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Master Universitario di II livello in “GEOPOLITICA

DELLA SICUREZZA”– Università degli Studi Niccolò


Cusano – Telematica Roma per l’anno accademico
2016/2017.

Modulo 1 : Prospettive storiche della sicurezza

1.- La sicurezza è oggi un concetto con molti significati,

coerentemente con i profondi mutamenti seguiti al periodo

del confronto bipolare e con il diffondersi in tutto il mondo

dei molteplici processi di globalizzazione. Soprattutto non

coinvolge più solo la dimensione “esterna” degli Stati con la

sua tradizionale valenza politico-militare, ma è ormai

diventato un fenomeno tipicamente “trasversale”, in grado di

interessare su diversi piani e con diverse combinazioni sia la

politica internazionale che la dimensione politica, economica

e sociale interna degli Stati e degli altri attori internazionali.

In questa sede si approfondiscono, sia pur sinteticamente e

dopo un breve accenno all’evoluzione del concetto moderno

di sicurezza, alcune sue varianti storiche, con riferimento a

periodi diversi della storia d’Europa, quelle del “concerto


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delle potenze” del XIX secolo, della “sicurezza collettiva”

dopo la prima guerra mondiale e della sicurezza costruita

nell’ambito dell’Alleanza atlantica dopo il secondo conflitto

mondiale fino ai profondi cambiamenti seguiti alla fine del

confronto bipolare.

2.- Nella sua dimensione storica, nell’ambito dei rapporti tra

gli Stati, si può affermare che l’obiettivo della sicurezza,

nella sua accezione moderna, si configura in modo più

preciso proprio con l’affermarsi dello Stato-nazione,

sviluppando un saldo legame con la politica di equilibrio tra

le potenze.

Si potrebbe partire dalla pace di Westfalia che nel 1648

pose termine alla Guerra dei Trent’anni e delineò un sistema

di equilibrio tra le potenze che si intrecciò con la nascita della

“ragion di Stato”, da quel momento principio informatore

della diplomazia europea.

La sicurezza delle nazioni entrò allora a far parte delle

diverse politiche degli Stati come elemento essenziale

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dell’”interesse nazionale” – inteso in particolare nella sua

dimensione territoriale - e le numerose guerre dinastiche che

in Europa segnarono tutto il diciottesimo secolo iniziarono a

configurare un primo embrione di sicurezza identificata non

solo con il prioritario interesse nazionale ma anche con

l’esigenza di un ancora non ben definito e consensuale ordine

internazionale, basato in primo luogo proprio sull’equilibrio

delle forze tra le potenze.

Questo equilibrio era finalizzato a impedire il predominio e

l’egemonia continentale di una sola potenza (in primo luogo

la Francia) a discapito degli interessi delle altre. In questo

ambito determinante fu il ruolo assunto dall’Inghilterra

nell’impedire che si formassero egemonie o coalizioni

continentali in grado di poter compromettere la sua sicurezza

politica ed economico-commerciale.

3.- La Rivoluzione Francese sembrò sconvolgere questo

equilibrio finalizzato alla sicurezza di tutti gli Stati sovrani.

Con gli ideali repubblicani e successivamente con durante il

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periodo napoleonico la Francia tornò a minacciare questa

prima forma di ordine internazionale. Malgrado avesse poi

dato un grande contributo al disfacimento dell’Europa

napoleonica insieme all’Inghilterra, anche la Russia zarista

sembrò in grado, proprio grazie al nuovo ruolo acquistato, di

poter apportare dei rischi per l’equilibrio europeo. Londra

non avrebbe tollerato che l’equilibrio europeo potesse essere

messo in pericolo dalla sostituzione di una egemonia con

un’altra. L’impero asburgico, la Confederazione germanica e

l’impero ottomano nell’area mediterranea divennero in

seguito un contrappeso per contenere la Russia funzionale

all’equilibrio europeo voluto da Londra.

Il “Concerto delle Potenze” che fu inaugurato dal

Congresso di Vienna del 1815 tentò di riformulare

l’equilibrio tra le potenze su nuove basi, in grado di risolvere

il dilemma della sicurezza contro ogni altro tentativo di

alimentare nuovi rischi di guerre e di aggressione. Si cercò

nel ripristino del principio di legittimità di dare un crisma

ufficiale al nuovo ordine europeo che nasceva, ma come si

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era verificato nei secoli precedenti, non vi era una forte e

consensuale visione di un ordine uguale per tutti. Solo il

timore di moti rivoluzionari da parte delle nazionalità

oppresse, in grado di riproporre i princìpi divulgati dalla

Rivoluzione francese, costituivano una sorta di collante,

peraltro labile, per una auspicata “sicurezza” europea.

La formazione della “Santa Alleanza” (di fatto solo tra le

varie Corti) e il principio di “intervento” erano infatti

finalizzati alla repressione di eventuali movimenti

rivoluzionari e nazionali, identificati come il rischio

principale per tutti gli Stati, non alla formazione di un sistema

di sicurezza coeso valido per tutti, Stati grandi o piccoli che

fossero.

La facoltà di ingerenza da parte di una grande potenza negli

affari interni di un altro Paese comportava tuttavia più rischi

per l’ordine europeo di quanti se ne volessero affrontare sul

piano della lotta alle rivoluzioni nazionali.

Ad ogni modo, grandi conflitti quel particolare ordine

europeo nato a Vienna riuscì a evitarli per quasi un secolo.

