso potrei dichiarare quali diritti a qualunque proposito potrei
accampare. Neppure posso sostenere che mi trovo su questa piattaforma,
che mi reggo a quest appiglio, che mi lascio portare da questa vettura, che la
gente le ceda il passo o che cammini in silenzio o che si fermi davanti alle
vetrine. Nessuno certo me lo chiede, ma ciò non conta.
La vettura si approssima a una fermata, una fanciulla si ferma vicino ai
gradini pronta a scendere. Mi appare d'una tale evidenza, come se l'avessi
palpata. Vestita di nero, le pieghe dell'abito semi immobili, la blusa esigua dal
collo di fine merletto bianco, la mano sinistra distesa sulla parete, l'ombrello
nella mano destra sul secondo gradino più alto. Il viso è bruno, il naso dai lati
appena schiacciati termina tondo e largo. Ha molti capelli castani e una
peluria sparsa sulla tempia destra. Il minuto orecchio le aderisce bene,
eppure stando vicino io vedo tutto il dorso del padiglione destro e l'ombra
alla sua radice.
E mi chiedo: com'è che non si stupisce di sé, che tiene la bocca chiusa e non
dice alcuna cosa di questo genere? (Der Fahrgast, 1908)

Gran chiasso

In camera siedo nel quartier generale del chiasso di tutto l'appartamento. Odo
sbattere tutte le porte, a causa del loro chiasso mi sono risparmiati solo i
passi di chi s'affretta in mezzo ad esse, odo anche la chiusura dello sportello
della cucina economica. Il babbo apre di colpo le porte di camera mia e passa
con la vestaglia che gli si trascina dietro, nella stanza accanto viene raschiata
via dalla stufa la cenere, Valli chiede dall'anticamera, gridando ogni parola, se
il cappello del babbo è già stato pulito, un sibilo, che mi vuol essere amico,
eleva anche l'urlo d'una voce che risponde. La maniglia della porta
dell'appartamento viene azionata e fa un rumore come di scatarramento,
s'apre quindi con il canto d'una voce di donna, infine si chiude con un cupo
maschile scossone che suona irriguardosissimo. Il babbo è uscito, ora inizia
più tenero, più incerto, più disperato, il chiasso delle voci dei due canarini.
Già da un pezzo pensavo, e coi canarini mi ritorna in mente, se non dovessi
aprire uno spiraglino della porta, strisciare nella stanza accanto a mo' di
serpe e in tal modo dal suolo domandar requie alle mie sorelle e alla loro
servetta.
(Grosser Laerm, 1912)
L'infelicità dello scapolo

Pare davvero un male restare scapolo, chiedere come un vecchio, a costo di


rimetterci in dignità, di essere accolto, quando si vuol trascorrere una serata
in compagnia, esser malato e dall'angolo in cui ci si trova a letto per
settimane guardare la stanza vuota, congedarsi sempre davanti al portone,
mai salir le scale accanto alla propria moglie, avere in camera solo porte che
danno in appartamenti estranei, portarsi la cena a casa in mano, dover
meravigliarsi di bambini estranei e non poter continuare a rispondere “io non
ne ho”, formarsi un aspetto e una condotta sulla scorta dei ricordi giovanili di
uno o due scapoli.
E sarà così che si rimarrà veramente, oggi e pure più avanti, con un corpo e
una vera testa, dunque anche una fronte, a colpirla con una mano. (Das
Ungluech des Junggesellen, 1913)

L'improvvisa passeggiata

Se ci sembra di aver deciso in modo definitivo, a sera, di restare in casa, se


indossata la vestaglia si siede dopo cena alla tavola illuminata e si è fatto
tutto quello, lavoro e giochi, al cui termine in linea di massima si va a
dormire, se fuori fa un tempo non buono che rende ovvio restare a casa, se,
ora, ci si è trattenuti già così a lungo, buoni buoni, alla tavola, che andarsene
fuori provocherebbe generale stupore, se, diciamo, le scale di casa sono al
buio e il portone è sprangato, e se nonostante tutto questo ci si alza
improvvisamente a disagio, si cambia di abito, subito comparendo vestiti per
uscire, si spiega di dover andare, lo si fa dopo un breve saluto, ahinoi tanto
veloci nel chiudere la porta di casa da credere di essersi lasciati alle spalle
più o meno irritazione, se ci si ritrova in strada con le membra che
rispondono con gran mobilità all'inattesa liberazione che si è procurata loro,
se con quest'unica decisione si sente ogni decisionalità assemblata in noi, se
si riconosce con chiarezza maggiore del solito che in altri termini si ha più
forza del necessario per raggiungere con facilità il più veloce cambiamento, e
per sopportarlo, e se si fanno alla svelta le lunghe vie – per stasera s'è allora
del tutto fuoriusciti dalla propria famiglia, che devia nell' inesistenza, mentre
con gran saldezza, nera davanti la sagoma, dietro battendosi le cosce, ci si
eleva alla propria vera forma.
Tutto si rafforza se si va a trovare a quest'ora un amico, a vedere come sta.
(Der ploetzlich Spaziergang, 1913)

Propositi

Il sollevarsi da uno stato di abbattimento deve, per quanto volutamente


energico, aver levità. Mi schiodo dalla sedia, giro attorno al tavolo, muovo
testa e collo, metto gli occhi a fuoco, inarco i muscoli che li circondano. Mi
oppongo a ogni sentimento, saluto A bruscamente, ora che verrà, tollero con
gentilezza B nella mia stanza, con C riferisco, con lunghi passaggi, a me tutto
quel che viene detto, nonostante dolore e pena.
Tuttavia anche in questo modo tutto, il facile e il difficile, con tutte le
immancabili pecche, ristagnerà, e io sarò costretto a girare a vuoto.
Per cui il miglior consiglio rimane quello di accettare tutto, di comportarsi
come materia greve e, anche sentendosi soffiati via, non farsi sedurre a
nessun passo non necessario, guardar l'altro con sguardo da animale, non
sentire alcun rimorso, per farla breve mortificare di mano propria quello che
della vita ancor resta come fantasma, cioè incrementare ancora la definitiva
calma tombale e non lasciar più sussistere null'altro.
Un movimento caratteristico, in tale stato, è passare il dito mignolo sul
sopracciglio.
(Entschluesse, 1913)
La trasformazione

I
Quando Gregor Samsa si destò una mattina da sogni inquieti si trovò nel suo
giaciglio mutato in un gigantesco insetto. Giaceva sul dorso, duro a mo' di
corazza e, se sollevava un po' il capo, si vedeva la pancia a cupola, marrone e
frammentata da rigide pieghe, in cima alle quali le coperte riuscivano a stento
a rimanere. Le sue molte gambe, penosamente sottili in proporzione al resto,
gli tremolavano impotenti davanti agli occhi.
“Che cosa mi è successo?” - pensò. Non era un sogno. La sua camera, una
stanza adatta a umani, solo un po' piccola, restava quieta all'interno delle
quattro ben note pareti. Sopra il tavolo, su cui era sparsa una collezione di
modelli di stoffe – Samsa era commesso viaggiatore – c'era l'immagine che
recentemente lui aveva ritagliato da un giornale illustrato e aveva sistemato
in una cornice dorata. Rappresentava una signora che, munita di cappello e
di boa di pelliccia, sedeva eretta, e sollevava in faccia all'osservatore un
pesante manicotto di pelliccia dentro cui le era sparito l'avambraccio.
Lo sguardo di Gregor si diresse poi verso la finestra e il tempo nuvoloso – si
sentivano battere le gocce di pioggia sulla superficie della finestra – lo
immalinconì del tutto. “Che bello, se continuassi a dormire un po' e
dimenticassi tutte queste mattane”, pensò, tuttavia ciò era completamente
inattuabile, infatti lui era abituato a dormire sul lato destro, ma nel suo stato
presente non poteva mettersi in quella posizione. Per quanto si buttasse con
forza sul lato destro, rotolava sempre di nuovo sul dorso. Fece centinaia di
tentativi, chiuse gli occhi per non esser costretto a vedere le gambe che si
dimenavano, e smise quando iniziò a sentire al fianco un leggero, sordo
dolore mai provato prima.
“Oddio”, pensò, “che razza di impiego faticoso ho scelto! Oggi torno da un
viaggio, domani riparto. Gli strapazzi commerciali sono molto maggiori che
non nel proprio ufficio in città, inoltre mi viene imposta questa piaga del
viaggiare, le preoccupazioni circa le coincidenze ferroviarie, il mangiare
irregolare, cattivo, rapporti personali sempre mutevoli, mai durevoli, mai
tendenti alla cordialità. Che vada tutto all'inferno!” Sentiva un leggero prurito
in alto sulla pancia; si spostò sul dorso lentamente più vicino alla colonna del
letto per poter sollevare meglio il capo; trovò il punto dove prudeva, era
coperto di nitidi puntini bianchi che lui non seppe valutare; volle toccarlo con
una gamba, ma subito la tirò indietro, perché al contatto fu investito da brividi
freddi.
Scivolò indietro nella posizione di prima. “Questa levata prematura”,
pensò,”ti rimbecillisce. Devi avere il tuo sonno. Altri commessi viaggiatori
vivono come le donne di un harem, se per esempio nel corso della mattinata
ritorno in albergo per trasmettere le ordinazioni che ho avuto, questi signori
siedono giusto a far colazione. Dovessi provarmici con il principale, sarei
sbattuto fuori. Del resto chissà se non sarebbe un'ottima cosa, per me. Se
non mi trattenessi per via dei miei genitori, da tempo avrei dato le dimissioni,
sarei entrato dal principale e gli avrei detto dal profondo del cuore quel che
penso. Avrebbe dovuto cadere dal podio! E' anche un modo bizzarro,
starsene a sedere alla scrivania sul podio e parlare dall'alto verso il basso
all'impiegato, che inoltre, per via della durezza d'orecchio del principale, deve
farsi sotto. Ma la speranza non è del tutto abbandonata, una volta che io
abbia raggranellato i soldi per pagare il debito che i miei genitori hanno con
lui – ci vorranno ancora cinque o sei anni – questa cosa la faccio senz'altro.
Allora ecco il grande taglio. Intanto però devo alzarmi, perché il treno mi parte
alle cinque.”
Guardò la sveglia che ticchettava sul cassettone. “Dio del cielo!”- pensò.
Erano le sei e mezza, e le lancette avanzavano placide, era addirittura più
tardi, era quasi un quarto alle sette. Poteva non aver suonato, la sveglia? Dal
letto si vedeva che era stata messa giusta, alle quattro; aveva suonato di
certo. Sì, ma come seguitare a dormire placidi con la vibrazione sul mobile e
il suono? In effetti lui non aveva affatto dormito placido, ma tanto più sodo,
probabilmente. E ora che cosa doveva fare? Il prossimo treno partiva alle
sette, per andarlo a prendere avrebbe dovuto correre come un matto, la
collezione ancora non era impacchettata e lui stesso oltre a ciò non si sentiva
particolarmente in vena e agile. Anche se avesse preso il treno, una libecciata
da parte del principale era inevitabile, dato che il commesso era stato ad
aspettare al treno delle cinque e da molto aveva fatto rapporto sull'omissione.
Si trattava di una creatura del principale, di un grullo senza spina dorsale. E
ora, se lui mandava a dire che era malato? Sarebbe stato penosissimo e
vergognoso, dato che Gregor durante il suo servizio, cinque anni, mai ancora
era stato malato. Certo il principale sarebbe venuto insieme al medico della
cassa malattie, avrebbe rimproverato i genitori per via del figlio infingardo e
avrebbe tagliato via ogni obbiezione richiamandosi al medico della cassa
malattie, uno per cui essenzialmente ci sono soltanto persone sane eppur
tuttavia scansafatiche. E del resto sarebbe stato, costui, tanto nel torto, in
quel caso? In realtà Gregor si sentiva benissimo, a parte un intorpidimento
eccessivo dovuto al lungo sonno, e aveva una fame straordinariamente forte.
Intanto che rifletteva con la massima fretta su tutto ciò senza potersi decidere
a lasciare il giaciglio – la sveglia stava segnando le sette meno un quarto –
bussarono alla porta vicina al capo del letto. “Gregor”, si sentì dire ad alta
voce – era la mamma - “sono le sette meno un quarto. Hai deciso di non
partire?” Che voce mansueta! Gregor inorridì, sentendo la sua, di voce, che
rispondeva, inconfondibilmente la sua, in cui però, come da sotto, si
mischiava un pigolio non troppo frenato, dolente, che di fatto lasciava alle
parole il loro significato solo sul primo momento, per poi distruggerlo al
punto che non si sapeva se s'era udito bene. Gregor aveva intenzione di
rispondere in modo dettagliato e di spiegare ogni cosa, ma si limitò, date le
circostanze, a dire: “Sì sì, grazie mamma, sto alzandomi.” A causa del legno
della porta il cambiamento di voce di Gregor all'esterno restò inavvertito, e
infatti la mamma, a quella spiegazione, si tranquillizzò e ciabattò via di lì.
Tuttavia a causa del breve scambio di parole gli altri membri della famiglia
furono resi avvertiti che Gregor inaspettatamente era ancora a casa, e il
babbo di già era a bussare alla porta laterale, pianino, ma con il pugno.
“Gregor, Gregor”, disse ad alta voce, “ma che c'è?” E dopo una breve pausa,
esortante, con voce più profonda: “Gregor! Gregor!”. All'altra porta laterale
però la sorella gemette piano: “Gregor? Non stai bene? Hai bisogno di
qualcosa?” Rivolto a entrambi Gregor rispose: “Son già pronto”, e si
adoperò, per mezzo di accenti accurati e interpolazioni di lunghe pause tra le
singole parole, a togliere ogni stranezza alla sua voce. Il babbo tornò alla sua
colazione, ma la sorella mormorò: “Gregor smettila, ti scongiuro”. Gregor
tuttavia non ci pensò nemmeno a smettere, mentre invece lodò la cautela,
presa dall'abitudine ai viaggi, di chiudere a chiave tutte le porte anche a casa,
di notte.
Per cominciare aveva intenzione di alzarsi tranquillo e indisturbato, di vestirsi
e soprattutto di far colazione, e dopo di pensare subito al resto, difatti, questo
lo ebbe chiaro, a letto non sarebbe arrivato, cogitando, ad alcuna conclusione
ragionevole. Si rammentava che già diverse volte aveva sperimentato, forse a
causa del giacere in modo maldestro a letto, un qualche lieve dolore che poi
s'era evidenziato, con l'alzarsi, come mera immaginazione, ed era molto
curioso sul modo come le fantasie di quel giorno lì un po' alla volta si
sarebbero disfatte. Che il cambiamento della voce non fosse nient'altro che il
campanello d'allarme d'un sano raffreddore, malanno professionale dei
commessi viaggiatori, non ne dubitava affatto.
Buttar via le coperte fu semplicissimo; gli bastò gonfiarsi un poco e caddero
da sé. Tuttavia dopo fu difficile, specie perché lui era singolarmente largo. Gli
sarebbero servite braccia e mani per rizzarsi; ma al loro posto aveva solo le
molte gambette che ininterrottamente si muovevano nei più vari modi e che
per di più lui non riusciva a padroneggiare. In un caso volle piegarne una, e fu
la prima a stirarsi; infine gli riuscì, con quella gamba, di fare quel che voleva,
mentre tutte le altre faticavano, come fossero messe in libertà, agitatissime e
dolenti. “Basta che non resti a letto inutilmente”, si disse Gregor.
Prima cosa voleva venir via dal letto con la parte inferiore del corpo, ma
quella parte inferiore, che del resto lui ancora non aveva visto e che non
poteva raffigurarsi correttamente, si dimostrò troppo pesante da muovere;
andava talmente lenta; e quando infine, divenuto pressoché furioso,
concentrando la forza, balzò in avanti, aveva scelto la direzione sbagliata e
urtò duro contro la colonna del letto, in basso, e il dolore bruciante che sentì
gli insegnò che proprio la parte di sotto del suo corpo per il momento era la
più sensibile.
Per cui tentò di arrivare a uscir dal letto con la parte superiore del corpo, e
cautamente girò il capo verso il bordo, cosa che riuscì anche facile e,
nonostante la sua larghezza e pesantezza, infine la massa corporea seguì
lentamente il girare del capo. Quando però lui arrestò infine il capo per metà
fuori dal letto, nel vuoto, ebbe paura di avanzare oltre, perché se finiva per
lasciarsi cadere così doveva avvenire addirittura un prodigio perché il capo
subisse un urto. E a nessun costo, per l'appunto ora, lui doveva perdere
conoscenza; meglio restare a letto.
Tuttavia quando, dopo aver fatto la stessa fatica, giacque lì come prima
respirando profondamente, e rivide le sue gambette lottare, se possibile
ancor più infuriate di prima, tra loro, e non trovò alcuna possibilità di placare
e ordinare tale insubordinazione, si disse di nuovo che non era possibile
restare a letto e che la cosa più ragionevole era sacrificare tutto per
affrancarsene, se pure ne restava la minima speranza. Nel contempo non
tralasciò di ricordare di tanto in tanto che la calma e calmissima riflessione
era molto meglio della decisione disperata. Nel mentre, diresse gli occhi con
la massima attenzione verso la finestra, purtroppo c'era poca certezza e
vivacità da cogliere dalla vista della nebbia mattutina, che nascondeva
addirittura l'altro lato della strada, stretta. “Già le sette”, si disse quando la
sveglia suonò di nuovo, “già le sette e ancora una nebbia simile.” E restò per
un po' tranquillo respirando debolmente, come se forse, dalla totale quiete,
lui si aspettasse il ritorno delle condizioni reali e comprensibili.
Poi però si disse: “Prima delle sette e quarantacinque devo aver lasciato
incondizionatamente e completamente il letto. Del resto dall'ufficio a quell'ora
verrà qualcuno per chiedere di me, dato che l'ufficio si apre prima delle
sette.” E si mise ordunque a far oscillare il corpo in tutta la sua lunghezza
completamente e in modo armonico fuori dal letto. Se si lasciava cadere in tal
modo dal letto, il capo, che lui intendeva tenere attentamente sollevato, nella
caduta restava accuratamente al sicuro. Il dorso sembrava esser duro, nella
caduta sul tappeto non gli sarebbe successo niente. Il massimo pensiero
glielo dette la considerazione del gran schianto che ciò doveva fare e che
probabilmente avrebbe provocato dietro tutte le porte, se non spavento,
apprensioni. Tuttavia bisognava osare.
Quando Gregor già si sporgeva fuori dal letto per metà – il nuovo metodo più
che uno sforzo era un gioco, gli serviva sempre e soltanto di dondolare a
scatti – gli venne in mente come tutto sarebbe stato semplice se gli fossero
venuti in aiuto. Una paio di persone robuste – pensò a suo padre e alla
ragazza di servizio – sarebbero state completamente sufficienti, avrebbero
fatto scivolare le braccia sotto il suo dorso curvo, tutto lì, e lo avrebbero fatto
sgusciare in quel modo dal letto, si sarebbero chinati sorreggendone il peso
e poi avrebbero dovuto solo badare ad aver la pazienza che lui si lanciasse
sul pavimento, dove si sperava che le gambette avrebbero agito
sensatamente. Ora, a parte il fatto che le porte erano chiuse a chiave, lui
avrebbe dovuto chiedere aiuto? Nonostante l'affanno, pensando a questo
non riuscì a reprimere un sorriso.
Era già arrivato al punto di mantenere appena l'equilibrio quando dondolava
con maggior forza, e molto presto dové decidersi in modo definitivo, infatti
tra cinque minuti erano un quarto alle otto – allorché suonarono alla porta
dell'appartamento. “E' qualcuno dell'ufficio”, si disse, quasi gelato intanto
che le sue gambette ballavano tanto più svelte. Per un momento tutto restò
nella calma. “Non aprono”, si disse Gregor, in parte preda di una qualche
insensata speranza. Ma poi naturalmente la ragazza di servizio andò coi suoi
passetti alla porta e aprì. A Gregor bastò solo sentire la prima parola di saluto
del visitatore per sapere già chi fosse – l'incaricato del principale in persona.
Perché solo Gregor era condannato a prestar servizio presso una ditta in cui
per la minima omissione subito si accumulava il massimo sospetto? Erano,
tutti gl'impiegati in blocco, dei mascalzoni? Non c'era tra loro una persona
fedele e affezionata che, pur non avendo consacrato all'ufficio poche ore
mattutine, soltanto, impazziva per il rimorso e addirittura non era in grado di
lasciare il letto? Non bastava in realtà far sì che un apprendista s'informasse
– se poi era necessaria tale mania di far domande –, doveva venire
l'incaricato in persona, e con ciò a tutta l'incolpevole famiglia doveva esser
segnalato che l'investigazione di questa sospetta circostanza poteva venir
affidata soltanto all'intelligenza dell'incaricato? E più in conseguenza
dell'agitazione in cui Gregor fu gettato da tali riflessioni che non in
conseguenza d'una precisa decisione, volò con la massima energia fuori dal
letto. Ci fu una forte botta, ma non uno schianto vero e proprio. Un poco la
caduta fu attutita dal tappeto, inoltre il dorso era più elastico di quanto
Gregor avesse pensato, per cui non si trattò affatto di un rumore così
notevole. Solo con il capo non aveva usato sufficiente cautela, e l' aveva
battuta; per la rabbia e il dolore la girò e la sfregò sul tappeto.
“Là dentro è caduto qualcosa”, disse l'incaricato nella stanza accanto a
sinistra. Gregor cercò d'immaginarsi se anche all'incaricato una volta
avrebbe potuto succedere qualcosa di simile, come oggi a lui; si doveva
concederne la possibilità, in effetti. Tuttavia, come cruda risposta a tale
domanda, ora l'incaricato fece alcuni passi sicuri nella stanza accanto
facendo scricchiolare i suoi stivaletti di vernice. Dalla stanza accanto a
destra, per informare Gregor, la sorella mormorò: “Gregor, c'è l'incaricato del
principale.” “Lo so”, disse Gregor guardando davanti a sé; ma non osò alzare
la voce al punto che la sorella avrebbe potuto sentirlo.
“Gregor”, disse allora il babbo dalla stanza accanto a sinistra, “il signor
incaricato del principale è venuto a informarsi sul perché non sei partito con
il primo treno. Noi non sappiamo che cosa dobbiamo dire. D'altra parte vuol
parlare di persona con te. Per cui ti prego di aprir la porta. Lui avrà la bontà di
scusare il disordine nella stanza.” “Buon giorno, signor Samsa”, gridò nel
frattempo l'incaricato, affabilmente. “Non sta bene”, disse la mamma
all'incaricato, mentre il babbo dalla porta aggiunse: “Non sta bene, credetemi,
signor incaricato. Come avrebbe altrimenti mancato il treno? Il ragazzo in
testa non ha altro che l'ufficio. Quasi mi fa rabbia che la sera non esca mai;
ora è da otto giorni in città, ma ogni sera è stato in casa. Sta lì con noi a
tavola e legge il giornale in silenzio, o studia gli orari ferroviari. E' già uno
svago per lui, impegnarsi con il traforo. Per esempio in due o tre serate ha
intagliato una cornicetta; sarete stupito di quant'è carina; sta lì appesa nella
stanza; la vedrete subito quando Gregor apre. Del resto mi fa piacere, signor
incaricato, che siate qui; noi da soli non avremmo persuaso Gregor ad aprire
la porta; è così ostinato; certo non sta bene, ciò nonostante stamani lo ha
negato.” “Vengo subito”, disse Gregor lentamente e guardingo, senza
muoversi, per non perdere una parola della conversazione. “In altro modo,
gentile signora, neanch'io so spiegarmelo”, disse l'incaricato, “speriamo che
non sia nulla di serio. Per quanto devo dire che noi, che siamo negli affari –
purtroppo o fortunatamente, come si vuole – un leggero malanno dobbiamo
semplicemente superarlo in considerazione dell'ufficio.” “Dunque, il signor
incaricato può già venir da te?” - disse impaziente il babbo bussando di
nuovo alla porta. “No”, disse Gregor. Nella stanza accanto a sinistra cadde un
penoso silenzio, in quella a destra la sorella iniziò a singhiozzare.
Ma per quale ragione non andava nell'altra stanza? S'era alzata appena dal
letto e non aveva iniziato nemmeno a vestirsi. E per quale ragione piangeva?
Perché lui non si alzava e non faceva entrare l'incaricato, perché rischiava di
perdere il posto, e perché poi il principale avrebbe di nuovo perseguitato i
genitori con le vecchie rivendicazioni? Intanto si trattava però di
preoccupazioni inutili. Gregor era ancora lì e non pensava minimamente di
abbandonare la sua famiglia. Sul momento giaceva sul tappeto e nessuno
che avesse conosciuto la sua situazione avrebbe seriamente preteso che
lasciasse entrare l'incaricato. Però per quella modesta scortesia, cui più tardi
avrebbe trovato una scusa calzante, Gregor non poteva subito subito venir
licenziato. Gli parve che sarebbe stato assai più utile lasciarlo in pace invece
di rompergli le scatole con pianti ed esortazioni. Tuttavia era giustappunto
l'incertezza a tormentare gli altri, e a scusarne la condotta.
“Signor Samsa”, chiamò ora l'incaricato a voce più alta, “ma che succede?
Continuate a starvene barricato nella vostra stanza, a rispondere con dei sì e
dei no, a dar gravi preoccupazioni, inutili, ai vostri genitori, e a mancare – sia
detto tra parentesi – ai vostri doveri d'ufficio in modo effettivamente inaudito.
Son qui che parlo a nome dei vostri genitori e del principale e vi prego in tutta
serietà di darci un'immediata e chiara spiegazione. Sono stupefatto,
stupefatto. Vi credevo un tipo tranquillo, ragionevole, e ora all'improvviso
sembra che vogliate cominciare a fare stranezze. Il principale mi ha
accennato stamattina una possibili spiegazione della vostra mancanza –
riguardava l'incasso affidatovi di recente – ma io ci ho speso davvero la mia
parola, sul fatto che tale spiegazione non poteva entrarci. Ora però vedo qui
la vostra indescrivibile caparbietà e non ho assolutamente più voglia di
adoperarmi per voi. Per cui la vostra posizione non è la più solida. All'inizio
avevo intenzione di parlarvi di tutto quanto a quattr'occhi, ma dato che mi
fate perdere tempo senza ragione, non so perché non ne debbano essere
informati anche i vostri signori genitori. Il vostro rendimento negli ultimi
tempi, ecco, è stato assai insoddisfacente; non si tratta certo del periodo
dell'anno adatto a fare affari speciali, questo lo sappiamo; ma un periodo
dell'anno adatto a far zero affari non c'è, signor Samsa, non è dato che ci
sia.”
“Ma signor incaricato”, gridò Gregor fuori di sé, dimenticando
nell'eccitazione tutto il resto, “apro subitissimo, ora. Un leggero malessere,
un capogiro, mi hanno impedito di alzarmi. Sono ancora a letto, ma adesso
eccomi di nuovo in forma. Sto uscendo dal letto, solo un momentino di
pazienza! Ancora non è che stia così a posto come credevo, ma già va
benino. Cosa non può capitare così di colpo, a uno! Ancora ieri sera stavo
benone, i miei genitori lo sanno, o meglio, già ieri sera ne ho avuto un piccolo
presagio. Si sarebbe dovuto vedermi. Per quale motivo non l'ho segnalato in
ufficio? Perché si pensa sempre che si supererà il malanno senza bisogno di
restare a casa. Signor incaricato! Risparmiate i miei genitori! Tutti i rimproveri
che voi ora mi fate non hanno nessunissimo fondamento; nulla me ne è stato
detto. Forse non avete letto l'ultimo messaggio che ho mandato. Comunque
posso partire con il treno delle otto, questo paio d'ore di riposo mi ha
rinfrancato. Non vi trattenete però, signor incaricato, sono subito in ufficio, e
abbiate la bontà di dirlo al signor principale e di porgergli i miei rispetti!”
Mentre Gregor sparava in fretta tutto ciò, sapendo appena quel che diceva,
leggermente si era avvicinato, con la pratica fatta prima sul letto, al
cassettone, e ora tentava di issarvisi. Di fatto voleva aprire la porta, di fatto
farsi vedere e parlare con l'incaricato; era bramoso di sapere ciò che gli altri,
che ora lo incalzavano tanto, avrebbero detto del suo aspetto. Si sarebbero
spaventati? Gregor allora di responsabilità non ne avrebbe avuta più e
avrebbe potuto star tranquillo. Avrebbero accolto tutto con calma? Allora lui
non aveva motivo di agitarsi e poteva, affrettandosi, essere di fatto in
stazione alle otto. All'inizio scivolò diverse volte dal cassettone, liscio, però
finalmente fece un balzo definitivo e ci restò issato; ai dolori nella parte
inferiore della pancia non ci fece più nemmeno caso, per quanto fossero
brucianti. Poi si abbandonò addosso alla spalliera d'una vicina sedia ai cui
bordi si strinse con le sue gambette. In tal modo però aveva raggiunto anche
il dominio su di sé e ammutolì, dal momento che ora poteva udire
l'incaricato.”
“Han capito una sola parola?” - chiese l'incaricato ai genitori, “ma non è che
ci sta prendendo per il bavero?” “Bontà divina”, gridò la mamma piangendo
di già, “forse è gravemente malato, e noi lo tormentiamo. Grete! Grete!”, urlò
a quel punto. “Mamma!” - grido la sorella dall'altra parte. Comunicavano
attraverso la stanza di Gregor. “Devi andare subito dal medico. Gregor è
malato. Svelta, dal dottore. Hai sentito come parla?” “Era una voce
animalesca”, disse l'incaricato, decisamente piano, a confronto con l'urlo
della mamma. “Anna! Anna!”- gridò il babbo in anticamera verso la cucina
battendo le mani, “subito a chiamare un fabbro!” E già ecco le due ragazze
transitare in anticamera nel fruscio dei loro abiti – come aveva fatto la sorella
a vestirsi così alla svelta? - e spalancare la porta di casa. Non la si sentì
sbattere, l'avevano lasciata aperta, come si usa nelle abitazioni in cui è
accaduta una gran disgrazia.
Gregor invece era molto più calmo. Le sue parole dunque non si
comprendevano certamente più, ciò nonostante gli erano apparse abbastanza
chiare, più chiare di prima, forse a causa dell'abitudine dell'orecchio.
Comunque si era capito che qualcosa non andava, e ci si preparava a dargli
aiuto. La convinzione e la sicurezza con cui s'erano presi i primi
provvedimenti furono per lui un toccasana. Si sentiva di nuovo incluso nella
cerchia degli umani e sperava da entrambi, dal fabbro e dal medico, senza
distinguerli bene, risultati rapidi e consistenti. Allo scopo di acquisire una
voce il più possibile chiara in vista degli scambi verbali imminenti e decisivi,
scatarrò un poco cercando del resto di farlo con moderazione, data la
possibilità che anche quel rumore avesse un suono diverso dall'umano
tossire, cosa che lui stesso non osava più stabilire. Forse i genitori sedevano
insieme all'incaricato al tavolo e parlottavano, forse erano tutti appoggiati alla
porta e origliavano.
Gregor lentamente insieme alla sedia scivolò verso la porta, si liberò della
sedia, si gettò contro la porta, vi si fermò ritto – i polpacci delle sue gambette
erano un po' adesivi – e si riposò un momento dallo sforzo fatto. Poi però si
mise a far girare con la bocca la chiave nella serratura. Pareva purtroppo che
non avesse proprio i denti – come fare ad afferrare la chiave? - tuttavia
mordeva senza dubbio molto forte, e con il morso mosse in effetti la chiave e
non badò al fatto che si faceva senza dubbio un po' male, infatti un qualcosa
di marrone gli colò dalla bocca sulla chiave e gocciolò sul pavimento.
“Ascoltino”, disse l'incaricato nella stanza accanto, “gira la chiave”. Cosa
che per Gregor fu molto incoraggiante, ma avrebbero dovuto acclamarlo tutti,
anche il babbo e la mamma, “forza, Gregor”, avrebbero dovuto gridare,
“dagli, dagli, alla serratura!” E immaginandosi che tutti seguissero i suoi
sforzi con passione si accanì sulla chiave con tutto quel che poteva metterci,
in fatto di forza. Secondo il procedere del movimento della chiave lui ballava
intorno alla serratura; si reggeva ritto ora solo con la bocca, e secondo
l'esigenza si appendeva alla chiave o la premeva di nuovo verso il basso
caricandovi tutto il peso del suo corpo. Il rumore più netto della chiave
finalmente scattata davvero svegliò Gregor, che si disse respirando di
sollievo: “Ebbene, non ho avuto bisogno del fabbro”, e mise il capo sulla
maniglia per aprire del tutto la porta.
Avendo dovuto aprirla in quel modo, la porta era già aperta e lui, invece, era
ancora invisibile. Doveva pian piano passare attorno ad uno dei battenti, anzi
con gran cautela, se voleva evitar di cadere goffamente sul dorso proprio
entrando nella stanza. Ancora occupato con quel difficile movimento, non
fece in tempo a far attenzione al resto, e allora udì l'incaricato emettere con
forza un “Oh!” che parve un refolo di vento, e vide inoltre che lui, quello più
vicino alla porta, si premeva una mano sulla bocca e pian piano
indietreggiava, quasi lo sospingesse un'invisibile forza, costante nella sua
azione. La mamma, che, nonostante la presenza dell'incaricato, stava lì con i
capelli ancor sciolti e scomposti dalla notte, prima a mani giunte guardò il
babbo, poi fece due passi verso Gregor mentre le si abbassava,
allargandolesi attorno, la vestaglia, il viso completamente affondato, perduto,
nel petto. Il babbo strinse i pugni con espressione ostile, quasi volesse
ricacciare Gregor nella sua stanza, quindi si guardò confuso intorno nella
stanza e poi si coprì gli occhi con le mani, e pianse al punto che il suo
possente petto sobbalzò.
Gregor non ci entrò nemmeno, nella stanza, ma da dentro si appoggiò al
battente fissato con il paletto in modo che gli si vedesse solo per metà la
pancia e, sopra, il capo piegato di lato, con cui occhieggiava gli astanti. Nel
frattempo s'era fatto assai più luminoso e chiaro, dall'altra parte della strada,
si vedeva ininterrotta una prospettiva dell'edificio antistante, grigio-nero – era
un ospedale – le cui finestre, severe, con regolarità ne interrompevano la
facciata; pioveva ancora, ma solo a goccioloni che si vedevano
singolarmente e che davvero uno alla volta precipitavano al suolo. Si
trovavano sul tavolo le numerosissime stoviglie della colazione, infatti era
quello il pasto principale della giornata, per il babbo, che lo protraeva per ore
leggendo svariati giornali. Proprio alla parete di fronte c'era appesa una
fotografia di Gregor al tempo del servizio militare che mostrava quanto a lui,
sottotenente, sciabola in mano, sorriso spensierato, si dovesse rispetto per la
sua uniforme e il suo portamento. La porta sull'anticamera era aperta e si
vedeva, dato che era aperta anche la porta d'ingresso, il pianerottolo e l'inizio
della discesa delle scale.
“Ordunque”, disse Gregor ben consapevole di essere l'unico ad aver
conservato la calma, “mi vestirò subito, rimetterò in valigia la collezione e me
ne andrò. Volete lasciarmi andare? Vedete, signor incaricato, che non sono
testardo e lavoro volentieri, viaggiare è faticoso, ma io non potrei vivere
senza. Ma dove andate, signor incaricato? In ufficio? Sì? Riferirete tutto
quanto in modo veritiero? Si può non essere a un certo momento in grado di
lavorare, ma poi accade per l'appunto che ci si rammenti del proprio
rendimento precedente e si pensi che più tardi, accantonati gl'impedimenti,
certo il lavoro sia fatto con tanta maggior diligenza e concentrazione. Io sono
obbligatissimo al signor principale, lo sapete bene, e d'altra parte mi
preoccupo dei miei genitori e di mia sorella. Sono preso in una morsa, ma mi
riprenderò. Non rendetemi le cose più difficili di quello che già sono.
Sostenetemi, in ufficio! I commessi viaggiatore non si amano, lo so.
Guadagnano un sacco di soldi e intanto fanno la bella vita, si pensa. Motivo
di riflettere meglio su tal giudizio non se ne ha proprio. Ma voi signor
incaricato, voi avete una visione più ampia sulle situazioni, rispetto agli altri
del personale, anzi migliore, detto in confidenza, dello stesso signor
principale, che nella sua qualità d'imprenditore facilmente si lascia fuorviare
nel suo giudizio sfavorevole su un impiegato. Sapete inoltre assai bene che i
commessi viaggiatori, quasi per la metà dell'anno fuori dall'ufficio, possono
divenir vittime di pettegolezzi, imprevisti e lagnanze senza motivo da cui è
loro del tutto impossibile proteggersi perché il più delle volte non ne sono
informati, e solo allorché, esausti, hanno terminato un viaggio, in sede
arrivano a patire direttamente cattive conseguenze la cui causa non è più
intellegibile. Signor incaricato, non andatevene senza avermi detto qualcosa
che mi mostri che almeno in piccola parte mi date ragione!”
L'incaricato tuttavia s'era girato via da Gregor già alle sue prime parole,
guardandolo, a bocca spalancata, solo oltre la spalla, che gli tremava, né
restando fermo, ma invece svignandosela, senza perder di vista Gregor,
verso la porta, pian piano, quasi ci fosse un divieto segreto di lasciare la
stanza. Ed eccolo in anticamera, e stando all'improvvisa mossa con cui si era
tolto dal soggiorno si sarebbe potuto credere che si fosse appena bruciato le
suole delle scarpe. In anticamera tese la destra lontano da sé verso le scale
come se lì lo aspettasse una sorta di liberazione morale.
Gregor si rese conto che non poteva permettersi in nessun caso di lasciar
andare via l'incaricato in quello stato d'animo, altrimenti la sua posizione in
ufficio sarebbe stata in pericolo estremo. I genitori non ci capivano nulla, in
anni e anni s'erano formata la convinzione che Gregor fosse impiegato in
quell'ufficio a vita e inoltre sul momento erano talmente alle prese con le
preoccupazioni presenti che avevano perduto qualsiasi capacità di
previsione. L'incaricato doveva esser fermato, tranquillizzato, persuaso e
infine guadagnato alla causa; ne dipendeva il futuro di Gregor e dei suoi! Ci
fosse stata la sorella, lì! Era intelligente, aveva già pianto quando Gregor
ancora stava tranquillamente disteso sul dorso. E certo l'incaricato, quel
donnaiolo, si sarebbe lasciato richiamare da lei, che avrebbe chiuso la porta
dell'appartamento e lo avrebbe distolto dallo spavento e riportato in
soggiorno. Tuttavia la sorella lì non c'era, doveva occuparsene Gregor
stesso. E senza pensare che ancora ignorava del tutto le sue presenti
capacità di movimento, senza pensare inoltre che le sue parole forse, anzi
con probabilità, non erano state, di nuovo, capite, mollò il battente, uscì fuori
dalla porta intenzionato ad andare dall'incaricato che, in modo ridicolo, si
teneva stretto a due mani alla balaustra del pianerottolo, ma subito con un
gridolino Gregor cadde sulle sue molte gambette e cercò di fermarsi. Ciò
appena accaduto, per la prima volta lui quella mattina sentì un benessere
fisico; le gambette avevano sotto di sé solido terreno, rispondevano
completamente, come lui si accorse con gioia, tendevano addirittura a
portarlo dove lui voleva; e già credeva di avere davanti la guarigione
definitiva, rispetto a tutti i suoi guai. Nello stesso momento, però, in cui,
dondolando a causa del movimento ritmico, lui fu, non molto lontano da sua
madre, proprio di fronte a lei sul pavimento, quella, che pure sembrava tanto
immersa in se stessa, fece un salto improvviso, le braccia tese in avanti, le
dita divaricate, gridando:” Aiuto, per carità di Dio, aiuto!” - con la testa china,
quasi volesse vedere meglio Gregor, eppure, contraddittoriamente,
indietreggiando insensata. Aveva dimenticato di avere dietro di sé la tavola
apparecchiata, svelta vi si sedette, quando vi fu arrivata, distrattamente sopra
e parve non accorgersi del fatto che, dal grosso bricco rovesciatosi vicino a
lei, il caffè si versasse a fiotti sul tappeto.
“Mamma, mamma”, disse Gregor a bassa voce guardandola. L'incaricato gli
era sul momento uscito del tutto di mente, al contrario lui non poté impedirsi
di muovere a vuoto diverse volte le mascelle, alla vista del caffè che scorreva.
Al che la mamma urlò di nuovo, scappò dal tavolo e cadde tra le braccia del
babbo, che accorreva. Ora però Gregor di tempo per i genitori non ne aveva
proprio, l'incaricato era già per le scale, appoggiando alla balaustra il mento
stava ancora a guardare per l'ultima volta indietro. Gregor prese lo slancio
per andarlo a prendere con il massimo di certezza possibile, l'incaricato
dovette indovinar qualcosa, infatti fece un balzo di svariati gradini e
scomparve, però gridando un “Uuh!” che risuonò nell'intero vano delle scale.
Sfortunatamente, ora, la fuga dell'incaricato sembrò mettere del tutto in
confusione il babbo, fin lì relativamente composto, infatti, invece di rincorrere
l'incaricato o almeno di non impedire a Gregor di inseguirlo, afferrò con la
destra il bastone che quello aveva lasciato su una sedia insieme al cappello e
al soprabito, prese con la sinistra dal tavolo un grosso giornale e si mise, a
passi pesanti, a ricacciare Gregor nella sua stanza agitando il bastone e il
giornale. Non ci fu preghiera di Gregor che servisse, che inoltre venisse
capita, hai voglia ad assumere pose umili, il babbo non faceva che battere i
piedi con più forza. Intanto la mamma, nonostante il freddo all'esterno, aveva
spalancato una finestra e, sportasi fuori, cacciò il viso tra le mani. Tra la via e
il vano delle scale si formò una gran corrente d'aria, le tende della finestre
svolazzarono, sul tavolo i giornali frusciarono, e singoli fogli volarono sul
pavimento. Implacabile il babbo, come un bruto, si faceva sotto e cacciava
fischi sibilanti. Gregor, diciamo, non aveva alcuna pratica di marcia indietro, e
la faccenda andava davvero per le lunghe. Se solo lui avesse potuto girarsi,
sarebbe stato subito in camera sua, ma aveva timore di spazientire il babbo,
con la macchinosa manovra, e in ogni momento era minacciato, dal bastone
che il babbo teneva in mano, di un colpo mortale sul dorso o sul capo. Da
ultimo però non gli restò altro da fare, infatti con terrore notò che
muovendosi all'indietro non riusciva nemmeno a mantenere la direzione
giusta, e allora iniziò, tra occhiate laterali d'inaudita angoscia verso il babbo,
a voltarsi, in realtà pian piano, eppur tuttavia in fretta quanto poteva. Forse il
babbo notò la sua buona volontà, difatti non lo disturbò nella manovra, ma
addirittura diresse qua e là il movimento rotatorio a distanza, con la punta del
bastone. Se soltanto fosse finito l'insopportabile fischio sibilante del babbo!
Faceva uscir Gregor di senno. S'era quasi girato tutto, quando, sempre alle
prese con quel fischio, sbagliò e arretrò di un pezzetto. Quando per fortuna,
infine, lui fu con il capo davanti alla porta aperta si manifestò il fatto che il
suo corpo era troppo largo per passarci. Al babbo non venne in mente,
com'era naturale nella presente situazione, di aprire il secondo battente della
porta per far posto sufficiente a Gregor. Sua idea fissa era solo che lui
dovesse andare nella sua stanza più alla svelta possibile. Mai li avrebbe
concessi, i noiosi preparativi di cui Gregor aveva bisogno per issarsi e forse,
in tal modo, passare dalla porta. Invece lo spinse in avanti, quasi non ci fosse
alcun impedimento, facendo un gran chiasso che, dietro Gregor, non faceva
nemmeno più l'effetto della voce d'un padre soltanto, a quel punto davvero
non era più uno scherzo, e Gregor s'infilò – costi quel che costi – nella porta.
Un lato del suo corpo si sollevò, lui si mise obliquamente nello spazio aperto,
un fianco gli fu completamente scorticato, sul bianco della porta restarono
macchie disgustose, presto si arrestò e da solo non avrebbe potuto più
muoversi, le gambette da una parte penzolavano tremanti in aria, dall'altra
erano pigiate dolorosamente al suolo – allora il babbo da dietro gli dette un
colpo in quel momento davvero liberatorio e lui volò ben all'interno della sua
stanza sanguinando copiosamente. La porta venne chiusa dal bastone e
finalmente fu la quiete.

II
Si svegliò solo al crepuscolo dal suo sonno somigliante a uno svenimento. Si
sarebbe certo svegliato non molto più tardi, senza disturbo, infatti sentiva di
aver abbastanza riposato e di aver dormito, però gli pareva come se lo
avesse svegliato un fuggevole passo e un cauto chiudersi della porta del
soggiorno. Il riflesso dell'illuminazione stradale elettrica, qua e là, pallido
permaneva sul soffitto della stanza e sulla parte alta dei mobili, ma giù vicino
a Gregor era buio. Pian piano si spostò, ancora maldestramente cercando,
con le antenne che solo ora imparava a valutare, la porta, per andare a vedere
che cos'era successo lì. Il fianco sinistro mostrava una lunga cicatrice
spiacevolmente estesa e lui fu costretto ad arrancare, in senso stretto, sulle
sue due file di gambe. Una gambetta del resto nel corso dei fatti della mattina
era stata ferita – era un prodigio che si trattasse di una sola – ed inerte gli si
trascinava dietro.
Solo presso la porta si accorse che cosa in effetti lo avesse attirato lì, s'era
trattato dell'odore di qualcosa di commestibile. C'era infatti una ciotola piena
di latte in cui nuotavano pezzi di pane bianco. Quasi avrebbe riso di gioia,
dato che aveva ancor più fame che non la mattina, e subito tuffò il capo quasi
fino agli occhi nel latte, ma subito lo ritirò deluso; non solo gli era difficile
mangiare a causa del malagevole suo fianco sinistro – e riusciva a mangiare
solo se l'intero corpo, ansimando, collaborava; ma oltre a ciò il latte,
altrimenti sua bevanda preferita e che certo la sorella per quel motivo gli
aveva messo lì, non gli piaceva nemmeno, anzi si voltò quasi con ripugnanza
dalla ciotola e strisciò indietro nel mezzo della stanza.
Nel soggiorno, come Gregor vide dallo spiraglio della porta, era acceso il gas,
ma mentre altrimenti a quell'ora il babbo aveva l'abitudine di leggere a voce
alta il giornale del pomeriggio alla mamma, e talvolta anche alla sorella, ora
non si udiva voce. Ora, forse tale lettura di cui la sorella sempre gli
raccontava e scriveva dopo tutto negli ultimi tempi non era più in uso. Ma
anche tutt'intorno c'era tanto silenzio, e ciò nonostante l'appartamento certo
non era vuoto. “Che vita tranquilla fanno i miei, però”, si disse Gregor e
provò, intanto che guardava fisso davanti a sé nel buio, un grande orgoglio,
per aver procurato ai genitori e alla sorella una tal vita in un appartamento
tanto bello. Ma come fare, se ora ogni quiete, ogni benessere, ogni
soddisfazione, dovevano finire nell'orrore? Per non smarrirsi in simili
pensieri, Gregor preferì mettersi in movimento, e strisciò nella stanza in
lungo e in largo.
In un caso durante la lunga serata venne aperto uno spiraglino dell'una e in
un altro caso dell'altra porta laterale, e subito rapidamente richiuso; qualcuno
aveva certo l'impulso di entrare, ma anche troppe obbiezioni contro. Gregor
si fermò immediatamente presso la porta del soggiorno, risoluto ad
accogliere dentro la stanza il visitatore esitante, in qualche modo, o almeno a
capir chi fosse, ma la porta non fu più aperta e lui attese invano. Prima,
quando le porte erano chiuse a chiave, tutti volevano venir lì da lui, ora, che
lui ne aveva aperta una e che le altre, manifestamente, erano state aperte
durante il giorno, nessuno veniva più, inoltre le chiavi erano inserite
dall'esterno.
La notte tardi la luce in soggiorno venne spenta, e a quel punto fu facile
stabilire che i genitori e la sorella erano rimasti a lungo svegli, difatti come si
poté udire bene, tutti e tre si allontanarono in punta di piedi. Certo non veniva
più nessuno da Gregor fino al mattino, dunque lui aveva molto tempo per
riflettere indisturbato su come dovesse riordinare la sua vita. Tuttavia l'alta
stanza vuota in cui era ridotto a giacere, spiaccicato al suolo, lo angustiava
senza che potesse trovarne la ragione, dato che era da cinque anni la sua – e,
con un mezzo giro inconsapevole, e non senza una lieve vergogna, corse
sotto il canapè, dove, nonostante il dorso leggermente compresso e il capo
non più sollevabile, subito si sentì molto a suo agio e si dolse solo che il suo
corpo fosse troppo largo per venirvi ricoverato completamente sotto.
Ci restò per tutta la notte, che trascorse parzialmente in un assopimento da
cui lo seguitava a stanare la fame, in parte però nelle preoccupazioni e nelle
speranze indefinite che unanimi lo portavano a concludere di dover stare
calmo e rendere tollerabili ai suoi con pazienza e grandissime cautele gli
inconvenienti che lui era costretto a causar loro, per una volta, con la sua
presente situazione.
Già all'alba, era ancora quasi notte, Gregor ebbe l'occasione di sperimentare
la forza della decisione appena presa, infatti dall'anticamera la sorella, quasi
completamente vestita, aprì la porta e guardò dentro, tesa. Non lo trovò
subito, ma quando lo notò sotto il canapè – per Dio, doveva pur essere da
qualche parte, mica aveva potuto scappar via – si spaventò al punto di
richiudere la porta da fuori senza potersi dominare. Tuttavia, come se la sua
condotta le dispiacesse, riaprì subito ed entrò in punta di piedi, come se si
trovasse in presenza di un malato grave o di un estraneo. Gregor aveva
sporto fin quasi al bordo del canapè il capo e la osservava. Se ne sarebbe
accorta, che lui aveva lasciato il latte, certo nient'affatto per mancanza di
appetito, avrebbe portato qualcos'altro da mangiare che gli andasse bene?
Se lei non lo avesse fatto di suo, lui avrebbe preferito morir di fame, piuttosto
che farglielo notare, nonostante che fosse spinto in modo davvero enorme a
scattar da sotto il canapè, a gettarsi ai piedi della sorella e a chiederle
qualcosa di buono da mangiare. Lei però vide immediatamente, con stupore,
la ciotola ancora piena attorno a cui s'era versato solo un po' di latte, la tirò
su subito, certo non a mani nude, ma con uno straccio, e la portò fuori.
Curiosissimo, Gregor, di cosa avrebbe portato al posto del latte, fece diverse
ipotesi in materia. Mai però avrebbe potuto indovinare che cosa fece la
sorella nella sua bontà. Gli portò, per sperimentarne il gusto, tutto un
assortimento sparso su un giornale vecchio. C'era verdura mezza marcia,
ossi avanzati dalla cena con un sugo bianco rassegato, uva secca e
mandorle, un formaggio che Gregor due giorni prima aveva dichiarato
immangiabile, pane secco, un pezzo di pane spalmato di burro e uno salato,
spalmato di burro. Inoltre la sorella aggiunse al tutto una ciotola apposta per
Gregor, probabilmente per sempre, piena d'acqua. E per delicatezza, dato che
sapeva che Gregor non avrebbe mangiato davanti a lei, si allontanò in fretta e
girò addirittura la chiave, solo perché lui potesse rendersi conto che poteva
fare il suo comodo. Le gambette di Gregor frullarono, nell'andare al cibo. Del
resto le sue ferite dovevano esser già guarite completamente, non sentiva più
alcun impedimento, se ne stupì e pensò che più di un mese prima s'era
tagliato appena appena un dito con il coltello, e a come quella ferita ancora
due giorni prima gli avesse fatto abbastanza male. “E se ora avessi meno
sensibilità?”- pensò succhiando avido il formaggio, che subito, prima di tutto
il resto, lo aveva attirato con forza. Rapido finì uno dopo l'altro, con le lacrime
agli occhi per la gioia, il formaggio, la verdura e il sugo, mentre i cibi freschi
non gli piacquero, non riusciva nemmeno a sopportarne l'odore, e addirittura
trascinò le cose che voleva mangiare un po' più in là. Aveva già finito di
mangiare e se ne stava pigramente sul posto, quando la sorella, per
segnalargli che doveva ritirarsi, girò pian piano la chiave, ciò che lo fece
sobbalzare subito via, nonostante che quasi pisolasse, e di nuovo corse sotto
il canapè. Tuttavia gli costò un grande sforzo, per quanto lei rimanesse poco
nella stanza, restare sotto il canapè, infatti la mangiata gli aveva un po'
gonfiato la pancia e lì alle strette riusciva appena a respirare. Tra piccoli
accessi di soffocamento vide, con gli occhi un poco fuori dalle orbite, come
l'ignara sorella non raccogliesse con una scopa solo gli avanzi, ma anche le
cibarie che lui non aveva toccato, quasi che anche quelle non fossero più
utilizzabili, e come lei, in fretta, buttasse tutto quanto in un secchio e poi lo
chiudesse con un coperchio di legno col quale portò via ogni cosa. A stento
si era voltata, e Gregor già si tirava fuori da sotto il canapè, si stirava e si
abbandonava al gonfiore della pancia.
Ecco come Gregor riceveva il suo mangiare quotidiano, una volta la mattina,
quando i genitori e la ragazza di servizio dormivano ancora, la seconda volta
dopo il pranzo di tutti a mezzodì, infatti i genitori facevano un altro sonnellino
e la ragazza veniva mandata fuori dalla sorella con qualche incombenza.
Certo nemmeno loro volevano che Gregor morisse di fame, forse però non
sarebbero riusciti a sopportare, del suo mangiare, di saperne qualcosa di più
che non per sentito dire, forse la sorella voleva solo risparmiare loro un
dolore forse modesto, infatti soffrivano già abbastanza.
Con quali scuse, quella prima mattina, ci si era liberati del medico e del
fabbro, Gregor non riuscì proprio a saperlo, lui non veniva compreso,
nessuno, nemmeno la sorella, pensava che lui potesse comprendere gli altri,
così doveva accontentarsi, quando lei era nella stanza, di sentirla sospirare e
invocare i santi. Solo più avanti, quando lei ebbe fatto un po' l'abitudine al
tutto - di abitudine totale non c'era naturalmente da parlare neppure –
talvolta Gregor coglieva un'osservazione che poteva venir fatta affabilmente
o interpretata come affabile. “Oggi gli è piaciuto”, diceva, se lui aveva, da
bravo, fatto piazza pulita del cibo, mentre nel caso contrario, che un po' alla
volta si ripeteva sempre più spesso, quasi triste usava dire: “Ecco che
un'altra volta ha lasciato tutto.”
Però, mentre Gregor non riusciva a sapere alcuna novità, immediatamente,
stava attento alle stanze accanto, e non appena udiva una voce subito
correva alla porta corrispondente e vi si addossava con tutta la pancia.
Specie all'inizio non vi fu alcuna conversazione che non trattasse, anche se
solo di nascosto, di lui. Per due giorni vi furono da sentire a ogni pasto
dibattiti su come ci si dovesse comportare, ora; ma anche tra un pasto e
l'altro si parlava dello stesso argomento, infatti a casa c'erano sempre
almeno due familiari, dato che nessuno voleva restar solo a casa, e in nessun
caso si poteva abbandonare completamente l'appartamento. La ragazza di
servizio, il primo giorno – non fu del tutto chiaro cosa e quanto sapesse
dell'accaduto – aveva pregato la mamma in ginocchio di mandarla subito via,
e, congedandosi un quarto d'ora dopo, ringraziò in lacrime di esser stata
licenziata e del grandissimo bene che in quella casa le si era dimostrato e,
senza che glielo si chiedesse, fece il tremendo giuramento di non svelare
nemmeno la più piccola cosa a nessuno.
Insieme alla mamma, dunque, la sorella aveva da cucinare, del resto non era
gran fatica, dato che non si mangiava quasi nulla. Gregor continuava a udire
che l'uno incoraggiava a mangiare gli altri, a vuoto, non ricevendo altra
risposta che “grazie, basta così” e simili. Di bere nemmeno a parlarne, forse.
Spesso la sorella chiedeva al babbo se voleva della birra, offrendosi
affettuosamente di andare a prendergliela, e, se lui taceva, per togliergli ogni
obbiezione diceva che avrebbe potuto mandarci la portinaia, ma allora il
babbo chiudeva il discorso con un gran “no” e non se parlava più.
Già nel corso della prima giornata il babbo espose, tanto alla mamma, quanto
alla sorella, l'intera situazione economica e le prospettive. Di tanto in tanto si
alzava dal tavolo e, dalla sua cassetta dei titoli, che aveva conservato dopo
aver fatto fallimento nella sua attività commerciale, cinque anni prima,
estraeva un qualche documento o un qualche promemoria. Si udiva come
apriva la complessa serratura e la richiudeva, dopo aver preso quel che
cercava. Tali elucidazioni paterne furono, in parte, la prima cosa gradita che
Gregor ebbe a udire dall'inizio della sua cattività. Era dell'opinione che al
babbo, dai tempi di quella sua attività commerciale, non fosse rimasto nulla,
almeno il babbo non gli aveva detto nulla che contraddicesse tale opinione,
comunque Gregor non gliene aveva chiesto niente. Era stata premura unica
di Gregor, ai tempi, di fare ogni sforzo perché i suoi dimenticassero il più
possibile alla svelta la sfortuna economica che li aveva messi tutti in totale
disperazione. Aveva iniziato a lavorare, ai tempi, con speciale energia, e
praticamente da un giorno all'altro era diventato, da modesto impiegato che
era, un commesso viaggiatore naturalmente con tutt'altre possibilità di
guadagno, i cui successi professionali si trasformarono subito, da
provvigioni, nel denaro contante che poteva venir messo, a casa, davanti ai
familiari stupiti e felici. Erano stati bei tempi che mai, almeno con tale
brillantezza, s'erano ripetuti, per quanto Gregor poi guadagnasse tanti soldi
da sostenere potenzialmente ed effettivamentele le spese di tutti,. A ciò ci si
era in effetti abituati, tanto la famiglia quanto Gregor, si prendevano i soldi
con gratitudine, lui li dava volentieri, ma non ne risultava un particolare
calore, solo la sorella gli era rimasta vicina, il suo piano segreto era mandarla
l'anno dopo, lei che a differenza di lui amava molto la musica e riusciva a
suonare in modo toccante il violino, al conservatorio, senza curarsi delle
grandi spese che ciò avrebbe comportato e che avrebbero dovuto esser
compensate in altro modo. Spesso durante le brevi permanenze in città si
accennava, nelle conversazioni con la sorella, al conservatorio, ma sempre
come a un bel sogno alla cui realizzazione non c'era da pensare, e i genitori
tali innocenti accenni non li ascoltavano nemmeno volentieri, invece Gregor
ci pensava seriamente e si proponeva di chiarirlo con serietà la sera di
Natale.
Tali pensieri, nella situazione presente del tutto oziosi, gli passavano per la
testa mentre lì ritto si attaccava alla porta ed origliava. Talvolta per via della
sua spossatezza generale non riusciva nemmeno ad ascoltare e lasciava che
il capo vi urtasse sopra svogliato, ma subito lo teneva di nuovo saldo, infatti
anche il piccolo rumore che con ciò aveva causato era stato sentito, di là, e
aveva fatto ammutolire tutti. “Ma cos'ha da bussare, ancora”, diceva dopo un
po' il babbo evidentemente rivolto alla porta, dopodiché il discorso interrotto
veniva subito ripreso pian piano.
Gregor dunque venne a sapere a un dipresso – infatti il babbo aveva
l'abitudine di ritornare spesso sulle sue elucidazioni, in parte perché da gran
tempo con tali faccende non aveva avuto a che fare, in parte anche perché la
mamma alla prima non capiva tutto – che nonostante tutta la sfortuna era
ancora a disposizione dai vecchi tempi un per altro modesto patrimonio che
nel frattempo gli interessi non intaccati avevano fatto un poco crescere.
Inoltre i soldi che Gregor mensilmente aveva portato a casa – aveva tenuto
per sé solo pochi fiorini – non erano stati completamente utilizzati ed erano
divenuti un piccolo capitale. Gregor, dietro la porta, annuiva entusiasta, felice
di tale inattesa cautela e parsimonia. In effetti con quei soldi risparmiati lui
avrebbe potuto rimborsare il debito del babbo nei confronti del principale e il
giorno in cui avrebbe potuto liberarsi di quel posto si sarebbe avvicinato
parecchio, ma ora senza dubbio era meglio così come il babbo aveva deciso.
Ora, in ogni caso questi soldi non sarebbero nemmeno bastati a far vivere la
famiglia più o meno degli interessi, sarebbero bastati forse a mantenere la
famiglia per un anno, al massimo due, non di più. Era dunque una somma che
di fatto non si poteva toccare e che si doveva metter da parte in caso di
necessità; mentre i soldi per vivere si dovevano guadagnare. Ora, il babbo
era un uomo certo sano, ma anziano, che già da cinque anni era stato
improduttivo e che in ogni modo non poteva presumere molto di se stesso, in
quei cinque anni, le prime ferie della sua vita di fatica seppur priva di
successo, aveva messo su molto grasso ed era divenuto perciò davvero
lento. E la mamma, anziana, ora, doveva forse guadagnare soldi, lei che
soffriva d'asma, che ad attraversare l'appartamento già s'affaticava, e che
trascorreva un giorno su due sul sofà con la finestra aperta per via di fastidi
respiratori? E la sorella, che con i suoi diciassette anni era ancora una
ragazzina il cui modo di vivere, fin lì, non era poi così invidiabile, consistendo
nel vestirsi carina, dormire a lungo, aiutare nelle faccende di casa, prender
parte a pochi modesti divertimenti e, soprattutto, suonare il violino, doveva
guadagnare? Quando il discorso arrivava a tal necessità di guadagnare
Gregor abbandonava subito la porta e si gettava, ardendo di vergogna e di
dolore, sul freddo sofà di pelle che si trovava lì accanto.
Spesso ci rimaneva sopra per lunghe nottate piene, non dormiva un momento
e grattava per ore la pelle. Oppure non temeva la gran fatica di far scorrere
una sedia fino alla finestra, di strisciare sul parapetto e, puntellatosi sulla
sedia, di appoggiarsi alla finestra, evidentemente solo per commemorare in
qualche modo quel che di liberatorio, prima, era stato per lui stare a guardare
fuori. Perché di fatto giorno dopo giorno le cose anche non distanti lui le
vedeva sempre più confuse; l'ospedale di fronte, la cui sola vista, troppo
frequente, lui aveva prima maledetto, in genere non riusciva a vederlo, e se
non avesse saputo bene di vivere nella tranquilla ma pienamente cittadina
Charlottenstrasse, avrebbe potuto credere di guardare, dalla sua finestra, in
un deserto nel quale si riunivano indistinguibili l'uno dall'altro il cielo e la
terra, grigi. Alla premurosa sorella era bastato vedere due volte la sedia
vicina alla finestra per rimettercela, dopo che aveva rassettato la stanza, ogni
volta, anzi addirittura per lasciarne aperte le imposte.
Se solo Gregor avesse potuto parlarci e ringraziarla di quel che faceva per lui,
le avrebbe reso più facile il servizio, in questo modo invece ne soffriva. Lei
tentava ovviamente di celare quanto più poteva la pena del tutto, e tanto più
tempo passava tanto meglio le riusciva, ma anche lui col tempo capì ogni
cosa molto meglio. Già quando entrava, per lui era tremendo. Appena entrata,
correva senza indugio a chiudere la porta, tanto poneva attenzione a
risparmiare a chicchessia la vista della stanza di Gregor, e diretta correva alla
finestra, la spalancava, quasi che soffocasse, con mani impazienti, non senza
restarci un poco a respirare profondamente, anche se faceva freddo. Due
volte al giorno con tale corsa chiassosa terrorizzava Gregor, che per tutto il
tempo tremava sotto il canapè pur sapendo bene che lei ne avrebbe fatto a
meno, se solo le fosse stato possibile trattenersi a finestra chiusa nella
stanza in cui si trovava Gregor.
Una volta, già almeno un mese era passato dalla trasformazione di Gregor e
per lei non c'era più un motivo particolare di restare stupita nel vederlo,
venne un po' prima del solito e s'imbatté in lui che, immobile e paurosamente
ritto, guardava fuori dalla finestra. Dal momento che, con la sua posizione, le
impediva di aprir subito la finestra, per lui sarebbe stato normale che lei non
fosse entrata, ma lei non si limitò a non entrare, addirittura tornò sui suoi
passi e chiuse la porta; un estraneo avrebbe potuto pensare senz'altro che
Gregor le avesse fatto la posta e avesse voluto morderla. Naturalmente si
nascose subito sotto il canapè, ma dovette aspettare fino a mezzodì prima
che lei tornasse, e gli sembrò esser molto meno tranquilla del solito. Per cui
si rese conto che la sua vista era ancora, e tale sarebbe rimasta,
insopportabile per la sorella, e che lei doveva dominarsi davvero per non
scappare anche alla vista delle piccole parti di corpo che lui da sotto il
canapè sporgeva in fuori. Per risparmiargliene la vista una volta tolse – gli ci
vollero quattro ore – il telo dal canapè disponendolo in modo tale da esserne
tutto coperto, in modo che la sorella, anche da chinata, non potesse vederlo.
Se lei non avesse considerato quel telo necessario, avrebbe potuto certo
levarlo, difatti era abbastanza chiaro che non costituiva un passatempo di
Gregor il fatto di intabarrarsi tutto, tuttavia lei non lo toccò, e Gregor ritenne
perfino di aver colto un'occhiata di gratitudine quando una volta cautamente
con il capo sollevò un poco il telo per vedere come la sorella accoglieva quel
nuovo arrangiamento.
Durante i primi quaranta giorni i genitori non ebbero il coraggio di entrare e
spesso lui udì come essi davano pieno riconoscimento al lavoro attuale della
sorella, mentre fin lì ce l'avevano avuta con lei, che era sembrata loro una
ragazza un po' oziosa. Ora però spesso aspettavano, il babbo e la mamma,
davanti alla stanza di Gregor intanto che lei rimetteva in ordine, e non appena
era uscita doveva raccontare per filo e per segno l'aspetto della stanza, che
cosa aveva mangiato Gregor, come si era comportato stavolta e se magari si
notava un piccolo miglioramento. La mamma del resto volle fargli visita
relativamente presto, ma il babbo e la sorella la trattennero con motivi
razionali che Gregor attentamente stette a sentire e che approvò del tutto. Poi
però la si dovette trattenere con la forza, e quando gridò “lasciatemi andare
da Gregor, dal mio infelice figlio! Ma non lo capite che devo andarci?”-
Gregor pensò che forse sarebbe stato bene che lei entrasse, non ogni giorno,
è naturale, magari una volta alla settimana; la mamma capiva tutto molto
meglio della sorella, che nonostante il suo coraggio era solo una ragazzina e
in ultima analisi s'era assunta forse solo per stoltezza giovanile un compito
tanto difficile.
Il desiderio di vedere la madre presto fu esaudito. Durante il giorno Gregor
già non voleva mostrarsi alla finestra per riguardo ai suoi genitori, ma
nemmeno aveva molto da strisciare, sui pochi metri quadrati del pavimento,
già la notte sopportava male di giacere quieto, il mangiare presto non lo
svagò minimamente, per cui prese, per distrarsi, l'abitudine di strisciare in
tutte le direzioni sulle pareti e sul soffitto, al quale specialmente si attaccava
volentieri; tutt'altra cosa che giacere sul pavimento; si respirava più
liberamente, una lieve vibrazione gli attraversava il corpo e, nella quasi lieta
distrazione che lassù Gregor provava, poteva accadere che con sua sorpresa
lui si lasciasse andare e cadesse sul pavimento. Ebbene, però aveva sul
corpo tutt'altro controllo rispetto a prima, e una tale caduta non gli faceva
male. La sorella se ne accorse subito, del nuovo divertimento trovato da
Gregor – nello strisciare qua e là si lasciava dietro tracce di materia
appiccicosa – e si mise in testa di facilitargli al massimo lo strisciare
eliminando i mobili che glielo impedivano, prima di tutto scrivania e
cassettone. Ebbene, da sé non era in grado di farlo, di chiederlo al babbo non
osò, la ragazza di servizio certo non le sarebbe stata d'aiuto perché era
diciassettenne, circa, e sostituiva bene certamente la cuoca di prima, ma
aveva chiesto il favore di poter stare in cucina sempre chiusa e di esser
tenuta ad aprire soltanto in casi eccezionali, per cui alla sorella non restò,
una volta, che chiamare, assente il babbo, la mamma. Che non solo venne,
fece esclamazioni di gran gioia, a parte il fatto che ammutolì dinnanzi alla
porta della stanza di Gregor. Prima la sorella, è naturale, guardò che tutto
fosse in ordine, e solo allora fece entrare la mamma. Gregor in gran fretta
s'era drappeggiato ancor più completamente sotto il telo, in effetti il tutto
aveva l'apparenza di un telo buttato a caso sul canapè. Omise stavolta,
Gregor, di spiare da sotto il telo, rinunciò a vedere già in quell'occasione la
mamma, solo felice però che fosse venuta. “Vienì, vieni, non lo si vede”,
disse la sorella evidentemente conducendo la mamma per mano. Ebbene,
Gregor udì come le due deboli donne spostassero il pur sempre pesante
vecchio cassettone da dov'era, e come la sorella rivendicasse la parte
maggiore della fatica per sé senza ascoltare le raccomandazioni della
mamma, che aveva paura che lei si sforzasse troppo. Ce ne volle, di tempo.
Dopo tre quarti d'ora buoni la mamma disse che era meglio lasciarlo lì, il
cassettone; uno, era troppo pesante, loro non avrebbero finito prima
dell'arrivo del babbo e con il cassettone nel mezzo della stanza a Gregor ogni
via sarebbe stata sbarrata; due, non era mica sicuro che l'allontanamento dei
mobili facesse piacere a Gregor. Le sembrava il contrario, la vista della parete
vuota proprio le opprimeva il cuore; perché anche Gregor non doveva aver
tale sensazione, visto che da tanto era abituato alla mobilia, e si sarebbe
sentito abbandonato, perciò, nella stanza vuota? “Non è”, concluse a voce
bassissima, quasi sussurrando, come volesse evitare che Gregor, del quale
certo ignorava la posizione vera, udisse anche solo il suono della voce, infatti
era convinta che lui non capisse le parole, “non è come se noi con
l'allontanamento della mobilia mostrassimo di rinunciare a ogni speranza di
guarigione e lo abbandonassimo senza riguardi? Credo che il meglio sarebbe
mantenere la stanza nella condizione in cui era prima, affinché Gregor
quando torna presso di noi trovi tutto invariato e tanto più facilmente possa
dimenticare il tempo intercorso.”
Nell'udire queste parole della mamma Gregor riconobbe che la mancanza di
ogni discorso direttamente umano connesso alla continuità del vivere
famigliare, in quei due mesi, doveva aver confuso la sua intelligenza, infatti
non riuscì a spiegarsi altrimenti di aver potuto desiderare seriamente che la
sua stanza venisse svuotata. Davvero lui voleva far trasformare la sua stanza,
calda, accogliente, arredata con mobili di famiglia, in una caverna dove
avrebbe potuto strisciare indisturbato e libero in ogni direzione, eppure allo
stesso tempo, velocemente, del tutto dimentico della sua trascorsa umanità?
E lo era, prossimo a dimenticare, solo la voce da tanto non udita della
mamma lo aveva destato. Nulla si doveva allontanare, doveva restare tutto,
lui non poteva privarsi del buon effetto della mobilia sul suo stato, e se la
mobilia gli impediva di praticare l'insensato strisciare in giro non era affatto
un danno, ma un gran vantaggio.
La sorella sfortunatamente la pensava in altro modo, si era abituata, del resto
non del tutto a sproposito, nel discorrere delle cose di Gregor, a porsi nei
confronti dei genitori come esperta speciale, e così le bastò il parere della
mamma anche in questo per proseguire nell'allontanamento non solo del
cassettone e della scrivania, primi oggetti cui aveva pensato, ma anche
dell'altra mobilia, eccezion fatta per l'indispensabile canapè. Non era, com'è
naturale, soltanto l'ostinazione infantile e la sicurezza di sé da ultimo tanto
inaspettatamente cresciuta, a deciderla a tal pretesa, lei aveva fatto anche
l'osservazione che Gregor necessitava di spazio per strisciare e, al contrario,
non aveva alcun bisogno, per quanto si potesse notare, della mobilia.
Tuttavia forse contribuì la mentalità estremistica delle ragazze dell'età sua,
che in ogni occasione cerca una soddisfazione come quella ai cui fini Grete si
lasciò attirare rendendo ancor più orrifico l'ambiente di Gregor, allo scopo di
poter provvedere a lui anche di più che non fino a quel momento. Difatti in un
ambiente nel quale fosse solo Gregor a spadroneggiare sulle pareti vuote
nessuna persona, a parte Grete, avrebbe mai osato entrare.
E dunque non si fece distogliere dalle sue decisioni dalla mamma che, inoltre,
in quella stanza sembrava preda di vera inquietudine, ammutolì alla svelta e
la aiutò per quel che poteva a toglierne il cassettone. Ora, del cassettone
Gregor poteva anche fare a meno, se necessario, ma la scrivania doveva
restar lì. E non appena le donne furono fuori dalla stanza con il cassettone
cui gemendo si premevano contro, Gregor tirò fuori il capo dal canapè per
vedere quanto cautamente, e con il massimo riguardo, avrebbe potuto
intervenire. Sfortunatamente però fu proprio la mamma a tornare per prima
intanto che Grete nella stanza accanto smetteva di abbracciare il cassettone
e lo faceva solo oscillare di qua e di là, com'è naturale senza cambiargli di
posizione. La mamma non era abituata a vedere Gregor, avrebbe potuto
nuocerle, ragione per cui spaventato lui corse lateralmente all'altro capo del
canapè senza però poter impedire che il telo un poco si smuovesse sul
davanti. Bastò a che la mamma si facesse attenta. Si fermò, per un attimo
stette quieta, e poi tornò da Grete.
Nonostante che Gregor continuasse a dirsi che non stava succedendo nulla
di straordinario, che si spostavano solo un po' di mobili, agì però come se
dovesse presto ammettere che tal via vai delle due donne, i loro urletti, lo
strusciare dei mobili sul pavimento, costituiva uno sconvolgimento che da
ogni lato si approssimava su di lui, e fu costretto a dirsi con certezza, il capo
e le gambe ritirati a sé, il corpo schiacciato al suolo, che non avrebbe
sopportato a lungo tutto ciò. Gli svuotavano la stanza, gli levavano tutto quel
che aveva caro, il cassettone, in cui si trovava la sega e gli altri strumenti del
traforo, lo avevano già tolto, ora smontavano la scrivania ben fissata al
pavimento, la scrivania su cui aveva fatto i compiti da quando era alle
elementari fino all'università – e allora davvero non ebbe più tempo di
interrogarsi circa le buone intenzioni delle due donne, la cui esistenza del
resto quasi aveva dimenticato, infatti esse per la spossatezza si davano da
fare in silenzio, non se ne udivano che i movimenti pesanti dei piedi.
Ecco quindi che sbucò fuori – le due donne stavano appoggiandosi per
l'appunto alla scrivania nella stanza accanto per riprendere fiato – cambiò per
quattro volte la direzione della corsa, non sapeva davvero cosa salvare per
prima cosa, e fu allora che vide spiccare sulla parete del resto già vuota
l'immagine della signora vestita solo di pelliccia, strisciò rapido in tal
direzione e si premette sul vetro che gli aderì e gli fece bene alla pancia
accaldata. Almeno quell'immagine che ora lui copriva del tutto nessuno la
avrebbe portata via. Volse il capo verso la porta del soggiorno per tenere
sott'occhio il ritorno delle due donne.
Non si erano concesse molta tregua e già erano di ritorno; Grete aveva un
braccio attorno alla mamma e quasi la trasportava. “E ora cosa si prende?” -
disse Grete guardandosi intorno. Fu allora che il suo sguardo incrociò quello
di Gregor, sulla parete. Davvero soltanto per la presenza della mamma Grete
restò dov'era, le mise il volto davanti per impedirle di vedere e disse,
comunque tremante e precipitosa. “Su, non è meglio se torniamo un attimo in
soggiorno?” Chiara, per Gregor, l'intenzione di Grete, voleva mettere la
mamma al sicuro per poi scacciare lui dalla parete. Ora, che ci provasse! Lui
stette sulla sua immagine senza cedere, avrebbe preferito balzarle in faccia.
Le parole di Grete tuttavia erano riuscite solo ad allarmare la mamma, che
scartò di lato, vide la gran macchia marrone sulla carta da parati a fiorami, e,
prima di aver davvero coscienza che era Gregor, ciò che vedeva, gridò
arrochita “oh, Dio, oh, Dio!” cadendo a braccia allargate sul canapè, quasi
stesse abbandonando tutto, e non si mosse. “Ma Gregor!” - disse la sorella
levando il pugno e guardandolo con insistenza. Dopo la trasformazione erano
le prime parole che gli aveva rivolto direttamente. Corse nella stanza accanto
per prendere una qualche essenza che potesse risvegliare la mamma dallo
svenimento; anche Gregor volle rendersi utile – per il salvataggio
dell'immagine c'era ancora tempo - tuttavia aderiva strettamente al vetro e
dovette far forza per liberarsi, corse nella stanza accanto, quasi potesse dare
alla sorella qualche consiglio, come una volta, ma fu costretto a restarle
dietro impotente mentre lei frugava tra numerose bottigliette. Nel girarsi lei
orripilò, una bottiglia le cadde sul pavimento e si ruppe, una scheggia ferì il
muso di Gregor e un qualche urticante farmaco lo bagnò. Grete a quel punto
prese senza fermarsi quante bottigliette poteva tenerne e corse dalla mamma
chiudendo con una pedata la porta. Gregor fu dunque separato dalla mamma,
che per colpa sua, forse, era prossima alla morte, ad aprire la porta non
riuscì, la sorella, che doveva restare con la mamma, non aveva intenzione di
scacciarla, e non poté fare altro che aspettare, incalzato da autorimproveri e
rimorsi iniziò a strisciare dappertutto, sulle pareti, sui mobili e sul soffitto
della stanza, alla fine cadendo disperato, mentre la stanza gli girava attorno,
nel mezzo del grande tavolo.
Passò un po' di tempo, Gregor giaceva senza forza là sopra, attorno non
c'era rumore, e forse era un buon segno. In quella suonarono. La ragazza
com'è naturale era chiusa in cucina e perciò dové andarci Grete, ad aprire.
Era il babbo. “Che è successo?” - furono le sue prime parole, l'aspetto di
Grete gli aveva rivelato tutto. A voce soffocata Grete rispose, evidentemente
aveva appoggiato il viso sul petto del babbo, “la mamma aveva perso i sensi,
ma ora va già meglio. Gregor è scappato.” “Ma io me lo aspettavo”, disse il
babbo, “ve l'ho detto e ridetto, ma voi donne non volete ascoltare.” A Gregor
fu chiaro che il babbo aveva interpretato male la sintesi estrema di Grete e
aveva capito che lui s'era lasciato andare a una qualche atrocità. Per ciò ora
Gregor doveva placarlo, non avendo né tempo né possibilità di metterlo al
corrente, dunque si rifugiò alla porta della sua stanza premendosi su di essa
affinché il babbo entrando dall'anticamera potesse vedere subito che Gregor
era intenzionato positivamente a far immediato ritorno nella sua stanza e che
non serviva spingerlo indietro, a parte la necessità che si aprisse la porta, e
subito sarebbe sparito.
Il babbo però non era dell'umore di far caso a tali sottigliezze; “Ah!” - gridò
subito entrando, in un tono come se allo stesso tempo fosse arrabbiato e
felice. Gregor trasse il capo indietro dalla porta e lo sollevò verso il babbo.
Davvero non se lo era immaginato come ora si trovava lì. Del resto negli
ultimi tempi aveva trascurato, preso dall'abitudine di strisciare in giro, di
occuparsi come una volta di quel che avveniva nel resto dell'appartamento, e
in effetti avrebbe dovuto esserci costretto, a imbattersi nelle cambiate
circostanze. Eppure, eppure, era ancora il babbo, quello? Era lo stesso uomo
che se ne stava sepolto nel letto, all'alba, quando Gregor partiva per un
viaggio di lavoro e che lo accoglieva, la sera al ritorno, in vestaglia e sul
seggiolone, nemmeno capace di alzarsi, ma solo di alzare un braccio in
segno di gioia? Era quell'uomo che, nelle rare passeggiate in compagnia, in
quelle poche domeniche all'anno e in occasione delle feste maggiori,
infagottato nel suo vecchio cappotto, tra Gregor e la mamma, che già
camminavano piano, si faceva avanti per mezzo della gruccia appoggiandola
in avanti ogni volta con cautela anche un po' più lento; era quell'uomo che, se
voleva dir qualcosa, quasi sempre si fermava e radunava gli
accompagnatori? Ed eccolo, ora si drizzava come un fuso, vestito in
un'aderente uniforme blu dai bottoni dorati come la indossano gli uscieri di
banca, e sopra il colletto rigido della giacca gli si allargava robusto il doppio
mento, mentre lo sguardo, vivace e attento, spiccava dai suoi occhi neri da
sotto i cespugli delle sopracciglia e la capigliatura bianca, di solito in
disordine, era pettinata su due bande schiacciate, penosamente regolari e
lucide. Lanciò il berretto, con su applicato l'aureo monogramma,
probabilmente quello d'una banca, attraverso tutta la stanza fin sopra il
canapè e si diresse su Gregor, mani in tasca, code della giacca buttate
indietro, con la faccia arrabbiata. Non sapeva nemmeno lui bene quel che
voleva fare, comunque sollevava in modo insolito i piedi e Gregor si
meravigliò della gigantesca grandezza delle suole dei suoi stivali, e tuttavia
non perse tempo, dal primo giorno della nuova vita sapeva bene che il babbo
nei suoi confronti riteneva consigliabile solo la massima severità, per cui gli
scappò, fermandosi se lui si fermava e riprendendo la corsa non appena il
babbo si muoveva di nuovo. Così fecero diverse volte il giro della stanza
senza che succedesse qualcosa di conclusivo, senza anzi che il tutto, a
causa della lentezza del ritmo, avesse l'aspetto di un inseguimento. A tratti
Gregor sostava sul pavimento, temendo che il babbo potesse ritenere
particolarmente ribalda una sua fuga sulle pareti o sul soffitto. Del resto
Gregor dové dirsi che anche questo correre non l'avrebbe sopportato a
lungo, infatti mentre il babbo faceva un passo, lui doveva eseguire
innumerevoli movimenti. Di già si rendeva percepibile la mancanza di fiato,
come quando, anche nell'infanzia, lui aveva avuto polmoni nient'affatto
affidabili. Barcollando via di lì, per radunare tutte le forze per la corsa a mala
pena teneva gli occhi aperti; nella sua ottusità a un altro tipo di salvezza che
non fosse la corsa non pensò, e quasi aveva già dimenticato che aveva a
disposizione le pareti, del resto in quella stanza occluse da mobili
accuratamente intagliati, pieni di smerli e punte – e allora vicinissimo gli volò
un qualcosina, scagliatogli addosso, e gli rotolò davanti. Era una mela, cui ne
seguì una seconda, lui si fermò impaurito, correre ancora era inutile, dato che
il babbo aveva deciso di bombardarlo. Se n'era riempito le tasche dal vassoio
della frutta sulla credenza, e ora le scagliava senza mirar bene, per il
momento, una dopo l'altra. Come elettrizzate, queste piccole mele rosse
rotolavano sul pavimento e si urtavano tra loro. Un lancio debole sfiorò il
dorso di Gregor, ma scivolò via senza fargli danno, invece un successivo gli
colpì sul serio il dorso; lui volle trascinarsi oltre, quasi che il dolore
improvviso e incredibile potesse passare con il cambiar di posto, però si
sentì come inchiodato e si stirò in modo totalmente irrazionale. Con l'ultimo
sguardo vide ancora la porta della sua stanza spalancata e come, davanti alla
sorella urlante, la mamma corresse in camicia, la sorella l'aveva spogliata per
farla respirare liberamente dopo che era svenuta, come poi la mamma
seguitasse a inseguire il babbo e intanto una dopo l'altra le vesti slacciate le
scivolassero al suolo, come vi incespicasse sopra scagliandosi sul babbo,
abbracciandolo e facendo con lui un tutt'uno – già però la capacità di Gregor
di vedere ora mancava – le mani strette dietro la sua nuca, a pregarlo che
avesse pietà di Gregor.
III

