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europea- Motta
Cap. 1- La tutela internazionale delle minoranze. Dalla caduta dei grandi Imperi
all'integrazione europea
1.1 le nazioni europee e il crollo degli imperi
Nel corso del XIX secolo, e ancor più nel XX , l'affermazione del diritto di ogni popolo
all'autodeterminazione, alla creazione di uno Stato nazionale proprio o a uno status di maggiore
autonomia all'interno dei grandi contenitori etnici rappresentati dagli imperi - asburgico, ottomano e
zarista - produce pericolose sovrapposizioni fra i concetti di Stato e nazione. I due termini
definiscono processi diversi poiché, mentre lo Stato è costituito da un insieme di strutture che
operano su un determinato territorio in una dimensione organizzativa; la nazione è una comunità
percepita come tale dai suoi membri, in un’ottica culturale, naturale e politica.
“Nello Stato nazionale si vide il culmine dello Stato moderno: è la nazione - meglio la
nazione-popolo - a esprimersi, tramite la riconquistata sovranità, attraverso la personalità dello
Stato, che le da unità e capacità di agire: protagonisti della Storia non sono più i re, ma le nazioni,
o meglio lo Stato nazionale”
La nazione si fonda su criteri differenti nel singolo caso: esistono lingue comuni a più nazioni e
nazioni con più lingue, e lo stesso si può dire per cultura e religione, elementi variabili che
definiscono tale costruzione "ideologica". Se per Marx e Weber l'origine delle nazioni europee
coincide con il consolidamento dello Stato moderno, burocratico e accentrato, altri possibili
approcci tendono a inquadrare la nazione in termini di uno sviluppato sistema di comunicazioni
interne istituzionalizzate che crea un senso di comune identità (Benedict Anderson), altri ancora
insistono invece sul carattere psicologico del fenomeno o su criteri come la scolarizzazione di
massa (Ernest Gentler), la socializzazione informale o l'origine etnica (Anthony D. Smith). Alcuni
teorici marxisti mettono in relazione la comparsa del nazionalismo con una certa fase dello
sviluppo economico, come una reazione all'imperialismo. Nelle società europee, all'epoca in cui si
stavano definendo gli Stati nazionali, in alcuni paesi andava emergendo con successo la nuova
classe borghese che diventerà protagonista dei fenomeni di trasformazione, politici, sociali ed
economici. Nell'Europa del dopo-Westfalia, in Inghilterra, in Francia e nei Paesi Bassi, le
minoranze partecipano attivamente al processo complessivo di evoluzione. I calvinisti e gli ebrei in
Olanda, come i puritani in Inghilterra che affermano un nuovo modo di pensare il lavoro.
La teoria della scomposizione in fasi dei movimenti nazionalisti afferma che essi partono da una
ristretta classe media e superiore per poi instaurarsi come fenomeno di massa, aumentando
contemporaneamente le proprie rivendicazioni fino alla richiesta della completa indipendenza. Vi è
poi la visione romantica del nazionalismo, diffusa dal Risorgimento italiano e in Germania, in cui
l'appartenenza nazionale si fonda su elementi etnico-culturali. É necessario inoltre considerare
che nazionalità e cultura sono quasi sinonimi, in quanto si possono ricondurre agli stessi termini,
identità, lingua, istruzione, religione, arti, scienze, di modo che si puo analizzare il fenomeno
nazionalista come l'equazione risultante dalla somma dei fattori politica, economia e cultura, a
ciascuno dei quali in ogni singolo caso è attribuito un peso particolare.
Tutti questi elementi, usati per definire la "coscienza nazionale" di un popolo, si manifestano con
sempre maggiore evidenza fino al crollo dei grandi Imperi, momento in cui vengono destinati a
fungere da presupposti per fondare il nuovo assetto dell'Europa centro-orientale e dei Balcani,
regioni la cui storia è fondata sull'incontro e la mescolanza di gruppi etno-nazionali. In zone di
reciproco contatto come la Transilvania, la Macedonia e il settore adriatico vi è un profondo
fenomeno di compenetrazione contraddistinto dall'apparizione dell'interculturalità e del
plurilinguismo. Risulta dunque arduo far coincidere Stato e nazione,
in molti casi a queste entità statali di carattere omogeneo,corrispondono infatti gruppi di diversa
appartenenza etnica. I popoli non risultano separati da chiare frontiere naturali e rimangono divisi
dai confini che vengono fissati in seguito alla conferenza di pace successiva alla Grande Guerra,
lasciando in ogni paese minoranze nazionali, comunità che, pur entrando in relazione con un
gruppo maggioritario, si distinguono da quest'ultimo-
mo per determinati fattori di riferimento identitario. Si crea un alto rischio di conflitti di natura etnica
fra la maggioranza e i gruppi minoritari.
