Sei sulla pagina 1di 35

Le minoranze nel XX secolo: dallo stato nazionale all’integrazione

europea- Motta
Cap. 1- La tutela internazionale delle minoranze. Dalla caduta dei grandi Imperi
all'integrazione europea
1.1 le nazioni europee e il crollo degli imperi
Nel corso del XIX secolo, e ancor più nel XX , l'affermazione del diritto di ogni popolo
all'autodeterminazione, alla creazione di uno Stato nazionale proprio o a uno status di maggiore
autonomia all'interno dei grandi contenitori etnici rappresentati dagli imperi - asburgico, ottomano e
zarista - produce pericolose sovrapposizioni fra i concetti di Stato e nazione. I due termini
definiscono processi diversi poiché, mentre lo Stato è costituito da un insieme di strutture che
operano su un determinato territorio in una dimensione organizzativa; la nazione è una comunità
percepita come tale dai suoi membri, in un’ottica culturale, naturale e politica.
“Nello Stato nazionale si vide il culmine dello Stato moderno: è la nazione - meglio la
nazione-popolo - a esprimersi, tramite la riconquistata sovranità, attraverso la personalità dello
Stato, che le da unità e capacità di agire: protagonisti della Storia non sono più i re, ma le nazioni,
o meglio lo Stato nazionale”
La nazione si fonda su criteri differenti nel singolo caso: esistono lingue comuni a più nazioni e
nazioni con più lingue, e lo stesso si può dire per cultura e religione, elementi variabili che
definiscono tale costruzione "ideologica". Se per Marx e Weber l'origine delle nazioni europee
coincide con il consolidamento dello Stato moderno, burocratico e accentrato, altri possibili
approcci tendono a inquadrare la nazione in termini di uno sviluppato sistema di comunicazioni
interne istituzionalizzate che crea un senso di comune identità (Benedict Anderson), altri ancora
insistono invece sul carattere psicologico del fenomeno o su criteri come la scolarizzazione di
massa (Ernest Gentler), la socializzazione informale o l'origine etnica (Anthony D. Smith). Alcuni
teorici marxisti mettono in relazione la comparsa del nazionalismo con una certa fase dello
sviluppo economico, come una reazione all'imperialismo. Nelle società europee, all'epoca in cui si
stavano definendo gli Stati nazionali, in alcuni paesi andava emergendo con successo la nuova
classe borghese che diventerà protagonista dei fenomeni di trasformazione, politici, sociali ed
economici. Nell'Europa del dopo-Westfalia, in Inghilterra, in Francia e nei Paesi Bassi, le
minoranze partecipano attivamente al processo complessivo di evoluzione. I calvinisti e gli ebrei in
Olanda, come i puritani in Inghilterra che affermano un nuovo modo di pensare il lavoro.
La teoria della scomposizione in fasi dei movimenti nazionalisti afferma che essi partono da una
ristretta classe media e superiore per poi instaurarsi come fenomeno di massa, aumentando
contemporaneamente le proprie rivendicazioni fino alla richiesta della completa indipendenza. Vi è
poi la visione romantica del nazionalismo, diffusa dal Risorgimento italiano e in Germania, in cui
l'appartenenza nazionale si fonda su elementi etnico-culturali. É necessario inoltre considerare
che nazionalità e cultura sono quasi sinonimi, in quanto si possono ricondurre agli stessi termini,
identità, lingua, istruzione, religione, arti, scienze, di modo che si puo analizzare il fenomeno
nazionalista come l'equazione risultante dalla somma dei fattori politica, economia e cultura, a
ciascuno dei quali in ogni singolo caso è attribuito un peso particolare.
Tutti questi elementi, usati per definire la "coscienza nazionale" di un popolo, si manifestano con
sempre maggiore evidenza fino al crollo dei grandi Imperi, momento in cui vengono destinati a
fungere da presupposti per fondare il nuovo assetto dell'Europa centro-orientale e dei Balcani,
regioni la cui storia è fondata sull'incontro e la mescolanza di gruppi etno-nazionali. In zone di
reciproco contatto come la Transilvania, la Macedonia e il settore adriatico vi è un profondo
fenomeno di compenetrazione contraddistinto dall'apparizione dell'interculturalità e del
plurilinguismo. Risulta dunque arduo far coincidere Stato e nazione,
in molti casi a queste entità statali di carattere omogeneo,corrispondono infatti gruppi di diversa
appartenenza etnica. I popoli non risultano separati da chiare frontiere naturali e rimangono divisi
dai confini che vengono fissati in seguito alla conferenza di pace successiva alla Grande Guerra,
lasciando in ogni paese minoranze nazionali, comunità che, pur entrando in relazione con un
gruppo maggioritario, si distinguono da quest'ultimo-
mo per determinati fattori di riferimento identitario. Si crea un alto rischio di conflitti di natura etnica
fra la maggioranza e i gruppi minoritari.
Non esiste tuttavia una definizione universalmente accettata del termine minoranza; si distingue fra
gruppi etnici o nazionali, minoranze senza madrepatria o invece legate a un altro Stato, etnia ed
etnicità, senza poter fissare in maniera univoca i connotati essenziali di tali gruppi. Claude afferma
che essa esiste quando un gruppo di persone all'interno di uno Stato esibisce la convinzione di
rappresentare una nazione distinta dall'elemento maggioritario della popolazione; Laponce mette
invece in risalto la paura di una comunità di essere ostacolata nell'integrazione con il gruppo
dominante, mentre altri come Francesco Capotorti distinguono "minorities of force" e "minorities of
will"". Anche Ernest Gellner analizza le minoranze come etno-nazioni che hanno fallito il loro
obiettivo dell'indipendenza nazionale all'interno di un proprio Stato e così devono vivere all'interno
dei confini di altri Stati-nazione. Una definizione generale, quantunque evidenzi sia gli elementi
oggettivi come residenza o cittadinanza sia quelli soggettivi come la volontà di conservare gli
elementi costitutivi della propria particolare identità, rischia di non risultare chiaramente adattabile
ai singoli casi. Nell'analisi delle diverse questioni minoritarie si evidenziano di volta in volta caratteri
diversi.
I primi esempi di tutela della minoranze risalgono ad alcuni trattati del XVII sec., Westfalia (1648) e
Oliva (1660), che contengono clausole poste a protezione di gruppi appartenenti a confessioni
religiose diverse da quella ufficiale dello Stato, i protestanti nei principati tedeschi e i cattolici della
Livonia. La pace di Westfalia, convenzionalmente indicata come punto di rottura fra la concezione
medievale e quella moderna delle relazioni internazionali, sancisce la formazione di un nuovo
assetto europeo, in cui si va consolidando l'idea di tolleranza verso le comunità religiose
minoritarie. II problema delle minoranze emerge però con più chiarezza solo nella seconda metà
del XIX secolo (a Parigi e a Berlino), quando durante le trattative di pace per la delimitazione dei
confini dei primi Stati indipendenti si inizia a prendere in considerazione anche l'etnia della
popolazione che risiede in quei territori e nei trattati sono poste clausole a salvaguardia di tali
comunità. II sentimento nazionale non si è ancora cristallizzato nelle masse popolari e nella
coscienza collettiva, ma è legato ai suoi aspetti più squisitamente sociali.
Nei Balcani nasce e si sviluppa la "Questione d'Oriente". II declino dell'Impero Ottomano è segnato
da continue ribellioni, come quelle che nella prima metà dell'Ottocento portano la Serbia
all'autonomia e la Grecia all'indipendenza, e presenta implicazioni di carattere internazionale che
rendono l'area balcanica soggetta alle mire espansionistiche di Mosca e Vienna. La guerra di
Crimea (1853-1856) e quella russo-turca del 1877 scandiscono le ulteriori fasi di questo processo
e portano la Romania, la Serbia e il Montenegro a ottenere la formale indipendenza dal sultano. II
nuovo assetto europeo stabilito al Congresso di Berlino (1878), spesso indicato come il momento
di maturazione della questione balcanica, mortifica le aspirazioni di Russia e Bulgaria, rompendo in
tal modo la solidarietà della comunità ortodossa. La Serbia si fa portavoce dei progetti di unione
degli slavi del sud Questo progetto politico costituisce una seria minaccia non solo per la duplice
monarchia, che nel 1908 annette la Bosnia-Erzegovina, ma anche per gli albanesi, i quali
sviluppano una prima forma di resistenza nazionale, per la Bulgaria divenuta indipendente nel
1908 e per la Grecia, entrambe intenzionate a espandersi in Macedonia.
Il crollo degli Imperi, al termine della Grande Guerra, permette che tali rivendicazioni nazionali
possano trovare pratica soddisfazione, e anche più, portando alla creazione di nuovi Stati nazionali
o al completamento di quelli già indipendenti. In questa fase la questione delle minoranze
acquisisce un alto grado di visibilità, poiché coinvolge un'ampia zona d'Europa e un intero sistema
di relazioni internazionali.
A Parigi, ove si tengono le negoziazioni al termine della 1GM, la diplomazia europea perde quella
centralità delle epoche precedenti e si deve confrontare con la nuova grande potenza, gli Stati
Uniti e con l'idealismo del presidente americano Wilson, il cui programma di ricostruzione,
presentato nel gennaio del 1918, dedica molta importanza alla libertà degli Stati e al principio di
autodeterminazione dei popoli. Mentre il punto V sulle colonie non esprime alcun anticolonialismo
di principio, ma dispone che gli interessi delle popolazioni debbano avere un peso uguale a quello
dei governi; il X proclama il diritto all'autodeterminazione dei popoli, ma non sembra implicare
obbligatoriamente lo scioglimento di ogni unione federale dell'Austria-Ungheria e l'XI propone che i
nuovi
confini vengano stabiliti sulla base delle nazionalita, degli interessi economici e dei diritti storici.
Prende vita inoltre il progetto della Società delle Nazioni.