La grave ferita di cui Gregor soffrì per oltre un mese – la mela restò come
visibile ricordo nella carne, nessuno infatti osò levargliela – parve aver
rammentato, anche al babbo, che Gregor, nonostante la sua presente forma,
triste e disgustosa, era un membro della famiglia che non si poteva trattare
come un antagonista, era uno, invece, nei cui confronti era obbligatorio, da
parte dei familiari, inghiottire l'avversione e pazientare, nient'altro che
pazientare.
Inoltre, se a causa della ferita probabilmente Gregor aveva perduto per
sempre la mobilità e necessitava di lunghi minuti, come un vecchio invalido,
per attraversare la sua stanza – a strisciare in alto nemmeno c'era da pensare
– ora ricavò dal peggioramento della sua situazione ciò che secondo lui era
una compensazione del tutto soddisfacente, cioè verso sera, sempre, la porta
del soggiorno, che lui aveva l'abitudine di star a guardare già con due ore
d'anticipo, veniva aperta, per cui giacendo nel buio della sua stanza lui,
invisibile dal soggiorno, aveva il permesso di vedere tutta quanta la famiglia a
tavola sotto la luce e di stare a sentirne in netto contrasto rispetto a prima,
diciamo con il generale consenso, i discorsi.
Certo non si trattava più delle conversazioni vivaci dei vecchi tempi, quelle
cui Gregor, in modeste stanze d'albergo, sempre aveva pensato con qualche
desiderio, se aveva dovuto buttarsi, stanco, in quei giacigli umidi. Ora per lo
più si taceva. Il babbo si addormentava alla svelta, dopo cena, sul suo
seggiolone, la mamma e la sorella si esortavano a star zitte, la mamma cuciva
biancheria fine per un negozio di mode, la sorella, che era stata assunta come
commessa, la sera imparava stenografia e francese per magari più avanti
ottenere un posto migliore. Talvolta il babbo si svegliava e, quasi non
sapesse nemmeno di aver dormito, diceva alla mamma “quanto cuci, oggi?”
e subito si riaddormentava, mentre le due, stancamente si sorridevano a
vicenda.
Il babbo di testa sua insisteva a non levarsi, a casa, l'uniforme d'ufficio, e
mentre la vestaglia penzolava inutile dall'attaccapanni lui sonnecchiava al
suo posto vestito di tutto punto, quasi fosse sempre pronto a entrare in
servizio e anche lì attendesse la voce del superiore, ragion per cui l'uniforme,
per altro non nuova, ci perse, in fatto di pulizia, nonostante tutte le premure
della mamma e della sorella, e Gregor vide spesso per serate intere questo
vestito sempre più macchiato eppur luccicante con i suoi bottoni d'oro
sempre lucidi, dentro il quale il vecchio dormiva, scomodissimo eppure
tranquillo. Alle dieci in punto la mamma cercava di svegliarlo parlandogli
pianino, e poi di persuaderlo ad andare a letto, dal momento che lì non era
proprio quel bel dormire di cui il babbo, che doveva prender servizio alle sei,
aveva gran necessità. Tuttavia, con l'ottusa decisione che aveva acquisito
dopo esser divenuto usciere, lui insisteva a restare ancora al tavolo, ciò
nonostante senza meno si riaddormentava e allora diventava faticosissimo da
muovere, per cambiare il seggiolone con il letto. Mamma e sorella potevano
insistere con brevi esortazioni, lui scuoteva per dei quarti d'ora la testa piano
piano, teneva gli occhi chiusi e non si alzava. La mamma lo tirava per la
manica, lo blandiva sottovoce, la sorella smetteva i suoi compiti per dare una
mano, ma niente da fare, lui sprofondava sempre di più nel suo seggiolone e
solo quando le donne lo prendevano da sotto le ascelle apriva gli occhi, le
guardava prima l'una, poi l'altra e usava dire, “ecco tutta la mia vita, ecco il
bastone della mia vecchiaia.” E, appoggiato su entrambe, si sollevava a
fatica, quasi fosse per se stesso il massimo dei pesi, si lasciava portare fino
alla porta, poi faceva segno di no e seguitava da solo, mentre la mamma
buttava via il suo cucito, la sorella la sua penna, per stargli dietro e aiutarlo
ancora.
Chi doveva in tal epoca di logoramento e stanchezza famigliare occuparsi di
Gregor più di quanto non fosse strettamente necessario? L'economia
domestica venne sempre più limitata, la ragazza di servizio fu licenziata, un
donnone nocchiuto dai capelli bianchi svolazzanti veniva la mattina e poi la
sera per i lavori più pesanti, al resto badava la mamma, accanto al suo gran
lavorare di cucito. Avvenne perfino che svariati gioielli di famiglia che ai
tempi la mamma e la sorella avevano, gioiosamente assai, indossato in
occasione di giorni lieti e festivi fossero venduti, come Gregor apprese la
sera durante la discussione che fu fatta sui prezzi ottenuti. La massima
lagnanza verteva però sempre sul fatto che non si potesse lasciare
l'appartamento, date le circostanze troppo grande, essendo inconcepibile
come si dovesse trasferire Gregor, ma lui capì che non era solo lui a impedire
un trasferimento, dato che lo si sarebbe potuto trasportare in una scatola
adattata con alcuni buchi per l'aria. Quel che soprattutto tratteneva i suoi dal
cambiare appartamento era invece la totale disperazione e il pensiero di
esser stati colpiti da una disgrazia senza pari in tutta la cerchia di parenti e
conoscenti. Quel che tocca alla povera gente, loro l'avevano avuto al grado
massimo, il babbo dall'impieghino in banca cavava un tozzo di pane, la
mamma si sacrificava per la biancheria di gente estranea, la sorella correva
avanti e indietro agli ordini della clientela dietro il banco, di più le forze dei
familiari non potevano fare. E la ferita sul dorso a Gregor iniziava a far male
da capo quando mamma e sorella, dopo aver portato a dormire il babbo,
tornavano, lasciavano star lì il lavoro, accostate sedevano vicine, guancia a
guancia, e la mamma diceva, indicando la stanza di Gregor: “Chiudi la porta,
Grete, “. Poi, quando Gregor di nuovo era al buio, le due donne piangevano
insieme oppure, senza lacrime, guardavano il tavolo ad occhi sbarrati.
Non dormiva quasi mai, né di notte né di giorno, talvolta pensava che alla
prossima apertura della porta avrebbe ripreso in mano la situazione della
famiglia come una volta, gli balenavano in mente dopo tanto tempo il
principale e l'incaricato, il commesso e l'apprendista, l'inserviente scemo,
due, tre amici di altri uffici, una cameriera d'un albergo, in provincia, caro
ricordo fuggevole, una cassiera d'un negozio di cappelli cui aveva fatto la
corte sul serio, ma con troppa lentezza – tutti quanti gli sembravano come
persone estranee o già dimenticate, invece che giovare a lui e ai suoi erano
interamente inaccessibili, e se sparivano era ben lieto. Poi però non era
nemmeno dell'umore giusto per occuparsi dei suoi, era pieno di rabbia allo
stato puro per la cattiva assistenza e, nonostante che non potesse
immaginarsi nulla di cui avrebbe avuto voglia, pure faceva piani per
raggiungere la dispensa per prendervi quel che gli spettava, per quanto non
avesse per nulla fame. Senza più star a pensare come si sarebbe potuto far
qualcosa di gradito a Gregor, con la massima fretta la sorella, prima di
correre al lavoro, la mattina e il pomeriggio, con un piede faceva scivolare
nella stanza di lui una qualche cibaria a caso, per poi la sera spazzarla via
con un colpo di scopa, d'altronde indifferente al fatto che fosse stata anche
solo assaggiata o – il caso più frequente – fosse del tutto intatta. Il rassetto
della stanza che lei faceva sempre e solo la sera, non poteva avvenire in
modo più rapido. Strisciate di sporco si allungavano sulle pareti, qua e là
c'erano gomitoli di polvere e sporcizia. All'inizio Gregor si metteva all'arrivo
della sorella in qualche angolo diciamo significativo allo scopo di biasimarla
con tal posizione. Tuttavia avrebbe potuto restarci per settimane, lì, senza che
lei si correggesse; il sudiciume lo vedeva certamente quanto lui, ma era
arrivata a decidere di lasciarcelo. Al fatto che il rassetto della stanza di
Gregor le restasse riservato ci badava però con una sensibilità tutta nuova e
davvero commovente per la famiglia intera. La mamma, una volta che aveva
intrapreso nella stanza di Gregor grandi pulizie che le erano riuscite solo
dopo aver usato diversi secchi d'acqua - grand'umidità che del resto disturbò
Gregor, disteso immobile ed esasperato sopra il canapè – non evitò la
punizione. Non appena infatti la sorella ebbe visto, la sera, il cambiamento
nella stanza, corse in soggiorno offesa a morte e, nonostante le mani
sollevate della madre, che la scongiurava, ebbe un attacco di pianto che i
genitori – il babbo com'è naturale per lo spavento era scivolato dal
seggiolone – dapprima guardarono stupiti e impotenti, finché lei non iniziò a
calmarsi. Il babbo a destra rimproverò la mamma di non aver lasciato le
pulizie alla sorella, a sinistra la sorella urlò che non se la sarebbe più sentita
di farle, le pulizie, mentre la mamma cercava di trascinare il babbo, che lei
non riconosceva più, tanto era agitato, in camera da letto. La sorella, scossa
dai singhiozzi, colpì con le sue manine la tavola e Gregor sibilò con forza la
sua rabbia che a nessuno passasse per la testa di chiudere la porta e di
risparmiargli la scenata e il frastuono.
Anche quando la sorella, fiaccata dal suo impiego, ne ebbe abbastanza per
curarsi di Gregor come prima, in nessun modo la mamma avrebbe dovuto
entrare nella stanza al posto di lei, e però non ci sarebbe stato bisogno che
Gregor venisse trascurato, perché ora c'era la domestica. Questa anziana
vedova, che nella sua lunga vita era riuscita con l'aiuto della sua robusta
complessione a prevalere sulle peggiori cose, di Gregor non aveva davvero
alcuno schifo. Senza essere in un qualche modo curiosa per caso una volta
aveva aperto la porta della stanza ed era rimasta con le mani in grembo
stupita alla vista di Gregor, che, totalmente sorpreso, nonostante che
nessuno gli volesse far male, iniziò a correre di qua e di là. Da allora non
mancò mai di aprire un poco la porta sia la mattina che la sera e di guardarlo.
All'inizio gli diceva, per farlo avvicinare, parole che lei forse riteneva garbate,
tipo “su, vieni qui, vecchio scarafaggio!”, oppure “ma guardatelo, il vecchio
scarafaggio!” Gregor non rispondeva nulla a tali indirizzi, ma restava
immobile dov'era, come se la porta non fosse stata nemmeno aperta. A
questa domestica, invece di lasciare che inutilmente lo disturbasse secondo
come le girava, sarebbe stato meglio ordinare di pulirgli la stanza ogni
giorno! Una volta presto di mattina – batteva sui vetri una forte pioggia forse
già segno dell'arrivo della primavera – Gregor fu esasperato a tal punto dalla
nuova dose di motti della domestica da rivoltarlesi contro come a scopo di
assalto, per altro lentamente e in modo moscio. Lei tuttavia, invece di
spaventarsi, si limitò ad alzare una delle sedie che si trovavano presso la
porta e, da come stava lì a bocca ben aperta, fu chiara la sua intenzione di
chiuderla solo quando il seggiolone che aveva in mano si fosse abbattuto sul
dorso di Gregor. “Allora, non ti fai sotto?” - chiese, quando lui si girò,
rimettendo con calma il seggiolone nel suo angolo.
Gregor quasi non mangiava più, solo se per caso passava davanti alle cibarie
messe lì ne prendeva per gioco un pezzettino in bocca dove lo teneva per ore
e il più delle volte lo risputava. Dapprima ritenne che fosse l'afflizione relativa
allo stato della sua stanza a tenerlo lontano dal mangiare, ma proprio con i
mutamenti della stanza si riconciliò molto presto. Ci si era abituati a mettere
in questa stanza cose che altrove non si potevano tenere, e ce n'erano
parecchie, poiché una stanza dell'appartamento era stata affittata a tre
pensionanti. A tali seri signori – avevano tutti la barba, come una volta Gregor
stabilì attraverso lo spiraglio della porta – importava fastidiosamente l'ordine
non solo della loro stanza, ma, una volta iniziatasi la locazione in quella casa,
dell'intero ambito domestico, e dunque in particolar modo in cucina. Non
tolleravano robetta inutile o magari stantia, inoltre avevano portato con sé la
maggior parte dei loro arredi, per cui molti oggetti erano divenuti superflui,
certamente non si potevano vendere, ma nemmeno li si voleva buttar via.
Tutta roba che finiva nella stanza di Gregor, come il bidone per la cenere e
quello per i rifiuti della cucina. Quel che sul momento era inservibile la
domestica, che aveva sempre una gran furia, lo scaraventava semplicemente
nella stanza di Gregor, che per fortuna di solito vedeva solo l'oggetto in
questione e la mano che lo teneva. La domestica forse aveva intenzione, col
tempo e l'opportunità, di riprendere quelle cose, oppure di farle fuori tutte
insieme in una volta, ma di fatto restavano lì dove erano arrivate con il primo
lancio, nel caso che Gregor non si aggirasse attraverso tale paccottiglia e la
smuovesse, prima per forza, dato che non c'era altro posto per strisciare, poi
con crescente divertimento, per quanto dopo tali transiti, stanco a morte e
triste, non si muovesse più per delle ore.
Dato che i pensionanti talvolta cenavano a casa nella stanza di soggiorno in
comune, la porta di tale stanza restava parecchie sere chiusa, ma Gregor ci
rinunciò con la massima facilità, all'apertura, ne aveva talmente godute, di
sere d'apertura; invece, senza che i familiari se ne accorgessero, se ne stava
disteso nell'angolo più buio della sua stanza. Una volta però la domestica
aveva lasciato un po' aperta la porta del soggiorno, che restò aperta anche
quando entrarono i pensionanti, la sera, e si accese la luce. Si sedettero a
tavola lì dove ai tempi si erano seduti il babbo, la mamma e Gregor,
spiegarono i tovaglioli e presero coltello e forchetta. Subito fecero la loro
comparsa sulla porta la mamma con un piatto di carne e subito dietro di lei la
sorella con un piatto colmo di patate. Il cibo mandava gran fumo. I
pensionanti si chinarono sui piatti posti davanti a loro come se volessero
valutarli prima di mangiare, e di fatto colui che sedeva nel posto di mezzo e
pareva fungere per gli altri da esperto tagliò un pezzo di carne evidentemente
per stabilire se fosse abbastanza morbido e non dovesse per caso venir
rimandato in cucina. Fu soddisfatto e mamma e sorella, restate tese a
guardare, iniziarono a sorridere facendo un sospiro di sollievo.
I familiari mangiavano in cucina, ciò nonostante il babbo, prima di andarci,
venne in soggiorno e, berretto in mano, fece il giro del tavolo, continuamente
inchinandosi. I pensionanti si alzarono come un sol uomo mormorando
qualcosa da dentro le loro barbe. Quando poi furono soli mangiarono quasi in
silenzio completo. A Gregor parve singolare che si continuassero a udire, tra
tutta la varietà di rumori del mangiare, i denti che masticavano, come se con
ciò a lui si dovesse indicare che ci si serviva di denti, per mangiare, e che a
nulla si riusciva anche con la miglior mascella, se sdentata. “Appetito ne ho”,
si disse Gregor pensieroso, “ma non di queste cose. Questi pensionanti si
nutrono, e io muoio!”
Proprio quella sera – Gregor non si ricordava di averlo udito per tutto il tempo
– si sentì risuonare il violino dalla cucina. I pensionanti avevano già finito di
cenare, il pensionante seduto centralmente aveva spiegato un giornale e dato
agli altri un foglio a testa, stavano a leggere appoggiati alla spalliera delle
loro sedie e fumavano. Quando il violino iniziò a suonare si fecero attenti, si
alzarono e in punta di piedi andarono sulla porta della stanza d'ingresso,
dove rimasero uno addossato all'altro. Si doveva averli sentiti, dalla cucina,
infatti il padre chiese ad alta voce: “i signori non gradiscono l'esecuzione?
Possiamo smettere subito.” “Al contrario”, disse il pensionante autorevole,
“non piacerebbe alla signorina venir a suonare qui dov'è molto più comodo e
accogliente?” “Ma prego”, rispose il babbo, quasi fosse lui il violinista. Quei
signori ritornarono nella stanza di soggiorno e attesero. Tosto venne il babbo
con il leggio, la mamma con i fogli da musica e la sorella con il violino.
Quest'ultima predispose tutto con calma per l'esecuzione, i genitori, che mai
avevano prima affittato una stanza e perciò esageravano la cortesia nei
confronti dei pensionanti, non osarono sedersi sulle loro sedie, il babbo si
appoggiò alla porta, con la destra infilata tra due bottoni della giacca
dell'uniforme, alla mamma invece fu offerta una sedia da uno di quei signori,
e lei si mise seduta lì dove, a caso, quello l'aveva messa, in disparte.
La sorella iniziò a suonare, babbo e mamma attenti seguivano, ognuno dal
suo posto, i movimenti delle sue mani. Gregor, attirato dal suono, s'era spinto
un po' in avanti e aveva già il capo nel soggiorno, appena stupito di curarsi
negli ultimi tempi così poco degli altri, quando prima tali riguardi erano stati il
suo vanto. E comunque non avrebbe più avuto motivo di nascondersi, infatti
la polvere che stava dappertutto nella sua stanza e volteggiava in aria ai
minimi movimenti, lo ricopriva tutto; trascinava capelli, fili, avanzi di cibo, sia
sul dorso che sui fianchi. La sua indifferenza a ogni cosa era assai cresciuta
rispetto a quando si sarebbe strofinato più volte al giorno sul tappeto stando
disteso sul dorso. A dispetto del suo stato non ebbe affatto timore di farsi
avanti un pezzetto sul pavimento immacolato.
Del resto nessuno gli badava, i familiari erano totalmente assorbiti dal suono
del violino, i pensionanti invece, che dapprima, le mani infilate nelle tasche
dei pantaloni, s'erano messi tanto vicini, dietro il leggio, che avrebbero
potuto tutti leggere la musica, cosa che di certo doveva disturbare la sorella,
presto si ritirarono parlando a mezza voce, le teste chine, verso la finestra,
dove rimasero, tenuti d'occhio ansiosamente dal babbo. Ora, era più che
evidente la delusione della loro speranza di ascoltare una bella, o
interessante, esecuzione, ne avevano abbastanza e si lasciavano seccare
ancora, durante il loro tempo libero, solo per riguardo. In particolare il modo
come quei signori soffiavano in alto il fumo dei sigari dal naso e dalla bocca
rendeva evidente che erano parecchio innervositi. Eppure la sorella suonava
tanto bene, il viso piegato di lato, guardava, intensa e triste, le note allineate.
Gregor strisciò ancora un pezzo in avanti facendo aderire il capo al
pavimento allo scopo, possibilmente, di poter incontrare gli sguardi di lei. Era
un animale, perché poi la musica lo prendeva tanto? Era come gli si
mostrasse la via del bramato nutrimento ignoto. Si decise a spingersi fino alla
sorella, a tirarle l'abito per significarle con ciò che lei poteva venir con il
violino nella camera di lui, dato che lì nessuno era grato dell'esecuzione
quanto voleva esserlo lui. Desiderava che lei non lasciasse più la stanza di
lui, almeno non finché lui vivesse; la sua orrenda figura per la prima volta
doveva divenirgli utile, voleva stare a tutte le porte della sua stanza
contemporaneamente e soffiare contro gli assalitori, tuttavia la sorella doveva
restare da lui non per costrizione, ma per scelta, doveva sedersi accanto a lui
sul canapè, starlo a sentire, e lui le avrebbe confidato di aver avuto davvero
l'intenzione di mandarla al conservatorio e che, se nel frattempo non fosse
avvenuta la disgrazia, il Natale passato – era già dunque trascorso, il Natale?
- lo avrebbe detto a tutti senza preoccuparsi di alcuna obbiezione. Dopo tale
annuncio la sorella sarebbe scoppiata in lacrime di commozione, Gregor si
sarebbe tirato su fino alla sua spalle e le avrebbe baciato il collo che lei, da
quando andava al lavoro, teneva senza fascia né colletto.
“Signor Samsa!” - gridò il pensionante autorevole rivolto al babbo
mostrandogli con l'indice, senza perderci ulteriore parola, il lento avanzare di
Gregor. Il violino tacque, il pensionante autorevole sorrise scuotendo il capo
prima rivolto ai suoi amici e poi rivolto di nuovo a Gregor. Il babbo parve
ritenere più utile per prima cosa tranquillizzare i pensionanti, invece che
buttar fuori Gregor, ciò nonostante quelli non erano affatto inquieti e
sembrava che li svagasse più Gregor che non il suono del violino. Si mosse
verso di loro tentando a braccia spalancate di spingerli nella loro stanza e
nello stesso tempo di ostruir loro con il suo corpo la vista di Gregor. Un po'
se la presero, di fatto, non si seppe più se per la condotta del babbo oppure
per l'appena raggiunta conoscenza, senza averlo saputo, di esser dotati d'un
simile vicino di stanza. Pretesero spiegazioni dal babbo, sollevarono anche
loro le braccia, si tirarono le barbe inquieti e lentamente si ritirarono verso la
loro stanza. Intanto la sorella aveva superato lo smarrimento in cui era caduta
dopo l'improvvisa interruzione dell'esecuzione, si era per un attimo tenuta tra
le mani, che pendevano molli, il violino e l'arco, e aveva riguardato i fogli con
la musica, quasi suonasse ancora, poi s'era scossa di colpo, aveva
appoggiato lo strumento in grembo alla madre, ancora seduta sulla sua sedia
senza poter respirare se non con gran fatica, era andata velocemente nella
stanza accanto dove, spinti dal babbo, i pensionanti già si avvicinavano più
rapidi. Si vide come tra le sue mani esperte coperte e cuscini volassero in
aria e poi si mettessero in ordine. Ancor prima che quei signori avessero
raggiunto la stanza, la sorella fu pronta con i letti rifatti e sgattaiolò fuori. Il
babbo parve ripreso a tal punto dalla sua ottusità da usciere da perdere tutto
il rispetto che però doveva ai suoi locatari. Continuò a spingere senza far
altro finché già sulla porta della stanza il pensionante autorevole batté con
forza i piedi con ciò inducendo il babbo a una tregua. “Sono qui a dichiarare”,
disse il pensionante autorevole sollevando le mani e cercando con lo
sguardo anche la mamma e la sorella, “che con riguardo alla situazione
disgustosa imperante in quest'appartamento e in questa famiglia” - a questo
punto sputò senza esitare sul pavimento - “disdico immediatamente la mia
stanza. Com'è naturale non pagherò nemmeno un soldo per i giorni che ho
abitato qui, al contrario prenderò in considerazione l'ipotesi di esigere un
qualche tipo di rimborso – credetemi – facilissimo da motivare. “ Tacque e
volse lo sguardo davanti a sé, come se appunto fosse in attesa di qualcosa.
Di fatto intervennero subito i suoi due amici con queste parole: “Anche noi
disdiciamo immediatamente.” Quindi afferrò la maniglia della porta e chiuse
con violenza.
Il babbo barcollò cercando con le mani il suo seggiolone e vi si lasciò cadere;
pareva che si disponesse a uno dei suoi pisolini abituali della sera, ma il forte
accennare della sua testa a un sì ininterrotto mostrò che non dormiva proprio
per niente. Gregor aveva continuato a star fermo dove si trovava quando i
pensionanti lo avevano sorpreso. La delusione causata dal fallimento del suo
piano, forse però anche la debolezza provocata dai lunghi digiuni, gli
rendevano impossibile muoversi. Con una certa lucidità temeva già per
l'immediato che una generale catastrofe si scaricasse su di lui, e aspettava.
Nemmeno il violino, che cadde dal grembo della madre, cui tremavano le dita,
emettendo un suono rimbombante, lo spaventò.
“Cari genitori”, disse la sorella colpendo il tavolo a mo' di introduzione, “così
non può continuare, se forse voi non lo capite, lo capisco io. Davanti a questo
mostro io non voglio pronunciare il nome di mio fratello e perciò mi limito a
dire: dobbiamo cercare di liberarcene. Abbiamo tentato ciò che a degli esseri
umani è possibile, di prendercene cura e di sopportarlo, nessuno può farci il
minimo rimprovero.”
“Ha mille volte ragione”, disse il babbo tra sé. La mamma, che continuava a
respirare male, iniziò a tossire aspramente nelle proprie mani con
un'espressione folle degli occhi.
La sorella le corse vicino a tenerle la fronte, il babbo parve portato, dalle
parole della sorella, a pensare in modo più nitido, s'era tirato su, muoveva il
berretto della divisa tra i piatti che ancora, dopo la cena dei pensionanti, si
trovavano sul tavolo, e di tanto in tanto guardava verso l'immobile Gregor.
“Dobbiamo cercare di liberarcene”, disse la sorella esclusivamente al babbo,
dato che la mamma tossendo non sentiva nulla, “vi uccide entrambi, vedo
che sta succedendo. Quando si deve lavorare tanto duramente come
facciamo noi tutti, non si può sopportare anche a casa questo continuo
tormento. Io non ne posso più.” E si mise a piangere con tal forza che le sue
lacrime caddero sul volto della mamma, che se ne liberò con un movimento
automatico delle mani.
“Bimba”, disse il babbo, impietosito e con notevole discernimento, “che cosa
dobbiamo fare, però?”
La sorella si limitò ad alzare le spalle segnalando la perplessità che durante il
pianto l'aveva afferrata, in contrasto con la sicurezza di poco prima.
“Se ci capisse”, disse il babbo quasi in forma di domanda; la sorella scosse
energicamente una mano, senza piangere, segnalando che non c'era proprio
da pensarci.
“Se ci capisse”, ripeté il babbo, e abbracciò, chiudendo gli occhi, la
convinzione della sorella che era impossibile, “allora sarebbe possibile
accordarsi con lui, ma così ...”
“Via, dobbiamo mandarlo”, gridò la sorella, “è l'unica, babbo. Devi solo
liberarti del pensiero che si tratti di Gregor. Che noi lo abbiamo creduto tanto
a lungo è anzi la nostra vera disgrazia. Ma poi, come può essere Gregor? Se
lo fosse, da un pezzo avrebbe capito che una convivenza di esseri umani con
una simile bestia è impossibile, e se ne sarebbe andato di sua volontà. Non
avremmo avuto, a quel punto, un fratello, ma avremmo potuto continuare a
vivere, e onorare il suo ricordo. Così invece questa bestia ci perseguita,
scaccia i pensionanti, vuol chiaramente prender possesso di tutto
l'appartamento e farci passare la notte per la strada. Ma guardalo, babbo”,
urlò all'improvviso, “ricomincia!” E terrorizzata, secondo Gregor del tutto
incomprensibilmente, la sorella piantò in asso perfino la mamma, in pratica si
scostò dalla sedia di lei come se preferisse sacrificarla, piuttosto che trovarsi
vicina a Gregor, e corse dietro il babbo che, eccitato unicamente per la
condotta di lei, si alzò anche lui e, come per proteggerla, levò le braccia
davanti a lei.
A Gregor invece non passava per la testa di far paura a chicchessia e men
che meno a sua sorella, aveva solo iniziato a girarsi per far ritorno nella sua
stanza, ciò del resto faceva scena perché in conseguenza dei suoi dolori fisici
doveva aiutarsi, nella difficile manovra, con il capo, sollevandolo a tale scopo
più volte ed appoggiandolo con forza sul pavimento. Si fermò e si guardò
attorno. La sua buona intenzione pareva esser stata riconosciuta, s'era
trattato solo d'un momentaneo spavento, ora tutti lo guardavano in silenzio,
tristi. La mamma stava seduta con le gambe distese in avanti e accavallate,
per la stanchezza gli occhi quasi le si chiudevano, il babbo e la sorella
sedevano vicini l'uno all'altra, lei gli aveva messo una mano attorno al collo.
“Dunque, posso permettermi di girare”, pensò Gregor, e ricominciò la sua
fatica. Non poteva smettere di sbuffare, nello sforzo, e a tratti era costretto a
riprender fiato, per altro nessuno lo spingeva, faceva da sé. Quando ebbe
finito di girarsi iniziò subito ad andar diritto, stupito da tutto lo spazio che lo
separava dalla sua stanza e senza capire come, debole com'era, poco prima
avesse fatto lo stesso percorso quasi senza accorgersene. Ben attento solo a
strisciare rapido s'accorse appena che nessuna parola, nessun richiamo dei
suoi lo disturbava. Non appena fu alla porta girò il capo, non del tutto, infatti
sentiva che il collo gli s'irrigidiva, eppure vide che dietro a lui nulla era
mutato, solo la sorella s'era alzata. Da ultimo sfiorò con lo sguardo la
mamma, completamente addormentata.
Non appena fu nella sua stanza la porta venne chiusa con il paletto e a chiave
con un fragore improvviso che spaventò Gregor al punto che le gambette gli
si piegarono. Era la sorella a essersi tanto affrettata. In piedi, già pronta, in
punta di piedi era balzata in avanti, e Gregor non l'aveva nemmeno sentita
arrivare; “Finalmente!”- fece, rivolta ai genitori, mentre girava la chiave nella
serratura.
“E ora?”- si chiese Gregor guardandosi attorno nel buio, presto scoprendo
che in pratica non poteva più muoversi. Non se ne stupì, anzi gli parve strano
che fin lì avesse davvero potuto muoversi, con quelle stupide gambette. Per
altro si sentiva relativamente bene, sì, aveva dolori dappertutto, ma era come
se s'attenuassero pian piano e alla fine se ne andassero via. La mela
putrefatta sul dorso e la circostante infiammazione, completamente coperte
di polvere, appena le sentiva. Ripensò ai suoi con commozione e affetto. Il
suo parere sul fatto che lui dovesse scomparire era se possibile anche più
netto di quella di sua sorella. Rimase in tal condizione meditativa, vuota e
soddisfatta, fino quando dal campanile suonarono le tre del mattino.
Partecipò ancora, davanti alla finestra, all'inizio del generale rischiaramento
esterno, poi, senza volere, chinò completamente il capo e gli uscì dalle froge
l'ultimo debole respiro.
Quando di prima mattina venne la domestica – nella sua furia, e la si era già
più volte pregata di non farlo, sbatteva tutte le porte al punto che nell'intero
appartamento dopo il suo arrivo non era più possibile dormire in pace – alla
sua rapida abituale visita a Gregor non trovò all'inizio nulla di speciale. Pensò
che giacesse a bella posta lì così immobile per far l'offeso, lo riteneva
perfettamente dotato di comprendonio. Poiché in mano guarda caso ci aveva
la scopa, cercò di fargli il solletico, dalla porta, e, dato che non ne veniva
nulla di visibile, si arrabbiò, spinse un po' la scopa su Gregor, e solo quando
lo ebbe fatto scivolare da dov'era senza alcuna opposizione si fece attenta.
Non appena riconobbe la verità fece tanto d'occhi, emise un sibilo, ma non
perse tempo, invece spalancò la porta della stanza da letto e nel buio gridò:
“vengano a vedere, è crepato, sta lì disteso, crepato davvero!”
I coniugi Samsa si tirarono su a sedere, sul letto coniugale, alle prese con lo
spavento che aveva provocato loro la domestica, prima di riuscire a capirne
l'annuncio. Poi però uscirono svelti dal letto, ciascuno dalla parte sua, il
signor Samsa e signora, il signor Samsa si gettò la coperta sulle spalle, la
signora Samsa venne fuori in camicia da notte e nient'altro, ed entrarono
nella stanza di Gregor. Intanto s'era aperta anche la porta del soggiorno, dove
Grete dormiva dopo l'arrivo dei pensionanti. Era vestita di tutto punto, come
se non avesse dormito, e anche il pallore del suo viso pareva indicarlo.
“Morto?”- disse la signora Samsa guardando interrogativa la domestica
nonostante che fosse in grado di verificarlo da sé, e addirittura di
riconoscerlo senza verifiche. “E' questo, che intendo”, disse la domestica,
spingendo con la scopa ancora un bel pezzo da parte Gregor,
dimostrativamente. La signora Samsa si mosse come se volesse tener
indietro la scopa, ma non lo fece. “E dunque”- disse il signor Samsa, “ora
possiamo ringraziare Dio.” Si fece il segno della croce e le tre donne
seguirono il suo esempio. Grete, con gli occhi fissi sul cadavere, disse. “Ma
guardate com'era magro, di certo non mangiava da tanto, il cibo tornava
indietro uguale a come era entrato.” Di fatto il corpo di Gregor era
completamente piatto e secco, lo si riconosceva davvero solo ora che non
era più sostenuto dalle gambette e null'altro ingannava lo sguardo.
“Grete, vieni un pochino da noi”, disse la signora Samsa con un sorriso
malinconico, e Grete, non senza guardare di nuovo il cadavere, andò dietro i
genitori nella loro camera. La domestica chiuse la porta e spalancò la
finestra. Nonostante che fosse mattina presto all'aria fresca già si mescolava
un po' di tepore. Era quasi la fine di Marzo.
I tre pensionanti uscirono dalla loro stanza e cercarono stupiti intorno a sé la
colazione, ci si era dimenticati di loro. “Dov'è la colazione?”- chiese
accigliato il pensionante autorevole alla domestica, che invece pose l'indice
sulle labbra accennando loro di accomodarsi nella stanza di Gregor. Essi vi
andarono e poi rimasero, le mani nelle tasche delle loro giacchette logore,
attorno al cadavere di Gregor, nella stanza che era ormai totalmente
rischiarata.
Allora si aprì la porta della camera e il signor Samsa venne fuori, in divisa, al
braccio di sua moglie da un lato, della figlia dall'altro. Tutti erano un po'
arrossati dal pianto, Grete a tratti premeva il viso sul braccio del babbo.
“Lascino subito il mio appartamento!” - disse il signor Samsa indicando la
porta senza abbandonare le donne. “Che cosa intendete?”- disse il
pensionante autorevole un po' sconcertato, e sorrise dolciastro. Gli altri due
non smettevano di fregarsi le mani, dietro la schiena, come in attesa giuliva
d'un gran litigio che per loro doveva capitare a fagiolo. “Intendo esattamente
quel che dico”, rispose il signor Samsa dirigendosi, allineato con le sue
accompagnatrici, sul pensionante. Costui dapprima non si mosse e guardò il
pavimento come se le cose gli si fossero ordinate nella testa in modo nuovo.
“E noi andiamo”, disse guardando il signor Samsa come se,
improvvisamente diventato umile, gli servisse una nuova autorizzazione
perfino per tal esito. Il signor Samsa con tanto d'occhi si limitò ad annuire
diverse volte rapido. Al che di fatto, a gran passi, quel signore andò in
anticamera; entrambi i suoi amici erano già stati un pochino a sentire, con le
mani del tutto quiete, e gli saltellarono dietro, addirittura, come se temessero
che il signor Samsa potesse precederli in anticamera turbando il
collegamento con la loro guida. In anticamera presero i cappelli
dall'attaccapanni, estrassero i bastoni dal portabastoni, si inchinarono muti e
lasciarono l'appartamento. Il signor Samsa e le due donne, senza visibile
motivo diffidenti, uscirono sul pianerottolo, si appoggiarono alla ringhiera e
videro come quei tre signori, certo lenti, eppure costanti, scendessero le
scale, come scomparissero a ogni piano, a una certa curva del vano delle
scale, e ricomparissero dopo alcuni momenti; quanto più si allontanavano,
tanto più calava l'interesse della famiglia Samsa per loro, e quando un
garzone di macellaio salì verso di loro fieramente portando un pacco sulla
testa, poi oltrepassandoli, tosto il signor Samsa e le due donne lasciarono la
ringhiera e tutti tornarono, come alleggeriti, nel loro appartamento.
Decisero di destinare quella giornata al riposo e al passeggio, non solo
s'erano guadagnata tale pausa lavorativa, ne avevano addirittura bisogno
assoluto. Così sedettero al tavolo e scrissero tre lettere di giustificazione, il
signor Samsa al suo direttore, la signora Samsa al suo appaltatore, e Grete al
suo principale. Durante la scrittura venne la domestica per dire che se ne
andava, dato che il suo lavoro mattutino era finito. Prima i tre scriventi si
limitarono ad annuire senza guardarla, solo quando lei non mostrò
l'intenzione di andarsene le si dette un'occhiata irritata. “Allora?”- chiese il
signor Samsa. La domestica stava sulla porta e sorrideva come se avesse
una gran felicità da annunciare alla famiglia, ma soltanto se ne fosse stata
richiesta. La piccola piuma di struzzo quasi ritta sul cappello, oggetto di cui,
da quando lei era a servizio, il signor Samsa s'era interiormente seccato,
oscillava lieve in tutte le direzioni. “E dunque che cosa vuole, in realtà?”-
chiese la signora Samsa, di cui la domestica aveva più rispetto. “Ecco”,
rispose lei, che non riusciva a dir di più per via del suo affabile ridere, “allora,
per come dev'essere eliminata quella roba lì, loro non si devono preoccupare
più. E' già tutto a posto.” La signora Samsa e Grete si chinarono sulle loro
lettere come se volessero continuare a scrivere, il signor Samsa,
accorgendosi che la domestica a quel punto voleva iniziare a raccontare per
filo e per segno tutto quanto, fece con una mano segno deciso di evitare.
Dato però che non aveva il permesso di riferire, lei, si ricordò della gran fretta
che aveva e, chiaramente offesa, gridò: “ciao a tutti”, si girò brusca e lasciò
l'appartamento sbattendo spaventosamente la porta.
“Stasera la licenziamo”, disse il signor Samsa senza però aver risposta né da
sua moglie né da sua figlia, infatti la domestica pareva aver di nuovo turbato
la loro calma appena raggiunta. Si alzarono, andarono alla finestra e ci
restarono tenendosi abbracciate, il signor Samsa si voltò, nel suo seggiolone,
verso di loro e per un po' le stette a guardare in silenzio, poi disse: “Su,
venite, lasciate perdere le cose passate, finalmente, e abbiate un po' di
riguardo anche per me. “ Subito le due donne gli obbedirono e corsero da lui,
lo accarezzarono e terminarono in fretta le lettere.
Poi uscirono tutti insieme, cosa che da mesi non avevano fatto, e con il tram
andarono fuori città, a cercar l'aria aperta. La vettura, in cui sedevano loro
soli, era tutta quanta attraversata dalla luce calda del sole. Parlarono,
piacevolmente appoggiati ai loro sedili, delle prospettive future trovando che
esse, considerate meglio, non erano affatto male, dato che tutti e tre avevano
un impiego, cosa di cui effettivamente ancora nemmeno avevano parlato tra
loro, molto buono e in particolare assai promettente. Il massimo
miglioramento immediato della situazione doveva naturalmente verificarsi
con facilità cambiando casa; ne volevano prendere una più piccola e meno
cara, ma meglio disposta e più pratica di quella attuale, scelta da Gregor.
Mentre s'intrattenevano in tal modo, al signore e alla signora Samsa insieme
capitò di considerare l'aspetto della loro figliola, che si faceva sempre più
briosa, e come negli ultimi tempi, a dispetto di tutte le pene che le avevano
reso pallide le guance, fosse sbocciata una ragazza bella e sensuale. Fattisi
taciti e quasi inconsapevolmente intendendosi a sguardi, essi pensarono al
fatto che fosse venuto il momento di trovarle anche un buon marito. Ai loro
nuovi sogni e alle buone prospettive venne poi una conferma quando
arrivarono alla meta della loro gita e la figlia si alzò per prima stirando il suo
giovane corpo. (Die Verwandlung, 1912. Il titolo gode in Italia della fortunata
traduzione (A. Rho, 1958; R. Paoli, 1970) “La metamorfosi”.

Davanti alla legge

A protezione della legge sta un portinaio. Dalla campagna viene un uomo e


chiede a questo portinaio di adire la legge. Il portinaio però dice che ora non
può concederglielo. L'uomo riflette e poi chiede se più tardi avrà il permesso
di adire la legge. “Può darsi”, dice il portinaio, “però ora no.” Dato che il
portale della legge sta aperto, come sempre, e il portinaio si sposta di lato,
l'uomo si sporge per guardare all'interno. Il portinaio se ne accorge, ride e
dice: “Se ti garba tanto, provaci pure a entrare nonostante il mio divieto.
Guarda però, che io sono possente, e sono soltanto il portinaio di grado
minimo. Di sala in sala ci sono portinai uno più possente dell'altro. Già di
vedere il terzo, io non posso sopportarlo nemmeno. “ Difficoltà simili il
campagnolo non se le aspettava, tutti dovrebbero adire la legge, che
dovrebbe essere sempre accessibile, pensa lui, ma guardando meglio il
portinaio, il suo mantello di pelliccia, ora, la grossa punta del suo naso, la sua
lunga losca barba nera da tartaro, decide che è meglio aspettare fino a
quando non riceverà l'autorizzazione ad adire. Il portinaio gli dà un basso
sgabello e lo fa sedere al lato della porta. Vi resta giorni e anni, fa svariati
tentativi di venir ammesso e stanca con le sue preghiere il portinaio che più
volte lo interroga su fatti modesti, gli chiede del suo luogo natio e di molto
altro, ma si tratta di domande fatte per fare come quelle che fanno i gran
signori, e a mo' di conclusione gli ripete sempre che ancora non può
ammetterlo. L'uomo, che per il suo viaggio si è ben fornito, spende ogni cosa
allo scopo di corrompere il portinaio, per quanto ciò possa valere. Cioè,
questi accetta tutto, ma dice: “Accetto solo perché tu non creda di aver
trascurato qualcosa.” Durante molti anni l'uomo osserva il portinaio quasi
ininterrottamente, dimentica gli altri portinai e questo, il primo, gli sembra
l'unico ostacolo all'adire la legge. Maledice il suo sfortunato caso senza
riguardi e a voce alta, nei primi anni, più tardi, invecchiando, si limita a
brontolare tra sé. Rimbambisce e, poiché durante lo studio lungo anni del
portinaio ha fatto conoscenza anche delle pulci che si trovano nel bavero
della sua pelliccia, prega anche le pulci di dargli una mano a far cambiare
idea al portinaio. Alla fine la vista gli s'indebolisce e lui non sa se attorno gli
si fa buio o se sono gli occhi a ingannarlo. Però ora nel buio distingue una
luce che proviene ininterrottamente dal portale della legge, e non vive ancora
per molto, prima della sua morte tutte le esperienze fatte da lui nella vita
intera si radunano nella sua testa in una domanda che fin qui ancora non ha
posto al portinaio. Gli fa un cenno, poiché non riesce più a sollevare il suo
corpo irrigidito. Il portinaio è costretto a chinarsi giù verso di lui, infatti la
differenza di statura è molto mutata a sfavore dell'uomo. “Cos'altro vuoi
ancora sapere, ora?” chiede il portinaio, “sei insaziabile.” “Tutti tendono
verso la legge”, dice l'uomo, “com'è che in questi anni, molti, nessuno
all'infuori di me ha chiesto di adire?” Il portinaio si accorge che l'uomo è già
alla fine, e per arrivare a farsi udire da lui, che non sente più, grida: “Nessun
altro poteva ottenere di adire qui, perché quest'accesso era riservato a te. Ora
vado e la chiudo.” (Vor dem Gesetz, 1915)

Il maestro di scuola del villaggio.

Coloro che come me trovano ripugnante perfino una talpa piccola, sarebbero
morti di ripugnanza, probabilmente, se avessero visto la talpa gigantesca
osservata anni or sono nei pressi di un villaggio che per questa ragione ha
raggiunto una certa effimera notorietà. Oggi del resto già da tempo è
nuovamente caduto nell’oblio e partecipa con ciò soltanto all’oscurità
dell’intero fatto, rimasto del tutto senza spiegazioni, che tuttavia ci si è
sforzati neanche molto di spiegare e che, a seguito di un’incomprensibile
negligenza di alcuni circoli che avrebbero dovuto occuparsene, e che si
occupano con effettiva concentrazione di molte cose insignificanti, è stato
dimenticato senza ricerche ulteriori. Non se ne riesce a trovare alcuna
giustificazione con l’argomento che il villaggio dista molto dalla ferrovia,
molta gente venne per curiosità da lontano, perfino dall’estero, soltanto
coloro che avrebbero dovuto mostrare qualcosa in più della curiosità non
vennero. Certo, se non si fosse curata dell’evento la gente semplice del tutto
isolatamente, la gente il cui lavoro quotidiano le permetteva appena di
respirare, se non se ne fosse curata in modo disinteressato, la fama del fatto
avrebbe appena varcato il circondario immediato. Si deve aggiungere che la
fama, altrimenti inarrestabile, in questo caso fu francamente lenta, se non la
si fosse addirittura promossa non si sarebbe propagata. Tuttavia anche
questo non costituiva davvero una ragione per non occuparsi dell’evento, al
contrario, anche questo fatto avrebbe dovuto essere studiato meglio. Invece
se ne lasciò l’unica cura scritta al vecchio maestro del villaggio, certo nel suo
ufficio un uomo notevole, ma di capacità e insieme di preparazione che gli
rendevano poco possibile produrre un’approfondita e in seguito utilizzabile
descrizione, e ancor meno poi una spiegazione. Lo scrittarello fu stampato e
numerosamente venduto ai visitatori di allora, ebbe anche qualche
riconoscimento, ma il maestro era abbastanza saggio da rendersi conto che
le sue isolate fatiche senza alcun sostegno erano in fondo inutili. Se lui
nonostante ciò non desisté da esse e rese l’evento, nonostante che esso per
sua natura, anno dopo anno, divenisse sempre più senza speranza, il compito
della sua vita, ciò prova quanto grande era l’effetto che l’evento era in grado
di fare e d’altra parte quanta perseveranza e fedeltà alle proprie convinzioni si
possono trovare in un vecchio ignorato maestro di villaggio. Che lui tuttavia
abbia molto sofferto a causa degli atteggiamenti di rifiuto delle personalità
dotate d’influenza, lo prova una postilla che lui aggiunse al suo scritto, del
resto la prima dopo diversi anni, cioè in un’epoca nella quale giusto qualcuno
poteva ricordarsi di che cosa si fosse trattato. In tale postilla egli protesta
persuasivamente, forse non da storico, ma con schiettezza, per
l’incomprensione che gli è toccata da parte della gente, laddove se ne
sarebbe dovuta aspettare di meno. Di tale gente egli dice, in modo giusto:
“Non sono io, ma loro, a parlare come fanno i vecchi maestri di villaggio.” E
tra le altre cita l’osservazione di uno scienziato, da cui si è recato
appositamente per la cosa. Il nome dello scienziato è omesso, ma da svariati
dettagli si può indovinare di chi si tratti. Dopo che il maestro aveva superato
grandi difficoltà per ottenere d’essere ricevuto dallo scienziato, cui si era
annunciato con settimane d’anticipo, già dal saluto d’accoglienza fu chiaro
che lo scienziato era, riguardo all’evento, preda di un invincibile pregiudizio.
Con quale distrazione lo scienziato stette a sentire il lungo resoconto del
maestro, fatto sulla base del suo scritto, si manifestò nell’osservazione che
costui fece dopo alcune simulate riflessioni. “Certo ci sono svariate talpe,
piccole e grandi. Nella vostra regione il terreno è particolarmente duro e
scuro. Ora, esso per questa ragione dà alle talpe un’alimentazione
particolarmente grassa, ed esse diventano grandi in modo insolito.” “Sì’, ma
mica grandi così”, esclamò il maestro, e misurò, con il suo accanimento un
poco eccessivo, due metri dalla parete.”Sì, sì”, rispose lo scienziato, cui
l’intera faccenda pareva evidentemente molto spassosa, “perché no, in
fondo?” Il maestro tornò a casa con questa risposta. Racconta come di sera,
sotto una nevicata, lungo la strada provinciale sua moglie e i suoi sei figli
l’avessero atteso, e come lui dovette confessare loro il fallimento completo
delle sue speranze.

Quando io lessi del contegno tenuto dallo scienziato nei confronti del
maestro, non conoscevo ancora per niente il suo scritto. Ma senza indugio
presi la decisione sia di raccogliere sia di confrontare tutto quel che potevo
sapere sul caso. Poiché non potevo misurare un pugno in faccia allo
scienziato, almeno il mio scritto doveva difendere il maestro, o, per dir
meglio, non tanto il maestro quanto le buone intenzioni di un uomo onesto
ma privo di autorità. Lo ammetto, mi pentii presto di tale decisione, dato che
alla svelta mi resi conto che la sua messa in atto doveva portarmi in una
strana posizione. Da un lato anche la mia influenza era largamente
insufficiente a portare gli scienziati e perfino l’opinione pubblica dalla parte
del maestro, dall’altro il maestro doveva capire che a me il suo proposito
principale, dimostrare l’apparizione della grande talpa, premeva meno della
difesa della sua onestà, che a lui sembrava del resto ovvia e non bisognosa
di alcuna difesa. Si doveva arrivare dunque al punto che io, che pure
intendevo unirmi al maestro, non trovai da lui alcuna comprensione,
probabilmente invece, per giovargli, mi sarebbe servito un aiuto diverso, era
davvero incredibile il contegno del maestro. Oltre a ciò mi addossai, con la
mia decisione, una gran fatica. Avevo intenzione di essere convincente,
dunque non potevo richiamarmi al maestro, che certo non era riuscito ad
esserlo. La conoscenza del suo scritto mi avrebbe soltanto fuorviato, ed
evitai perciò di leggerlo prima di eseguire il mio proprio lavoro. Certo, non
entrai neppure una volta in contatto con il maestro. Tuttavia tramite
intermediari lui venne a sapere delle mie ricerche, ma ignorava se lavoravo
con o contro la sua idea. Certo, sospettava quest’ultima possibilità, per
quanto lo negasse, ma ho la prova che lui mi ha messo nel frattempo diversi
ostacoli sulla via. Poteva farlo molto facilmente, perché ero costretto, certo, a
ricominciare tutte le ricerche che lui aveva già condotto, e per questo lui
poteva sempre precedermi. Tale obbiezione era tuttavia l’unica che a ragione
si poteva fare al mio metodo, obbiezione del resto inevitabile, che però, certo,
per mezzo della cautela e della dissimulazione delle mie conclusioni, poteva
molto essere indebolita. A parte ciò, tuttavia, il mio scritto era libero da ogni
influsso del maestro, forse su questo punto avevo dato prova di perfino
troppa meticolosità, era davvero come se nessuno avesse fin lì studiato il
caso, come io fossi il primo che interrogasse i testimoni che avevano visto e
quelli che avevano sentito dire, il primo che confrontasse tra loro le
dichiarazioni, il primo che traesse conclusioni. Quando, successivamente,
lessi lo scritto del maestro – aveva un titolo assai prolisso: Una talpa così
grande come ancora nessuno l’ha vista - di fatto trovai che noi su punti
essenziali non concordavamo, anche se entrambi credevamo di aver provato
la cosa principale, cioè l’esistenza della talpa. Quelle divergenze sì erano
singole, ma ostacolarono la nascita di un rapporto amichevole con il maestro
che io veramente mi ero aspettato. Da parte sua si sviluppò quasi dell’ostilità.
Restava certo sempre misurato e ossequioso con me, ma il suo stato
d’animo autentico si poteva notare tanto più distintamente. Era dell’opinione
che io avessi danneggiato lui e danneggiato completamente la cosa, e che la
mia fiducia di aver giovato o di poter giovare ad essa fosse nel caso migliore
dabbenaggine, ma verosimilmente presunzione o perfidia. Per prima cosa
indicava a tale proposito che tutti i suoi oppositori finora non avevano
mostrato assolutamente la loro avversione, ma solamente a quattr’occhi o
almeno soltanto a parole, mentre io avevo ritenuto necessario far pesare
subito tutte le mie critiche. Che inoltre i pochi oppositori che si erano
occupati sul serio dell’evento, anche se solo superficialmente, avevano
ascoltato, prima di pronunciarsi, la sua opinione, l’opinione del maestro,
cioè quella nella fattispecie decisiva, che io invece avevo prodotto risultati,
sulla base di testimonianze raccolte in modo non sistematico e in parte
interpretate male, essenzialmente esatti, ma che dovevano certo sembrare,
tanto alla massa quanto alle persone istruite, inattendibili. La più tenue
apparenza d’inattendibilità era tuttavia il peggio che in questo caso poteva
darsi. In merito a tali obbiezioni, quand’anche copertamente avanzate, avrei
potuto rispondergli facilmente – per esempio che proprio il suo scritto
rappresentava il vertice dell’inattendibilità – meno facile tuttavia era
combattere il suo ulteriore sospetto, e questa era la ragione per cui mi
contenevo molto nei suoi confronti, soprattutto in generale. Egli cioè credeva
segretamente che io avessi voluto togliergli la gloria di essere il primo
patrocinatore pubblico della talpa. Ora, la sua persona non era toccata quasi
da nessuna gloria, ma piuttosto dal ridicolo, del resto limitato a una sempre
più ristretta cerchia e al quale io certo non desideravo aspirare. Inoltre io
avevo spiegato con chiarezza, nell’introduzione al mio scritto, che il maestro
doveva per sempre essere considerato lo scopritore della talpa – e tuttavia
non lo era neppure - e che soltanto il senso di partecipazione alla sorte del
maestro mi aveva spinto alla stesura dello scritto. “Il fine di questo scritto è”
– così concludevo in modo troppo patetico, ma corrispondente alla mia
passione di allora – “giovare alla meritata diffusione dello scritto del maestro.
Ciò conseguito, il mio nome, che è intrecciato alla presente vicenda in modo
solo transitorio ed esterno, poi deve senza indugio essere da essa
cancellato.” In questo modo respinsi apertamente ogni maggior
partecipazione alla cosa; era quasi come se avessi in qualche modo
presentito l’incredibile rimprovero del maestro. Ciò nonostante lui trovò in
questa presa di posizione il pretesto contro di me, e non nego che una traccia
di giustificazione, in quel che disse o forse accennò, era insita, così come mi
accorsi, soprattutto in certi casi, che lui sotto alcuni aspetti mostrava nei miei
confronti più acume che non nel suo scritto. Affermava cioè che la mia
introduzione era ipocrita. Se veramente tenevo alla diffusione del suo scritto,
perché non mi occupavo esclusivamente di lui e del suo scritto, perché non
indicavo la sua priorità, la sua inconfutabilità, perché non mi limitavo a
mettere in rilievo l’importanza della scoperta e a renderla comprensibile,
perché insistevo molto di più sulla scoperta e trascuravo completamente il
libro? Non era già stata fatta, la scoperta? Restava forse, stando a tale
sospetto, ancora qualcosa da fare? Ma, se io veramente ritenevo che la
scoperta fosse da fare di nuovo, perché nell’introduzione mi dichiaravo così
solennemente slegato dalla scoperta? Ciò avrebbe potuto essere ipocrita
modestia, ma era alquanto irritante. Mettevo fuori corso la scoperta,
richiamavo su di essa l’attenzione soltanto per annientarne il senso, l’avevo
esaminata e accantonata, forse intorno a quest’evento si era fatto un po’ più
silenzio, io ora facevo di nuovo del chiasso, ma nello stesso tempo rendevo
la situazione del maestro più difficile di quel che era mai stata. Al maestro
premeva soltanto ciò che significava per lui la difesa della reputazione
dell’evento, soltanto di quello. Tuttavia io la tradivo perché non lo capivo,
perché non ne davo la giusta valutazione, perché non ero sensibile ad esso.
Superava altissima il mio intelletto. Sedeva davanti a me e mi guardava calmo
con la sua vecchia faccia rugosa, ma la sua opinione era solo questa. Per
altro non era esatto che gli premesse solo l’evento, egli era addirittura
famelico di onori e desiderava anche guadagnare del denaro, ciò che, stando
alla sua numerosa famiglia, era comprensibilissimo, eppure il mio interesse
all’evento, in confronto al suo, gli sembrava così piccolo che credeva di poter
passare per disinteressato senza dire una menzogna troppo grande. In realtà
non bastava neppure intimamente a soddisfarmi se mi dicevo che i suoi
rimproveri in fondo risalgono al fatto che lui per così dire toccò con mano la
sua talpa, e vuole che chiunque le si avvicina anche solo con un dito sia
definito traditore. Non era così, la sua condotta non era spiegabile facendo
riferimento all’avarizia, almeno non solo all’avarizia, ma più facilmente
facendo riferimento alla rabbia che le sue grandi fatiche prive totalmente di
successo avevano suscitato in lui. Ma neppure la rabbia spiegava tutto. Forse
il mio interesse all’evento era davvero troppo scarso, il disinteresse del
mondo esterno nei confronti del maestro era già un’abitudine per lui, che nel
complesso soffriva meno, e non soffriva più di pene particolari, tuttavia a
questo punto aveva trovato uno che s’interessava all’evento in modo non
comune, eppure non lo capiva. Una volta, messo alle corde in tal senso, non
volli negare. Non sono mica uno zoologo, forse me ne sarei dato l’aria, tutto
infervorato per questo caso, se avessi fatto la scoperta, ma non ho fatto la
scoperta. Una talpa così enorme è certo una curiosità, ma non si può
pretendere l’attenzione ininterrotta del mondo intero sulla talpa, specie se la
sua esistenza non è del tutto ineccepibilmente accertata e non si può esibire.
E io garantii inoltre che mai, anche nel caso che ne fossi stato lo scopritore,
mi sarei tanto impegnato in merito alla talpa quanto volontariamente
m’impegnavo di buon grado per il maestro.