Non esiste tuttavia una definizione universalmente accettata del termine minoranza; si distingue fra
gruppi etnici o nazionali, minoranze senza madrepatria o invece legate a un altro Stato, etnia ed
etnicità, senza poter fissare in maniera univoca i connotati essenziali di tali gruppi. Claude afferma
che essa esiste quando un gruppo di persone all'interno di uno Stato esibisce la convinzione di
rappresentare una nazione distinta dall'elemento maggioritario della popolazione; Laponce mette
invece in risalto la paura di una comunità di essere ostacolata nell'integrazione con il gruppo
dominante, mentre altri come Francesco Capotorti distinguono "minorities of force" e "minorities of
will"". Anche Ernest Gellner analizza le minoranze come etno-nazioni che hanno fallito il loro
obiettivo dell'indipendenza nazionale all'interno di un proprio Stato e così devono vivere all'interno
dei confini di altri Stati-nazione. Una definizione generale, quantunque evidenzi sia gli elementi
oggettivi come residenza o cittadinanza sia quelli soggettivi come la volontà di conservare gli
elementi costitutivi della propria particolare identità, rischia di non risultare chiaramente adattabile
ai singoli casi. Nell'analisi delle diverse questioni minoritarie si evidenziano di volta in volta caratteri
diversi.
I primi esempi di tutela della minoranze risalgono ad alcuni trattati del XVII sec., Westfalia (1648) e
Oliva (1660), che contengono clausole poste a protezione di gruppi appartenenti a confessioni
religiose diverse da quella ufficiale dello Stato, i protestanti nei principati tedeschi e i cattolici della
Livonia. La pace di Westfalia, convenzionalmente indicata come punto di rottura fra la concezione
medievale e quella moderna delle relazioni internazionali, sancisce la formazione di un nuovo
assetto europeo, in cui si va consolidando l'idea di tolleranza verso le comunità religiose
minoritarie. II problema delle minoranze emerge però con più chiarezza solo nella seconda metà
del XIX secolo (a Parigi e a Berlino), quando durante le trattative di pace per la delimitazione dei
confini dei primi Stati indipendenti si inizia a prendere in considerazione anche l'etnia della
popolazione che risiede in quei territori e nei trattati sono poste clausole a salvaguardia di tali
comunità. II sentimento nazionale non si è ancora cristallizzato nelle masse popolari e nella
coscienza collettiva, ma è legato ai suoi aspetti più squisitamente sociali.
Nei Balcani nasce e si sviluppa la "Questione d'Oriente". II declino dell'Impero Ottomano è segnato
da continue ribellioni, come quelle che nella prima metà dell'Ottocento portano la Serbia
all'autonomia e la Grecia all'indipendenza, e presenta implicazioni di carattere internazionale che
rendono l'area balcanica soggetta alle mire espansionistiche di Mosca e Vienna. La guerra di
Crimea (1853-1856) e quella russo-turca del 1877 scandiscono le ulteriori fasi di questo processo
e portano la Romania, la Serbia e il Montenegro a ottenere la formale indipendenza dal sultano. II
nuovo assetto europeo stabilito al Congresso di Berlino (1878), spesso indicato come il momento
di maturazione della questione balcanica, mortifica le aspirazioni di Russia e Bulgaria, rompendo in
tal modo la solidarietà della comunità ortodossa. La Serbia si fa portavoce dei progetti di unione
degli slavi del sud Questo progetto politico costituisce una seria minaccia non solo per la duplice
monarchia, che nel 1908 annette la Bosnia-Erzegovina, ma anche per gli albanesi, i quali
sviluppano una prima forma di resistenza nazionale, per la Bulgaria divenuta indipendente nel
1908 e per la Grecia, entrambe intenzionate a espandersi in Macedonia.