Solo in un secondo momento, dunque, alle tradizionali richieste di autonomia e di riforma in senso
federale dell'Impero sembra essersi sostituita una chiara rivendicazione di indipendenza. Tale
cambiamento di strategia viene operato soprattutto grazie a quei consigli rappresentativi che si
sono formati all'estero, lontano dalle zone di guerra, e che rimangono maggiormente influenzati dal
programma americano fondato sull'autodeterminazione dei popoli. L'iniziativa diplomatica
americana si era spinta sino all'istituzione del Peace Inquiry Bureau del colonnello Edward M.
House, un organismo formato con l'incarico di preparare una vasta serie di dati con cui cercano di
tracciare una situazione dettagliata di aree "calde" dove vivono varie etnie e spesso contese da più
paesi in sede di negoziazione per la delimitazione dei confini. L'instabilità della regione che separa
la Russia dall'Europa occidentale, in cui non esistono chiare barriere fisiche che dividono popoli di
etnia e lingua diverse che reclamano un proprio Stato, autonomo e indipendente, è una
problematica ben nota. La distanza fra il disegno idealista di Wilson e gli interessi concreti dei
paesi europei suscita comunque parecchie critiche nei confronti del presidente americano. I difficili
rapporti di Wilson con i politici europei, in particolare con Orlando, che arriva a lasciare Parigi, in
quanto non consultato dal presidente americano prima di pubblicare il suo "Manifesto al popolo
italiano", che contiene una proposta di regolamento dei confini fra Italia e Jugoslavia; e il romeno
Bratianu, caratterizzano i lavori della conferenza di pace.

1.2 dagli Stati nazionali al multiculturalismo contemporaneo


Sulla base di diversi trattati il vecchio equilibrio garantito dalla presenza degli Imperi viene
smembrato e dalle sue ceneri escono rinforzati paesi già indipendenti come Italia e Romania, che
acquisiscono Alto-Adige, Istria e Transilvania, e nascono nuovi Stati come Austria, Ungheria,
Repubblica Cecoslovacca, Polonia e Jugoslavia. A est si assiste intanto alla lotta per la conquista
del potere in Russia, dove l'appoggio delle potenze, seppur molto diminuito, non aiuta i "bianchi"
ad avere la meglio sulle forze rosse di Cicerin e Lenin che, ottenuto il governo dell'immenso paese,
devono vincere le diffidenze dimostrate per un loro riconoscimento de jure e vengono così costretti
ad accettare nuove frontiere, rinunciando all'Ucraina occidentale e alla Bessarabia, staccatasi dalla
Russia nel 1917 e poi assegnata alla Romania. Le lotte in atto nei confusi anni seguenti alla pace
di Brest-Litovsk (3 marzo 1918) consacrano l'indipendenza delle nazioni baltiche, ma vedono i
bolscevichi prevalere in Bielorussia, in Ucraina e in Transcaucasia, territori che vengono legati a
Mosca attraverso l'ambiguo strumento federativo. Tutta l'area dell'Europa centro-orientale è
caratterizzata da un equilibrio instabile poiché in tutti questi stati vi sono da un lato spinte
nazionalistiche e dall’altro è presente una percentuale di cittadini di altri stati.
In seguito al trattato di Neuilly le aspirazioni di Sofia rimangono largamente deluse e il nuovo Stato
lascia aIl'esterno dei suoi confini circa due milioni di bulgari, mentre include al proprio interno
poche minoranze, turche, romene, greche e "zingare", oltre a una consistente comunità
musulmana.
La Romania esce rivoluzionata dai negoziati di Versailles: vede ampliato il suo territorio alle regioni
di Transilvania, Bucovina, Bessarabia, Dobrugia e parte del Banato, e la sua popolazione
praticamente raddoppia. Questo grande successo politico comporta però un notevole impegno sul
piano interno: l'unione con le vecchie amministrazioni dei territori annessi, la riforma del sistema
politico e la presenza di vaste minoranze etniche impongono notevoli sforzi ai governi che da
Vaida Voevod (premier nel dicembre 1919) si succedono alla guida del paese. Acquisita la maggior
parte della Transilvania, Bucarest ottiene anche il Banato orientale e la Bessarabia, nonostante le
proteste di Serbia e Russia — la Bessarabia viene unita alla Romania con la decisione del 27
marzo 1918 di Chisinau — e risulta
così fra tutti gli "Stati successori" quello che racchiude il maggior numero di minoranze (ungheresi,
ebrei, sassoni, siculi, ucraini, bulgari, russi e serbi).
In Cecoslovacchia i cechi rappresentano la metà della popolazione e, oltre agli slovacchi,
convivono con tedeschi, ungheresi e ucraini. Seppur in proporzione minore, ospitando minoranze
ucraine, tedesche, russe e comunita ebraiche, la Polonia contribuisce ulteriormente a delineare
I'immagine degli Stati post-bellici. Fra Russia, Polonia e Germania si formano inoltre i tre Stati
baltici i quali includono anch'essi nei propri confini svariate minoranze. A fare le spese di questa
complessa risistemazione è la Germania, che ha infatti perduto il 13% del suo territorio e un
decimo della sua popolazione cedendo alla Polonia parti della Slesia settentrionale e della Prussia
e alla Cecoslovacchia il distretto di Hultschin, nonché tutte le colonie d'oltremare assegnate alle
potenze vincitrici sotto il mandato della Società delle Nazioni. L'Austria esce dalla conferenza di
pace come un piccolo paese, evidentemente ridimensionato dopo le numerose cessioni territoriali
e punito ulteriormente dal divieto di unione alla Germania — perde: Sud Tirolo, Trentino, Venezia
Giulia, Dalmazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Galizia, Bucovina e Carinzia, che recupera poi nel
1920 grazie a un plebiscito Allo stesso modo I'Ungheria viene privata di abbondanti porzioni del
suo territorio e di più, della metà della sua popolazione, dovendo cedere molti dei suoi territori alla
Jugoslavia, alla Cecoslovacchia e alla Romania, che con la dichiarazione di Alba-lulia del 1918
annette la Transilvania, una regione storica per gli ungheresi. Il malcontento ungherese non tarda
però a manifestarsi con la rivoluzione comunista di Bela Kun, che nel 1919 si estende alla
Slovacchia,, e viene infine liquidata anche grazie all'intervento dell'armata di Bucarest .

Gli elementi nazionalisti presenti in numerosi paesi (Italia, Germania, ma anche nei paesi
dell'Europa centro-orientale) rimangono profondamente critici nei confronti di quanto deciso al
termine della guerra e cominciano a esercitare un'influenza sempre maggiore sui governi dei
rispettivi Stati, i quali iniziano a dare vita al blocco degli Stati revisionisti, non soddisfatti cioè delle
soluzioni del trattato di Versailles di cui chiedono una revisione.
Dall'altra parte si schierano naturalmente tutte quelle nazioni che, anche per aver combattuto dalla
"parte giusta", vengono maggiormente tenute in considerazione durante le trattative di pace, dalle
quali escono con notevoli guadagni, territoriali e spesso anche simbolici. Per l'Italia, dove però le
decisioni di Parigi, che le assegnano Trentino, Sud Tirolo e Istria, ma non Fiume e la Dalmazia,
danno vita a un importante contenzioso con la Jugoslavia per la disillusione creata per aver
riportato "una vittoria mutilata". Mentre in Italia il diffuso malcontento popolare pone le condizioni
favorevoli alla nascita del fenomeno fascista; Romania, Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia,
data la natura delle loro conquiste, si indirizzano verso una politica anti-revisionista e si affidano
soprattutto a Francia e Gran Bretagna.
I governi di Romania, Cecoslovacchia e Jugoslavia firmano tra loro diversi trattati di alleanza
contro un'eventuale aggressione provocata da Ungheria o Bulgaria, formando quella che la stampa
ungherese definisce in tono derisorio "Piccola Intesa". Nei trattati di pace, oltre alle decisioni sui
confini viene recepita anche la tutela delle minoranze, che diventa requisito per accedere alla
Società delle Nazioni e, indirettamente, garanzia della sicurezza dello status quo. Diritti speciali
vengono poi previsti per gli ebrei a tutela delle proprie usanze religiose e per i musulmani in
Jugoslavia. La garanzia del rispetto di queste clausole viene affidata alla Società delle Nazioni e
allo strumento del diritto di petizione al Consiglio della stessa, grazie al quale ogni lesione dei diritti
previsti dai cinque trattati stipulati dalle potenze alleate e i nuovi Stati può essere presentata al
massimo organo dell'organizzazione (Rapporto Tittoni). L'interesse dei negoziatori per le
minoranze suscita una viva e immediata reazione presso le delegazioni di Polonia e Romania, che
firmano i rispettivi trattati solo in seguito a veri e propri ultimatum, ritenendo le disposizioni
riguardanti le minoranze una indebita ingerenza di altri Stati nei propri affari interni, una
inaccettabile limitazione della loro sovranità. Questo articolato sistema è fin troppo rivoluzionario e
di difficile applicazione. Un'altra incognita che rende la definizione della nuova Europa
profondamente incerta è la rivoluzione russa. II declino dei grandi Imperi, ottomano e asburgico,
apre una serie di questioni molto delicate, in una zona d'Europa in cui inizia a concretizzarsi il
pericolo bolscevico e visto come una minaccia per i valori e i principi liberali che si pretende
ispirino il futuro delle nazioni europee. La conquistata pace viene messa alla prova da nuovi
conflitti armati, in Ungheria, fra Polonia e Russia, e dalla guerra greco-turca, conclusasi con il
trattato di Losanna (24 luglio 1923). II quadro risultante dalla risistemazione europea appare per
molti aspetti poco rassicurante. Nei nuovi Stati la maggioranza può essere considerata la
materializzazione del principio di autodeterminazione di Wilson, applicato nei termini liberali in
maniera tale da includere entro gli stessi confini minoranze etniche che in alcuni casi vedono il loro
status cambiare da "dominant nations" a "dominated nations". Alle controversie internazionali fra
Stati si sommano così sostanziali difficoltà nella realtà quotidiana e profonde differenze sociali e
culturali che spesso ostacolano la convivenza fra i distinti gruppi etnici. Esistono, oltre a differenze
etniche evidenziate dalla presenza di distinti popoli, distinzioni relative anche al quadro economico
e istituzionale, oppure religiose: nei Balcani coesistono ortodossia, cattolicesimo e islam,
nell'Europa centro-orientale vi sono invece consistenti comunità ebraiche, protestanti e
greco-cattoliche. Le comunità ebraiche disseminate in tutta l'Europa centro-orientale vengono
rappresentate a Parigi da varie associazioni internazionali e trovano inoltre particolare attenzione
presso la diplomazia di Washington. Wilson viene contattato dai circoli ebraici americani a cui da
rassicurazioni circa il suo impegno per la costituzione di adeguate forme di tutela per le comunità
europee. II programma del presidente americano viene però troncato da una fortissima resistenza
interna e da un'opinione pubblica che gli volta le spalle e così la stessa Società delle Nazioni, che
Wilson poneva al centro dei suoi progetti, rimane nelle mani di Francia e Gran Bretagna. Senza la
partecipazione statunitense la Società delle Nazioni, nata con lo spirito dei valori ideali e
democratici americani e poi lasciata alle rivalità degli europei, si rivela infatti uno strumento
inefficace tanto per il mantenimento della pace e della sicurezza collettiva quanto per l'effettiva
tutela delle minoranze. Nel tempo si risente dell'impatto di conflitti sempre più accesi, ormai
insanabili, radicalizzati da un estremismo nazionalista mai così vivo.