Ora, il disaccordo tra me e il maestro forse si sarebbe risolto presto se il mio


scritto avesse avuto successo. Ma tale successo mancò. Forse non era
buono, non era scritto in modo abbastanza persuasivo, io sono un
commerciante, la stesura di uno scritto del genere eccede il mio settore
abituale più estesamente di quanto non fosse il caso riguardante il maestro,
nonostante che io fossi superiore a lui in ogni conoscenza necessaria a tal
fine. L’insuccesso poteva spiegarsi anche diversamente, il momento
dell’uscita forse era sfavorevole. La scoperta della talpa, incapace di imporsi,
da un lato non era così lontana nel tempo da esser del tutto dimenticata e
dunque riproponibile come fatto straordinario con il mio scritto, dall’altro era
trascorso abbastanza tempo da esaurire completamente quel po’ d’interesse
che c’era stato all’inizio. Coloro che, d’altronde, si accostarono al mio scritto,
si dissero, con quello sconforto già da anni dominante in questa discussione,
che ora le vane fatiche su questo noioso evento obbligatoriamente sarebbero
certo riprese un’altra volta, e alcuni addirittura confusero il mio scritto con
quello del maestro. In un importante periodico di economia agraria si
leggeva la seguente nota, per fortuna stampata in piccoli caratteri e in fondo:
“Ci è stato inviato di nuovo lo scritto sulla talpa gigante. Ce ne ricordiamo,
già una volta anni or sono ne abbiamo riso di cuore. Da allora non è divenuto
più ragionevole, né noi più stupidi. Semplicemente, non riusciamo a riderne
per la seconda volta. Piuttosto domandiamo alle nostre associazioni
d’insegnanti se un maestro di villaggio non possa trovare un’occupazione più
utile che non quella di andare a caccia di talpe giganti.” Un’imperdonabile
confusione! Non si era letto né il primo né il secondo scritto, e le due
insufficienti parole acchiappate in fretta, talpa gigante e maestro di villaggio,
bastarono a quei signori per supplire alla manifestazione di più validi
interessi. Altrimenti varie cose si sarebbero potuto tentare con successo, ma
la scarsità d’informazione me ne tenne lontano alla pari del maestro. Tentai
bensì di tenergli nascosto il periodico per quel che potevo. Lui tuttavia lo
scoprì ben presto, lo capii già da un’osservazione contenuta in una sua
lettera con cui mi prospettava la sua visita durante le vacanze natalizie.
Scriveva: “Il mondo è malvagio e ladro”, dove voleva dire che io sono una
parte del mondo malvagio, ma non mi accontento della cattiveria insita in me,
invece rubo, cioè sono indaffarato a carpire la cattiveria generale e a
procacciarle la vittoria. Ora, io avevo già preso le necessarie decisioni,
potevo tranquillamente aspettarlo e star a vedere come veniva da me, lui
salutò in modo meno cortese del solito, si sedette muto davanti a me,
estrasse con cura il periodico dalla tasca interna della sua caratteristica
giacca imbottita di bambagia e me lo spinse davanti senza parole, aperto. “Lo
conosco”, dissi e respinsi il periodico senza leggere. “Lo conoscete”, disse
lui sospirando, aveva l’abitudine dei vecchi maestri di ripetere le risposte
altrui. “Naturalmente non accetterò questo senza difendermi”, continuò
picchiettando inquieto un dito sul periodico, e mi guardò con aria severa
come se io fossi dell’opinione contraria; aveva il giusto presentimento di quel
che volevo dire; ho ritenuto di far notare che lui, non tanto da quel che
diceva, quanto dagli altri segni, possedeva una sensibilità molto giusta ai
miei propositi, ma ad essa io non cedetti e la lasciai deviare. Ecco che cosa
dissi allora, posso riprodurlo quasi alla lettera perché l’ho annotato poco
dopo il colloquio.”Fate quel che volete”, dissi, “da oggi le nostre strade si
dividono. Credo che questo non vi risulti né inatteso né spiacevole. La nota
qui sul periodico non è la causa della mia decisione, essa l’ha consolidata
definitivamente. La vera ragione sta nel fatto che io all’inizio credevo con la
mia entrata in scena di potervi giovare, mentre ora sono costretto a vedere
che vi ho nociuto in ogni senso. Perché sia andata così, non lo so, le ragioni
del successo e dell’insuccesso sono sempre ambigue da spiegare, non mi
riferisco soltanto alle spiegazioni che mi accusano. Ricordatevi, anche voi
avevate le migliori intenzioni e tuttavia vi è andata male, parlando in generale.
Non sto scherzando, va contro di me se dico che anche il rapporto con me
contribuisce al vostro insuccesso; che io ora mi ritiri non è né viltà né
tradimento. Avviene addirittura con sforzo di autocontrollo; come stimi la
vostra persona risulta già nel mio scritto, mi siete divenuto, da un certo punto
di vista, maestro e perfino la talpa mi è divenuta cara. Nonostante questo mi
faccio da parte, voi siete lo scopritore e, mentre desideravo impegnarmi
anch’io, v’impedisco sempre d’incontrare la probabile gloria, attiro
l’insuccesso e ve lo trasmetto. Basta così. Per ammenda posso solo
chiedervi perdono e, se volete, la confessione fatta qui la ricapitolo
pubblicamente, per esempio, su questo periodico.” Queste furono allora le
mie parole, non erano del tutto sincere, ma la sincerità era facilmente
deducibile da esse. In lui ciò agì come più o meno avevo previsto. La maggior
parte delle persone anziane hanno caratterialmente qualcosa d’ingannevole
nei confronti dei giovani, qualcosa di falso, si continua a vivere
tranquillamente accanto a loro, si ritiene consolidato il rapporto, si
conoscono le opinioni prevalenti, si ricevono continue attestazioni d’armonia,
tutto si considera certo, e all’improvviso, se avviene qualcosa di decisivo,
mentre la calma fin lì predisposta doveva funzionare, queste persone anziane
insorgono come estranee, hanno opinioni più nette, più impetuose, ora
dispiegano la loro bandiera per la prima volta e vi si legge con sgomento il
nuovo motto. Principalmente tutto questo sgomento deriva dal fatto che ciò
che dicono ora gli anziani veramente è molto giustificato, sensato e, come se
la certezza fosse aumentata, è anche più certo. La falsità ineguagliabile
tuttavia è che quel che dicono ora essi in fondo lo hanno sempre detto,
eppure non era in genere prevedibile. Dovevo aver approfondito molto questo
maestro di villaggio, infatti ora non mi sorprese affatto. “Ragazzo”, disse,
appoggiò la mano sulla mia e amichevolmente la strofinò, “come vi venne in
mente di aver a che fare con questa cosa? Quando mi giunse all’orecchio la
prima volta ne parlai con mia moglie.” Si spostò dal tavolo, allargò le braccia
e guardò in basso, come se lì sotto, piccolissima, ci fosse sua moglie: “ ‘Così
tanti anni’, le dissi, ‘che noi combattiamo in solitudine, e ora invece sembra
sopraggiunto in città un protettore di rango più elevato, un commerciante del
posto, che si chiama così e così. Ora dovremmo essere assai felici, no? Un
commerciante in città non vuol dire poco, se un miserabile contadino crede in
noi e lo manifesta, questo non può giovarci, infatti quel che fa un contadino è
sempre volgare, sia che dica che il vecchio insegnante del villaggio ha
ragione, sia che sputi in modo sconveniente, entrambe le cose fanno lo
stesso effetto. Se invece di un contadino insorgono diecimila contadini,
l’effetto se possibile è anche peggiore. Un commerciante in città è al
contrario qualcosa di diverso, un uomo del genere ha delle relazioni, perfino
quel che dice solo per caso si diffonde in cerchie più larghe, nuovi protettori
s’interessano all’evento, per esempio uno dice che anche da un maestro di
villaggio si può imparare, ciò che il giorno dopo va mormorandosi una
quantità di persone dalle quali, a giudicare dalle apparenze, mai si sarebbe
supposto di dedurlo. Ora si trovano risorse in denaro per la cosa, uno
raccoglie e gli altri gli contano il denaro in mano, si ritiene che il maestro del
villaggio debba essere portato via di lì, si arriva, non ci si cura del suo
aspetto, lo si prende con sé e, poiché la moglie e i figli dipendono da lui, si
prendono anche loro. L’hai vista la gente di città? Cinguettano senza tregua.
Sono una fila intera e il cinguettìo va da destra a sinistra e viceversa, e su e
giù. Così ci issano cinguettando in carrozza, c’è appena il tempo di far
qualche cenno col capo. Il signore a cassetta si sistema gli occhiali,
brandisce la frusta e partiamo. Tutti accennano un saluto per congedarsi dal
villaggio, come noi fossimo ancora lì e non sedessimo tra loro. Dalla città ci
vengono incontro alcune carrozze di persone particolarmente impazienti.
Appena ci avviciniamo si alzano dai loro sedili e si allungano per vederci.
Colui che ha raccolto il denaro fa ordine ed esorta alla calma. Quando
entriamo in città la fila delle carrozze è già lunga. Abbiamo ritenuto che i
saluti siano già terminati, ma ora davanti all’albergo essi riprendono. Nella
città si riuniscono, come a un appello, molte persone. A ciò cui s’interessa
l’uno, s’interessa anche l’altro. Si strappano insieme al respiro le opinioni e le
fanno proprie. Non tutte queste persone possono viaggiare in carrozza,
aspettano davanti all’albergo. Altre possono, ma deliberatamente non lo
fanno. Aspettano anche loro. E’ incredibile come colui che ha raccolto il
denaro abbracci con lo sguardo tutti quanti.’ “

Lo avevo ascoltato tranquillamente ed ero divenuto sempre più tranquillo


durante il suo discorso. Sul tavolo avevo accumulate tutte le copie del mio
scritto a mia disposizione. Ne mancavano solo pochissime, perché negli
ultimi tempi per mezzo di una lettera circolare avevo chiesto la restituzione di
tutte le copie inviate e la maggior parte le avevo ricevute. Da molte parti mi
era stato scritto, del resto molto cortesemente, che non ci si ricordava affatto
di aver ricevuto uno scritto come il mio e che sfortunatamente si doveva
averlo perduto, se pure era arrivato. Anche così andava bene, in fondo non
desideravo altro. Solo uno mi pregava di poter tenere lo scritto come
curiosità e si impegnava, ai sensi della mia circolare, a non mostrarlo ad
alcuno per i prossimi venti anni. Il maestro del villaggio ancora non aveva
visto questa circolare, mi rallegrai che le sue parole mi rendessero tanto
agevole mostrargliela. Potevo farlo, ma, in caso contrario, senza
preoccuparmene, dato che nel redigerla avevo usato molta cautela e mai
avevo trascurato gl’interessi del maestro del villaggio e della cosa. Il tema
centrale della circolare suonava cioè: “Non chiedo la restituzione perché mi
sia in certo modo allontanato dalle opinioni sostenute nello scritto o perché
in alcune parti le consideri erronee o anche solo indimostrabili. La mia
richiesta ha ragioni solo personali, per quanto plausibili, essa non consente
tuttavia, circa la mia posizione in merito all’evento, le minime illazioni, sono a
pregarvi di prender nota particolare di questo e, se vi piace, anche di darne
diffusione.”

Questa circolare per il momento la tenni ancora coperta dalle mie mani e
dissi: “Volete rimproverarmi perché non è andata così? Perché volete far ciò?
Non amareggiamoci il distacco. E infine, provate a riconoscere che voi avete
certo fatto una scoperta, che però essa non oltrepassa tutto il resto e che,
perciò, neanche l’ingiustizia che vi tocca è un’ingiustizia che oltrepassa tutte
le altre. Non conosco le regole delle società scientifiche, ma non credo che vi
sarebbe stata predisposta un’accoglienza, anche nel caso più favorevole,
solo approssimativamente paragonabile a quella che avete descritto alla
vostra povera moglie. Se io stesso speravo qualcosa dallo scritto, credevo
che magari potesse attirare sulla cosa l’attenzione di un professore, il quale
avrebbe incaricato un giovane studente di seguirla, che questo studente
sarebbe venuto da voi e avrebbe controllato ancora una volta a modo suo le
vostre e le mie ricerche, e che alla fine, se l’esito gli fosse sembrato degno di
menzione - qui va ricordato che tutti i giovani studenti dubitano molto -,
avrebbe pubblicato un suo scritto nel quale ciò che voi avete riferito sarebbe
stato scientificamente giustificato. Tuttavia, anche nel caso che tale speranza
fosse stata soddisfatta, non molto sarebbe stato ancora ottenuto. Lo scritto
dello studente che avesse giustificato un caso così particolare forse sarebbe
stato messo in ridicolo. Guardate qui, come esempio, nel periodico di
economia agraria, come ciò accada facilmente, e i periodici scientifici sono
da questo punto di vista ancora più spietati. E’ anche comprensibile, i
professori hanno molte responsabilità nei confronti di se stessi, della
scienza, delle generazioni future, non possono vantarsi a ogni nuova
scoperta. Noialtri siamo in confronto a loro in vantaggio. Ma io ci rinuncio e
voglio ora ammettere che lo scritto dello studente si fosse imposto. Che cosa
sarebbe successo, allora? Il vostro nome sarebbe stato fatto qualche volta
con rispetto, probabilmente avrebbe giovato alla vostra posizione, si sarebbe
detto: “I nostri maestri di villaggio tengono gli occhi aperti”, e questo
periodico di economia agraria avrebbe dovuto chiedere scusa, se i periodici
avessero memoria e coscienza, si sarebbe trovato quindi anche un
professore di buona volontà allo scopo di favi ottenere uno stipendio, è
anche possibile che si sarebbe tentato di spostarvi in città, di procurarvi un
posto in una scuola elementare cittadina e di darvi occasione di utilizzare i
sussidi scientifici che la città offre per la vostra ulteriore formazione. Se devo
esser franco bisogna che dica che ciò si sarebbe soltanto tentato. Nel caso
che voi foste chiamato, che voi foste anche venuto, e certo come postulante
al pari delle centinaia che ce ne sono, senza tutta quell’accoglienza
grandiosa, che si fosse parlato con voi, che si fosse riconosciuta la vostra
ambizione, tuttavia si sarebbe visto allo stesso tempo che siete un uomo
anziano, che a quest’età iniziare studi scientifici è inutile, che voi per prima
cosa siete arrivato alla vostra scoperta più per caso che secondo un
programma, e che, a parte questo caso particolare, non vi si prevede di
nuovo operativo. Per queste ragioni vi si sarebbe lasciato certamente nel
villaggio. La vostra scoperta d’altra parte sarebbe stata portata avanti, perché
non è così modesta da esser dimenticata, una volta riconosciuta. Ma voi non
sareste venuto a saperne più molto, e ciò che avreste saputo lo avreste
capito appena. A ogni scoperta tocca di essere incanalata nella totalità delle
scienze e cessa per così dire di essere una scoperta, essa cresce
nell’insieme delle scienze e sparisce, è necessario possedere un occhio
scientificamente educato per riconoscerla dopo. Viene connessa a princìpi di
cui noi non sappiamo niente, e, nel corso delle dispute scientifiche, sulla
base di tali princìpi viene sollevata in alto fino alle nuvole. Vogliamo capirlo?
Se udissimo una disputa del genere, crederemmo magari che sia in questione
la scoperta della talpa, ma invece è in questione tutt’altra cosa.”

“Bene”, disse il maestro del villaggio, prese la sua pipa e cominciò a


riempirla del tabacco che portava con sé sciolto in tutte le tasche, “voi
volontariamente vi siete preso cura dello spiacevole evento e ora lo stesso
volontariamente vi ritirate. E’ tutto assolutamente giusto.” “Non sono
ostinato”, dissi io. “Trovate nella mia iniziativa forse qualcosa da criticare?”
“No, niente affatto”, disse il maestro, e la sua pipa già sbuffava. Non ne
sopportavo il puzzo e perciò mi alzai e mi mossi in giro nella stanza. Già da
precedenti conversazioni ero abituato al fatto che il maestro con me era assai
di poche parole e che, però, una volta venuto, non voleva andarsene. La cosa
mi aveva colpito, talvolta, avevo sempre pensato, di conseguenza, che
volesse qualcosa da me, e gli avevo offerto del denaro, che di regola lui
accettava. Ma era sempre andato via quando gli era garbato. Abituale era
quindi finir di fumare la pipa, girarsi sulla sedia, riaccostarla rispettosamente
al tavolo, afferrare il bastone nodoso appoggiato da una parte, tendermi la
mano con zelo, e andarsene. Oggi però il suo starsene lì seduto senza parole
mi dava noia. Se una buona volta a uno si propone il congedo definitivo,
come avevo fatto io, e tal congedo dall’altro è considerato del tutto giusto, e
poi si fa il poco che c’è da sbrigare il più possibile alla svelta, non si opprime
l’altro con la propria presenza silenziosa. Se da dietro si osservava come
sedeva al mio tavolo, il tenace vecchietto, si poteva credere che fosse
assolutamente impossibile cacciarlo dalla stanza. (Der Dorfschullehrer, 1915)

Un giovane studente ambizioso

Un giovane studente ambizioso, che s'era molto interessato al caso dei


cavalli di Elberfeld <nel 1912 tale Wilhelm von Osten si fece conoscere come
speciale addestratore di cavalli nella città di Elberfeld; fonte: Wikipedia> e
che aveva letto e meditato tutto quanto fosse stato pubblicato
sull'argomento, decise di sperimentare per conto suo nella stessa direzione
e di affrontare la cosa subito in tutt'altro modo e, secondo lui,
incomparabilmente meglio rispetto a coloro che lo avevano preceduto. Certo,
i suoi mezzi economici erano in sé inadeguati a permettergli di sperimentare
in modo significativo, e se il primo cavallo che lui intendeva acquistare si
fosse dimostrato testardo, cosa che anche faticando strenuamente poteva
esser stabilita solo dopo settimane, lui non avrebbe avuto per molto tempo
nessuna prospettiva di iniziare nuovi esperimenti. Eppure non se ne angosciò
in modo eccessivo, perché con il suo metodo, probabilmente, ogni caparbietà
poteva essere superata. Comunque, in conformità con la sua prudente
natura, calcolando la spesa che avrebbe sostenuto e i mezzi che lui poteva
procurare, procedé in modo totalmente pianificato. Fin lì i suoi genitori,
poveri negozianti di provincia, gli avevano inviato con regolarità ogni mese
l'importo di cui lui necessitava per il puro e semplice mantenimento durante
gli studi, un sostegno cui lui pensò di non rinunciare neppure per il futuro
nonostante che, com'è naturale, dovesse assolutamente smettere con gli
studi che i genitori da lontano seguivano con grandi speranze se voleva
pervenire all'atteso gran successo nel nuovo campo in cui ora sarebbe
entrato. Che i genitori capissero tali fatiche o addirittura che più o meno lo
aiutassero a farle, era impensabile, e dunque lui fu costretto, per quanto
fosse doloroso, a tacer loro le sue intenzioni e a lasciare che lo credessero
procedere regolarmente negli studi come aveva fatto fin lì. Ingannare i
genitori era soltanto uno dei sacrifici che intendeva imporsi al servizio della
cosa. Per coprire la spesa prevedibilmente grande che sarebbe stata
necessaria per le sue fatiche i soldi dei genitori non potevano bastare. Lo
studente perciò decise di impiegare subito la massima parte della giornata,
fin lì servita allo studio, a impartire lezioni private. La massima parte della
notte però doveva servire all'opera vera e propria. Lo studente scelse per
l'addestramento del cavallo le ore notturne non solo perché costrettovi dalle
sue relazioni esterne, non positive, ma anche perché i nuovi principi che lui
intendeva introdurre nell'addestramento del cavallo lo indirizzavano verso la
notte per svariati motivi. Anche la più breve distrazione dell'attenzione del
cavallo significava secondo lui un danno irrimediabile all'addestramento,
cosa da cui di notte si sentiva il più possibilmente al sicuro. L'irritabilità da
cui l'uomo e l'animale, quando vegliano e lavorano nella notte, vengono
afferrati, era secondo il suo progetto espressamente richiesta. Lui non
temeva come altri esperti la furia del cavallo, assai di più la esigeva, anzi la
provocava, certo non con la frusta, ma con lo stimolo della sua incessante
presenza, e dell'incessante addestramento. Sosteneva che nel corretto
addestramento dei cavalli non era dato che esistessero progressi parziali,
questi, vantati tanto negli ultimi tempi da svariati intenditori di cavalli, non
erano altro che prodotti della immaginazione dell'istruttore o peggio, il
chiaro segno che mai si sarebbe pervenuti a un progresso totale. Quanto a
lui da nulla desiderava guardarsi come dal conseguimento di progressi
parziali, la modestia dei suoi predecessori i quali ritenevano di essere arrivati
a qualcosa con la riuscita di piccoli pezzi di bravura in fatto di calcolo <era il
caso del cavallo di von Osten; fonte: Wikipedia>, a lui pareva
incomprensibile, era come se nell'ambito dell'istruzione dei bambini si
volesse puntare a inculcare nel bambino, senza considerare l'ipotesi della
sua cecità, sordità e insensibilità al mondo umano, le tabelline e nient'altro.
Tutto ciò era così folle, e gli errori degli altri istruttori di cavalli a lui
sembravano talvolta così spaventosamente netti, che arrivò a sospettare
quasi di se stesso, infatti era quasi impossibile che un singolo, per di più
privo di esperienza, spinto in avanti solo da una convinzione non verificata
eppur tuttavia profonda e addirittura furiosa, dovesse aver ragione a dispetto
di tutti i conoscitori.
(Ein junger ehrgeiziger Student, 1915?)

Blumfeld, uno scapolo anziano

Blumfeld, uno scapolo anziano, una sera saliva nel suo appartamento -
faticosa pena, infatti abitava al sesto piano. Durante la salita pensava come
spesso negli ultimi tempi che era davvero una noia quella vita tutta solitaria,
ora avrebbe dovuto far le scale come in segreto, arrivare di sopra nella sua
stanza vuota e ancora come in segreto avrebbe indossato la vestaglia,
acceso la pipa, letto un po’ il periodico francese cui già da qualche anno era
abbonato, sorseggiato un kirsch versato da lui stesso e alla fine, dopo una
mezz’ora, sarebbe andato a letto non senza prima rimettere completamente in
ordine lenzuola e coperte che la domestica, inaccessibile a ogni indicazione,
buttava lì secondo l'estro. Una qualche compagnia che assistesse alle cose
che lui faceva sarebbe stata assai benvenuta. Aveva già considerato l’ipotesi
di prendersi un cagnolino. Un animale così è piacevole, grato di ogni cosa e
fidato; un collega di Blumfeld ce l’ha, un cane così, che non fa amicizia con
nessuno che non sia il suo padrone, non l’ha visto da poco eppure lo
accoglie abbaiando forte per esprimere, è chiaro, la sua gioia di aver ritrovato
questo suo straordinario benefattore. D’altra parte una cane presenta anche
degli svantaggi. Anche se lo si tiene ben pulito, sporca la stanza. E’
assolutamente inevitabile, non si può, tutte le volte che il cane entra in
stanza, fargli il bagno nell’acqua calda, anche la sua salute ne soffrirebbe. Ma
Blumfeld non sopporta la sporcizia nella sua stanza, la cui nettezza per lui è
come indispensabile, diverse volte alla settimana litiga con la domestica, su
questo punto sfortunatamente non molto accurata. Dato che è dura
d’orecchio, lui la tira per un braccio in quei posti della stanza sui quali ha
qualcosa da ridire in fatto di pulizia. Con questo rigore ha ottenuto che nella
stanza l’ordine approssimativamente corrisponda al suo desiderio.
Introducendovi un cane è chiaro che invece Blumfeld porterebbe nella stanza
volontariamente lo sporco fin qui con tanto scrupolo tenuto lontano. Le pulci,
stabile compagnia dei cani, farebbero la loro comparsa. Una volta lì le pulci,
tuttavia, per lui prossimo sarebbe il momento di lasciare la sua gradevole
stanza al cane e di cercarne un’altra. Degli inconvenienti del cane la sporcizia
era solo uno, però. I cani si ammalano anche, e tuttavia nessuno in realtà
capisce le loro malattie. Quando poi questa bestia sta accucciata in un
angolo o arranca, guaisce, tossicchia, inghiottisce male, la si avvolge con
una coperta, le si soffia sul muso, la si smuove, le si dà il latte, in breve la si
assiste nella speranza che si tratti di un malanno passeggero, com’è anche
possibile, mentre invece può trattarsi di una malattia grave, ripugnante e
contagiosa. E anche se il cane rimane sano, dopo però invecchia, non si è
saputo decidere di dar via con tempestività il fedele animale, e poi viene il
momento in cui uno osserva la sua propria vecchiaia nei lacrimosi occhi del
cane. Ci si deve poi tormentare, e perciò pagar care le gioie di una volta, con
una bestia mezza cieca, debole di polmoni, quasi immobilizzata dal grasso.
Blumfeld lo terrebbe volentieri un cane, nello stesso modo desidera tuttavia
far le scale da solo per altri trenta anni, invece di essere seccato, più tardi, da
un vecchio cane del tipo che, gemendo più forte di lui stesso, gli si trascina
dietro di stanza in stanza.
Blumfeld dunque resterà solo, è certo, non ha mica le brame d’una vecchia
zitella che voglia aver vicino una creatura viva sottomessa da proteggere,
con cui poter essere affettuosa, servizievole, bastandole allo scopo una gatta,
un canarino o anche un pesciolino rosso. O che in alternativa sia allietata
perfino dai fiori alla finestra. Al contrario Blumfeld desidera soltanto una
compagnia, un animale di cui non debba importargli molto, che non sia
danneggiato da un’occasionale pedata, che all’occorrenza possa passare la
notte anche in strada, che però, se Blumfeld vuole, sia ugualmente a sua
disposizione abbaiando, saltando e leccandogli le mani. Blumfeld desidera
qualcosa del genere, ma visto che non può averlo senza troppi svantaggi,
come lui riconosce, allora ci rinuncia, eppure di tanto in tanto, in conformità
con la sua fondamentale natura, lui ritorna, come per esempio stasera, agli
stessi pensieri.
Di sopra, quando davanti alla porta della sua stanza lui si tira fuori di tasca la
chiave, un rumore che viene dall’interno lo colpisce. Un rimbalzare strano,
molto vivace, assai regolare. Dato che Blumfeld ha pensato proprio ai cani, il
rumore gli ricorda quello che le zampe fanno quando alternandosi colpiscono
il terreno. Ma le zampe non rimbalzano, non si tratta di zampe. Apre in fretta
la porta e accende la luce elettrica. A quel che vede non era preparato. Certo
è magia, due palline di celluloide, bianche a righe celesti, rimbalzano sul
parquet una accanto all’altra, su e giù, quando l’una colpisce il pavimento
l’altra sta in aria, e instancabili seguitano il gioco. Una volta, al ginnasio,
Blumfeld ha visto, durante un noto esperimento elettrico, saltare in modo
simile delle sferette, ma queste sono in confronto grandi, saltano in una
stanza vuota e nessun esperimento è in corso. Blumfeld si china per
osservarle meglio. Non c’è dubbio che si tratti di comuni palle che
verosimilmente ne contengono altre più piccole, quelle che producono il
rumore sbatacchiante. Blumfeld stende la mano nell’aria per appurare che
non siano appese a un filo, no, si muovono del tutto autonomamente.
Peccato che Blumfeld non sia un bambino piccolo, due palle di questo genere
sarebbero state per lui una gioiosa sorpresa, mentre ora l’intera cosa gli fa un
effetto sgradevole. Non è certo banale condurre, da ignorato scapolo, una
vita unicamente segreta, ora qualcuno, non importa chi, scoperto il segreto,
gli ha inviato queste due ridicole palle.
Ne vuol catturare una, ma quelle arretrano davanti a lui e lo attirano nella
stanza. „E’ veramente troppo stupido“, lui pensa, „correr dietro in questo
modo alle palle“, si ferma e osserva come rimangono nello stesso punto,
siccome l’inseguimento pare sospeso. „Cercherò di acchiapparle, però“,
pensa ancora, e veloce si muove verso di loro. Che subito scappano, ma
Blumfeld le sospinge allargando le gambe in un angolo e davanti a una
valigia riesce a catturarne una. Si tratta di una fredda pallina che gli si rigira
in mano, evidentemente bramosa di svignarsela. E l’altra, come se vedesse il
pericolo corso dalla compagna, balza più in alto di prima, allunga i salti fino a
toccare la mano di Blumfeld. Vi urta contro sempre più rapidamente, cambia il
punto di attacco, poi rimbalza ancora più in alto, visto che non riesce a
ottenere nulla contro la mano che racchiude l’altra palla, verosimilmente vuol
raggiungere Blumfeld al volto. Lui potrebbe acchiappare anche questa e
imprigionarle da qualche parte, ma lì per lì gli sembra umiliante adottare un
provvedimento simile contro due palline. Sì, è anche un passatempo
possedere due palle di questo genere, presto si stancheranno quanto basta,
rotoleranno sotto un armadio e staranno tranquille. Nonostante tale
riflessione Blumfeld scaglia con una certa rabbia la palla in terra, è un
portento che non si rompa il fragile, quasi trasparente, involucro di celluloide.
Senza transizione le due palle riprendono i loro bassi salti reciprocamente
sintonizzati.
Tranquillo, Blumfeld si spoglia, sistema l’abito nell’armadio, ha sempre
l’abitudine di controllare che la domestica abbia lasciato tutto in ordine. Una
o due volte si guarda oltre la spalla in direzione delle palle, che ora sembrano
addirittura disinteressate a incalzarlo, si trovano al suo seguito e dunque
saltano appena. Blumfeld indossa la vestaglia e intende attraversare la stanza
per prendere una delle pipe che si trovano appese al loro sostegno. Senza
volere dà una calcagnata indietro, prima di voltarsi, ma le palle riescono a
evitarla e non ne vengono colpite. Quando poi va a prendere la pipa le palle lo
seguono ancora, lui trascina le pantofole, compie passi irregolari, però ad
ogni suo appoggio del piede le palle quasi senza pausa fanno seguire un
battito, tengono il suo passo. Blumfeld si gira improvvisamente per vedere
come reagiscono. Ma non appena lui si è voltato quelle descrivono un
semicerchio e sono di nuovo dietro di lui; e la cosa si ripete ogni qual volta
lui si gira. Come accompagnatrici subordinate tentano di evitare di fermarsi al
suo cospetto. Fin qui probabilmente hanno solo osato prefigurarsi di essere
al suo servizio, ora lo hanno già iniziato.
Finora Blumfeld ha sempre, quando eccezionalmente con le sue forze non è
riuscito a dominare le situazioni, scelto il rimedio di far come se non si fosse
accorto di nulla. Spesso ciò è stato utile e nella maggioranza dei casi ha
prodotto dei miglioramenti. Anche stavolta si contiene così, sosta davanti al
portapipe, labbra arricciate, sceglie una pipa, la riempie in modo
particolarmente accurato tenendola dentro la borsa del tabacco già pronta, e
senza badarci lascia che le palle rimbalzino dietro di lui. Fermo, esita ad
andare al tavolo, udire il ritmo cadenzato dei balzi e dei suoi passi quasi lo
affligge. Così rimane sul posto, senza motivo riempie a lungo la pipa e studia
la distanza che lo separa dal tavolo. Tuttavia alla fine vince la sua debolezza e
copre il percorso a passi così pesanti da non udire le palle. Quando si siede,
del resto, quelle saltano dietro il seggiolone di nuovo udibili come prima.
Al di sopra del tavolo è fissata a portata di mano sulla parete una mensola su
cui si trova, contornata da minuscoli bicchieri, la bottiglia del kirsch. Accanto,
una pila di numeri del periodico francese. Ma invece di prendere quel che gli
serve, Blumfeld siede tranquillo e guarda dentro il fornello della pipa non
ancora accesa. E’ in agguato, a un tratto del tutto improvvisamente il suo
torpore cessa, e lui si gira con uno scossone insieme alla sedia. Ma anche le
palle sono attente nello stesso modo, se non seguono d’istinto la legge che le
governa, insieme alla giravolta di Blumfeld cambiano anch’esse di posto e gli
si nascondono alle spalle. Dunque Blumfeld siede con la schiena voltata al
tavolo, in mano la pipa fredda. Le palle saltano ora sotto il tavolo e si sentono
appena, infatti lì c’è un tappeto. Grande vantaggio; ora il rumore è
debolissimo, sordo, per udirlo ancora serve grande attenzione. Del resto
Blumfeld è attentissimo e le ode con precisione. Ma solo ora, tra un attimo
probabilmente non le sentirà più. Che possano rendersi così poco percepibili
sopra il tappeto, sembra a Blumfeld una loro grande debolezza. Gli si metta
sotto uno o anche meglio due tappeti, e quelle sono quasi impotenti. D’altra
parte solo per un dato tempo, e inoltre la loro mera esistenza significa già un
certo potere.
Ora a Blumfeld servirebbe davvero un cane, perché un giovane animale
selvaggio sarebbe adatto alle palle; e questo cane gli si rappresenta, come a
zampate le insegue, le sloggia da dove si trovano, come le incalza in lungo e
in largo e alla fine le tiene tra i denti. E’ facile che Blumfeld in futuro se ne
procuri uno.
Ma intanto le palle hanno da temere soltanto Blumfeld, che ha una certa
voglia di distruggerle, forse gli manca solo la forza di volontà. Torna la sera
stanco dal lavoro ed ecco che, dove la tranquillità è a sua disposizione, gli si
prepara questa sorpresa. Ora per la prima volta sente veramente la
stanchezza. Distruggerà certamente le palle nell’immediato futuro, per ora no,
probabilmente domani, sarà la prima cosa. Se si guarda oggettivamente tutto
quanto, le palle si comportano in modo abbastanza discreto. Per esempio
potrebbero saltar fuori, apparire e di nuovo tornare al loro posto, oppure
potrebbero saltare più in alto, per sbattere contro il piano del tavolo allo
scopo di compensare l’azione smorzante del tappeto. Ma non lo fanno, non
vogliono irritare Blumfeld, si limitano all’indispensabile, è chiaro.
D’altra parte anche questo indispensabile è sufficiente a guastare a Blumfeld
il piacere di stare al tavolo. Siede lì qualche minuto e già pensa che tra poco
andrà a dormire. Uno dei motivi di ciò è anche che dove si trova non può
fumare, infatti ha i fiammiferi sul tavolino da notte. Bisognerebbe prenderli,
dunque, ma una volta presso il tavolino è molto meglio rimanere lì e coricarsi.
A tale scopo ha anche un secondo fine, crede cioè che le palle nel loro cieco
tentativo di tenersi sempre dietro di lui salteranno sul letto e che poi lui,
coricandosi, le schiaccerà, volente o nolente. Respinge l’obbiezione che
anche i resti delle palle in certo modo potrebbero balzare. Anche l’inusitato
deve avere dei limiti. Le palle integre balzano o non balzano, al contrario
frammenti di palle non balzano mai, e neppure stavolta lo faranno.
„Uffa!“, prorompe, reso quasi temerario da tale riflessione, e marcia di nuovo
pesantemente verso il letto, dietro di lui le palle. La sua speranza pare
avverarsi; quando si ferma apposta vicinissimo al letto una palla subito vi
balza sopra. Ma avviene però l’inatteso, infatti l’altra palla si mette sotto il
letto. Alla possibilità che le palle possano rimbalzare anche sotto il letto
Blumfeld non ha affatto pensato. Con quest’unica palla è furioso, pur se
pensa che ciò è giusto, infatti rimbalzando sotto il letto la palla forse assolve
ancora meglio della palla sul letto il suo compito. Ora tutto dipende da quale
posto le palle si decidano a scegliere, infatti Blumfeld non crede che
possoano agire a lungo separatamente. E difatti un attimo dopo anche la
palla di sotto balza sul letto. „Ora le tengo“, pensa Blumfeld eccitato dalla
gioia, e si strappa la vestaglia di dosso per buttarsi sul letto. Tuttavia già la
medesima palla balza di nuovo sotto il letto. Smisuratamente deluso Blumfeld
ha un vero crollo. La palla probabilmente si è solo guardata intorno e non le è
piaciuto. Ora anche l’altra la segue e naturalmente resta di sotto, perché sotto
è meglio. „Ora avrò per tutta la notte questo tamburellare“, pensa Blumfeld,
stringe le labbra ed annuisce.
Ignorando di fatto dove le palle possano far danno durante la notte, lui
s’incupisce. Il suo sonno è ottimo, facilmente prevale sul rumore, quando è
modesto. Per averne la totale certezza mette sotto il letto due tappeti, una
questione d’esperienza. E’ come se avesse un cagnolino, cui volesse
preparare un giaciglio morbido. E quasi che le le palle siano a loro volta
stanche e assonnate, anche i loro balzi sono più bassi e più lenti di prima.
Quando Blumfeld s’inginocchia davanti al letto e con la lampada da notte fa
luce giù, crede che forse le palle resteranno posate sui tappeti, tanto
debolmente ricadono, tanto lente rotolano poco oltre. Poi però si risollevano,
ne hanno il dovere. Ma è facile che Blumfeld, se più avanti guarda sotto il
letto, ci trovi ferme due innocue palle da bambini.
Comunque pare che non possano reggere fino a domani con i rimbalzi, infatti
quando Blumfeld è disteso a letto non le sente più. Si sforza di sentire
qualcosa, chinato in fuori ascolta – niente. Tanta potenza i tappeti non
l’hanno, ciò si spiega solo con il fatto che le palle non saltano più, oppure
non riescono a staccarsi quanto basta dai morbidi tappeti, e perciò hanno
abbandonato provvisoriamente i balzi, ma è più probabile che non salteranno
mai più. Blumfeld potrebbe alzarsi per vedere come stanno veramente le
cose, ma nella sua soddisfazione per il fatto che alla fine c’è pace, preferisce
star disteso, neppure con lo sguardo vuole toccare le palle che si sono
placate. Rinuncia perfino volentieri a fumare, si gira sul fianco e si
addormenta subito.
Eppure non resta indisturbato; come d’altra parte sempre, il suo sonno è
molto agitato, anche stavolta senza sogni. Innumerevole durante la notte lo
spaventa l’illusione che qualcuno bussi alla porta. Sa con certezza che
nessuno bussa, chi potrebbe bussare di notte alla sua porta di scapolo
solitario? Nonostante che lo sappia con certezza, seguita a sussultare e a
guardare per un attimo verso la porta in preda all’eccitazione, a bocca aperta,
gli occhi sbarrati, mentre a ciocche i capelli gli si scompigliano sulla fronte
madida. Tenta di contare quante volte si sveglia, ma l’enormità che ne risulta
lo tramortisce, e ricade nel sonno. Crede di sapere da dove proviene quel
bussare, non è dalla porta che ha origine, ma da un posto totalmente diverso,
però lui, nella confusione del sonno, non può ricordarsi dove si basino le sue
supposizioni. Sa solo che numerosi minimi nauseanti colpi si accumulano
prima di produrre il gran poderoso bussare. Sarebbe tuttavia disposto a
sopportare l’intera nausea dei colpetti se riuscisse a evitare il bussare, ma
per qualche motivo il bussare ritarda e lui non può farci niente, il bussare non
è immancabile.
L’indomani lo desta quello della domestica, con un sospiro di sollievo lui
saluta questo tranquillo bussare della cui impercettibilità si è sempre lagnato.
E vuol già gridare „avanti“, quando sente anche un altro bussare vivace, per
quanto debole, ed apertamente bellicoso. Si tratta delle palle sotto il letto. Si
sono svegliate, han raccolto, contrariamente a lui, nuove energie durante la
notte? „Subito“, esclama Blumfeld in direzione della domestica, si leva sul
letto, ma con tanta cura da tenere le palle dietro di sé, salta sul pavimento
sempre voltando loro la schiena, abbassa il capo e guarda – gli scapperebbe
un’imprecazione. Come bambini che durante la notte respingano coperte
fastidiose, le palle hanno spinto in fuori i tappeti da sotto il letto, a forza di
piccole convulsioni durate l’intera notte, al punto che di nuovo sotto di loro
il parquet è libero, e possono fare chiasso. „I tappeti a posto, avanti“, dice
Blumfeld con una faccia cattiva. Subito, quando le palle, grazie ai tappeti,
sono ridiventate silenziose, grida alla domestica di entrare. Mentre costei,
una donna grassa, ottusa, che cammina sempre rigidamente eretta, sistema
sul tavolo la colazione e fa quelle poche cose utili che servono, Blumfeld, per
mantenere le palle nella loro posizione sotto il letto, vi rimane vicino
immobile in vestaglia. Segue con lo sguardo la domestica per capire se lei
nota qualcosa. Data la sua debolezza d’udito ciò è assai improbabile, e
Blumfeld attribuisce alla sua propria sovreccitazione causata dal cattivo
sonno che, invece, creda di vedere la domestica fermarsi qua e là, trattenersi
presso qualche mobile, e restare in ascolto con le sopracciglia alzate.
Sarebbe lieto di riuscire a indurre la domestica ad accelerare un po’ il suo
lavoro, ma lei è quasi più lenta del solito. Meticolosamente si carica degli abiti
e degli stivali di Blumfeld e se ne va in corridoio, resta fuori a lungo, di qua
risuonano monotoni e intervallati i colpi con cui lei scuote gli abiti. E durante
tutto questo tempo Blumfeld deve resistere, non può muoversi se non vuole
attirare dietro di sé le palle da sotto il letto, è costretto a far freddare il caffè
che lui beve tanto volentieri il più caldo possibile, e non può far altro che
fissare la tenda abbassata, dietro la cui finestra si sveglia opaco il giorno.
Finalmente la domestica ha finito, augura il buon giorno e sta per andarsene.
Ma prima di farlo definitivamente continua a stare sulla porta, muove un poco
le labbra e osserva Blumfeld con lunghe occhiate. Blumfeld sta per
chiedergliene conto, quando lei alla fine se ne va. In particolar modo Blumfeld
vorrebbe spalancare la porta e gridarle dietro che razza di donna stupida,
vecchia e ottusa lei sia. Quando però ci pensa, a che cosa di particolare lui
abbia da obbiettarle contro, trova solo l’assurdità che lei senza dubbio non ha
notato alcunché, ma voleva darsi l’aria di aver notato qualcosa. Come sono
imbrogliati i suoi pensieri! E ciò solo a causa di una notte mal dormita! Al
sonno cattivo trova solo la spiegazioncella di essere stato ieri sera
allontanato dalle sue abitudini, non ha fumato né bevuto il liquore. „Quando
non fumo e non bevo il liquore, dormo male“, questo il risultato della sua
riflessione.
Da ora in poi starà attento alla sua salute, comincia con il prendere dalla sua
farmacia domestica appesa sopra il tavolino da notte l’ovatta e se ne preme
due pallottoline nelle orecchie. Quindi si alza e fa un passo di prova. Sì, le
palle lo seguono, ma lui quasi non le sente, un rinforzo di ovatta le rende del
tutto impercettibili. Blumfeld fa ancora qualche passo, funziona abbastanza.
Ognuno per conto suo, sia Blumfeld che le palle, certo un collegamento
reciproco c’è, ma senza disturbi. Soltanto in un caso, quando Blumfeld si
volta più svelto, una palla non riesce a fare rapidamente la contromossa, e lui
la urta con un ginocchio. E’ l’unico imprevisto, intanto Blumfeld beve
tranquillamente il caffè, ha fame come se stanotte non avesse dormito, ma
avesse avesse fatto un lungo cammino, si lava con acqua fredda, rinfrescante
in sommo grado, e si veste. Finora non ha tirato le tende, prudenzialmente è
rimasto nella penombra, non gli serve che un occhio estraneo veda le palle.
Tuttavia, poiché ora è pronto ad andarsene, deve in qualche modo
provvedere a che le palle non osino – lui non lo crede - seguirlo in strada. A
tal fine ha una buona trovata, apre l’armadio e ci si mette davanti di schiena.
Come se le palle presentissero quel che viene progettato, si tengono lontane
dall’interno, sfruttano ogni minimo spazio rimasto tra Blumfeld e l’armadio, al
più ci saltano dentro per un attimo, si ritirano di nuovo davanti al buio, non
c’è modo di tirarle dentro da dietro lo spigolo, preferiscono violare il loro
impegno e si tengono quasi di lato rispetto a Blumfeld. Ma le loro furbiziole
non possono aiutarle per nulla, perché adesso è lo stesso Blumfeld che
monta all’indietro nell’armadio, cosicché devono seguirlo senza meno. E ciò
è decisivo per le palle, tuttavia i numerosi oggetti che si trovano sul fondo
dell’armadio, stivali, scatole valigette, tutto in ordine – e Blumfeld ora lo
deplora – fanno loro da impedimento. E non appena Blumfeld, che intanto ha
quasi chiuso lo sportello dell’armadio, con un balzo da anni inusitato se ne
stacca e lo chiude con forza a chiave, le palle sono imprigionate. „Questa è
fatta“, pensa Blumfeld, asciugandosi il sudore sul viso. Come strepitano le
palle dentro l’armadio! Sembrano disperate. Invece Blumfeld è molto
contento. Lascia la stanza e già il corridoio vuoto gli fa bene. Libera le
orecchie dall’ovatta e lo estasiano i molti rumori delle case che si svegliano.
Poche persone si vedono, ancora è molto presto.
Giù nell’androne, davanti all’usciolino che dà nel sottosuolo dove abita la
domestica, c’è suo figlio minore, dieci anni. Un ritratto di sua madre, in
questo viso di fanciullo nessuna bruttezza di lei è stata tralasciata. Gambe
storte, le mani in tasca, sta lì e ansima, ha già il gozzo e può fare solo respiri
pesanti. Ma mentre di solito Blumfeld, se il piccolo gli capita tra i piedi,
allunga il passo per risparmiarsene la vista più che può, oggi vorrebbe quasi
trattenercisi. Anche se è stato messo al mondo da quella donna e si porta
tutti i segni della sua origine, è pur sempre un fanciullo, ha in testa pensieri
da bambino, a parlargli in modo comprensibile, a chiedergli qualcosa, forse
risponderà con voce chiara, innocente e rispettosa, e si potrà anche, con un
certo sforzo, accarezzargli le guance. Blumfeld pensa questo, però passa
oltre. In strada si accorge che il tempo è più sereno di quel che lui ha pensato
quando era al chiuso. Le nebbie mattutine si diradano e appaiono spicchi di
cielo spazzati dal vento poderoso. Blumfeld è grato alle palle di essere uscito
molto prima del solito, ha dimenticato addirittura sul tavolo il giornale, senza
leggerlo, comunque ha guadagnato molto tempo e ora può camminare piano.
E’ degno di nota quanto poca preoccupazione gli rechino, ora che le ha
isolate da sé. Fintanto che gli stavano dietro, si potevano considerare
attinenti a lui, si poteva scambiarle per qualcosa che dovesse comportare in
certo modo un giudizio sulla sua persona, ora invece sono un giocattolo
dentro l’armadio, in casa. E viene in mente a Blumfeld a questo punto che lui
potrebbe renderle innocue destinandole al loro scopo vero e proprio. Lì
nell’androne c’è ancora il piccolo, Blumfeld gliele regalerà, mica gliele
presterà, per dirne una, al contrario gliele regalerà espressamente, cioè ne
ordinerà la distruzione. E seppure dovessero restare integre, in mano al
piccolo rappresentaranno anche meno che non dentro l’armadio, tutto il
casamento vedrà come lui ci gioca, altri fanciulli si uniranno, l’opinione
generale che il caso sia quello di palle giocattolo e non, per dire, di compagne
di vita di Blumfeld, diverrà ferma ed irresistibile. Blumfeld rientra di corsa. Il
piccolo è già sceso nel sottosuolo ed è intenzionato ad aprirne la porta.
Blumfeld deve dunque chiamarlo e pronunciarne il nome, ridicolo come tutto
quello che sta in rapporto con lui. Lo fa. „Alfred, Alfred“, grida *. Il piccolo
esita alquanto. „Vieni, su“, grida Blumfeld, „ ti do una cosa“. Le due
ragazzine del portinaio sono uscite dalla loro porta, e si piazzano incuriosite
una alla destra, l’altra alla sinistra di Blumfeld. Sono molto più svelte di
comprendonio dell’altro, non capiscono perché non viene. Gli fanno segno
senza smettere di guardare Blumfeld, ma non riescono a coglier quale egalo
aspetti Alfred. Sono tormentate dalla curiosità e saltellano da un piede
all’altro. Blumfeld ride tanto di loro quanto del piccolo. Questi pare che
finalmente abbia capito tutto e rifà le scale, rigido e pesante. Neppure
nell’andatura si differenzia da sua madre, che d’altro canto appare già sulla
porta del sottosuolo. Blumfeld alza molto la voce, ragion per cui anche la
domestica lo intende e controlla l’esecuzione del suo comando, ammesso
che ciò sia necessario. „Ci sono su nella mia stanza“, dice Blumfeld, „due
palle meravigliose. Le vuoi?“ Il piccolo si limita a storcere la bocca, non sa
come comportarsi, si volta e guarda sua madre interrogativo. Ma anche le
ragazzine cominciano a saltellare attorno a Blumfeld e lo pregano di averle
loro le palle. „Anche voi ci potrete giocare“, dice Blumfeld, però aspetta la
risposta del piccolo. Potrebbe anche regalarle a loro, ma gli sembrano troppo
disinvolte, lui ora ha più fiducia nel piccolo. Questi intanto si è consultato
senza parole con sua madre e annuisce quando Blumfeld gli rinnova la sua
domanda. „Allora sta’attento“, dice Blumfeld, che senza difficoltà riconosce
che nessuno ora lo ringrazierà del suo dono, „la chiave della mia stanza devi
fartela dare da tua madre, ora ti do la chiave dell’ armadio, le palle si trovano
lì. Richiudi con cura l’armadio e la stanza. Ma con le palle puoi farci quel che
vuoi e non devi restituirmele. Hai capito?“ Il piccolo però non ha capito,
sfortunatamente. Blumfeld ha voluto spiegare ogni cosa, a questa creatura
sconfinatamente lenta di comprendonio, nei dettagli, ma per far ciò ha
continuato a ripetere tutto troppe volte, troppe volte insistendo sulle chiavi, la
stanza, l’armadio, ragion per cui il piccolo lo fissa non come un donatore, ma
come un malintenzionato. Le ragazzine invece hanno capito tutto, si
stringono a Blumfeld e protendono le mani per la chiave. „Calma, via!“, dice
Blumfeld, e si stizzisce con tutti e tre. Tanto più che il tempo passa, non può
trattenersi ancora. Magari la domestica finalmente avesse la bontà di dire che
ha capito e che ogni cosa sarà sbrigata come dovuto per il piccolo. Invece
quella rimane giù sulla porta, sorride con affettazione, da sordastra in
imbarazzo, forse crede che Blumfeld sia andato all’improvviso in estasi per
suo figlio e gli risenta le tabelline. Blumfeld però non può scendere le scale
del sottosuolo e ripetere urlando all’orecchio della domestica la sua richiesta
che, dio santo, il suo bambino possa liberarlo dalle palle. Si è sforzato già
abbastanza a voler affidare a questa famiglia la chiave del suo armadio per un
giorno intero. Per non risparmiarsi, porge ora la chiave al piccolo, piuttosto
che condurlo su di persona e consegnargli le palle. Il fatto è che lui di sopra
non può prima regalare le palle e poi, com’è prevedibile che succeda,
tirarsele dietro come scorta e riprenderle al ragazzo . „Allora, non mi
capisci?“ - domanda Blumfeld quasi con tristezza, dopo che, disposto a una
nuova spiegazione, la ha troncata di fronte allo sguardo vuoto del piccolo. Un
tale sguardo vuoto ti disarma. Potrebbe perfino sedurti, se non è, a dirlo, un
riempitivo troppo intelligente di questo vuoto.
„Noi le palle gliele piglieremo“, gridano le ragazzine. Sono maliziose, hanno
capito che possono averle solo con una qualche intercessione del bambino,
ma che devono ancora ottenerne una. Nella stanza del portinaio il rintocco
dell’orologio sollecita Blumfeld a sbrigarsi. „Allora eccoti la chiave“, dice,
premendola nella mano del bambino, più che non consegnandogliela. Se
gliela avesse data, invece, la certezza sarebbe stata incomparabilmente
maggiore. „La chiave della stanza prendila giù dalla signora“, ripete Blumfeld,
„e quando torni con le palle devi darle entrambe le chiavi.“ „Sì, sì“, gridano le
ragazzine, e corrono giù. Sanno tutto, proprio tutto, e, come se Blumfeld
fosse contagiato dalla lentezza di comprendonio del piccolo, ora neanche lui
capisce come loro possano aver capito tanto alla svelta la sua spiegazione.
Giù di sotto ora quelle si attaccano all’abito della domestica strattonandola,
ma Blumfeld non riesce, eppure gli piacerebbe, a vedere meglio come
eseguiranno il suo ordine, e certo non solo perché si è fatto tardi, ma
chiaramente perché non vuole esserci, quando le palle verranno allo
scoperto. Addirittura di qualche strada, vuole essersi allontanato, quando le
ragazzine di sopra apriranno la porta della sua stanza. Mica lo sa, che cosa
ancora può aspettarsi dalle palle! E così esce per la seconda volta,
stamattina. Ha anche visto come la domestica di fatto si difende dalle
ragazzine e come il piccolo mulina le sue gambe storte correndo in aiuto della
madre. Blumfeld non comprende perché vengano al mondo e si riproducano
persone come la domestica.
Sulla strada per la fabbrica di biancheria dove Blumfeld ha un impiego i
pensieri del lavoro hanno pian piano la meglio su tutto il resto. Accelera i
passi e nonostante il ritardo che il bambino ha causato arriva in ufficio per
primo. Si tratta di un piccolo spazio coperto di vetro, contiene una scrivania e
due scrittoi senza sedia per i praticanti alle dipendenze di Blumfeld.
Nonostante che questi scrittoi senza sedia siano così piccoli e ridotti, come
fossero destinati a degli solaretti, nell’ufficio ci si stringe molto - i praticanti
non hanno il permesso di star seduti perché poi per la sedia di Blumfeld non
ci sarebbe più posto. Così restano tutto il giorno pressati sui loro scrittoi.
Certamente per loro è molto scomodo, ma con ciò a Blumfeld risulta difficile
tenerli sott’occhio. Si stringono spesso con zelo ai loro scrittoi, ma forse non
per lavorare, piuttosto per bisbigliare o perfino per appisolarsi. Blumfeld ce
l’ha parecchio con loro, non lo aiutano per niente a quel che serve nel lavoro
enorme che gli tocca. Tale lavoro consiste in questo, lui si occupa di tutta la
distribuzione di merce e denaro alle lavoratrici a domicilio impiegate dalla
fabbrica per la produzione di capi in certo modo più raffinati. Per poter
valutare la quantità di questo lavoro occorre avere una visione precisa in ogni
direzione. Nessuno tuttavia ha più tal visione da quando, anni prima,, il
diretto superiore di Blumfeld è morto, anche per questo Blumfeld non può
riconoscere ad alcuno il diritto di giudicare il suo lavoro. Per esempio
l’industriale signor Ottomar palesemente sottovaluta il lavoro di Blumfeld,
com’è naturale riconosce i meriti che Blumfeld ha acquisito nella fabbrica nel
corso di vent’anni, non solo per dovere ma anche per la stima che ha di
Blumfeld come uomo fedele e degno di fiducia; tuttavia sottovaluta il suo
lavoro, crede infatti che esso possa essere organizzato in modo più semplice
e perciò da ogni punto di vista più vantaggioso di come Blumfeld fa. Si dice, e
forse ciò è credibile, che Ottomar si mostri così di rado nella sezione di
Blumfeld, per risparmiarsi il fastidio in lui provocato dalla vista del suo modo
di lavorare. Essere così disconosciuto è certo per Blumfeld una cosa triste,
ma non ci si può far niente, infatti lui non può obbligare Ottomar a restare
magari un mese ininterrottamente nella sua sezione a studiare la natura
complessa del lavoro che vi si sbriga, ad applicare i suoi propri metodi,
definiti migliori, e a farsi persuadere da Blumfeld, previa l’inevitabile
conseguente rovina della sezione. Perciò Blumfeld svolge con la solita
fermezza il suo lavoro, un po’ spaventato se una volta ogni tanto compare
Ottomar, in tal caso tuttavia, per senso del dovere di subordinato, fa un
debole tentativo di spiegare a Ottomar questo o quel provvedimento in merito
al quale Ottomar annuisce senza alzare gli occhi andando oltre, e lui soffre
meno per tale disconoscimento, del resto, che a causa del pensiero che, se
dovrà dimettersi dal suo posto, l’immediata conseguenza sarà un gran
disordine non risolvibile da alcuno, infatti lui non conosce alcuna persona
nella fabbrica che potrebbe sostituirlo e prendere in consegna il suo posto in
modo da evitare mesi di gravi blocchi produttivi. Se il capo sottovaluta
qualcuno naturalmente gli impiegati cercano da parte loro se possibile di
schiacciarlo. Ciò svaluta di conseguenza ogni sforzo di Blumfeld, nessuno
ritiene necessario alla sua formazione lavorare per un periodo di tempo con
Blumfeld, e, se sono assunti nuovi impiegati, nessuno vuole essere destinato
a Blumfeld. Ecco perché nella sezione di Blumfeld mancano nuove leve.
Settimane di durissima battaglia vi furono, quando Blumfeld, che fin lì si era
occupato di tutto completamente da solo, aiutato da un inserviente e basta,
chiese l’assistenza di un praticante. Quasi tutti i giorni compariva nell’ufficio
di Ottomar e gli spiegava in modo tranquillo e dettagliato perché gli fosse
necessario un praticante. Non perché volesse risparmiarsi, non voleva
risparmiarsi, lui lavorava la sua parte e anche di più e non pensava di
smettere, ma il signor Ottomar avrebbe dovuto solo considerare quanto
l’impegno nel corso del tempo fosse aumentato, tutte le sezioni si erano
ingrandite, solo quella di Blumfeld veniva sempre dimenticata. E in effetti lì il
lavoro quanto era cresciuto! Ai tempi dell’entrata di Blumfeld in fabbrica,
certo il signor Ottomar non poteva ricordarsene, lì si aveva a che fare circa
con una decina di cucitrici, ora il loro numero era salito a più di cinquanta. Un
impegno simile richiedeva energia. Blumfeld poteva garantire che lui ci si
consumava completamente, ma non avrebbe potuto più garantire di poter da
ora eseguirlo. Ora, certo il signor Ottomar non rifiutava mai del tutto le
richieste di Blumfeld, non poteva far questo ai danni di un vecchio impiegato,
ma il modo che aveva di ascoltare appena, di parlare con altre persone
mentre Blumfeld lo pregava, di fare mezze promesse e di dimenticare tutto
nel giro di pochi giorni – ciò era assai offensivo. Non per Blumfeld, Blumfeld
non è affatto un tipo grandioso, è uno tutto dignità e consenso, può sentirne
la mancanza, resterà tuttavia al suo posto tanto a lungo comunque vada,
infatti lui sta dalla parte della ragione e alla fine la ragione deve ottenere il
consenso, anche se capita che serva molto tempo. E così nei fatti certamente
Blumfeld ha avuto addirittura due praticanti, ma che razza di praticanti! Si
sarebbe potuto credere che Ottomar avesse valutato di poter dimostrare il
suo disprezzo per la sezione di Blumfeld tramite la concessione dei praticanti
ancor meglio che negandoli. Era perfino possibile che Ottomar avesse fin lì
tenuto a bada Blumfeld per la ragione che era alla ricerca di due praticanti del
genere e per molto tempo non era riuscito a trovarli, com’era comprensibile.
E ora Blumfeld non poteva lagnarsi, la replica era senz’altro prevedibile,
aveva avuto due praticanti pur avendone richiesto uno soltanto; così tutto era
stato ordito abilmente da Ottomar. Certo che Blumfeld si lagnava, ma solo
perché era davvero messo alle strette dalla difficoltà della sua situazione, non
perché ancora si aspettasse un rimedio. Non si lagnava neppure con vigore,
piuttosto solo per inciso, presentandoglisi l’occasione adatta. Ciò nonostante
si diffuse presto tra i colleghi malevoli la voce che qualcuno avesse chiesto a
Ottomar se fosse mai possibile che Blumfeld, che pure aveva ricevuto un così
straordinario aiuto, continuasse a lagnarsi. E che Ottomar avesse risposto
che era così, che Blumfeld continuava a lagnarsi, ma a ragione. Che lui,
Ottomar, alla fine ne avrebbe tenuto conto, e che avesse l’intenzione di
assegnare un po’ alla volta a Blumfeld un praticante per ogni cucitrice, quindi
più di cinquanta in tutto. Non fossero bastati, ne avrebbe disposti ancora di
più e non avrebbe smesso prima del perfezionamento del manicomio che già
da anni si era sviluppato nella sezione di Blumfeld. Il linguaggio di Ottomar, in
quest’osservazione, risultava ben imitato, ma lui, Blumfeld non ne dubitava,
era lungi dall’esprimersi su Blumfeld anche soltanto in un modo simile a
quello. Era tutta un’invenzione del fannullone dell’uffico al primo piano,
Blumfeld la ignorava, avesse potuto ignorare con la stessa tranquillità la
presenza dei praticanti! Stavano lì e non erano più eliminabili. Pallidi
ragazzini deboli. Stando alle carte potevano aver raggiunto l’età
postscolastica, di fatto non si riusciva a crederlo. Non si avrebbe avuto voglia
certo di affidarli neppure a un insegnante, tanto era chiara la loro permanenza
nel mondo materno. Non erano ancora in grado di muoversi con razionalità,
specie nei primi tempi stare a lungo in piedi li stancava parecchio. Se non li si
teneva d’occhio si afflosciavano nella loro debolezza, stavano chinati e storti
da una parte. Blumfeld tentava di render loro noto che sarebbero rimasti
storpi per tutta la vita, se avessero sempre ceduto in questo modo alla
comodità. Dar loro un piccolo compito era rischioso, una volta uno era
riuscito a fare appena due passi, troppo zelantemente era corso e si era ferito
un ginocchio contro lo scrittoio. La stanza era piena di cucitrici, gli scrittoi di
merce, ma Blumfeld aveva trascurato ogni cosa per portare il praticante in
lacrime nell’ufficio e applicargli una piccola benda. Tuttavia anche questo
zelo dei praticanti era solo esteriore, volevano talvolta mettersi in mostra
come dei veri ragazzini, ma anche molto più spesso o meglio quasi sempre
volevano solo ingannare l’attento superiore e imbrogliarlo. Al tempo del più
gran lavoro, sudando li aveva sorpresi e aveva visto che loro, nascosti in
mezzo ai sacchi di merce, scambiavano le etichette. Avrebbe voluto
prendereli a pugni in testa, per un comportamento simile sarebbe stata
l’unica possibile punizione, ma erano ragazzini, Blumfeld mica poteva
ammazzare dei ragazzini. E così continuava a tormentarsi. Sulle prime si era
immaginato che i praticanti l’avrebbero assistito dandogli subito quella mano
che, al momento dello smistamento della merce, serviva per tanta fatica e
attenzione. Aveva pensato che si sarebbe piazzato al centro dietro lo
scrittoio, cose del genere, che avrebbe mantenuto la visione d’insieme su
tutto e si sarebbe curato della registrazione, mentre i praticanti ai suoi ordini
sarebbero corsi qua e là e avrebbero eseguito le suddivisioni. Si era
immaginato che la sua sorveglianza, seppur penetrante, potesse non bastare
a fronte di un ammucchiamento del genere, per mezzo dell’attenzione dei
praticanti sarebbe divenuta perfetta, e che questi praticanti un po’ alla volta
avrebbero accumulato esperienze, non sarebbero rimasti unicamente
dipendenti dal suo comando e alla fine avrebbero anche imparato a
distinguere le cucictrici l’una dall’altra, ciò che la richiesta delle merci e la
sua affidabilità richiedeva. Su questi praticanti erano state poste speranze
completamente a vuoto, presto Blumfeld si accorse che soprattutto non
poteva farli trattare con le cucitrici. Da alcune infatti neppure all’inizio erano
andati, i praticanti, perché ne avevano avuto timore oppure erano rimaste loro
antipatiche, invece erano corsi incontro ad altre, le preferite, spesso fin sulla
porta. A queste portavano solo quel che volevano, per quanto le cucitrici
fossero autorizzate alla presa in consegna della merce gliela premevano in
mano con una sorta di segretezza, accumulavano in una scansia vuota, in
vista di tale favoritismo, numerosi ritagli, scampoli senza valore, nonnulla pur
sempre utilizzabili, ammiccavano loro da dietro le spalle di Blumfeld, già a
distanza in sollucchero, e per questo venivano rimpinzati di bonbon.
Blumfeld mise del resto velocemente fine a questo disordine e li spingeva, se
venivano le cucitrici, nello scomparto a vetri. Non finiva lì, quelli prendevano
la cosa per una grave ingiustizia, opponevano resistenza, rompevano
apposta le penne e picchiavano con forza, non osando per altro alzare la
testa, sulle lastre di vetro, per render noto alle cucitrici il maltrattamento che
secondo loro dovevano sopportare da parte di Blumfeld.
Ciò di cui si rendono colpevoli, tuttavia, non sono in grado di capirlo. Così
per esempio quasi sempre arrivano troppo tardi. Blumfeld, loro superiore,
che fin dalla primissima giovinezza ha ritenuto ovvio presentarsi almeno
mezz’ora prima dell’inizio del lavoro – indotto a ciò non dall’arrivismo, non
dall’esagerato senso del dovere, ma soltanto da un certo senso della decenza
– è costretto ad aspettare i suoi praticanti di solito per più di un’ora.
Masticando il suo panino ha l’abitudine di restare in sala dietro lo scrittoio e
intanto riportare i conteggi nei libretti delle cucitrici. Presto sprofonda nel
lavoro e non pensa a nient’altro. Proprio allora di botto lo spavento lo lascia
con la penna tremante in mano. Uno dei praticanti si è precipitato dentro a
rischio di ribaltarsi, con una mano si attacca a qualcosa per reggersi, con
l’altra si preme il petto ansimando pesantemente – il tutto non prefigura
niente, però, se non la presentazione da parte del praticante di una scusa del
suo ritardo talmente ridicola che Blumfeld decide di non sentire, infatti se lo
facesse dovrebbe giustamente bastonarlo. Dunque si limita a guardarlo per
un momento, poi solleva una mano a indicare lo scomparto a vetri e si rimette
al lavoro. A questo punto sarebbe lecito aspettarsi che il praticante valuti la
bontà del suo superiore e si affretti verso il suo posto. No, non si spiccia,
ballonzola, procede in punta di piedi, li appoggia uno davanti all’altro. Ha
intenzione di prendere in giro il suo superiore? Neanche. Si tratta di nuovo
soltanto di questa mescolanza di timore e autogratificazione contro cui si
resta indifesi. Come infatti spiegare altrimenti che oggi Blumfeld, venuto
contrariamente alle sue abitudini in ritardo, ora, dopo una lunga attesa – non
si diletta mica a verificare i libretti – tra le nuvole di polvere alzategli in faccia
dalla scopa dell’inserviente, un insensato, scopre in strada con quale
tranquillità arrivano entrambi i praticanti? Si tengono pressoché abbracciati e
pare che si raccontino cose decisive, che però con il lavoro hanno a dir poco
una relazione non autorizzata. Più si avvicinano alla porta a vetri e più
rallentano l’andatura. Da ultimo uno di loro impugna la maniglia, ma non
l’abbassa, ancora seguitano a parlarsi, ad ascoltarsi, a ridere. „Ma aprigli, ai
nostri due signori“, grida Blumfeld all’inserviente levando in su le mani.
Tuttavia, quando i praticanti entrano, Blumfeld non ha più voglia di litigare,
non risponde al loro inchino e va alla sua scrivania. Inizia a fare i suoi conti,
ma ogni tanto guarda che cosa fanno i praticanti. L’uno pare assai stanco,
sbadiglia e si stropiccia gli occhi; appena ha attaccato il suo soprabito al
chiodo ne approfitta per restare ancora un poco appoggiato alla parete, in
strada era vispo, ma la vicinanza del lavoro lo rende stanco. L’altro invece si
diverte a lavorare, ma solo selettivamente. Così da sempre poter scopare è
quel che desidera. E’ però un lavoro che non gli spetta, scopare sta
all’inserviente, Blumfeld non avrebbe da parte sua niente in contrario , che
scopi pure, il praticante ne ha il permesso, peggio dell’inserviente non si può
farlo, tuttavia se il praticante vuole scopare deve venir prima, prima che
l’inserviente inizi, e non deve usare il tempo in cui è esclusivamente adibito
all’ufficio. Se però il ragazzo è già inaccessibile a ogni ragionevole
riflessione, pochissimo potrebbe esserlo l’inserviente, questo vegliardo
mezzo cieco che il capo certo in nessun altra sezione che in quella di
Blumfeld potrebbe tollerare e che vive ancora per grazia di Dio e del capo,
pochissimo questo inserviente potrebbe accondiscendere a lasciar per un
attimo la scopa al ragazzo, che tuttavia non è capace di rinunciare al
divertimento di scopare e correrà dietro all’inserviente con la scopa solo per
spingerlo ancora a scopare. L’inserviente tuttavia sembra sentirsi
particolarmente responsabilizzato a scopare, si vede come lui, non appena il
ragazzo gli si avvicina, cerca di stringere meglio, a mani protese, la scopa,
preferisce fermarsi e smettere di scopare per poter volgere ogni attenzione al
possesso della scopa. Ora, il praticante non usa le parole per chiedere, infatti
certo teme Blumfeld, apparentemente intento al conteggio, del resto
sarebbero per lo più inutili, perché l’inserviente lo si raggiunge solo con urla
altissime. Il praticante dunque tira, intanto, l’inserviente per una manica.
L’inserviente sa benissimo di che cosa si tratta, guarda truce il praticante,
scuote la testa e accosta la scopa al petto. Ora il praticante congiunge le
mani e prega. Non ha alcuna speranza d’altra parte di ottener qualcosa con le
preghiere, pregare lo diverte soltanto, e per questo lui prega. L’altro
praticante segue l’evento ridendo sommessamente ed è chiaro, anche se
incomprensibile, che lui crede che Blumfeld non lo senta. All’inserviente la
preghiera non fa il minimo effetto, si gira e ritiene adesso di poter di nuovo
usare la scopa tranquillamente. Ma il praticante in punta di piedi gli saltella
dietro e fervidamente sfregando l’una con l’altra le mani lo segue e lo prega.
Queste virate dell’inserviente e i saltellamenti del praticante si ripetono più
volte. Alla fine l’inserviente si sente pressato da ogni parte e si rende conto
che si stancherà prima lui del praticante, come avrebbe già potuto fare fin
dall’inizio con un po’ meno dabbenaggine. Ragion per cui cerca aiuto esterno,
con il dito minaccia il praticante e indica Blumfeld, presso il quale farà
reclamo nel caso che il praticante non la smetta. Il praticante capisce che
deve sbrigarsi se davvero vuole avere la scopa. Così gliel’afferra da dietro,
con sfacciataggine. Un grido involontario dell’altro praticante rivela la svolta
in corso. Certo l’inserviente tiene ancora la scopa stavolta indietreggiando e
stringendola a sé. Ma ora il praticante non cede più, ferino balza in avanti,
l’inserviente sta per scappare, ma le sue vecchie gambe tremano, non
corrono, il praticante dà uno strattone alla scopa, e anche se non se ne
impadronisce la tocca con tanta forza da farla cadere, e così per l’inserviente
è perduta. D’altra parte lo è anche per il praticante, pare, infatti con la caduta
della scopa sul momento s’irrigidiscono tutti e tre, i praticanti e l’inserviente,
perché ora tutto non può che diventare manifesto a Blumfeld. Infatti lui
guarda fuori da un pertugio come se fosse solo da ora attento, fissa i tre con
occhi severi, neppure la scopa per terra gli sfugge. Sia che duri troppo il
silenzio, sia che il praticante in difetto non possa trattenere la sua bramosia
di scopare, comunque lui si china, del resto con molta cautela, sembra che
allunghi la mano su una bestia, non su una scopa, la prende, la strofina sul
pavimento, ma subito la getta via spaventato, perché Blumfeld salta su ed
esce dallo scomparto a vetri. „Tutti e due al lavoro, e senza fiatare“, grida
Blumfeld, e indica ai due praticanti i loro scrittoi con una mano duramente
protesa. Ubbidiscono subito, ma non, come dire, contriti, a testa bassa,
davanti a Blumfeld s’irrigidiscono e lo fissano negli occhi come se volessero
trattenerlo dal picchiarli. E però potrebbero aver imparato già abbastanza,
dalle passate esperienze, che Blumfeld fondamentalmente non picchia mai.
Ma sono oltremodo impauriti e cercano sempre e indelicatamente di tutelare
le loro autentiche o apparenti ragioni.