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Gli unici, limitati nel tempo, furono proprio quelli legati

all’imporsi delle nazionalità, dall’area danubiano-balcanica

nei confronti dell’Impero ottomano a quelli relativi al nascere

degli Stati nazionali italiano e tedesco. Solo la guerra di

Crimea a metà del secolo assistette di nuovo alla formazione

di una coalizione diretta respingere l’espansionismo russo ai

danni dell’Impero ottomano.

4.- Il concerto delle potenze riuscì dunque a gestire e

contenere con la diplomazia e con alleanze occasionali le

tensioni e le diverse esigenze di sicurezza degli Stati europei,

ma l’ordine europeo non si basava ancora su una comune

visione della sicurezza e le tensioni non vennero eliminate

fino a che lo sviluppo delle potenzialità industriali e militari

fornirono agli interessi nazionali una spinta destinata ad

acuire i contrasti e non a dirimerli. Nacquero così sul finire

del secolo alcune “alleanze” che solo apparentemente

potevano essere presentate come un fattore di equilibrio, né

essere viste come un sistema articolato di sicurezza collettiva.

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La Gran Bretagna decise di assumere per tutto il secolo

diciottesimo la funzione di garante dell’equilibrio, demolendo

però e in parte le decisioni del 1815. La Russia infatti, a

causa della sua costante pressione sulla Turchia e del

tentativo di impossessarsi degli Stretti per accedere al

Mediterraneo, venne considerata una potenza pericolosa per

l’ordine europeo sia da Londra che non voleva rischi per la

difesa della sua egemonia nel Mediterraneo, sia da Vienna,

segnata da una reciproca forte ostilità a causa della rivalità

nell’area balcanica e della protezione che la Russia forniva ai

popoli slavi della regione in costante ricerca di autonomia e

poi di indipendenza.

Per questo motivo – dopo la cesura delle rivoluzioni

nazionali del 1848-1849 concluse con la provvisoria vittoria

dell’assolutismo e del legittimismo morenti - la Gran

Bretagna, decise prima di ridimensionare le aspirazioni

egemoniche di Napoleone III in Europa che costituiva un

forte vulnus alla sistemazione del 1815 (aiutata in questo

dalla formazione dell’Impero tedesco) e poi di impedire alla

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Russia o altri di intervenire militarmente contro un Impero

ottomano sempre più in crisi a causa del risveglio delle

nazionalità balcaniche.

Questa variante della politica dell’equilibrio si sposava così

con la particolare concezione britannica della sicurezza:

stabilità europea come cornice adeguata per la tutela dei suoi

interessi nazionali, ma nessun coinvolgimento in alleanze

continentali.

In effetti la sicurezza, soprattutto dopo l’ultima edizione del

concerto europeo nel Congresso di Berlino del 1878, un

concerto europeo ben pilotato dalla nuova Germania di

Bismarck e incentrato su una ennesima esplosione della

questione d’Oriente, attribuì alla sicurezza europea tante

varianti nazionali, connettendola ancora di più alla sola

dimensione della potenza politico-militare.

SI realizzò così una variante della sistemazione del 1815,

con un ordine europeo basato sul concerto delle potenze, ma

in presenza di schieramenti sempre più contrapposti e senza

una credibile sicurezza condivisa per tutti.

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In Europa la rivalità tra la Triplice Intesa e la Triplice

Alleanza si focalizzò sul perdurante contenzioso franco-

tedesco e sullo scontro austro-russo nei Balcani, restringendo

sempre di più i margini di quella politica di equilibrio tra le

potenze che aveva retto il sistema internazionale fino ad

allora e gettando un’ombra su un periodo che vedeva

estendersi la prosperità economica e sociale con uno

straordinario sviluppo culturale e tecnologico che segnava

sempre più il passaggio dal XIX al XX secolo.

5.- Il primo conflitto mondiale esasperò le rivalità che si

erano consolidate fino ad uno scontro dalle dimensioni

globali, in grado di mettere in crisi la mappa del potere

politico ed economico che fino ad allora si era imperniato

soprattutto sull’Europa. Questi mutamenti vennero indotti

dalla crisi dei commerci internazionali dovuti alla guerra, al

forte indebitamento delle nazioni europee, a partire dalla

Gran Bretagna, con il mercato finanziario degli Stati Uniti,

alla fine del dominio mondiale da parte dell’Europa, senza


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che si delineassero delle nuove dimensioni geopolitiche e

geoeconomiche coerenti.

La sicurezza sembrò assumere una valenza più che mai

legata al concetto dello Stato-nazione e alla politica di

potenza. L’enorme sviluppo quantitativo e qualitativo degli

armamenti sollevava tuttavia problemi nuovi che la stessa

formula dell’equilibrio tra le potenze non poteva più

risolvere.

Alla Conferenza della pace di Versailles del 1919-1920,

dopo le drammatiche perdite umane e materiali dovute alla

Grande Guerra, la sicurezza emerse come obiettivo

prioritario, ma in realtà si trattava solo della sicurezza degli

Stati vincitori. L’obiettivo primario fu in netto contrasto con

la aspirazione ad una sicurezza collettiva poiché si basava sul

ridimensionamento della potenza politica, militare,

economica, demografica della Germania sconfitta, in modo

che non sfidasse più gli interessi non solo europei, ma anche

mondiali dei vincitori, in un’Europa gravemente

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compromessa per quanto riguardava il suo “primato”

mondiale.