II nazionalismo formatosi fra il XIX e XX secolo, nel periodo interbellico conduce alla formazione di
uno Stato accentrato, che basa il proprio potere su una supposta coscienza nazionale e utilizza
mezzi diversi come la scuola statale, i grandi riti pubblici e la leva militare universale, per stringere
nella propria morsa tutti i cittadini anche in tempo di pace, educando al rischio di morire per la
propria comunità nazionale, che viene concepita come un'entità trascendente. Questo
nazionalismo di Stato si impone spesso in termini radicali, come movimento anti-borghese,
anti-liberale, anti-marxista e molto spesso anche antisemita, presentando forme diverse che,
quando non sfociano nel razzismo, assumono comunque elementi di un forte orgoglio o xenofobia
nazionalistica La trasformazione dei nazionalismi in movimenti di massa, i difficili rapporti con gli
Stati confinanti e le difficoltà economiche contribuiscono a diffondere in tutta Europa sentimenti di
ostilità e frustrazione che si abbattono contro altre società nazionali. In nessuno degli Stati che ha
cominciato la propria esistenza come democrazia viene assicurata una effettiva uguaglianza di
diritti e le minoranze, anche se in misura diversa, vengono così limitate o impedite nell'accesso a
determinati beni, diritti e servizi.
Le minoranze sono soggette a politiche di denazionalizzazione e a discriminazioni nel campo
dell'economia, nell'accesso al pubblico impiego e nelle libere professioni. Nelle nuove realtà
autoritarie, odio e aggressione vengono presentati come espressione di amore per la patria,
creando in tal modo le condizioni per gli eccidi e le persecuzioni a sfondo etnico della 2GM.
Un certo scetticismo è derivante dal ruolo avuto dalle minoranze nei piani di Adolf Hitler, spesso
giustificati dall'idea dell'unità di tutti i tedeschi, e dalle momentanee alleanze fatte dalla Germania
durante la guerra. Mentre per le comunità ebraiche sopravvissute si prospetta il compimento
dell'autodeterminazione con la nascita dello Stato di Israele, vengono anche effettuati consistenti
rimpatri della popolazione tedesca dall'estero e allo strumento dell'espulsione, già usato
abbondantemente da Hitler e Stalin durante il conflitto, fanno inoltre ricorso molti Stati dell'area
desiderosi di saldare il proprio tessuto etnico.
Nel periodo post-1945 si assiste alla nascita di un nuovo regime di diritti umani che da poco spazio
alte minoranze e preferisce concentrarsi sui diritti individuali elencati nella Dichiarazione universale
dei diritti umani (1948), come la libertà di pensiero e religione (art.18), di espressione (art.19), di
associazione (art.20) e il diritto di partecipare alla vita culturale della comunità (art. 27). La
questione minoritaria viene collegata alla revisione delle frontiere e inquadrata fra gli affari
domestici di ciascuno Stato, quindi accantonata dal dibattito internazionale.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva la risoluzione 217 C (III) in cui riconosce
l'importanza del destino di tali gruppi e la necessità di rinviare la questione per ulteriori studi alla
Commissione sui diritti umani e alla sottocommissione incaricata per la prevenzione delle
discriminazioni e la protezione delle minoranze.
Diversa è la sorte delle minoranze nell'URSS e nei paesi sotto la sua egemonia. Qui vigono
considerazioni di tipo diverso, che vedono spesso gli elementi minoritari come possibile elemento
di destabilizzazione, e si inaugura un nuovo tipo di problematiche nazionali derivate dalla
dipendenza dall'Urss di tutte le "democrazie popolari" formalmente indipendenti ma di fatto
assoggettate al dominio sovietico. Durante la guerra fredda, mentre la compattezza e la coesione
del blocco rappresentano obiettivi irrinunciabili per i paesi socialisti, nei consessi internazionali
viene data più importanza ai principi della sovranità statale e solo poche risoluzioni
dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) fanno riferimento ai diritti minoritari: la risoluzione
dell'Assemblea Generale sul futuro della Palestina del 1947, la risoluzione del Consiglio
economico e sociale 502 F (XVI) del 1953, la Convenzione Onu per la prevenzione e la punizione
del delitto di genocidio (9 dicembre 1948). Anche il Consiglio d'Europa non arriva a nessun
risultato tangibile se non a una bozza di articolo da inserire alla Convenzione europea dei diritti
umani che si rivelerà virtualmente identica alla clausola riferita ai diritti delle minoranze nel Patto
Onu sui diritti civili e politici del 1966. Spesso sono gli stessi Stati a firmare accordi bilaterali per
risolvere questo genere di questioni, che divengono oggetto di dibattito e azione internazionale
solo in occasione di eventi particolari come il Bloody Sunday nord-irlandese .
Numerosi tentativi di definire normativamente la minoranza vengono comunque fatti a livello
internazionale (nell'ambito delle Nazioni Unite o del Consiglio d'Europa) o nelle singole Costituzioni
dei distinti Stati, un esempio è quello di Francesco Capotorti che nel suo Study of the Rights of
Persons Belonging to Ethnic, Religious and Linguistic Minorities definisce la minoranza come un
gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione, in una posizione non-dominant, i cui
membri possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche differenti da quelle del resto
della popolazione e mostrano, anche solo implicitamente, "un senso di solidarietà diretto a
preservare cultura, tradizioni, religione o lin-
guaggio".
Nel 1992 l'Onu emana la Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti a minoranze na-
zionali, etniche, religiose e linguistiche mentre il Consiglio d'Europa elabora la Carta europea sulle
lingue regionali o minoritarie con la quale le parti si impegnano a eliminare ogni distinzione,
esclusione, restrizione o preferenza ingiustificata in relazione alla pratica di tali linguaggi. Inizia
inoltre la metamorfosi della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa che acquista
una metodologia di azione sistematica, con strumenti dedicati, direttamente o indirettamente, alla
tutela delle minoranze. Importanti principi vengono ribaditi alla Conferenza dell'Organizzazione per
la sicurezza
e la cooperazione in Europa (Osce) sulla dimensione umana di Copenaghen nel 1990. Nel 1992
viene poi creato l'Alto Commissario delle minoranze nazionali. II commissariato è uno strumento
diplomatico di prevenzione dei conflitti e di mediazione che basa la sua attività sui principi di
imparzialità e confidenza e che si aggiunge ad altri meccanismi dell'Osce, come le missioni di
lungo periodo inviate nel corso degli anni Novanta in Serbia, Kosovo e in tutte le zone calde
dell'Europa orientale. Questa è infatti la regione più sensibile alle problematiche di ordine etnico o
nazionale che dopo il 1989 sono ricomparse quasi in maniera sintomatica come impegnativi
ostacoli lungo il cammino democratico intrapreso dagli Stati usciti da decenni di regimi totalitari.
Questi ultimi vengono accompagnati in una delicatissima fase di transizione e incentivati a
garantire adeguate forma di tutela alle proprie minoranze. La strategia viene messa a punto
attraverso diversi incontri fino aII'elaborazione dei criteri di Copenaghen, una summa di principi e
obiettivi a cui gli Stati candidati si devono attenere per poter aderire all'Ue. Si registra una graduale
inversione di rotta rispetto allo scarso interesse che le minoranze rivestivano prima del 1989 nel
campo della normativa europea e internazionale. Il primo trattato multilaterale vincolante a tutela
delle minoranze è la Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali adottata dal
Consiglio d'Europa il primo febbraio 1995 come parte integrante della più generale protezione
internazionale dei diritti dell'uomo e della cooperazione internazionale. La Convenzione contiene
un lungo elenco di disposizioni in cui si ribadiscono i diritti umani individuali adattandoli alla realtà
delle minoranze e prevede inoltre un sistema di monitoraggio costante dell'attività degli Stati. Sono
tutelati il diritto di appartenenza alla minoranza (art.3), divieti di discriminazione (art.4), misure
specifiche (art.5), libertà di manifestazione del pensiero (art.7 e 9), riconoscimento della lingua
minoritaria (art.10, 14), diritto a un'educazione interculturale (art. 10-14), diritto di creare e gestire i
propri istituti privati d'insegnamento e di formazione (art. 13), diritto di partecipazione effettiva alla
vita culturale sociale ed economica, nonché agli affari pubblici (art.15), obblighi degli appartenenti
alle minoranze (art. 20-23). Molti degli Stati firmatari di tale convenzione sono inoltre coinvolti nel
processo di integrazione europea, un progetto di ampia portata che ha condizionato più o meno
direttamente anche il trattamento delle minoranze. La stessa idea di Unione parte dal rispetto delle
diversità nazionali e regionali.