Il crollo degli Imperi, al termine della Grande Guerra, permette che tali rivendicazioni nazionali
possano trovare pratica soddisfazione, e anche più, portando alla creazione di nuovi Stati nazionali
o al completamento di quelli già indipendenti. In questa fase la questione delle minoranze
acquisisce un alto grado di visibilità, poiché coinvolge un'ampia zona d'Europa e un intero sistema
di relazioni internazionali.
A Parigi, ove si tengono le negoziazioni al termine della 1GM, la diplomazia europea perde quella
centralità delle epoche precedenti e si deve confrontare con la nuova grande potenza, gli Stati
Uniti e con l'idealismo del presidente americano Wilson, il cui programma di ricostruzione,
presentato nel gennaio del 1918, dedica molta importanza alla libertà degli Stati e al principio di
autodeterminazione dei popoli. Mentre il punto V sulle colonie non esprime alcun anticolonialismo
di principio, ma dispone che gli interessi delle popolazioni debbano avere un peso uguale a quello
dei governi; il X proclama il diritto all'autodeterminazione dei popoli, ma non sembra implicare
obbligatoriamente lo scioglimento di ogni unione federale dell'Austria-Ungheria e l'XI propone che i
nuovi
confini vengano stabiliti sulla base delle nazionalita, degli interessi economici e dei diritti storici.
Prende vita inoltre il progetto della Società delle Nazioni.
Solo in un secondo momento, dunque, alle tradizionali richieste di autonomia e di riforma in senso
federale dell'Impero sembra essersi sostituita una chiara rivendicazione di indipendenza. Tale
cambiamento di strategia viene operato soprattutto grazie a quei consigli rappresentativi che si
sono formati all'estero, lontano dalle zone di guerra, e che rimangono maggiormente influenzati dal
programma americano fondato sull'autodeterminazione dei popoli. L'iniziativa diplomatica
americana si era spinta sino all'istituzione del Peace Inquiry Bureau del colonnello Edward M.
House, un organismo formato con l'incarico di preparare una vasta serie di dati con cui cercano di
tracciare una situazione dettagliata di aree "calde" dove vivono varie etnie e spesso contese da più
paesi in sede di negoziazione per la delimitazione dei confini. L'instabilità della regione che separa
la Russia dall'Europa occidentale, in cui non esistono chiare barriere fisiche che dividono popoli di
etnia e lingua diverse che reclamano un proprio Stato, autonomo e indipendente, è una
problematica ben nota. La distanza fra il disegno idealista di Wilson e gli interessi concreti dei
paesi europei suscita comunque parecchie critiche nei confronti del presidente americano. I difficili
rapporti di Wilson con i politici europei, in particolare con Orlando, che arriva a lasciare Parigi, in
quanto non consultato dal presidente americano prima di pubblicare il suo "Manifesto al popolo
italiano", che contiene una proposta di regolamento dei confini fra Italia e Jugoslavia; e il romeno
Bratianu, caratterizzano i lavori della conferenza di pace.
Gli elementi nazionalisti presenti in numerosi paesi (Italia, Germania, ma anche nei paesi
dell'Europa centro-orientale) rimangono profondamente critici nei confronti di quanto deciso al
termine della guerra e cominciano a esercitare un'influenza sempre maggiore sui governi dei
rispettivi Stati, i quali iniziano a dare vita al blocco degli Stati revisionisti, non soddisfatti cioè delle
soluzioni del trattato di Versailles di cui chiedono una revisione.
Dall'altra parte si schierano naturalmente tutte quelle nazioni che, anche per aver combattuto dalla
"parte giusta", vengono maggiormente tenute in considerazione durante le trattative di pace, dalle
quali escono con notevoli guadagni, territoriali e spesso anche simbolici. Per l'Italia, dove però le
decisioni di Parigi, che le assegnano Trentino, Sud Tirolo e Istria, ma non Fiume e la Dalmazia,
danno vita a un importante contenzioso con la Jugoslavia per la disillusione creata per aver
riportato "una vittoria mutilata". Mentre in Italia il diffuso malcontento popolare pone le condizioni
favorevoli alla nascita del fenomeno fascista; Romania, Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia,
data la natura delle loro conquiste, si indirizzano verso una politica anti-revisionista e si affidano
soprattutto a Francia e Gran Bretagna.