Con la punizione della Germania - che si vide imporre un

“diktat” e non una pace concordata - non ci fu il venir meno

delle ragioni di futuri conflitti. La sicurezza che si intendeva

raggiungere era confinata nella sola dimensione politico-

militare come ai tempi dell’equilibrio delle potenze, ma

fortemente aggravata dal divario tra vincitori e vinti e dalla

persistenza di numerosi conflitti e tensioni etnico-sociali.

Fu questo uno degli errori fondamentali dei negoziatori di

Versailles, dal momento che non venne compreso come nel

declino generale dell’Europa, tutte le sue nazioni avrebbero

dovuto procedere al risanamento degli enormi danni

provocati dalla guerra mondiale, creando una nuova forma di

sicurezza. L’ordine europeo che si voleva costruire era

minato alla base dall’incongruente fattore che ne stava alla

base, la divisione tra vincitori e vinti, impossibilitati a fruire

della stessa sicurezza che sarebbe spettata di diritto solo ai

primi.
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La pace di Versailles riuscì a gestire in parte l’eredità di tre

imperi, ma alimentò le fonti di nuovi disordini e creò

solamente una “pausa”, destinata a cedere il passo a nuove e

più forti rivalità fra gli Stati europei e soprattutto a nuovi

sanguinosi conflitti.

6.- E’ necessario inoltre evidenziare in modo particolare il

cambiamento sul piano delle relazioni internazionali

apportato dalle due nuove forze che si opponevano al sistema

democratico-liberale, così come si era consolidato nelle

potenze europee che avevano vinto la guerra: quella

rappresentata dal regime sovietico e quella fatta propria dal

nuovo ruolo internazionale degli Stati Uniti. Ambedue

rappresentavano una sfida alle potenze europee, anche nel

modo stesso di concepire la sicurezza.

La politica della Russia dei Soviet, infatti, innovò

radicalmente i rapporti di potenza tradizionali con la nuova

struttura politica e sociale della Russia, indebolendo la

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volontà dei vincitori della guerra di cercare un sistema di

sicurezza collettiva. Il processo rivoluzionario socialista che

prese le redini del potere guardava ad una nuova struttura del

sistema internazionale non più basato sullo “sfruttamento

capitalista” e puntava almeno in un primo tempo ad

“esportare” i princìpi della rivoluzione del proletariato. Si

pose subito agli occhi dei vincitori di Versailles il problema

del blocco e del contenimento della nuova realtà

internazionale: la sicurezza diventava un problema anche di

ordine interno.

Due assetti rivali si contrapponevano nel mondo agli occhi

dei nuovi padroni del Cremlino. Da una parte il capitalismo

economico e il colonialismo basato sullo sfruttamento tra le

classi e tra i popoli e destinato alla inevitabile fine.

Dall’altra, il sistema socialista basato sull’interdipendenza di

Stati e popoli e sull’interclassismo, che veniva incontro in

modo adeguato alle esigenze di eguaglianza e giustizia sia

all’interno degli Stati che nei rapporti fra essi.

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Due sistemi internazionali differenti che da quel momento

sarebbero stati destinati a scontrarsi o a incontrarsi

provvisoriamente sul piano diplomatico, soprattutto quando

dopo la logica del “cordone sanitario” istituita dall’occidente

europeo avrebbe preso piede la logica del socialismo in un

solo Paese.

Del resto, la profonda crisi sociale che investì l’Europa

dopo la guerra mondiale, insieme al problema del

risanamento finanziario, con l’aggiunta del timore

generalizzato che l’esperimento rivoluzionario sovietico

potesse diffondersi nell’Occidente, crearono un insieme

articolato di visioni e valutazioni solo su scala nazionale, in

relazione alle misure da prendere, ma non una visione

strategica complessiva e una univoca ricerca di una sicurezza

diversa dal passato.

L’altro errore si collegava a quella creazione indicata da

Wilson nel quadro del suo piano di ricostruzione della

stabilità e della pace europee e internazionali, destinata a

scoraggiare gli aggressori e alla composizione pacifica delle


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controversie internazionali, la Società delle Nazioni, la cui

istituzione divenne parte integrante del Trattato di Versailles

imposto alla Germania.

La Società delle Nazioni - con i suoi organi, Assemblea,

Consiglio, Segretariato permanente - non fu in grado di far

rispettare le regole della nuova convivenza internazionale e di

creare una comune visione dei problemi internazionali, così

da scoraggiare l’evolversi delle crisi in guerre e l’aggressione

da parte di uno Stato ad un altro.

Le decisioni politiche prese dalla SdN come quelle relative

alle sanzioni (soprattutto economiche) verso lo Stato

aggressore non si rivelarono efficaci, così come l’impegno da

parte degli Stati Membri a non concludere trattati segreti o a

realizzare il disarmo.

7.- Il principio base della sicurezza collettiva, nulla più che

una connotazione prevalentemente politico-culturale ereditata

dal wilsonismo, non riuscì a inserire i rapporti tra le Nazioni


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in uno schema giuridico internazionale superiore agli

interessi degli Stati.

La stessa assenza dello Stato promotore della SdN, gli Stati

Uniti, lasciava di nuovo sole le potenze europee nel risolvere

le loro controversie. Il vecchio principio dell’equilibrio fra

le potenze venne non distrutto ma riformulato, e al suo posto

non venne creato alcun ordine internazionale sostitutivo. Gli

obiettivi wilsoniani si erano rivelati come una vera e propria

rivoluzione, ma al tempo stesso non indicavano i mezzi per

attuarli. E tutto ritornò in possesso della diplomazia di

vecchio stampo.