Cap. 2- Presenze statali plurinazionali: Cecoslovacchia e Jugoslavia


2.1- L’esperimento cecoslovacco
L'impero asburgico o austro-ungarico, dopo che nel 1867 si divide in Transleitania e Cisleitania,
non sopravvive alla Grande Guerra e ai nuovi principi della diplomazia internazionale, grazie ai
quali il quadro politico dell'intera Europa centro-orientale viene completamente rivoluzionato. Le
nazioni del vasto Impero avevano sviluppato per tutto l'Ottocento un senso di appartenenza
sempre piu forte, che tuttavia non veniva interpretato come base giuridica per la richiesta di
indipendenza, ma solo come fattore di distinzione etno-politico. L'autonomia sembrava
rappresentare l'obiettivo dei movimenti nazionalisti, secondo i quali era necessaria una riforma
federale dello Stato in maniera da riequilibrare i rapporti con le etnie dominanti, i tedeschi e gli
ungheresi, i soli ad aver raggiunto importanti risultati. Solo nel XX secolo le tensioni
autonomistiche, con modalità e tempi differenti, portano allo smantellamento della struttura
asburgica e alla nascita di un nuovo ordine basato sugli Stati nazionali, nuovi o già esistenti.
Secondo il censimento del 1910 nei territori dell'Austria-Ungheria vivono circa dodici milioni di
tedeschi, dieci di ungheresi, più di sei milioni di cechi, tre di romeni e circa venti milioni di
slovacchi, croati, serbi, sloveni, italiani, polacchi e ucraini. A Versailles nascono quindi nuovi Stati
che ospitano consistenti minoranze, vengono inoltre previste altre formazioni statali dove è assai
difficile parlare di un'unica nazione maggioritaria, entità che oggi potrebbero essere definite come
plurinazionali.
Questo è il caso della Cecoslovacchia, dove il narodni obrozeni (risveglio nazionale ceco) che mira
a uno statuto di autonomia e alla riforma in senso federale dello Stato, nel ventesimo secolo
coinvolge anche gli slovacchi. I due distinti gruppi etnici diventano così parte di una sola nazione;
gli idiomi ceco e slovacco sono considerati affini (nonostante lo slovacco venga usato come lingua
letteraria) e le rivendicazioni dei cechi inglobano co-
si anche i territori slovacchi. Con lo scoppio della guerra si diffonde dunque l'idea della nascita di
uno Stato cecoslovacco. Masaryk, professore universitario del Partito progressista, aiutato dal suo
più valido collaboratore, Benes, elabora un programma che vede nella presenza di piccoli Stati
un'alternativa a una Mitteleuropa reazionaria costituita dalla Germania e dall'Austria-Ungheria. Nel
1915 nasce così un comitato nazionale ceco che viene poi trasformato in Consiglio nazionale
cecoslovacco con sede a Parigi e si arricchisce della presenza di Milan R.Stefanik quale
rappresentante degli slovacchi.
Nel 1918, gli alleati riconoscono la nazione cecoslovacca e il Consiglio stesso diventa il primo
governo provvisorio. I cechi consacrano la loro alleanza con gli slovacchi e a Turcansky Svaty
Martin riconoscono l'unità storica, culturale e linguistica del popolo cecoslovacco. II nuovo Stato
gode del forte appoggio degli alleati che gli offrono la possibilità di ottenere frontiere tracciate con
generosità. Per i confini con Germania, Austria e Ungheria si applica il principio di intangibilità delle
terre della corona ceca, mentre la soluzione della controversia ceco-polacca relativa al bacino di
Teschen e alla questione di Spitz e Jaworzina dà vita a un dibattito lungo.
Nei nuovi territori vengono a trovarsi vaste minoranze che ricadono sotto la tutela internazionale
prevista dalla conferenza di pace. Parigi chiede che il nuovo stato nascente garantisca uno statuto
di autonomia per la Rutenia subcarpatica, con un'assemblea dotata di poteri amministrativi e
legislativi. Tali disposizioni, tuttavia, vengono applicate solo parzialmente, poiché non viene
concesso tale statuto alla Rutenia, per non creare un precedente per le altre nazionalita.
Fra il 1918 e il 1919 si registrano i primi forti contrasti con i tedeschi dei Sudeti, che dopo il crollo
dell'Impero subiscono una notevole ricaduta economica dovuta alla chiusura degli sbocchi
tradizionali dell'economia. La rivolta del dicembre 1918 viene domata con la forza, ma l'atmosfera
rimane tesa anche nel 1920, quando Masaryk viene eletto presidente della repubblica senza i voti
dei tedeschi e degli ungheresi. In questi anni viene evidenziata anche la mancanza di coesione fra
cechi e slovacchi: fra gli slovacchi la maggioranza cattolica risente del massiccio arrivo di
funzionari, insegnanti e militari cechi e della loro tendenza a privilegiare i protestanti. Agli stessi
cechi si rimprovera inoltre lo scarso attaccamento alla religione a cui viene preferito il libero
pensiero.
La politica di Praga, laica e centralista, non piace alla gerarchia cattolica di Bratislava, l'unica
classe dirigente espressa dalla povera e cattolica Slovacchia. La politica del governo ceco, che
prevede una crescente nazionalizzazione dei beni ecclesiastici tramite procedure di esproprio, la
riforma del diritto matrimoniale, la trasformazione delle scuole confessionali in scuole statali,
suscita la viva opposizione del Partito popolare slovacco (Pps) di Hlinka. In generale, la classe
dirigente della Slovacchia era rappresentata dal clero cattolico mentre la Chiesa luterana, più
incline alla collaborazione con Praga, rappresentava una ristretta élite. II clero cattolico, che
considerava i cechi un popolo senza dio, aveva grande influenza sulle masse e usava questo suo
ascendente per suscitare un acceso nazionalismo contro cechi e ungheresi.
Le differenze fra cechi e slovacchi emergono a più riprese durante il periodo interbellico. Mentre gli
agricoltori della Boemia sono più progrediti per livello di vita, culturale ed economico, gli slovacchi
nelle province ex ungheresi sono piccoli proprietari con un livello di vita arretrato e subiscono
maggiormente le misure protezioniste prese dopo la crisi. Si rimprovera ai cechi di monopolizzare
la politica del paese tramite la Petka, un comitato composto dai rappresentanti di vertice dei cinque
maggiori partiti cechi, e lo Hrad, castello, che opera con ingenti fondi e indirizza alcune importanti
scelte politiche. I partiti tedesco e slovacco entrano a far parte dei numerosi e instabili esecutivi
interbellici solo per breve tempo.
La minoranza tedesca inizia a svolgere un ruolo attivo nella repubblica solo a Locarno, nel 1925,
ma se la partecipazione della comunità tedesca alla vita politica del paese viene in un primo tempo
normalizzata, essa diventa ben presto fondamentale per il futuro dello Stato cecoslovacco. La
grande depressione del 1929 stimola la ripresa di un vivace nazionalismo. La crescita di Hitler nel
1935 favorisce infatti Konrad Henlein e il partito tedesco dei Sudeti affiliato a quella nazista. Dal
1938 la politica di Hitler verso i Sudeti è sempre più pressante; egli dichiara di voler proteggere tutti
i tedeschi, ovunque si trovino, mentre il Congresso del partito di Henlein (24 aprile 1938) chiede
l'autonomia interna dei tedeschi di Boemia-Moravia Dopo vari incidenti fra polizia e facinorosi
tedeschi Benes in settembre accetta tali concessioni, che non sembrano essere più sufficienti.
Henlein, con l'appoggio di Hitler, chiede l'annessione alla Germania, obiettivo che viene presto
raggiunto grazie alla mancanza di risolutezza del governo. Parallelamente procede anche
l'allontanamento fra Praga e Bratislava. Dopo aver raggiunto l'autonomia federale e la parità fra i
due popoli, con l'accordo di Zilina del 1938, all'interno del Pps diventa sempre maggiore il peso
delle correnti estremiste e germanofile, che formano una sorta di gruppo paramilitare modellato
sull'esempio delle SS tedesche: le Guardie di Hlinka. Solo due settimane dopo la nomina di Tiso a
presidente del consiglio della Slovacchia autonoma, la lingua slovacca viene dichiarata unica
lingua ufficiale. L'unico motivo della mancata scissione dallo Stato ceco sembra essere la
debolezza dell'economia slovacca, bisognosa degli aiuti del governo centrale. La rottura con Praga
si verifica quando Tiso manifesta la volontà di separarsi dallo Stato comune chiedendo
l'allontanamento dei cechi dall'amministrazione, dalla scuola e dai trasporti, nonche la formazione
di un esercito slovacco. Diserta molti importanti incontri con il governo centrale e viene così
sostituito con Karol Sidor, che si sposta su posizioni più moderate rispetto al passato. Tiso al suo
ritorno a Bratislava da Berlino preme affinché Sidor si dimetta e si presenti alla Dieta per dichiarare
l'indipendenza slovacca. Sidor, considerato un "soldato di Praga", è costretto a piegarsi al volere di
Tiso che, sostenuto dalla maggioranza del partito e soprattutto dai più radicali, diventa il primo
presidente dell'indipendente repubblica slovacca, nata sotto la protezione della Germania,
rapidamente sancita dal trattato del 19 marzo. Durante gli anni di guerra, della Cecoslovacchia
interbellica non rimane più nulla, se non il Comitato nazionale cecoslovacco e un governo in esilio
a Londra, che riesce a ottenere dalle potenze alleate il riconoscimento della nullità dell'accordo di
Monaco.