* Alfred potrebbe essere il nome, qui risibile, di un personaggio de Il


pipistrello (Die Fledermaus), operetta di J. Strauss risalente al 1874.
(Blumfeld ein aelterer Junggeselle, 1915)

Un sogno

Joseph K. sognò che era una bella giornata, lui desiderava andare a
passeggio, ma fatti appena due passi già si trovava al cimitero. C'erano vie
assai artificiali e contorte, tuttavia lui scorreva su una di esse come se fosse
su un'acqua che, lui tranquillo, sospeso, lo trascinasse. Da lontano
adocchiava il cumulo di terra di una fossa scavata da poco presso cui volle
fermarsi. Quel cumulo lo attraeva, quasi, credeva di non riuscire ad arrivarci
abbastanza in fretta, a tratti però lo vedeva appena, gli veniva nascosto da
bandiere le cui stoffe erano in movimento e sbatacchiavano con gran forza
l'una sull'altra, i portabandiera non si vedevano, ma era come se fosse in atto
un gran giubilo, lì.
Mentre aveva ancora lo sguardo puntato lontano, d'improvviso si trovò
all'altezza del cumulo, anzi già dietro. Saltò svelto nell'erba. Sfrecciò a balzi,
barcollò e cadde in ginocchio proprio davanti al cumulo. Due uomini dietro la
fossa tenevano sospesa tra loro una pietra tombale, appena apparso K la
sbatterono in terra, pareva come murata. Di colpo venne fuori da un
boschetto un terzo uomo che K riconobbe come un artista, aveva solo
calzoni, addosso, e una camicia abbottonata male, in testa un berretto di
velluto, in mano teneva un normale lapis con cui già avvicinandosi disegnava
figure nell'aria.
Si accostò alla pietra, che era ben alta, per scrivere, non era costretto a
chinarsi bensì a sporgersi in avanti perché il cumulo, su cui lui non intendeva
salire, lo separava dalla pietra, quindi stava sulla punta dei piedi e con la
mano sinistra si appoggiava sulla superficie della pietra. Operando in modo
particolare riuscì a ottenere, con il normale lapis, dei caratteri in oro, scrisse
“Qui riposa” - ogni carattere veniva fuori bello nitido, ben inciso e
completamente in oro. Scritte le due parole si voltò verso K e lo guardò; assai
voglioso del seguito dell'iscrizione, K s'interessava appena all'uomo e teneva
d'occhio solo la pietra. In realtà l'uomo riprese a scrivere, ma senza riuscirci,
qualcosa glielo impediva, abbassò il lapis e si voltò di nuovo verso K, che a
quel punto prese a guardarlo accorgendosi che l'artista era in grande
imbarazzo senza riuscire a dirne però la causa. Era sparita tutta la sua
vivacità di prima. Anche K finì imbarazzato e i due si scambiarono sguardi
impotenti, ecco un'incomprensione grave che nessuno poteva risolvere.
Inopportuna, a quel punto cominciò anche a suonare una campana dalla
cappella mortuaria, però l'artista agitò una mano in aria e la campanella
smisero di suonare. Dopo una pausa ricominciò, stavolta pianissimo, e subito
smise da sé, come se avesse voluto provare il proprio suono. Desolato della
situazione dell'artista, K iniziò a piangere, a lungo bagnò le proprie mani di
lacrime, l'artista aspettò che si calmasse e poi si decise, non trovando altra
via d'uscita, a riprendere l'iscrizione. Il primo tratto per K fu liberatorio,
l'artista riusciva però evidentemente a continuare con estrema riluttanza,
anche la scrittura non era più così bella, soprattutto mancava in fatto di oro,
procedeva incerta e sbiadita, solo i caratteri si facevano molto grandi. Una J
era quasi alla fine, allora l'artista rabbiosamente dette un calcio nel cumulo
facendone alzare in giro della terra. Finalmente K capì, di chiedere scusa
all'artista non c'era più tempo, con le dita scavò nella terra che non oppose
quasi resistenza, tutto pareva preparato, sopra solo per figura c'era una
crosta di terra, subito sotto si apriva un gran buco dalle pareti scoscese
dentro cui K sprofondò con una lieve scivolata di spalle. Nel calare giù in
profondità, nel chiuso, senza dover piegare la testa vide in alto il suo nome
estendersi in bei caratteri ornati sulla pietra. Affascinato da tale vista, si
svegliò. (Ein Traum, 1917)
In loggione

Se davanti a un instancabile pubblico una cavallerizza decrepita e malata di


petto venisse, dall'impresario che agita la frusta senza pietà, fatta girare in
pista sul precario animale senza interruzione per mesi, lei agitandosi,
buttando baci, dimenando il sedere, e tale spettacolo si protraesse,
nell'incessante brusio dell'orchestra e dei ventilatori, verso un sinistro
domani mentre battono calanti e di nuovo crescenti le mani come veri colpi di
maglio, allora magari un giovane del loggione scenderebbe svelto la lunga
scalinata lungo tutti gli ordini di posto e si butterebbe nella pista gridando
basta tra le fanfare dell'orchestra che continua a far da sottofondo.
Però non è così: una bella signora che scoppia di salute entra, è un volo il
suo, fieri in livrea gli inservienti le spalancano il sipario, il direttore
devotamente cercandone lo sguardo regge l'animale affannandosi, la solleva
sul pomellato con attenzione quasi fosse la sua nipote preferita in procinto di
andare in qualche viaggio pericoloso, non riesce a decidersi a dare il via,
infine si decide con uno schiocco della frusta, corre accanto al cavallo a
bocca aperta seguendo i balzi della cavallerizza senza smettere di fissarla,
stenta a comprenderne la maestria, in inglese grida consigli, rimprovera
rabbioso l'inserviente che regge il cerchio, faccia più attenzione, prima del
gran salto mortale <in italiano nel testo> implora l'orchestra sollevando le
mani, che taccia, infine solleva la nipotina dal cavallo fremente, la bacia sulle
guance né ritiene sufficiente nessun omaggio del pubblico mentre lei, da lui
sostenuta, sulla punta dei piedi, circonfusa di polvere, le braccia allargate,
vuol comunicare, la testolina piegata indietro, la sua felicità a tutto il circo – è
così, per cui il giovane del loggione mette la faccia sul parapetto e piange
inconsapevole, sprofonda nella marcia musicale conclusiva come in un arduo
sogno. (Auf der Galerie, 1919)
Un fratricidio

E' documentato che l'assassinio avvenne come segue:


Schmar, l'assassino, si mise verso le nove di una sera rischiarata dalla luna
su quell'angolo di strada dove Wese, la vittima, doveva svoltare, dalla via
dove si trovava il suo ufficio, in quella in cui abitava.
Aria notturna fredda, di quella che a tutti dà i brividi, ma Schmar aveva
addosso solo un abito celeste, leggero, e la giacchetta per di più era
sbottonata. Non sentiva per niente freddo, non smetteva di muoversi. L'arma
del delitto, a metà baionetta, a metà coltello da cucina, lui la teneva stretta in
pugno snudata, la guardava riflettere la luce lunare; il taglio luccicava, ma
non abbastanza per Schmar; la urtò contro le pietre del selciato fino a
provocar scintille; forse pentito, per rimediare al danno la strofinò sulla suola
d'uno stivale a mo' di archetto da violino mentre, stando su una gamba, si
sporgeva a sentire il rumore del coltello sullo stivale e, insieme, ciò che
proveniva dalla via fatale.
Perché Pallas, il rentier, che non lontano vedeva ogni cosa dalla sua finestra
al secondo piano, lasciò fare? Vattelappesca! E' l'umana natura! Guardò giù
scuotendo la testa, alzato il bavero della vestaglia legata sul pancione.
Cinque casamenti oltre la signora Wese, in camicia da notte coperta con la
pelliccia di volpe, si sporse per veder l'arrivo di suo marito che quel giorno
tardava stranamente molto.
Infine risuonò sulla città, un po' troppo rte per quel che era, la campanella
della porta dell'ufficio di Wese, fino al cielo, e Wese, diligente lavoratore, uscì
dall'edificio in quella stradina ancora invisibile, annunciato solo dalla
campanella; e subito il selciato contò i suoi passi tranquilli.
Pallas si sporge molto fuori, non può perdersi nulla. La signora Wese chiude
la finestra rumorosamente, placata dal suono della campanella. Schmar
invece si inginocchia, non ha nessun altra parte nuda, sul momento, e preme
il volto e le mani sulla pietre; ovunque si gela, Schmar scotta.
Proprio dove le strade si dividono Wese sosta, appoggiandosi con il bastone
su quella laterale, si tratta d'una bizzarria, il cielo notturno lo ha attirato,
l'azzurro scuro ed aureo. Ignaro guarda, ignaro si gratta i capelli sotto il
cappello sollevato, nulla viene da lassù a preannunciargli quel che
prestissimo accadrà, tutto resta imperscrutabile, insensatamente al suo
posto. In sé è ragionevolissimo che Wese vada oltre, però incappa nel coltello
dello Schmar.
“Wese!” - urla Schmar alzandosi sulla punta dei piedi, il braccio alto, il
coltello affilato volto in basso, “Wese! E' inutile che t'aspetti, Julia!” - e glielo
ficca nel collo a destra, a sinistra, e la terza volta nel ventre, fino in fondo. I
topi sbuzzati emettono un suono che somiglia a quello che emette Wese.
“Fatto”, dice Schmar buttando il coltello, la zavorra insanguinata che non
serve più, contro la facciata più vicina. “Beatitudine dell'assassinio! Sollievo,
sangue che scorre e mi dà le ali! Wese, vecchio fantasma, amico, compagno
di bevute, ti sciogli nel fondo della strada. Perché non sei solo una vescica
piena di sangue, che mi ci piazzavo sopra e sparivi completamente? Non si
può avere tutto, non tutti i sogni di sangue sono diventati realtà, i tuoi grevi
resti giacciono qui, incalpestabili. A che serve la domanda muta che poni?”
Con fatica enorme Pallas ora si trova sulla porta di casa, a due battenti,
spalancata.”Schmar! Schmar! Ho visto tutto, non mi è sfuggito nulla.” I due si
valutano a vicenda. Pallas è soddisfatto, Schmar no.
La signora Wese insieme a una quantità di persone arriva, per il terrore ha il
volto di una vecchia. La pelliccia si apre, lei si butta su Wese, il suo corpo
vestito d'una camicia da notte appartiene a lui, alla folla compete la pelliccia
che si chiude sui coniugi come erba cresciuta sopra una fossa.
Schmar, reprime a fatica l'estrema nausea premendo la bocca sulla spalla del
poliziotto che lo porta via svelto. (Ein Brudermord, 1917)

Il ponte

Ero freddo e rigido, ero un ponte, stavo sopra un precipizio, da una parte
erano ficcate le punte dei piedi, dall'altra le mani, e avevo fatto una
scorpacciata di frammenti argillosi. Le falde del mio abito svolazzavano ai
miei fianchi. Nel profondo rumoreggiava gelido il torrente con le sue trote.
Nessun turista si smarriva a questa impraticabile altezza, ancora il ponte non
era indicato nelle mappe. Così stavo ad aspettare, vi ero costretto, nessun
ponte una volta raggiunto può smettere di essere ponte, se non precipitando.
Verso sera, la prima o la millesima non lo so, i miei pensieri erano sempre
disordinati e sempre circolari – verso sera una volta, d'estate, il torrente
mormorava più cupo, udii un passo di uomo. A me, a me. Ponte stenditi,
mettiti in posizione stabile, reggi colui che t'è affidato; trave senza ringhiera,
bilancia l'incertezza dei suoi passi senza fartene accorgere, ma se lui barcolla
allora fatti riconoscere e come una divinità montana, scaglialo giù a terra.
Venne, mi dette colpetti con la punta di ferro del suo bastone, poi con quello
sollevò le falde del mio abito e le sistemò su di me, passò la punta nei miei
capelli crespi e ce la lasciò, forse intanto lui guardava in giro. Poi però – già
lo sognavo via dalla montagna, nella valle – con entrambi i piedi mi saltò nel
mezzo del corpo. Rabbrividii di dolore, selvaggiamente, del tutto ignaro: era
un bambino, un ginnasta, uno spericolato, un suicida, un provocatore, un
distruttore? Mi girai per vederlo. Ponte girati! Non m'ero ancora girato che già
precipitavo, precipitavo e già ero dilaniato e infilzato dai sassi che sempre
erano stati a guardarmi tanto benevoli, dall'acqua furiosa. (Die Bruecke,
1917?)

A cavallo di un secchio.

Consumato tutto il carbone, vuoto il secchio, la paletta inutile, la stufa


diffonde freddo, il gelo divora la stanza, fuori vedo alberi irrigiditi nella brina,
il cielo è uno scudo d’argento nemico di chi vorrebbe il suo aiuto. Devo
procurarmi del carbone, non posso mica morire assiderato; dietro di me ho la
spietatezza della stufa, davanti il cielo, anche lui spietato; ecco perché devo
decidermi a cavalcare alla svelta per cercare aiuto dal carbonaio. Dato che lui
è di solito insensibile alle mie preghiere, devo dimostrargli con la massima
precisione che non ho più neanche un pezzetto di carbone e che lui perciò
rappresenta addirittura il sole nel firmamento. Devo arrivare da lui sulla soglia
dell’ingresso come un mendicante moribondo che rantola per la fame, cui la
cuoca dei padroni decide di conseguenza che si versi in gola il fondo di caffè
avanzato: proprio nello stesso modo il carbonaio deve buttare una paletta
piena di carbone nel mio secchio, contrariato, ma sottoposto al
comandamento “Non uccidere”.

La mia uscita di casa dev’essere decisiva, perciò cavalco il secchio. Come


cavaliere del secchio, una mano stretta al manico, semplicissima briglia,
faccio le scale con difficoltà, tuttavia il secchio mi si solleva sotto magnifico; i
cammelli, umilmente accovacciati al suolo, non si levano, colpiti dal bastone
del padrone, in modo più bello. Per la via, che è parecchio ghiacciata,
procediamo al trotto regolare, non poche volte vengo sollevato all’altezza dei
primi piani, mai giù ai portoni delle case. Incredibilmente alto mi libro di
fronte al soffitto della cantina del carbonaio, dove lui, in basso, ripiegato sul
suo tavolo, scrive: per smaltire il calore esagerato ha aperto la porta.

“Carbonaio!” - grido con la voce rauca per il freddo, avvolto in una nube di
fumo, “ti prego, carbonaio, dammi un po’ di carbone. Ho il secchio così vuoto
che riesco ad andarci a cavallo. Sii così buono. Quando posso ti pago.”

Il carbonaio porta la mano all’orecchio. “Ci sento bene?”- chiede oltre la


spalla di sua moglie che lavora a maglia sulla panca della stufa, “ci sento
bene? Un cliente.”

“Io non ho sentito proprio nulla”, dice la moglie, respirando impassibile sui
ferri del lavoro a maglia, la schiena piacevolmente riscaldata.

“Sì” grido, “sono un vecchio cliente fedele, affezionato, solo per il momento
sprovvisto di mezzi”.

“Moglie”, dice il carbonaio, “è qualcuno, non posso certo sbagliarmi,


dev’essere un cliente, un vecchio cliente, a parlar così al mio cuore.”

“Cos’hai, marito?” - dice la moglie appoggiandosi il lavoro al petto per


riposarsi un momento. “Non è nessuno, la strada è vuota, tutti i nostri clienti
sono a posto, possiamo interrompere i nostri affari per giorni e riposarci.”

“Ma io sono qui sul secchio”, grido, e senza che me ne accorga lacrime di
freddo mi velano gli occhi, “per favore, guarda fuori, mi vedrai con facilità,
per favore, una paletta piena di carbone, e sarei felicissimo se me ne volessi
dare due. Gli altri clienti sono già riforniti. Ah! Già lo sento scricchiolare nel
secchio!”

“Arrivo”, dice il carbonaio, e vorrebbe salire la scale della cantina con quelle
sue gambe corte, ma la moglie è già su di lui, lo blocca per un braccio e dice:
“Tu non ti muovi, desisti dalla tua testardaggine e ci vado io. Pensa a quella
brutta tosse di stanotte. Per un affare solo ipotetico trascuri moglie e figlio e
sacrifichi i polmoni? Vado io.”

“Allora però fagli l’elenco di tutte le qualità di carbone che abbiamo in


magazzino, che io ti grido i prezzi.”

“Bene”, dice la moglie e sale in strada. Naturalmente mi vede subito.

“Signora carbonaia”, grido, “le porgo i miei rispettosi saluti, soltanto una
paletta piena di carbone, qui, nel secchio, che la porto a casa, una paletta
piena del più scadente. Naturalmente lo pago tutto, ma non subito, non
subito.” Come scampanano le due parole “non subito”, e come si
confondono con l’avemaria che per l’appunto si sente dal campanile della
chiesa vicina.

“Cosa vuole, allora?” - grida il carbonaio. “Niente”, risponde gridando la


moglie, “non è niente, non vedo niente, non sento niente, soltanto che
suonano le sei e noi ora si chiude. Il freddo è spaventoso, domani di sicuro
avremo molto lavoro.”

Non vede e non sente nulla, lei, eppure si slaccia il grembiule e tenta di
sventagliarmelo addosso. Purtroppo le riesce. Il mio secchio ha tutte le
qualità di un animale da sella, ma non quella di resistere, troppo leggero,
basta un grembiule da donna a farlo volar via.

“Cattiva!” - le grido di rimando, mentre girandosi verso il negozio, metà


soddisfatta metà sprezzante, lei, armata di grembiule, colpisce l’aria. “Cattiva!
Ho implorato una paletta piena di carbone, del più scadente, e tu non me l’hai
data”.
E arrivederci a mai più, salgo sulle montagne di ghiaccio, dove mi perdo. (Der
Kuebelreiter, 1921)

Sciacalli e arabi.

Ci eravamo accampati nell’oasi. I compagni dormivano. Un arabo alto e


bianco mi passò davanti; aveva provveduto al cammello ed era diretto
verso il posto dove avrebbe dormito.
Mi girai nell’erba; volevo dormire; non ci riuscivo; l’ululato lamentoso di uno
sciacallo a distanza; mi rimisi seduto. E ciò che era stato tanto lontano,
d’improvviso era vicino. Intorno a me un brulicare di sciacalli; occhi d’oro
opaco, la cui brillantezza era sul punto di spegnersi; corpi snelli, eccitati
all’agilità ed all’obbedienza come da una frusta.

Da dietro ne venne uno, mi s’infilò sotto il braccio, stretto a me come se


richiedesse il mio calore, poi mi si mise davanti e parlò, i suoi occhi quasi
fissi nei miei:
“Sono lo sciacallo più vecchio in assoluto. Sono felice di poterti accogliere
proprio qui. Avevo quasi già perso la speranza, infatti noi ti aspettiamo da
un’infinità di tempo; mia madre e la madre di lei hanno aspettato e a ritroso
tutte le madri, fino alla madre di tutti gli sciacalli. Devi crederci!”
“ La cosa mi stupisce”, dissi, e dimenticai di accendere la legna accatastata,
pronta per tener lontani gli sciacalli con il fumo, “sentirla mi stupisce molto.
E’ solo per caso che vengo qui dall’estremo nord e sto facendo un breve
viaggio. Che cosa volete dunque, voi sciacalli?”
E loro, come incoraggiati da queste frasi forse troppo amichevoli, strinsero di
più il loro cerchio intorno a me; tutti avevano il respiro corto e sbuffante.
“Sappiamo”, disse l’anziano, “che vieni dal nord, proprio su questo si basa la
nostra speranza. Lì c’è il giudizio che qui tra gli arabi non si trova. Sai, da
questa fredda superbia non si genera alcuna scintilla di giudizio. Uccidono gli
animali per mangiarli e disdegnano le carogne.”
“Non parlare a voce così alta”, dissi, “qui vicino dormono degli arabi.”
“Sei veramente uno straniero”, disse lo sciacallo, “altrimenti sapresti che fin
qui mai nella storia universale uno sciacallo ha avuto paura di un arabo.
Dovremmo averne paura? Non basta, quanto alla sfortuna, che noi siamo
banditi tra gente simile?”
“Può essere, può essere”, dissi, “non mi sono fatto un’opinione su cose che
mi sono tanto lontane; sembra una contesa assai vecchia; dunque sta
completamente nel sangue; così forse avrà termine innanzitutto con il
sangue.”
“Sei molto acuto”, disse il vecchio sciacallo; e tutti accelerarono la
respirazione; con affanno, per quanto se ne stessero ancora tranquilli; dalle
fauci aperte fuoriuscì un odore peggiore, solo momentaneamente
sopportabile tenendo i denti serrati, “sei molto acuto, quel che dici è
conforme alle nostre antiche dottrine. Noi dunque li priviamo del sangue e la
contesa è finita.”
“Oh!” - dissi con più violenza di quanto volessi, “loro si difenderanno, a frotte
vi uccideranno con i loro schioppi.”
“Ci fraintendi”, disse lui, “dipende dalla natura umana, che non viene meno
neppure nel lontano nord. Noi mica li uccideremo. Il Nilo non avrebbe
abbastanza acqua per mondarcene. Alla sola vista del loro corpo vivo ce ne
scappiamo via nell’aria più pura, nel deserto, che perciò è la nostra patria.”
E tutti gli sciacalli intorno, ai quali nel frattempo se n’erano aggiunti molti da
lontano, abbassarono il muso tra le zampe anteriori e se lo pulirono; era
quasi che volessero nascondere una ripugnanza, ma così spaventosa che io
sarei saltato su, fuori dal loro cerchio. “Che cosa avete intenzione di fare”,
domandai, e volevo alzarmi; ma non potevo; due giovani animali mi avevano
saldamente piantato i denti nella giacca e nella camicia; dovevo restare
seduto. “Ti tengono lo strascico”, disse con serietà il vecchio sciacallo a mo’
di spiegazione, “un atto di omaggio”. “Devono lasciarmi andare!” - urlai, un
po’ rivolto all’anziano, un po’ ai giovani. “Certo che lo faranno”, disse
l’anziano, “se tu lo chiedi. Ma ci vuole un po’, perché loro come sono abituati
a fare hanno addentato in profondità, e prima devono staccare pian piano il
morso un poco per volta. Nel frattempo, ascolta la nostra preghiera.” “La
vostra condotta non mi ha reso molto sensibile all'ascolto”, dissi io. “Non
farci scontare la nostra inettitudine”, disse, e ora per la prima volta adoperò il
tono lamentoso naturale della sua voce per chiedere aiuto, “siamo poveri
animali, questa è la nostra sola certezza; per tutto quello che abbiamo
intenzione di fare, il bene e il male, ci resta quest’unica certezza.” “Che cosa
vuoi, dunque?”- domandai, placato appena un po’. “Signore”, gridò lui, e tutti
gli sciacalli ulularono; nella lontananza buia mi sembrò che fosse una
melodia. “Signore, tu sei destinato a por fine alla contesa che divide il
mondo. I nostri anziani ti hanno descritto così, come colui che lo farà. Noi
dobbiamo ottenere la pace dagli arabi; aria respirabile; purgata della loro
presenza la vista tutt’intorno, fino all’orizzonte; nessun montone macellato
dagli arabi che urli i suoi lamenti; ogni animale è destinato a morire
quietamente; dev’essere prosciugato da noi senza che siamo disturbati, e
venir ripulito fino alle ossa. Pulizia, non desideriamo altro che pulizia,” – ora
tutti piangevano, singhiozzavano – “come fai tu, cuore nobile, sensibili
viscere, anche soltanto a sopportarlo? Nell’umano i bianchi sono sozzura,
sozzura i mori, orribili le loro barbe; vederne la coda dell’occhio dà il vomito;
ed esce l’inferno dalle loro ascelle, quando sollevano il braccio. Perciò, o
signore, perciò, o signore prezioso, con le tue mani che possono tutto, con le
tue mani che possono tutto, taglia loro la gola con queste forbici!” E,
obbedendo a uno scatto della sua testa, si avvicinò uno sciacallo che
reggeva, su un dente canino, un paio di piccole forbici da cucito ricoperte di
vecchia ruggine. “E dunque eccoci finalmente alle forbici, e con questo alla
conclusione!” - gridò il capocarovana arabo, che si era avvicinato strisciando
contro vento e ora agitava il suo enorme scudiscio.Tutto terminò di colpo, ma
numerosi animali rimasero lo stesso a qualche distanza, rannicchiati
strettamente insieme, così stretti e immobili da sembrare una compatta
barriera intorno a cui volteggiassero fuochi fatui. “Dunque, signore, anche tu
hai visto e udito questa messa in scena”, disse l’arabo e rise tanto allegro
quanto il riserbo della sua stirpe gli consentiva. “Quindi tu sai quel che
vogliono gli animali?” - domandai. “Certo, signore”, disse lui, “è
universalmente noto, certo; finché ci sono arabi queste forbici vagano per il
deserto e vagheranno con noi fino alla fine dei giorni. Vengono proposte per
l'impresa a tutti gli europei; ogni europeo è giusto quello che a loro sembra
adatto. Questi animali hanno una speranza insensata; folli, sono veramente
folli. Noi li amiamo per questo; si tratta dei nostri cani; meglio dei vostri.
Guarda, ora, un cammello è morto durante la notte, l’ho fatto trasportare qui.
”Vennero molti portatori e gettarono il pesante cadavere davanti a noi. Non
appena giacque lì, gli sciacalli fecero sentire la loro voce. Ognuno tirato come
da funi irresistibili, si avvicinarono non senza soste sfiorando il suolo con la
pancia. Avevano dimenticato gli arabi, dimenticato l’odio, li affascinava la
presenza del cadavere che con il suo forte olezzo cancellava tutto il resto. Già
uno si attaccava alla gola e trovava, al primo morso, la giugulare. Come una
piccola pompa frenetica che, tanto perentoria quanto inutile, intenda
spegnere un fuoco troppo poderoso, ogni muscolo del suo corpo ora tirava,
ora sussultava. E già tutti si trovavano all’ opera sulla salma, ammonticchiati.
Allora il capo li colpì forte in lungo e in largo con il tagliente scudiscio.
Sollevarono la testa; mezzo ebbri e inermi; videro l’arabo star loro davanti;
ebbero da sentire con i musi lo scudiscio; si tirarono indietro con un salto e
corsero un poco a ritroso. Tuttavia il sangue del cammello già formava una
pozza, fumava, il corpo era squarciato in molti punti. Non potevano resistere;
erano di nuovo lì; di nuovo il capo sollevò lo scudiscio; gli afferrai il braccio.
“Hai ragione, signore”, disse, “lasciamoli al loro mestiere; del resto è tempo
di partire. Hai visto. Prodigiosi animali, non è vero? E come ci odiano!”
(Schakale und Araber, 1917).

Ieri ebbi una perdita dei sensi

Ebbi una perdita dei sensi, ieri. Lei sta in una casa vicina, l'ho già vista
spesso la sera, chinarsi e sparire nella minuta porta. Una gran dama in lungo
fluente, vasto il cappello piumato. Attraversò mormorando la mia porta con
l'urgenza d'un medico che tema di esser arrivato troppo tardi dal malato
morente. “Anton”, disse con voce bassa ma arrogante, “eccomi”. Si lasciò
cadere sulla sedia che le indicavo. “Stai in alto, stai”, disse sospirando.
Sprofondato nel mio seggiolone annuii. Davanti ai miei occhi innumerevoli
saltellavano i gradini delle scale che portano alla mia stanza, un dietro l'altro,
instancabili ondine. “Perché tanto freddo?” - chiese lei togliendosi gli
antiquati guanti lunghi da schermitrice; li gettò sul tavolo e mi guardò
strizzando gli occhi, china la testa. Era come fossi un passero, facessi i miei
salti lungo le scale e lei mi scompigliasse i fiocchi di piuma morbidi, grigi. “Mi
addolora che tu ti strugga dietro a me. Già diverse volte sinceramente
rattristata t'ho visto il volto macilento quando sei in cortile e guardi verso la
mia finestra. Vedi, non sono maldisposta verso di te e però ancora non hai il
mio cuore; però puoi conquistarlo.” (Gestern kam eine Ohnmacht, 1917?)

Avrei dovuto curarmene prima

Avrei dovuto curarmene prima di questa scala: a che cosa mai era collegata,
che cosa v'era da attendersi da questa scala, come si doveva prendere?
Certo non hai mai sentito parlare di questa scala, mi dicevo per scusarmi, nei
giornali, nei libri, tutto quanto viene comunque sia criticato aspramente e
senza sosta, ma su questa scala non c'era nulla da leggere. Può essere, mi
rispondevo da solo, che sfortunatamente tu abbia letto male. Spesso eri
distratto, hai saltato paragrafi, ti sei addirittura accontentato dei titoli, forse lì
era menzionata la scala e ti è sfuggito, e ora ti serve proprio quello che t'è
sfuggito. Mi fermai un momento ripensando a questa obbiezione, e allora
credetti di potermi ricordare di aver letto una volta in un libro per bambini
qualcosa forse di una scala di questo tipo. Non era stato granché,
probabilmente solo la menzione della sua presenza, che non mi poteva affatto
essere utile. (Ich haette mich, 1917?)
Un messaggio imperiale

L'imperatore – si dice – ha inviato dal suo letto di morente un messaggio a te,


solo a te, misero suddito, infima ombra dispersa nella più gran lontananza al
cospetto del sole imperiale. L'imperatore ha fatto inginocchiare presso il suo
letto il messaggero e gli ha sussurrato all'orecchio il messaggio. Gli premeva
tanto che se lo è fatto ripetere all'orecchio. Facendo segni con la testa ha
confermato la giustezza di quanto detto. E davanti a tutti i testimoni presenti
alla sua morte – tutte le pareti d'impedimento abbattute, i grandi del regno in
circolo sulle scalinate che salgono con ampie rampe – davanti a costoro
l'imperatore ha dimesso il messaggero. Questi si è subito messo in cammino;
uomo robusto, instancabile; ora protendendo un braccio, ora l'altro si fa
strada tra la folla, se trova opposizione indica sul suo petto il punto dov'è il
segno del sole, e come nessun altro avanza, ma la folla è così grande, i suoi
accampamenti non hanno termine. Lui volerebbe, se si liberasse il campo, e
presto tu udiresti il magnifico colpo del suo pugno alla tua porta, invece è a
vuoto che lui si affatica, seguita a passare a stento tra le stanze del più
interno palazzo, mai le oltrepasserà, e se gli riuscisse non avrebbe fatto
nulla, dovrebbe sfinirsi lottando giù per le scale, e se gli riuscisse non
avrebbe fatto nulla, ci sarebbero da percorrere i cortili, e dopo i cortili il
secondo palazzo che racchiude il primo, e ancora cortili e scale, e di nuovo
un palazzo e così via per millenni, e, se si precipitasse fuori dalla porta più
esterna – ma ciò è impossibile che avvenga – davanti a lui ci sarebbe la
capitale, il centro del mondo, dei cui rifiuti essa è colma. Nessuno riesce a
passarci e figuriamoci con il messaggio di un morto. Tu però stai alla tua
finestra e te lo immagini, il messaggero, quando viene la sera. (Eine
kaiserliche Botschaft, 1919)

Una vecchia pagina

E' come se la difesa della nostra patria fosse stata parecchio trascurata. Non
ce ne siamo curati, finora, abbiamo badato al nostro lavoro, ma gli
avvenimenti degli ultimi tempi ci preoccupano.
Ho una bottega di calzolaio, che si trova di fronte al palazzo imperiale. Non
appena apro, all'alba, vedo gli sbocchi di tutte le strade che portano nella
piazza occupati da gente armata. Non si tratta però di soldati nostri, ma
evidentemente di nomadi del nord arrivati non capisco come qui nella
capitale, che pure si trova lontana assai dal confine. Comunque sia, eccoli
qui, e pare che crescano di numero ogni giorno.
Secondo la loro natura dormono sotto le stelle, detestano le case, si
occupano dell'affilatura delle spade, della punta delle frecce e
dell'addestramento dei cavalli. Di questa tranquilla piazza sempre tenuta
accuratamente pulita hanno fatto una vera stalla, voglio dire, noi cerchiamo
qualche volta di uscire dai nostri negozi e di eliminare almeno il sudiciume
peggiore, ma ciò succede sempre più di rado, infatti la fatica è inutile e inoltre
ci espone al pericolo di finire sotto i cavalli selvaggi o di esser feriti dalle
fruste.
Con i nomadi non si riesce a parlare, non conoscono la nostra lingua, anzi a
mala pena ne hanno una loro, s'intendono reciprocamente come fossero
cornacchie, si seguita a udire questo strepito di cornacchie. Il nostro modo di
vivere, i nostri riferimenti, a loro sono tanto incomprensibili quanto
indifferenti, ne consegue che si mostrano contrari anche al linguaggio dei
segni, hai voglia a storcere la bocca ed a stringerti una qualche giuntura, loro
non ti capiscono e non ti capiranno mai. Di smorfie ne fanno spesso, il bianco
degli occhi gli si rivolta e dalla bocca esce loro schiuma, ma non è che
vogliano dir qualcosa, né spaventare, lo fanno perché è nella loro natura.
Quel che gli serve lo prendono, che usino la forza non si può dire, dinnanzi
alla loro presa ci si fa da parte e si lascia loro ogni cosa.
Anche della mia merce ne hanno presa parecchia spesso, ma non me ne
posso lamentare se per esempio considero quel che capita al macellaio. Non
fa a tempo ad incamerare la sua merce che gliela strappano via, i nomadi, e
gliela divorano. Anche i loro cavalli si cibano di carne, capita spesso che uno
si trovi accanto al suo cavallo, entrambi a nutrirsi dallo stesso pezzo di carne,
ognuno da un lato. Il fornitore del macellaio ha paura, non si azzarda a
interrompere il suo lavoro di fornitura. Noi però ne abbiamo comprensione,
raccogliamo denaro e lo sovvenzioniamo. Senza carne non si sa cosa
verrebbe in mente di fare, ai nomadi, del resto nemmeno si sa cosa venga
loro in mente con la carne che ricevono ogni giorno.
Il macellaio da ultimo pensò di potersi almeno risparmiare la fatica di
macellare e al mattino portò un bue vivo. Non lo fece più. Io me ne stetti una
buona ora chiuso in bottega schiacciato al suolo, mi ero ammucchiato sopra
tutti i miei vestiti, le coperte e i cuscini, pur di non sentire il muggito del bue,
da ogni parte assalito dai nomadi che gli strappavano con i denti la carne
calda a pezzi. Prima che mi azzardassi a uscire passò molto tempo; dopo che
era caduto il silenzio loro giacevano attorno ai resti del bue come fossero
bevitori attorno a una botte di vino.
Proprio in quel caso ritenni di aver visto l'imperatore in persona a una
finestra del palazzo, di solito egli non viene in queste stanze esterne, vive nel
giardino più interno, ma stavolta stava, almeno mi parve, a una delle finestre
e guardava a testa bassa quel che accadeva davanti alla sua reggia.
“Come andrà a finire?” - ci chiediamo tutti noi, “quanto a lungo sopporteremo
questo straziante fardello? Il palazzo imperiale li ha attirati, i nomadi, ma non
sa respingerli. Il portone resta chiuso, la guardia, prima marciante nei dì di
festa fuori e dentro, si tiene dietro le finestre inferriate. A noi, artigiani e
commercianti, è affidata la salvezza della patria, ma noi non siamo all'altezza
di tale compito, né mai ci siamo vantati di esserlo, è un equivoco, e stiamo
andando in rovina.” (Ein altes Blatt, 1917)

Estate

In una giornata calda d'estate, tornando a casa insieme a mia sorella passai
davanti al cancello di una fattoria. Lei colpì il cancello, a bella posta o per
distrazione, se non si limitò a simulare il colpo con un pugno e non lo colpì
affatto, non so. A un centinaio di passi più avanti, sulla strada, che svoltava a
sinistra, iniziava un villaggio. Non lo conoscevamo, ma subito dalla prima
casa uscì gente, ci fece un cenno, garbata ma ammonitrice, anche
terrorizzata, piegata dal terrore. Indicarono la fattoria davanti alla quale
eravamo passati e ci fecero presente il colpo sul cancello; i proprietari della
fattoria ci avrebbero denunciato, e subito sarebbe iniziata l'istruttoria. Io ero
calmissimo, tranquillizzai mia sorella. Probabilmente lei non aveva nemmeno
dato il colpo, e, anche se lo avesse dato, in nessun luogo al mondo si fa un
processo per una cosa del genere. Cercai di chiarirlo anche a quella gente; mi
stettero a sentire, ma si astennero dal giudicare. Poi dissero che non solo mia
sorella, ma anch'io, in quanto fratello, sarei stato denunciato. Annuii
sorridendo. Tutti guardammo dalla parte della fattoria come si osserva a
distanza una nuvola di fumo e ci si aspetta il fuoco. In realtà presto si videro
persone a cavallo entrare nel cancello spalancato, si alzò polvere, tutto si
fece confuso, a parte il lampeggiare della punta di lunghe lance. Il gruppo era
appena sparito nella fattoria che sembrò aver fatto girare subito i cavalli, e si
diresse verso di noi. Spinsi mia sorella via di lì, avrei messo tutto in chiaro io,
lei si rifiutò di lasciarmi solo, le dissi che allora avrebbe dovuto almeno
cambiarsi, per comparire davanti a quei signori vestita meglio. Da ultimo
ubbidì e si avviò sulla lunga via per tornare a casa. Le persone a cavallo
erano già da noi, senza smontare chiesero di mia sorella; non era al momento
sul posto, fu risposto loro con ansia, sarebbe venuta dopo. La risposta fu
accolta quasi con indifferenza, sembrava esser la cosa decisiva che si fosse
trovato me. Si trattava essenzialmente di due signori, quello a cavallo, un
giovane energico, e il suo silenzioso aiutante, chiamato Assmann. Venni
invitato a entrare nella stanza di soggiorno della casa dei contadini. Lento,
scuotendo la testa, aggiustandomi le bretelle, mi misi in marcia sotto lo
sguardo affilato di quei signori. Ancora credevo quasi che una parola sarebbe
stata sufficiente a sbarazzare un cittadino come me da questa gente di
campagna, e anche in modo onorevole addirittura, ma quando ebbi
oltrepassato la soglia della stanza di soggiorno il cavaliere, che mi aveva
preceduto con un balzo e già mi aspettava, disse: ”quest'uomo mi fa pena”,
però non c'era alcun dubbio che con ciò non si riferiva al mio stato presente,
ma a quello che mi sarebbe successo. La stanza di soggiorno più che al
soggiorno di una casa di contadini assomigliava alla cella di un carcere.
Grandi mattonelle di pietra, parete grigio scura nuda, in essa un anello di
ferro murato, nel centro qualche cosa tra il pancaccio e il tavolo chirurgico.
(Es war im Sommer, 1917?)

La mia ditta

La mia ditta pesa interamente sulle mie spalle, due signorine in anticamera
con macchine per scrivere e libri contabili, la mia stanza con scrivania, cassa,
tavolo per le riunioni, poltrona e telefono: ecco tutta la mia strumentazione.
Così semplice da tener d'occhio, così facile da gestire. Sono giovane e gli
affari mi vanno bene, non mi lamento. Non mi lamento. Da quest'anno uno,
più giovane, s'è preso in affitto il piccolo appartamento vuoto qui accanto,
cosa che io da inetto ho indugiato tanto a fare. Stessa anticamera e stessa
stanza, ma anche una cucina. Della stanza e dell'anticamera avrei potuto far
qualcosa, le mie due signorine a volte si sentono oppresse, ma la cucina a
cosa mi sarebbe servita? E' colpa di questo rimuginare meschino, se mi son
fatto soffiare l'appartamento. E ora ci si trova questo giovanotto, Harras si
chiama, cosa effettivamente faccia non lo so, sulla porta c'è soltanto “Harras,
ufficio”. Ho raccolto informazioni, mi è stato confidato che si tratta di una
ditta analoga alla mia; sarebbe arduo non farle credito, infatti il giovane è
ambizioso e forse ha un futuro, però si potrebbe anche non farle credito,
infatti al momento apparentemente è del tutto deficiataria dal punto di vista
patrimoniale. Le solite cose che si dicono quando non si sa nulla. Qualche
volte incontro Harras per le scale, deve sempre avere una fretta straordinaria,
mi sguscia letteralmente davanti, ancora non l'ho nemmeno visto bene, ha
già la maniglia della sua porta in mano, apre la porta in un attimo ed è
scivolato dentro come la coda d'un topo; eccomi di nuovo davanti alla targa
“Harras, ufficio”, che ho già letto più spesso di quel che essa meriti. Le
pareti, di miserevole sottigliezza, tradiscono l'onestuomo, nascondono però
quello disonesto. Il mio telefono è montato alla parete che mi separa dal
vicino, lo rilevo soltanto come fatto particolarmente ironico, anche se si
trovasse montato alla parete opposta nell'appartamento vicino si udrebbe
tutto. Ho preso l'abitudine di non chiamare per nome i clienti al telefono, ma
com'è naturale non serve molta scaltrezza a indovinare, dalle caratteristiche e
dalle inevitabili giravolte della conversazione, i nomi. Capita che io in punta di
piedi ballonzoli, il ricevitore all'orecchio, tormentato dall'inquietudine, attorno
all'apparecchio, ma ciò non vale a evitare che vengano esposte cose segrete.
Com'è naturale in tal modo, per telefono, anche le mie decisioni d'affari
divengono incerte, la voce trema. Che fa Harras, mentre telefono? Esagero,
ma spesso è necessario, per farsi capire; potrei dire che Harras non ha
bisogno di alcun telefono, sfrutta il mio, ha spinto il suo canapè alla parete e
sta in ascolto, invece io devo correre al telefono, quando suona, ascoltare i
desiderata dei clienti, prender decisioni serie, convincerli di cose di grande
importanza, ma prima di tutto far rapporto completo e involontario ad Harras
attraverso la parete. Forse non sta nemmeno ad attendere che la
conversazione termini, ma invece si alza, dopo che la conversazione è giunta
ad istruirlo abbastanza sui fatti, guizza come è sua abitudine per la città e
prima che io abbia riattaccato forse sta già per ostacolarmi. (Mein Geschaeft,
1917?)

Un incrocio

Ho un animale strano, mezzo gattino, mezzo agnello, ereditato insieme ai beni


di mio padre ma sviluppatosi solo con me; prima era molto più agnello che
gattino, mentre ora ha qualcosa di entrambi. Del gatto ha testa e artigli,
dell'agnello taglia e figura, di entrambi gli occhi, dolci e trepidi, il pelame
morbido e aderente, i movimenti saltellanti e quatti; si acciambella sul
davanzale della finestra al sole e fa le fusa, sul prato corre come un matto e si
stenta a prenderlo, davanti ai gatti fugge, agli agnelli salterebbe addosso, di
notte quando c'è la luna il suo percorso preferito è la grondaia, sul tetto; di
miagolare non è capace e i topi gli fanno ribrezzo; presso il pollaio può stare
in agguato ore, eppure non ha mai sfruttato un'occasione per ammazzare; lo
nutro di latte, gli piace moltissimo, lo succhia tra quelle zanne da predatore.
Com'è naturale per i bambini è un gran spettacolo. E' la domenica mattina il
momento della visita, tengo l'animaletto in grembo e i bambini di tutto il
vicinato mi stanno intorno. Son fatte le domande più particolari, cui nessuno
sa rispondere, nemmeno io mi ci metto, ma mi limito, senza altre spiegazioni,
a indicarlo. Qualche volta si portano gatti, in un caso perfino due agnelli, ma
contrariamente all'attesa non si è venuti a nessuna scena di riconoscimento,
gli animali si guardavano a vicenda con occhi da animali ed era chiaro che
accettavano reciprocamente la loro esistenza come un atto divino. In grembo
a me l'animale non conosce né paura né voglia di cacciare. Stretto a me si
sente al meglio. Si attiene alla famiglia che lo ha accolto, non è davvero una
straordinaria fedeltà ma invece il giusto istinto d'un animale che al mondo
certamente ha innumerevoli affini, ma forse nessun vero consanguineo,
perciò la protezione che ha trovato presso di noi gli è sacra. Qualche volta
non posso fare a meno di ridere quando mi annusa, mi si dimena tra le gambe
e non si può separarlo da me; non gli basta essere agnello e gatto, quasi
quasi vuol essere anche un cane. Sul serio, sono d'accordo con lui. Ha
l'irrequietezza sia del gatto che dell'agnello, per quanto essi siano diversi, ma
è per questo che la sua pelle gli va stretta, forse per lui il coltello del
macellaio sarebbe una liberazione, che però, avendolo avuto in eredità, io
devo rifiutare. (Eine Kreutzung, 1917?)

Una visita in miniera.

Oggi gli ingegneri di grado più elevato erano giù con noi. C’è stata una
qualche disposizione della dirigenza di attrezzare nuove gallerie, per cui gli
ingegneri sono venuti dabbasso per dare inizio alle primissime misurazioni.
Come sono giovani, costoro, e nello stesso tempo già tanto reciprocamente
diversi! Tutti sono cresciuti senza coercizioni, e i loro caratteri, chiaramente
stabiliti già nei primi anni, appaiono indipendenti.
Uno, dai capelli scuri, vivace, guarda da ogni parte.

Un secondo, dotato di un blocco per appunti, mentre cammina scrive, si


guarda intorno, annota.

Un terzo, le mani nelle tasche della giacca che per questo gli si tende tutta
addosso, procede eretto; mantiene la dignità; solo nel suo continuo mordersi
le labbra traspare, non troppo marcatamente, la giovanile impazienza.

Un quarto fornisce al terzo non richiesti chiarimenti; più basso, come un


tentatore che lo insegue, sembra che reciti soprattutto una litania: che cosa
c’è da vedere qui.

Un quinto, forse quello di grado più elevato, non tollera alcuna compagnia;
alla svelta si trova in testa, o in coda; gli altri regolano i loro passi sui suoi; è
pallido e fragile; la responsabilità gli ha scavato gli occhi; preme spesso, nel
riflettere, la mano sulla fronte.

Il sesto e il settimo camminano un po’ curvi, le teste vicine, a braccetto,


conversando confidenzialmente; se non fossero evidenti, qui, la nostra
miniera di carbone e il lavoro che facciamo, si potrebbe pensare che questi
signori ossuti, imberbi, con il naso a patata, siano dei giovani ecclesiastici.
Uno continua a farsi delle risatine che sembrano le fusa di un gatto; anche
l’altro ride, guida la conversazione e a questo scopo con la mano libera dà
come il tempo. Come devono essere sicuri del loro impiego questi due
signori, e quale stipendio, a dispetto della loro giovane età, devono essersi
già conquistati nella nostra miniera, per potere qui, durante una visita così
importante, sotto gli occhi dei loro superiori, permettersi di trattare,
imperturbabilmente, solo di questioni particolari o comunque estranee
all’immediata incombenza! O invece loro, nonostante tutto il ridere e la
sbadataggine, rilevano benissimo quel che serve: possibile? Su tali signori si
osa a mala pena dare un giudizio ponderato.

D’altra parte è certo, tuttavia, che l’ottavo, per esempio, sta più attento, senza
confronto, di questi e anche più di tutti gli altri signori. Deve toccare tutto e
picchiettare con un martelletto che seguita a tirar fuori e a rimettere in tasca.
A tratti s’inginocchia nello sporco, nonostante il suo elegante abito, e
colpisce il suolo, poi, ma solo mentre riprende il cammino, le pareti o il
soffitto al di sopra della sua testa. In un caso si è messo lungo disteso ed è
rimasto lì fermo, noi già a pensare che fosse capitato un guaio; ma poi è
saltato su con solo uno scatto del suo fisico slanciato. Aveva fatto, dunque,
una verifica, nient’altro. Noi credevamo di conoscere la nostra miniera e le
sue pietre, ma non riusciamo a capire quello a cui indaga così senza soste
questo ingegnere.

Un nono spinge davanti a sé una specie di carrozzina per bambini dove si


trovano gli apparecchi di misurazione. Costosissimi strumenti affondati negli
intarsi di un contenitore ovattato. Veramente a spingere il carretto dovrebbe
essere un sottoposto, ma non glielo si affida; deve stargli accanto un
ingegnere, e, come si nota, lo fa volentieri. E’ davvero il più giovane, forse
ancora non conosce tutti gli strumenti, comunque il suo sguardo ci torna di
continuo, perciò corre quasi il rischio, a volte, di sbattere il carretto contro
una delle pareti.

Ma a evitarlo c’è un altro ingegnere che cammina accanto al carretto. Costui


evidentemente conosce gli strumenti in modo completo e sembra esserne il
più autentico custode. Di tanto in tanto ne prende uno senza fermare il
carretto, ci guarda attraverso, avvita, svita, scuote e dà colpetti, lo porta
all’orecchio e ascolta; infine lo rimette nel carretto, si tratta di un oggettino
appena visibile da lontano, mentre il conduttore durante la maggior parte
dell’operazione resta fermo. Quest’ingegnere è un po’ prepotente, ma
soltanto in nome degli strumenti. A distanza di dieci passi davanti al carretto
noi dobbiamo, basta un segno delle dita senza parole, farci da parte, anche lì
dove non c’è nessuno spazio disponibile.

Dietro questi due signori cammina il sottoposto, sfaccendato. Ciascuno dei


signori ha da tempo naturalmente maturato una certa fierezza dal suo sapere,
il sottoposto invece l’ha racimolata dentro di sé. Una mano dietro la schiena,
l’altra davanti, sui bottoni dorati, oppure a toccare la fine stoffa della sua
livrea, il sottoposto annuisce ripetutamente a destra e a sinistra come se noi
ci fossimo inchinati e lui rispondesse, o come se supponesse che noi ci
fossimo inchinati senza che lui potesse, dal suo alto livello, verificarlo.
Naturalmente non c’inchiniamo, tuttavia si avrebbe voglia quasi di credere, e
sia pure ciò qualcosa di incredibile, che lui sia un usciere di segreteria presso
la direzione della miniera. Del resto gli ridiamo dietro, ma nemmeno un colpo
di tuono potrebbe farlo voltare, lui resta qualcosa d’incomprensibile alla
nostra attenzione.

Oggi si è lavorato poco, dopo la visita; l’interruzione era stata ingombrante;


via tutti i pensieri di lavoro. Troppo allettante osservare i signori nel buio
della galleria sperimentale in cui sono tutti spariti. Anche il nostro turno è
finito presto; non potremo più vedere il loro ritorno. (Ein Besuch im
Bergwerk, 1919)

Il più vicino villaggio

Usava dire mio nonno: “la vita è breve da non credere. A ricordarmene ora mi
si condensa talmente che per esempio a stento capisco come un giovane
possa decidere di recarsi nel più vicino villaggio senza aver paura che – a
prescindere da eventi sfortunati – anche il tempo della vita normale,
felicemente scorrente, di gran lunga non basti a una cavalcata del genere.”
(Das naechste Dorf, 1919)

La preoccupazione del padre di famiglia

Dicono alcuni che la parola Odradek derivi dallo slavo e cercano di


dimostrare su tale base la sua formazione, altri ritengono che derivi dal
tedesco e che dallo slavo sia soltanto influenzata. L'incertezza di entrambe le
spiegazioni però permette di concludere con ragione che nessuna sia giusta,
tanto più che nessuna delle due consente di dare un senso alla parola.
Com'è naturale nessuno si occuperebbe di tali studi se non ci fosse davvero
una creatura che si chiama Odradek. A prima vista pare come un rocchetto
per filo piatto a forma di stella, e di fatto è anche coperto di filo, potrebbe del
resto trattarsi solo di pezzi di filo strappati, vecchi, annodati tra loro, ma
anche di pezzi di filo intrigati del tipo e del colore più diversi. Non è però solo
un rocchetto, ma dal centro della stella sporge in fuori a perpendicolo una
barrettina cui ne è congiunta ad angolo retto un'altra. Per mezzo di
quest'ultima barretta da una parte, e di uno dei raggi della stella dall'altra, il
tutto riesce a star su come su due gambe.
Si sarebbe tentati di credere che tale creazione abbia avuto in passato una
qualche forma funzionale e che ora sia soltanto rotta, ma non sembra essere
questo il caso, almeno non se ne trova alcun indizio, da nessuna parte sono
visibili commessure o rotture indicanti qualcosa del genere, cioè il tutto pare
privo di senso, tuttavia conchiuso in sé. Del resto non se ne può dire di più,
da vicino, perché Odradek è straordinariamente mobile e inafferrabile.
Si ferma magari in soffitta, per le scale, nei corridoi, nell'androne, a volte per
mesi non lo si vede, segno che è passato in altre case, eppure
immancabilmente ritorna in casa nostra. A volte, quando si esce dalla porta e
lui è appoggiato in basso alla balaustra delle scale, si ha voglia di parlargli,
com'è naturale non gli si fanno domande difficili, ma lo si tratta come un
bambino – a ciò indotti dalla sua piccolezza. “Come ti chiami?” - gli si chiede;
“Odradek”, dice. “E dove abiti?” “Residenza incerta”, dice ridendo, ma si
tratta d'una risata come la si può emettere senza avere i polmoni. Suona più o
meno come il frusciare di fogli caduti. Con ciò il contatto per lo più termina,
del resto non sempre ci sono risposte, spesso sta a lungo muto come il legno
che pare sia.
Vanamente mi chiedo cosa gli accadrà. Ma può morire? Tutto ciò che muore,
prima ha avuto una sua meta, un suo fare, e poi si è annullato, ma questo non
è il caso di Odradek. E se una volta dovesse rotolare giù per le scale, faccio
per dire, colpito da una pedata dei miei figli e nipoti, tirandosi dietro i suoi fili
di refe? Certo non fa male a nessuno, ma la prospettiva che lui mi sopravviva
quasi mi fa soffrire. (Die Sorge des Hausvaters, 1919)
K. era un gran prestigiatore

K. era un gran prestigiatore. Un po' monotono, il suo programma, però a


causa delle sue indubbie prestazioni continuava ad avvincere. Dello
spettacolo in cui per la prima volta lo vidi mi ricordo naturalmente benissimo
nonostante che siano passati venti anni e io fossi un ragazzino. Venne nella
nostra misera cittadina senza avviso preliminare e allestì lo spettacolo la sera
stessa del suo arrivo. Nella grande sala da pranzo del nostro albergo, attorno
a una tavola che stava al centro c'era poco spazio a disposizione – tutto qui
l'allestimento teatrale. Secondo quel che ricordo la sala era stracolma, certo a
un bambino ogni ambiente sembra stracolmo se vi sono luci di candele
accese, si sente la mescolanza vociante dei presenti, un cameriere corre di
qua e di là e simili cose; né sapevo perché fossero venuti in tanti a questo
spettacolo chiaramente improvvisato. Com'è naturale il mio ricordo di tale
presunto sovraffollamento della sala dipende pur sempre dall'impressione
che lo spettacolo mi fece, certo determinante. (K war ein grosser
Taschenspieler, 1917?)

Una comune confusione

Un episodio comune; sopportarlo è da eroi comuni; A. deve concludere un


affare importante con B., del villaggio vicino, H. Per una discussione dei
preliminari si reca alla volta di H., percorre la strada in dieci minuti per volta,
andata e ritorno, e a casa si vanta di questa notevole velocità. Il giorno dopo
si reca di nuovo alla volta di H., per concludere l’affare; ciò richiedendo,
presumibilmente, diverse ore, A. esce già di buon mattino; tuttavia,
nonostante che ogni dettaglio circostanziale, almeno secondo A.,sia del tutto
uguale al giorno prima, stavolta egli impiega dieci ore a percorrere la via per
H. Quando arriva stanco, a sera, gli viene detto che B., irritato dall’assenza di
A., dopo mezz’ora circa si è mosso verso A. e il villaggio di A.; avrebbero
dovuto incontrarsi, in realtà. Sarebbe consigliabile che A. aspettasse B., che
dovrebbe ritornare proprio tra poco. Tuttavia A., in ansia per l’affare, parte
subito verso casa. Stavolta rifà la strada, senza farci molto caso, addirittura in
un batter d’occhio. A casa viene a sapere che B. è arrivato presto, ancor
prima che A. partisse, che ha incontrato A. proprio sulla porta di casa, che gli
ha ricordato l’affare, ma che A. gli ha detto di non averne assolutamente
tempo, che doveva partire in gran fretta. Che, nonostante questa
incomprensibile condotta di A., B. è rimasto ad aspettare A. Che ha, certo,
molte volte chiesto se A. fosse tornato, o se invece si trovasse ancora in
camera sua. Fortunatamente A., intanto, sale di corsa le scale per poter
parlare con B. e spiegargli tutto. E’ già di sopra, inciampa, si stira un tendine
e presto, reso inerme dal dolore, incapace perfino di gridare, limitandosi a
piagnucolare nel buio sente e vede che B., non si distingue se in gran
lontananza o vicino a lui, infuriato scende le scale e scompare
definitivamente. (Eine alltaegliche Verwirrung, 1917)

Lampade nuove

Sono stato per la prima volta ieri negli uffici della direzione. Il nostro turno di
notte mi ha scelto come rappresentante e, dato che sia le caratteristiche
costruttive sia il serbatoio <del petrolio> delle nostre lampade sono
inadeguati, dovevo sollecitare in direzione l'eliminazione di tale
inconveniente. Mi si è indicato l'ufficio competente, ho bussato e sono
entrato. Un giovane di aspetto fragile, assai pallido, mi ha sorriso dalla sua
grande scrivania. Numerose volte, troppo numerose, ha annuito a quel che
dicevo. Non sapevo se dovevo sedermi, mi spiego, una sedia disponibile
c'era, ma ho pensato che alla mia prima visita forse non dovevo sedermi
subito, ragion per cui gli ho fatto il mio rapporto stando in piedi. Proprio a
causa di tale ritegno però ho causato evidentemente al giovane delle
difficoltà, era infatti costretto a volgere il viso in su e dalla mia parte, se non
voleva spostare la sua sedia, né voleva farlo. D'altra parte però lui, non
girando interamente, nonostante ogni sua premura, il collo, durante il mio
rapporto guardava di sbieco a metà strada tra me e il soffitto, e senza volere
io lo seguivo con gli occhi. Quando ho finito si è alzato lentamente, mi ha
dato dei colpetti su una spalla e ha detto: ecco ecco, sì sì, e poi mi ha fatto
passare nella stanza accanto, dove ci aspettava un signore con una gran
barba incolta, era evidente che stava in attesa, sul suo tavolo infatti non si
vedeva traccia di lavoro – ricordo inoltre una piccola porta a vetri aperta che
dava su un giardinetto con fiori e cespugli in abbondanza. Un breve
ragguaglio di poche parole mormorato da parte del giovane è stato
sufficiente a quel signore a capire le nostre articolate lagnanze. Si è subito
alzato e ha detto: dunque, mio caro – si è fermato, credo che volesse sapere il
mio nome, e già stavo aprendo la bocca per presentarmi di nuovo, ma lui mi
ha interrotto: certo certo, va bene va bene, so benissimo chi sei – la tua, o
meglio la vostra richiesta, certamente ha fondamento, io e i signori della
direzione siamo gli ultimi che la trascurerebbero. Il bene degli uomini,
credimi, ci sta più a cuore del bene dello stabilimento. Come no? Il bene dello
stabilimento col tempo si può ripristinare, costa solo soldi, al diavolo i soldi,
se invece un uomo muore è proprio un uomo a morire, resta la vedova, i figli.
Dio mio! Per cui ogni proposta di aumentare la sicurezza, di render le cose
più comode, si accrescere agio e lussi ci è altamente benvenuta. Chi viene
con tali propositi è il nostro uomo. Tu ci lasci qui, dunque, le tue lamentele, le
prenderemo accuratamente in esame; nel caso che qualche altra illuminata
piccola novità dovesse magari venir aggiunta, noi non la trascureremo,
intanto eccovi le nuove lampade, ma ai tuoi laggiù io dico: fintanto che non
avremo trasformato le vostre gallerie in salotti qui non ci daremo pace, e
infine voi non morirete se non in stivaletti laccati. E con ciò tanti saluti! (Neue
Lampen, 1917?)
La verità su Sancho Pansa

Sancho Pansa, che del resto non se n'è mai gloriato, per anni nelle ore serali
e notturne associò a una quantità di racconti di cavalleria e di brigantaggio il
suo demone, cui più tardi dette il nome di Don Chisciotte; riuscì talmente
bene a scrollarsi di dosso le imprese più folli compiute da Don Chisciotte,
che, mancando tali imprese della loro connessione con Sancho Pansa,
restarono innocue. Sancho Pansa, uomo libero, seguì imperturbabile, forse
con un certo senso di responsabilità, le scorrerie di Don Chisciotte e ne
ricavò un grande e utile divertimento fino alla sua fine. (Die Wahreit ueber
Sancho Pansa, 1917?)

Il silenzio delle sirene

Dimostrazione del fatto che anche metodi insufficienti, anzi puerili, possono
servire alla salvezza. Per proteggersi dalle sirene Odisseo si imbottì le
orecchie di cera e si fece incatenare all'albero. Com'è naturale da sempre tutti
i viaggiatori avrebbero potuto fare lo stesso (esclusi coloro che le sirene
avevano ammaliato già da lontano), ma nel mondo intero si riteneva
impossibile che ciò servisse. Il canto delle sirene penetrava tutto, perfino la
cera, e la passione dei sedotti avrebbe fatto saltare altro che catene e albero!
Tuttavia Odisseo non ci pensò proprio, a questo, per quanto forse ne avesse
sentito parlare, si fidò completamente della cera che aveva in mano e del
vincolo della catena, e si fece con innocenza incontro alle sirene compiaciuto
del suo espediente.
Ora, le sirene hanno un'arma anche più tremenda del loro canto, vale a dire il
silenzio. Certo non è successo, ma è pensabile che qualcuno si sia salvato
dal loro canto, non certamente dal loro silenzio. Al sentimento di averle vinte
con la propria forza, alla travolgente superbia che ne consegue, nulla di
terreno può opporsi.
Di fatto queste impressionanti cantatrici non cantarono, all'arrivo di Odisseo,
sia che ritenessero soltanto il silenzio in grado di convincere un simile
avversario, sia che la vista della beatitudine del volto di Odisseo, che non
pensava a null'altro che a cera e catene, facesse loro dimenticare ogni canto.
Tuttavia Odisseo non udì il loro silenzio, per dir così, ritenne che cantassero e
di essere protetto dall'udirle; sfiorò con lo sguardo, dapprima, il moto delle
loro gole, il loro profondo respiro, i loro occhi umidi, la loro bocca dischiusa,
ma ritenne che ciò fosse insito a brani canori risuonanti attorno a lui, che non
li udiva; presto però il tutto smise di far presa sul suo sguardo, ora rivolto
lontano; le sirene proprio non le vedeva più e proprio quando fu loro
vicinissimo ne ignorò ogni cosa.
Le sirene, più belle che mai, che cosa fecero? Si placarono, lsi volsero verso
Odisseo, lasciarono che le loro chiome paurose si librassero nel vento,
allargarono gli artigli sulle rocce; di sedurre non avevano più voglia, volevano
solo carpire, finché fosse possibile, il riflesso dei grandi occhi di Odisseo.
Inconsapevoli del fatto che quella volta erano state annullate, rimasero a
guardare, e soltanto Odisseo è sfuggito loro. A ciò viene tramandata
d'altronde un'aggiunta. Odisseo era tanto astuto, si dice, una volpe tale che la
Parca stessa non riusciva a penetrare nella sua interiorità; forse lui notò in
realtà che le sirene tacevano, per quanto ciò non sia alla portata dell'intelletto
umano, e oppose loro, ed agli dei, la suddetta simulazione solo come una
difesa, diciamo. (Das Schweigen der Sirenen, 1917?)

Ospite dei morti

Ero ospite dei morti. Si trattava di una grande cripta ben tenuta, già vi si
trovavano diverse bare, con tuttavia dei posti ancora disponibili, due erano
aperte, dentro sembravano letti sfatti che giustappunto siano stati lasciati. Un
po’ di lato, tanto che non lo individuai con chiarezza, uno scrittoio dietro cui
stava un uomo dal fisico possente. Nella mano destra teneva una penna, era
come se avesse scritto e terminato proprio ora, la sinistra giocava all’altezza
del panciotto con la catenella luccicante d’un orologio, la testa
profondamente abbassata su di essa. Una domestica scopava, per quanto
non vi fosse nulla da scopare.
Con una certa curiosità tirai via il fazzoletto che le copriva il capo e le
metteva in ombra il viso. Solo ora la vidi. Era una ragazza ebrea che avevo
conosciuto una volta. Piccoli occhi scuri e un viso bianco, sensuale. Dato che
mi sorrideva dal centro dei suoi stracci che la facevano sembrare una
vecchia, dissi: “State facendo la scena, non è vero?” “Sì”, “un po’. Come la
sai lunga!” Poi però indicò l’uomo allo scrittoio e disse: “Ora va’ a salutarlo,
qui lui è il padrone. Fino a quando non lo hai salutato, non posso davvero
conversare con te”. “Ma chi è?” - domandai piano. “Un aristocratico
francese”, disse lei, “si chiama de Poiton”. “Com’è che si trova qui?” -
domandai. “Non lo so”, disse lei, “qui c’è una gran confusione. Aspettiamo
uno che faccia ordine. Sei tu?” “No no”, dissi io. “Molto assennato”, disse lei,
“Ora però va’ dal signore”.
Così ci andai e m’inchinai; tuttavia lui non alzò la testa – vedevo solo i suoi
capelli bianchi spettinati - dissi buonasera, ma ancora non si muoveva, una
gattina svoltava l’angolo dello scrittoio, ecco, era saltata dal grembo del
signore e spariva di nuovo, forse lui non stava guardando la catenella
dell’orologio, ma sotto lo scrittoio. Ora volevo dimostrare in qualche modo
che mi ero avvicinato, ma la mia conoscente mi tirò per la giacca e bisbigliò:
“E’ già sufficiente così”.
Molto contento di questo, mi voltai verso di lei e ritornammo a braccetto
verso le bare. La scopa mi dava noia, “buttala via”, dissi, “no, ti prego”, disse
lei, “lasciamela tenere, lo vedi bene, no, che scopare qui non può dare alcun
fastidio, e dunque; d’altra parte, però, è qualcosa che mi fa guadagnare e non
voglio rinunciarci. Rimarrai qui?” - domandò cambiando discorso. “Per te
resto volentieri”, dissi lentamente. Ora ci muovevamo attaccati strettamente
come una coppia d’innamorati. “Rimani, oh, rimani”, disse lei. “Come mi
sento dopo che ti ho visto. Qui non è tanto male come forse temi. E cosa
c’importa di quel che c’è intorno”. Per un attimo procedemmo in silenzio,
avevamo sciolto reciprocamente la stretta, ora ci tenevamo a braccetto.
Percorremmo il passaggio principale, a destra e a sinistra c’erano bare, la
cripta era molto grande, o almeno molto lunga. Era scuro, ma non
completamente, come un crepuscolo che però si rischiarava in un piccolo
circolo intorno a noi. D’improvviso lei disse: “Vieni, ti mostrerò la mia
tomba”. La cosa mi stupì. “Non sei mica morta”, dissi. “No”, disse, “ma per la
verità qui io ci capisco poco, anche per questo sono così felice che tu sia
venuto. Ci metterai meno a capire tutto quanto, già ora probabilmente vedi
più chiaro di me. Comunque: io ho una bara”. Svoltammo in un passaggio
laterale, ancora tra due file di bare. La disposizione mi ricordava una grande
cantina che avevo visto una volta. Lungo questo passaggio attraversammo
un ruscelletto che scorreva rapido, largo appena un metro. Poi in breve
fummo presso la bara della ragazza, dotata di un bel cuscino guarnito di
pizzo. La ragazza ci si mise dentro e mi attirò giù, meno con il cenno
dell’indice che non con lo sguardo. “Sei una cara ragazza”, dissi, le tirai via il
fazzoletto dal capo e trattenni la mano nella soffice pienezza dei suoi capelli.
“Non posso restare ancora con te. C’è qualcuno nella cripta con cui devo
parlare. Non vuoi aiutarmi a cercarlo?” “Devi parlare con lui? Qui non ci sono
obblighi”, disse. “Ma io non sono di qui”. “Credi ancora di metterti in salvo?”
“Certamente”, dissi. “Ragione di più per non sprecare il tuo tempo”, disse.
Poi cercò sotto il cuscino e tirò fuori una camicia. “E’ la mia veste funebre”,
disse, e me la porse, “ma io non la indosso”. (Bei den Toten zu Gast, 1920)

Di notte

Sono sprofondati nella notte. Come talvolta si china il capo per riflettere, essi
sono sprofondati nella notte. Dormono, ma è una misera commedia,
un'innocente illusione che essi dormano in una casa distesi su dei solidi letti,
sotto un solido tetto, o gravino su materassi, tra le lenzuola, sotto le coperte;
in realtà un po' alla volta si sono fatti un giaciglio all'aperto in un ambiente
desertico. Sono un incalcolabile numero di persone, una moltitudine, un
popolo, stanno sotto il cielo freddo, sulla terra fredda, gettati lì dove prima
stavano in piedi, la fronte premuta sul braccio, il viso contro il suolo,
respirando quieti. E tu fai la guardia, sei una delle guardie, individui la
prossima guardia agitando la torcia fuori dal riparo di saggina che hai
accanto. Perché fai la guardia? Uno deve farlo, si dice, uno deve esserci <non
concluso> (Nachts, 1920?)