Dall’altro lato, la esclusione da questo precario sistema

dell’altro nuovo protagonista delle relazioni internazionali del

dopoguerra, la Russia sovietica, vista come un nemico del

sistema internazionale, contribuiva a limitare il già ristretto

raggio d’azione dell’organizzazione ginevrina, con

l’inevitabile prevalere all’interno della Società delle Nazioni

degli interessi franco-inglesi basati ancora sulla politica di

potenza. Anche questo era un potente fattore limitativo per la


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creazione di una efficace e condivisa sicurezza

internazionale.

Un nuovo “ordine“ nasceva, ma mancavano appunto

elementi fondamentali per originare una salda sicurezza: in

primo luogo la partecipazione di tutte le potenze a un sistema

credibile e fattibile.

Il potenziale produttivo della Germania era ancora in piedi

e faceva ancora paura per un futuro ritorno del militarismo

tedesco: era il fattore che incentivava una forte esigenze di

“sicurezza” da parte in particolare di Parigi e che faceva sì

che la Francia proseguisse – non seguita su questa via dalla

Gran Bretagna – nella sua politica di “punizione” verso la

Germania.

L’auspicato trattato di garanzia supportato dagli anglo-

americani contro le eventuali violazioni tedesche del Trattato

di Versailles non si realizzò così da venire incontro alle

esigenze francesi e la preminenza acquista dagli Stati Uniti

sul piano mondiale non si tradusse in impegni concreti a

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causa del parziale ripiegamento su se stessi, limitandosi a

sostenere princìpi puramente politici relativi al nuovo ordine

internazionale.

Alla mancata realizzazione della sicurezza per la Francia -

accentuata dalla non volontà britannica di avere impegni di

sorta con Paesi del Continente - con l’effimera ipotesi del

patto di garanzia anglo-franco-americano - corrispose in

modo inevitabile l’insistenza di Parigi sul pagamento delle

riparazioni creando un disastroso connubio tra difesa

dell’equilibrio territoriale e problemi finanziari

internazionali.

Insomma, il sistema di sicurezza che ci si illuse di creare

era in realtà basato essenzialmente sugli interessi strategici

francesi. Il disarmo che fin da allora si auspicava come

panacea per evitare un altro bagno di sangue, venne

interpretato come disarmo della sola Germania per

indebolirla politicamente ed economicamente.

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8.- Tale sistema produsse alla lunga l’effetto contrario, in

quanto la Germania avrebbe presto recuperato le sue forze,

perfettamente consapevole che – di fronte alla nuova

sistemazione di Versailles – la sua posizione geopolitica

restava pur sempre forte.

Dopo l’avventura dell’occupazione della Ruhr nel 1923

(che mise in crisi l’immagine internazionale della Francia e

portò alla nota “resistenza passiva” tedesca e ai tentativi

separatisti renani) il problema irrisolto della sicurezza si unì a

quelli del ritorno dell’attenzione internazionale nei confronti

dell’arbitrato e del disarmo con il rilancio del ruolo della

Società delle Nazioni.

La concomitanza dei governi di sinistra e laburista a Parigi

e Londra riproposero questa speranza e si arrivò al

“Protocollo di Ginevra” con l’inserimento nel testo del

documento dell’”arbitrato obbligatorio” e del possibile

ricorso alla forza contro chi avesse da allora in poi violato il

patto della SdN e lo stesso protocollo.

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Quando si passò alla ratifica del progetto da parte dei vari

Stati, il cambio di governo in Gran Bretagna, con il ritorno

dei conservatori al potere, segnò la fine di questo ambizioso

obiettivo, poiché a Londra prevalsero i nemici di qualsiasi

impegno inglese per la stabilità del Continente, supportati dal

parere negativo anche da parte dei Dominions britannici.

Il prevalere di un atteggiamento negativo anche da parte

dell’Italia fascista fornì anzi il motivo di un riavvicinamento

tra Londra e Roma nel 1924-1925, mentre invece

peggiorarono i rapporti - fino ad allora buoni - tra Italia e

Francia, a causa del rifugio che ivi trovavano i fuoriusciti

antifascisti.

Il problema fondamentale della “sicurezza collettiva”

consisteva nel fatto che essa avrebbe funzionato con

l’”interpretazione” lasciata agli Stati nazionali

dell’applicazione dei suoi princìpi caso per caso e anche

sull’anomalia della mancata convergenza di tutte le parti

coinvolte sulla constatazione che esisteva una minaccia e che

occorreva impiegare la forza comune per combatterla.


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Altro problema era costituito dal fatto che il “disarmo”

(disarmo innanzitutto tedesco per la Francia) avrebbe dovuto

essere accettato e firmato da tutti gli Stati nell’ambito della

Società delle Nazioni, quando invece era ancora un progetto

nebuloso da concludersi in un lontano futuro. A Ginevra

divenne più che visibile l’anomalia esistente nel rapporto

costituito tra la volontà di resistere alle aggressioni e la

volontà di procedere al disarmo, segnata dalla

sottovalutazione di una comune concezione della sicurezza

che quelle aggressioni avrebbero dovuto impedire.

Le considerazioni geopolitiche e geostrategiche che

avevano costituito fino alla prima guerra mondiale la base del

confronto sempre più duro fra le potenze venivano

tranquillamente dimenticate. La “sicurezza” internazionale

veniva a trovarsi in una sorta di vuoto di potere.