Una soluzione alla convivenza di cechi e tedeschi nei Sudeti viene trovata nell'espulsione di questi
ultimi. Considerati traditori e responsabili sia dell'umiliazione di Monaco che dei terribili eventi della
guerra, i tedeschi vengono costretti ad abbandonare le proprie case per far ritorno in Germania, in
modo da lasciare inalterati i confini occidentali della Cecoslovacchia. II famigerato esercito
Svoboda e gruppi di azione comunisti invadono le aree popolate da tedeschi rastrellando citta e
villaggi e scagliandosi contro i civili senza fare troppe distinzioni. II 30 maggio 1945, durante la
marcia della morte di Brno, la comunità tedesca viene accompagnata lungo la via che conduce in
Austria, lungo un percorso che termina con circa 1700 vittime. Ciò continua fino al trattato di
Postdam, il quale impone che vengano eseguiti in modo umano e ordinato; il flusso di rifugiati
viene quindi bloccato per dare il tempo di preparare un'accoglienza adeguata nella Germania
occupata. Non sono però solo i cechi che si abbandonano a violenze; anche l'Armata Rossa,
nonostante venga generalmente ritenuta più mana e responsabile, con abusi sessuali e stupri di
massa contribuisce a rendere ancora peggiori le condizioni dei campi in cui si trovano i tedeschi in
attesa di espulsione. II trauma delle donne, Freiwild, preda facile di russi e cechi, fa da sfondo a
un'ondata di suicidi accuratamente pianificati. Intere famiglie si radunano e si uccidono vestite a
festa e circondate di fiori, creando un fenomeno di propor-
zioni inquietanti, secondo statistiche ceche nel 1946 si suicidano 5.558 tedeschi.
Inizia la degermanizzazione che porta alla confisca delle proprietà di tedeschi e all'annullamento di
ogni segno della cultura germanica, programma su cui concordano comunisti e anticomunisti.
Dopo l'espulsione di quasi tre milioni di tedeschi e di gran parte della comunita ungherese e la
cessione della Rutenia, che viene unita alla Russia sovietica, la Cecoslovacchia è ormai un paese
molto più omogeneo, popolato principalmente da cechi e slovacchi, i quali consolideranno la
propria identità nazionale in maniera indipendente fino alla separazione consensuale del gennaio
1993, che ha dignitosamente allontanato le sorti di Bratislava da quelle di Praga, senza tuttavia
condizionare il futuro ingresso di entrambe nell'Unione europea né tantomeno i legami fra le due
repubbliche.

2.2- Nascita e dissoluzione di un'unione: l'enigma jugoslavo


La Jugoslavia è nata a Versailles, ma l'enigma jugoslavo affonda le sue radici nell'Ottocento,
quando la formazione dei sentimenti nazionali porta alla nascita dell'Illirismo, dell'idea jugoslava e
di altre correnti "unioniste" come quella di Rakovac che parla di un popolo slavo sud-occidentale
composto da serbi, croati e sloveni. Dopo l'annessione della Bosnia-Erzegovina da parte
dell'Austria, segue una radicalizzazione del dibattito politico circa gli elementi di unione. A una
formula di ampio respiro come quella della federazione dei popoli si contrappone l'idea di un
assorbimento delle altre entità nazionali nel contesto del già indipendente Stato serbo, programma
che naturalmente contribuisce alla nascita di contrasti fra serbi e croati.
Alla fine del 1905, sulla base delle risoluzioni di Fiume e di Zara, nasce la coalizione serbo-croata,
che riesce a imporsi alle elezioni del 1906. Le aspirazioni per la realizzazione di uno Stato comune
si fanno maggiori e allo scoppio del primo conflitto mondiale diventano parte integrante del
programma del Comitato croato costituito a Roma.
I popoli jugoslavi, tuttavia, sono schierati su fronti diversi e al termine della guerra solo la Serbia ha
diritto a sedere al tavolo dei vincitori di Versailles.
Il 5 ottobre 1918 viene costituito a Zagabria il Consiglio nazionale che alla fine di novembre
proclama l'unione con Serbia e Montenegro, aprendo la strada alla nascita del Regno dei Serbi,
Croati e Sloveni (1 dicembre 1918). II nuovo Stato, oltre che con il problema della crescita
economica e del progresso sociale, si deve confrontare con la necessità di realizzare dei rapporti
interetnici corretti ed equilibrati fra i diversi popoli. Molte sono le differenze fra sloveni, croati e
serbi: il tenore di vita e l'organizzazione sociale, la religione, la storia e to scrittura. Mentre la lingua
serba e quella croata presentano elementi di similitudine, lo stesso non si può dire dello sloveno,
idioma distinto; le differenze sono maggiori nel caso della Macedonia, la cui lingua è più vicina al
bulgaro; e in quello del Kosovo, abitato per lo più da albanesi musulmani. L'idea di uno Stato
comune incontra fin dal principio differenze di vedute e dubbi che emergono da un discorso fatto
da Stjepan Radic, quando il leader croato esprime perplessità circa la riuscita di tale progetto. Già
dopo la guerra si manifestano i primi risentimenti fra i serbi e le altre nazioni che hanno combattuto
per l'Austria e auspicano una costruzione federale dello Stato.
Gli anni dell’instaurazione del governo di Belgrado in Kosovo sono caratterizzati da scontri armati
fra truppe serbe e ribelli e dalla nascita di un Comitato per la difesa nazionale del Kosovo che
intende portare la questione albanese ai lavori della Conferenza di pace per denunciare i metodi
dell'amministrazione serba nella regione.
In seguito alle elezioni del 1920 si inasprisce anche il contrasto fra i serbi che propendono per una
concezione statale centralista e unitaria e gli autonomisti croati; Le elezioni del marzo 1922
confermano la forza del Partito radicale serbo e di Radic, il quale cerca di portare la sua lotta a
Mosca, ma al suo ritorno in Jugoslavia viene poi imprigionato. In parlamento si registra un'accesa
conflittualità fra i numerosi partiti con chiare connotazioni nazionali e confessionali e, nonostante
l'ingresso di Radic nel governo nel 1925, gli antagonismi continuano fino al 20 giugno 1928,
quando il deputato Punisa Racic spara sui membri della coalizione democratico-contadina
uccidendone diversi, fra cui lo stesso Radic. Gli succede Macek. Alessandro, prima reggente e poi
re, concepisce il regno come un allargamento della Serbia, e così le esigenze di autonomia
culturale, politica ed economica dei popoli jugoslavi non trovano risposta, ma vengono sostituite
dall'atteggiamento antidemocratico, centralizzatore ed egemonico espresso dalla dittatura della
Corona. La Macedonia viene considerata come Serbia meridionale, mentre per gli albanesi del
Kosovo è previsto I'annientamento o un loro spostamento in Turchia. Vengono create nuove
province strutturate in modo tale da rafforzare il centralismo e sono messi fuori legge tutti i partiti
nazionali, regionali o confessionali. La volontà unificatrice espressa dalle riforme accresce il
risentimento croato, che vede nel governo di Belgrado una semplice emanazione del popolo serbo.
In Croazia, poco dopo la sospensione della Costituzione e I'inizio della dittatura, Ante Pavelic
fonda l'organizzazione degli ustasa, che intende liberare il paese ricorrendo all'insurrezione armata
e allo stesso modo l'Organizzazione rivoluzionaria macedone lotta per l'annessione alla Bulgaria.
Attentati ed eliminazione fisica degli oppositori raggiungono il culmine con l'assassinio di re
Alessandro a Marsiglia nel 1934). II principe Paolo che gli succede come reggente chiama al
governo il serbo Milan Stojadinovic e tenta un compromesso con Vladko Macek, cercando di
ingraziarsi i croati con la proposta di stipulare un concordato con il Vaticano, idea che fallisce per
l'opposizione della chiesa ortodossa e degli stessi croati che tramite Macek propongono la
ripartizione dello Stato in cinque o sette entità federate. Non raggiunge esiti migliori il tardivo
tentativo di riforma federale quando viene creata una provincia intorno a Zagabria, con la Dalmazia
e le zone della Bosnia-Erzegovina abitate da croati, guidata da un ban e dotata di autonomia per
gli affari interni, I'istruzione, l'economia, la finanza pubblica e gli affari sociali. I serbi denunciano di
non essere considerati come minoranza e di non godere perciò di garanzie e diritti, mentre i croati
si mostrano poco soddisfatti poiché non tutte le loro regioni storiche sono state incluse nella
provincia.
La situazione raggiunge un punto di rottura. II colpo di stato militare del generale Bora Mirkovic e il
preludio allo smembramento dello Stato che ridimensiona la Serbia entro le frontiere del 1885
sottoponendola all'occupazione delle truppe tedesche: la Voivodina torna all'Ungheria, il Kosovo
viene ceduto all'Albania, la Macedonia alla Bulgaria, mentre il Montenegro è posto sotto il
protettorato dell'Italia, che raggiunge un'intesa con la Croazia di Ante Pavelic, Stato indipendente
sorto con l'appoggio di Benito Mussolini e Hitler. La legislazione antisemita viene introdotta
nonostante le origini ebraiche di Josip Frank, nuovo capo del partito. I croati si dichiarano razza
superiore e i serbi sono prima obbligati a convertirsi al cattolicesimo e privati dell'uso dell'alfabeto
cirillico, poi "raccolti" nei ventiquattro campi di concentramento croati. Il risentimento croato,
incoraggiato e sostenuto dalle forze di occupazione, ricorre alla pulizia etnica.
Mentre si manifestano ancora episodi di violenza prende forma la nuova Jugoslavia comunista di
Tito, il quale si dimostra capace di superare la logica nazionate scegliendo come suoi collaboratori
un montenegrino, un serbo e un sloveno. La repubblica popolare federativa nasce il 29 novembre
1945 ricalcando il modello marxista-leninista delle nazionalita, è composta da sei repubbliche
(Croazia, Serbia, Montenegro, Slovenia, Macedonia e Bosnia-Erzegovina) e due province
autonome all'interno della Serbia (Voivodina e Kosovo), mentre grazie alla distinzione fra
cittadinanza jugoslava e nazionalità sia minoranze che lingue minoritarie ottengono un
riconoscimento. Gli effetti più tragici si abbattono sulla minoranza italiana, fortemente colpita dal
trattato di annessione in vigore dal 1947 e dalla contesa fra Roma e Belgrado su Trieste e l'Istria.