I governi di Romania, Cecoslovacchia e Jugoslavia firmano tra loro diversi trattati di alleanza
contro un'eventuale aggressione provocata da Ungheria o Bulgaria, formando quella che la stampa
ungherese definisce in tono derisorio "Piccola Intesa". Nei trattati di pace, oltre alle decisioni sui
confini viene recepita anche la tutela delle minoranze, che diventa requisito per accedere alla
Società delle Nazioni e, indirettamente, garanzia della sicurezza dello status quo. Diritti speciali
vengono poi previsti per gli ebrei a tutela delle proprie usanze religiose e per i musulmani in
Jugoslavia. La garanzia del rispetto di queste clausole viene affidata alla Società delle Nazioni e
allo strumento del diritto di petizione al Consiglio della stessa, grazie al quale ogni lesione dei diritti
previsti dai cinque trattati stipulati dalle potenze alleate e i nuovi Stati può essere presentata al
massimo organo dell'organizzazione (Rapporto Tittoni). L'interesse dei negoziatori per le
minoranze suscita una viva e immediata reazione presso le delegazioni di Polonia e Romania, che
firmano i rispettivi trattati solo in seguito a veri e propri ultimatum, ritenendo le disposizioni
riguardanti le minoranze una indebita ingerenza di altri Stati nei propri affari interni, una
inaccettabile limitazione della loro sovranità. Questo articolato sistema è fin troppo rivoluzionario e
di difficile applicazione. Un'altra incognita che rende la definizione della nuova Europa
profondamente incerta è la rivoluzione russa. II declino dei grandi Imperi, ottomano e asburgico,
apre una serie di questioni molto delicate, in una zona d'Europa in cui inizia a concretizzarsi il
pericolo bolscevico e visto come una minaccia per i valori e i principi liberali che si pretende
ispirino il futuro delle nazioni europee. La conquistata pace viene messa alla prova da nuovi
conflitti armati, in Ungheria, fra Polonia e Russia, e dalla guerra greco-turca, conclusasi con il
trattato di Losanna (24 luglio 1923). II quadro risultante dalla risistemazione europea appare per
molti aspetti poco rassicurante. Nei nuovi Stati la maggioranza può essere considerata la
materializzazione del principio di autodeterminazione di Wilson, applicato nei termini liberali in
maniera tale da includere entro gli stessi confini minoranze etniche che in alcuni casi vedono il loro
status cambiare da "dominant nations" a "dominated nations". Alle controversie internazionali fra
Stati si sommano così sostanziali difficoltà nella realtà quotidiana e profonde differenze sociali e
culturali che spesso ostacolano la convivenza fra i distinti gruppi etnici. Esistono, oltre a differenze
etniche evidenziate dalla presenza di distinti popoli, distinzioni relative anche al quadro economico
e istituzionale, oppure religiose: nei Balcani coesistono ortodossia, cattolicesimo e islam,
nell'Europa centro-orientale vi sono invece consistenti comunità ebraiche, protestanti e
greco-cattoliche. Le comunità ebraiche disseminate in tutta l'Europa centro-orientale vengono
rappresentate a Parigi da varie associazioni internazionali e trovano inoltre particolare attenzione
presso la diplomazia di Washington. Wilson viene contattato dai circoli ebraici americani a cui da
rassicurazioni circa il suo impegno per la costituzione di adeguate forme di tutela per le comunità
europee. II programma del presidente americano viene però troncato da una fortissima resistenza
interna e da un'opinione pubblica che gli volta le spalle e così la stessa Società delle Nazioni, che
Wilson poneva al centro dei suoi progetti, rimane nelle mani di Francia e Gran Bretagna. Senza la
partecipazione statunitense la Società delle Nazioni, nata con lo spirito dei valori ideali e
democratici americani e poi lasciata alle rivalità degli europei, si rivela infatti uno strumento
inefficace tanto per il mantenimento della pace e della sicurezza collettiva quanto per l'effettiva
tutela delle minoranze. Nel tempo si risente dell'impatto di conflitti sempre più accesi, ormai
insanabili, radicalizzati da un estremismo nazionalista mai così vivo.