La resistenza ad una aggressione veniva condizionata al

verificarsi del disarmo, senza valutare le ragioni geopolitiche

e strategiche in base alle quali gli Stati si erano sempre fatti la

guerra. Se essi l’avessero compreso avrebbero capito che il


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sistema delle relazioni politiche ed economiche internazionali

era profondamente mutato così da non poter riproporre la

vecchia politica dell’equilibrio a vantaggio degli Stati più

forti.

La fine del Protocollo di Ginevra riportava in alto mare il

problema di una “garanzia” generale per la sicurezza europea.

Ma la guida della politica francese e tedesca in mano ai due

fautori di un superamento delle tensioni precedenti, come

Aristide Briand e Gustav Stresemann portò improvvisamente

a un risultato inaspettato anche se di portata più limitata

rispetto al Protocollo.

9.- Il risultato fu la Conferenza di Locarno dell’ottobre 1925,

segnata dal riconoscimento tedesco (nel momento in cui

entrava in funzione il Piano Dawes e la stessa Germania

iniziava a uscire dalla crisi economica) dei confini con

Francia e Belgio, con la creazione di un generale clima di

fiducia, anche se l’abile politica dello statista tedesco non

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metteva fine al revisionismo di Berlino. Si trattava di una

normalizzazione formale dei rapporti franco-tedeschi e di

quelli europei in generale che metteva in moto anche il ritiro

francese da quelle zone tedesche occupate alla fine della

guerra.

Tra l’altro Mussolini - garante dell’accordo renano con

l’Inghilterra - non riuscì a ottenere una identica garanzia

internazionale contro il temuto (anche da Parigi) Anschluss

austro-tedesco, accentuando il contrasto italo-francese che già

trovava ampio terreno di applicazione nell’Europa balcanica..

Il mancato riconoscimento dei confini orientali lasciava

inoltre in piedi la forte preoccupazione degli Stati

dell’Europa orientale che la Francia tentò di rassicurare con

strumenti diplomatici di basso profilo come le due

convenzioni di arbitrato estese a tutti i Paesi dell’area, e

infine allegando i due trattati di alleanza stretti con la Polonia

e con la Cecoslovacchia.

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Il fatto che a Locarno si fosse addivenuti alla formazione di

due diversi livelli di “garanzie” in Europa costituiva - insieme

all’accresciuto ruolo di una Germania pur sempre

“revisionista” nei confronti del Trattato di Versailles -

l’inizio di una profonda sia pur involontaria modifica del

“sistema” di Versailles e paradossalmente impediva il

raggiungimento di un sistema di sicurezza generalizzato.

Un superamento delle condizioni geopolitiche del 1919-20

venne suggellato sia dall’ingresso nel 1926 della Germania

nella Società delle Nazioni che dalla firma tra Germania e

Unione Sovietica di un trattato di neutralità e non aggressione

che, tra l’altro, avrebbe permesso a Berlino di praticare una

sorta di riarmo segreto proibitole a Versailles.

La conclusione delle intese di Thoiry fra Briand e

Stresemann e l’ingresso conclamato della Germania nella

Società delle Nazioni sembrarono trovare la svolta decisiva

per la sicurezza collettiva. Ma Berlino abilmente continuava

a non riconoscere ufficialmente l’ordine stabilito a Versailles,

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sfruttando i vantaggi economici e finanziari che dalla

riconciliazione franco-tedesca le pervenivano.

Che la Germania guardasse soprattutto al rafforzamento del

suo ruolo geopolitico sul Continente emerse con chiarezza

con la politica di espansione economica (e poi politica) verso

i deboli Stati dell’Europa Orientale. La Francia iniziò ad

accontentarsi di una debole politica “difensiva” nei confronti

di un ritorno della Germania a grande potenza mentre nel

1926 Berlino concluse con la Russia sovietica un altro

importante trattato che si conciliava perfettamente con questa

strategia a lungo termine.

10.- La fine del periodo della sicurezza collettiva – che ebbe

un altro momento purtroppo solo simbolico con la firma del

Patto Briand-Kellogg nel 1928 contro il ricorso alla guerra

per la risoluzione delle controversie internazionali - trovò la

sua fine con il deterioramento degli aspetti economico-

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finanziari internazionali e con il forte rilancio degli interessi

nazionali in antagonismo fra loro.

Il Patto Briand-Kellogg, nato da una originaria proposta di

patto franco-americano, fu una sorta di illusione collettiva,

con la persuasione che la condanna dell’aggressore non

avrebbe apportato danni alla politica di potenza che ancora si

voleva perseguire. Apportò senz’altro un altro contributo alla

riconciliazione franco-tedesca e un altro progresso nella

annosa questione dell’evacuazione delle residue forze

dell’Intesa in alcune città tedesche. La smilitarizzazione

della Renania imposta a Berlino con il Trattato di Versailles

costituiva il nucleo principale della sola sicurezza francese.

La scomparsa quasi simultanea dei due grandi statisti che

avevano segnato quell’epoca, Stresemann nel 1929 e Briand

nel 1930, dopo aver quest’ultimo inutilmente tentato di creare

una nuova realtà politica europea con il suo progetto di

“Unione”, fu un altro simbolico momento chiave della fine di

un’epoca, l’ultimo tentativo di arrivare alla sicurezza

collettiva nel quadro di una unione politica più ampia


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L’Unione federale europea voluta Briand, basata sul

presupposto di unire l’Europa per salvarla da future guerre

distruttive, aveva già alle spalle una certa mobilitazione

culturale in Europa (basta pensare al movimento “Pan-

Europa” del conte austriaco Coudenhove-Kalergi).