L'esodo degli italiani inizia nell'immediato dopoguerra e registra il trasferimento forzato di
300.000/350.000 persone e i drammatici episodi delle foibe, concludendosi con la totale
espulsione degli italiani dalla regione istriana e dalle città dell'Adriatico, soprattutto da Pola e da
Fiume. Nonostante il trattato di pace preveda il sistema delle opzioni fra la cittadinanza italiana e
quella jugoslava, ogni tentativo di lasciare una comunita italiana in Istria fallisce.
Nei rapporti tra le diverse etnie del paese si registra una parziale attenuazione del precedente
dominio serbo anche se i serbi mantengono la prevalenza negli organi di governo. Rimangono
quindi le basi di un conflitto che oppone le diverse nazionalita in termini di sviluppo economico,
influenza politica e diversità etno-confessionale, soprattutto nel caso del Kosovo e della
Bosnia-Erzegovina.
La Costituzione del 1963, che cambia denominazione alla Repubblica Popolare Federativa
trasformandola in Socialista Federativa, può considerarsi il frutto del compromesso fra le due
distinte correnti, fra centralismo e autonomia. II modello federale jugoslavo viene rafforzato tramite
la concessione di maggiore autonomia alle repubbliche, l'apparizione del principio della rotazione
dei dirigenti e, nel 1969, grazie alla trasformazione del partito in senso federale. Le proteste di
albanesi e croati, tuttavia, costringono il governo a emanare altre leggi per dare più poteri alle
province autonome e a condurre una revisione costituzionale. Viene introdotto il concetto di parità
tra gruppi etnici e nel 1974 si giunge a una nuova Costituzione molto aperta alle istanze
nazionaliste. Nel 1974 si procede dunque a un netto avanzamento nel processo di decentramento
che lascia a repubbliche e province il diritto di veto nelle decisioni federali, soddisfacendo le
pretese di carattere economico di Slovenia e Croazia, e quelle di autonomia del Kosovo. Gli
insuccessi dell'economia e la debolezza della nuova leadership facilitano infatti la ricomparsa di un
nazionalismo serbo centralizzante e intollerante, che si contrappone duramente alle prime richieste
di maggiore autonomia fatte dal gruppo etnico albanese. Nel 1981, il Kosovo è infiammato dalle
proteste studentesche dell'università di Pristina. La repressione dell'esercito apre un decennio di
sempre maggior risentimento e ostilità fra le diverse nazioni, per ragioni storiche o religiose, ma
anche economiche Si registra inoltre la crescente presa di coscienza nazionale dei musulmani
bosniaci, decisi ad affermare una nazionalita distinta da quella serba o croata. Nel 1987, durante
una sua visita in Kosovo, simbolo della disfatta storica dei serbi, Milosevic resuscita
l'ultranazionalismo serbo, incitando i serbi kosovari ad agire con forza per resistere di fronte al
"genocidio" perpetrato ai loro danni. Egli inizia ad abrogare le norme costituzionali che riconoscono
gli statuti autonomi di Kosovo e Voivodina e l'intera costruzione federale jugoslava. Belgrado
abolisce l'autonomia del Kosovo (27 marzo 1989) e con il Programma per la realizzazione della
pace e della prosperità da il via alla "serbizzazione" della società e delle istituzioni. La risposta
della comunità albanese, che proclama la costituzione di una Repubblica del Kosovo, organizza un
referendum e crea un sistema parallelo di strutture politiche, sanitarie e culturali, è inizialmente
condotta dalla Lega democratica del Kosovo (Ldk) di Ibrahim Rugova il quale, nell'ottobre 1991,
istituisce un governo in esilio nella speranza di internazionalizzare la questione. Milosevic far leva
su un generale risentimento diffuso fra i serbi, convinti di essere sempre stati sfruttati dalle altre
nazioni. Sulla stessa lunghezza d'onda sembra sintonizzarsi Franjo Tudjman, leader dell'Unione
democratica croata.
La Slovenia è la prima a guadagnare l’indipendenza (29 maggio 1991) dopo scontri minimi con le
truppe serbe, terminati con la benevola accettazione di Milosevic, Serbia e Slovenia non hanno
confini comuni e solo pochissimi serbi risiedono in Slovenia. La situazione è però più complessa in
Croazia dove la comunità serba residente in Krajina e Slavonia viene presto sottoposta alle prime
politiche tendenti all'epurazione dai pubblici uffici. Sfidando il bando imposto dalla Corte
costituzionale la comunità serba organizza un referendum per di-
chiarare la propria autonomia, atto che da inizio alla guerra di secessione croata.
Dopo i primi scontri, la creazione di consigli nazionali serbi in Krajina e Slavonia e la dichiarazione
di secessione dalla Croazia del febbraio 1991 provocano l'intervento dell'esercito jugoslavo, che
prima riprende la Krajina e poi la Slavonia orientale.
II conflitto tra serbi e croati segna una continua escalation di violenza. Nel 1992 il conflitto si
estende alla Bosnia, territorio che i due presidenti cristiani intendono spartirsi lasciando solo una
piccola enclave ai musulmani. Per tre anni e mezzo si susseguono violenze che si caratterizzano
per la pulizia etnica ('episodio di Srebrenica nel 1995) e che coinvolgono in fasi diverse Croazia,
Bosnia-Erzegovina e Kosovo. Vittime privilegiate di questi anni di violenza sono le donne, colpite
dallo stupro sistematico attuato da tutte le principali fazioni in guerra, una campagna volta a
intimorire, umiliare e degradare il "nemico", in modo da spingerlo ad abbandonare la propria casa
per non tornarvi più.
Sotto l'impulso della comunità internazionale nasce invece un Tribunale internazionale competente
per il giudizio delle persone responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario
commesse nel territorio della ex-Jugoslavia a partire dal 1991 e si arriva inoltre alla creazione
dell'lnternational Commission for Missing Persons, agenzia indipendente creata nel 1996 con il
compito di occuparsi dei molti dispersi. Tollerata l'indipendenza di Croazia e Slovenia, appoggiate
con decisione dalla comunita internazionale, Milosevic si volge al Kosovo.
Prevale dunque la sua linea dura. II pacifismo di Rugova, d'altra parte, è anch'esso costretto a
cedere di fronte alla strategia del Movimento di liberazione kosovaro.
Dopo gli scontri del novembre 1998, la tragedia della pulizia etnica ricomincia; le truppe serbe
intervenute per reprimere l'attività scatenata dagli indipendentisti danno loro una risposta brutale
ed efferata intraprendendo una sistematica campagna di eliminazione fisica di forze paramilitari e
civili, accelerata durante gli 89 giorni di bombardamenti.
La guerra non sembra aver risolto la questione nazionale nei nuovi Stati: il più omogeneo dal punto
di vista etnico è la Slovenia (92% di sloveni), mentre gli altri possiedono tutti consistenti minoranze:
La riappacificazione è resa difficile dalla permanente impunità per i crimini di guerra e dal
fallimento della via giudiziale scelta per punire Milosevic, colui che agli occhi dell'opinione pubblica
appare I'unico responsabile.
Con il referendum tenutosi nel 2006 il Montenegro ha espresso la volontà popolare di staccare il
destino del paese da quello dello Serbia.
Molti osservatori si sono spinti fino a definire gli scontri della ex Jugoslavia come delle vere guerre
di religione e sottolineano come la posizione delle diverse Chiese sia stata indirizzata più verso la
difesa delle istanze nazionali che a favore della pace e del dialogo, identificando religione ed
etnicità in maniera esclusiva.
[Il Kosovo si è reso indipendente dalla Serbia nel 2008 in seguito a una dichiarazione unilaterale,
ancora oggi non è stato riconosciuto da quest’ultimo e da altri paesi]

Cap. 3- Popoli, Stati e minoranze dal Baltico al Mar Nero


3.1- Romania e Polonia nel periodo interbellico
Durante il XX secolo la convivenza fra i popoli dell'area ha comunque manifestato una certa
tensione, che ha contribuito a rivelare la debolezza delle strutture statali "nazionali" sorte in seguito
alla Grande Guerra. Polonia, Romania, Ungheria, Turchia e Bulgaria, pur partendo da presupposti
democratici hanno poi intrapreso un lento processo di erosione verso forme di governo autoritario.