La nostra cittadina

La nostra cittadina non si trova prossima alla frontiera, ne è assai lontana, ne


dista così tanto che forse ancora nessuno dei suoi abitanti vi è arrivato, ci
sono da attraversare deserti altipiani, ma anche vaste fertili campagne.
Stanca anche soltanto immaginarsi una parte del percorso, e più di una parte
quasi è inimmaginabile. Anche grandi città si trovano sul percorso, molto più
grandi della nostra. Dieci cittadine come la nostra messe una accanto all’altra
e altrettante pressate l’una sull’altra non danno come risultato nessuna di
queste colossali, consistentissime città. Non si perde la strada, diretti alla
frontiera, invece ci si perde certamente nelle città, e a causa della loro
grandezza è impossibile scansarle.
Tuttavia ancora più lontana della frontiera dalla nostra cittadina, se distanze
simili potessero essere paragonate – come se si dicesse che un uomo di
trecentocinquanta anni è più vecchio di uno di duecentocinquanta anni -
ancora più lontana della frontiera è, dalla nostra cittadina, la capitale. Mentre
noi talvolta riceviamo notizie delle guerre di frontiera, della capitale non
veniamo a sapere quasi niente, intendo noi civili, poiché i funzionari del
governo dispongono a dire il vero di un ottimo collegamento con la capitale;
da essa in due, tre mesi, già riescono a ricevere una notizia, almeno così
sostengono.
Ora, è strano, e me ne stupisco sempre, come noi nella nostra cittadina ci
sottomettiamo imperturbabilmente a tutto ciò che viene disposto dalla
capitale. Da centinaia di anni presso di noi non ha avuto luogo alcun
cambiamento politico per mano dei cittadini stessi. Nella capitale si sono dati
il cambio l’un con l’altro principi illustri, perfino dinastie si sono esaurite, o
sono state deposte e delle nuove hanno avuto inizio, nelle centinaia di anni
addirittura la capitale stessa è stata distrutta, ne è stata fondata una nuova
lontano dalla prima, più tardi anche la nuova è stata distrutta e la vecchia
ricostruita, e ciò non ha avuto nessun vero influsso sulla nostra cittadina. I
nostri funzionari sempre al loro posto, quelli di grado più elevato provenienti
dalla capitale, quelli di grado medio quasi tutti provenienti da fuori, quelli di
grado più basso dalla nostra cerchia, così è stato e così ci è andato bene. Il
funzionario più alto è il sovrintendente alla esazione delle imposte, ha il rango
di un colonnello e così anche viene denominato. Oggi è un vecchio, io lo
conosco da anni perché già durante la mia fanciullezza lui era sovrintendente,
prima ha fatto una carriera molto veloce, poi parve che essa ristagnasse,
tuttavia per la nostra cittadina il suo rango è sufficiente, non saremmo in
grado di accoglierne presso di noi uno più elevato. Se provo a
immaginarmelo, lo vedo seduto comodamente nella veranda della sua casa
sulla piazza del mercato, la pipa in bocca. Sopra di lui sventola la bandiera
imperiale, ai lati della veranda, così ampia che qualche volta vi si fanno anche
delle piccole esercitazioni militari, sta appeso ad asciugare il bucato. I nipoti
del Colonnello, con i loro begli abiti di seta, giocano intorno a lui, non
possono scendere nella piazza, gli altri fanciulli non sono degni di loro, ciò
nonostante la piazza li attira ed essi, almeno, infilano la testa tra le sbarre
della ringhiera e, quando gli altri fanciulli bisticciano, dall’alto partecipano al
bisticcio.
Questo Colonnello dunque governa la città. Non ha, credo io, mostrato a
nessuno un documento che lo autorizzi a ciò. Forse non ce l'ha neanche, un
documento del genere. Forse è davvero sovrintendente alla esazione delle
imposte, tutto qui? - e questo lo autorizza a governare anche in tutti i settori
dell’amministrazione? La sua carica per lo Stato è sì molto importante, ma
per i cittadini non è la più importante. Tra la gente si ha un’impressione che a
parole suona più o meno così: “Ora che ci hai preso tutto quello che
avevamo, per favore, prenditi anche noi.” Infatti lui non si è mica impadronito
del potere in sé, e nemmeno è un tiranno. Avviene dai tempi antichi che il
sovrintendente alla esazione delle imposte sia il primo funzionario, e il
Colonnello, non diversamente da noi, obbedisce a questa tradizione.
Non è che viva tra noi in modo troppo privilegiato, tuttavia lui è qualcosa di
totalmente diverso rispetto ai residenti. Se gli si presenta una delegazione
con una supplica, lui si erge come se fosse la Muraglia. E’ il termine del
mondo, dopo di lui niente più, in pratica si odono poche voci che sul posto
seguitano a bisbigliare circospette, tuttavia ciò probabilmente è illusione, ed
ecco che il Colonnello intima di concludere, almeno per quel che riguarda
noi. Bisogna averlo visto, durante queste udienze. Da bambino ero sul posto
la volta che una delegazione lo supplicò di una sovvenzione governativa
perché il quartiere più povero della città era stato completamente ridotto in
cenere da un incendio. Mio padre, maniscalco con una reputazione nella
comunità, era membro della delegazione e mi aveva condotto con sé. Del
tutto normale il pigia pigia attirato da un simile spettacolo, la delegazione
vera e propria a mala pena si distingueva dalla folla; udienze del genere
avevano luogo per lo più sulla veranda, c’era anche gente che ci partecipava
dalla piazza del mercato, arrampicata su delle scale appoggiate alla ringhiera.
Quella volta la cosa si era messa così, il Colonnello aveva per sé un quarto
della veranda, la folla riempiva il resto. Alcuni soldati controllavano tutto
quanto e gli stavano attorno a semicerchio. In definitiva sarebbe stato
sufficiente un soldato solo, tanto è grande il timore che noi se ne ha. Non so
bene da dove vengano questi soldati, comunque da lontano si assomigliano
tutti, non avrebbero certo bisogno d’una uniforme. Si tratta di persone
piccole, non robuste, ma agili, hanno straordinariamente vistosa la dentatura
che arriva a riempir loro la bocca, occhi piccoli e stretti dallo sguardo
guizzante. E’ a causa tanto della dentatura che degli occhi che essi sono il
terrore dei fanciulli, ma anche il loro diletto, infatti i fanciulli passano di
continuo davanti a queste dentature e a questi occhi, desiderano spaventarsi
per poi correre via sgomenti. Questo sgomento infantile probabilmente non
svanisce neanche negli adulti, se non aumenta, com’è probabile. Si aggiunga
a ciò anche dell’altro. I soldati parlano un dialetto che ci è del tutto
incomprensibile, riescono appena ad assuefarsi al nostro, perciò si rileva in
loro una certa segregazione e inaccessibilità che del resto è conforme al loro
carattere, sono così silenziosi, seri, rigidi, non fanno niente di veramente
cattivo, eppure, quanto all’atteggiamento, lo sono in modo quasi
insopportabile. Per esempio un soldato viene in un negozio, compra una
sciocchezza e rimane lì appoggiato al banco, ascolta i discorsi, forse non li
capisce, però è come se li capisse, continua a non dire una parola, guarda
irrigidito quello che parla e poi quelli che ascoltano, intanto tiene la mano sul
manico del lungo pugnale che ha alla cintura. Questo è detestabile, si perde il
piacere della conversazione, il negozio si svuota e, quando il vuoto è totale
anche il soldato se ne va. Dove i soldati si presentano, dunque, la nostra
gente, che è vivace, si blocca. Era così anche quella volta. Come in tutte le
occasioni solenni, il Colonnello si teneva eretto e teneva con le mani
allungate in avanti due bastoni di bambù. E’ una vecchia usanza che
all’incirca significa che lui si fonda sulla legge, e la legge si fonda su di lui.
Dunque, è vero che ognuno sa che cosa lo aspetta sulla veranda, ciò non di
meno succede che ci si faccia riprendere dallo sgomento di nuovo, anche
quella volta la persona destinata a parlare non riusciva a iniziare, stava già
davanti al Colonnello, ma poi il coraggio gli venne meno e si ritirò di nuovo
con vari pretesti tra la folla. D’altra parte non si trovò nessun altro, idoneo,
che fosse pronto a parlare – invece si offrì qualcuno che non faceva parte
degli idonei – c’era una gran confusione, e si mandarono messi a vari
cittadini riconosciuti come oratori. Nel frattempo il Colonnello rimase fermo
sul posto, solo l’ampio torace gli si sollevava e abbassava nel respirare. Non
che lui respirasse affatto con affanno, respirava solo molto vistosamente
come per esempio fanno le rane, ma loro fanno sempre così, ora invece ciò
era insolito. Mi spinsi furtivo tra gli adulti e l’osservai attraverso il varco
aperto tra due soldati, fino a quando uno con un ginocchio non mi spinse via.
Intanto colui che all’inizio era destinato a parlare aveva ripreso coraggio e,
quasi sostenuto da due concittadini, tenne il discorso. Era toccante come, nel
corso di questa serissima dichiarazione vertente sulla gran disgrazia, lui
continuasse a sorridere, un sorriso assai umile che, invano, s’intensificava
per suscitare anche solo un lieve rispecchiamento sul volto del Colonnello.
Alla fine il supplicante formulò la supplica, chiese soltanto un’esenzione di
un anno dalle imposte, credo, se non forse del legname delle imperiali foreste
a prezzo di favore, nient’altro. Poi s’inchinò profondamente e rimase in quella
posizione, esattamente come tutti gli altri, eccetto il Colonnello, i soldati e
qualche funzionario sullo sfondo. Buffa, per il fanciullo che ero, fu la maniera
in cui quelli che stavano sulla scala posta al margine della veranda ne
scesero alcuni pioli per non farsi vedere durante questa decisiva pausa, e
come, curiosi, di tanto in tanto si limitassero a sbirciare dal basso stretti al
pavimento della veranda. Passò un po’ di tempo, poi un funzionario, uno
piccolino, andò di fronte al Colonnello, sulla punta dei piedi tentò di alzarsi
fino a lui, sempre immobile tra un respiro e l’altro, ne ottenne un sussurro
nell’orecchio, batté le mani, tutti si rialzarono dall’inchino, e proclamò:”La
supplica è respinta, allontanatevi.” Un’ innegabile sensazione di ritrovata
leggerezza percorse la folla e ne sbottò fuori; al Colonnello, che certo era
ridiventato un essere umano come noi, a mala pena qualcuno fece caso, io
vidi solo che lui, effettivamente stanco, lasciò cadere i bastoni, sprofondò in
una sedia con lo schienale trascinata sul posto da un funzionario e,
velocemente, si ficcò la pipa in bocca.
Un fatto nel complesso simile non è raro, di solito è così che va. Capita è vero
che ogni tanto qualche supplica di poco conto venga accolta, ma poi è come
se il Colonnello la avesse accolta di sua responsabilità in quanto autorevole
persona privata, ciò che – certo in modo non esplicito, ma umorale – deve
essere ufficialmente celato all’amministrazione governativa. Ciò significa che,
è vero, il Colonnello ha occhi per la nostra cittadina, per quel che noi
possiamo giudicare, e anche l’amministrazione governativa ne ha, ma qui si
manifesta una differenza che deve restare impenetrabile.
Nelle questioni che contano, d’altra parte, la cittadinanza può essere certa di
un rifiuto. Ora, è strano che, di tale rifiuto, per così dire, non si possa fare a
meno, e che parimenti, quest’andare a ricevere il rifiuto, non sia
assolutamente una formalità. Si va sempre di bel nuovo con serietà, e poi si
ritorna da lì non apertamente rafforzati, tuttavia neppure fiaccati e delusi.
Esiste, per quanto lontano le mie osservazioni possano spingersi, una certa
classe di età che non è soddisfatta, i giovani dai diciassette ai vent’anni
all’incirca. E i giovanissimi nel loro complesso non riescono a percepire, dal
loro punto di vista, l'importanza dell'irrilevanza totale in quanto anticipazione
di un'idea rivoluzionaria. E anche in loro s’insinua l’insoddisfazione. (Unser
Staedchen liegt …1920)

La questione delle leggi

Purtroppo le nostre leggi non sono a tutti note, ma sono il segreto del piccolo
gruppo di aristocratici che ci governa. Siamo convinti del fatto che queste
antiche leggi vengano rispettate come si deve, ma nel venir governati
secondo leggi che non si conoscono c'è qualcosa di estremamente
tormentoso. A questo proposito non penso alle svariate possibili
interpretazioni e agli svantaggi che comporta il fatto che solo a singoli sia
consentito partecipare all'interpretazione, non a tutto il popolo. Si tratta di
svantaggi forse nemmeno molto grandi. Voglio dire che le leggi sono così
antiche, la loro interpretazione continua da secoli, anch'essa è divenuta
legge, certo sussistono ancora possibilità di libera interpretazione, ma sono
assai ridotte. Inoltre l'aristocrazia manifestamente si è lasciata influenzare dal
suo personale interesse a nostro sfavore, anzi le leggi dal loro inizio sono
state fissate per l'aristocrazia, che sta al di fuori della legge, e proprio per
questo la legge pare esser stata posta unicamente in sua mano. In ciò v'è
naturalmente della saggezza – chi dubita delle antiche leggi? - ma anche del
tormento per noi, e probabilmente c'è poco da fare in merito.
Del resto anche queste pseudo leggi possono essere soltanto oggetto di
supposizione. E' una tradizione che esistano e che siano affidate, in quanto
segreto, all'aristocrazia, ma ciò non è e non può essere qualcosa di più che
un'antica e, a causa dell'età, credibile tradizione, infatti il carattere di queste
leggi richiede anche la loro segeretzza. Se, dunque, noi del popolo dai tempi
più antichi osserviamo attentamente l'agire dell'aristocrazia, abbiamo su tale
agire annotazioni prese dai nostri progenitori - da noi scrupolosamente
continuate - se noi riteniamo di riconoscere negli innumerevoli atti certi criteri
che fanno concludere questa o quella disposizione legale e se cerchiamo un
poco di adattarci nel presente e per il futuro secondo queste illazioni
accuratamente vagliate e ordinate – bene, tutto ciò è altamente incerto e forse
è solo un gioco dell'intelligenza, infatti forse queste leggi che noi tentiamo di
indovinare non esistono. C'è un piccolo partito che è davvero di questa
opinione e che cerca di dimostrare che, se una legge esiste, essa può
suonare solo così: quel che fa l'aristocrazia è legge. Tale partito vede solo atti
arbitrari dell'aristocrazia e rifiuta la tradizione popolare che, a suo parere,
porta solo minime e casuali utilità e, al contrario, per lo più gravi danni, e dà
al popolo una falsa illusoria sicurezza di fronte alle cose che avvengono, la
quale sicurezza induce al disimpegno. Tali danni sono innegabili, ma
l'assoluta maggioranza del nostro popolo ne vede la causa nel fatto che la
tradizione accumulata assolutamente non basta, che dunque ancor di più in
essa si deve cercare e che, del resto, anche il suo materiale, per quanto a noi
sembri gigantesco, è ancora troppo modesto, e che ancora devono trascorre
secoli prima che esso sia sufficiente. Nel presente a schiarire la cupezza di
tale visione c'è solo la fede che una volta verrà un tempo in cui la tradizione
accumulata e il suo studio, per così dire con un respiro di sollievo, farà il
punto, tutto diverrà chiaro, la legge apparterrà al popolo e l'aristocrazia
scomparirà. Non si dice questo perché a un dipresso si nutra odio
l'aristocrazia, assolutamente no, nessuno la odia, odiamo invece noi stessi,
perché ancora non sappiamo divenir degni della legge. Perciò, in un certo
senso, è molto appetibile in realtà quel partito che non crede a nessuna legge
vera e propria, un partito rimasto però piccolino perché anche lui riconosce
completamente l'aristocrazia e il suo diritto a esistere. Si può in effetti fare
obbiezione solo in un modo: un partito che, insieme al rifiuto di dar credito
alle leggi, rifiutasse anche l'aristocrazia, avrebbe subito il popolo dietro a sé,
ma un simile partito non può esserci, perché nessun osa rifiutare
l'aristocrazia. Viviamo su questo filo del rasoio, uno scrittore una volta lo ha
sintetizzato come segue: l'unica visibile indubitabile legge che ci è imposta è
l'aristocrazia, e noi, di quest'unica legge, dovremmo volerci privare? (Zur
Frage der Gesetze, 1920?)

Le coscrizioni

Le coscrizioni, spesso necessarie a causa delle continue lotte di confine, si


svolgono come segue: si emana l’ordine che in un giorno stabilito, in un
quartiere stabilito, tutti i residenti senza distinzione, uomini, donne, ragazzi,
debbano rimanere nelle loro abitazioni. Di solito per prima cosa, verso
mezzogiorno, fa la sua comparsa, all’ingresso del quartiere dove un reparto
di fanteria e di cavalleria sta in attesa già dall’alba, il giovane aristocratico
che deve metter mano alla coscrizione. Si tratta di un giovane magro, piccolo,
gracile, vestito in modo trascurato, gli occhi stanchi, assalito senza tregua da
un’irrequietezza che assomiglia al rabbrividire di un malato. Senza guardare
nessuno, costui fa un cenno con lo scudiscio, unico suo equipaggiamento,
alcuni soldati gli fanno seguito e lui si dirige verso la prima casa. Un soldato
che conosce personalmente i residenti del quartiere dà lettura dell’elenco di
tutti gl’inquilini. Di solito ci sono tutti, stanno in riga dentro casa, come se
fossero già soldati non staccano gli occhi dall’aristocratico. Tuttavia può
anche succedere che di tanto in tanto ne manchi uno, si tratta sempre di
uomini. Dal momento che nessuno oserà accampare una scusa o addirittura
una bugia, ci si limita a tacere, si tengono gli occhi bassi, mal si sopporta il
peso della trasgressione avvenuta nella casa, ma la muta presenza
dell’aristocratico trattiene tutti ai loro posti. L’aristocratico dà un segnale, non
si tratta neppure di un cenno del capo, lo si legge unicamente nei suoi occhi,
e due soldati iniziano a cercare colui che manca. Questo non costa
assolutamente alcuna fatica. Non si trova mai fuori di casa, il mancante, mai
ha l’intenzione di sottrarsi veramente al servizio militare, non si trova al suo
posto soltanto per paura, ma nemmeno la paura del servizio è quella che lo
trattiene, si tratta soprattutto del timore di farsi vedere, l’ordine per lui è
smisuratamente formale, gli causa grande paura, da solo non riesce a
cavarsela. Perciò non scappa, si nasconde soltanto, quando sente che
l’aristocratico è in casa striscia fuori dal nascondiglio verso la porta della
stanza e viene subito afferrato dai soldati che ne stanno uscendo. Lo si porta
davanti all’aristocratico, che prende lo scudiscio a due mani – è tanto debole,
con una mano non farebbe niente – e picchia. E’ difficile che ciò provochi forti
dolori, perché l’aristocratico fa calare lo scudiscio un po’ con stanchezza, un
po’ con ripugnanza, l’atto deve sopprimerle e raggiungere l’uomo. Dopodiché
costui può unirsi alla fila dei restanti. Del resto è quasi sicuro che non verrà
dichiarato idoneo. Succede tuttavia, ed è più frequente, che ci siano più
persone di quante si trovano nell’elenco. Per esempio c’è una ragazza
estranea che guarda l’aristocratico, viene da fuori, forse dalla provincia,
attirata dalla coscrizione, molte donne non sanno resistere al fascino di una
tale altrui coscrizione – che a casa ha un significato totalmente diverso. E’
curioso, non si vede niente di vergognoso nel fatto che una donna ceda a
questa seduzione, anzi, è qualcosa che secondo l’opinione di qualcuno le
donne devono provare, come un debito che pagano al loro sesso. E la cosa si
svolge sempre nello stesso modo. La ragazza o la donna sente dire che da
qualche parte, anche molto lontano, presso parenti o amici, c’è la
coscrizione, chiede ai suoi che le permettano il viaggio, le si dà il consenso,
non si può rifiutarglielo, lei si veste al meglio delle sue possibilità, è più felice
del solito, e insieme calma e serena, indifferente come può essere di solito, e
al di là di tutta la calma e la serenità è inaccessibile, quasi come una straniera
che si reca nella sua patria e non pensa più a nient’altro. Invece, nella
famiglia presso cui deve aver luogo la coscrizione, lei viene ricevuta come
un’ospite abituale, fa complimenti, deve passare per ogni stanza, sporgersi
da ogni finestra, impone le mani sul capo a qualcuno, cosa che supera le
benedizioni dei padri. Quando la famiglia è pronta alla coscrizione, lei riceve il
posto migliore, cioè quello vicino alla porta, dove meglio viene vista
dall’aristocratico e meglio lei vedrà lui. Tale onore tuttavia le dura solo fino
all’entrata dell’aristocratico, dopo si spegne addirittura. Lui la guarda poco
come guarda poco gli altri e, se rivolge lo sguardo su qualcuno, questi non si
sente guardato lo stesso. Ciò lei non se lo è aspettato, o meglio, se lo è
aspettato certamente, poiché non può essere che così, ma non era nemmeno
l’aspettativa del contrario a spingerla, solo qualcosa che ora invece è finito.
Si vergogna come forse si vergognano di solito le nostre donne, per prima
cosa ora si rende conto che si è veramente intromessa in una coscrizione
altrui, e, quando il soldato ha letto ad alta voce l’elenco, il suo nome non è
venuto fuori e per un attimo c’è stato silenzio, lei tremando scappa ingobbita
fuori dalla porta e si prende anche un pugno nella schiena dal soldato.

C’è un uomo in sovrannumero, nonostante che non faccia parte della casa
ora non vuole nient’altro che trovarsi insieme ai coscritti. Anche questo è del
tutto senza speranza, un sovrannumerario non viene arruolato e mai sì è visto
qualcosa del genere. (Die Truppenaushebung, 1920).

Poseidon

Poseidon sedeva alla sua scrivania e calcolava. La gestione di tutte le acque


gli dava interminabilmente da fare. Avrebbe potuto averne quante ne voleva,
di assistenti, e molti ne aveva anche, ma dato che prendeva la sua funzione
molto sul serio ricalcolava tutto ancora una volta, ragion per cui gli assistenti
gli servivano a poco. Non si può dire che il lavoro gli facesse piacere, lo
svolgeva in effetti soltanto perché gli era imposto, in altri termini aveva già
spesso fatto richiesta di un lavoro più lieto, come diceva lui, ma sempre,
quando gli si facevano varie proposte, saltava fuori che nulla gli andava bene
come la sua funzione presente. Era inoltre assai difficile trovargli
qualcos'altro, era impossibile assegnargli qualcosa come un mare preciso; a
prescindere dal fatto che anche in tal caso il lavoro di calcolo non era
modesto, ma soltanto minore, il gran Poseidon poteva avere solo una
posizione dominante. Se gli si offriva una posizione non marina, già ad
immaginarla lui si rabbuiava, la divina respirazione gli si disordinava, la ferrea
cassa toracica si fletteva. Del resto non si prendeva davvero sul serio il fatto
che lui si lagnasse, quando un potente dà fastidio si deve cercar di fingere di
cedergli anche nelle circostanze più disperatamente inutili; nessuno pensava
a un vero esonero di Poseidone, fin dai primordi era stato fatto dio del mare e
tale doveva restare.
In genere si arrabbiava – ecco che cosa principalmente causava la sua
insoddisfazione di funzionario – delle fantasie che si facevano su di lui, del
genere che lui se ne andava per i mari sempre con il tridente. E intanto
sedeva nel profondo dell'oceano e senza interruzione calcolava, di tanto in
tanto era un viaggio da Zeus a rompere la monotonia, viaggio del resto da cui
per lo più tornava infuriato. Così il mare lui lo aveva visto a mala pena e solo
fuggevolmente durante la veloce salita all'Olimpo - mai ci aveva davvero
viaggiato. Soleva dire di essere perciò in attesa della fine del mondo, allorché
si sarebbe concesso ancora un momento di calma in cui avrebbe potuto,
giusto prima della fine, verificati gli ultimi calcoli, farsi ancora un veloce
giretto. (Poseidon, 1920?)

Lo stemma cittadino

All'inizio della costruzione della torre di Babilonia tutto era abbastanza in


ordine, anzi l'ordine era forse troppo grande, si pensava troppo a indicazioni
stradali, interpreti, alloggi operai e vie di comunicazione, quasi si avessero
davanti secoli a disposizione, per l'opera. L'opinione allora dominante era che
la lentezza della costruzione non fosse mai troppa; tale opinione fu presa sul
serio e ci si poté addirittura astenere dal porre le fondamenta della
costruzione. Si argomentò cioè come segue: l'essenziale dell'intera impresa è
il pensiero di costruire una torre alta fino al cielo. Ogni altra cosa, accanto a
tal pensiero, è secondaria. Il pensiero, una volta compreso nella sua
grandezza, non può più svanire, finché ci sono uomini ci sarà anche il forte
desiderio di portare a termine la torre. In questa prospettiva dunque non si
devono avere preoccupazioni di futuro, al contrario, il sapere umano si eleva,
la perizia costruttiva ha fatto passi avanti e altri ne farà, un'opera per la quale
a noi serve un anno, tra cento anni forse verrà completata in sei mesi e anche
meglio, in modo più durevole. Perché dunque già oggi affannarsi al limite
delle forze? Avrebbe senso solo se si potesse sperare di erigere la torre nel
tempo di una generazione. Ciò tuttavia non era affatto attendibile. Meglio
concedersi di pensare che la prossima generazione con il suo perfezionato
sapere avrebbe trovato cattivo l'operato della precedente e avrebbe distrutto
il costruito per ricominciare da capo. Tali pensieri paralizzarono le forze e ci
si preoccupò più della costruzione della città operaia che non della
costruzione della torre. Tutte le maestranze venute dalla provincia vollero per
sé il quartiere migliore, dal che si ebbero contrasti che crebbero fino a
diventare lotte sanguinose. Tali lotte non smisero più; ai capi esse fornirono
nuovi argomenti a ciò che la torre dovesse venir costruita, in mancanza della
necessaria concentrazione, molto lentamente o meglio subito dopo la
pacificazione generale. Non è che ci si occupasse solo di lotte, nelle pause si
abbelliva la città, cosa da cui sortì nuova invidia e nuove lotte. Trascorse così
il tempo della prima generazione, ma nessuna delle successive fu diversa, a
parte la crescita dell'abilità costruttiva, continua, e della litigiosità.
Ne venne che già la seconda o la terza generazione riconoscesse l'
insensatezza della costruzione della torre fino al cielo, tuttavia si era già
troppo vincolati reciprocamente per abbandonare la città. Tutto ciò che è nato
in fatto di leggende e canti, in questa città, è colmo del desiderio d'un giorno,
profetizzato, in cui la città verrà annientata da cinque colpi, un dopo l'altro,
inferti da un pugno gigantesco. Per cui la città anche nel suo stemma ha il
pugno. (Das Stadtwappen, 1920?)

Il timoniere

“Non sono timoniere?” gridavo. “Tu?”- chiedeva un uomo alto, losco,


passandosi una mano sugli occhi come se allontanasse un sogno. Ero stato
al timone nella notte scura, sul mio capo la lanterna che faceva luce fioca, e
ora ecco quest'uomo che voleva mandarmi via. Poiché non cedevo mi
piazzava un piede sul petto e lentamente mi schiacciava intanto che io
seguitavo a reggermi al mozzo della ruota del timone facendolo, nel cadere,
girare del tutto. Allora l'uomo lo afferrava, lo raddrizzava e mi scacciava. Però
riprendevo presto, correvo al boccaporto che conduceva all'area
dell'equipaggio e gridavo: “Equipaggio! Compagni! Venite, presto! Un
estraneo mi ha cacciato dal timone!” Lenti venivano, salivano la scala,
barcollanti stanche potenti figure. “Sono il timoniere?” - chiedevo.
Annuivano, ma guardavano solo l'estraneo, gli stavano attorno in
semicerchio e quando in tono di comando disse “non disturbatemi”, si
strinsero insieme, annuirono in direzione di me e ridiscesero la scala. Che
razza di gente! Erano pensanti oppure si limitavano a ciabattare insensati
sulla Terra? (Der Steuermann, 1920?)

Farsi le ossa

Eravamo in ditta cinque impiegati, il contabile, un malinconico miope, si


spiaccicava come una rana sul libro mastro e non si faceva sentire se non
per via del respiro, faticoso, che debolmente lo sollevava e abbassava; poi
l'addetto alle vendite, un omino dal largo busto da ginnasta cui bastava una
mano, appoggiata allo scrittoio, per dondolarvisi sopra con eleganza e
leggerezza mentre, serio in viso, si guardava attorno con severità. Avevamo
quindi una commessa, una signorina attempata, mingherlina e fragile, abito
attillato, che per lo più teneva il capo inclinato da una parte e sorrideva con le
sottili labbra della sua gran bocca. Io ero l'apprendista, non avevo da fare
molto più che muover lo straccio per spolverare sullo scrittoio, spesso con la
voglia di accarezzare la mano della nostra signorina, lunga, delicata,
grinzosa, color del legno, quand'essa giaceva negligente e distratta sullo
scrittoio o addirittura baciarla, oppure – sarebbe stato il massimo –
appoggiarci il viso dove era così bello appoggiarlo, e solo di tanto in tanto
cambiargli di posto, ragioni di equità, perché quella mano gustasse tutt'e due
le mie guance. Ma non accadde mai, anzi la signorina quando mi avvicinavo
la protendeva, quella mano, e mi indicava di fare qualcosa di nuovo da
qualche parte, in un angolo distante, o sulla scala a pioli, cosa quest'ultima
particolarmente sgradevole, perché su faceva un caldo soffocante a causa
dei bruciatori a gas dell'illuminazione; soffrivo inoltre di capogiri, stavo male,
capitava che ficcassi la testa, con il pretesto d' una pulita particolarmente ben
fatta, dentro uno scaffale, lassù, e piangessi un momentino oppure, quando
nessuno guardava, tenessi una muta allocuzione alla signorina, giù,
rimproverandola assai, cioè, lo sapevo bene che lei né sul posto né altrove
aveva il potere di decidere, ma credevo che in qualche modo, se avesse
voluto, lo avrebbe avuto, e che potesse usarlo a mio pro. Però lei non voleva,
anzi non usava nemmeno quello che aveva, voglio dire, era l'unica tra noi a
cui l'uomo di fatica della ditta dava retta un pochino, sennò era la persona più
ostinata; certo era il più anziano della ditta, era stato in servizio anche sotto il
vecchio capo, ne aveva viste talmente tante che noi nemmeno ce lo
immaginavamo, però ne traeva la falsa convinzione di intendersene più degli
altri, per esempio di essere in grado di tenere i libri contabili non solo come il
contabile, ma molto meglio, di saper servire la clientela meglio dell'addetto
alle vendite eccetera; sosteneva di aver accettato il posto di uomo di fatica
della ditta perché lo voleva lui, dato che per quel posto lì non si sarebbe
trovato nessuno, nemmeno un incapace. E si affannava da quarant'anni, lui
che non poteva neppure essere stato tanto robusto, e adesso era già
soltanto un relitto, con casse e pacchi. L'aveva accettato di sua volontà, ma
noi ce ne eravamo dimenticati, erano arrivati tempi nuovi, non gli eravamo
grati e, mentre nella ditta venivano fatti gli errori più giganteschi, lui doveva,
senza che lo si lasciasse intervenire, inghiottire la sua conseguente
disperazione e per di più restare incatenato al suo gravoso lavoro.
(Konsolidierung, 1920?)

La prova

Sono un servo, ma per me non c'è lavoro. Sono timido e non mi faccio avanti,
anzi non mi metto nemmeno in fila con gli altri, ciò tuttavia non è la causa
principale della mia disoccupazione, è anche possibile che con la mia
disoccupazione ciò non abbia niente a che fare, la causa principale è
comunque che io non vengo chiamato a servire, altri sono stati chiamati e
non si sono dati da fare più di me, anzi forse non hanno avuto nemmeno il
desiderio di venir chiamati a servire, mentre io almeno qualche volta lo ho
fortemente.
E allora me ne sto seduto nella stanza dei lavoratori agricoli, e scruto le travi
del soffitto, mi addormento, mi sveglio e poi mi riaddormento. Capita che me
ne vada all'osteria dove si mesce una birra scadente, per la ripugnanza
qualche volta ne ho rovesciato un bicchiere, poi però torno a berne. Mi ci
trovo bene perché dietro la finestrella chiusa, senza poter venire scoperto da
nessuno riesco a guardare le finestre della nostra casa. Cioè, non è che si
veda molto, qui sulla strada credo che ci siano solo le finestre dei corridoi, e
inoltre non di quei corridoi che portano agli appartamenti dei padroni. E'
possibile anche che mi sbagli, ma nessuno mai lo ha affermato senza esser
da me interrogato, e l'impressione generale di questa facciata lo conferma.
Solo di rado le finestre vengono aperte e quando succede lo fa un servo e poi
si appoggia tutto al davanzale per guardare verso il basso. Ci sono anche
corridoi dove non si riesce a sorprendere quel servo, comunque io non lo
conosco, i servi occupati in modo stabile dormono altrove, non nella mia
stanza.
Una volta che ero andato all'osteria un altro avventore era seduto nel mio
posto di osservazione. Non avevo il coraggio di guardarlo per bene e stavo
per girarmi subito verso la porta per andarmene, ma lui mi chiamò, e venne
fuori che anche lui era un servo e che lo avevo già visto da qualche parte
senza però, fin lì, averci parlato. “Perché vuoi andartene? Siedi e bevi, pago
io.” E allora mi sedetti. Mi chiese qualcosa, ma non seppi rispondere, anzi,
nemmeno capii le domande, per cui dissi: “Forse ora te ne penti, di avermi
invitato, me ne vado”, e stavo per alzarmi, ma lui allungò il braccio sul tavolo
e mi spinse giù: “Resta”, disse, “era solo una prova, chi non risponde alle
domande l'ha superata.” (Die Pruefung, 1920?)
L'avvoltoio

Era un avvoltoio a beccarmi i piedi, già mi aveva rotto calze e stivali, ora mi
beccava anche i piedi. Seguitò a colpire, poi senza darsi pace mi volò attorno
più volte e continuò l'opera. Venne un signore, stette a guardare un po' e poi
chiese perché subissi l'avvoltoio. “Ma sono disarmato”, dissi “è arrivato e ha
cominciato a beccare, allora com'è naturale lo volevo scacciare, ho cercato
perfino di tirargli il collo, ma una bestia simile ha grandi forze, mi voleva
anche saltare in faccia, allora gli ho sacrificato i piedi, che ora sono
pressoché straziati.” “Vedo che vi lasciate tormentare”, disse quel signore,
“un colpo, e l'avvoltoio è spacciato.” “Davvero?”- chiesi, “e avete intenzione
di occuparvene voi?” “Volentieri” disse quel signore, “ho solo da andare a
casa a prendere il fucile. Potete aspettare un'altra mezz'ora?” “Questo non lo
so”, dissi io irrigidendomi dal dolore, poi dissi: “Ve ne prego, provateci
comunque.” “Bene”, disse quel signore, “mi sbrigherò”. L'avvoltoio durante
lo scambio di parole era stato quieto ad ascoltare muovendo lo sguardo tra
me e quel signore. Ora notai che aveva inteso ogni cosa, si alzò in volo, a
distanza fece una curva per avere abbastanza slancio e poi mi sbatté
profondamente dentro, come fosse un lanciatore di giavellotto, il becco
attraverso la bocca. Riverso, sentii di essere libero quando lui affogò senza
rimedio nel mio sangue che, straripando, riempiva ogni mia cavità. (Der Geier,
1920?)

Favoletta

“Ohi ohi”, disse il topo, “ogni giorno il mondo diventa più stretto. Prima era
tanto largo da farmi paura, continuavo a correre ed ero felice di vedere infine
a destra e a sinistra, lontano, muri, ma quei lunghi muri hanno fatto così
presto a stringersi l'uno rispetto all'altro che già mi trovo nella stanza finale e
lì nell'angolo c'è la trappola, dentro cui corro. “Non ti resta che cambiar
direzione”, disse il gatto, e lo divorò. (Kleine Fabel, 1920?)
La trottola

Un filosofo gironzolava sempre dove giocavano dei ragazzini. Ne vide uno


che aveva una trottola e subito si mise in agguato. Non appena la trottola
girò, il filosofo le si mise dietro per acchiapparla. Aveva acchiappato la
trottola che ancora girava senza curarsi del fatto che i ragazzini
schiamazzavano e cercavano di tenerlo lontano dal loro giocattolo, ne fu
felice, ma solo per un momento, poi la buttò per terra e se ne andò. Riteneva,
chiariamo, che la conoscenza di ogni particolare, dunque per esempio anche
di una trottola che gira, fosse sufficiente alla conoscenza di quello che è
generale. Perciò non si occupava dei grandi problemi, cosa che a lui pareva
antieconomica, se era noto il minimo particolare allora tutto era noto, ecco
perché si occupava solo della trottola che girava. Preparandosi a far girare la
trottola, continuava a sperare di riuscirci e di trasformare, correndole a
perdifiato dietro, la speranza in certezza, ma poi, con in mano quello stupido
pezzo di legno, ebbe un malore; l'urlio dei ragazzini, che lui fin lì non aveva
sentito, d'improvviso gli entrò nelle orecchie, lo fece scappare, e lui barcollò
come una trottola malamente spinta. (Der Kreisel, 1920?)

La partenza

Ordinai di far uscire il mio cavallo dalla stalla. Lo stalliere non mi capì. Andai
di persona, sellai il cavallo e lo montai. Udii lontano squillare una tromba,
chiesi allo stalliere che cosa significasse. Non ne sapeva nulla, non aveva
udito nulla. Sul cancello mi trattenne chiedendomi dove ero diretto. “Non lo
so”, dissi, “basta che sia lontano da qui, lontano da qui, sempre più lontano,
solo così posso raggiungere la mia meta.” “Dunque conosci la tua meta”,
chiese lui, “sì”, rispondevo, “l'ho detto, no? Via da qui, ecco la mia meta”.
“Non hai nulla da mangiare con te”, disse lui, “non ne ho bisogno”, dissi io,
“il viaggio è talmente lungo che morirò per forza di fame se non trovo
qualcosa sulla strada, non c'è provvista che mi possa salvare. E' una fortuna,
voglio dire, che il viaggio sia davvero smisurato.” (Der Aufbruch, 1921?)

Primo dispiacere.

Un trapezista – è noto che quest’arte, praticata nell’alto delle volte sovrastanti


i grandi palcoscenici del varietà, è, tra tutte, una delle più difficili da praticare
dall’uomo – aveva organizzato la sua vita, prima solo per la ricerca della
perfezione, poi anche per abitudine divenuta tirannica, in modo da rimanere
sul trapezio, finché lavorava nella stessa azienda, giorno e notte. A tutti i suoi
bisogni, tra l’altro modesti, si faceva fronte per mezzo di una serie di
inservienti che sorvegliavano dal basso e tiravano su e giù, dentro recipienti
realizzati appositamente, quello che in alto serviva. Da tale modo di vivere
non risultavano particolari difficoltà a carico dell’ambiente teatrale, solo
durante gli altri numeri in programma disturbava un poco il fatto che il
trapezista, nonostante che in questi momenti se ne stesse per lo più
tranquillo, deviasse su di sé uno sguardo del pubblico. Tuttavia la direzione
del teatro glielo perdonava, infatti lui era un artista straordinario,
insostituibile. Naturalmente si riconosceva anche che non viveva in questo
modo per spavalderia, di fatto solo così restava in più costante esercizio,
solo così poteva mantenere nella perfezione la sua arte.
L'altezza comunque era anche salubre e inoltre, quando nei periodi più caldi
dell’anno tutt'intorno alla volta si aprivano le finestre laterali e insieme all’aria
fresca il sole entrava in quello spazio crepuscolare, era perfino bella.
Naturalmente i suoi rapporti umani erano limitati, solo qualche volta un
collega ginnasta si arrampicava sulla scala di corda fino al trapezista, quindi
si mettevano entrambi sul trapezio, si appoggiavano a destra e a sinistra alle
corde e conversavano, oppure gli edili che riparavano il tetto scambiavano
con il trapezista qualche parola da una finestra aperta, oppure il vigile del
fuoco controllava l’illuminazione d’emergenza nella galleria più alta e gli
gridava qualcosa di rispettoso, ma scarsamente comprensibile. Altrimenti
intorno al trapezista c’era la quiete; solo qualche volta faceva la sua
comparsa un impiegato che magari meditabondo nel pomeriggio del teatro
vuoto si smarriva in quell'altezza che quasi si sottraeva allo sguardo, là dove
il trapezista, senza sapere che qualcuno stava osservandolo, esercitava la
sua arte o riposava.
Il trapezista avrebbe potuto vivere dunque indisturbato, se non ci fossero
stati gl’inevitabili viaggi da luogo a luogo a molestarlo in sommo grado. Certo
l’impresario provvedeva a dispensare il trapezista da ogni inutile
prolungamento delle sue pene: per i percorsi in città ci si serviva di potenti
automobili con cui, possibilmente durante la notte o nelle primissime ore del
mattino, si correva nelle strade vuote di umani ad alta velocità, tuttavia senza
dubbio troppo lentamente in rapporto all’ansia del trapezista; in treno si
riservava un intero scompartimento dove il trapezista, compensazione
effettivamente misera del suo modo di vivere, trascorreva il viaggio sulla rete
portabagagli; nel teatro della successiva esibizione straordinaria il trapezio
era da lungo tempo, prima dell’arrivo del trapezista, già al suo posto, anche
tutte le porte d’ingresso allo spazio teatrale erano spalancate e tutti i
passaggi liberi – tuttavia l’attimo più bello nella vita dell’impresario era quello
in cui il trapezista metteva il piede sulla scala di corda e in un attimo,
finalmente, di nuovo pendeva in alto sul suo trapezio.
Per quanto in tal modo all’impresario ne fossero riusciti molti, ogni nuovo
viaggio era ancora penoso, perché i viaggi, valutati da tutt’altra prospettiva,
erano comunque distruttivi per i nervi del trapezista.
Una volta dunque che erano in viaggio di nuovo, il trapezista disteso sulla
rete portabagagli a fantasticare, l’impresario appoggiato di fronte dalla parte
del finestrino a leggere un libro, il trapezista gli si rivolse sottovoce.
L’impresario fu subito ai suoi ordini. Avrebbe gradito avere sempre due
trapezi per le sue acrobazie, invece di uno com’era stato fino a quel
momento, disse il trapezista mordendosi le labbra, due trapezi uno di fronte
all’altro. L’impresario fu subito d’accordo. Tuttavia il trapezista, come volendo
evidenziare tanto l’irrilevanza del consenso dell’impresario, quanto per
contraddirlo in qualche modo, disse che lui ora mai più e in nessuna
circostanza avrebbe fatto le sue acrobazie con un trapezio soltanto. Alla
sensazione che ciò potesse succedere anche solo una volta, egli sembrava
rabbrividire. L’impresario si dichiarò, guardandolo titubante, di nuovo in
totale accordo, due trapezi sono meglio di uno, del resto questo nuovo
allestimento era vantaggioso, avrebbe reso lo spettacolo più vario. A quel
punto il trapezista prese improvvisamente a piangere. Molto spaventato
l’impresario si levò e domandò che cosa fosse dunque successo e, dal
momento che non ebbe nessuna risposta, salì sul sedile e accarezzò il
trapezista avvicinando al viso di quest’ultimo il suo viso, così che le lacrime
del trapezista lo inondarono. Solo dopo molte domande e paroline carezzevoli
il trapezista disse singhiozzando: “Solo quest’unica sbarra tra le mani – come
devo fare a vivere!” Ora per l’impresario consolare il trapezista fu più facile;
promise di telegrafare per i due trapezi subito, dalla stazione della prossima
località di esibizione; si rimproverò di aver lasciato lavorare il trapezista per
così tanto tempo solo su un trapezio e lo ringraziò e lodò molto del fatto che
alla fine lui avesse constatato il difetto. In questo modo l’impresario riuscì a
placare poco a poco il trapezista e poté tornare di nuovo nel suo angolo. Lui
stesso tuttavia era sconsolato, considerava il trapezista con più seria
preoccupazione, di nascosto, al di là del suo libro. Se simili pensieri
cominciavano a tormentarlo una volta, potevano mai terminare del tutto? Non
dovevano continuare a rafforzarsi? E davvero l’impresario credeva di vedere
come ora, nel sonno apparentemente tranquillo in cui il pianto del trapezista
era terminato, cominciassero a disegnarsi le prime rughe sulla sua liscia
fronte fanciullesca. (Erstes Leid, 1921)

Difensore

C’era molta incertezza sul fatto che io avessi il difensore, intanto non ero
capace di sapere con precisione alcunché, ogni faccia mancava di affabilità,
la maggior parte delle persone che incontravo e che urtavo di continuo negli
ambulacri avevano l’aspetto di vecchie donne incinte, dei grandi grembiali a
strisce blu e bianche nascondevano loro tutto il corpo, si sfioravano il ventre
e andavano lentamente avanti e indietro. Non riuscivo neanche a sapere se ci
trovavamo in un tribunale. Certi indizi lo confermavano, molti no. A parte tutti
i dettagli, quello che mi ricordava di più un tribunale era un brusio che si
poteva di continuo sentire a distanza, non si sapeva da quale direzione,
colmava tanto ogni spazio che si poteva ammettere che provenisse da ogni
parte oppure, ciò che sembrava ancora più corretto, che il posto stesso dove
fortuitamente ci si trovava fosse il vero e proprio luogo di tale brusio, ma era
di sicuro un’illusione, perché quello veniva da lontano. Questi ambulacri,
stretti, dal semplice soffitto a volta, rallentati da cambi di direzione, con alte
porte parsimoniosamente ornate, sembravano addirittura creati allo scopo di
accrescere il silenzio, come corridoi di un museo o di una biblioteca. Se
tuttavia non si trattava assolutamente di un tribunale, perché poi cercavo un
difensore lì? Perché più di tutto desideravo un difensore, necessario più di
tutto, certo utile meno in tribunale che altrove; dato che il tribunale giudica
secondo la legge si deve accettare che agisca nell’occasione in modo
ingiusto o sventato, sia pure al prezzo della vita si deve aver fiducia che il
tribunale apra spazi alla maestà della legge, perché tale è il suo unico dovere,
però nell’ambito della legge tutto è imputazione, difesa e giudizio, l’intrusione
autonoma di una persona sarebbe qui un sacrilegio. D’altra parte le cose
cambiano in merito alla fattualità di un giudizio, questo si basa su
accertamenti, su indagini varie, particolarmente brevi, presso parenti ed
estranei, amici e nemici, presso la famiglia e il pubblico, la città e il paese. In
questo caso è urgentissimamente necessario il difensore, difensori in
quantità, difensori al meglio, uno accanto all’altro, un muro vivente, perché i
difensori sono per loro natura molto lenti, le imputazioni, invece, queste volpi
astute, queste donnole leste, questi topolini invisibili, sgusciano nelle minime
falle, scivolano tra le gambe dei difensori. Attenzione, dunque! Ecco perché
mi trovo qui, faccio incetta di difensori. Ma ancora non ne ho trovato
nessuno, soltanto queste vecchie vanno e vengono di continuo, se non fossi
qui a cercare, mi verrebbe da addormentarmi. Non sono nel posto giusto,
sfortunatamente non posso respingere l’impressione di non essere nel posto
giusto. Dovrei essere in un posto dove s’incontrano persone di ogni genere,
di svariate contrade, di ogni città, di ogni mestiere, di età varie, dovrei avere
la possibilità di scegliere tra molti gl’idonei, gli amichevoli, coloro che hanno
nei miei riguardi un certo riguardo. Al meglio sarebbe adeguata forse una
grande fiera annuale. Invece sto vagando per questi ambulacri dove riesco a
vedere soltanto queste vecchie donne, anche poche e sempre ogni volta le
stesse, e nonostante la loro lentezza lo stesso non si fanno intercettare da
me, mi scappano, stanno sospese come nubi gonfie di pioggia, tutte
occupate in faccende ignote. Corro alla cieca in un edificio, non leggo quel
che c’è scritto sulle porte, rimango negli ambulacri, resto fermo qui con
un’ostinazione tale che non so ricordare di essere mai stato davanti
all’edificio, di aver mai fatto le scale di corsa. Tuttavia indietro non posso
andare, questa perdita di tempo, quest’ammissione di aver sbagliato strada,
mi sarebbero insopportabili. Riscendere giù una scala in questa breve
precipitosa vita accompagnata dall’impazienza di un brusio? Impossibile. La
dose di tempo che ti è concessa è tanto breve che tu, se perdi un secondo,
hai già perso tutta la tua vita, perché essa non è lunga di più, lo è sempre
soltanto come il tempo che perdi. Hai dunque iniziato una strada, continuala
comunque, puoi soltanto vincere, non corri alcun pericolo, forse alla fine
cadrai, ma se ti fossi, già dopo i primi passi, girato indietro e fossi ridisceso
giù per la scala, saresti ugualmente caduto all’inizio, non forse, ma
certamente. Non trovi niente negli ambulacri, apri le porte, non ci trovi niente
dietro, c’è un altro piano, di sopra non trovi niente, non c’è pericolo, sali altre
scale, fin quando non smetti di salire i gradini non terminano, essi aumentano
verso l’alto sotto i tuoi piedi che salgono. (Fuersprecher, 1922)