Tuttavia, il Memorandum che fu consegnato alla Società

delle Nazioni nel maggio 1930 rispondeva anche a un

progetto politico ben preciso, destinato ad aumentare la

sicurezza francese e basato tuttavia con il mantenimento un

po’ contraddittorio del principio del rispetto

dell’indipendenza e della sovranità nazionale. Si tradusse in

una logica continuità delle garanzie di Locarno e in generiche

ipotesi giuridiche di cooperazione nel campo economico-

sociale.

Cadde in pratica nel nulla quando iniziò ad essere trattato

nell’ambito dei lavori di una specifica commissione della

SdN, offuscato da vaghi dibattiti e poi annullato dal nuovo

crescente clima di insicurezza e di tensione internazionali.

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L’illusione della sicurezza collettiva nel 1930 dimostrò la

sua caducità anche con la Conferenza per il disarmo navale di

Londra. Avrebbe dovuto riprendere il discorso di 8-9 anni

prima avviato con la Conferenza di Washington, ma il livello

di potenza raggiunto da alcuni dei protagonisti segnò

immancabilmente l’insuccesso di questo nuovo tentativo di

limitare le costruzioni navali anche di tonnellaggio inferiore.

La politica di potenza sempre più manifesta da parte del

Giappone e l’attenta politica di disimpegno portata avanti

dalla Gran Bretagna rispetto agli impegni presi con gli Stati

del Continente segnavano il rilancio di politiche

estremamente attente alla tutela degli interessi nazionali.

Ma ormai gli effetti della crisi economica internazionale

stavano condizionando sempre di più il quadro politico

internazionale. Il revisionismo della Germania in Europa e

del Giappone nel teatro dell’Asia orientale provocarono un

mutamento rapido dell’equilibrio raggiunto tra il 1919 e il

1922 alle conferenze di Versailles e di Washington.

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In Europa gli irrisolti problemi degli squilibri e degli

antagonismi etnico-territoriali, aggravati dalla pesante crisi

economica mondiale - che colpì in modo particolare le già

fragili economie dell’Europa Orientale - assistettero ad un

rilancio generalizzato dei revisionismi e, di conseguenza,

della rivalità tra le potenze maggiori.

Si inaugurò un periodo di transizione, tra crisi economica

internazionale e nomina di Hitler a cancelliere tedesco, in cui

non si verificò alcun tentativo per cercare di ottenere un

equilibrio più avanzato così da poter sviluppare una

cooperazione fra gli Stati.

In Europa il tentativo di Anschluss economico del 1931 dai

governi tedesco e austriaco e la improduttiva Conferenza

economica del 1933, cui parteciparono i governi europei e

americano (da poco era venuto alla Casa Bianca F.D.

Roosevelt) per cercare un accordo in campo monetario

divennero il simbolo di questa incapacità,

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Fra questi estremi, si collocarono il primo grave insuccesso

della Società delle Nazioni quando il Giappone nel 1931

volle risolvere con l’aggressione la questione della Manciuria

e iniziò la farraginosa e inconcludente Conferenza per il

disarmo terrestre di Ginevra nel gennaio 1932. Era né più né

meno che la fine dell’illusione di Versailles di creare una

sicurezza collettiva sulla base della convinzione delle potenze

che era giusto e utile arrivare a questo.

Nel corso della Conferenza per il disarmo si ripropose il

dilemma tra sicurezza francese e aspirazione tedesca a

modificare le imposizioni di Versailles e gli equivoci vennero

definitivamente alla luce. Nel mezzo di questa disputa che

privava la Conferenza di qualsiasi possibilità di esito

positivo, arrivò al potere Hitler.

11.- Distrutti l’imperialismo tedesco e giapponese nel 1945,

grazie alla inusuale “alleanza” tra le due potenze

anglosassoni e l’Unione Sovietica di Stalin, la sicurezza

assunse aspetti tradizionali, in parte diversi, a causa


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soprattutto del fatto che la pace e l’equilibrio auspicati più

ancora del dopo prima guerra mondiale venivano collocati in

un ambito “mondiale” e non più solo eurocentrico.

La sicurezza stessa acquisiva una dimensione mondiale.

Ma i tre grandi avevano idee diverse su come raggiungerla.

Churchill intendeva ripristinare il vecchio equilibrio delle

potenze, recuperando per la Gran Bretagna un ruolo mondiale

di primo piano e mirando a costituire un contrappeso

all’URSS formato da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna ma

con quest’ultima come primus inter pares. Roosevelt,

ripristinando molto del bagaglio politico-culturale di Wilson,

puntava a un ordine internazionale completamente diverso,

con una sicurezza estesa a tutti gli Stati grazie alla

supremazia del diritto e delle libertà democratiche

fondamentali, sul piano dei rapporti sia politici che

economici, antidoto contro il risorgere di totalitarismi e

imperialismi. Ma voleva che questo nuovo ordine

coinvolgesse direttamente le potenze vincitrici, soprattutto

l’URSS, costituendo una sorta di “polizia” mondiale in grado

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di tutelare pace ed evitare aggressioni. L’ONU, di diretta

ispirazione americana, simboleggiava questa inevitabile

antinomia tra una partecipazione su uno stesso piano di tutti

gli Stati e un gruppo ristretto di essi con le responsabilità

maggiori per il mantenimento della sicurezza internazionale.

Ben altro concetto di sicurezza nutriva Stalin, volto a

espandere verso ovest i confini russi, estendendo influenza

politica e ideologica e creando una fascia di Stati cuscinetto

attorno alla Russia onde evitare future aggressioni.