Nonostante le notevoli differenze sociali, culturali ed economiche esistenti fra le regioni di questi
Stati, nei loro sistemi istituzionali non si trovava alcuna evidente forma di autonomia, si era
preferita la formula del centralismo. L'esaltazione nazionale ha però avuto gravi ripercussioni sui
rapporti della maggioranza con i gruppi etnici minoritari, avversati in quanto ritenuti pericolosi
elementi interni di disturbo. Si innesca così un pericoloso meccanismo che oppone i popoli ai quali
è stata assegnata la sovranità statale a quelli che, invece, con il passare degli anni si sentono
sempre più defraudati dei loro diritti e reclamano insistentemente l'autodeterminazione. La Polonia
che dalla metà del XVIII secolo viene diviso fra Prussia, Russia e Impero asburgico, alla fine della
1GM comprende aree diverse per livello culturale, sociale ed economico. I territori della Polonia
interbellica ospitano il 30% di minoranze, bielorussi, lituani, ruteni, ucraini, tedeschi, ebrei, i cui
diritti sono regolati dagli accordi di Versailles, firmati nonostante la forte resistenza e visti come una
indebita intromissione nei propri affari interni. La situazione del paese presenta sin dal primo
dopoguerra questioni problematiche. Nella parte occidentale del paese si registrano scontri con i
tedeschi dell'Alta Slesia, poi divisa dal Consiglio Supremo; mentre Danzica,
divenuta città libera, viene collegata economicamente alla Polonia. A Oriente gli avvenimenti si
rivelano più drammatici a causa del conflitto fra polacchi e ucraini di Galizia (1918-1919) e della
guerra con la Russia, che porta l'esercito di Varsavia fino a Kiev e si conclude con
il trattato di Riga del 1921. L'occupazione di Leopoli viene riconosciuta dal Consiglio degli
ambasciatori come un fatto compiuto solo nel maggio 1923, a condizione che alla Galizia orientale
venga concessa autonomia territoriale e diritto di esprimersi circa l'appartenenza della regione, che
diventerà il centro del nazionalismo ucraino. Vengono boicottate le elezioni del 1921, sono
organizzate azioni di terrorismo e sabotaggio e nel 1929 nasce l'Organizzazione dei nazionalisti
ucraini di Dmytro Doncow. Varsavia non rispetta la promessa di istituire una università ucraina a
Leopoli e dal 1924 liquida gran parte delle scuole elementari dove l'ucraino è lingua di
insegnamento. Le relazioni con le minoranze si inaspriscono ulteriormente durante il rigido regime
dei Colonnelli, soprattutto in Ucraina e Bielorussia, regioni che soffrono particolarmente le
conseguenze della crisi economica del 1929, diversamente dai tedeschi e dagli ebrei. Le elezioni
del 1935, a cui partecipa solo il 46,5% della popolazione, evidenziano il contrasto che esiste fra le
comunità minoritarie e il governo polacco, sempre più isolato e impotente di fronte all'aggravarsi
della situazione interna ed internazionale. Le responsabilità della crisi vengono addossate alla
popolazione tedesca e così, dopo il patto russo-tedesco del 23 agosto 1939 e la successiva
occupazione della Polonia, il governo polacco in esilio a Londra elabora delle norme giuridiche che
privano i tedeschi di cittadinanza e proprietà, iniziando a programmare anche la loro espulsione.
L’occupazione sovietica colpisce i polacchi delle regioni orientali con la deportazione in Siberia o
con la morte, come avvenuto a Katyn, dove nel 1943 i tedeschi scoprono una fossa comune con
corpi di ufficiali polacchi uccisi da un colpo alla testa, fatto la cui responsabilità viene riconosciuta
dall'URSS solo con Gorbacev. Finita la guerra, si ripete sostanzialmente quanto avviene in
Cecoslovacchia e, in misura minore, in Unghe-
ria. La sete di vendetta dei polacchi, brutalizzati e umiliati, porta a includere la deportazione dei
tedeschi tra i principali obiettivi del programma nazionale; all'arrivo dell'Armata Rossa o alla
notifica di deportazione delle autorità polacche migliaia di tedeschi reagiscono con il suicidio,
mentre altri sono trasferiti in quartieri ghetto oppure impiegati nell'industria mineraria.
L'odio per i tedeschi diventa parte integrante della società polacca e, come in Cecoslovacchia, ai
tedeschi viene imposto di portare al braccio una fascia con la N di Niemiec (in ceco, Nemec); i
campi di concentramento e detenzione nazisti sono adattati in campi di lavoro per nazisti e
presunti nazisti oppure vengono utilizzati per ospitare i tedeschi destinati al trasferimento. Questi
vengono divisi in diverse categorie: locali che vengono privati di beni e diritti, criminali di guerra
processati o deportati, e autoctoni, ai quali e invece concesso fare una domanda di verifica per la
polonizzazione. Inizia così l'opera di degermanizzazione: città e strade vengono rinominate, le
iscrizioni in tedesco cancellate da edifici, chiese, tombe e libri. L'uso della lingua germanica nei
luoghi pubblici, come nelle case private, viene proibito da una disposizione del 1946. A est, viene
organizzato uno scambio di popolazioni con il governo sovietico che riporta entro i confini polacchi
due milioni di sfollati trasferendo in territorio russo gran parte degli ucraini ancora presenti, dopo la
seconda guerra la Polonia risulta quindi più compatta e omogenea dal punto di vista etnico così
come Ungheria e Cecoslovacchia, Stati che hanno escluso le principali comunità minoritarie dai
propri confini.
Similmente alla Polonia, anche la Romania dopo l'unione di Transilvania, Banato, Bessarabia,
Dobrugia e Bucovina, nel periodo interbellico vive le relazioni con le sue minoranze in maniera
problematica. La maggioritaria popolazione romena convive con comunità magiare (ungheresi,
siculi e csango), con tedeschi, ruteni, ucraini, russi, bulgari, "tigani", ebrei, turchi e altri. In Romania
come in Polonia, le clausole del trattato di Versailles riservate ai diritti delle minoranze nazionali
vengono vissute come indebite intromissioni nella politica interna del paese. I territori annessi in un
primo periodo conservano istituzioni di carattere parlamentare con attribuzioni regionali (Marele
Sfal National in Transilvania, Consiliul National in Bucovina e Sfatul Tarii in Bessarabia) con relativi
apparati amministrativi e vecchie legislazioni. Nel periodo 1918-1920 diverse disposizioni del
vecchio regno vengono estese alle nuove province, la cui annessione viene sancita con la legge di
ratifica del 1919, mentre dall'aprile 1920 inizia l'attività della Commissione Centrale per
l'unificazione. Nonostante le premesse poste dai trattati internazionali e presenti anche nella
dichiarazione di Alba Iulia del 1918, che prevede il diritto di ogni popolo ad avere istruzione,
amministrazione e giustizia nella propria lingua, la politica delle concessioni viene alternata ad
atteggiamenti più intransigenti.
II programma di "romenizzazione" di Bucarest colpisce l'università magiara di Cluj e quella tedesca
di Cernauti, trasformate in istituti romeni. La cittadinanza viene concessa solo a chi è in grado di
produrre documenti talvolta andati perduti o non rilasciati dalle stesse amministrazioni. La
Costituzione del 1923 riflette il tentativo di voler creare un'immagine di liberalismo e tolleranza che
spesso e molto lontana dalla realtà. Le concessioni fatte nel campo dell'istruzione vengono presto
limitate da una legge del 1924 che condiziona la creazione di una scuola all'approvazione del
Ministero dell'Istruzione e assegna allo Stato l'orientamento e il controllo dell'intero insegnamento
primario. In campo economico, la politica del “prin noi insine” costituisce una forma di chiusura
verso l'esterno, una manifestazione della tendenza a dimostrare una sorta di auto-sufficienza
generale. Alcune misure speciali contengono infatti chiare discriminazioni fra romeni e cittadini
romeni di altre nazionalità. La legge sulle miniere del 1924 prevede la quota minima del 75% di
romeni per il personale tecnico e amministrativo delle imprese e la legge di riforma agraria nei
nuovi territori è causa di numerose polemiche che accusano Bucarest di aver discriminato gli
ungheresi. Diverse disposizioni che appaiono discriminatorie nei confronti delle minoranze,
tuttavia, non riescono a produrre effetti sostanziali e così la presenza straniera nell'economia
romena rimane pressoché invariata, i dati infatti dimostrano che alla fine degli anni 30 la posizione
delle minoranze nei settori dell'industria, del commercio e del credito è invece forte.
L'espropriazione massiva decretata dal governo di Bucarest crea un sistema di piccole imprese di
proprietà di contadini romeni, privando i vecchi proprietari ungheresi della loro posizione
dominante. La politica economica di Bucarest, d'altra parte, è duramente criticata anche dal Partito
nazional-contadino di Iuliu -Maniu, il quale la ritiene espressione di un intento colonizzatore, in
quanto non recepisce la particolarità transilvana, che consiste in un livello economico più
sviluppato e in una straordinaria varietà etnico-religiosa: gli ungheresi sono cattolici romani,
riformati calvinisti e unitariani, i tedeschi luterani, i romeni ortodossi o greco-cattolici. Quella della
Transilvania è una questione particolarmente intricata. Essa ha rappresentato per secoli un
territorio essenziale per lo sviluppo della cultura magiara, ma anche di quelle romena e sassone,
un limite culturale e geografico tra Oriente e Occidente, e durante il periodo interbellico è oggetto
di una intensa controversia fra Romania e Ungheria. Budapest cerca di portare la questione
davanti alla Società delle Nazioni, dove denuncia discriminazioni nei confronti della minoranza
ungherese in Romania senza ottenere tuttavia alcun successo. Viene anche svolta una incessante
propaganda presso le principali capitali straniere e negli Stati Uniti. In un articolo del "New York
Herald Tribune" del 20 agosto 1929, Emeri Deri, ungherese emigrato in America, accusa i governi
romeni di aver introdotto un regno asiatico di oppressione politica, razziale e religiosa in
Transilvania.
Negli Stati Uniti si svolge una vera e propria disfida fra le rispettive delegazioni diplomatiche,
entrambe impegnate nel rivendicare i propri diritti storici sulla regione transilvana. Numerose le
mancanze denunciate: l'espulsione dalla Transilvania di circa 200.000 ungheresi, per lo più
intellettuali e funzionari; la limitatezza delle concessioni di autonomia previste dalla Costituzione e
da altre misure; la tassazione più gravosa e l'opera di assimilazione forzata condotta tramite
strumenti volti a garantire I'egemonia linguistica e culturale della maggioranza romena;
l'obbligatorietà della lingua romena in tutti i settori dell'amministrazione. Questo "nazionalismo di
Stato" è superato dall'ascesa di nuove forze politiche dichiaratamente antisemite che fanno della
romenità non uno slogan, ma un ideale da seguire nella vita politica anche ricorrendo alla violenza
e all'intimidazione. La Lega di difesa nazionale cristiana fondata da Cuza nel 1923 funge da
apristrada per il giovane Corneliu Zelea Codreanu, che presto si allontana dal maestro per formare
il suo proprio movimento, la Legione dell'Arcangelo Michele, la cui missione è restituire la Romania
alla purezza dei suoi caratteri originari, identificando gli ebrei, ma anche gli ungheresi, come
traditori che minano l'unità dello Stato romeno. Per tutti gli anni 20 si susseguono incidenti di
diversa gravità, come in occasione del congresso studentesco di Oradea, nel 1927, quando i
giovani antisemiti si rendono protagonisti di aggressioni e atti vandalici . La legge
sull'insegnamento secondario del 1928, pur permettendo la creazione di sezioni magiare o
tedesche presso i licei statali, viene accusata di tendenze romanizzatrici e cosi quella sulle
confessioni delle minoranze dello stesso anno che consacra il primato riservato al culto ortodosso
e a quello greco-cattolico. Le manifestazioni e attività propagandistica delle formazioni antisemite
si intensificano fino a entrare in competizione con la monarchia di Carol II, il quale cerca in tutti i
modi di cancellare la Guardia di Ferro di Codreanu, prima mettendola fuori legge, poi mutandone
l'antisemitismo.