Nella colonia penale

“E' un'apparecchiatura particolare”, disse l'ufficiale al viaggiatore, che era


uno studioso, dando uno sguardo d'insieme per così dire ammirato
all'apparecchiatura a lui ben nota. Il viaggiatore sembrava aver accettato solo
per cortesia l'invito del comandante, che aveva insistito acciocché lui
assistesse all'esecuzione di un soldato il quale era stato condannato a causa
di insubordinazione e oltraggio nei confronti del superiore. L'interesse per
tale esecuzione davvero non era molto grande nella colonia penale. Almeno,
qui nella valletta tutt'intorno racchiusa da nude alture, a parte l'ufficiale e il
viaggiatore c'era solo il condannato, un tonto dalla bocca larga, con volto e
capelli trascurati, presente un soldato che teneva la pesante catena da cui
uscivano le catenelle a cui il condannato era legato, polsi, caviglie e gola, tra
loro collegate con altre catene di raccordo. Del resto il condannato aveva un
tale aspetto di rassegnazione che pareva verosimile che lo si potesse lasciar
andare in giro sulle alture e che all'inizio dell'esecuzione si dovesse soltanto
fare un fischio perché lui venisse.
Il viaggiatore s'interessò poco all'apparecchiatura e si mosse qua e là dietro il
condannato con visibile estraneità, quasi, mentre l'ufficiale si curava degli
ultimi preparativi: presto strisciò sotto l'apparecchiatura, che era
profondamente interrata, e rapido salì una scala per esaminarne le parti
superiori. Erano operazioni che si sarebbero potute lasciare a un meccanico,
ma l'ufficiale le eseguì con grande zelo, sia che lui fosse uno speciale
partigiano di quest'apparecchiatura, sia che per altri motivi non potesse
affidare il lavoro a nessun altro. “Ora tutto è pronto!” - gridò alla fine e scese
dalla scala. Era molto stanco, respirava a bocca spalancata, e aveva due
graziosi fazzoletti da signora infilati nel colletto dell'uniforme. “Ma queste
uniformi sono troppo pesanti per i Tropici”, disse il viaggiatore, invece di far
domande sull'apparecchiatura come l'ufficiale si era aspettato. “Certo”, disse
l'ufficiale, e si lavò le mani unte di olio e di grasso in un secchio d'acqua lì
pronto, “tuttavia esse significano la patria; noi non vogliamo dimenticare la
patria. Ma guardate quest'apparecchiatura, adesso”, aggiunse subito,
asciugò le mani con un panno nello stesso tempo accennando a essa.
“Finora serviva ancora del lavoro manuale, ma a partire da questo momento
l'apparecchiatura funziona tutta da sé.” Il viaggiatore annuì e seguì l'ufficiale.
Questi cercò di assicurarsi da ogni imprevisto e poi disse: “Naturalmente si
presentano intoppi; certamente spero che oggi non ne capiti nessuno, ciò
non di meno li si deve calcolare. L'apparecchiatura è destinata a funzionare
senza interruzione per dodici ore, d'altronde. Se tuttavia si presentano intoppi
sono piccolissimi e saranno subito eliminati.”
“Non volete sedervi?” - egli chiese, tirò fuori una sedia di bambù dal
mucchio delle sedie e la porse al viaggiatore; questi non poté rifiutare. Si
mise seduto al margine di una fossa in cui gettò uno sguardo di sfuggita. Non
era molto profonda. Da una parte la terra scavata era ammonticchiata a mo' di
cumulo, dall'altra c'era l'apparecchiatura. “Non so”, disse l'ufficiale, “se il
comandante vi ha illustrato già l'apparecchiatura.” Il viaggiatore fece con la
mano un movimento incerto; l'ufficiale non chiedeva di meglio, difatti ora
poteva illustrare l'apparecchiatura lui stesso. “Questa apparecchiatura”,
disse stringendo una biella cui si sostenne, “è una invenzione del vecchio
comandante. Io ho collaborato fin dai primissimi tentativi e partecipai anche a
tutti i lavori fino al termine. D'altra parte il merito dell'invenzione compete
tutto a lui solo. Avete sentito parlare del nostro vecchio comandante? No?
Orbene, non esagero se dico che l'organizzazione dell'intera colonia penale è
opera sua. Noi, suoi amici, sapevamo già alla sua morte che l'organizzazione
della colonia è così perfetta in sé che il successore, anche se avesse avuto in
testa mille nuovi progetti, per molti anni in nulla avrebbe potuto cambiare
rispetto al predecessore. La nostra previsione si è avverata; il nuovo
comandante ha dovuto riconoscerlo. Peccato che voi non abbiate conosciuto
il vecchio comandante! - Però”, si interruppe l'ufficiale, “io chiacchiero e la
sua opera eccola qui davanti a noi. Consiste, come vedete, in tre parti. Nel
corso del tempo si sono stabilite per ciascuna di queste parti tre
denominazioni per così dire popolari. La parte inferiore si chiama il letto,
quella superiore si chiama l'operatore grafico, e qui nel mezzo, la parte
sospesa si chiama l'erpice.” “L'erpice?” - chiese il viaggiatore. Non era stato
a sentire con molta attenzione, il sole si accaniva con enorme potenza nella
valle senz'ombra, si faceva fatica a far mente locale. Tanto più stupefacente
gli apparve l'ufficiale che, in giubba militare stretta, per così dire da parata,
appesantita dalle spalline, con i cordoni penduli, illustrava la sua cosa e non
solo, nel parlare si dava anche da fare qua e là con un cacciavite. In
condizioni simili a quelle del viaggiatore appariva il soldato. Aveva avvolte
attorno a entrambi i polsi le catene del condannato, si appoggiava con una
mano al fucile, faceva ciondolare la testa in giù e di nulla si curava. Il
viaggiatore non se ne meravigliò, difatti l'ufficiale parlava in francese e certo
né il soldato né il condannato capivano il francese. Tanto più sorprendente
era d'altra parte che il condannato s'impegnasse però a seguire le spiegazioni
dell'ufficiale. Con una sorta di assonnata perseveranza rivolgeva lo sguardo
ogni volta lì dove l'ufficiale stava indicando, e quando questi venne interrotto
dal viaggiatore con una domanda, il condannato guardò il viaggiatore proprio
come lo guardava l'ufficiale.
“Sì, erpice”, disse l'ufficiale, “il nome è adeguato. Gli aghi sono disposti a
mo' di erpici e anche l'insieme viene guidato come un erpice, per quanto solo
su un punto e a regola d'arte. Del resto lo capirete subito. Qui sul letto viene
posto il condannato. Voglio in altri termini prima descrivere l'apparecchio e
soltanto dopo far svolgere la procedura. Poi potrete meglio seguirla.
Nell'operatore grafico è racchiusa anche una affilatissima ruota dentata;
stride molto, quando è in funzione; a mala pena ci si può intendere, allora; i
pezzi di ricambio qui sono purtroppo difficili da procurare. Dunque, qui c'è il
letto, come dicevo. E' completamente coperto da uno strato di ovatta; saprete
anche il suo scopo. Su questa ovatta il condannato viene posto prono,
naturalmente nudo; qui vi sono cinghie per la gola, qui per i piedi, qui per le
mani, per assicurarlo strettamente. Qui a capo del letto, dove l'uomo, ripeto,
giace con il volto, c'è questo tampone di feltro che può facilmente venir
regolato in modo da penetrare proprio nella sua bocca. Ha lo scopo di
impedire le urla e il taglio della lingua con i denti. Naturalmente l'uomo deve
prendere con la bocca il tampone, poiché in caso contrario tramite le cinghie
poste alla gola gli viene rotto il collo.” “E' ovatta questa?”- chiese il
viaggiatore piegandosi in avanti. “Sì, certo”, disse l'ufficiale sorridendo,
“toccate voi stesso.” Prese la mano del viaggiatore e la guidò sopra il letto.
“E' un tipo di ovatta appositamente preparata, perciò ha per voi un aspetto
così irriconoscibile; vi parlerò ancora del suo scopo.” Il viaggiatore era già un
po' conquistato all'apparecchiatura; una mano a protezione dal sole negli
occhi, guardò l'apparecchiatura nella sua parte alta. Si trattava di una grande
struttura. Il letto e l'operatore grafico avevano lo stesso perimetro e
apparivano come due scuri cassoni. L'operatore grafico era installato a circa
due metri sopra il letto; entrambi erano collegati agli angoli da quattro sbarre
di ottone che nel sole quasi lampeggiavano. Tra i cassoni stava sospeso a un
nastro d'acciaio l'erpice.
L'ufficiale aveva trascurato la indifferenza di prima del viaggiatore, ma colse
in pieno il suo ora nascente interesse; perciò interruppe le sue spiegazioni
per dar tempo al viaggiatore di fare le sue osservazioni indisturbato. Il
condannato imitava il viaggiatore; poiché non poteva mettere una mano sugli
occhi, ammiccava in su.
“E dunque l'uomo giace così”, disse il viaggiatore, si dispose all'indietro sulla
sedia e accavallò le gambe.
“Sì”, disse l'ufficiale, spinse un poco il berretto indietro e si passò una mano
sul viso che scottava, “orbene, state a sentire! Tanto il letto quanto
l'operatore grafico hanno la loro propria batteria elettrica; il letto ne ha
bisogno per sé stesso, l'operatore grafico per l'erpice. Non appena l'uomo è
fissato con le cinghie, il letto viene messo in movimento. Esso oscilla con
minimi velocissimi sussulti contemporaneamente laterali e verticali, in su e in
giù: avrete visto apparecchiature simili negli ospedali; solo che nel caso del
nostro letto tutti i movimenti sono esattamente calcolati; in altri termini
devono scrupolosamente corrispondere ai movimenti dell'erpice. E' a
quest'erpice tuttavia che è rimessa la vera e propria espressione del
verdetto.”
“Ma cosa dice il verdetto?”- chiese il viaggiatore. “Non lo sapete?” - disse
l'ufficiale stupito mordendosi le labbra: “perdonate se le mie spiegazioni
sono magari disordinate; ve ne chiedo davvero perdono. Esse usava darle il
comandante, in passato; ma il nuovo comandante si è sottratto a tale
impegno d'onore; che però egli non metta al corrente un visitatore di tale
rango” - il viaggiatore cercò con un gesto di entrambe le mani di respingere
l'omaggio, ma l'ufficiale ribadì la sua espressione - “un visitatore di tale rango
neppure della forma del nostro verdetto, è una ulteriore innovazione che”, gli
venne alle labbra un'imprecazione, ma si contenne e disse soltanto: “non ne
ero informato, non è colpa mia. D'altra parte sono qualificato certamente a
illustrare le caratteristiche del nostro verdetto, infatti ho con me” - disse
dandosi un colpo sul taschino della giacca - “gli appunti che lo riguardano
scritti a mano dal vecchio comandante.”
“Scritti dal comandante in persona?”- chiese il viaggiatore: “Egli ha riunito in
sé ogni cosa? Era soldato, giudice, costruttore, chimico, grafico?”
“Certamente”, disse l'ufficiale annuendo con sguardo fisso e pensieroso. Poi
scrutò le proprie mani; non sembrandogli abbastanza pulite per dar di piglio
agli appunti, andò al secchio e se le lavò di nuovo. Dopo tirò fuori un piccolo
portafogli in pelle e disse: “Il nostro verdetto non suona severo. Al
condannato viene inscritto per mezzo dell'erpice sul corpo il comando che lui
ha trasgredito. A questo condannato per esempio” - l'ufficiale indicò l'uomo
in catene - “verrà inscritto nel corpo: Onora i tuoi superiori!”
Il viaggiatore guardò di sfuggita l'uomo; egli teneva, come l'ufficiale lo aveva
indicato, la testa china, parendo che impiegasse tutte le forze dell'udito per
capire qualcosa. Tuttavia i movimenti delle sue grosse labbra serrate
mostravano chiaramente che non poteva capire alcunché. Il viaggiatore
aveva il desiderio di chiedere varie cose, ma alla vista dell'uomo in catene
chiese soltanto: “Lui conosce il suo verdetto?” “No”, disse l'ufficiale e
intendeva procedere subito con le sue spiegazioni, ma il viaggiatore lo
interruppe: “Non conosce il suo verdetto?” “No”, ripeté l'ufficiale, si fermò
poi per un attimo come se dal viaggiatore desiderasse una motivazione
specifica della sua domanda, quindi disse: “Sarebbe inutile, renderglielo
noto. Ne viene informato corporalmente, in fin dei conti.” Il viaggiatore stava
già zittendosi quando sentì come il condannato indirizzava il suo sguardo su
di lui; pareva chiedere se lui avrebbe potuto approvare il descritto
procedimento. Per cui il viaggiatore, che si era già sistemato indietro, si
sporse di nuovo in avanti e chiese ancora: “Ma essenzialmente, che fu
condannato lui lo sa?” “Neppure questo”, disse l'ufficiale e sorrise al
viaggiatore, come se da lui attendesse ancora alcune particolari
comunicazioni. “No”, disse il viaggiatore passandosi una mano sulla fronte,
“e dunque quest'uomo non sa neppure come venne accolta la sua difesa?”
“Non ha avuto alcuna opportunità di difendersi”, disse l'ufficiale guardando
di lato come se parlasse a se stesso e non desiderasse mettere in imbarazzo
il viaggiatore riferendogli questa cosa che per lui era evidente. ”Ma deve
averla pure avuta, l'opportunità di difendersi”, disse il viaggiatore alzandosi
dalla sedia.
L'ufficiale comprese di rischiare di venir rallentato per lungo tempo nella
illustrazione dell'apparecchiatura; per cui si mosse verso il viaggiatore, gli si
attaccò a un braccio e indicò il condannato, che ora, poiché l'attenzione era
tanto apertamente rivolta su di lui, si mise sull'attenti – il soldato tirò perfino
la catena che lo teneva -, e disse: “la cosa sta come segue. Qui nella colonia
penale io ho la nomina di giudice. Nonostante che io sia giovane. Stavo difatti
a fianco anche del vecchio comandante in ogni faccenda penale e inoltre
conosco benissimo l'apparecchiatura. Il principio secondo cui io sentenzio è:
la colpa è sempre certa. Altri giudici non possono attenersi a tale principio
perché sono numerosi e hanno sopra a sé giudici di più alto grado. Qui non
accade, o almeno non accadeva con il vecchio comandante. Il nuovo del
resto ha già mostrato di aver gusto nell'immischiarsi nel mio giudizio, ma
finora mi è riuscito evitarlo, e mi riuscirà ancora. Voi volete che vi si spieghi
questo caso; è semplice come tutti. Un capitano ha stamani denunciato che
quest'uomo, il quale gli è assegnato come attendente e dorme davanti alla
sua porta, ha trascurato il servizio. In altri termini, egli ha il dovere al battere
di ogni ora di alzarsi e di fare il saluto alla porta del capitano. Certamente un
dovere di nessuna difficoltà e necessario, difatti egli ha il dovere sia di
sorvegliare sia di restare pronto al servizio. Il capitano volle durante la notte
scorsa accertare se l'attendente compisse il suo dovere. Alle due della notte
aprì la porta e lo trovò raggomitolato che dormiva. Prese lo scudiscio e lo
colpì sul volto. Ora, invece di alzarsi e di chiedere perdono, quest'uomo
afferrò il suo signore per le gambe, lo scosse e gli gridò: 'Butta via la frusta o
ti faccio fuori.' Questi sono i fatti. Il capitano un'ora fa venne da me, io presi
nota delle sue dichiarazioni e subito dopo venne il verdetto. Poi feci mettere
quest'uomo in catene. Tutto fu semplicissimo. Lo avessi prima convocato e
interrogato, si sarebbe introdotta soltanto della confusione. Lui avrebbe
mentito, avrebbe dovuto, qualora a me fosse riuscito di confutarne le
menzogne, rimpiazzarle con nuove menzogne e via avanti. Ora invece lo
tengo e non lo lascio più. E' tutto chiaro ora? Ma il tempo corre, l'esecuzione
già dovrebbe essere iniziata e io non ho ancora finito con l'illustrazione
dell'apparecchiatura.” Invitò il viaggiatore a sedersi, andò di nuovo
all'apparecchiatura e iniziò: “Come vedete, l'erpice corrisponde alla forma
umana; qui c'è l'erpice per il tronco, qui gli erpici per le gambe. Per il capo è
destinato solo questo piccolo bulino. Vi è chiaro?” Si inchinò gentilmente al
viaggiatore, pronto a più estese spiegazioni.
Il viaggiatore, la fronte corrugata, guardò l'erpice. Le comunicazioni circa la
procedura giudiziale non lo avevano soddisfatto. Ciò nonostante dovette dirsi
che qui era in questione una colonia penale, che qui erano necessari
provvedimenti punitivi speciali e che si doveva procedere in modo militare
fino in fondo. Oltre a ciò poneva qualche speranza nel nuovo comandante, il
quale chiaramente, certo con lentezza, stava per introdurre una nuova
procedura che nella mente limitata di questo ufficiale non poteva entrare.
Sulla scia di tali pensieri il viaggiatore chiese: “Il comandante assisterà
all'esecuzione?” “Non è certo”, disse l'ufficiale toccato dolorosamente dalla
domanda perentoria, e la sua espressione gentile si corrucciò: “Proprio per
questo dobbiamo sbrigarci. Dovrò perfino, per quanto mi dispiaccia,
abbreviare le mie spiegazioni. Tuttavia domani, quando l'apparecchiatura è
ripulita – che si sporchi tanto è il suo unico difetto - potrei proseguirle. Ora
dunque ecco le più necessarie. Quando l'uomo giace sul letto, e il letto viene
posto in stato di vibrazione, l'erpice viene abbassato sul corpo. Si regola da
sé in modo da toccare appena con le punte il corpo; completata la
regolazione, subito questo cavo d'acciaio si tende a mo' di sbarra. E comincia
il gioco. Un profano non osserva dall'esterno alcuna differenza tra le pene.
L'erpice sembra operare in modo uniforme. Vibrando caccia le sue punte nel
corpo che a sua volta vibra per via dei movimenti del letto. Allo scopo di
render possibile a ognuno la verifica del verdetto l'erpice venne fabbricato in
vetro. Ha causato alcune difficoltà tecniche il fissaggio degli aghi, ma dopo
molti tentativi ci si è riusciti. Le abbiamo coraggiosamente provate tutte. E
ora ognuno può vedere attraverso il vetro come viene eseguita l'inscrizione
nel corpo. Non volete avvicinarvi per vedere gli aghi?”
Lentamente il viaggiatore si alzò e andò a chinarsi sull'erpice. “Vedete”, disse
l'ufficiale, “due specie diverse di aghi ordinati in molti modi. Ogni ago lungo
ne ha uno corto accanto. In altri termini, l'ago lungo scrive, mentre l'ago corto
spruzza fuori acqua allo scopo di lavar via il sangue e per mantenere
l'inscrizione sempre in chiaro. Il sangue annacquato viene poi convogliato
qui in piccole scanalature e infine scorre in questo canale il cui tubo di
deflusso porta nella fossa.” L'ufficiale indicò esattamente il percorso che il
sangue annacquato doveva fare. Quando per render la cosa il più possibile
chiara con tutt'e due le mani afferrò la bocca stessa d'uscita del tubo di
deflusso, il viaggiatore levò il capo e stava per arretrare fino alla sua sedia
saggiando con una mano all'indietro quanto faceva. In quella, vide con
spavento che anche il condannato, come lui, aveva seguito l'invito
dell'ufficiale a guardare da vicino la regolazione dell'erpice. Aveva tirato un
po' in avanti il soldato insonnolito con la catena e anche lui si era chinato sul
vetro. Si vide come con occhi incerti cercasse quello che i due signori
avevano appena esaminato e come, tuttavia, non gli riuscisse, in quanto lui
mancava di spiegazioni. Si chinò in diverse direzioni. Tornava sempre a
percorrere con lo sguardo il vetro. Il viaggiatore stava per ricacciarlo indietro
dal momento che ciò che lui faceva era probabilmente passibile di punizione.
Tuttavia l'ufficiale bloccò il viaggiatore con una mano, prese con l'altra mano
una zolla di terra dal cumulo e la scagliò addosso al soldato. Questi alzò di
colpo gli occhi, vide che cosa aveva osato fare il condannato, lasciò cadere il
fucile, puntellò i tacchi nel terreno e strappò indietro il condannato di modo
che questi cadde giù, poi sogguardandolo mentre si voltolava nel rumore
della catena. “Tiralo su!” - urlò l'ufficiale notando che il viaggiatore veniva
troppo distratto dal condannato. Il viaggiatore si distolse addirittura
dall'erpice disinteressandosene, intendeva solo rendersi conto di cosa stesse
succedendo al condannato. “Maneggialo con attenzione!” - urlò di nuovo
l'ufficiale. Percorse il perimetro dell'apparecchiatura, afferrò il condannato,
che sdrucciolò ripetutamente, sotto le ascelle e lo mise in piedi con l'aiuto del
soldato.
“Ora so già tutto”, disse il viaggiatore quando l'ufficiale ritornò da lui.
“Tranne la cosa principale”, disse l'ufficiale, prese per un braccio il
viaggiatore e indicò in alto: “Là nell'operatore grafico c'è il rotismo che
stabilisce il movimento dell'erpice, e questo ingranaggio viene ordinato per i
grafici in cui consiste il verdetto. Io adopero ancora i grafici del vecchio
comandante. Eccoli qui” - estrasse alcune carte dal portafogli - “tuttavia
purtroppo non ve li posso dare in mano, sono la cosa più cara che io abbia.
Sedetevi, ve li mostro a questa distanza, poi potrete vedere bene ogni cosa.”
Mostrò il primo foglio. Il viaggiatore avrebbe volentieri espresso qualche
apprezzamento, ma vide solo linee labirintiche, l'una con l'altra spesso
incrociantisi, che coprivano la carta così fittamente che si distinguevano solo
a fatica gli spazi che le separavano. “Leggete”, disse l'ufficiale. “Non mi
riesce”, disse il viaggiatore. “Eppure è chiaro”, disse l'ufficiale. “E' assai
ingegnoso”, disse il viaggiatore discostandosi, “ma non riesco a decifrarlo.”
“Certo”, disse l'ufficiale, rise e infilò di nuovo la mappa nel portafogli, “non si
tratta mica di calligrafia per scolaretti. La si deve leggere attentamente. Certo
anche voi alla fine sapreste capirla. E' naturale che non possa esserci alcuna
semplice scritta; essi non devono mica morire subito, ma di solito solo entro
le dodici ore; il punto di svolta è calcolato per la sesta ora. L'inscrizione vera
e propria dev'essere contornata quindi da molti, molti motivi ornamentali; in
realtà l'inscrizione è solo una stretta cintura che corre attorno alla schiena; il
resto del corpo è destinato alle decorazioni. Riuscite ora ad apprezzare
l'opera dell'erpice e dell'intera apparecchiatura? Guardate dunque!” Saltò
sulla scala, girò una ruota e rivolto verso il basso disse: “Attenzione, fatevi
da parte”, e il tutto entrò in funzione. Non avesse scricchiolato la ruota,
sarebbe stato superbo. Come fosse sorpreso da questa disturbante ruota,
l'ufficiale la minacciò con il pugno, allargò poi le braccia, scusandosi con il
viaggiatore, e ridiscese la scala in fretta allo scopo di valutare da sotto come
funzionava l'apparecchiatura. Qualcosa ancora non andava, solo questo lui
notò; si arrampicò di nuovo su, infilò rapacemente entrambe le mani
all'interno dell'operatore grafico, invece di usare la scala scorse poi giù lungo
una delle sbarre, per scendere più in fretta, e con estrema potenza urlò, per
farsi intendere nel fracasso, nelle orecchie del viaggiatore: “Lo capite come
funziona? L'erpice inizia a inscrivere; è pronto al primo disegno sulla schiena
dell'uomo, lo strato di ovatta rolla e scuote pian piano il corpo di lato allo
scopo di offrire nuovo spazio all'erpice. Nel frattempo i punti feriti dalle
inscrizioni si posano sull'ovatta che, in forza della sua speciale preparazione,
subito ferma il sanguinamento e appronta il corpo al nuovo affondare
dell'inscrizione. Qui poi le punte al margine dell'erpice staccano, mentre il
corpo viene ulteriormente scosso, l'ovatta dalle ferite, la gettano nella fossa e
l'erpice è di nuovo all'opera. Così esso inscrive sempre più in profondità per
dodici ore. Le prime sei ore son vissute dal condannato quasi normalmente,
soffre soltanto del dolore. Dopo due ore il tampone di feltro gli viene
allontanato dalla bocca, infatti l'uomo non ha più nessuna forza per urlare.
Qui in questa ciotola elettricamente riscaldata viene messa dalla parte del
capo una pappa di riso calda da cui l'uomo, se ne ha voglia, può assumere
quel che riesce a prendere con la lingua. Nessuno evita questa opportunità. A
quanto ne so nessuno, e la mia esperienza è grande. Solo attorno alla sesta
ora l'uomo perde il piacere del mangiare. Allora di solito mi inginocchio qui e
osservo tale fenomeno. E' raro che l'uomo ingerisca l'ultimo boccone, si
limita a girarselo in bocca e lo sputa nella fossa. Devo quindi chinarmi,
altrimenti me lo dirige in faccia. Ma come diventa silenzioso l'uomo attorno
alla sesta ora! Al più stupido si schiude la comprensione. Iniziando dagli
occhi. Da qui essa si allarga. E' uno spettacolo che potrebbe indurre uno a
porsi a sua volta sotto l'erpice. Ma non succede più nulla, l'uomo inizia
soltanto a decifrare l'inscrizione, stringe la bocca quasi stesse in ascolto. Voi
avete visto che non è facile decifrare la scrittura con gli occhi; il nostro uomo
tuttavia la decifra per mezzo delle sue ferite. Certo è un gran lavoro; gli
servono sei ore a completarlo. Però poi l'erpice lo trafigge completamente e
lo getta nella fossa in cui egli va a sbattere nel sangue annacquato e
nell'ovatta. Siamo al termine del processo giudiziario e noi, io e il soldato, lo
seppelliamo dentro la fossa.”
Il viaggiatore aveva prestato orecchio all'ufficiale e stava a guardare, le mani
nelle tasche della giubba, il funzionamento della macchina. Anche il
condannato guardava, ma senza capire. Si chinò un poco per seguire gli aghi
che traballavano, quando il soldato, a un segno dell'ufficiale, gli tagliò da
dietro con un coltello la casacca e i calzoni, di modo che essi gli caddero di
dosso; stava per chinarsi e afferrarli, il condannato, per coprire la sua nudità,
ma il soldato glieli sfilò e ne buttò via gli ultimi brandelli. L'ufficiale regolò la
macchina e nell'iniziale silenzio il condannato venne posto sotto l'erpice. Le
catene furono sciolte e al loro posto furono assicurate le cinghie; ciò parve
significare per il condannato, in un primo momento, un sollievo. L'erpice ora
si abbassò ancora un poco, infatti si trattava di un uomo magro. Quando le
punte lo toccarono, sulla sua pelle passò un brivido; stese senza sapere in
qual direzione la mano sinistra, mentre il soldato era occupato con la sua
destra; era però la direzione in cui si trovava il viaggiatore. L'ufficiale non
cessava di guardare di lato il viaggiatore, come se cercasse di interpretare
dal suo viso l'impressione che l'esecuzione, illustratagli almeno per sommi
capi, faceva su di lui.
La cinghia destinata al polso si strappò; probabilmente il soldato l'aveva
tirata troppo. Mostrò il pezzo di cinghia rotto, l'ufficiale avrebbe dovuto
intervenire. Si mosse verso il soldato, il viso girato verso il viaggiatore: “la
macchina è assai composita, qualcosa qua e là per forza si strappa oppure si
rompe; non per questo è consentito farsi turbare nell'insieme
dell'applicazione della condanna. Per la cinghia del resto c'è un ricambio già
pronto; userò una catena; la delicatezza dell'oscillazione per il braccio destro
ne viene certo pregiudicata.” Mentre collocava la catena disse inoltre: “I
mezzi per la conservazione della macchina ora sono molto limitati. Sotto il
vecchio comandante c'era una cassa a me liberamente accessibile solo per
questo scopo. C'è qui un magazzino in cui venivano custoditi tutti i possibili
pezzi di ricambio. Praticai quasi dello spreco, confesso, voglio dire prima,
non ora, come sostiene il nuovo comandante, a cui tutto serve per
contrastare le vecchie regole. Ora la cassa inerente a questa macchina la
gestisce lui e, quando trasmetto richiesta di una nuova cinghia, viene
richiesta come prova quella strappata, la nuova arriva solo dopo dieci giorni,
è di qualità cattiva e serve a poco. Come però io debba nel frattempo far
funzionare la macchina senza cinghia a nessuno interessa.”
Il viaggiatore fece una riflessione: è sempre un rischio intervenire in modo
deciso nelle circostanze, all'estero. Lui non era cittadino della colonia penale
né dello Stato cui essa apparteneva. Se avesse voluto giudicare
quest'esecuzione, o addirittura ostacolarla, gli si sarebbe potuto dire: sei uno
straniero, sta' zitto. Al che non avrebbe potuto replicare nulla, ma soltanto
aggiungere che lui non si riconosceva nel presente caso, che viaggiava infatti
solo con il proposito di vedere e in nessun modo con quello, diciamo, di
cambiare le disposizioni giudiziarie. Ora, però le cose qui certo inducevano a
intervenire. L'ingiustizia della procedura e l'inumanità dell'esecuzione erano
indubbie. Nessuno poteva supporre un interesse particolare del viaggiatore,
infatti il condannato era per lui un estraneo, non era un compatriota né un
uomo che provocava compassione. Il viaggiatore aveva raccomandazioni di
elevata ufficialità, era stato ricevuto con gran cortesia e il fatto che fosse
stato invitato a questa esecuzione pareva perfino significare che si
desiderava il suo giudizio in merito. Ciò era tanto più evidente dal momento
che il comandante, come lui ora aveva sentito in modo chiarissimo, non era
affatto a favore di questa procedura e agiva in modo quasi ostile nei confronti
dell'ufficiale.
In quella il viaggiatore udì un urlo di rabbia dell'ufficiale. Aveva appena spinto
non senza fatica nella bocca del condannato il tampone di feltro, che il
condannato con un irresistibile conato chiuse gli occhi e vomitò. In fretta
l'ufficiale lo tirò via dal tampone con l'intenzione di voltargli il capo verso la
fossa; ma era troppo tardi, la sporcizia già colava giù nella macchina. “Tutta
colpa del comandante!” - urlò l'ufficiale e scosse inconsultamente le sbarre di
ottone, “la macchina me la conciano come una stalla.” Mostrò con mani
tremanti al viaggiatore quel che era successo. “Non avessi per ore cercato di
far capire al comandante che un giorno prima dell'esecuzione non deve venir
fornito cibo! Ma la nuova tendenza alla mitezza è diversa. Le signore del
comandante inzeppano di dolciumi l'uomo prima che venga portato via. Per
tutta la sua vita questi s'è nutrito di pesce puzzolente, e ora deve mangiare
dolciumi! Poniamo pure che ciò fosse possibile, non avrei nulla da obbiettare,
ma perché non si procura un nuovo feltro come da tre mesi gli chiedo. Come
si può senza provare schifo prendere in bocca questo feltro che più di cento
uomini hanno succhiato e morsicato mentre morivano?”
Il condannato aveva appoggiato giù il capo e pareva tranquillo, mentre il
soldato si dava da fare a pulire la macchina con la casacca del condannato.
L'ufficiale si mosse verso il viaggiatore che, in certo modo aspettandoselo,
era arretrato di un passo, ma l'ufficiale lo prese per la mano e lo tirò da parte.
“Voglio dirvi qualche cosa in confidenza”, disse, “posso?” “Certo”, disse il
viaggiatore e stette a sentire a occhi bassi.
“Questa procedura e questa esecuzione capitale che ora voi avete occasione
di ammirare non ha più nessun sincero sostenitore nella colonia, oggi come
oggi. Io sono il suo unico difensore, nel contempo sono l'unico sostenitore
dell'eredità del vecchio comandante. A un ulteriore sviluppo della procedura
non posso più pensare, io adopero tutte le mie forze per mantenere ciò che
sussiste. Quando il vecchio comandante era in vita la colonia era colma di
suoi sostenitori; in parte io ho la forza di convinzione del vecchio
comandante, ma me ne manca del tutto il potere; per cui i sostenitori si sono
nascosti, ce ne sono ancora molti, ma nessuno lo ammette. Se oggi, dunque
in un giorno di esecuzione capitale, voi andate nella casa del tè e ascoltate
quel che si dice, sentirete forse soltanto esternazioni ambigue. Si tratta di
sostenitori manifesti, ma sotto il comandante di ora, e date le sue opinioni,
essi sono per me del tutto inutili. E ora vi chiedo: a causa di questo
comandante, e delle sue mogli che su di lui hanno influenza, si deve far
andare in malora l'opera di una vita?” - disse indicando la macchina. “Si ha il
diritto di autorizzarlo? Anche se si è solo uno straniero qui nella nostra isola
per pochi giorni? Non c'è tempo da perdere, però, si prepara qualcosa contro
la mia giurisdizione; avvengono già presso il comando deliberazioni per le
quali io non vengo consultato; perfino la vostra visita odierna mi pare
indicativa di tutta quanta la situazione; si è ostili e si manda avanti voi, uno
straniero. Com'era diversa in altri tempi l'esecuzione! Già alla sua vigilia
l'intera valle era colma di persone; tutti venivano, unicamente per vedere; la
mattina presto facevano la loro comparsa il comandante e le sue signore;
fanfare svegliavano tutto il campo; ero io a comunicare che tutto era pronto;
la buona società – nessun alto funzionario poteva mancare – si disponeva
attorno alla macchina; questo mucchio di sedie di bambù è una misera
reliquia di quel tempo. La macchina appena lucidata brillava, quasi a ogni
esecuzione prendevo nuovi pezzi di ricambio. Davanti a centinaia di occhi –
tutti gli spettatori stavano in punta di piedi fin là dove sono le alture – il
condannato veniva posto sotto l'erpice dal comandante stesso. Ciò che oggi
un soldato semplice può fare era compito mio, del presidente del tribunale, e
mi onorava. E l'esecuzione iniziava! Nessuna nota stonata turbava il lavoro
della macchina. Parecchi non guardavano nemmeno, ma sostavano nella
sabbia a occhi chiusi; tutti sapevano: ora si fa giustizia. Nel silenzio si sentiva
solo il gemito del condannato attutito dal feltro. Oggi alla macchina non
riesce più di spremere un gemito maggiore di quanto il feltro può soffocare;
allora invece dagli aghi inscriventi gocciolava fuori un liquido corrosivo che
oggi non può più venir adoperato. Orbene, e poi arrivava la sesta ora! Da
vicino era impossibile riuscire tutti a osservare il condannato supplicare, a
vederlo. Il comandante nella sua perspicacia aveva disposto che prima di
tutto dovessero venir presi in considerazione i bambini; certo io, forte del mio
ufficio, potevo sempre assistere; spesso mi accoccolavo lì, con due bambini
a destra e a sinistra in braccio. Come prendevamo tutti noi l'espressione
trasfigurata di quel volto martirizzato, come ci si tendevano le guance alla
vista di questo atto di giustizia finalmente compiuto e già passato! Che tempi,
camerata!” L'ufficiale aveva evidentemente dimenticato chi gli si trovava
davanti; aveva abbracciato il viaggiatore e messo la testa sulla spalla di lui. Il
viaggiatore fu in grande imbarazzo, guardò altrove con impazienza. Il soldato
aveva terminato il lavoro di pulizia e ora aveva anche versato da un vaso la
pappa di riso nella ciotola. Il condannato ci aveva appena fatto caso, pareva
essersi ripreso del tutto, che iniziò a prendere la pappa a colpi di lingua. Il
soldato continuava a levargli la ciotola, infatti la pappa era destinata a più
tardi, ma era indecente comunque che anche il soldato vi mettesse dentro le
sue mani sporche e ne mangiasse davanti al famelico condannato.
L'ufficiale si ridette velocemente un contegno. “Non è che volessi diciamo
commuovervi”, disse, “so che è impossibile far capire quei tempi, oggi. Per
altro la macchina opera ancora e da sé. Funziona da sé per quanto sia sola in
questa valle. E la salma alla fine continua a cadere con un salto
incredibilmente lieve nella fossa, per quanto non centinaia di persone, come
mosche, le si affollino attorno come allora. Fummo costretti a disporre una
robusta balaustra attorno alla fossa, allora, da lungo tempo è stata
abbattuta.”
Il viaggiatore preferì distogliere il viso dall'ufficiale e guardare in giro a caso.
L'ufficiale ritenne che lui osservasse il vuoto della valle; per cui gli prese una
mano, gli girò attorno per coglierne lo sguardo e chiese: “Vedete che
vergogna?”
Tuttavia il viaggiatore tacque. L'ufficiale lo lasciò per un poco; a gambe
larghe, le mani sui fianchi, stette in silenzio e guardò per terra. Poi sorrise al
viaggiatore in modo corrivo e disse: “Ero vicino a voi ieri quando il
comandante vi invitò. Udii l'invito. Conosco il comandante. Capii subito a che
cosa mirava. Il suo potere sarebbe abbastanza grande per intervenire contro
di me, ciò nonostante non osa farlo, eppur tuttavia vuole espormi a voi, al
giudizio di un rispettato straniero. Il suo calcolo è accurato; voi siete
nell'isola da due giorni, non conoscevate il vecchio comandante e l'ambito
suo ideale, siete prevenuto a causa dei punti di vista europei, forse siete
fondamentalmente ostile alla pena capitale in genere, e in particolare a un
modo simile di esecuzione meccanica, inoltre vedete con afflizione e senza
chiaro interesse che l'esecuzione procede su una macchina da tempo un
poco malandata – non sarebbe dunque molto facilmente possibile, tutto
considerato (così pensa il comandante), che voi riteniate ingiusta la mia
procedura? E se non la ritenete giusta, ciò non lo terrete segreto (continuo a
parlare come fossi il comandante), infatti voi confidate certo nelle vostre
convinzioni più volte sperimentate. Del resto avete visto molte peculiarità di
molti popoli e imparato a rispettarle, per cui probabilmente non vi
esprimerete con piena forza contro la procedura come fareste forse nel
vostro Paese. Di questo però il comandante non ha nemmeno bisogno. Basta
una parola di sfuggita, detta a caso. Che non debba esprimere neanche la
vostra opinione, purché venga incontro chiaramente a ciò che egli desidera.
Che lui vi interrogherà con gran scaltrezza io ne sono certo. E le sue signore
siederanno attorno in cerchio aguzzando le orecchie; voi all'incirca direte: 'da
noi la procedura giudiziaria è diversa', oppure direte: 'da noi l'accusato viene
interrogato prima del verdetto', oppure: 'da noi il condannato conosce il
verdetto', oppure: 'da noi ci sono anche pene diverse da quella capitale',
oppure: 'da noi solo nel medioevo c'erano le torture'. Sono tutti rilievi tanto
giusti quanto a voi appaiono evidenti, rilievi ingenui che non intaccano la mia
procedura. Tuttavia come li accoglierà il comandante? Lo vedo, il bravo
comandante, che subito si leva e corre al balcone, vedo tutte le sue signore
che lo seguono, ne odo la voce – le signore la chiamano voce tonante –
eccolo che parla: 'un grande ricercatore occidentale incaricato di studiare le
procedure giudiziali di tutti i Paesi ha appena detto che la nostra procedura
tradizionale è inumana. Stando al giudizio di una tale personalità
naturalmente non mi è più possibile tollerare questa procedura. Da oggi
dunque stabilisco – eccetera.' Voi intendete intervenire, non avete detto ciò
che lui rende pubblico, non avete definito inumana la mia procedura, al
contrario, in considerazione della vostra approfondita indagine la ritenete
umanissima e umanamente degnissima, inoltre ammirate questo meccanismo
– ma è troppo tardi; non ci arrivate nemmeno, al balcone, che già è colmo di
signore; intendete farvi vedere; state per urlare; ma la mano di una signora vi
chiude la bocca – e io sono perduto insieme all'opera del vecchio
comandante.”
Il viaggiatore fu costretto a reprimere un sorriso; era facile dunque il compito
che lui aveva ritenuto tanto difficile. Disse evasivo: “Voi sopravvalutate la mia
influenza; il comandante ha letto le mie lettere di raccomandazione, sa che
non sono affatto un conoscitore di procedure giudiziarie. Se esprimessi una
opinione sarebbe l'opinione di un privato per nulla più significativa
dell'opinione di un qualunque altro e comunque molto meno di quella del
comandante, che in questa colonia penale, come credo di sapere, ha molto
esteso i diritti. Se la sua opinione circa questa procedura è tanto precisa
come voi credete, allora temo che sia arrivata la fine di questa procedura
senza che per altro ci sia bisogno della mia modesta partecipazione.”
Che il concetto fosse chiarito all'ufficiale? No, non ancora. Scosse
vivacemente il capo, rapido volse lo sguardo verso il condannato e il soldato
che trasalirono e mollarono il riso, si accostò al viaggiatore, non lo guardò in
faccia, ma guardandogli un qualche punto della giacca disse a voce più
bassa rispetto a prima: “voi non conoscete il comandante; in rapporto a lui e
a tutti noi in certo qual modo siete insignificante – perdonate l'espressione, la
vostra influenza, credetemi, non può esser valutata bene. Fui lieto dunque
quando sentii che solo voi avreste dovuto assistere all'esecuzione. Tale
disposizione del comandante avrebbe dovuto colpirmi sul vivo, ora però la
volgo a mio favore. Libero da false insinuazioni e sguardi sprezzanti –
inevitabili con una maggiore partecipazione all'esecuzione – voi avete
ascoltato le mie spiegazioni, avete visto la macchina e ora siete sul punto di
assistere all'esecuzione. Il vostro giudizio è già privo di incertezze; dovessero
sussisterne di piccole, la visione dell'esecuzione le eliminerà. E dunque sono
a pregarvi di aiutarmi nei confronti del comandante!”
Il viaggiatore non lo lasciò parlare oltre. “Ma come potrei farlo”, alzò la voce,
“è assolutamente impossibile. Io sono in grado di esservi utile tanto poco
quanto di danneggiarvi.”
“Potete farlo”, disse l'ufficiale. Con qualche timore il viaggiatore vide che
l'ufficiale stringeva le mani a pugno. “Potete”, ripeté l'ufficiale ancor più
incalzante. “Ho un piano che deve riuscire. Voi credete che la vostra influenza
non basti. Io so che basta. Ammesso però che abbiate ragione, non è forse
necessario tentare tutto ai fini di questa procedura, perfino ciò che magari è
insufficiente? Sentite dunque il mio piano. Ai fini della sua riuscita è
necessario prima di tutto che voi oggi reprimiate il più possibile il vostro
giudizio in merito alla procedura. Se non vi si fanno domande, ecco che
potete non esprimervi in alcun modo; le vostre esternazioni nel caso devono
essere brevi e precise; si deve notare che avete difficoltà a parlarne, che siete
esasperato, che se eventualmente foste costretto a parlar chiaro dovreste
addirittura esplodere in imprecazioni. Non pretendo che dobbiate mentire; per
nulla; dovete soltanto rispondere con brevità, più o meno così: 'sì ho visto
l'esecuzione', oppure 'sì ho udito tutte le spiegazioni'. Solo questo, niente di
più. Dell'esasperazione che si deve notare in voi c'è ragione davvero a
sufficienza, anche se non nel senso voluto dal comandante. Naturalmente lui
la equivocherà del tutto e la spiegherà dal suo punto di vista. Su ciò si basa il
mio piano. Domani nella sede del comando ha luogo una grande riunione di
tutti i maggiori funzionari amministrativi presieduta dal comandante. Costui
ha naturalmente l'intenzione di fare sfoggio di simili riunioni. Venne costruito
un palco che è sempre occupato da spettatori. Io sono costretto a prender
parte alle discussioni, ma mi disgustano assai. Ora, voi certo verrete invitato
in ogni caso alla riunione; se oggi vi comportate secondo il mio piano, l'invito
si trasformerà in incalzante richiesta. Doveste invece per qualche motivo
enigmatico non venire invitato, ecco, dovreste pretendere l'invito; che allora
lo otteneste è fuori di dubbio. Ora, domani dunque sedete con le signore nel
palco del comandante. Questi ripetutamente si accerta guardando in su che
voi ci siate. Dopo svariate banali ridicole discussioni destinate solo
all'uditorio – per lo più si tratta di edilizia portuale, ogni volta riecco l'edilizia
portuale! - viene messa in discussione la procedura giudiziale. Non dovesse
avvenire, ciò, da parte del comandante, o non abbastanza presto, allora che
avvenga me ne occuperò io. Mi alzerò e farò rapporto circa l'odierna
esecuzione. Brevissimo, nient'altro. Un rapporto del genere è certamente
inusuale, tuttavia lo faccio. Il comandante mi ringrazia come sempre con un
gentile sorriso, quindi non può impedirsi di cogliere la buona occasione.
'Venne fatto per l'appunto', dirà egli all'incirca, 'rapporto circa l'esecuzione.
Vorrei aggiungere a tale rapporto che alla esecuzione ha assistito il grande
studioso di cui voi tutti sapete la tanto straordinariamente onorevole visita
nella nostra colonia. Anche la nostra odierna riunione risulta elevata nel suo
significato dalla di lui presenza. Non vogliamo domandare a questo grande
ricercatore com'egli giudichi la esecuzione secondo tradizione e la procedura
che la precede?' Naturalmente applausi dappertutto, approvazione generale,
da parte mia la più rumorosa. Il comandante s'inchina a voi e dice: 'Allora, a
nome di tutti vi pongo la domanda.' Ed eccovi al parapetto. Avanzate le mani
di modo che tutti le vedano, altrimenti son preda delle signore che poi
giocano con le vostre dita. E ora finalmente dite la vostra. Non so come
sopporterò la tensione delle ore che ci separano da questo momento. Al
vostro discorso non dovete porre alcun limite, create clamore con la verità,
chinatevi sul parapetto, berciate, ma sì, berciate al comandante la vostra
opinione. Forse però non vi si addice, non corrisponde al vostro carattere, nel
vostro Paese forse ci si contiene diversamente in simili casi, è giusto anche
questo, anche questo basta pienamente, non vi alzate neppure, dite solo
poche parole, mormoratele in modo che solo i funzionari che si trovano sotto
a voi le odano, è sufficiente, non dovete neppur accennare alla partecipazione
all'esecuzione, alla ruota che scricchiolava, alla cinghia spezzata, al feltro
ripugnante, no, di tutto il resto m'incarico io, e credetelo, se le mie parole non
lo cacciano via dalla sala lo costringeranno a inginocchiarsi e a riconoscere:
vecchio comandante, dinnanzi a te m'inchino. - Questo è il mio piano; volete
aiutarmi nella sua realizzazione? Ma naturale che voi volete, anzi di più, voi
dovete.” E l'ufficiale prese il viaggiatore per le braccia e lo guardò in faccia
ansimante. Aveva talmente urlato le ultime frasi che anche il soldato e il
condannato si erano fatti attenti; nonostante che non riuscissero a capire
nulla smisero di mangiare e, masticando, guardarono il viaggiatore.
La risposta che fu costretto a dare, fin da principio era per il viaggiatore
indubbia; nella sua vita troppo aveva imparato perché in questo caso potesse
esitare; era fondamentalmente onesto e non aveva affatto paura. Ciò
nonostante ora tentennò per un momento alla vista del soldato e del
condannato. Tuttavia alla fine come doveva disse: “ No.” L'ufficiale ammiccò
più volte, ma senza staccare gli occhi dal viaggiatore. “Volete che ve lo
spieghi?”- disse dunque il viaggiatore. L'ufficiale annuì. “Sono contrario a
questa procedura”, disse il viaggiatore, “da prima che voi vi confidaste con
me – di tale confidenza naturalmente non farò cattivo uso in alcuna
circostanza – ho già considerato il diritto che avrei di intervenire contro
questa procedura e, nel caso, la possibilità che tale intervento abbia anche
solo una modesta prospettiva di conseguenze. A chi dovrei rivolgermi per
primo a tal proposito, lo avevo chiaro: al comandante, è naturale. Me lo avete
reso ancora più chiaro senza tuttavia aver diciamo consolidato la mia
risoluzione, al contrario, le vostre oneste convinzioni mi toccano davvero, per
quanto non possano mettermi in imbarazzo.”
L'ufficiale rimase in silenzio, si volse verso la macchina, strinse una delle
sbarre di ottone e poi guardò, chinato e un poco arretrando, l'operatore
grafico come a verifica che tutto fosse in ordine. Il soldato e il condannato
pareva che avessero fatto amicizia; il condannato fece un cenno al soldato,
per quanto ciò fosse difficile, data la sua stretta legatura; il soldato si chinò
su di lui; il condannato gli mormorò qualcosa e il soldato annuì.
Il viaggiatore si avvicinò all'ufficiale e disse: “Ancora non sapete che cosa io
voglia fare. Certo dirò al comandante le mie vedute circa la procedura, ma
non nel corso di una riunione, piuttosto a quattr'occhi; né resterò tanto a
lungo qui da poter venire chiamato a qualche riunione; parto già domattina
presto, o almeno mi imbarco.”
Non parve che l'ufficiale fosse stato a sentire. “Dunque la procedura non vi
ha convinto”, disse più a se stesso che al viaggiatore, e sorrise come sorride
un vecchio alle sciocchezze di un bambino, tenendo per sé ciò che davvero
pensa.
“Dunque allora è il momento”, disse infine guardando a un tratto il
viaggiatore con occhi luminosi che contenevano una certa sfida e una certa
invocazione a parteciparvi.
“Di che cosa è il momento?”- chiese il viaggiatore inquieto, ma non ebbe
risposta.
“Tu sei libero”, disse l'ufficiale al condannato nella lingua sua. Quello
dapprima non ci credette. “Sei libero, capito?”- disse l'ufficiale. Per la prima
volta il volto del condannato acquistò vera vita. Era vero? Non era solo un
capriccio dell'ufficiale che poteva aver termine? Il viaggiatore straniero aveva
ottenuto che l'ufficiale lo graziasse? Di che si trattava? Questo pareva
chiedere la faccia di lui. Ma non a lungo. Fosse quel che fosse, lui desiderava
esser libero davvero, se ne aveva il permesso, e iniziò a scuotersi tanto
quanto l'erpice consentiva.
“Mi spezzi le cinghie”, urlò l'ufficiale, “sta' calmo! Le apriamo subito.” E si
mise al lavoro insieme al soldato cui aveva fatto un cenno. Il condannato
rideva piano senza parole guardando davanti a sé, presto girò la faccia verso
l'ufficiale a sinistra, a destra verso il soldato, né si scordò del viaggiatore.
“Tiralo fuori”, ordinò l'ufficiale al soldato. Il che si dovette effettuare con una
certa cautela. Il condannato per via della sua impazienza aveva già diversi
graffi sulla schiena.
Da quel momento tuttavia l'ufficiale s'interessò appena a lui. Andò dal
viaggiatore, tirò fuori il piccolo portafogli, cercò tra le carte, infine trovò
quella che cercava e la mostrò al viaggiatore. “Leggete”, disse. “Non mi
riesce”, disse il viaggiatore, “lo ripeto, non so leggere queste carte.” “Ma
guardate bene”, disse l'ufficiale e si mise accanto al viaggiatore per leggere
insieme a lui. Poiché nemmeno questo serviva, fece andare il mignolo, molto
a distanza, sulla carta, quasi che essa non potesse esser toccata, per
facilitare al viaggiatore in tal modo la lettura. Il viaggiatore si sforzò di riuscire
almeno a essere in ciò gradito all'ufficiale, ma gli fu impossibile. E allora
l'ufficiale iniziò a sillabare lo scritto e poi lo lesse tutto di seguito. “ 'Sii
giusto!' - dice”, disse, “e ora lo sapete pur leggere.” Il viaggiatore si chinò
tanto sulla carta che l'ufficiale per timore di un contatto la allontanò di più; il
viaggiatore ora non disse altro, ma fu chiaro che lui continuava a non saper
leggere. “ 'Sii giusto!' - dice”, disse di nuovo l'ufficiale. “Può essere” , disse il
viaggiatore, “ci credo che vi sia scritto ciò.” “Ebbene”, disse l'ufficiale
almeno parzialmente soddisfatto, e salì con il foglio sulla scala; lo adagiò con
gran cautela nell'operatore grafico e rimise a punto apparentemente tutto il
rotismo; fu un lavoro molto faticoso, si doveva trattare di maneggiare ruote
piccolissime, a tratti il capo dell'ufficiale spariva tutto nell'operatore grafico,
tanto esattamente egli doveva regolare il rotismo.
Il viaggiatore senza interruzione seguì dal basso tale lavoro, gli si indolenzì il
collo e gli occhi gli fecero male perché il cielo lo inondava con la luce del
sole. Il soldato e il condannato erano occupati soltanto tra loro. La casacca e
le brache del condannato, che si trovavano nella fossa, furono tirate fuori con
la baionetta dal soldato. La casacca era sporca da far schifo per cui il
condannato la lavò nel secchio pieno d'acqua. Quando si mise addosso
quella roba, lui e il soldato furono però costretti a ridere forte, infatti la parte
posteriore era tagliata in due. Forse il condannato riteneva di esser tenuto a
divertire il soldato e con quegl'indumenti stracciati addosso fece davanti a lui
una piroetta; l'altro si accoccolò a terra e rise dandosi colpi sulle ginocchia.
Ciò nonostante si davano anche un contegno per riguardo alla presenza dei
signori.
Quando di sopra l'ufficiale fu pronto dette sorridendo un'occhiata panoramica
all'insieme in ogni sua parte, chiuse il coperchio dell'operatore grafico, fin lì
aperto, scese, guardò la fossa e poi il condannato, soddisfatto constatò che
quello ne aveva tratto fuori l'abito, quindi andò al secchio d'acqua per lavarsi
le mani, ma in ritardo ne vide la schifosa sporcizia, si dolse di non potersi
lavare le mani e infine le lasciò affondate nella sabbia – non che l'alternativa
gli bastasse, ma dovette rassegnarsi –, poi si tirò su e iniziò a sbottonarsi la
giacca dell'uniforme. Nel farlo subito gli vennero in mano i due fazzolettini da
signora che aveva ficcato sotto il colletto. “Eccoti i fazzoletti”, disse e li gettò
verso il condannato. A spiegazione disse al viaggiatore: “Dono delle
signore.”
Nonostante la palese fretta con cui si toglieva la giacca e poi si svestiva
tutto, egli maneggiava con gran cura ogni capo, addirittura strofinando
attentamente con le dita i cordoncini d'argento della giacca e raddrizzando
una dragona della spada. Poco si addiceva a tale accuratezza il fatto che lui,
appena finito di occuparsi di un capo, subito lo gettasse nella fossa con un
gesto di sdegno. L'ultima cosa che gli restava fu la spada con le sue cinghie.
La estrasse dal fodero, la spezzò, ne afferrò insieme i tronconi, il fodero, le
cinghie, e buttò il tutto con tale energia nella fossa che ne venne un clangore.
Ed ecco, fu nudo. Il viaggiatore si mordeva le labbra senza dir nulla. Certo
sapeva che cosa sarebbe accaduto, ma lui non aveva alcun diritto di impedire
alcunché all'ufficiale. La procedura giudiziale cui l'ufficiale era affezionato
stava davvero sul punto di venir eliminata – forse come conseguenza
dell'intervento cui il viaggiatore da parte sua si sentiva impegnato – e allora
l'ufficiale agiva con piena giustezza; il viaggiatore al posto suo non avrebbe
proceduto diversamente.
Dapprima il soldato e il condannato non capirono nulla, all'inizio non stettero
neppure a guardare. Il condannato era molto contento di avere avuto i
fazzoletti, ma se ne poté rallegrare per poco, infatti il soldato glieli prese con
mossa rapida e improvvisa. Allora il condannato tentò di sfilarli al soldato
dalla cintura dove quello li aveva messi al sicuro, ma il soldato fu attento. A
metà per scherzo si disputarono. Solo quando l'ufficiale fu tutto nudo essi si
fecero attenti. In particolare il condannato parve presentire un qualche gran
rovesciamento. Ciò che a lui era accaduto, accadeva ora all'ufficiale. Forse
sarebbe stato così fino in fondo. Probabilmente ne aveva dato ordine il
viaggiatore straniero. Una vendetta, dunque. Pur senza aver patito fino alla
fine, ora tuttavia lui veniva vendicato fino alla fine. Una larga muta risata gli
apparve sul volto senza scomparire più.
L'ufficiale si era volto verso la macchina, tuttavia. Se già prima era stato
chiaro quanto lui se ne intendesse, ora ci si poteva quasi sgomentare per il
modo con cui la maneggiava ed essa obbediva. Aveva appena avvicinato una
mano all'erpice che esso si alzò e abbassò diverse volte fino a che non
raggiunse il giusto posizionamento; appena afferrato il bordo del letto che
esso iniziò già a vibrare; il tampone di feltro gli venne alla bocca, si vide
come l'ufficiale in verità non lo volesse, ma l'esitazione durò solo un
momento, subito lui vi si subordinò e lo accolse. Tutto era pronto, solo le
cinghie penzolavano ancora ai lati, ma erano chiaramente inutili, all'ufficiale
non serviva esser legato. Vedendo le cinghie sciolte il condannato ritenne
che l'esecuzione non fosse completa, senza che fossero assicurate, zelante
fece un cenno al soldato ed essi velocemente andarono a legare l'ufficiale.
Questi già aveva proteso un piede verso la manovella che doveva mettere in
moto l'operatore grafico; in quella, egli vide che i due erano lì; ritrasse perciò
il piede e lasciò che lo legassero. Certo ora non poteva arrivare alla
manovella; né il soldato né il condannato l'avrebbero individuata, e il
viaggiatore era deciso a non muoversi. Non fu necessario; non appena
fissate le cinghie la macchina iniziò ad operare; il letto vibrò, gli aghi
danzarono sulla pelle, l'erpice scorse in basso e in alto. Il viaggiatore già era
stato un po' di tempo intento a guardare senza ricordarsi che una ruota
dell'operatore grafico avrebbe dovuto cigolare; invece tutto taceva, non si
udiva la minima vibrazione.
Con tale operare silenzioso la macchina mancava in effetti di attirare
l'attenzione. Il viaggiatore si volse a guardare il soldato e il condannato.
Questi era il più vivace, tutto lo interessava della macchina, rapido si
abbassava, rapido si alzava continuando a indicare al soldato qualcosa. Ciò
fu penoso per il viaggiatore. Era deciso a restare sul posto fino al termine, ma
non avrebbe tollerato a lungo la vista di quei due. “Andate a casa”, disse. Il
soldato forse sarebbe stato disposto a farlo, ma il condannato sentì l'ordine
addirittura come punitivo. Chiese, supplice a mani giunte, che lo si lasciasse
lì, e quando il viaggiatore scuotendo la testa rifiutò, quello arrivò a
inginocchiarsi. Il viaggiatore vide che gli ordini non servivano e intendeva
cacciarli via. In quella udì su nell'operatore grafico un fracasso. Guardò. Che
una delle ruote dentate causasse danni? No, era qualcos'altro. Pian piano si
sollevò il coperchio dell'operatore grafico, poi aprendosi del tutto. Si videro i
denti di una ruota sollevarsi, presto apparve tutta quanta la ruota, era come
se una gran pressione agisse nell'operatore grafico per cui a tale ruota non
rimanesse più posto, essa rotolò sul margine dell'operatore e cadde giù, si
ficcò ritta per un po' nella sabbia e poi vi giacque. Tuttavia già un'altra si
sollevava e altre la seguivano, grandi, piccole e appena distinguibili, tutte
fecero la stessa fine, c'era da credere che l'operatore grafico si fosse
svuotato e invece usciva un altro gruppo di ruote dentate particolarmente
numeroso, saliva e poi cadeva giù, si ficcava nella sabbia e ci restava. Tale
progressione fece dimenticare del tutto al condannato l'ordine del
viaggiatore, le ruote dentate lo incantavano, stava di continuo sul punto di
prenderne una e insieme sollecitava il soldato ad aiutarlo, ma spaventato
ritraeva la mano, infatti a una ruota ne seguiva subito un'altra che, almeno
all'inizio del suo rotolare via, lo atterriva.
Al contrario il viaggiatore era molto turbato; la macchina chiaramente andava
in pezzi; il suo quieto funzionare era stato illusorio; egli sentì che ora doveva
prendersi cura dell'ufficiale, che non poteva più badare a se stesso. Tuttavia
mentre la caduta delle ruote dentate reclamava tutta la sua attenzione, lui
aveva trascurato di tener d'occhio il resto della macchina; quando perciò,
dopo che l'ultima ruota dentata fu uscita dall'operatore grafico, egli si chinò
sull'erpice, ebbe una nuova e peggiore sorpresa. L'erpice non inscriveva, si
limitava a pungere e il letto non scuoteva il corpo, vibrando lo sollevava
contro gli aghi. Il viaggiatore intendeva far qualcosa, possibilmente fermare
tutto quanto, mica era una tortura, quella, come l'intendeva l'ufficiale, era
assassinio immediato. Tese la mano. Infatti già l'erpice si sollevava da una
parte insieme al corpo infilzato come invece faceva solo al termine delle
dodici ore. Il sangue scorreva in cento rivoli non mescolato all'acqua,
stavolta anche i getti d'acqua avevano fallito. E ora falliva l'ultima cosa, infatti
il corpo non fu liberato dai lunghi aghi, ne usciva sangue a fiotti, pendeva al
di sopra della fossa senza cadervi. L'erpice stava per ritornare alla sua
posizione di partenza, ma quasi vedesse da sé che ancora non era alleggerito
dal suo carico, restava sopra la fossa. “Aiutatemi, dunque!”- urlò il
viaggiatore al soldato e al condannato afferrando lui stesso i piedi
dell'ufficiale. Intendeva premervisi sopra, quei due avrebbero dovuto
prendere dall'altra parte il capo dell'ufficiale di modo che questi fosse pian
piano sfilato dagli aghi. Tuttavia quei due non riuscivano a decidersi a venire;
addirittura il condannato voltò le spalle; il viaggiatore fu costretto a muoversi
lui per spingerli con la forza verso la testa dell'ufficiale. Nel che, quasi contro
voglia, vide il volto del cadavere. Era come fosse in vita; nessun segno
palese della promessa redenzione; ciò che tutti gli altri avevano trovato,
l'ufficiale non lo trovava; le sue labbra erano serrate, gli occhi aperti avevano
l'espressione che aveva da vivo, lo sguardo era quieto e sicuro, la cima del
grosso punzone di ferro gli attraversava la fronte.

* * *

Quando il viaggiatore, con dietro il soldato e il condannato, pervennero ai


primi edifici della colonia, il soldato ne indicò uno e disse: “quella è la casa
del tè”.
Al pianterreno di un edificio c'era un locale basso, modesto, cavernoso, dalle
pareti e dal soffitto affumicati. Era aperto nella sua intera larghezza sulla
strada. Nonostante che si distinguesse poco dagli altri edifici della colonia,
tutti molto malandati tranne quelli del comando, esso fece al viaggiatore
l'effetto di una memoria storica e lui sentì la potenza dei tempi passati. Vi si
avvicinò e seguito dai suoi accompagnatori transitò tra i tavoli, non occupati,
che si trovavano in strada davanti alla casa del tè, e inalò l'aria proveniente
dall'interno, fredda e stantia. “Il vecchio è sepolto qui”, disse il soldato, “un
posto nel cimitero gli è stato negato dal clero. Si fu per un po' indecisi sul
luogo della sepoltura, alla fine si è sepolto qui. L'ufficiale certo non ve ne ha
dato conto perché naturalmente se ne è vergognato al massimo. Ha perfino
più di una volta tentato di disseppellirlo, durante la notte, ma è stato sempre
messo in fuga. “ “Dov'è la tomba?”- chiese il viaggiatore, che non riusciva a
credere al soldato. Subito entrambi, il soldato come il condannato, lo
precedettero e con le mani protese gli indicarono dove doveva trovarsi la
tomba. Lo condussero fino alla parete posteriore dove ai tavoli sedevano
alcuni avventori. Si trattava evidentemente di portuali, uomini robusti dalla
barba corta e nerissima. Tutti mancavano della giubba, le camicie erano
stracciate, erano gente povera, umiliata. Quando il viaggiatore si avvicinò,
alcuni si levarono, si ritirarono verso la parete e lo guardarono. “E' uno
straniero”, si sentì mormorare attorno al viaggiatore, “vuol vedere la tomba.”
Tirarono da parte uno dei tavoli sotto cui davvero c'era una pietra tombale.
Una semplice pietra abbastanza bassa da poter venire nascosta sotto un
tavolo. Recava un'epigrafe composta in piccolissimi caratteri, il viaggiatore fu
costretto a inginocchiarsi, per leggerla. Diceva: “Qui riposa il vecchio
comandante. I suoi seguaci, che ora non hanno diritto a essere nominati, gli
hanno scavato la fossa e posto la pietra tombale. Vige una profezia per cui il
comandante dopo un dato numero di anni resusciterà e guiderà i suoi
seguaci fuori da questa casa alla riconquista della colonia. Credete e
aspettate!” Quando il viaggiatore ebbe letto e si alzò vide attorno a sé quegli
uomini in piedi, sorridenti, come se insieme a lui avessero letto l'epigrafe,
l'avessero trovata risibile e sfidassero lui a condividere la loro opinione. Il
viaggiatore fece finta di nulla, distribuì loro qualche moneta, attese che il
tavolo fosse rimesso sopra la tomba, lasciò la casa del tè e si diresse al
porto.
Il soldato e il condannato avevano trovato dei conoscenti che li trattennero
nella casa del tè. Dovevano tuttavia essersene presto liberati, infatti il
viaggiatore era solo a metà della lunga scala che portava alle barche e loro
già gli furono dietro. Erano evidentemente intenzionati a indurre il viaggiatore
all'ultimo momento a prenderli con sé. Mentre egli in basso trattava con un
barcaiolo circa il passaggio fino al vapore, i due si fermarono lungo la scala
senza parlare, infatti non osavano urlare. Quando però arrivarono giù il
viaggiatore era già nella barca e il barcaiolo stava allontanandosi dalla riva.
Avrebbero potuto ancora saltare in barca, ma il viaggiatore levò un pesante
canapo nodoso dal suolo, li minacciò e li trattenne dal saltare. (In der
Strafkolonie, 1915)

Un virtuoso del digiuno.

Negli ultini decenni l'interesse per i virtuosi del digiuno è assai scemato.
Mentre prima valeva la pena organizzare simili dimostrazioni in proprio, oggi
è del tutto impossibile. Erano altri tempi. Allora l'intera città si occupava del
virtuoso; quotidianamente insieme alla durata del digiuno saliva la
partecipazione; ognuno almeno una volta al giorno voleva vedere il virtuoso;
aumentando i giorni di digiuno c'erano abbonati i quali sedevano tutto il dì
davanti alla piccola gabbia; anche di notte avevano luogo visite allo scopo di
accrescere l'effetto con la luce delle fiaccole; quando il tempo era buono la
gabbia era trasportata all'aperto e in questo caso specialmente ai bambini
veniva mostrato il virtuoso; mentre per gli adulti era spesso soltanto un
divertimento cui essi prendevano parte perché era di moda, i bambini stavano
a guardare a bocca aperta, tenendosi, a scanso di rischi, reciprocamente per
mano, stupefatti da come lui, pallido, una maglia nera adosso, le costole
sporgenti, sedeva sulla paglia sparsa perfino disdegnando una sedia, da
come annuendo a un tratto gentilmente rispondeva alle domande con un
sorriso forzato, da come tendeva tra le sbarre della gabbia il braccio per far
sentire la sua magrezza e poi però riaffondava completamente in se stesso
senza curarsi di nessuno, neppure dei rintocchi dell'orologio, unico arredo
della gabbia, per lui così importante, e invece continuava a guardare davanti
a sé con gli occhi quasi chiusi, di tanto in tanto centellinando un sorsino
d'acqua da un piccolo bicchiere per inumidirsi le labbra.
A parte i mutevoli spettatori c'erano anche guardiani fissi scelti nel pubblico,
notevolmente, di solito, macellai i quali, sempre tre per volta, avevano
l'incarico di osservare notte e giorno il virtuoso acciocché questi, in un
qualche modo più o meno segreto, non si nutrisse. Solo una formalità a
scopo di tranquillizare la massa, infatti gli iniziati sapevano bene che mai il
virtuoso durante il digiuno per nessuna circostanza, neppur con la forza,
avrebbe mangiato neppure la minima cosa; lo proibiva l'onore dell'arte sua.
S'intende che non tutti i guardiani potevano capire ciò, talvolta c'erano gruppi
di guardia notturni i quali esercitavano la sorveglianza in modo assai lasso,
deliberatamente si sedevano insieme in un angolo lontano e lì s'immergevano
nel gioco delle carte con l' intenzione manifesta di concedere al virtuoso un
rinfreschino che secondo loro egli poteva tirar fuori da una qualche riserva
segreta. Niente era più molesto per il virtuoso di siffatti guardiani; lo
rattristavano; gli rendevano il digiuno orribile; talvolta vinceva la sua
debolezza e cantava durante questo tempo di guardia, finché semplicemente
non ne poteva più, per mostrare a quella gente quanto ingiustamente lo
sospettassero. Però serviva a poco; essi finivano per stupirsi soltanto della
sua disinvoltura nel mangiare mentre cantava. Molto di più gli piacevano i
guardiani che si mettevano vicino alle sbarre, non si accontentavano
dell'illuminazione notturna della sala, ma lo illuminavano con le torce
elettriche che l'impresario <in italiano nel testo> metteva loro a disposizione.
La luce abbagliante non lo disurbava affatto, tanto a dormire, in linea di
massima, non riusciva, e un poco poteva sempre assopirsi con qualsiasi
illuminazione e a ogni ora, anche con la sala strapiena e chiassosa. Assai
volentieri era disposto a trascorrere completamente senza sonno la notte con
simili guardiani; disposto a scherzarci, a raccontar loro storie della sua vita
nomade e ad ascoltare poi le loro, tutto all'unico scopo di tenerli desti per
poter continuare a mostrar loro che lui nella gabbia non aveva nulla di
commestibile e che digiunava come nessun di loro avrebbe potuto fare. Il
massimo per lui tuttavia era quando poi arrivava la mattina e veniva portata
loro, a spese sue, una sontuosa colazione su cui si gettavano con l'appetito
di uomini sani dopo una faticosa notte di veglia. Certo, non mancava gente
che in questa colazione voleva vedere una disdicevole subornazione dei
guardiani, ma ciò oltrepassava i limiti, e quando si chiedeva ai guardiani se
volevano, diciamo per la causa, sobbarcarsi la veglia notturna senza
colazione, loro storcevano la bocca, però restavano a causa delle
insinuazioni di quella gente.
Questo certo faceva parte però delle insinuazioni assolutamente inseparabili
dal digiuno. Nessuno in fin dei conti era in grado di passare tutti i giorni e le
notti presso il virtuoso ininterrottamente come guardiano, nessuno dunque
poteva di suo propriamente sapere, senza fallo, se davvero il digiuno era
ininterrotto; soltanto il virtuoso stesso poteva saperlo, soltanto lui poteva allo
stesso tempo essere il digiunatore e l'osservatore pienamente soddisfatto del
suo digiuno. Sempre, invece, era insoddisfatto per un altro ulteriore motivo;
forse non aveva propriamente ottenuto dal digiuno quel grado di
dimagrimento per cui parecchi, non tollerandone la vista, dovessero star
lontano dagli spettacoli in segno di compianto, invece era dimagrito soltanto
a causa dell'insoddisfazione di sé. Solo lui, in altre parole, sapeva, e nessun
altro iniziato lo sapeva, com'era facile il digiuno. La cosa più facile al mondo.
Neanche lo nascondeva, questo, ma non gli si credeva, nel caso più
favorevole lo si considerava modesto, ma specilmente voglioso di pubblicità
o perfino un imbroglione cui il digiuno era in fondo facile perché sapeva
renderselo facile e che aveva anche la sfrontatezza di ammetterlo. Tutto
questo lui doveva accettarlo, ci si era anche abituato con gli anni, ma
interiormente questa insoddisfazione continuava a roderlo, e ancora mai
dopo nessun periodo di digiuno - si doveva riconoscerglielo - aveva lasciato
di sua volontà la gabbia. Come limite massimo del digiuno l'impresario aveva
posto quello di quaranta giorni, oltre non lasciava digiunare nessuno,
neanche nelle metropoli, e certamente per buone ragioni. Secondo
l'esperienza tramite la pubblicità gradualmente crescente si poteva circa per
quaranta giorni stuzzicare sempre di più l'interesse di una città, dopo però il
pubblico mancava, si osservava un essenziale calo di affluenza; sussitevano
naturalmente a questo riguardo piccole differenze tra le città e la provincia,
ma come regola valeva che il limite massimo era quaranta giorni. Così al
quarantesimo giorno la porta inghirlandata di fiori della gabbia veniva aperta,
una entusiastica partecipazione di spettatori riempiva l'anfiteatro, una banda
militare suonava, due medici entravano nella gabbia per prendere le
necessarie misurazioni al virtuoso, con un megafono i risultati venivano
annunciati alla sala, infine ecco due giovani signore, contente di essere state
sorteggiate, che intendevano far scendere un paio di gradini fuori dalla
gabbia al virtuoso fino a un tavolino su cui era servito un pasto da ammalati
accuratamente scelto. A questo punto il virtuoso si opponeva sempre. Certo,
appoggiava ancora volontariamente le sue braccia ossute sulle mani
soccorrevoli protese dalle signore, chine su di lui, ma non voleva stare in
piedi. Perché smettere proprio ora dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito
ancora a lungo, illimitatamente; perché smettere proprio ora che lui si
trovava, anzi, non era ancora, nella parte migliore del digiuno? Perché si
voleva derubarlo della gloria di digiunare più a lungo, di diventare non solo il
più grande virtuoso del digiuno di tutti i tempi, il che lui, anzi, probabilmente
già era, ma anche di superare se stesso fino all'inesplicabile, dal momento
che lui non sentiva alcun limite alla sua capacità digiunatoria? Perché questa
folla che pretendeva di ammirarlo così tanto aveva così poca pazienza? Se lui
resisteva ancora a digiunare più a lungo, perché essa non voleva resistere?
Inoltre era stanco, si trovava bene sulla paglia, ora doveva tirarsi su, e non
per poco, andar a mangiare, cosa che già a figurarsela gli provocava nausee
la cui espressione tratteneva a fatica per riguardo alle signore. E dal basso
guardava negli occhi le signore, apparentemente tanto gentili, in realtà così
crudeli, e faceva segno di no con la testa appesantita sul debole collo. Però
poi succedeva quel che succedeva sempre. Veniva l'impresario, senza parole
- la musica rendeva impossibile parlare - sollevava le braccia sul virtuoso
quasi che invitasse il cielo a osservare una buona volta l'opera sua lì sulla
paglia, questo miserevole martire, il che il virtuoso era di certo, ma in
tutt'altro senso; afferrava per la sottile vita il virtuoso, facendo ciò con
esagerata cautela lui voleva render credibile che lui lì avesse a che fare come
con una cosa fragile; e lo consegnava - non senza dargli segrete scosse in
modo che il virtuoso con le gambe e il busto incontrollatamente oscillasse
qua e là - alle signore nel frattempo impallidite come due morte. Ora il
virtuoso sopportava tutto; la testa appoggiata al petto, era come fosse
rotolata in basso e si reggesse per miracolo; la pancia svuotata; le gambe si
stringevano l'una con l'altra all'altezza delle ginocchia per istinto di
conservazione, ma raspavano il suolo, come se non si trattasse di cosa reale
si preoccupavano di trovare il vero suolo; e tutto il peso, invero modesto, del
corpo si appoggiava su una delle signore, la quale in cerca d'aiuto, con il
respiro accelerato - non si era figurata così questo ufficio d'onore - tendeva al
massimo il collo almeno per difendere il viso dal contatto con il virtuoso; poi
però, dato che ciò non le riusciva e la sua più fortunata compagna non la
soccorreva, si accontentava di liberarsi, tremando, della mano del virtuoso, di
quel mucchietto d'ossa, tra le risate entusiastiche della sala rompeva in
lacrime, e doveva esser rilevata da un inserviente per tempo predisposto. Poi
veniva il mangiare, un poco del quale l'impresario somministrava al virtuoso,
che si trovava in uno stato di sonnolenza simile allo svenimento, in mezzo a
gioiosi applausi, e che doveva sviare l'attenzione dallo stato del virtuoso; poi
al pubblico si rivolgeva un brindisi presumibilmente sussurrato dal virtuoso
all'impresario; l'orchestra ratificava il tutto con gran squilli, e si andava via,
nessuno aveva ragione di essere scontento del virtuoso, nessuno, solo lui,
sempre solo lui.
Così visse molti anni, con piccole pause di riposo periodiche,
apparentemente fulgido, onorato dal mondo, malgrado tutto, però, in genere
di un cattivo umore che diveniva sempre peggiore per il fatto che nessuno
intendeva prenderlo sul serio. Ma in che modo lo si doveva consolare? Cosa
gli restava da desiderare? E se capitava una buona volta chi bonariamente lo
compativa e intendeva spiegargli che la sua afflizione proveniva dal digiuno,
poteva succedere, specie durante l'aumentare del tempo digiunato, che il
virtuoso rispondesse con un esplosione di rabbia e iniziasse, come una
belva, a scuotere le sbarre. Comunque l'impresario per stati simili aveva un
rimedio punitivo che il virtuoso accoglieva volentieri. Lo giustificava di fronte
al pubblico riunito, ammetteva che solo l'irritabilità suscitata dal digiuno
poteva scusare il comportamento del virtuoso, essendo tale irritabilità, per le
persone sazie, senz'altro incomprensibile; veniva poi, in rapporto a ciò, a
parlare anche dell'altrettanto spiegabile affermazione del virtuoso che lui
avrebbe potuto digiunare anche molto più a lungo di quanto faceva; lodava lo
sforzo, la buona volontà, la grande abnegazione che certo in tale
affermazione erano contenuti; cercava poi di confutare, però, l'affermazione
abbastanza semplicemente tramite l'esibizione di fotografie che allo stesso
tempo venivano smerciate, infatti in esse si vedeva il virtuoso pervenuto al
quarantesimo giorno di digiuno, allettato, quasi spento a causa della
debolezza. Ben note, queste foto, al virtuoso, certo, ma sempre di nuovo lo
stravolgimento della verità, che lo snervava, era troppo per lui. Ciò che era
conseguenza del prematuro termine del digiuno, qui si mostrava come se
fosse la causa! Combattere contro tale dissennatezza, contro questo mondo
d'insensatezza, era impossibile. Ancor sempre in buona fede aveva
riascoltato, impaziente alle sbarre, l'impresario, all'apparizione delle
fotografie però ogni volta le aveva lasciate perdere, sospirando si era
afflosciato nella paglia, e il pubblico tranquillizzato poteva di nuovo
avvicinarsi per guardarlo.
Se alcuni anni più tardi i testimoni ripensavano a simili scene, spesso le
trovavano addirittura incomprensibili. Infatti nel frattempo era subentrato
quel sopra menzionato capovolgimento; era successo quasi d'improvviso;
poteva avere motivi profondi, ma a chi importava di scovarli? Comunque il
raffinato virtuoso si vide un giorno abbandonato dalla folla desiderosa di
divertimento, la quale fluì verso altre attrazioni. L'impresario si sguinzagliò
con lui in mezza Europa per vedere se non si ritrovava ancora qua e là il
vecchio interesse; tutto finito; come in un accordo segreto dappertutto si era
formata una vera e propria ripugnanza nei confronti della vista dei digiuni.
Naturalmente ciò in realtà non era potuto avvenire d'improvviso, e ora ci si
rammentava ricostruttivamente di molti indizi a suo tempo, nell'ubriacatura
del successo, non abbastanza osservati , non abbastanza repressi, tuttavia
ora rimediarvi era troppo tardi. Certo era sicuro che una buona volta anche
per il digiuno il tempo sarebbe ritornato, ma per i vivi ciò non era di conforto.
Che cosa doveva fare ora il virtuoso? Colui per il quale in migliaia avevano
giubilato non poteva esibirsi in baracconi di modeste fiere annuali, e per
trovare un altro impiego il virtuoso non soltanto era troppo anziano, ma
soprattutto troppo fanaticamente devoto. Così licenziò l'impresario, il
compagno d'una carriera senza pari, e si fece ingaggiare da un grande circo;
per proteggere la sua sensibilità non guardò nemmeno le condizioni
contrattuali.
Un grande circo, con la sua quantità enorme di persone, animali e
attrezzature sempre in gioco reciproco può necessitare di tutti in ogni
momento, anche d'un virtuoso del digiuno di pretese, è naturale,
adeguatamente modeste, e, a parte ciò, certo in questo caso particolare non
tanto era stato ingaggiato il virtuoso stesso, quanto il suo vecchio famoso
nome; ma non si poteva neppur dire, data la particolarità di quest'arte col
passare degli anni tramontata, che un virtuoso d'altri tempi non più all'altezza
della sua capacità volesse rifugiarsi in una tranquilla posizione circense; al
contrario, il virtuoso assicurò che lui, ciò che assolutamente era degno di
esser creduto, digiunava bene proprio come prima, anzi riteneva perfino che,
se lo si lasciava fare, e questo gli si promise senz'altro, avrebbe per la prima
volta, proprio ora, fatto fondatamente stupire il mondo: un'affermazione, data
la mentalità dell'epoca non valutata dallo zelante digiunatore, che davvero
suscitò soltanto un sorriso.
In fondo tuttavia neanche il virtuoso perdeva di vista la realtà delle cose, e
accettò come ovvio che non lo si mettesse con la sua gabbia in pista come
più o meno un'attrazione principale, ma invece lo si collocasse fuori, in un
posto, abbastanza ben accessibile del resto, in prossimità degli stallaggi.
Grandi variopinte insegne incorniciavano la gabbia e indicavano ciò che lì
c'era da vedere. Quando il pubblico negl'intervalli dello spettacolo si
spingeva verso le gabbie per guardare gli animali era quasi inevitabile che
transitasse davanti al virtuoso e un poco vi si fermasse, forse ci si sarebbe
trattenuti più a lungo davanti a lui se coloro che stavano dietro nello stretto
ambulacro, i quali non capivano questa sosta sulla via delle agognate gabbie,
non avessero reso impossibile una più lunga e tranquilla osservazione.
Anche questo era il motivo per cui il virtuoso, di fronte a questi momenti di
visita che lui naturalmente desiderava come meta vitale, non mancava però di
rabbrividire. All'inizio aveva faticato nell'attesa delle pause dello spettacolo;
in estasi aveva guardato verso la folla che si avvicinava scomposta finché
presto si era convinto con coraggio - anche il più caparbio, quasi
consapevole, autoinganno non resse alle prove - che si trattava per lo più di
gente intenzionata, sempre, senza eccezione, chiaramente a visitare le
gabbie. E questa vista a distanza rimase ancor sempre la più bella. Infatti
quando gli spettatori erano arrivati fino a lui, subito gli infuriavano attorno
grida e insulti degl'ininterrottamente formantisi partiti, il partito - presto il più
indigesto per il virtuoso – di chi voleva vederlo con comodità, non per
apprezzamento, per dire, ma per capriccio e puntiglio, e il partito che bramava
soprattutto le gabbie. Davanti alla gabbia del digiunatore c'era
assembramento grande, dietro c'erano i ritardatari che in effetti, pur non
essendo più impediti dal restare a volontà, si affrettavano a grandi passi per
arrivare in tempo agli animali, quasi senza guardare dalla parte della gabbia
del digiunatore. E non capitava quasi mai la fortuna che un padre di famiglia
coi suoi bambini indicasse il virtuoso, che spiegasse in modo dettagliato di
che cosa si trattava, che raccontasse degli anni passati, dei luoghi dove il
virtuoso, per simili ma incomparabilmente maggiori esibizioni, era stato, e
che poi i bambini, a causa della insoddisfacente loro preparazione scolastica
e di vita, restassero sempre senza capire - cos'era per loro il digiuno? - e che
però con la luce dei loro occhi scrutatori manifestassero qualcosa dei nuovi
tempi venturi più favorevoli. Forse, così si diceva il virtuoso talvolta, tutto
sarebbe cambiato un po' in meglio se la sua ubicazione non fosse stata tanto
vicina alle gabbie. La scelta alla gente risultava così troppo facile, per non
dire che molto lo ferivano e lo tormentavano senza tregua le esalazioni delle
gabbie, l'irrequietezza degli animali durante la notte, il trasporto che davanti a
lui veniva effettuato dei pezzi di carne cruda per le belve, lo strepito del loro
mangiare. Tuttavia non osava fare le sue rimostranze presso la direzione;
almeno lui doveva, anzi, proprio agli animali la folla dei visitatori, tra i quali
poteva trovarsene qua e là uno destinato a lui, e chi lo sapeva dove lo si
sarebbe ficcato se lui avesse voluto ricordare che esisteva; senza contare il
fatto che lui, strettamente parlando, era solo un intralcio sulla via verso le
gabbie.
Davvero un intralcio modesto, un intralcio sempre più modesto. Ci si era
troppo assuefatti allo straordinario per aver voglia di rivendicare, oggi,
attenzione per un virtuoso del digiuno, e con tale assuefazione il verdetto sul
virtuoso del digiuno era pronunciato. Aveva dunque la possibilità di digiunare
bene quanto gli riusciva di fare, e lo faceva, ma niente poteva più salvarlo dal
fatto che lo si passasse sotto silenzio. Provaci, a spiegare a qualcuno l'arte
del digiuno! A chi non ha tale sensibilità, non gli si può render comprensibile.
Le belle insegne divennero luride e illeggibili, le si strapparono via, a nessuno
venne in mente di sostituirle; la tabella con il numero dei giorni di digiuno
effettuato che nei primi tempi accuratamente ogni giorno era stato rinnovato,
già da lungo tempo restava sempre la stessa, infatti dopo le prime settimane
il personale s'era stufato anche di questo modesto lavoro; e dunque il
virtuoso seguitava a digiunare, certamente, come in passato aveva sognato
di fare una buona volta, e gli riusciva senza sforzo proprio come allora aveva
predetto, ma nessuno contava i giorni, nessuno, nemmeno lui lo sapeva
quanto grande era la sua prestazione, e quando una volta un perdigiorno si
fermò burlandosi dell'alto numero e parlò d'imbroglio, ciò fu la più sciocca
delle menzogne che l'insensibilità e la malvagità potessore escogitare, infatti
il virtuoso non imbrogliava, operava in modo onorevole, ma era il mondo
invece a imbrogliarlo.