Si sarebbe ripristinato secondo l’impostazione di Roosevelt,

che Stalin sembrava accogliere e Churchill era costretto ad

assecondare, un nuovo sistema di “sicurezza collettiva”,

molto lontano da quello anomalo e improduttivo degli anni

Venti e in realtà molto simile alla Santa Alleanza post-

napoleonica. Il problema della sicurezza ruotava così intorno

alle modalità con le quali i tre Grandi sarebbero riusciti a

conciliare le loro diversità.

Una certa animosità anti-europea, come si rileva dagli stessi

complessi rapporti tra Roosevelt e Churchill, caratterizzava il

32
governo americano. Per questi non si sarebbe mai più tornati

alla politica delle sfere di influenza, alle alleanze tradizionali,

all’equilibrio delle forze o a qualsiasi altro esperimento del

passato applicato dalle nazioni per salvaguardare la propria

sicurezza o tutelare i propri interessi. La sicurezza sarebbe

stata di tutti e non più di singoli Stati o alleanze.

Ma il nuovo approccio all’ordine mondiale formulato da

Roosevelt era destinato a incontrare l’opposizione della Gran

Bretagna quando si parlò di restituire libertà e dignità a tutti i

popoli, cominciando a demolire l’ordine coloniale, e

l’opposizione dell’Unione Sovietica quando si parlò di

impegno comune per l’ordine post-bellico al di fuori degli

interessi specifici per la sicurezza sovietica.

12.- La sovraestensione dell’URSS fino all’Europa centrale,

con tutte le violazioni della “Dichiarazione sull’Europa

liberata” firmata dai Tre a Jalta, divenne inevitabile e

irreversibile alla fine della guerra. Le contrapposizioni della

guerra fredda, politiche, economiche, sociali, soprattutto

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ideologiche presero il sopravvento e l’Europa fu il centro di

un confronto tra due blocchi che si trascinò per più mezzo

secolo. La nuova sicurezza collettiva ideata alla fine della

guerra non riuscì a svilupparsi: un vuoto enorme di potere si

era creato in Europa: la formazione dei blocchi, con il

successivo radicarsi del bipolarismo, impose una nuova

edizione delle sfere di influenza e di egemonia.

Limitandoci a fare qualche osservazione solo per quanto

riguarda la problematica della sicurezza occidentale, la

costituzione dell’Alleanza atlantica e, con l’organizzazione

della sua struttura operativa, della NATO divennero il punto

di riferimento essenziale.

Balza subito agli occhi, con la creazione della NATO, la

differenza in termini di finalità e di efficienza tra sicurezza di

alleanza e sicurezza collettiva. Questa prendeva di mira

l’eventuale aggressore che poteva essere parte dello stesso

ordine della sicurezza collettiva, l’alleanza era invece diretta

contro un potenziale nemico esterno dal quale attendersi

minacce e tentativi di aggressione a uno o più membri

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dell’alleanza; quindi con una netta differenziazione tra chi è

parte di essa e chi ne è fuori. L’approccio universalista della

sicurezza collettiva cedeva il passo ad un ben preciso e

costante impegno politico-militare degli Stati membri

dell’alleanza. L’attivazione della sicurezza diventava una

costante anche in tempo di pace e non una decisione

occasionale.

Per gli europei c’era anche da considerare il fatto che la

scelta fu in un certo senso obbligata per attivare una credibile

sicurezza, poiché non esistevano alternative credibili. Inoltre,

è importante rilevare che con questa scelta la sicurezza

internazionale si veniva a trovare intimamente connessa alla

sicurezza politica interna, alla luce del particolare momento

storico in cui si realizza. I princìpi e i valori comuni

inducevano i governi partecipanti a condividere le necessità

della loro sicurezza, a considerare la minaccia esterna come

una minaccia per tutti, anche se sfumature diverse non

sarebbero poi mancate nei decenni successivi da parte degli

europei stessi.

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L’Alleanza atlantica non vedeva un equilibrio di forze al

proprio interno fra gli Stati membri, ma produceva un

interesse comune, portava a vedere gli interessi della propria

sicurezza sullo stesso piano di quella degli altri. Ciò portò a

concepire la sicurezza non solo come una sommatoria di

impegni reciproci in caso di minaccia ma soprattutto come un

obiettivo condiviso supportato da una rete istituzionale in

grado di rendere l’Alleanza un vero soggetto internazionale,

con diverse procedure per la comunicazione e il

coordinamento comuni.

Condivisione, legittimazione e istituzionalizzazione erano

dunque le caratteristiche fondamentali per la sicurezza dei

Paesi membri della NATO, anche se gli alleati ebbero al suo

interno fin dall’inizio un diverso peso politico e militare.

13.- La comunità di sicurezza euro-atlantica riuscì a

conciliare la domanda di sicurezza di tutti i suoi membri

originari e anche di quelli che nel corso dei decenni vi

aderirono, creando una sempre più perfezionata

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“interdipendenza” di natura militare tra America ed Europa

occidentale, ma in un sistema più vasto di relazioni politiche,

culturali ed economiche. I principi e gli ideali condivisi non

hanno mai perso di attualità, sia nei momenti di tensione Est-

Ovest, sia quando si sviluppò e si rafforzò la “distensione”.