II nazionalismo formatosi fra il XIX e XX secolo, nel periodo interbellico conduce alla formazione di
uno Stato accentrato, che basa il proprio potere su una supposta coscienza nazionale e utilizza
mezzi diversi come la scuola statale, i grandi riti pubblici e la leva militare universale, per stringere
nella propria morsa tutti i cittadini anche in tempo di pace, educando al rischio di morire per la
propria comunità nazionale, che viene concepita come un'entità trascendente. Questo
nazionalismo di Stato si impone spesso in termini radicali, come movimento anti-borghese,
anti-liberale, anti-marxista e molto spesso anche antisemita, presentando forme diverse che,
quando non sfociano nel razzismo, assumono comunque elementi di un forte orgoglio o xenofobia
nazionalistica La trasformazione dei nazionalismi in movimenti di massa, i difficili rapporti con gli
Stati confinanti e le difficoltà economiche contribuiscono a diffondere in tutta Europa sentimenti di
ostilità e frustrazione che si abbattono contro altre società nazionali. In nessuno degli Stati che ha
cominciato la propria esistenza come democrazia viene assicurata una effettiva uguaglianza di
diritti e le minoranze, anche se in misura diversa, vengono così limitate o impedite nell'accesso a
determinati beni, diritti e servizi.
Le minoranze sono soggette a politiche di denazionalizzazione e a discriminazioni nel campo
dell'economia, nell'accesso al pubblico impiego e nelle libere professioni. Nelle nuove realtà
autoritarie, odio e aggressione vengono presentati come espressione di amore per la patria,
creando in tal modo le condizioni per gli eccidi e le persecuzioni a sfondo etnico della 2GM.
Un certo scetticismo è derivante dal ruolo avuto dalle minoranze nei piani di Adolf Hitler, spesso
giustificati dall'idea dell'unità di tutti i tedeschi, e dalle momentanee alleanze fatte dalla Germania
durante la guerra. Mentre per le comunità ebraiche sopravvissute si prospetta il compimento
dell'autodeterminazione con la nascita dello Stato di Israele, vengono anche effettuati consistenti
rimpatri della popolazione tedesca dall'estero e allo strumento dell'espulsione, già usato
abbondantemente da Hitler e Stalin durante il conflitto, fanno inoltre ricorso molti Stati dell'area
desiderosi di saldare il proprio tessuto etnico.
Nel periodo post-1945 si assiste alla nascita di un nuovo regime di diritti umani che da poco spazio
alte minoranze e preferisce concentrarsi sui diritti individuali elencati nella Dichiarazione universale
dei diritti umani (1948), come la libertà di pensiero e religione (art.18), di espressione (art.19), di
associazione (art.20) e il diritto di partecipare alla vita culturale della comunità (art. 27). La
questione minoritaria viene collegata alla revisione delle frontiere e inquadrata fra gli affari
domestici di ciascuno Stato, quindi accantonata dal dibattito internazionale.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva la risoluzione 217 C (III) in cui riconosce
l'importanza del destino di tali gruppi e la necessità di rinviare la questione per ulteriori studi alla
Commissione sui diritti umani e alla sottocommissione incaricata per la prevenzione delle
discriminazioni e la protezione delle minoranze.
Diversa è la sorte delle minoranze nell'URSS e nei paesi sotto la sua egemonia. Qui vigono
considerazioni di tipo diverso, che vedono spesso gli elementi minoritari come possibile elemento
di destabilizzazione, e si inaugura un nuovo tipo di problematiche nazionali derivate dalla
dipendenza dall'Urss di tutte le "democrazie popolari" formalmente indipendenti ma di fatto
assoggettate al dominio sovietico. Durante la guerra fredda, mentre la compattezza e la coesione
del blocco rappresentano obiettivi irrinunciabili per i paesi socialisti, nei consessi internazionali
viene data più importanza ai principi della sovranità statale e solo poche risoluzioni
dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) fanno riferimento ai diritti minoritari: la risoluzione
dell'Assemblea Generale sul futuro della Palestina del 1947, la risoluzione del Consiglio
economico e sociale 502 F (XVI) del 1953, la Convenzione Onu per la prevenzione e la punizione
del delitto di genocidio (9 dicembre 1948). Anche il Consiglio d'Europa non arriva a nessun
risultato tangibile se non a una bozza di articolo da inserire alla Convenzione europea dei diritti
umani che si rivelerà virtualmente identica alla clausola riferita ai diritti delle minoranze nel Patto
Onu sui diritti civili e politici del 1966. Spesso sono gli stessi Stati a firmare accordi bilaterali per
risolvere questo genere di questioni, che divengono oggetto di dibattito e azione internazionale
solo in occasione di eventi particolari come il Bloody Sunday nord-irlandese .