Eppure passarono ancora molti giorni, e anche ciò ebbe una fine. Una volta a
un sorvegliante dette nell'occhio la gabbia; chiese agli inservienti perché si
lasciasse inutilizzata quella bella gabbia con dentro paglia putrida; nessuno
lo sapeva, finché uno si rammentò, con l'aiuto della tabella numerata, del
virtuoso. Si frugò la paglia con dei bastoni e ci si trovò il virtuoso. "E tu
seguiti a digiunare?" - domandò il sorvegliante, " ma quando la finirai?"
"Perdonatemi tutti", sussurrò il virtuoso; soltanto il sorvegliante che teneva
l'orecchio alle sbarre, lo intese. "Certo", disse il sorvegliante appoggiandosi
alla fronte un dito per far capire al personale la condizione del virtuoso, "ti
perdoniamo". "Incessantemente desideravo che ammiraste il mio digiuno",
disse il virtuoso." Certo che lo ammiriamo", disse il sorvegliante per
compiacerlo."Ma non dovete ammirarlo", disse il virtuoso. "Va bene, e noi
allora non lo ammiriamo", disse il sorvegliante, "perché poi non dobbiamo?"
"Perché io sono costretto a digiunare, non posso farne a meno", disse il
virtuoso. "Ma guarda un po' ", disse il sorvegliante, "perché non puoi farne a
meno?" "Perché io", disse il virtuoso, sollevò un po' la testolina e parlò
proprio nell'orecchio del sorvegliante, con le labbra raccolte a guisa di bacio,
perché niente andasse perduto, "perché io non riuscii a trovare cibo che mi
piacesse. Se l'avessi trovato, credimi, non avrei mai dato nell'occhio e avrei
mangiato perfettamente come te e tutti." Queste furono le ultime parole, ma
nei suoi occhi spenti c'era ancora la ferma ancorché non più fiera
convinzione di continuare il digiuno.
"Va bene, ma ora mettiamo in ordine!" - disse il sorvegliante, e finì così con il
virtuoso e con la paglia. Alla gabbia invece si assegnò una giovane pantera.
Era anche nel senso più banale un sollievo vedere aggirarsi questo selvaggio
animale nella gabbia così a lungo desolata. Non gli mancava niente. Il
nutrimento, che gli piaceva, i guardiani glielo recavano senza starci troppo a
pensare; neppure pareva accorgersi della mancanza di libertà; quel nobile
corpo strettamente dotato del necessario per sbranare pareva comportare
anche la libertà; essa appariva nascosta da qualche parte nella dentatura; e la
gioia di vivere usciva con tanto più potente fervore dalla gola, che non era
facile per gli osservatori resisterle. Tuttavia essi si dominavano, si
stringevano attorno alla gabbia e non volevano staccarsene.
(Ein Hungerkuenstler, 1922)
Nella nostra sinagoga

Nella nostra sinagoga vive un animale di taglia simile a quella di una martora.
Tollera che le persone gli si avvicinino fino alla distanza di due metri, qualche
volta è molto bello da vedere. Il suo colore è un verdazzurro chiaro. Nessuno
però ha sfiorato la sua pelliccia, quindi non se ne può dire nulla di più, si
potrebbe quasi affermare, anche, che il vero colore del pelame è ignoto, forse
quello visibile deriva solo dalla polvere e dalla malta cadutevi sopra, e ha
qualcosa anche dell’intonaco interno della sinagoga, solo un po’ più chiaro.
Si tratta, considerando la sua ritrosia, di un animale stanziale estremamente
calmo; non venisse spaventato così spesso, si sposterebbe ben difficilmente,
la sua dimora preferita è la griglia della zona riservata alle donne *, alle cui
maglie si aggrappa con agio evidente, si stira e guarda giù dove si prega,
quest’audace posizione sembra rallegrarlo, ma l’inserviente del Tempio ha
l’incarico di non permetterglielo mai, lui ci si abituerebbe e ciò, a causa delle
donne che ne hanno paura, non può essere consentito. Perché lo temano non
è chiaro. A prima vista sì, sembra che le spaventino il lungo collo, il muso
triangolare, la fila di denti superiori sporgente quasi in orizzontale sul labbro,
il pelame chiaro setoloso dall’aspetto molto duro, ma subito si deve
riconoscere che tutta quest’apparente spaventosità è innocua. Innanzitutto
lui si tiene ben lontano dalle persone, è più ritroso di un animale della foresta,
non pare legato ad alcunché se non all’edificio, e la sua personale infelicità
risiede tutta nel fatto che quest’edificio è una sinagoga, cioè un posto a
momenti animatissimo. Si potrebbe comunicare con l’animale, si potrebbe
davvero consolarlo con l’argomento che la comunità della nostra cittadina
montana di anno in anno diviene più piccola e ciò le rende faticoso sostenere
i costi della manutenzione della sinagoga. Non è escluso che tra breve la
sinagoga diventi un granaio o simili, e che l’animale abbia la calma che ora
dolorosamente gli manca.
Soltanto le donne, a dire il vero, temono l’animale, agli uomini è diventato da
molto tempo indifferente, una generazione lo ha mostrato all’altra, sempre lo
si è continuato a vedere, in realtà non gli si è più rivolto uno sguardo, e
neanche i ragazzi che lo vedono per la prima volta si stupiscono più. E’
divenuto l’animale domestico della sinagoga, perché la sinagoga non
dovrebbe avere un animale speciale in nessun altro luogo apparso? Se ne
saprebbe a mala pena l’esistenza, non fosse per le donne. Ma anche loro non
hanno nessuna autentica paura di fronte all’animale, sarebbe anche troppo
strano temere un siffatto animale ogni giorno - per decine di anni. Si
giustificano, certo, con l’argomento che l’animale il più delle volte si trova
molto più vicino a loro che non agli uomini, e questo è vero. L’animale non si
azzarda a scendere tra gli uomini, ancora non lo si è mai visto sul pavimento.
Non gli si permette di arrampicarsi sulla griglia della zona riservata alle
donne, così lui si tiene almeno alla stessa altezza sulla parete opposta. Lì c’è
una stretta sporgenza del muro, larga appena due dita, che corre intorno ai
tre lati della sinagoga, l’animale qualche volta ci transita svelto avanti e
indietro, di solito però sta accovacciato tranquillamente in un certo posto
elevato dirimpetto alle donne. E’ quasi incomprensibile come riesca così
facilmente a servirsi di questo stretto passaggio, e merita di esser visto
come, arrivato in fondo, lassù si rigiri, è un animale certo molto vecchio,
eppure non esita a fare le piroette più ardite, davvero non fallisce mai, s’è
appena girato in aria e già rifà il suo percorso in direzione opposta.
Veramente quando lo si è visto qualche volta se ne ha abbastanza e non si ha
alcun motivo di continuare a guardarlo. Sì, non è né paura né curiosità quel
che tiene le donne in agitazione, fossero più impegnate nella preghiera,
potrebbero dimenticare del tutto l’animale, quelle devote lo farebbero anche,
se le altre, che sono la gran maggioranza, lo permettessero, queste tuttavia
desiderano spesso e volentieri attirare su di sé l’attenzione e l’animale ne è
un pretesto ben accolto. Se potessero, se ne avessero il coraggio,
attirerebbero l’animale ancora più vicino, per avere ancor più paura. In realtà
però è vero che l’animale non si spinge affatto dalla loro parte, se non lo si
assale si occupa poco delle donne come degli uomini, resterebbe forse
soprattutto ritirato come fa tra una funzione religiosa e l’altra, evidentemente
in un buco nel muro che ancora noi non abbiamo scoperto. Appena s’inizia a
pregare lui appare, spaventato dal chiasso vuol vedere che cos’è successo,
vuole restare vigile, vuole essere libero, in grado di fuggire, corre fuori, fa le
sue capriole di paura e non si azzarda a ritirarsi fino a quando la funzione
religiosa non è terminata. Preferisce l’alto naturalmente perché lì è
sicurissimo e ha le sue migliori possibilità di fuggire sulla griglia e sulla
sporgenza del muro, ma assolutamente non sta sempre lì, talvolta scende più
in basso verso gli uomini; la cortina che copre l’Arca dell’Alleanza ** è
sostenuta da una sbarra di ottone che sembra attrarre l’animale, lui striscia
piuttosto spesso fin lì, dove però sta sempre tranquillo, mai una volta,
quando è vicino all’Arca, si può dire che disturbi, con i suoi occhi lucenti
sempre aperti, forse privi di palpebre, sembra guardare la comunità, ma certo
non guarda nessuno, piuttosto guarda soltanto ai pericoli dai quali si sente
minacciato.
A questo riguardo lui pareva, almeno fino a poco tempo fa, non molto più
assennato delle nostre donne. Quali pericoli ha poi da temere? Chi ha in
animo di fargli qualcosa? Non vive in definitiva da molti anni del tutto
abbandonato a se stesso? Gli uomini non s’interessano alla sua presenza e la
maggioranza delle donne sarebbero probabilmente scontente se sparisse. E
siccome è l’unico animale dell’edificio non ha del resto alcun nemico. In fin
dei conti dovrebbe averlo già capito, negli anni. E la funzione religiosa con il
suo chiasso può, sì, essere alquanto paurosa per l’animale, tuttavia essa si
ripete con regolarità e senza sospensioni, breve ogni giorno, più lunga nelle
festività, anche l’animale più pauroso avrebbe già potuto abituarsi,
soprattutto vedendo che il chiasso non è qualcosa che proviene da
persecutori, ma è un chiasso che non lo riguarda affatto. E tuttavia questa
paura. E’ memoria di tempi lontani o presentimento di tempi a venire? Forse
questo vecchio animale non lo sa meglio di quanto lo sappiano le tre
generazioni che, di volta in volta, si sono radunate nella sinagoga?
Molti anni or sono, così raccontano, deve davvero esser stato fatto il tentativo
di allontanare l’animale. E’ certo possibile che sia vero, probabilmente
tuttavia si tratta solo di storie inventate. Certo si può dimostrare che quella
volta si è analizzata, dal punto di vista della legittimità religiosa, la questione
se un animale simile potesse esser tollerato nella Casa del Signore. Si
richiese il parere di svariati noti rabbini, le opinioni si divisero, i più furono
favorevoli all’allontanamento e alla nuova inaugurazione della Casa del
Signore, ma tale decreto era facile da lontano, in verità era davvero
impossibile allontanare l’animale.

* Divisorio che serve per tenere le donne separate e poco visibili dagli uomini.
** Una cassa di legno ricoperta, dentro e fuori, con lamine d’oro, contenente
le due Tavole della Legge .
(In unserer Synagoge,1920)

C'era una volta un gioco di pazienza

C'era una volta un gioco di pazienza, un semplice gioco di poco prezzo non
più grande d'un orologio da tasca e privo di qualunque sorprendente
dispositivo. Sulla superficie di legno verniciata di marrone-rosso erano
intagliate in azzurro alcune vie alternative sboccanti in una buchetta. A forza
di inclinazioni e scosse bisognava portare la pallina, anch'essa azzurra, prima
in una delle vie, quindi nella buca. Quando la pallina era in buca il gioco era
finito, se si voleva ricominciarlo si doveva scuoter via la pallina dalla buca. Il
tutto era coperto da un vetro robusto bombato, il gioco di pazienza si poteva
ficcare in tasca, portarlo con sé e, ovunque si fosse, estrarlo e giocarci.La
pallina per lo più era disoccupata, se ne andava, le mani dietro la schiena,
qua e là verticalmente, scansando le vie. Durante il gioco pensava di essere
sufficientemente tormentata tramite quelle vie e aveva a sufficienza il diritto,
quando non si giocava, di riposarsi dove non ce n'erano. Essendo grossa,
osservava di non esser fatta per quelle vie a scartamento ridotto. In parte era
giusto, infatti le vie bastavano appena a contenerla, in parte no, perché di
fatto essa era assai accuratamente adattata alla larghezza delle vie, ma
comode non potevano tornarle, altrimenti non si sarebbe trattato mica d'un
gioco di pazienza. (Es war einmal ein Geduldspiel, 1922?)
La coppia coniugale

Lo stato generale degli affari è così cattivo che mi capita perfino, se in ufficio
ne trovo il tempo, di prendere la cartella con i modelli e di andare di persona
dai clienti. Già da un po’, tra l’altro, mi ero riproposto di andare una volta da
K., con cui in precedenza sono stato in stabili rapporti di lavoro che tuttavia
l’anno scorso per motivi a me ignoti si sono pressoché interrotti. Per
inconvenienti simili non serve affatto che ci siano neppure vere ragioni; negli
odierni rapporti instabili spesso a decidere è un nulla, uno stato d’animo, e
altrettanto un nulla, una parola, può rimettere tutto a posto. Tuttavia è un po’
disagevole recarsi da K.; è un uomo vecchio, ultimamente molto malato, e
anche se tiene ancora in mano gli affari del negozio, sul lavoro non viene di
persona quasi più; se si vuole parlarci bisogna andare a casa sua, e
un’incombenza di lavoro del genere volentieri si rimanda.
Ieri sera dopo le sei comunque mi mossi; certo non era più affatto ora di
visite, ma la faccenda era valutabile come commerciale, non d’ufficio. Ebbi
fortuna, K. si trovava a casa; appena tornato insieme a sua moglie da una
passeggiata, mi dissero in anticamera, era nella camera di suo figlio, a letto
perché non stava bene. Mi pregarono di entrare; dapprima tentennai, ma poi
prevalse il desiderio di por fine alla penosa visita prima possibile, così mi feci
accompagnare come mi trovavo, cappotto, cappello e cartella dei modelli in
mano, per una stanza buia in una stanza male illuminata, dove si trovava
riunita una piccola compagnia.
Quasi d’istinto il mio sguardo cadde dapprima su un agente di commercio
anche troppo ben noto, in certo modo mio concorrente. Dunque si era di
nuovo infilato qui prima di me. Sedeva comodamente vicino al letto del
malato come se fosse il medico; stava lì con il suo bel cappottone aperto,
colossale; la sua sfrontatezza non ha pari; anche il malato doveva pensare
qualcosa del genere, mentre giaceva a letto con le guance un po’ arrossate
dalla febbre e a tratti lo guardava. Non è più giovane tra parentesi, avrà la mia
età il figlio, con la barba, a causa della malattia, tutta quanta mal cresciuta. Il
vecchio K. , un omone dalle spalle larghe, ma, con mio stupore, molto
dimagrito per via delle sue segrete pene, incurvito e malfermo, si trovava
ancora come era arrivato, in pelliccia, e mormorava qualcosa in direzione del
figlio. Sua moglie, minuta e decrepita, ma molto vivace limitatamente a ciò
che riguardava il marito – noialtri ci guardava appena – era indaffarata a
togliergli la pelliccia, quel che la gran differenza tra i due rendeva un po’
difficoltoso, però da ultimo ci riuscì. Del resto il difficile stava nel fatto che K.
non aveva pazienza e si agitava, proteso a tentoni verso l’agognata poltrona
che poi, dopo che la pelliccia fu tolta, sua moglie gli avvicinò svelta. Prese la
pelliccia quasi scomparendoci sotto e la portò via.
A questo punto finalmente mi sembrò venuto il mio momento, o meglio, non
era venuto e probabilmente neppure sarebbe venuto; se però d’altra parte
volevo ancora fare un qualche tentativo, doveva succedere ugualmente,
perché avevo la sensazione che in quel luogo le premesse per una
discussione d’affari stessero diventando ancora più sfavorevoli; però
piazzarmi lì, come sembrava che ne avesse l’intenzione l’agente, non mi
piaceva; del resto non volevo avere per lui la minima considerazione. Così
cominciai veramente di punto in bianco a esporre l'affar mio, nonostante
notassi che a K. faceva piacere intrattenersi un po’ con il figlio. Purtroppo ho
l’abitudine, parlando in stato di leggera agitazione – cosa che avvenne ancor
prima del solito in questa camera di malato – di alzarmi e andare, durante il
discorso, avanti e indietro. Quando si è nel proprio ufficio si tratta di
un’ottima mossa, in casa d’altri tuttavia è un po’ noiosa. Ma non riuscivo a
dominarmi, senza contare che mi mancava la solita sigaretta. Ora, ciascuno
ha le sue cattive abitudini, ciò nonostante le mie, in confronto a quelle
dell’agente, io le lodo. Che dire per esempio del fatto che lui, totalmente di
sorpresa, a un tratto si mise in testa il cappello che teneva appoggiato su un
ginocchio e che continuava adagio a spostare su e giù; certo, se lo ritolse
come se fosse stata una svista, tuttavia l’aveva tenuto in testa per un attimo,
e lo rifece, e continuò ancora a intervalli di tempo. Impossibile qualificare una
condotta simile. Non importa, vado avanti e indietro, sono tutto preso dalle
mie cose nel parlare e ci passo sopra, ma possono esserci persone che un
simile numero cappellistico può portare alla completa perdita del controllo. A
dire il vero io non ci bado, non solo non mi scaldo per un disturbo del genere,
ma neppure per nessun disturbo in assoluto, certo che vedo quel che
succede, ma lo accetto finché non ho finito o finché non mi arriva
un’obbiezione che per così dire mi colga impreparato. Così notai bene per
esempio che K. era assai poco ricettivo; a disagio continuava a ruotare le
mani intorno ai braccioli, non guardava me, vanamente intento piuttosto a
cercar qualcosa nel vuoto, e il suo viso sembrava così disinteressato come
se nessun suono delle mie parole, e certo neppure una sensazione della mia
presenza, entrassero in lui. Anche se vedevo che tale condotta insolita mi
dava poco da sperare continuai a parlare come se comunque avessi ancora
qualche speranza di riequilibrare nuovamente, alla fine, ogni cosa con le mie
parole, con le mie vantaggiose offerte – io stesso ero sgomento a causa delle
concessioni che stavo facendo, concessioni che nessuno mi aveva chiesto.
Un certo compiacimento mi venne anche dal fatto che l’agente, come notai di
sfuggita, finalmente lasciò in pace il cappello e incrociò le braccia sul petto;
le mie argomentazioni, che certo in parte erano calibrate anche su di lui,
sembravano assestare un duro colpo ai suoi piani. E avrei continuato a
parlare forse ancora a lungo, nello stato di benessere in quel modo
generatosi, se il figlio, cui non avevo finora fatto caso in quanto persona per
me marginale, non si fosse tirato su nel letto e, minacciandomi con un pugno,
non mi avesse fatto tacere. Visibilmente aveva intenzione anche di dire
qualcosa, di segnalare qualcosa, ma non ne ebbe la forza necessaria.
Dapprima scambiai il tutto per un delirio, ma poi senza volere mi accorsi del
vecchio K. e compresi meglio.
K. sedeva là, gli occhi aperti, vitrei, gonfi, per il momento ancora sotto
controllo, tremando chinato in avanti come se qualcuno lo stringesse o lo
colpisse sulla nuca, il labbro inferiore e anche la mandibola, tutte scoperte le
gengive, penzolavano per conto loro, il volto interamente sfatto; se non altro
respirava, quand’anche con difficoltà, ma poi come sciolto cadde indietro
contro la spalliera, chiuse gli occhi, gli passò ancora sul viso l’espressione di
qualche gran fatica, e fu finita. Svelto balzai verso di lui, gli presi una mano
rilasciata e morta, fredda da far rabbrividire; non c’era più pulsazione alcuna.
Così dunque era la fine. Certo, un vecchio. Magari la morte potesse venirci
con la stessa leggerezza. Ma quanto c’era da fare, ora! E cosa, prima di tutto,
e alla svelta? Mi guardai intorno in cerca d’aiuto; ma il figlio si era tirata la
coperta sulla testa, si sentiva il suo singhiozzare; L’agente, freddo come una
rana, sedeva immobile nella sua poltrona, a due passi da K., ed era evidente
che non aveva intenzione di far nulla, se non aspettare che scorresse il
tempo; dunque io, soltanto io restavo per far qualcosa, e ora giustappunto la
cosa peggiore, cioè dare la notizia alla signora in qualche modo accettabile,
un modo che però non esiste. E già udivo nella stanza accanto i passi,
premurosi e strascicati.
Ella – ancora in abito da passeggio, non aveva avuto il tempo di cambiarsi –
recava una camicia da notte tenuta al caldo sulla stufa, che ora voleva far
mettere al marito. “Si è addormentato”, disse sorridendo e scrollando la
testa, quando ci trovò così silenziosi. E, infinita fiducia dell’innnocenza, prese
la stessa mano che io avevo tenuto con ripugnanza e timore nella mia, la
baciò con breve tocco coniugale e – per il gran piacere di noialtri tre – K. si
mosse, sbadigliò rumorosamente, si lasciò infilare la camicia, sopportò tra
l’ironico e l’irritato gli affettuosi rimproveri della moglie per essersi lui tanto
sforzato nella passeggiata troppo lunga e, per spiegare dal suo punto di vista
il fatto di essersi addormentato, obbiettò curiosamente qualcosa sulla noia.
Poi si stese momentaneamente, per non prender freddo nel passaggio in altra
stanza, sul letto insieme al figlio; la sua testa fu fatta adagiare, accanto ai
piedi del malato, su due cuscini sveltamente portati lì dalla moglie. Dopo quel
che era successo, non ci trovai niente di strano. Poi chiese il giornale della
sera, lo prese senza riguardo per gli ospiti, ma non si mise a leggere, lo
scorse un poco e con sorprendente perspicacia professionale ci espresse
qualche vera e propria spiacevolezza in merito alle merci da noi offerte,
mentre con la mano libera continuava a fare gesti sprezzanti e accennava,
schioccando la lingua, al cattivo sapore che il nostro agire professionale gli
aveva lasciato in bocca. L’agente non riuscì a trattenersi dal formulare
qualche inopportuna osservazione, perfino con la sua grossolana sensibilità
capiva bene che ora K. doveva produrre una qualche compensazione a quel
che era successo prima, ma indubitabilmente la cosa non gli andava giù. Io
mi congedai alla svelta, quasi grato all’agente; senza la sua presenza non
avrei avuto la forza di andarmene così subito.
Nell’anticamera incontrai ancora la signora K.. Vedendone l’aspetto misero
espressi con franchezza quel che pensavo: che lei mi ricordava un poco mia
madre. E, dato che restava in silenzio, aggiunsi:” Che cos’altro si può dire a
questo punto, lei era capace di miracoli. Quel che noi avevamo distrutto, lei lo
rimetteva a nuovo. L’ho perduta quand’ero bambino.” Intenzionalmente avevo
parlato in modo lentissimo e chiaro, infatti credevo che la vecchia signora
fosse debole d’udito. Invece era proprio sorda, infatti di rimando chiese: “Che
mi dite dell’aspetto di mio marito?”. Nelle poche parole di commiato del resto
mi accorsi che mi scambiava per l’agente; volentieri ritenni che altrimenti
avrebbe avuto con me più familiarità.
Poi scesi le scale. La discesa fu più ardua della salita che l’aveva preceduta,
e mai qui una salita era stata facile. Ohi, ohi, cosa non capita nei giri di lavoro
a vuoto, e cosa non si seguita a sopportare! (Das Ehepaar, 1922).

Un commento

Era mattina molto presto, strade nitide e vuote, io andavo alla stazione.
Confrontando l'orologio d'una torre con il mio vidi che era assai più tardi di
quanto avessi creduto, mi dovevo affrettare, la paura causata da questa
scoperta mi rese incerto sul percorso, non ero ancora molto pratico della
città, per fortuna vicino c'era una guardia, corsi da lui e, affannato, gli chiesi
la strada. Sorrise dicendo: “vuoi saperla da me?” “Sì”, dissi io, “visto che da
solo non so trovarla.” “Rinuncia, rinuncia”, disse girandosi veloce come chi
voglia ridere per conto suo. (Ein Kommentar, 1922?)
Sulle similitudini

Molti si lagnano del fatto che le parole dei sapienti continuino a essere solo
similitudini, inservibili però nel quotidiano della vita, e non abbiamo altro che
questa. Quando il sapiente dice “va' dall'altra parte” non intende che si debba
attraversare la strada, ciò che si potrebbe pur sempre fare se il risultato
valesse, invece egli intende un qualche leggendario aldilà, qualcosa che non
conosciamo, che nemmeno lui sa designare in modo meno vago, e che
dunque non ci può servire, qui. Tutte queste similitudini in effetti vogliono
dire soltanto che l'inconcepibile è inconcepibile e questo lo sappiamo, però
ciò con cui ci si stanca ogni giorno è un'altra cosa.
Per cui uno disse: perché vi opponete? Seguendo le similitudini voi stessi
diverreste similitudini e con ciò sareste bell' e liberati dalla pena quotidiana.
Un altro disse: scommetto che anche questa è una similitudine.
Il primo disse: hai vinto.
Il secondo disse: ma purtroppo solo nella similitudine.
Il primo disse: no, nella realtà; nella similitudine hai perso. (Von den
Gleichnissen, 1922?)

Ritorno a casa

Sono tornato, ho attraversato l'ingresso e mi guardo attorno. E' la vecchia


fattoria di mio padre. Nel mezzo, la pozzanghera. Vecchia inservibile
accatastata attrezzatura in rovina sbarra la via ai piedi della scala. Il gatto fa la
posta sul parapetto. Un panno ridotto male, ai tempi in auge, attorcigliato a
un bastone si alza nel vento. Sono arrivato. Chi mi accoglierà? Chi aspetta
dietro la porta di cucina? Fumo viene dal camino, si prepara il caffè per cena.
Ti è familiare, ti senti a casa? Non so, sono molto incerto. E' la casa di mio
padre, ma ogni suo componente è freddo come se fosse occupato negli affari
suoi che in parte ho dimenticato, in parte mai seppi. In cosa posso esser loro
utile, cosa sono per loro, eppure sono il figlio del padre, del vecchio fattore, e
non oso bussare alla porta di cucina, mi limito a stare in ascolto solo a
distanza, solo a distanza ascolto, senza muovermi, per non venir colto di
sorpresa come chi origlia. E dato che sto in ascolto a distanza non sento
nulla, sento solo un lieve battito di un orologio, o forse credo di sentirlo
provenire dai tempi dell'infanzia. Ciò che accade in cucina è il segreto di
coloro che vi sono seduti, e che essi serbano nei miei confronti. Se ora
qualcuno aprisse la porta e mi chiedesse qualcosa, che roba! Non sarei allora
anch'io come uno che vuol difendere il suo segreto? (Heimkehr, 1924?)

La tana

Ho ultimato la tana, ed appare ben riuscita. Dall'esterno in effetti è visibile


solo una grande apertura, che però in realtà non porta da nessuna parte, già
dopo pochi passi si urta contro solida roccia naturale, non voglio vantarmi di
aver attuato tale stratagemma intenzionalmente, era il resto d'un tentativo di
tana tra i molti mancati, tuttavia alla fin fine mi sembrò vantaggioso lasciare
un'apertura non chiusa. Ovvio, svariati stratagemmi sono di tal finezza da
annullarsi da sé, lo so meglio d'altri, e non c'è dubbio che sia astuto attirare
l'attenzione, con tale apertura, sulla possibilità che proprio qui ci sia a portata
di mano qualcosa di indagabile. Non mi conosce però chi crede che io sia un
codardo e abbia la mia tana per codardia. A più di mille passi da tale apertura
si trova, nascosta da uno strato di muschio, l'entrata vera e propria della
tana, è protetta quanto al mondo qualcosa può in generale esserlo, certo,
qualcuno può camminare sul muschio o urtarvi, allora la mia tana è scoperta
e chi ha voglia – del resto si noti bene che per questo sono necessarie certe
capacità non troppo comuni – può entrare e distruggere tutto definitivamente.
Lo so bene e la mia vita anche ora, al suo culmine, dispone a mala pena di
un'intera ora di pace, lì nel muschio oscuro sono mortale e nei miei sogni
spesso un muso avido vi ficca senza tregua il naso. Si dirà che avrei potuto
proteggere anche quest'entrata vera, di sopra con uno strato più sottile di
terra, di sotto con uno strato più soffice, in modo che mi avrebbe dato solo
poca pena riguadagnarmi l'uscita ogni volta. Non è tuttavia possibile, proprio
la prudenza esige che io abbia un'immediata possibilità di fuga, proprio la
prudenza esige purtroppo tanto spesso il rischio della vita; si tratta davvero
di calcoli penosi, e il piacere della perspicacia in sé è talvolta l'unica causa
del fatto che si seguiti a far calcoli. Devo avere la immediata possibilità di
fuga, non posso infatti, nonostante tutta la mia vigilanza, venir assalito da
una parte del tutto inattesa? Vivo nel più profondo della mia tana e intanto da
una qualche parte mi s'imbuca addosso lentamente e silenziosamente il
nemico, non intendo dire ch'egli abbia più fiuto di me, forse di me sa poco
quanto io so di lui, ma vi sono predatori vigorosi che scavano alla cieca nella
terra e nonostante la gigantesca estensione della mia tana sperano lo stesso
d'imbattersi da qualche parte in un passaggio dei miei, ovvio che ho il
vantaggio di essere in casa mia, di conoscer bene tutti i passaggi e le
direzioni, il predatore ben facilmente può divenire mia vittima, e di sapore
piacevole, ma divento vecchio, molti sono più forti di me e i miei nemici sono
innumerevoli, potrebbe succedere che io sfugga a un nemico e finisca in
bocca all'altro, ora magari tutto ciò non potrebbe accadere, ma in ogni modo
sono costretto ad avere la certezza che da qualche parte ci sia una via di fuga
facile da raggiungere, ben aperta, per venir fuori dalla quale io non abbia da
far fatica, per cui mentre sto a scavare disperato, e sia pure dentro un leggero
terrapieno, io non senta – Dio non voglia – d'improvviso, per esempio nelle
cosce, le zanne del persecutore. Non mi minacciano solo nemici dall'esterno,
ce ne sono anche dentro la terra, ancora non li ho mai visti, ma ne narrano le
leggende e io le prendo alla lettera. Si tratta di esseri del cuor della terra,
neppure le leggende li sanno descrivere, anche chi ne è divenuto vittima li ha
appena visti, vengono, si ode il raspare dei loro artigli proprio sotto di sé,
nella terra, che è il loro elemento, e già si è perduti. E non conta neppure che
si sia in casa propria, infatti si è in casa loro. Davanti a loro non mi salva
neppure quella via d'uscita, come anzi è probabile che essa non mi salvi in
genere, che invece mi perda, ma essa è una speranza e io non posso fare a
meno.
Oltre a questo passaggio largo mi legano al mondo esterno altri passaggi
stretti abbastanza sicuri che mi procurano buona aria da respirare, sono
creati dai topi del bosco, ho inteso includerli esattamente nella mia tana, mi
offrono anche la possibilità di arrivar lontano con il fiuto e così mi
proteggono, lungo tali passaggi viene inoltre da me una quantità di minute
creature commestibili e quindi posso cacciare, qui sotto, quanto basta per
una modesta sussistenza e senza lasciare soprattutto la mia tana, questo
com'è naturale ha un gran valore.
La cosa più bella nella mia tana è tuttavia il suo silenzio; ovvio, è
ingannevole, d'improvviso può essere interrotto ed è la fine, ma intanto
eccolo ancora lì, per ore posso strisciare per le mie gallerie e non odo
null'altro che, talvolta, il raspare di un qualche animaletto che poi posso
subito anche annientare tra le mie zanne, o lo smottamento della terra che mi
segnala la necessità d'una qualche riparazione, sennò c'è silenzio. L'aria del
bosco spira all'interno, allo stesso tempo fa caldo e freddo, talvolta mi stiro e
mi rigiro all'interno della galleria, da quanto sto bene. E' bello, in vista della
vecchiaia, disporre di una tana come la mia, essersi protetti con un tetto,
quando inizia l'autunno.
Ogni circa cento metri ho allargato le gallerie in forma di spiazzi rotondi dove
posso comodamente girarmi, riscaldarmi e riposare. Vi dormo il dolce sonno
dell'armonia, del desiderio placato, della meta raggiunta, del possesso d'una
casa. Non so se è un'abitudine dei vecchi tempi o se i pericoli, anche in
questa casa, siano abbastanza forti da svegliarmi, con regolarità di tanto in
tanto terrorizzato mi sveglio dal sonno profondo e tendo le orecchie, nel
silenzio che qui immutato regna di giorno e di notte, tranquillizzato sorrido e
mi calo rilassato in un sonno ancora più profondo. Povero chi cammina
senza casa, sulle strade, nei boschi, nel caso migliore nascosto in un
mucchio di foglie o nel branco dei compagni, abbandonato a ogni capriccio
del cielo e della terra! E io qui disteso in uno spiazzo reso sicuro da ogni
parte – ve n'è più di cinquanta di questo tipo, nella mia tana – mentre le ore,
quelle che considero le predilette, mi passano tra il dormiveglia e il sonno
incosciente.
La piazza principale si trova non proprio nel centro della tana, nella ponderata
considerazione del caso di pericolo esterno, non proprio di inseguimento, ma
di assedio. Mentre tutto il resto forse è più un lavoro di massima fatica
mentale che non fisica, questa piazza è, in ogni sua parte, il risultato del mio
più gravoso lavoro fisico. Diverse volte, disperato per la stanchezza, fui per
rinunciarvi del tutto, mi rotolai sulla schiena, maledissi la tana, mi trascinai
fuori e la lasciai lì, aperta, potevo farlo appunto perché non intendevo tornarci
più, finché poi dopo ore o giorni, pentito, ci tornai, quasi avrei elevato un
canto all'interminabilità della tana, e iniziai di nuovo a lavorare in sincera
letizia. Il lavoro extra alla piazza principale si rese più difficile anche senza
che avesse costrutto, voglio dire, la tana in effetti non se ne avvantaggiò
affatto, del lavoro extra, infatti proprio nel posto in cui doveva stare la piazza
principale, secondo il progetto, la terra era molto soffice e sabbiosa, doveva
venir addirittura battuta e rassodata per edificare quella bella piazza rotonda
e a volta. Per un lavoro del genere io però dispongo solo della mia fronte e
con essa dunque migliaia e migliaia di volte, giorno e notte, ho cozzato
contro la terra, fortunatamente quando la colpivo a sangue ciò segnalava che
la parete iniziava a consolidarsi, me la son davvero guadagnata, in questo
modo, mi si concederà, la mia piazza principale .
Dentro ci porto l'insieme delle mie provviste, ci accumulo tutto ciò che nei
limiti delle mie momentanee esigenze vado cacciando all'interno della tana e
tutto ciò che riporto dalle mie battute all'esterno. E' così vasta che provviste
per sei mesi non la riempiono, per cui posso tenerle sparpagliate, transitarci
in mezzo, giocarci, compiacermi della loro massa e dei disparati odori, e aver
sempre una corretta valutazione di quel che è disponibile per poi anche
effettuarne sempre nuove sistemazioni e, secondo il periodo dell'anno, fare i
calcoli necessari e i progetti di caccia. Ci sono tempi nei quali sono così ben
provvisto che, indifferente al mangiare soprattutto la robetta che gira qui
intorno, neanche mi muovo, cosa che del resto per altri motivi forse è
imprudente. Il frequente daffare che ho con i preparativi di difesa comporta
che le prospettive dell'utilizzo della tana per tale scopo di difesa mutino o si
sviluppino del resto secondo modeste pianificazioni. Allora mi pare talvolta
pericoloso basare la difesa interamente nella piazza principale, la varietà
della tana mi dà pure varietà di scelta e mi sembra prudente distribuirle un
po', le provviste, fornirne anche diversi piccoli spiazzi, quindi stabilisco come
posto delle provviste di riserva all'incirca uno spiazzo ogni tre oppure ogni
quattro, per esempio – e ogni due come posto aggiuntivo delle provviste.
Oppure elimino diversi passaggi, a scopo di inganno, nell'ammassamento di
provviste, oppure, del tutto lunatico, scelgo solo pochi spiazzi in rapporto alla
loro posizione verso l'uscita principale. Certo, ognuno di tali nuovi progetti
richiede un pesante lavoro di trasporto dei carichi, devo fare il nuovo calcolo
e poi trasporto i carichi in qua e in là. Ovvio, devo farlo con calma, senza
troppo affrettarmi, e non è nemmeno tanto male portare in bocca buone cose,
riposarsi dove si vuole e mangiare di passaggio quel che piace. E' peggio
quando talvolta, di solito svegliandomi impaurito, mi pare che la presente
distribuzione sia sbagliata completamente, che possa comportare gravi rischi
e che subito, alla svelta, senza curarsi del sonno e della stanchezza, debba
venir corretta, e allora corro, volo, non ho tempo per far calcoli, io, che voglio
realizzare un nuovo progetto del tutto valido, prendo a caso ciò che mi viene
tra le zanne, trasporto, sospiro, gemo, incespico, e basta già un qualche
cambiamento a caso della situazione presente, che mi appare così tanto
pericolosa, per accontentarmi. Quando un po' alla volta, svegliandomi del
tutto, ritorno lucido, a stento comprendo la gran fretta, inspiro
profondamente la pace di casa mia che io stesso ho turbato, ritorno alla mia
cuccia, nuovamente conquistato alla stanchezza mi addormento subito e al
risveglio come prova inoppugnabile del lavoro notturno, già quasi
d'apparenza onirica, trovo ancora per esempio un ratto che mi penzola dalle
zanne. Ci son poi di nuovo tempi nei quali mi sembra la cosa migliore
radunare tutte le provviste in un posto. A cosa possono servirmi le provviste
nei piccoli spiazzi, quanta roba soprattutto ci si può mettere e poi ciò che vi si
porta blocca il passaggio e forse mi impedirà in un caso, difendendomi, di
correre. Oltre a ciò, davvero è sciocco, ma vero: duole esser consapevoli di
non vedere tutte le provviste riunite per cui con un unico sguardo si sa ciò
che si possiede. Non può andar perduto molto anche con queste molte
ripartizioni? Non posso seguitare a galoppare attraverso le mie gallerie in
ogni direzione allo scopo di vedere se tutto è a posto. Certamente è corretta
l'idea di fondo d'una distribuzione delle provviste, in effetti però soltanto se si
hanno numerosi spiazzi tipo la mia piazza principale. Come dirlo! E chi li
procura? Non rientrano più, ora, a cose fatte, nel progetto generale della mia
tana. Voglio tuttavia concedere che in esso c'è qualcosa di difettoso, come in
genere quando si ha un modello unico. E io riconosco che in me nel corso di
tutta la costruzione della tana, oscuramente quanto alla consapevolezza, ma
abbastanza chiaramente quanto alla buona volontà, sussisté l'esigenza di
numerose piazze, non le ho ceduto, mi sentivo troppo debole per il
gigantesco lavoro, anzi mi sentivo troppo debole per tenerne a mente la
necessità, in qualche modo mi consolavo con il sentimento, non meno
oscuro, secondo cui ciò che altrimenti non sarebbe stato realizzabile, nel mio
caso lo sarebbe stato, in via eccezionale e come grazia, probabilmente
perché la provvidenza era specialmente attenta alla conservazione della mia
fronte, o mazzapicchio. Così dunque ho soltanto una piazza principale, ma gli
oscuri sentimenti che ne venga realizzata solo una stavolta si sono perduti.
Comunque sia devo accontentarmi di una, gli spiazzi piccoli è impossibile
che possano sostituirla, e così inizio, quando tale opinione è maturata in me,
di nuovo a trascinare tutto dagli spiazzi piccoli alla piazza principale. Per
qualche tempo, dopo, mi è di gran conforto avere liberi tutti gli spiazzi e le
gallerie, vedere come nella piazza principale le masse di carne si accumulano
ed emanano fino alle gallerie più esterne la mescolanza dei molti odori dei
quali ognuno a modo suo mi rapisce e che sono in grado di distinguere bene
anche da lontano. Allora sogliono venire tempi particolarmente lieti durante i
quali pian piano, un po' alla volta, trasferisco i miei accucciamenti dalle
cerchie esterne verso le interne, m'immergo sempre più profondamente negli
odori al punto che non ce la faccio più e una notte mi precipito nella piazza
principale, vigorosamente sbaracco le provviste e fino all'intorpidimento
completo mi riempio del meglio che ho. Tempi felici, ma pericolosi, chi
sapesse trarne profitto potrebbe facilmente annientarmi senza rischiare.
Anche qui concorre negativamente la mancanza d'una seconda o terza
piazza, è il grande accumulo unico ciò che mi seduce. Tento in vari modi di
proteggermene, la distribuzione negli spiazzi piccoli è sì una misura di questo
genere, purtroppo conduce, come altre simili, tramite la privazione, a una
ancor maggiore golosità che poi, travolgendo l'intelletto, muta
arbitrariamente le mete dei progetti di difesa.
Dopo tempi del genere, allo scopo di concentrarmi, di solito revisiono la tana
e, dopo che le necessarie migliorie sono iniziate, spesso la lascio, anche se
solo per un tempo sempre più breve. La punizione di esserne a lungo privo
mi sembra anche in questo caso troppo severa, ma non mi sfugge la
necessità d'una assenza temporanea. C'è sempre una certa solennità
nell'avvicinarmi all'uscita. Nei tempi di vita domestica io la scanso, addirittura
evito di percorrere gli ultimi tratti della galleria che conduce ad essa, non è
nemmeno facile aggirarsi da quelle parti, perché vi ho disposto una piccola
complessa opera di gallerie zigzaganti; lì iniziò la mia tana, ai tempi ancora
non mi permettevo di sperare di poterla portare a termine così come era
progettata, quasi per gioco iniziai da quest'angolino e così il mio entusiasmo
lavorativo ebbe come sfogo la realizzazione d'un labirinto che, ai tempi, mi
parve l'apice di ogni edificazione e che oggi giudico, probabilmente più
giustamente che non troppo pignolescamente, un modello non molto degno
dell'edificio completo, cioè: in teoria forse è prezioso – v'è l'entrata di casa
mia, qui, dissi ironicamente, ai tempi, ai nemici invisibili, e già li vedevo tutti
morire soffocati nel labirinto d'entrata – in realtà però costituisce un
giochetto dalle pareti troppo sottili che a mala pena si opporrà a un assalto
serio o a un nemico disperato che lotta per la sua vita. Devo perciò rifarla,
questa parte? Esito a prenderne la decisione, ed essa rimarrà com'è. A
prescindere dalla gran fatica di cui mi graverei, sarebbe la cosa più
pericolosa che si possa immaginare, quando iniziai la tana ci potevo lavorare
relativamente in pace, il rischio non era molto maggiore di quanto lo sia di
solito, ma oggi significherebbe quasi voler segnalare temerariamente al
mondo tutta quanta la tana, oggi non è più possibile. Non nego d'avere un
certo debole per quest'opera prima, quasi mi piace. E se dovesse arrivare un
serio assalto, quale abbozzo d'entrata potrebbe salvarmi? L'entrata può
confondere l'assalitore, deviarlo, tormentarlo, lo fa per necessità, ma a un
assalto davvero grave io devo far fronte subito con tutti i mezzi dell'intera
tana, con tutte le forze fisiche e psichiche – è evidente. Se l'entrata resta
com'è, la tana ha tanti punti deboli imposti dalla natura che può serbare pure
questo difetto procuratole dalle mie mani e, per quanto solo accessorio,
tuttavia ben noto. Con tutto ciò, ovvio, non è detto che questa pecca di tanto
in tanto, e forse sempre, non mi dia pensiero. Se nel corso del mio solito
girovagare evito questa parte della tana ciò avviene soprattutto perché la sua
vista mi è sgradevole, perché non sempre ho voglia di appurare se di tal
pecca ho una consapevolezza eccessiva. Resti, il difetto, lassù dov'è
l'accesso, inestirpabile, ma finché posso schivarlo a me piace restar
dispensato dalla sua vista. Basta che vada nella direzione dell'uscita, anche
solo in spiazzi e gallerie da essa distanti, e già ritengo di entrare
nell'atmosfera d'un grave pericolo, talvolta è come se la mia pelle si
assottigliasse, è come se da un momento all'altro potessi starmene lì con la
nuda fredda carne e venissi accolto dall'ululato dei miei nemici. Certo tali
sensazioni insane le crea l'uscire stesso, di per sé, il terminare della
protezione domestica, però è la struttura di questo accesso che in particolare
mi tormenta. Talvolta sogno di averlo rifatto completamente diverso, alla
svelta, con forze poderose, in una notte, notato da nessuno, e che ora sia
inespugnabile, il sonno in cui ciò mi accade è il più dolce di tutti, quando mi
sveglio lacrime di gioia e di liberazione brillano ancora nel pelame della mia
barba.
Devo dunque superare anche fisicamente la pena di questo labirinto, quando
esco, ed è insieme toccante e irritante se per un momento mi perdo nel luogo
che io ho creato, e l'opera sembra sforzarsi di dimostrare a me, di cui il
verdetto già da tempo è stabile, il suo diritto di esistere. Poi però mi trovo
sotto la crosta di muschio, a cui capita che io lasci il tempo – finché non mi
sposto da casa – di crescere insieme al restante suolo boschivo, e basta un
colpo del capo per trovarmi nell'ignoto. Non oso allungare la durata di tale
piccolo movimento, se non avessi avuto poi da superare un'altra volta il
labirinto d'accesso, certo oggi me ne sarei astenuto, da tale movimento, e
sarei tornato indietro. Ma come? La tua casa è protetta, chiusa, vivi in pace, al
caldo, ben nutrito, padrone unico d'una quantità di gallerie e spiazzi, e tutto
ciò lo vuoi si spera non sacrificare, diciamo rinunciarci, hai la certezza cioè di
recuperarlo? Ti infili in un gioco la cui posta è alta, troppo alta. Ce ne sono
buoni motivi? No, per qualcosa di simile buoni motivi non ce ne sono affatto.
Poi però sollevo le botole e sono fuori, le lascio ricadere con cautela e me la
filo a tutta velocità da questo luogo, che mi rivela.
Però non mi trovo proprio sotto il cielo, certo non sto spingendomi più
attraverso le gallerie, scorrazzo nel bosco illimitato, mi sento nuove forze per
le quali nella tana in certo qual modo non c'è spazio, nemmeno nella piazza
principale, foss'anche dieci volte più grande, anche il cibo all'esterno è
migliore, la caccia certo è più ardua, la sua riuscita più rara, ma da ogni punto
di vista la preda è molto più apprezzabile, non lo nego, intendo usarla e
mangiarla, come minimo è buona come ogni altra, ma è probabile che sia
molto migliore, infatti non caccio come un vagabondo, alla leggera o alla
disperata, ma con calma e criterio. Inoltre non sono destinato e restituito alla
libertà, so che il mio tempo è limitato, che sono costretto a scorrazzare qui a
termine, e che, invece, mi chiamerà a sé qualcuno al cui invito non potrò
oppormi, diciamo, quando mi pare e quando ne avrò abbastanza di questa
vita qui. E posso così assaporare completamente questo tempo e trascorrerlo
senza preoccupazioni, anzi potrei; eppure non posso. La tana mi dà troppo
daffare. Svelto sono corso via dall'entrata, ma presto torno indietro. Mi cerco
un buon nascondiglio e sto a spiare l'entrata di casa mia – stavolta
dall'esterno – notte e giorno. Si può definire una sciocchezza, ma mi dà
un'indicibile gioia, anzi di più, mi pacifica. E' come se non stessi davanti a
casa mia, ma davanti a me stesso mentre dormo, e avessi la fortuna di
dormire profondamente e insieme di poter essere ben sveglio. Per così dire
sono un asso nel vedere i fantasmi notturni, non solo nello stato di
abbandono e di cieca fede che caratterizzano il sonno, ma anche
nell'incontrarli con tranquilla capacità di giudizio nella realtà e con l'energia
piena della veglia. E scopro che stranamente quando scendo in casa mia non
sono dispiaciuto come credevo spesso e forse ancora crederò. Da questo
punto di vista – anche da altri, ma specialmente da questo – queste uscite
sono davvero indispensabili. Certo, ho scelto con tanta cura l'entrata sita in
disparte – il progetto del resto mi poneva alcuni limiti in merito – tuttavia il
traffico che c'è lì, se si raccolgono osservazioni all'incirca di una settimana, è
assai grande, ma forse è così in genere in ogni luogo abitabile e
probabilmente è perfino meglio esporsi a un traffico maggiore il quale,
conseguentemente alla sua grandezza, vine trascinato da sé stesso, che non,
totalmente da soli, essere in potere del primo intruso intento a un'ottima,
lenta ricerca. Ci sono molti nemici, qui, ed anche più numerosi complici dei
nemici, tuttavia essi si combattono anche tra loro e, in ciò affaccendati,
scorrazzano davanti alla tana. A curiosare proprio all'entrata mai ci ho visto
nessuno, fortuna mia e sua, infatti mi sarei scagliato di certo istintivamente
alla sua gola, preoccupato per la tana. Ovvio, è capitata anche della
marmaglia vicino alla quale non ho osato restare e al cui cospetto, quando
anche da lontano ne avevo il sentore, sono stato costretto a fuggire; sulla
condotta di tal marmaglia nei confonti della tana non posso esprimermi con
effettiva sicurezza, però ad acquietarmi basta il fatto che presto ritornavo e,
l'entrata essendo inviolata, non trovavo più nessuno. Vi furono tempi felici
durante i quali quasi mi dicevo che l'ostilità del mondo contro di me forse era
terminata o s'era placata, o che la potenza della tana mi aveva affrancato
dalla lotta d'annientamento fin lì in corso. La tana protegge più di quanto io
abbia pensato od osi pensare al suo interno. Sono arrivato ad avere talvolta,
d'altra parte, il desiderio infantile di non tornar più dentro la tana, di
sistemarmi invece nelle vicinanze dell'entrata, di trascorrere la mia vita
osservando l'entrata e di continuare a tenerla davanti agli occhi, di trarre la
mia felicità da quanto saldamente la tana sarebbe stata capace di
rassicurarmi, stando io lì. Ora, dai sogni infantili ci si desta di soprassalto
terrorizzati. Qual mai rassicurazione è quella che qui osservo? Infatti, posso
in genere giudicare il pericolo che corro all'interno della tana dalle esperienze
che io faccio qui all'esterno? I miei nemici, in genere, hanno buon fiuto,
quando io non sto all'interno della tana. Mi fiutano certamente, ma
parzialmente. E non è solo l'interezza del fiuto il presupposto del normale
pericolo? Dunque sanno tranquillizzarmi, e mettermi nel massimo del
pericolo per mezzo della falsa tranquillità, tra la metà e la decima parte degli
esperimenti che qui io faccio. No, non vigilavo il mio sonno come credevo,
anzi sono io quello che dorme, mentre veglia colui che porta la rovina. Forse
egli è tra coloro che bighellonano fingendosi distratti davanti all'entrata,
sempre e soltanto accertandosi, non diversamente da me, che la porta sia
ancora inviolata e attenda il loro assalto, e andando oltre solo perché sanno
che il padron di casa non si trova dentro, o perché al limite sanno che fa
l'innocente lì vicino, tra i cespugli. Se lascio il mio posto di osservazione e
sazio della vita sono allo scoperto, per me è come se non potessi più
apprendere nulla, qui, né ora né più tardi. Ho voglia di staccarmi da tutto
quello che c'è qui, di scendere dentro la tana e non tornare indietro mai più,
di lasciar le cose al loro corso e di non frenarle con osservazioni inutili.
Viziato però dal fatto che finora ho visto tutto quel che accadeva all'entrata,
ora mi tormenta eseguire la procedura, in sé scandalosa, della discesa in
casa senza sapere quel che accadrà qui attorno, dappertutto, alle mie spalle,
e quindi dietro la botola rimessa al suo posto. Intanto provo, nelle notti di
agitazione, a cacciar dentro la preda, ciò pare riuscire, ma se davvero ce l'hp
fatta si mostrerà solo quando sono sceso, si mostrerà, ma non più a me, o
anche a me, ma troppo tardi. Mi esimo dunque dallo scendere. Scavo, com'è
naturale quanto basta lontano dalla vera entrata, una fossa sperimentale non
più lunga di me e occlusa inoltre da uno strato di muschio. Striscio nella
fossa, la copro dietro di me e ansioso aspetto, ponderatamente più o meno a
lungo e in diverse ore del giorno, poi levo il muschio, esco dalla fossa e
registro le mie osservazioni. Faccio svariate esperienze, più o meno bene, ma
non trovo una legge generale o un metodo infallibile di discesa. Per cui sono
lieto di non essere sceso nella vera entrata, e disperato di doverlo tuttavia
fare presto. Non sono del tutto lontano dal decidere di andare lontano, di
riprendere la vecchia vita desolata che non aveva alcuna sicurezza, che era
indistinguibilmente un solo insieme colmo di pericoli, per cui non permetteva
di veder tanto bene, e di temere, il pericolo singolo, come invece seguita a
insegnarmi la comparazione tra la mia sicura tana e l'altra vita. Lo so, una
decisione simile sarebbe una totale pazzia provocata solo dalla vita troppo a
lungo insensatamente libera, la tana mi appartiene ancora, ho un solo passo
da fare e sono al sicuro. Mi libero da ogni dubbio e corro di filato, è pieno
giorno, sulla botola con assoluta certezza allo scopo di sollevarla, ma non mi
riesce, l'oltrepasso e intenzionalmente mi butto in un roveto per punirmi,
punirmi di una colpa che ignoro. Perché in fondo mi devo dire che in fondo
ho ragione e che davvero è impossibile scendere senza apertamente
rinunciare almeno per un poco a ciò che di più caro ho tutt'intorno, al suolo,
agli alberi, all'aria. E il pericolo non è affatto immaginario, ma assai reale. Non
dev'essere a un nemico reale che io suscito la voglia di seguirmi, deve
trattarsi davvero d'un qualche casuale innocentino, d'un qualche esserino
ripugnante che per curiosità mi viene dietro e che perciò senza saperlo si
trasforma nel condottiero del mondo contro di me, forse no, magari è – e non
è cosa poco peggiore dell'altra, da molti punti di vista è la peggiore che ci sia
– magari è qualcuno del mio genere, un conoscitore di tesori e di prede, un
fratello boschivo, un amante della pace, uno straccione dissoluto però, che
vuol abitare senza costruire. Se tuttavia venisse ora, se scoprisse con la sua
porca ingordigia l'entrata, se iniziasse a darsi da fare per sollevare il
muschio, se gli riuscisse di sparire dentro alla svelta e già fosse sparito così
tanto che appunto ne spuntasse per un momento solo il didietro, se
accadesse tutto ciò alla fine potrei furente saltargli senza scrupoli addosso,
azzannarlo, sbranarlo, dilaniarlo e dissanguarlo, così il suo cadavere
potrebbe trovarsi ficcato tra le altre prede, ma prima di tutto, e ciò sarebbe la
cosa principale, sarei di nuovo dentro la mia tana, stavolta ben disposto ad
apprezzare il labirinto, prima però tirerei su di me lo strato di muschio e vorrei
riposare, credo, per tutto il resto della mia vita. Tuttavia non viene nessuno e
io resto abbandonato a me stesso in solitudine. Indaffarato di continuo
soltanto con la difficoltà dell'intera faccenda perdo molta della mia angoscia,
inoltre non evito più l'entrata, in apparenza, circolarci attorno di striscio
diventa la mia occupazione preferita, è quasi come se io fossi il nemico e
spiassi in vista dell'occasione favorevole per irrompere con successo. Se
avessi invece qualcuno di cui potessi fidarmi, che potessi mettere al mio
posto d'osservazione, allora potrei scendere. Mi potrei accordare con colui
del quale mi fidassi, che osservasse la situazione per bene e a lungo, dopo la
mia discesa, che nel caso di segni di pericolo desse un colpo allo strato di
muschio, altrimenti no. Col che al di sopra di me sarebbe fatta in pieno piazza
pulita, senza residui, massimamente in riferimento al mio fiduciario, dato che
non richiederà una contropartita, almeno non vorrà visitare la tana, già il fatto
di permettere ciò a qualcuno di mia volontà mi sarebbe oltremodo penoso,
non l'ho costruita per i visitatori, ma per me, non lo farei entrare; anche se mi
rendesse possibile entrare nella tana, non ce lo farei entrare. Ma nemmeno
potrei, dato che dovrei lasciarlo scendere da solo, cosa inimmaginabile, o
dovremmo scendere insieme, con il che poi il vantaggio che lui mi deve
recare, di stare in osservazione alle mie spalle, andrebbe perduto. E della
fiducia, poi, che ne sarebbe? Posso ancora fidarmi di colui del quale mi fido
guardandoci noi nelle pupille, se non lo vedo e se lo strato di muschio ci
separa? Relativamente facile fidarsi di qualcuno se allo stesso tempo lo si
sorveglia o almeno si può sorvegliarlo, forse è possibile perfino fidarsi di
qualcuno a distanza, ma da dentro la tana, cioè da un altro mondo, fidarsi in
pieno di qualcuno che è all'esterno, io credo, è impossibile. Tali dubbi non
sono però neppure necessari, è già sufficiente riflettere, anzi, sul fatto che
durante o dopo la mia discesa tutti gli innumerevoli casi della vita posso
impedire al fiduciario di fare il suo dovere, e che razza di incalcolabili
conseguenze può avere per me il di lui minimo impedimento! No, tutto
considerato non devo nemmeno deprecare il fatto di essere solo e di non
aver nessuno di cui possa fidarmi. Con il che certo non perdo alcun
vantaggio e mi risparmio probabilmente guai. Posso invece fidarmi solo di
me e della tana. Avrei dovuto pensarci prima e avrei dovuto provvedere al
caso che ora tanto mi tiene occupato. Sarebbe stato almeno in parte
possibile, all'inizio della tana. Avrei dovuto ideare la prima galleria in modo
che avesse due entrate a debita distanza l'una dall'altra, in modo che per
mezzo dell'una sarei sceso con ogni inevitabile meticolosità, avrei trascorso
veloce l'inizio della galleria fino alla seconda entrata, ivi avrei un poco
sollevato lo strato di muschio, che avrebbe dovuto essere allestito in
conformità con tale scopo, e da lì in certi giorni e in certe notti avrei cercato
di abbracciare con lo sguardo la situazione. Solo così sarebbe stato giusto,
certo due entrate raddoppiano il pericolo, ma stavolta questo pensiero
avrebbe dovuto tacere, tanto più che l'entrata pensata solo come posto di
osservazione, avrebbe potuto essere strettissima. E per perdermi in
riflessioni tecniche inizio a sognare ancora una volta il mio sogno d'una tana
del tutto completa, cosa che un poco mi placa, incantato vedo con gli occhi
chiusi, più o meno chiare, possibili costruzioni, allo scopo di poter scivolare
senza esser visto dentro e fuori. Se sto disteso così e ci penso, valuto assai
queste possibilità, ma solo in quanto conquiste tecniche, non come vantaggi
autentici, dato che questo libero scivolare dentro e fuori che cos'è? Indica
inquietudine mentale, incerta valutazione di sé, desideri loschi, carattere
cattivo, che ancor peggiori divengono considerando la tana, che c'è e può
colmare di pace, se ci si apre completamente ad essa. Orbene, ovviamente
adesso ne sono all'esterno e cerco una possibilità di rientro, per cui i
necessari dispositivi tecnici sarebbero molto desiderati, ma forse nemmeno
così tanto. Non vuol dire sottovalutare molto la tana, in momentanea crisi di
ansia nervosa, se la si guarda solo come una caverna in cui si intenda
strisciare con la maggior sicurezza possibile? Certo essa è anche una tal
sicura caverna, o dovrebbe esserlo, e, se mi figuro di essere in pieno
pericolo, allora desidero, stringendo i denti e con tutta la forza della volontà,
che la tana non sia altro che il buco destinato a salvarmi la vita, e che svolga
tal chiaro compito con la massima completezza possibile, e sono pronto a
esonerarla da ogni altro compito. Ora, si dà però il caso che in realtà essa dia
certo molta sicurezza – cui, se grande è l'emergenza, non si guarda, mentre
anche nei tempi privi di pericoli si deve guardarci – ma non abbastanza, dato
che le preoccupazioni al suo interno non finiscono mai del tutto, ve n'è altre,
più importanti, più significative, spesso preoccupazioni respinte, tuttavia il
loro effetto distruttivo è forse lo stesso di quelle preoccupazioni che procura
la vita all'esterno. Se avessi inteso la tana solo come protezione della vita,
certo non sarei stato deluso, ma il rapporto tra l'enorme fatica e la reale
protezione, almeno fin dove sono in grado di sperimentarla e posso
approfittarne, non sarebbe per me vantaggioso. Ammetterlo è molto
doloroso, ma necessario, proprio in considerazione dell'entrata che lì ora si
chiude davanti a me che sono il costruttore e il proprietario, anzi in effetti si
blocca. Tuttavia la tana non è solo un buco di salvataggio! Quando mi trovo
nella piazza principale circondato dalle provviste accumulate di carne, la
faccia voltata verso le dieci gallerie che si diramano da qui, ognuna
particolarmente bassa o alta in relazione al progetto, ognuna stretta o larga,
ognuna allargantesi o restringentesi, e tutte ugualmente silenziose, vuote e
pronte, ciascuna a suo modo, a condurmi ai molti spiazzi anch'essi vuoti e
silenziosi – allora il pensiero della sicurezza è lontano da me, allora so bene
che questa è la roccaforte che mi sono guadagnato a forza di raspare e
mordere, pestare e colpire il suolo riottoso, la roccaforte che in nessun modo
può appartenere a qualcun altro e che è talmente mia che qui, alla fin fine,
posso con calma accettare dal mio nemico anche la ferita mortale dato che il
mio sangue si disperde nel mio suolo e non va perduto. E che cos'altro è poi,
se non questo, il senso delle belle ore che ho l'abitudine di trascorrere nelle
gallerie, un poco dormendo soddisfatto, un poco vegliando lieto, in queste
gallerie che sono del tutto correttamente commisurate a me, per stirarmi
bene, caracollare come un infante, giacere sognando, beatamente
addormentarmi? E i piccoli spiazzi, ognuno a me ben noto, ognuno,
nonostante che siano perfettamente uguali, chiaramente distinguibile a occhi
chiusi già dall'inclinazione delle pareti, loro mi abbracciano pacifici e caldi
come nessun nido abbraccia alcun uccello. E tutto, tutto è vuoto e silenzio.
Ma se è così perché allora esito, perché temo più l'intruso che non la
possibilità di mai rivedere, forse, la mia tana? Ora, quest'ultima cosa per
fortuna è impossibile, nemmeno mi servirebbe, riflettendo, render chiaro che
cosa voglia dire per me la tana, io e lei ci apparteniamo tanto che mi ci potrei
stabilire tranquillo, tranquillo con tutta la mia ansia, nemmeno dovrei cercare
di vincermi allo scopo di aprire l'entrata a dispetto di tutte le riflessioni,
basterebbe senza dubbio che io aspettassi senza far nulla, dato che nulla può
alla lunga separarci e comunque, infine, è certissimo che io scenda. Però è
ovvio che può passarne di tempo fino a quel momento e di cose ne possono
succedere, intanto, quassù come là sotto. Eppure sta a me soltanto
accorciare questo periodo di tempo e far subito il necessario.
E dunque, incapace di pensare per la stanchezza, con la testa che ciondola, le
gambe incerte, mezzo dormendo, più saggiando la terra che camminando, mi
avvicino all'entrata, sollevo lentamente il muschio, lentamente scendo, per
distrazione lascio scoperta troppo a lungo l'entrata, allora mi ricordo della
trascuratezza e risalgo per rimediarci, ma perché poi salire? Basta che serri
lo strato di muschio, bene, così risalgo e finalmente lo serro. Solo nello stato
in cui mi trovo, unicamente in tale stato posso fare questa cosa. Poi giaccio,
sotto il muschio, sopra le prede ammassate dentro, avvolto da sangue e
umori carnosi, e potrei cominciare a dormire il desiderato sonno. Niente
m'infastidisce, nessuno m'ha seguito, sopra il muschio pare almeno per ora
che vi sia calma, e anche se non vi fosse, credo, non potrei ora attenermi alle
mie osservazioni, ho cambiato posto, dal mondo di sopra sono venuto nella
mia tana, e subito ne sento l'effetto. Si tratta di un mondo nuovo che dà
nuove forze e ciò che sopra è stanchezza, qui non vale lo stesso. Ho fatto
ritorno da un viaggio, follemente stanco per gli strapazzi, ma rivedere la
vecchia abitazione, il lavoro di allestimento che mi aspetta, la necessità di
ispezionarne almeno di sfuggita ogni spazio, ma prima di tutto di dirigermi
alla svelta nella piazza principale , tutto ciò trasforma la mia stanchezza in
irrequietezza e fretta, è come se nel momento della mia entrata nella tana
avessi fatto un sonno lungo e profondo. Il primo lavoro è molto faticoso e
richiede tutta la mia attenzione: devo in altre parole portare le prede
attraverso le strette gallerie del labirinto, che hanno pareti sottili. Spingo in
avanti con tutte le forze, eppure troppo piano per me; per far prima tiro
indietro una parte della massa carnosa e mi ci premo al di sopra e attraverso,
e ne ho davanti solo una parte, ora è più facile spingerla, ma sono a tal punto
dentro il carnaio, nell'angustia delle gallerie attraverso cui, per quanto da
solo, non sempre mi è facile passare, che potrei soffocarci benissimo, nelle
mie provviste, a tratti riesco a proteggermi dal loro accalcarsi soltanto se ne
mangio e ne succhio. Tuttavia il trasporto riesce, lo termino in non troppo
tempo, il labirinto è superato, col fiatone mi trovo in una galleria diritta,
premo le prede attraverso una galleria di collegamento in una galleria
principale, specialmente prevista per casi simili, che con forte pendenza
scende nella piazza principale. Quindi non c'è più da faticare, il tutto rotola e
scorre giù quasi da sé. Finalmente nella mia piazza! Finalmente potrò stare in
pace. Tutto è immutato, nessun grande guaio sembra essere accaduto, i primi
danni che noto al primo sguardo presto saranno riparati. Ancora c'è solo il
giro completo delle gallerie, ma non si tratta d'una fatica, è una chiacchierata
con amici come la facevo ai vecchi tempi o come – non sono ancora tanto
vecchio, ma la memoria di molte cose si confonde già tutta – la facevo, o
meglio, sapevo che di solito si faceva. Ora inizio piano a bella posta con la
seconda galleria, dopo che ho visto la piazza, ho tempo illimitato, ne ho
sempre all'interno della tana, dato che tutto ciò che ci faccio è buono,
importante e in un certo modo mi appaga. Inizio con la seconda galleria,
interrompo a metà il controllo passando alla terza, dalla quale mi lascio
ricondurre verso la piazza principale, ora però di nuovo devo ritornare nella
seconda, così moltiplico il lavoro, ci gioco e rido di me soddisfatto, confuso
dalla quantità di lavoro, ma non smetto. E' per causa vostra, gallerie e spiazzi,
e per te, piazza principale, che sei la prima tra tutti, che son tornato, non ho
tenuto in alcun conto la mia vita, dal momento che ho a lungo avuto la
imbecillità di tremare per causa sua e di rimandare il ritorno da voi. Che
m'importa, ora che sono presso di voi, del pericolo? Voi appartenete a me, io
a voi, siamo legati, ci succeda quel che vuol succedere. Magari di sopra la
marmaglia già preme e il muso che traforerà il muschio è pronto. E con la sua
mutezza, con il suo vuoto, la tana ora mi dà il benvenuto e rafforza quanto
dico.
Ora, però, mi coglie una certa pigrizia e mi acciambello un po' in uno spiazzo
che è tra i miei favoriti, ancora non ho ispezionato tutto, cioè, lo voglio fare
fino in fondo, non intendo dormire, è solo che cedo alla seduzione di
mettermi qui come se volessi dormire, voglio controllare se riesce sempre
bene come una volta. Riesce, ma non a me di levarmi di qui, dove resto
profondamente addormentato. Ho dormito davvero molto a lungo, vengo
svegliato solo dall'ultimo sonno che si scioglie già da sé, dev'essere già
molto leggero, dato che a svegliarmi è un sibilo appena udibile. Subito
capisco, quelle irrilevanti creaturine troppo poco controllate da me, da me
troppo risparmiate, durante la mia assenza da qualche parte hanno aperto
una nuova via che è incappata in una vecchia, l'aria vi s'ingolfa e produce il
sibilo. Che razza di gente incredibilmente fattiva, sono, e che assiduità
fastidiosa hanno. Dovrò, stando bene ad ascoltare, con scavi di prova, alle
pareti della mia galleria, stabilire dov'è il disturbo e solo allora eliminare il
rumore. D'altra parte il nuovo scavo, se conforme in qualche modo alle
dimensioni della tana, può esser da me ben accolto come nuovo condotto
dell'aria. Ma delle piccole creature devo tenere conto molto più che finora,
nessuna può venir risparmiata.
Avendoci grande esercizio, in simili indagini, la cosa non durerà davvero a
lungo e perciò posso iniziare subito, certo altri lavori ci sono da fare, ma
questo è il più urgente, nelle mie gallerie dev'esserci silenzio. Questo rumore
d'altra parte è relativamente ininfluente, al mio arrivo l'ho appena sentito,
nonostante che fosse certo già presente, ho dovuto ritornare del tutto a esser
di casa per udirlo, per così dire è udibile solo dall'orecchio del padrone di
casa che ne svolga l'ufficio. Non è nemmeno stabile come altrimenti usano
essere rumori simili, ha grandi pause, evidentemente è subordinato al
ristagno della corrente d'aria. Comincio a cercare, ma non mi riesce di trovare
il posto dove si dovrebbe intervenire, cioè faccio degli scavi, ma solo a caso,
com'è naturale così non si approda a nulla, il gran lavoro di scavo e quello
ancor più grosso, di riempimento e di livellamento, sono inutili. Neppure mi ci
avvicino, al punto del rumore, che suona sempre immutato e debole, a pause
regolari, una volta come sibilo, una volta più come fischio. Ora, potrei anche
per il momento lasciarlo stare, certo è assai fastidioso, ma può appena
esserci dubbio in merito all'origine del rumore che ho supposto, così si
rafforzerà appena, al contrario, può anche accadere – finora del resto mai ho
indugiato tanto a lungo – che nel corso del tempo tali rumori spariscano da
soli con l'ulteriore lavoro dei piccoli trapanatori, a prescindere dal fatto che
spesso un caso facilmente porta sulla traccia del disturbo, mentre i tentativi
sistematici possono fallire. In tal modo mi consolo, preferivo assai di più
vagare per le gallerie e visitare gli spiazzi, dei quali molti ancora non ho
nemmeno rivisto, e nel frattempo scorrazzare ogni volta un po' nella piazza
principale, ma non ci riesco, devo continuare i tentativi. Molto, molto tempo
che potrebbe essere adoperato meglio, mi costa il popolo delle piccole
creature. In occasioni del genere è normale la difficoltà tecnica, che mi
seduce, con la massima precisione di cui prender nota m'immagino per
esempio il motivo del rumore che il mio orecchio è addestrato a distinguere
in ogni sua sfumatura, e mi spinge a controllare se ciò che immagino sia
conforme alla realtà. E a ragione, infatti fin quando non ha avuto luogo una
verifica non posso sentirmi sicuro, neanche se si trattasse di sapere solo
dove cadrà un granello di sabbia che rotola giù da una parete, di un rumore
del genere, che in questa prospettiva non è affatto una questione
insignificante. Tuttavia, insignificante o no, per quanto cerchi non trovo nulla
o meglio trovo troppo. Proprio nel mio spiazzo preferito doveva succedere,
penso, e me ne allontano fin quasi alla metà del percorso verso il prossimo
spiazzo, è tutto uno scherzo davvero, è come se volessi dimostrare che non è
stato diciamo il mio spiazzo favorito soltanto a darmi questo fastidio, ma che
ve ne sono anche altrove, di fastidi, e sorridendo inizio a stare in ascolto, ma
smetto presto, dato che davvero anche qui c'è lo stesso sibilo, ma esso è
nulla, penso a tratti, nessuno all'infuori di me lo sentirebbe, lo sento ora, è
ovvio, sempre più distintamente per via di orecchie acuite dall'esercizio, ciò
nonostante in realtà si tratta assolutamente dello stesso rumore, come
paragonandoli posso convincermi. Non si rafforza, riconosco, se sto a sentire
nel mezzo della galleria senza ascoltare direttamente alla parete. Soprattutto,
solo sforzandomi, anzi abbassandomi qua e là, riesco più a indovinare l'alito
d'un suono, che udirlo. E' però proprio questa equivalenza presente in ogni
posto a disturbarmi di più, dato che non si accorda con il mio assunto
iniziale. Se avessi indovinato bene il motivo del rumore, se con gran forza
fosse provenuto da un posto preciso e trovabile, allora sarebbe dovuto
diventare sempre più piccolo. Se però la mia spiegazione era sbagliata,
cos'era altrimenti? Restava la possibilità che vi fossero due centri di rumore,
che finora io avessi ascoltato a distanza dai due centri e che, se mi fossi
avvicinato a uno di loro, certo il suo rumore sarebbe aumentato, ma, come
conseguenza della diminuzione del rumore proveniente dall'altro centro, per
le orecchie il totale sarebbe rimasto più o meno lo stesso. Quasi credevo già,
stando bene all'ascolto, di riconoscere differenze di suono compatibili con il
nuovo assunto, per quanto in modo molto poco chiaro. In ogni caso dovevo
estendere il terreno della ricerca molto oltre rispetto a quanto avevo fatto fin
lì. Scendo perciò fino alla piazza principale e cominciò a stare lì in ascolto.
Strano, anche qui lo stesso rumore. Ora, è un rumore prodotto dallo scavare
di chissà quali animali da nulla che hanno bassamente sfruttato il tempo della
mia assenza, in ogni caso lungi da loro una qualsiasi intenzione a me
contraria, si occupano solo dell'opera loro e finché non si pone loro un
impedimento sulla via non cambiano la direzione presa una volta, questo lo
so, ciò nonostante mi è incomprensibile, molto eccitandomi e confondendomi
l'intelligenza che serve allo scopo, che abbiano osato arrivare fino alla piazza
principale. Non intendo distinguere, a tal merito, che sia stata la profondità
pur sempre degna di nota a cui si trova la piazza principale, o la sua grande
estensione e le connesse forti correnti d'aria, a distogliere gli scavatori, o
semplicemente il fatto che la piazza principale a causa di chissà quali
informazioni è penetrata fino alle loro ottuse testoline, la solennità del luogo,
comunque sia scavi nelle pareti della piazza principale non ne ho visti, finora.
Certo a frotte sono venuti qui animali attirati dalle forti esalazioni, avevo qui
la mia miglior cacciagione, erano penetrati da qualche parte in alto, nelle mie
gallerie, e certo in stato di soffocamento, ma, attirati con forza, le hanno
discese. Orbene, hanno trapanato dunque anche le pareti. Avessi almeno
portato a termine i progetti fondamentali di quand'ero giovane e poi adulto o,
anzi, avessi avuto la forza di portarli a termine! Difatti non me ne mancò la
volontà. Uno di questi progetti preferiti era stato quello di liberare la piazza
principale dalla terra che la circonda, voglio dire, di lasciare le sue pareti
spesse all'incirca quanto io sono lungo, in più tuttavia di procurare
tutt'attorno ad essa, fino a un piccolo muro di fondazione purtroppo non
liberabile dalla terra, uno spazio vuoto proporzionato alla parete. In tale cavità
avevo sempre immaginato, non a torto, il più bel luogo di soggiorno che
potesse esserci per me. Restarci attaccato, a questo spazio a volta, tirarcisi
su, scivolare in basso, capovolgersi e di nuovo avere la terra sotto i piedi e, in
effetti, far tutti questi giochi sul corpo della piazza principale e però non nel
suo spazio effettivo; poter scansare la piazza principale, poter distogliere in
pace gli occhi da lei, spostare la gioia di vederla a un'ora più tarda e però non
doverne sentire la mancanza, ma invece tenerla stretta tra gli artigli, è
qualcosa d'impossibile, se vi si ha solo un ingresso normalmente aperto;
prima di tutto però poterla sorvegliare, venir dunque risarciti della privazione
della sua vista al punto che certamente, dovendo scegliere tra stabilirsi nella
piazza o nella cavità, si sceglierebbe di entrare e uscire dalla cavità per tutta
la durata della propria vita e di proteggere la piazza principale. Senza nessun
rumore nelle pareti, allora, né alcun sfacciato scavo fino alla piazza, la pace vi
sarebbe garantita e io ne sarei il custode, non dovrei auscultare gli scavi del
popolo delle piccole creature con ripugnanza, ma con diletto ausculterei
qualcosa che ora mi manca in pieno: il rombo del silenzio nella piazza
principale. Bella cosa, ma purtroppo insussistente, devo rimettermi al lavoro
quasi felice che esso sia in diretto rapporto con la piazza principale, dato che
ciò mi mette le ali. Ovviamente, come sempre di più emerge, necessito di
tutte le mie forze per questo lavoro che prima sembrava insignificante. Sto
all'ascolto ora delle pareti della piazza principale e ovunque odo, in alto e in
basso, alle pareti o al suolo, alle entrate o all'interno, dappertutto,
dappertutto, lo stesso rumore. E quanto tempo, quanto impegno, richiede
questo lungo stare a intervalli in ascolto del rumore. Volendo si può trovare
una piccola consolazione, ingannevole, nel fatto che qui nella piazza
principale, allontanando l'orecchio dal suolo, a causa della grandezza del
posto non si sente alcunché, a differenza che nelle gallerie. Faccio queste
prove spesso solo per acquistare calma ed equilibrio mentale, sto in ascolto
sforzandomi, e sono contento di non sentire nulla. Del resto, che cosa è
successo? Davanti a quest'apparenza le mie prime spiegazioni falliscono in
pieno. Devo però respingere anche altre spiegazioni che si offrono. Si
potrebbe pensare che ciò che sento sia proprio il piccolo popolo al lavoro.
Ciò contraddirebbe però ogni esperienza; quel che non ho mai sentito ciò
nonostante era sempre presente, e però posso all'improvviso cominciare a
non sentirlo. Forse all'interno della tana la mia sensibilità ai disturbi è
cresciuta, con gli anni, ma l'udito in nessun modo è divenuto più fino. E'
proprio della natura del piccolo popolo che non lo si senta, infatti altrimenti
mai l'avrei tollerato; a rischio di morir di fame, l'avrei sterminato. Forse però
s'introduce in me quest'altro pensiero, che qui si tratti d'una bestia che
ancora non conosco. Sarebbe possibile, certo già da molto osservo con cura
sufficiente la vita qua sotto, ma il mondo è molteplice e mai manca di brutte
sorprese. Tuttavia certo non si tratterebbe d'un unica bestia, dovrebbe
trattarsi d'un grosso branco sceso nel mio territorio, un grosso branco di
piccoli animali che cioè, essendo in particolare udibili, sono superiori al
piccolo popolo, ma solo di poco, dato che il rumore del loro lavoro in sé è
solo minimo. Potrebbero dunque essere animali sconosciuti, un branco in
movimento, solo in transito, che mi disturba, ma il cui corteo presto finirà.
Così in effetti potrei aspettare e non dovrei in definitiva fare alcun lavoro
inutile. Ma, se pure sono animali ignoti, perché non riesco a vederli? Ora, ho
fatto molti scavi per acchiapparne uno, ma non ne trovo. Mi viene da pensare
che siano forse animali piccolissimi, molto più piccoli di quelli che conosco,
e che soltanto il rumore che fanno sia più grande. Esamino perciò la terra
scavata fuori, ne scaglio i grumi in alto acciocché si sbriciolino in particelle
minime, ma dentro non ci sono gli autori del chiasso. Lentamente comprendo
che non riesco a ottenere niente con tali piccoli scavi fatti a caso, perciò mi
limito a rovistare le pareti della mia tana, in fretta raschio qua e là, non ho
tempo alcuno di riempire i buchi, in molti punti già vi sono mucchi di terra
che bloccano la via e la vista, ovvio che tutto ciò mi disturbi, tra parentesi,
ora non posso né camminare né guardarmi intorno né riposarmi, già più di
una volta mi sono addormentato per un po' in qualche buco mentre lavoravo,
una zampa afferrata con gli artigli su nella terra da cui volevo strappare un
pezzo durante l'ultimo dormiveglia. E allora cambierò il mio metodo,
realizzerò, in direzione del rumore, una gran buca diritta e non smetterò di
scavare prima di trovare, a prescindere di tutte le teorie, la vera causa del
rumore. Poi la rimuoverò, se ce la faccio, e sennò almeno avrò della certezza.
Che non mi apporterà né pace né disperazione, però, sia questa o quella, sarà
indubbia e fondata. Questa decisione mi giova, tutto quel che ho fatto finora
mi appare sconsiderato, nell'eccitazione del ritorno, ancora preso dalle cure
del mondo di sopra, ancora non accolto del tutto nella pace della tana, reso
ipersensibile dal fatto che avevo dovuto farne a meno tanto a lungo, mi sono
lasciato privare di ogni riflessività, ammettiamolo, a causa di un'apparenza
particolare, e poi cos'è? Un leggero sibilo udibile solo a lunghi intervalli, un
niente a cui non voglio dire che ci si potrebbe abituare, no, non si potrebbe,
ma che, senza per il momento intraprendere addirittura qualcosa contr' esso,
per un poco si potrebbe tenere sotto osservazione, osservarlo, voglio dire,
ogni qualche ora starlo ad ascoltare se capita registrando pazientemente il
risultato, ma non, come ho fatto io, trascinare l'orecchio lungo le pareti e
levar via la terra quasi ogni volta che il rumore si rende udibile, non per
trovare davvero qualcosa, ma per fare qualcosa in rapporto all'inquietudine
interiore. Ora cambierà, questo, spero. E di nuovo insieme non lo spero – lo
ammetto con gli occhi chiusi, furente con me stesso – dato che l'inquietudine
vibra dentro di me ancora perfettamente come fa da ore, e se il cervello non
mi avesse trattenuto avrei iniziato a scavare in un qualche posto
probabilmente a caso, indifferentemente se c'è qualcosa di udibile o non c'è,
ottusamente, fidando solo nello scavare, già quasi somigliante, io, al piccolo
popolo, che scava o del tutto a capocchia o solo perché si ciba della terra. Il
nuovo e razionale progetto mi attira e non mi attira. Nulla da obbiettarvi
contro, almeno io non vedo alcuna obbiezione, esso deve a quanto ne so
portare alla meta. Ciò nonostante non ci credo fino in fondo, ci credo così
poco che nemmeno temo un suo possibile terrificante risultato, nemmeno ci
credo a un terrificante risultato, anzi mi pare di averci pensato, già dal primo
avvento del rumore, allo scavo, e che solo perché non ci confidavo affatto
finora non l'ho iniziato. Ciò nonostante, è naturale, inizierò lo scavo, non mi
resta altra possibilità, ma non inizierò subito, rimanderò un poco il lavoro, se
il comprendonio mi tornerà in ordine, cosa che deve accadere, in questo
lavoro non mi ci butterò. Comunque sia prima riparerò i danni che ho causato
alla tana con il mio grufolare; non ci vorrà poco tempo, ma è necessario; se il
nuovo scavo dovesse davvero portare a una meta, probabilmente diverrà
lungo, e se invece non lo dovesse, allora sarà infinito, comunque sia tale
lavoro significa una lunga assenza rispetto alla tana, non così malvagia come
quella di su, nel mondo di sopra, posso interrompere il lavoro quando mi pare
e andare in visita a casa, e anche se non lo faccio l'aria della piazza
principale aliterà su di me e durante il lavoro mi circonderà, ma ciò significa
lo stesso una lontananza dalla tana e l'esposizione a una sorte incerta, ecco
perché mi voglio lasciare dietro la tana in ordine, questo non deve significare
che io, che combatto per la sua quiete, l'ho turbata e non ristabilita subito.
Inizio infatti a riportare la terra nei buchi, un lavoro che conosco bene,
innumerevoli volte l'ho fatto quasi senza esser consapevole di lavorare,
specie il pressare e spianare definitivo – non si tratta certo di mero
autoelogio, è semplicemente la verità – sono capace di farlo in modo
insuperabile. Stavolta però mi sarà difficile, sono troppo stordito, seguito
mentre lavoro ad applicare un orecchio alla parete e ascolto, lasciando
ricadere giù la terra appena alzata. Ce la faccio a mala pena, a sostenere gli
ultimi lavori di rifinitura, che richiedono una maggiore attenzione. Restano
odiose gobbe, fastidiose crepe, per non parlare del fatto che anche il vecchio
slancio non ha voglia di riapplicarsi totalmente a una parete rabberciata a tal
punto. Cerco di convincermi che si tratti solo d'un lavoro provvisorio.
Quando ritorno, a pace ristabilita, ripristinerò tutto in modo definitivo, tutto
allora si potrà fare al volo, ma è nelle favole che tutto si fa al volo, e alle
favole appartiene anche questa consolazione. Sarebbe meglio far subito ora
il lavoro completo, molto più utile che non interromperlo sempre di nuovo,
che non andarsene per le gallerie a stabilire nuovi siti del rumore; cosa che
davvero è molto facile, dato che non richiede null'altro che di sostare in un
punto a caso e ascoltare. E faccio inoltre ulteriori inutili scoperte. A volte mi
pare che il rumore sia finito, invece fa lunghe pause, talvolta non si sente
tutto questo sibilo, è il battito del mio sangue nelle orecchie, poi si unificano
due pause e per un po' si crede che il sibilo sia finito per sempre. Non lo si
sta ad ascoltare oltre, si balza su, tutta la vita fa una giravolta, è come se si
aprisse la sorgente da cui scorre il silenzio della tana. Ci si guarda dal
verificare subito la scoperta, si cerca qualcuno di cui ci si potrebbe
indubitabilmente fidare, si galoppa perciò verso la piazza principale, ci si
rammenta, poiché ci si è svegliati interamente a nuova vita, che già da molto
non s'è mangiato, si tira fuori un qualcosa dalle provviste mezze nascoste
sotto terra e ancora lo si stringe in bocca mentre si corre di nuovo dove s'è
fatta l'incredibile scoperta, si vuole ancora una volta convincersi della cosa,
prima solo di straforo, solo di sfuggita, intanto che si mangia, si sta in
ascolto, ma la più fuggevole delle auscultazioni indica subito che ci si è
sbagliati in modo infame, il sibilo è lì indisturbato, a distanza. E si sputa il
cibo, ci piacerebbe spiaccicarlo per terra, si ritorna al lavoro, nemmeno si sa
a quale, da qualche parte dove sembra utile, di posti così ce ne sono
abbastanza, si comincia a far qualcosa meccanicamente come se fosse
venuto il sorvegliante e gli si dovesse recitare una commedia. Appena però si
è lavorato un poco in questo modo può accadere che si faccia una nuova
scoperta. Il rumore pare diventato più forte, non molto più forte naturalmente,
si tratta sempre e soltanto di sottilissime differenze, eppure un po' più forte,
distintamente udibile. Tale rafforzamento del rumore pare un suo
avvicinamento, ancor più distintamente di quanto si senta il rafforzamento se
ne vede alla lettera il passo che si avvicina. Si balza indietro dalla parete, si
cerca con uno sguardo di avere una panoramica di tutte le possibili
conseguenze di questa scoperta. Si ha la sensazione, quasi, di non aver mai
allestito la tana davvero ai fini di difesa contro un assalto, se ne aveva
l'intenzione, ma a dispetto di tutta l'esperienza di vita sembrava esser lontano
il pericolo d'un assalto e di conseguenza l'allestimento della difesa, ovvero
non lontano (come sarebbe possibile, ciò!), ma di basso livello in rapporto
agli allestimenti per una vita pacifica che dunque durante la costruzione della
tana si preferiva. Molto, che avrei potuto realizzare in quella direzione senza
turbare il progetto di base, è venuto a mancare in modo davvero incredibile.
Ho avuto molta fortuna in tutti questi anni, la fortuna mi ha viziato, ero stato
inquieto, ma l'inquietudine, internamente alla fortuna, non porta a nulla. Ora
ci sarebbe davvero da esaminare prestissimo e meticolosamente la difesa e
tutte le sue immaginabili possibilità, da stendere un progetto di difesa e un
connesso progetto della sua edificazione, e poi da iniziare subito a lavorare,
con la freschezza come d'un giovane. Fatica necessaria, detto tra parentesi è
troppo tardi naturalmente, ma necessaria, né consisterebbe affatto in un
qualche scavo esplorativo che in effetti ha solo lo scopo di mettermi, senza
difese, con tutte le mie forze alla ricerca del pericolo, buffamente timoroso
che esso sopravvenga magari con un po' in ritardo. All'improvviso non
capisco il mio vecchio progetto, non riesco, in ciò che una volta era
assennato, a trovarci nulla di intelligente, di nuovo smetto di lavorare e di
stare in ascolto, ora non voglio scoprire alcun ulteriore rafforzamento del
rumore, delle scoperte ne ho abbastanza, già mi basterebbe se placassi il
conflitto interiore. Di nuovo mi faccio portare dalle mie gallerie, pervengo in
quelle sempre più distanti e mai viste dopo che sono ritornato, ancora del
tutto non sfiorate dal raspare delle mie zampe, la cui pace si sveglia al mio
arrivo e scende su di me. Non mi ci abbandono, mi affretto, nemmeno so che
cosa cerco, è probabile che si tratti solo di procrastinazione. Vago al punto
che arrivo al labirinto, mi attira di stare ad ascoltare allo strato di muschio,
cose così remote, per il momento così remote, hanno il mio interesse. Avanzo
fino a su e sto in ascolto. Silenzio profondo, com'è bello qui, a nessuno
importa della mia tana, ognuno ha da fare cose che nulla hanno a che fare
con me, è quello che ho fatto in modo di ottenere. Qui dov'è lo strato di
muschio c'è forse l'unico posto nella mia tana dove per ore posso stare in
ascolto di niente. Un capovolgimento completo di come stanno le cose nella
tana, il luogo fin qui del pericolo è divenuto un luogo di pace, la piazza
principale invece è stata afferrata nel frastuono del mondo e dei suoi pericoli.
Anche peggio, qui pure non v'è alcuna pace, nulla è cambiato, silenzioso o
chiassoso il pericolo sta in agguato come prima, al di sopra del muschio, ma
sono divenuto insensibile ad esso, troppo sono assorbito dal sibilo nelle mie
pareti. Ne sono assorbito? Si fa più forte, si avvicina, io mi dimeno attraverso
il labirinto e mi piazzo quassù, sotto il muschio, è certo come se già
abbandonassi la casa al sibilo, soddisfatto se soltanto quassù ho un po' di
requie. Al sibilo? Ho una specie di nuova opinione sulla causa del rumore?
Esso ha origine dai canali che il piccolo popolo scava? Non è la mia precisa
opinione? Non pare che me ne sia ancora discostato. E se non deriva
direttamente dai canali, ne deriva in qualche modo indirettamente. E se
nemmeno dovesse venir da quelli, allora proprio nulla si può supporre
d'interno alla tana, come causa, e si deve aspettare fino a quando la si trovi
veramente o essa stessa si manifesti. Si potrebbe giocare alle supposizioni, è
ovvio, anche ora, per esempio si potrebbe dire che da qualche parte, lontano,
ha avuto luogo un'inondazione e che ciò che a me pare sibilo o fischio
propriamente fosse un fruscio. Tuttavia, a parte il fatto che in tale prospettiva
non ho affatto esperienza – l'acqua sotterranea che ho trovato all'inizio la ho
subito deviata e non è più tornata in questo terreno sabbioso – a parte ciò, si
tratta proprio di un sibilo che non è confondibile con un fruscio. Tuttavia a
che cosa servono tutte le esortazioni alla calma, la forza immaginativa non
vuole star calma e di fatto io penso di ritenere – è senza scopo anche soltanto
fingerselo – che il sibilo provenga da una bestia, non da molte e piccole, ma
da una sola e grossa. A ciò si oppone molto: che il rumore è udibile
dappertutto e sempre con la stessa forza, e inoltre con regolarità, di giorno e
di notte. Certo, in primo luogo era doveroso inclinare verso la supposizione
dei molti animali piccoli, allora avrei dovuto trovarli mentre scavavo, e non ho
trovato nulla, resta soltanto la supposizione dell'esistenza della bestia
grossa, resta soprattutto che quelle che sembrano contraddire la
supposizione sono cose tali da non rendere la bestia impossibile, ma soltanto
pericolosa al di sopra di ogni immaginazione. Solo per questo mi sono difeso
contro questa supposizione. Abbandono quest'illusione. Già da molto
accarezzo l'idea che anche per questo l'animale è udibile a gran distanza,
perché lavora come un matto, s'infila tanto svelto attraverso la terra come
fosse uno che passeggia con andatura libera, attorno la terra vibra nello
scavo anche quando è già finito, la vibrazione e il rumore del lavoro stesso a
gran distanza si unificano e io, che odo soltanto l'estremo spegnersi del
rumore, lo odo uguale dappertutto. Insieme mi pare che la bestia non tenda
verso di me, perciò il rumore non varia, anzi c'è un progetto il cui senso io
non comprendo, suppongo soltanto che la bestia, di cui nemmeno voglio
sostenere che sappia di me, mi giri attorno, di cerchi ne ha tracciati già alcuni
dentro la mia tana, dacché la osservo. E ora però il rumore si fa più forte e il
cerchio più stretto. Molto da pensare mi dà la natura del rumore, sibilo o
fischio. Quando a modo mio raschio e razzolo non si sente lo stesso rumore.
Il sibilo me lo posso spiegare solo così, che non siano l'attrezzatura
principale della bestia gli artigli, con cui forse si aiuta soltanto, ma che lo
siano il muso o il grugno, che del resto a prescindere dalla loro forza enorme
devono avere anche una qualche precisione. Probabilmente lei fa penetrare
con un unico potente colpo il grugno nella terra e ne strappa un gran pezzo,
durante la quale operazione io non sento nulla, è la pausa, poi però lei inspira
ancora aria per un nuovo colpo, questa inspirazione, che dev'essere un
frastuono che fa tremare la terra non solo a causa della forza della bestia, ma
anche della sua fretta, della sua passione lavorativa, tal frastuono io lo odo
come debole sibilo. Completamente incomprensibile mi rimane del resto la
sua inaudita capacità lavorativa, forse le brevi pause comprendono anche
l'occasione per un minimo riposo, ma a un vero grande riposo a quanto pare
la bestia ancora non è arrivata, scava giorno e notte sempre con la stessa
forza e freschezza, davanti ai suoi occhi c'è il progetto, da seguire con la
massima fretta, che lei ha tutte le capacità di portare a termine. Ora, non
posso stare in attesa d'un simile avversario, adesso, ma a prescindere dalle
sue peculiarità adesso si verifica soltanto qualcosa che avrei dovuto in effetti
temere sempre, qualcosa contro cui avrei dovuto adottare provvedimenti:
s'avvicina qualcuno. Ma com'è avvenuto, che per tanto tempo tutto sia scorso
tranquillo e felice? Chi guidava i nemici in modo che evitassero la mia
proprietà? Perché venni protetto tanto a lungo per ora venir terrorizzato così?
In confronto al presente pericolo cos'erano quei piccoli pericoli meditando
sui quali trascorrevo il tempo! Speravo, come proprietario della tana, di esser
superiore a chiunque venisse? Proprio come proprietario di questa opera
grandemente fragile sono beninteso inerme contro ogni serio assalto, la
fortuna di possederla mi ha viziato, la fragilità della tana mi ha reso fragile, le
violazioni a suo danno mi dolgono come fossero le mie. Ecco che cosa avrei
dovuto prevedere, non pensare solo alla mia difesa – e con quanta leggerezza
e a vuoto l'ho fatto – ma alla difesa della tana. Prima di tutto bisognava
provvedere a che le singole parti della tana, e ancor di più molte singole parti,
se assalite da qualcuno, venissero separate da quelle meno in pericolo
tramite smottamenti di terra da procurare nel tempo più breve, e cioè
potessero essere separate da tali masse di terra con tale efficacia che
l'assalitore nemmeno avesse il sentore che dietro c'è la vera tana. Questi
smottamenti di terra dovrebbero aver luogo non solo per celare la tana, di
più, per seppellire l'assalitore. Non il più piccolo ricorso a qualcosa del
genere io ho fatto, nulla, proprio nulla è avvenuto con tale scopo, son stato
dissennato come un bambino, ho trascorso la mia maturità facendo i
balocchi, anche con i pensieri circa i pericoli ho solo giocato, ai pericoli reali
veramente ho trascurato di pensare. Eppure ammonimenti non sono mancati.
Qualcosa, ciò che sarebbe arrivato ora, d'altra parte non è avvenuto, e però
pur sempre qualcosa di simile, agli inizi della costruzione della tana, è
avvenuto. La differenza principale stava nel fatto che si trattava appunto degli
inizi. Lavoravo allora davvero come uno scolaretto alla prima galleria, il
labirinto era solo uno schizzo a grandi linee, già avevo cominciato un piccolo
spiazzo, ma in fatto di proporzioni e di pareti era completamente fallito, per
farla breve tutto era talmente agli inizi che poteva valere al massimo come
prova, come qualcosa che, una volta che scappa la pazienza, potrebbe esser
lasciato com'è subito, senza gran dispiacere. Allora successe che una volta,
durante una pausa del lavoro – nella mia vita ne ho sempre fatte troppe, di
pause – giacevo in mezzo ai miei mucchi di terra e di colpo udii in lontananza
un rumore. Giovane com'ero, ne fui più incuriosito che impaurito, lasciai il
lavoro e mi misi in ascolto, seguitai ad ascoltare senza andare su, sotto il
muschio, per distendermi lì e non dover stare in ascolto. Stetti in ascolto,
comunque, e potei distinguere bene che si trattava d'uno scavo simile al mio,
faceva meno rumore, ma quanto ne fosse da attribuire alla distanza non si
poteva sapere. Ero intento, ma nel complesso freddo e calmo. Forse mi trovo
all'interno d'una costruzione estranea, pensai, e il proprietario ora viene
scavando da me. Se fosse emersa la giustezza di tale supposizione, dato che
mai sono stato uno che cerca di rubare o gli piace aggredire, me ne sarei
andato a costruire altrove. Ovviamente ero ancora giovane e ancora non
avevo mica la tana, riuscivo ancora a essere freddo e calmo. L'ulteriore
procedere della faccenda non mi dette alcuna particolare eccitazione, solo
che non fu facile da spiegare. Se quello che scavava lì davvero era diretto su
di me in quanto m'aveva sentito scavare, non c'era da stabilire se lui, come
ora accadeva, mutando di direzione, lo faceva perché io con la mia pausa gli
avevo tolto ogni appiglio o, anzi, perché aveva lui stesso cambiato
intenzione? Magari però mi ero più che altro ingannato e lui mai s'era davvero
diretto contro di me, comunque il rumore crebbe ancora per un po' così come
si avvicinava, allora, ragazzo com'ero, forse non avrei avuto piacere di vedere
lo scavatore improvvisamente scappare fuori dalla terra, ma non accadde
nulla del genere, da un certo momento lo scavo iniziò a indebolirsi, divenne
sempre più flebile così come lo scavatore curvava rispetto alla sua prima
direzione un po' alla volta, e d'un subito cessò, come se ora lui si fosse
deciso per una direzione totalmente opposta e si muovesse senz'altro via da
me, lontano. A lungo stetti in ascolto di lui, nel silenzio, prima di ricominciare
a lavorare. Ora, quest'ammonimento era abbastanza chiaro, ma presto lo
dimenticai e a stento esso ha avuto un'influenza sul progetto della tana. Tra
quei tempi e oggi c'è di mezzo la mia maturità, ma è come se non ci fosse
proprio, io seguito ancora a fare una lunga pausa e sto in ascolto alla parete,
lo scavatore di nuovo ha cambiato intenzione, ha fatto marcia indietro, ritorna
dal suo giro, crede di avermi intanto lasciato abbastanza tempo perché mi
prepari ad accoglierlo. Da parte mia però tutto è meno pronto di quanto fosse
una volta, la grande tana è indifesa e io non sono più uno scolaretto, sono
invece un vecchio costruttore e mi difettano le forze, se si deve prendere una
decisione. Tuttavia per quanto sia vecchio mi pare di essere davvero anche
più vecchio di quel che sono, così vecchio da non poter più nemmeno
sollevarmi dal mio giaciglio sotto il muschio, ma in realtà reagisco, mi alzo e
corro in casa come se mi fossi, invece che riposato, colmato di
preoccupazioni. Come stanno in definitiva le cose? S'era indebolito, il sibilo?
No, s'era rinforzato. Sto in ascolto in dieci punti a caso e chiarisco l'inganno,
il sibilo è rimasto uguale, nulla è cambiato. Dall'altra parte non accadono
novità, c'è pace più del solito, ma qui ogni momento agita chi stia in ascolto.
Ripercorro il lungo cammino fino alla piazza principale, intorno tutto mi pare
proteso verso di me, pare guardarmi, pare poi subito smettere di farlo per non
disturbarmi, però sforzandosi di leggere, dalle mie espressioni, decisioni
salvatrici. Scuoto il capo, non ne possiedo alcuna. Nella piazza principale non
vado, inoltre, per realizzare un qualche progetto, arrivo nel posto dove ho
voluto fare gli scavi di prova, li sperimento di nuovo, sarebbe stato un buon
posto, avrebbe portato nella direzione dello scavo, quella delle diverse
piccole correnti d'aria che avrebbero assai facilitato la mia fatica, forse non
avrei nemmeno dovuto scavare molto oltre, non avrei nemmeno dovuto
scavare fino alla sorgente del rumore, forse sarebbe bastato fare attenzione
alle correnti d'aria. Tuttavia nessuna riflessione ha la forza sufficiente a
incoraggiarmi a questo lavoro di scavo. Questo scavo può portarmi certezza?
Sono così lontano che nemmeno voglio averla, la certezza. Nella piazza
principale scelgo un bel pezzo di carne rossa e striscio con esso in uno dei
mucchi di terra, lì comunque vi sarà silenzio, per quanto ve ne possa essere.
Lecco e annuso la carne, penso sia alla bestia estranea che lontano fa la sua
strada sia al fatto che finché in abbondanza ne ho la possibilità dovrei
godermi le mie provviste. E' questo probabilmente l'unico progetto
realizzabile che io abbia. Per il resto provo a decifrare il piano della bestia. E'
in marcia o è al lavoro nella sua tana? Se è in marcia allora forse è possibile
un accordo con lei. Se davvero si apre un passaggio fino a me le do qualcuna
delle mie provviste e se ne andrà. Sì, se ne andrà, nel mio mucchio di terra è
naturale che io possa sognare ogni cosa, anche una intesa, ciò nonostante
so bene che qualcosa di simile non è dato e che nel momento in cui ci
vediamo a vicenda, anzi se abbiamo sentore reciproco da lontano, subito
insensatamente, ma con tempismo, di nuovo affamati per quanto si sia
satolli, ci metteremo addosso reciprocamente zanne e artigli. Come sempre,
anche stavolta con pieno diritto, infatti, anche se in marcia, chi non
cambierebbe i suoi progetti di viaggio e di futuro in relazione alla tana? Forse
tuttavia la bestia scava nella sua, di tane, e allora nemmeno posso sognare
un accordo, anche se si trattasse d'una bestia straordinaria la cui tana fosse
in grado di tollerare un vicinato, la mia tana non lo sopporta, almeno non un
vicinato udibile. Ora la bestia pare tuttavia molto distante, se arretrasse
ancora un poco oltre anche il rumore sparirebbe senz'altro, forse tutto
andrebbe bene ancora come ai vecchi tempi, si tratterebbe allora solo d'una
cattiva esperienza, ma benefica, mi inciterebbe alle più disparate migliorie, se
ho quiete e il pericolo non m'incalza immediato sono ancora capacissimo di
ogni tipo di notevole lavoro. Forse la bestia, in rapporto alle enormi
possibilità che sembra avere in termini di energia lavorativa, rinuncia
all'ampliamento della sua tana in direzione della mia e si rifà da un'altra parte.
Anche questo naturalmente non può esser ottenuto tramite trattative, ma
soltanto l'intelligenza della bestia può arrivarci, o riuscirci una costrizione da
parte mia. In entrambe le prospettive sarà decisivo se e che cosa la bestia sa
di me. Quanto più ci rifletto, tanto più mi sembra inverosimile pure che la
bestia mi abbia udito, è possibile anche se inimmaginabile che in qualche
modo abbia notizie di me, ma non mi ha udito di certo. Fin quando non
sapevo nulla di lei, non può avermi in genere sentito, dato che stavo in
silenzio, nulla più silente che il rivedere la tana, poi quando facevo gli scavi di
prova lei avrebbe potuto udirmi, ciò nonostante il mio stile di scavo fa
pochissimo chiasso; se però mi avesse udito anch'io avrei dovuto notarne
qualcosa, lei avrebbe almeno a più riprese dovuto fermarsi e stare in ascolto,
ma tutto restò immutato, quello <inconcluso> (Der Bau,1923/24).