La NATO come sistema di sicurezza è stata sempre

contraddistinta dallo sforzo di adattarsi all’ambiente

internazionale circostante. Sistema internazionale e sistema

di alleanza hanno finito, anzi, per riflettersi l’uno nell’altro,

interagendo. L’uno ha finito per sfumare sempre più

nell’Alleanza e viceversa. La guerra fredda in altri termini ha

finito nei suoi lunghi decenni per istituzionalizzare l’Alleanza

rendendola funzionale non solo alla sicurezza degli Stati

membri ma allo stesso sistema internazionale. Lo stallo tra i

due blocchi, in particolare lo stallo nucleare espresso dalla

formula del Mad, la reciproca distruzione assicurata, ha fatto

dell’Alleanza uno dei pilastri del pur fragile ordine

internazionale.

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La continua trasformazione istituzionale della NATO ha

sempre confermato l’assunto iniziale in base al quale la difesa

collettiva avrebbe mantenuto la sicurezza degli Stati aderenti.

Anche se le dottrine di impiego delle forze integrate

cambiarono con il mutare delle relazioni internazionali e

della stessa tensione tra i due blocchi.

Tuttavia, non tutti gli europei nella NATO manifestarono la

stessa percezione della sicurezza comune. Le stesse crisi Est-

Ovest che si susseguirono nell’arco di mezzo secolo

assistettero a varianti di soluzioni che non poche volte

contrapposero gli interessi europei a quelli americani.

Tentativi per alterare il rapporto asimmetrico con l’alleato

più forte apportarono nel corso dei decenni qualche tensione,

come ad esempio la condanna americana dell’azione militare

anglo-francese a Suez nel 1956 e l’uscita di uno Stato

membro, la Francia, dall’organizzazione militare dieci anni

dopo. Ma la capacità di produrre sicurezza da parte

dell’Alleanza atlantica non venne mai meno. La struttura

dell’organizzazione è rimasta “rigida” per quanto riguarda

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princìpi e valori, ma allo stesso tempo abbastanza “flessibile”

per superare indenne i momenti più difficili.

La sicurezza di uno degli Stati membri, alla luce della

unicità della minaccia, non venne mai disgiunta da quella di

tutti gli altri. Questa “indivisibilità della sicurezza” ha

tuttavia indotto, nel quadro dell’evoluzione del bipolarismo,

alcuni Stati membri a verificare se i propri interessi nazionali

di sicurezza fossero in linea con quelli collettivi.

Si può rilevare, di conseguenza, la forza dell’Alleanza

atlantica nel perseguire l’interesse comune – il

“contenimento” della pressione del blocco sovietico –

malgrado il persistere di interessi particolari degli Stati

membri. La diseguaglianza del potenziale politico e militare

tra gli Stati membri nel perseguire la sicurezza comune non

ha impedito, quindi, una visione del sistema internazionale

con lo stesso approccio. Per quanto riguarda la “domanda” di

una sicurezza comune questa situazione ha di fatto

“semplificato” la stessa domanda di garanzia rivolta dagli

alleati europei all’alleato maggiore, gli Stati Uniti.

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14.- Finita la “guerra fredda” e terminato il lungo confronto

tra i due blocchi con l’apparente “vittoria” dell’Occidente,

l’implosione dell’URSS e la fine dei regimi totalitari in

Europa Orientale, la forma dell’Alleanza atlantica si è

rivelata in grado di sopravvivere nonostante i profondi

mutamenti del sistema internazionale. La NATO è rimasta

con la sua struttura ed i suoi compiti anche con la scomparsa

del “nemico” tradizionale, adeguando la sua dottrina

strategica e per nulla intenzionata a rinunciare al suo ruolo

fondamentale per la sicurezza europea e a ridimensionare la

propria vitalità politica e militare.

Del resto, la stessa sicurezza europea è mutata

profondamente, alla luce delle nuove “minacce” e dei nuovi

“rischi”: dal ritorno della guerra convenzionale (i conflitti

etnici nella ex Jugoslavia) al terrorismo internazionale ed al

mutamento anche della minaccia divenuta nell’era della

globalizzazione “trasversale” alle dimensioni esterna e

interna degli Stati.

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La difesa del “territorio” degli Stati membri non ha perso la

sua funzione ma l’aumento delle dimensioni della sicurezza

ha consentito alla NATO di continuare a svolgere il suo ruolo

volto alla promozione della stabilità in Europa, arricchendolo

anzi con tutta la gamma delle missioni multinazionali “fuori

area” per la stabilità e il mantenimento della pace nelle aree

regionali divenute teatro di conflitti.

Uno degli aspetti più rilevanti di questa nuova funzione di

tutela della sicurezza dopo la fine della guerra fredda è

l’ampliamento graduale agli Stati dell’Europa Orientale che

appartenevano al blocco politico-militare avversario e che a

causa dei problemi nei rapporti con la nuova Federazione

russa sono alla base di una nuova edizione della “domanda”

di sicurezza territoriale.

I “concetti strategici” dell’Alleanza si sono continuamente

aggiornati anche di fronte a questo problema confermando

comune impegno e reciproca cooperazione nella difesa

comune e riproponendo il concetto base dell’”indivisibilità

della sicurezza”. La “continuità” delle funzioni dell’Alleanza

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atlantica ha garantito anche la partecipazione degli Stati Uniti

a tutela della sicurezza europea di fronte ai nuovi rischi,

malgrado le novità imposte dal grande dibattito

sull’”unipolarismo” americano e sui nuovi interessi strategici

americani nel mondo globalizzato. Anzi, in un certo senso il

persistere dell’Alleanza atlantica ha di fatto fornito una

soluzione adeguata al dilemma tra unilateralismo e

multilateralismo.

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