Numerosi tentativi di definire normativamente la minoranza vengono comunque fatti a livello
internazionale (nell'ambito delle Nazioni Unite o del Consiglio d'Europa) o nelle singole Costituzioni
dei distinti Stati, un esempio è quello di Francesco Capotorti che nel suo Study of the Rights of
Persons Belonging to Ethnic, Religious and Linguistic Minorities definisce la minoranza come un
gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione, in una posizione non-dominant, i cui
membri possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche differenti da quelle del resto
della popolazione e mostrano, anche solo implicitamente, "un senso di solidarietà diretto a
preservare cultura, tradizioni, religione o lin-
guaggio".
Nel 1992 l'Onu emana la Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti a minoranze na-
zionali, etniche, religiose e linguistiche mentre il Consiglio d'Europa elabora la Carta europea sulle
lingue regionali o minoritarie con la quale le parti si impegnano a eliminare ogni distinzione,
esclusione, restrizione o preferenza ingiustificata in relazione alla pratica di tali linguaggi. Inizia
inoltre la metamorfosi della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa che acquista
una metodologia di azione sistematica, con strumenti dedicati, direttamente o indirettamente, alla
tutela delle minoranze. Importanti principi vengono ribaditi alla Conferenza dell'Organizzazione per
la sicurezza
e la cooperazione in Europa (Osce) sulla dimensione umana di Copenaghen nel 1990. Nel 1992
viene poi creato l'Alto Commissario delle minoranze nazionali. II commissariato è uno strumento
diplomatico di prevenzione dei conflitti e di mediazione che basa la sua attività sui principi di
imparzialità e confidenza e che si aggiunge ad altri meccanismi dell'Osce, come le missioni di
lungo periodo inviate nel corso degli anni Novanta in Serbia, Kosovo e in tutte le zone calde
dell'Europa orientale. Questa è infatti la regione più sensibile alle problematiche di ordine etnico o
nazionale che dopo il 1989 sono ricomparse quasi in maniera sintomatica come impegnativi
ostacoli lungo il cammino democratico intrapreso dagli Stati usciti da decenni di regimi totalitari.
Questi ultimi vengono accompagnati in una delicatissima fase di transizione e incentivati a
garantire adeguate forma di tutela alle proprie minoranze. La strategia viene messa a punto
attraverso diversi incontri fino aII'elaborazione dei criteri di Copenaghen, una summa di principi e
obiettivi a cui gli Stati candidati si devono attenere per poter aderire all'Ue. Si registra una graduale
inversione di rotta rispetto allo scarso interesse che le minoranze rivestivano prima del 1989 nel
campo della normativa europea e internazionale. Il primo trattato multilaterale vincolante a tutela
delle minoranze è la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali adottata dal
Consiglio d'Europa il primo febbraio 1995 come parte integrante della più generale protezione
internazionale dei diritti dell'uomo e della cooperazione internazionale. La Convenzione contiene
un lungo elenco di disposizioni in cui si ribadiscono i diritti umani individuali adattandoli alla realtà
delle minoranze e prevede inoltre un sistema di monitoraggio costante dell'attività degli Stati. Sono
tutelati il diritto di appartenenza alla minoranza (art.3), divieti di discriminazione (art.4), misure
specifiche (art.5), libertà di manifestazione del pensiero (art.7 e 9), riconoscimento della lingua
minoritaria (art.10, 14), diritto a un'educazione interculturale (art. 10-14), diritto di creare e gestire i
propri istituti privati d'insegnamento e di formazione (art. 13), diritto di partecipazione effettiva alla
vita culturale sociale ed economica, nonché agli affari pubblici (art.15), obblighi degli appartenenti
alle minoranze (art. 20-23). Molti degli Stati firmatari di tale convenzione sono inoltre coinvolti nel
processo di integrazione europea, un progetto di ampia portata che ha condizionato più o meno
direttamente anche il trattamento delle minoranze. La stessa idea di Unione parte dal rispetto delle
diversità nazionali e regionali.