Josefine la cantante, o il popolo dei topi

La nostra cantante si chiama Josefine. Chi non l'ha udita ignora il potere del
canto. Non c'è alcuno che il suo canto non trascini, ciò che vale anche di più
dal momento che la nostra specie solitamente non ama la musica. La
tranquillità del silenzio è la musica che noi preferiamo; la nostra vita è
difficile, anche se abbiamo fatto lo sforzo di liberarci per una volta di ogni
cruccio quotidiano, non sappiamo più elevarci a quanto è tanto lontano,
come la musica, dalla nostra solita vita. Tuttavia non ce ne lamentiamo molto;
non arriviamo neanche a questo; una certa qual furbizia pratica, che però ci
serve senza dubbio in sommo grado, noi la poniamo come nostra massima
virtù, e cerchiamo di confortarci soprattutto con il sorriso di tal furbizia, e se
una volta dovessimo avere desiderio della felicità – ciò del resto non accade -
esso devia dalla musica, forse. Solo Josefine è differente; lei ama la musica e
sa anche produrne; è l'unica; con la sua dipartita la musica – chissà per
quanto tempo – scomparirà dalla nostra vita.
Ho riflettuto spesso su come stanno davvero le cose in merito a questa
musica. E' certo che noi siamo del tutto non musicali; come accade che
comprendiamo il canto di Josefine o, dal momento che lei nega la nostra
comprensione, crediamo di comprenderlo? La risposta più semplice sarebbe
che la bellezza di questo canto è tale che anche i sensi più ottusi non sanno
resistere, ma tale risposta non soddisfa. Fosse davvero così, in presenza di
questo canto si dovrebbe in primo luogo e sempre sentire lo straordinario,
sentire qualcosa che solo quest'unica Josefine e nessun altro ci abilita a
udire, qualora risonasse da questa gola qualcosa da noi mai udito finora e
che non siamo capaci di udire. Ciò, secondo la mia opinione, non succede
proprio, io non lo sento e neppure ho notato alcunché di simile in altri. In
cerchie intime noi parliamo con franchezza del fatto che il canto di Josefine
non rappresenta nulla di eccezionale, come canto.
Si tratta poi davvero di canto? A dispetto della nostra non musicalità noi
abbiamo tradizioni canore; ci fu, nei nostri tempi antichi, del canto; ne
raccontano leggende, e si conservano perfino canzoni che però nessuno sa
più cantare. Un sentore di che cos'è il canto dunque lo abbiamo, e l'arte di
Josefine in realtà non vi corrisponde. Si tratta poi davvero di canto? Non è
invece forse solo uno squittire? E noi tutti del resto conosciamo lo squittire, è
la vera capacità artistica del nostro popolo, o, molto meglio, non una
capacità, piuttosto una caratteristica manifestazione di vita. Tutti noi
squittiamo, ma nessuno pensa certo di dar luogo con ciò a qualcosa di
artistico, squittiamo senza farci caso, di più, senza capirlo, e tra noi ci sono
molti che ignorano del tutto che lo squittire appartiene alle nostre
caratteristiche. Se dunque fosse vero che Josefine non canta, ma squittisce
soltanto e forse addirittura, come almeno a me pare, varca a mala pena il
limite dello squittire normale – anzi, forse non ha neppure la forza bastevole a
questo squittire normale, quando invece uno sterratore qualsiasi riesce a
farlo tutto il giorno mentre è al lavoro – se fosse vero, allora certo la pretesa
artisticità di Josefine sarebbe confutata, ma poi ci sarebbe, a maggior
ragione, da risolvere l'enigma della sua grande efficacia.
Non è tuttavia proprio soltanto uno squittire, quel che lei produce. Ci si metta
distanti da lei e si ascolti, o, ancor meglio, ci si faccia interrogare in merito,
canti Josefine putacaso tra altre voci e ci si dia il compito di riconoscere la
sua, allora inevitabilmente non si coglierà altro che un normale squittire,
magari poco appariscente, che sta tra il delicato e il fioco. Ma si resti davanti
a lei, non è soltanto uno squittire; ai fini della comprensione della sua arte è
necessario non solo udirla, ma anche vederla. Anche se si trattasse del
nostro squittire quotidiano, però, già innanzitutto la singolarità consiste nel
fatto che qualcuno si metta con solennità a fare null'altro che il solito.
Schiacciare una noce non è davvero arte, nessuno oserà radunare un
pubblico per schiacciare noci allo scopo d'intrattenerlo. Ma se lo fa ed il suo
proposito riesce, allora può essere in questione non solo il puro e semplice
schiacciar noci. Oppure no, si tratta di schiacciar noci, ma salta fuori che noi
abbiamo ignorato quest'arte perché la conoscevamo perfettamente, e che tal
nuovo schiacciatore di noci ne indica per primo l'essenza particolare, ragion
per cui, s'egli è un po' meno abile nello schiacciar noci della maggioranza di
noi, ai fini del risultato ciò potrebbe perfino essere vantaggioso.
Forse succede qualcosa di simile con il canto di Josefine, noi ammiriamo in
lei quel che non ammiriamo affatto in noi, del resto lei concorda in pieno con
noi a quest' ultimo riguardo. Una volta ero presente quando qualcuno, come
naturalmente accade spesso, richiamò senza sfacciataggine la di lei
attenzione sul generale squittire popolare, per Josefine ciò fu troppo. Non ho
ancora visto un sorriso tanto sfrontato, altezzoso, come quello che allora lei
fece; lei, che è esteriormente la tenerezza perfetta, che par tenera anche
nell'ambito del nostro popolo, ricco di simili figure di donna, quella volta si
mostrò meschina; del resto, sensibile com'è, riuscì a sentire di esser
meschina, e si contenne. Comunque lei nega ogni rapporto tra la sua arte e lo
squittire. Non si cura di color che sono di opinione contraria, forse
segretamente li odia. Non si tratta della solita vanità, infatti gli oppositori, tra
i quali in parte mi trovo, l'ammirano certo non meno della massa, ma Josefine
non vuole essere ammirata soltanto, vuole essere ammirata esattamente nel
modo da lei stabilito, niente le garba dell'ammirazione generica. E quando le
sediamo davanti, lei ne ha contezza; solo da lungi si pratica l'opposizione;
quando le sediamo davanti, sappiamo che quel che lei squittisce non è affatto
uno squittire.
Poiché lo squittire fa parte delle nostre abitudini involontarie, si potrebbe
opinare che anche all'interno dell'uditorio di Josefine taluni squittiscano; che,
nonostante l'arte sua, ci venga bene squittire, e che, se ci va, noi squittiamo;
invece il suo uditorio non squittisce, se ne sta zitto zitto, taciamo come
fossimo divenuti partecipi alla bramata armonia da cui il nostro proprio
squittire come minimo ci allontana. E' nel suo canto, la malia, o non lo è
molto di più nel silenzio solenne da cui la sua debole voce è circondata? In
un caso capitò che una qualunque, durante il canto di Josefine, iniziasse a
squittire candidamente, anche lei, una stolta cosuccia. Orbene, si trattava
assolutamente della stessa cosa che udivamo da parte di Josefine; là
davanti, nonostante tutto il mestiere, sempre lo stesso timido squittire, qui,
tra il pubblico, lo svagato infantile squittire; indicarne la differenza sarebbe
stato impossibile; e però fischiammo e squittimmo addosso alla disturbatrice
per quanto non fosse necessario, infatti lei si sarebbe nascosta lo stesso,
impaurita e vergognosa, intanto che Josefine iniziava a intonare il suo
squittire trionfale protendendo le braccia, tutta fuor di sé, gonfio al massimo
il collo.
Del resto lei è sempre così, ogni inezia, ogni caso, ogni insubordinazione,
uno scricchiolio in platea, un digrignar di denti, ogni disturbo
dell'illuminazione, lei lo ritiene confacente ad aumentare l'effetto del suo
canto; di fatto lei canta, questa la sua opinione, davanti a orecchie dure;
passione e plauso non mancano, ma lei ha imparato a rinunciare alla
comprensione autentica, come pensa. Ecco che ogni disturbo le viene a
fagiolo; tutto quel che da fuori si oppone alla purezza del suo canto e che è
vinto con lieve lotta, anzi senza lotta, con il solo mezzo del raffronto, può
contribuire a destare la massa, a insegnarle certo non la comprensione, ma il
rispetto responsabile.
Se tuttavia le fa tanto gioco il meno, quanto maggiormente le serve il più? La
nostra vita è molto agitata, ogni giorno porta sorprese, angosce, speranze e
spaventi che il singolo non può sopportare da solo senza l'appoggio del
compagno in qualsiasi momento del giorno e della notte; ma anche così,
spesso è davvero difficile; talvolta sotto il fardello cui era destinato uno solo,
tremano anche mille spalle. E' allora che Josefine stima che sia venuto il suo
momento. Eccola, la tenera creatura, vibrante il suo petto di straordinaria
angoscia, è come se avesse radunato tutta la sua forza, come se in lei ciò che
non serve direttamente al canto fosse proibito; devolve tutte le sue forze,
quasi tutta la sua vitalità, ai buoni spiriti della protezione, come se un alito più
freddo, intanto che lei si trova tutta rinserrata nel canto, potesse ucciderla.
Tuttavia davanti a un simile spettacolo noi supposti oppositori siamo soliti
dirci: ”Non sa neanche squittire; deve sforzarsi in modo così spaventoso, e
non per cavar da se stessa un po' di canto – non parliamo mai di canto – ma il
solito squittire.” Questo il nostro parere, certo è un'impressione inevitabile,
eppur fuggevole, che cessa velocemente. E già anche noi ci immergiamo nel
sentimento della moltitudine che ascolta con calore, accostati i corpi, in
soggezione, il fiato sospeso.
E per radunare intorno a sé tal moltitudine di popolo, il nostro, che più o
meno in continuo movimento scappa qua e là, nella maggioranza dei casi
Josefine non deve far altro che prendere quella posizione, testolina inclinata
indietro, bocca semiaperta, occhi volti all'insù, indicante che lei intende
cantare. Può farlo dove vuole, non dev'essere affatto un luogo visibile da
lontano, è adatto anche un qualche oscuro angoletto scelto a caso per
improvviso capriccio. La notizia che lei ha intenzione di cantare si propaga lo
stesso, e velocemente si allungano processioni. Ora, capita che subentrino
ostacoli, Josefine preferisce cantare proprio nei momenti d'inquietudine,
molteplici preoccupazioni e necessità ci costringono quindi a svariati
percorsi, con la migliore volontà non si riesce radunarsi con la velocità che
Josefine desidera, e lei in tali occasioni se ne sta lì con la sua aria
d'importanza senza un totale sufficiente di uditori, per un po' – allora s'infuria,
scalpita, impreca in modo non certo femminile, anzi, arriva a mordere. Eppure
neanche una condotta del genere nuoce alla sua reputazione; invece di porre
qualche argine alle sue enormi pretese ci si sforza di aderirvi; si mandano
messaggeri a chiamar gli uditori; tenendoglielo segreto; si notano nelle vie
vicine vedette far cenni di sbrigarsi a chi si avvicina; fino a quando da ultimo
non si raccoglie un numero passabile di uditori.
Che cosa spinge il popolo a disturbarsi tanto per Josefine? Trattasi di
questione non più facile da risolvere di quella inerente il canto di Josefine,
ma ad essa legata. Potremmo cancellarla e unificarla con la seconda, se si
sostenesse a un dipresso che il popolo è incondizionatamente devoto al
canto di Josefine. Ma non è così; il nostro popolo quasi ignora la devozione
senza condizioni; questo popolo amante più di tutto dell'astuzia bonaria, del
bisbiglio infantile, del pettegolezzo innocente, com'è ovvio, e leggibile solo a
fior di labbra, un tal popolo non può comunque abbandonarsi senza
condizioni, lo sente bene anche Josefine, ecco che cosa lei combatte
sforzando la sua debole gola.
Non è certo lecito andar troppo lontano opinando che il popolo è devoto a
Josefine ma non in modo incondizionato. Per dirne una, non sarebbe capace
di ridere di lei. E' garantito che più d'uno inciti a ridere di lei; e noi siamo
gente che è sempre prossima a ridere o a deridere; a dispetto di tutte le
disgrazie della nostra vita da noi è sempre di casa per dir così un sommesso
riso; ma non su Josefine. A volte ho l'impressione che il popolo interpreti il
suo rapporto con Josefine nel senso che lei, questa creatura fragile,
valetudinaria, in qualche modo speciale, secondo lei speciale per via del
canto, gli sia affidata e che sia doveroso preoccuparsi di lei; nessuno ne sa la
ragione, ma il fatto è sicuro. E su quel che ci è affidato non si ride; riderne
sarebbe violazione dei doveri; il massimo della cattiveria è quel che i peggiori
tra noi aggiungono: “Di ridere ci passa la voglia, se vediamo Josefine.”
Così il popolo si preoccupa per Josefine come un padre che si prende cura di
un figlio che tende verso di lui le sue manine – non sappiamo se imploranti o
incoraggianti. Il nostro popolo non è capace di compiere questi doveri, si
potrebbe obbiettare, ma in realtà li esercita, almeno in questo caso, in modo
esemplare; nessun singolo individuo potrebbe fare quello di cui il popolo
come totalità è capace. Di sicuro la differenza di forza tra il popolo e il singolo
è tanto enorme, ciò è sufficiente, da attirare il protetto nel calore della sua
vicinanza, e la protezione è sufficiente. A Josefine del resto non si osa parlare
di tali cose: “Io squittisco per proteggervi”, lei dice, “Sì sì, tu squittisci”,
pensiamo noi. E non c'è davvero nessuna obbiezione, se lei si ribella, poiché
tali ribellioni fanno parte dell'indole infantile e della riconoscenza infantile, e il
padre, secondo la sua natura, non ne tiene conto.
Però conta anche altro, che è difficile da spiegare, in questa relazione tra
popolo e Josefine. Lei in altri termini è dell'opinione contraria, crede di essere
la protettrice del popolo. Il suo canto ci salva per dir così da condizioni
peggiori in politica e in economia, niente di meno, e se non allontana i guai
almeno ci dà la forza di tollerarli. Non che lei si esprima così o in altri modi, di
base parla poco, tace in mezzo ai chiacchieroni, ma lampeggiano dai suoi
occhi certe opinioni rilevabili dalla sua bocca chiusa – tra noi pochi san
tenerla chiusa, lei ci riesce. Dopo ogni cattiva notizia – e certi giorni esse si
rincorrono, metà le false, metà le vere – lei si alza, mentre di solito anela con
fiacchezza il suolo, tende il collo e tenta la visione generale del suo gregge,
come il pastore in vista del temporale. Certo anche i bambini, secondo la loro
indole rozzamente priva di autocontrollo, hanno pretese simili, che però in
Josefine non sono altrettanto prive di fondamento. E' chiaro che lei non ci
salva né ci dà alcuna forza, è facile atteggiarsi a salvatore di questo popolo
che pure si è sempre salvato da solo, foss'anche a costo di olocausti in
merito ai quali lo storico – in genere noi trascuriamo del tutto gli studi storici
– impietrisce orripilato. Eppure è vero che proprio in stato di necessità, più
che non nella normalità, stiamo ad ascoltare la voce di Josefine. Le minacce
che incombono su di noi ci rendono più silenziosi, più modesti, più
arrendevoli in rapporto all'attitudine al comando di Josefine; ci raduniamo di
buon grado, di buon grado ci stringiamo gli uni agli altri; in particolare perché
ciò accade del tutto collateralmente rispetto alla straziante questione
principale; è come se noi tornassimo in fretta – necessaria fretta, Josefine lo
dimentica troppo spesso – a bere insieme al calice della pace, in vista della
battaglia. Non si tratta di un'esibizione canora, ma, molto di più, di un'adunata
popolare in cui il popolo tace del tutto prima del debole squittire di Josefine;
l'ora è troppo seria perché si voglia trascorrerla nelle chiacchiere.
Ora, d'una simile circostanza Josefine non potrebbe rallegrarsi affatto.
Nonostante tutto il malessere nervoso che, a causa della sua posizione mai
del tutto chiarita, la colma, lei non nota tante cose, accecata dal suo orgoglio,
e può senza grande sforzo essere indotta alla sopravvalutazione di molte
cose, una schiera di zelatori è a tale proposito, dunque in un senso in genere
proficuo, sempre attiva, ma non sprecherebbe certo per loro il suo canto, per
quanto ciò in sé non sarebbe affatto poca cosa - lei da una parte, inosservata,
in un angolo dell'adunata popolare.
Tuttavia non ha da fare neanche questo, perché la sua arte non resta
inosservata. Per quanto noi ci si occupi di tutt'altro e non domini assoluto il
silenzio solo per amor del canto, e molti non alzino lo sguardo, premendo
anzi il muso nella pelliccia del vicino, e Josefine lassù sembri affaticarsi a
vuoto, tuttavia – è innegabile - qualcosa del suo squittire penetra
immancabilmente anche in noi. Questo squittire, che si leva dove a tutti gli
altri è imposto di tacere, viene quasi come un messaggio del popolo ai
singoli; il delicato squittire di Josefine tra le gravi decisioni è quasi come la
misera esistenza del nostro popolo nel mezzo del tumulto del mondo ostile.
Josefine si afferma, questa nullità in fatto di voce, di prestazione, si afferma e
si fa strada verso di noi, ciò fa pensare. Un artista del vero canto, se mai tra
noi se ne potesse trovare uno, non lo sopporteremmo di certo, in simili
occasioni, e respingeremmo unanimi l'insensatezza di una simile esibizione.
A Josefine piacerebbe esser protetta dal sapere che il fatto che noi stiamo ad
ascoltarla è una dimostrazione contro il di lei canto. Ne ha certo il sentore,
perché altrimenti negherebbe così appassionatamente che noi la stiamo ad
ascoltare? Eppure al di là di tal sentore continua ogni volta a cantare di
nuovo, e squittisce tuttavia.
Però sarebbe pur sempre una consolazione per lei: stiamo ad ascoltarla
davvero, per dir così, probabilmente in modo analogo a come si sta ad
ascoltare un virtuoso del canto; lei perviene a risultati cui inutilmente presso
di noi aspirerebbe un virtuoso del canto, e che solo ai suoi insufficienti mezzi
sono per l'appunto consentiti. Ciò sta certo in relazione principalmente con il
modo di vivere del nostro popolo.
In esso è ignota ogni giovinezza, a malapena si conosce un'infanzia
brevissima. E' vero, con regolarità si rivendica la possibilità di garantire ai
bambini una libertà speciale, una cura speciale, il diritto a un po' di
spensieratezza, a un po' di sgambettamento fine a se stesso, a un po' di
gioco, è un diritto che si potrebbe riconoscere dandogli una realizzazione; si
manifestano tali rivendicazioni e quasi tutti le approvano, ma non v'è nulla
che nella realtà della nostra vita potrebbe esser meno concesso, si
approvano le rivendicazioni, si fanno tentativi in tal senso, ma presto tutto di
nuovo ricade dalla parte dei vecchi. La nostra vita purtroppo è siffatta che un
bambino, non appena corre un poco e può discernere l'ambiente, deve
occuparsi di sé proprio come un adulto, i territori nei quali per convenienza
dobbiamo vivere dispersi sono troppo vasti, troppi i nostri nemici che
dappertutto ci creano pericoli imprevedibili – non possiamo tenere i bambini
lontani dalla lotta per l'esistenza, se lo facessimo ciò vorrebbe dire la loro
fine precoce. A queste tristi ragioni facilmente se ne aggiunge una più
importante: la fecondità della nostra stirpe. Una generazione – e ciascuna è
numericamente grande – incalza l'altra, i bambini non hanno il tempo di
essere bambini. Presso gli altri popoli i bambini possono essere curati
scrupolosamente, là si possono edificare scuole per loro, quotidianamente
possono uscirne, sono il futuro del popolo, loro, ma continuando a sbucarne
senza darsi il cambio con altri per parecchio tempo, giorno dopo giorno. Noi
non abbiamo alcuna scuola, tuttavia dal nostro popolo escono a brevissimi
intervalli le incalcolabili greggi dei nostri bambini felicemente fischiando o
sibilando fino a quando ancora non sanno squittire, ruzzolando o seguitando
a rotolare in virtù del loro peso fino a quando non sanno ancora correre,
portando via con sé ogni cosa con la loro massa, goffamente, fino a quando
ancora non sanno vedere, i nostri bambini! E non, come in quelle scuole,
sempre gli stessi, no, ancor sempre e sempre nuovi, senza fine, senza
interruzione, non appena sbuca un bambino non è più un bambino, ma già
dietro a lui spingono nuovi musi di bambino indistinguibili nella loro
frettolosa moltitudine, rosei e felici.
Per quanto ciò possa essere bello e altri a ragione possano invidiarlo, però
noi non possiamo dare ai nostri bambini un'infanzia autentica. Da ciò certi
effetti, come una certa inesausta e inestirpata fanciullaggine che scorre nel
nostro popolo; in deciso contrasto con quel che abbiamo di meglio, con la
praticità ed esattezza della comprensione, talvolta noi agiamo del tutto da
stolti, in altri termini quasi come agiscono i bambini, in modo assurdo,
dissipatorio, grandioso, spensierato, e tutto ciò spesso per amore di una
piccola burla. E se la nostra gioia, com'è naturale, non può continuare ad
aver tutta la forza di quella infantile, qualcosa certo ne sopravvive. Di tal
fanciullaggine del nostro popolo Josefine approfitta da sempre.
Il nostro popolo tuttavia non è solo infantile, è per dir così anche
precocemente vecchio, infanzia e vecchiaia si presentano presso di noi in
modo diverso che presso altri. Non abbiamo giovinezza alcuna, siamo come
adulti, e lo siamo troppo a lungo, una certa fiacchezza e una certa
disperazione solca profondamente lo spirito del nostro popolo d'altra parte in
genere tanto tenace e dotato in fatto di speranza. Anche la nostra non
musicalità è davvero in relazione con questo; siamo troppo vecchi per la
musica, essa eccita, slancia, ciò non si accorda con la nostra gravità, stanchi
le opponiamo un diniego; in merito allo squittire abbiamo operato una
ritrattazione; un poco di squittire di tanto in tanto, questa è la cosa giusta per
noi. Chissà se tra noi ci sono talenti musicali, ma se ci fossero, il generale
carattere etnico dovrebbe assoggettarli in vista della sua evoluzione. Al
contrario Josefine a suo piacimento può squittire o cantare, o come vuol
chiamarlo lei, questo non ci disturba, ci è conforme, possiamo tollerarlo
bene; se dovesse esserci, dentro, qualcosa di musicale, ciò è ridotto alla
massima nullità possibile; si difende una certa tradizione musicale, ma senza
che questo ci opprima minimamente.
Josefine però a questo popolo siffattamente disposto reca assai di più.
Durante i suoi concerti, specie in tempi gravi, s'interessano ancora alla
cantante in quanto tale soltanto i giovanissimi, che, soli, stanno a guardare
come lei arriccia le labbra, come soffia via l'aria tra i graziosi denti incisivi,
ammirati ai suoni che lei insieme emette e spegne, spingendosi, con tal venir
meno, a un nuovo effetto che le riesce sempre più astruso, tuttavia la massa
vera e propria s'è ritirata in se stessa – ciò è evidente. Durante le scarse
pause tra una battaglia e l'altra il popolo qui sogna, è come se al singolo si
sciogliessero le membra, come se l'angustiato potesse una buona volta a
piacer suo allungarsi e stirarsi nel gran giaciglio caldo che è il popolo. E in
tali sogni trilla qua e là lo squittire di Josefine; lo dichiara spumeggiante, lei,
noi traballante; comunque qui è al suo posto come da nessun altra parte,
come musica quasi mai trova il suo momento giusto. Nello squittire c'è
qualcosa della misera breve infanzia, qualcosa della perduta e mai
riacquistabile felicità, ma anche qualcosa della presente vita operosa, del suo
po' di incomprensibile eppur sussistente né troppo soffocabile allegria. E
tutto ciò non è espresso davvero con grandi suoni, ma lievi, bisbiglianti,
confidenziali, talvolta un poco rauchi. E' uno squittire, certo. Perché no, poi?
Lo squittire è la lingua del nostro popolo, molti per tutta la vita non fanno
altro che squittire e non lo sanno, ma qui lo squittire è affrancato dalle catene
della vita lavorativa, e libera per un breve tempo anche noi. Certo non
vorremmo fare a meno di queste esibizioni.
Da qui a quanto asserisce Josefine, che nei momenti gravi lei ci darebbe
nuove forze eccetera eccetera, ce ne corre. Secondo la gente comune, ma
non secondo gli zelatori di Josefine. “Come” - dicono loro, davvero con
disinvolta sfacciataggine - “si potrebbe spiegare altrimenti, specie
nell'urgenza di un immediato pericolo, il grande afflusso che già alcune volte
ha impedito addirittura la sufficiente tempestività della difesa precisamente
da tal pericolo?” Ora, questo è giusto, purtroppo, ma non è un titolo di merito
di Josefine, specie se si aggiunge che, quando le adunate improvvisate
venivano disperse dal nemico e alcuni di noi dovevano lasciarci la vita,
Josefine, di tutto quanto responsabile, che anzi aveva forse attirato il nemico
con il suo squittire, aveva per sé i più sicuri posticini ed era la prima a sparire
zitta e svelta sotto la protezione dei suoi seguaci. Ma in fondo tutti lo sanno,
questo, ciò non di meno si affrettano di nuovo quando Josefine, a sua
discrezione, alla prima occasione una volta o l'altra si alza e canta. Dal che si
potrebbe concludere che Josefine sta quasi al di fuori della legge, che ha il
permesso di fare quel che vuole, anche quando il fatto mette in pericolo la
collettività, e che tutto le viene perdonato. Se fosse così, allora anche le
pretese di Josefine sarebbero comprensibili, anzi, in tale libertà che le
darebbe il popolo, in questo straordinario omaggio mai di norma accordato
ad altri, e che di fatto indebolisce le leggi, potrebbe in certo qual modo
vedersi un'ammissione di questo, che il popolo, come lei asserisce, non la
comprende, osserva impotente e stupefatto l'arte sua, non se ne sente degno,
e cerca di compensare questo suo torto ai danni di Josefine per mezzo di una
gratificazione chiaramente estrema, e, così come l'arte sua esorbita dalla
capacità del popolo, anche la sua persona e i suoi desideri esorbitano dal
potere di comando del popolo. Orbene, questo non è assolutamente vero,
forse il popolo capitola troppo alla svelta davanti a Josefine, ma non in modo
incondizionato, così come non capitola incondizionatamente davanti ad
alcuno.
Già da molto tempo, forse dall'inizio della sua carriera artistica, Josefine lotta
per essere affrancata da qualsiasi lavoro in considerazione del suo canto;
perché le si possano togliere le preoccupazioni in merito al pane quotidiano e
a tutto quello che è di norma connesso con la nostra lotta per l'esistenza,
probabilmente scaricandole sul popolo come collettività. Un appassionato
incauto – ve n'è di tali – potrebbe già soltanto dalla singolarità di tali pretese,
dalla disposizione d'animo capace di escogitare tali pretese, trarre
conclusioni in merito alla sua intrinseca giustificazione. Ma il nostro popolo
trae conclusioni diverse, e serenamente disapprova le pretese. Non si stanca
neanche molto a confutarne i motivi. Per esempio Josefine sa a questo
riguardo che la fatica lavorativa danneggia la voce, certo la fatica lavorativa è
modesta in confronto a quella canora; sa però che tal fatica la priva della
possibilità, una volta cantato, di riposare a sufficienza e di riprendersi in vista
del successivo canto; inoltre lei è costretta a dare proprio tutto, ma,
nonostante tal costrizione, in queste circostanze giammai può raggiungere il
massimo della sua prestazione. Il popolo sta ad ascoltarla, ma ignora quanto
sopra. Questo popolo che tanto facilmente è troppo commosso, talvolta non
si commuove affatto. Il rifiuto talvolta è così duro che anche Josefine se ne
sorprende, sembra sottomettersi; si affatica come le si addice, canta bene
come sa, ma tutto questo solo per poco, poi riprende la lotta con nuove
energie – che sembra avere illimitate.
Ora, è certamente chiaro che Josefine non aspira davvero a quel che alla
lettera richiede. E' ragionevole, non rifugge il lavoro perché sicuramente il
rifiuto del lavoro specie tra noi è ignoto, lei non vivrebbe diversamente da
prima una volta che le sue pretese fossero soddisfatte, il lavoro non sarebbe
affatto d'intralcio al suo canto, e il canto del resto non diverrebbe neanche
più bello – ciò cui aspira è dunque il chiaro, netto, duraturo riconoscimento
fin qui conosciuto della superiorità della sua arte su ogni altra. Mentre
tuttavia tutto il resto le pare raggiungibile, questo le si nega con caparbietà.
Forse avrebbe dovuto condurre l'assalto altrove fin da principio, forse adesso
lei stessa si accorge dell'errore, ma ora non può tornare indietro, tornare
indietro significa non essere fedele a se stessa, ora lei deve mantenere le sue
pretese o cadere.
Se avesse veramente nemici come dice, essi potrebbero assistere soddisfatti
a tale lotta senza muovere un dito. Ma lei non ha alcun nemico, e anche se
qua e là certuni hanno obbiezioni nei suoi confronti, questa lotta non piace a
nessuno. Non già perché in questo caso il popolo si mostra nel suo
atteggiamento di giudicante freddezza, come presso di noi si vede solo assai
di rado. E anche se in questo caso può approvare tale atteggiamento, la
semplice obbiezione che una volta potrebbe agire in modo simile esclude
ogni gioia. Non si tratta, nel caso del rifiuto come nel caso delle pretese, della
stessa cosa, ma del fatto che il popolo possa ritirarsi in modo tanto
impenetrabile nei confronti di un compagno, tanto più impenetrabile di
quanto altrimenti provveda con umiltà proprio a tal compagno in modo
paterno e più che paterno.
Se al posto del popolo, qui, ci fosse un singolo, si potrebbe credere che
quest'uomo abbia continuato a cedere, riguardo a Josefine, alle sua perenni
richieste, e che finalmente ponga termine all'arrendevolezza; che abbia
ceduto in modo eccezionale, fiducioso che la concessione comunque troverà
il suo preciso limite; anzi, che abbia concesso più del necessario soltanto per
affrettare la faccenda, per viziare Josefine e suscitarne sempre nuovi
desideri, fino al momento in cui lei non accampi davvero l'ultima delle
pretese; che abbia dato luogo ora al rifiuto definitivo, esatto, netto, proprio
perché lungamente preparato. Ora, di certo il popolo non si comporta così,
non ha bisogno di simili astuzie, inoltre il suo culto per Josefine è leale e
provato, e le pretese di Josefine sono d'altronde tanto grandi che qualsiasi
bambino avrebbe potuto pronosticarne l'esito; ciò nonostante può essere che
alla concezione che Josefine ha della questione concorrano anche simili
congetture e che aggiungano amarezza al dolore del rifiuto.
Tuttavia lei può fare anche simili congetture, non si fa spaventare dalla lotta.
Negli ultimi tempi essa addirittura si acutizza; fin qui lei l'ha condotta a
parole, ora inizia a usare altri mezzi che, a suo avviso più efficaci, ai nostri
occhi sono più pericolosi per lei.
Molti credono che Josefine si faccia tanto insistente perché sente di
diventare vecchia, la voce rivela indebolimento, e che le sembri perciò
arrivato il momento di condurre la lotta finale per il suo riconoscimento. Io
non sono d'accordo. Josefine non sarebbe lei, se fosse vero. Per lei non c'è
alcuna vecchiaia e alcun indebolimento vocale. Se pretende qualcosa, non è
spinta da cose esteriori, ma invece da interna coerenza. Tende alla corona
massima non perché a un dato momento essa si trova un poco più alla sua
portata, ma perché si trova al massimo dell'altezza; fosse in suo potere,
l'appenderebbe ancora più in alto.
Questo disdegno delle difficoltà esterne non le impedisce del resto di
adottare i mezzi più indegni. Non ha dubbi sui suoi diritti; quel che le preme è
come realizzarli; in particolare proprio i mezzi degni devono fallire in questo
mondo, come le si presenta. Forse per questo ha spostato perfino la lotta per
i suoi diritti dal terreno del canto a un altro che le garba poco. I suoi
sostenitori hanno diffuso sue asserzioni secondo cui lei si sente
assolutamente abile a cantare in modo tale che per il popolo in tutti i suoi
strati, fino alla più nascosta opposizione, sarebbe un vero diletto, vero diletto
non secondo il popolo, che sostiene anzi di provarne da sempre, al canto di
Josefine, ma diletto secondo i desideri di Josefine. Lei aggiunge però che,
siccome non potrebbe dissimulare ciò che è elevato né cedere alle lusinghe
di ciò che è vile, l'elevato deve restare esattamente com'è. Altro discorso è
quello della lotta per venir liberata dal lavoro, in effetti anch'essa finalizzata al
canto, ma non condotta direttamente con le armi del canto, bensì con ogni
mezzo che sia buono abbastanza allo scopo.
Così per esempio venne propagata la diceria che Josefine avesse intenzione,
qualora non le si cedesse, di abbreviare i suoi gorgheggi. Io non so niente di
gorgheggi, non ho mai notato nel suo canto un qualche gorgheggio. Lei però
vuole abbreviarli, non sopprimerli per intanto, solo abbreviarli. Ha realizzato
la sua minaccia, dicono, del resto non mi sono accorto di alcuna differenza
rispetto alle esibizioni precedenti. Il popolo nell'insieme è stato ad ascoltare
come sempre, senza pronunciarsi in merito ai gorgheggi, né è mutato il suo
modo di trattare le pretese di Josefine. Non si nega però che Josefine
possieda talvolta della vera leggiadria, tanto nella sua figura quanto nei suoi
pensieri. Così, per esempio, dopo ogni sua esibizione lei è andata spiegando,
quasi che il taglio dei gorgheggi fosse stato troppo duro e immediato per il
popolo, che nel futuro lei canterà di nuovo gorgheggiando pienamente. Dopo
il concerto successivo tuttavia ha cambiato idea un'altra volta, con i pieni
gorgheggi era finita inappellabilmente, e, prima d'una presa di posizione
popolare a lei favorevole, non sarebbero più stati eseguiti. Orbene, il popolo
sta ad ascoltare senza abbassarsi a tutto questo spiegare, decidere e cambiar
decisione, come un adulto assorto nei suoi pensieri ascolta le chiacchiere di
un bambino, fondamentalmente ben disposto, ma inaccessibile.
Josefine non cede, però. Così di recente affermava di essersi fatta male a un
piede sul lavoro, ciò che durante il canto le rendeva gravosa la posizione
eretta; potendo d'altra parte cantare solo stando in piedi, era costretta
addirittura ad abbreviare le sue canzoni. Nonostante che zoppichi e si faccia
sostenere dai suoi seguaci, nessuno crede a una vera ferita vera. Anche
ammettendo la speciale sensibilità del suo corpicino, noi però siamo un
popolo lavoratore, e anche lei fa parte del popolo; se per ogni escoriazione
dovessimo zoppicare, nessuno potrebbe smetterla. Lei vuole farsi portare
come fosse paralitica, tuttavia, preferisce farsi vedere in questo stato
miserevole, il popolo ascolta riconoscente e affascinato il suo canto, ma non
si preoccupa del fatto che sia più breve.
Siccome non può continuare a zoppicare, escogita qualcos'altro, prende a
pretesto la stanchezza, il malumore, la debolezza. Non bastavano i concerti,
ora abbiamo anche il teatro. Vediamo alle sue spalle i suoi seguaci quanto la
pregano e scongiurano di cantare. Ne avrebbe voglia, ma non può. La si
conforta, adula, quasi la si trascina fino al luogo prescelto perché lei canti.
Infine cede inspiegabilmente in lacrime, ma quando intende cantare
visibilmente con la volontà che le resta, è spossata, con le braccia non levate
come al solito, ma penzolanti dal corpo senza vita, per cui si ricava
l'impressione che siano un po' troppo corte – quando si accinge a cantare,
dunque, poiché ancora non sta bene accenna al fatto con una sdegnata
scossa del capo, e crolla davanti ai nostri occhi. Del resto poi balza in piedi e
canta, secondo me, non molto diversamente dal solito, forse avendo orecchio
alle più fini sfumature si coglie una stizza un po' fuori del comune, che
tuttavia torna utile all'esecuzione. E alla fine lei è perfino meno stanca di poco
prima, a passi sicuri, ammesso che il suo trotterellare sgusciante possa
esser definito così, si allontana respingendo ogni aiuto dei sostenitori e
scrutando con freddezza la folla che la scansa reverente.
Così ultimamente, ma l'ultimissima è che lei, quando si aspettava che
cantasse, era scomparsa. Non solo i seguaci la cercano, in molti si mettono al
servizio di tal ricerca, è inutile; Josefine è sparita, non vuol cantare, non
vuole neppure esser pregata, stavolta ci ha proprio abbandonato.
Strano come faccia male i suoi conti, lei, la furba, così male che si dovrebbe
credere che non li faccia proprio, che invece sia spinta dal suo destino, che
nel nostro mondo può essere soltanto un destino assai triste. Sottraendosi al
canto lei distrugge anche il potere che ha acquisito sui cuori. Come poteva
fare solo lei, perché questi cuori li conosce ben poco. Si cela e non canta, ma
il popolo, tranquillo, senza visibile delusione, altero, massa autoconsistente
che all'apparenza, per quanto l'apparenza dica il contrario, può solo dare, mai
ricevere doni, nemmeno da Josefine, questo popolo prosegue per la sua
strada.
Per Josefine però si mette male. Presto verrà il momento in cui risuonerà il
suo ultimo squittire, e finirà. Lei è un breve episodio della storia infinita del
nostro popolo, e il popolo supererà la perdita. Non sarà facile, come saranno
possibili le adunate totalmente mute? In effetti, non lo erano anche con
Josefine? Il suo effettivo squittire era più alto e vivo del ricordo che se ne ha?
Da viva, era più di un puro e semplice ricordo? Nella sua saggezza il popolo
non ha, invece, posto il canto di Josefine tanto in alto proprio perché esso nel
suo genere era imperdibile?
Forse dunque non ne sentiremo molto la mancanza, ma Josefine, liberata
dalle tribolazioni terrene che tuttavia, secondo lei, sono preparate per gli
eletti, felicemente si perderà nella folla innumerevole degli eroi del nostro
popolo e presto, poiché noi non tramandiamo alcuna storia, sarà dimenticata,
come tutti i suoi fratelli - in una maggiore liberazione. (Josefine, die
Saengerin oder Das Volk der Maeuse, 1924).

I testi qui raccolti (2021) sono stati tradotti a cura di Nicola Spinosi
dall'edizione Fischer (Die Erzaehlungen) cui è dovuta la cronologia.
spinnic@libero.it

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