Dopo le elezioni del 1937 il re sceglie di porre alla guida dell'esecutivo il poeta nazionale Goga il
quale resiste solo un mese, prima che sia lo stesso sovrano a dare inizio a una sorta di
"democrazia guidata". La questione Codreanu verrà risolta con la forza poco più tardi. II leader dei
legionari dopo essere stato condannato per una serie di accuse viene ucciso con altri 13 legionari
durante un tentativo di fuga.
Nel 1938, viene istituito il Commissariato generale per le minoranze con il compito di coordinare e
armonizzare gli interessi minoritari con quelli dello Stato romeno e viene inoltre pubblicato lo
Statuto per le minoranze. Grazie a tali misure vengono appianate quasi tutte le divergenze
esistenti con la comunità tedesca e anche con quella ungherese, mentre si inasprisce la questione
ebraica. L'opera di romenizzazione del paese continua con la nuova Costituzione di re Carol II, che
distingue fra romeni di origine e cittadini romeni, riservando ai primi diritti più ampi. La fine
dell'esperienza della Grande Romania, sancita nel 1940 dalle cessioni di Transilvania, Dobrugia e
Bessarabia, riporta i confini del paese entro proporzioni più ragionevoli e lo ricompatta da un punto
di vista etnico, privandolo di numerosi elementi minoritari. Al termine della guerra il ritorno della
Transilvania entro i confini romeni fa riapparire il problema delle minoranze, reso ancor più difficile
dagli ulteriori risentimenti sorti durante la seconda guerra mondiale. Il quadro etnico transilvano
viene inquinato da sospetti reciproci e nuove tensioni, soprattutto nei confronti della minoranza
magiara, che viene inizialmente tutelata con l'autonomia regionale dei siculi (szekely) e ampi diritti
culturali, a Cluj viene creata l'università ungherese Bolyai. La collaborazione con le autorità naziste
costa invece alla minoranza tedesca l'assegnazione di un'iscrizione retroattiva al partito di Hitler,
l'invio ai lavori forzati in Unione sovietica e la fine del prestigio sociale dovuto a proprietà e imprese
che vengono espropriate da Bucarest. La minoranza tedesca di Romania, grazie a un accordo
firmato da Hitler e Antonescu nel 1943, fornisce all'esercito tedesco fra i 60 e i 70.000 uomini, e
stringe stretti rapporti con le SS.
I rapporti etnici, durante gli anni in cui il regime comunista riesce a instaurarsi in Romania, sono
caratterizzati da una certa ambiguità. II Partito comunista romeno, composto per lo più da
"stranieri", cerca di compensare la necessità di una maggiore romenizzazione con la garanzia di
una reale autonomia per le "nazionalita conviventi", soprattutto per gli ungheresi fra i quali si
sviluppa una posizione indipendente che viene presto definita reazionaria e sovversiva. I promotori
di questa corrente dell'Unione popolare magiara vengono così "allontanati" e la stessa Unione
inizia un lento cammino verso l'autodissoluzione. II socialismo romeno riesuma prontamente i
vecchi metodi del nazionalismo e la minoranza ungherese viene sottoposta a un pericoloso
processo di omogeneizzazione culturale. Vengono inoltre ridotti i corsi in lingua magiara nelle
università, si pone fine all'importazione di libri e opere ungheresi pubblicati in Ungheria e si
scoraggiano gli scambi fra i due paesi confinanti. Karoly Kiraly, membro ungherese del Partito
comunista romeno, chiede più volte che i rapporti con gli ungheresi vengano riequilibrati e riesce a
far giungere l'eco di tale problematica sulle pagine del "New York Times", ottenendo solo di essere
allontanato dal regime.
Alla riapertura di normali relazioni diplomatiche con Bonn (1967) vengono presi i primi accordi per
l'emigrazione dei tedeschi di Romania, seguiti poi dalla legge del 1974 sulle proprietà degli
emigranti e dagli accordi di Helsinki del 1977 che affermano il diritto al ricongiungimento familiare.
Nel 1978, Ceausescu e Helmut Schmidt, cancelliere della Germania federale, si accordano per
permettere a più di 10.000 tedeschi di lasciare la Romania ogni anno dietro pagamento di un
corrispettivo. In continuo calo è anche il numero degli ebrei, facilitati a raggiungere Israele in
cambio di denaro e dell'appoggio della comunità ebraica americana L'allontanamento di queste
minoranze si ripercuote sull'economia del paese, che risente della sottrazione di elementi validi dal
punto di vista sociale ed economico, ottimi professionisti. A lottare contro il folle
nazional-comunismo di Ceausescu rimane solo la minoranza magiara che si dimostra reattiva nel
rivendicare la propria appartenenza e la concessione di diritti collettivi per la protezione della
propria particolarità etnica. Nel 1982 viene inviata una lettera alla Conferenza sulla Sicurezza e la
Cooperazione in Europa di Madrid che presenta sul piano internazionale le misure discriminatorie
attuate dal regime di Ceausescu, diventate negli anni Ottanta sempre più pesanti e meno
tollerabili. La caduta del comunismo di Ceausescu blocca un progetto di "devillagizzazione" che si
sarebbe rivelato disastroso per questa minoranza, la quale sarebbe stata concentrata in
agglomerati urbani a maggioranza romena, rischiando così di soffrire l’annullamento delle proprie
strutture e tradizioni. Non è un caso che, durante la rivoluzione del 1989, l'Ungheria venga
accusata da Ceausescu di essere il mandante nascosto degli scontri di Timisoara, che iniziano in
seguito alle proteste per l’allontanamento del pastore ungherese Laszlo Tokes e si concludono con
la frettolosa eliminazione della coppia presidenziale.

3.2 La fine del socialismo reale e il cammino europeo


II 1989 segna l'avvio del processo di democratizzazione nei paesi del socialismo reale e l'inizio di
una nuova fase nella storia di questa parte dell’Europa. Nascono tuttavia problematiche di
carattere economico, sociale e politico, ma soprattutto si allargano gli orizzonti delle popolazioni
europee, le quali iniziano a godere di maggiori libertà di movimento. La fine del regime e la
riapertura delle frontiere romene sono così seguite da una massiccia ondata di migrazioni della
comunità tedesca. II ritorno alla democrazia non implica un'immediata revisione della politica
relativa al trattamento della minoranza ungherese. Nel marzo 1990 a Targu Mures si scatena una
violenta guerriglia nelle strade della cittadina. Le pretese avanzate dalla comunità ungherese sul
liceo Bolyai, una vecchia scuola calvinista, fanno irritare i nazionalisti romeni che interpretano tale
gesto come un primo segnale di un tentative di voler separare la Transilvania dalla Romania.
Protagonista del tragico episodio è l'organizzazione Vatra romaneasca, formazione guidata dal
motto "I romeni erano in Transilvania prima di tutti gli altri" che lancia un attacco contro la sede
dell'Unione politica magiara provocando scontri che coinvolgono centinaia di romeni e ungheresi
provenienti dai vicini villaggi e vengono fermati solo grazie all'intervento dell'esercito romeno.
Gli ungheresi di Romania e di Slovacchia, prima di essere riconosciuti come gruppo etnico a se
stante, dopo il 1989 hanno dovuto fronteggiare il nazionalismo degli esponenti di governo
ex-comunisti, che per alcuni anni hanno sbandierato la minaccia ungherese per ottenere
maggiore consenso politico in Romania ma anche altrove, questo ha reso possibile lo sviluppo e il
relativo successo di movimenti ultranazionalisti come il Partito dell'unità della nazione romena e
Romania Mare, forza che si definisce di centro-sinistra e si richiama direttamente alla Grande
Romania del periodo interbellico. Tale formazione, guidata da Corneliu Vadim Tudor, si distingue
rispetto ad altri movimenti simili non solo per la delirante campagna contro gli ungheresi, ma anche
per quella contro i rom e gli ebrei, accusati di ordire complotti contro gli interessi del paese.
L'Unione europea con i principi di Copenaghen del 1993 richiede ai paesi candidati istituzioni
stabili, stato di diritto, rispetto dei diritti dell'uomo e tutela delle minoranze. L'Ungheria si dimostra
molto attenta verso gli ungheresi che vivono in Romania e dal 1990 inizia a realizzare una rete di
agenzie governative e fondazioni con l'obiettivo di creare forme di collegamento con la
madrepatria, incoraggiando la comunità magiara a conservare la propria identità e il senso di
appartenenza alla nazione ungherese, obiettivi perseguiti dall'Unione democratica dei magiari di
Romania (Udmr). Le richieste ungheresi, che consistono in un referendum per
l'autodeterminazione della regione, per i nazionalisti romeni preludono al secessionismo, motivo
per cui si arriva a chiedere la messa fuori legge delI'Unione magiara. Budapest giudica insufficienti
le misure adottate sul piano interno dal governo romeno. La Transilvania, come altre regioni
popolate da ungheresi, viene vista come un prolungamento storico dello Stato ungherese e sulla
base di tale approccio viene elaborata la "legge sullo Status" la quale riconosce ai quasi tre milioni
di magiari che risiedono al di fuori dei confini territoriali del paese dei diritti e dei privilegi per la loro
origine etnico-nazionale. Tra le questioni sollevate dalla Romania e dagli altri Stati interessati dal
provvedimento (Croazia, Slovenia, Austria, Ucraina e Serbia) vanno annoverate: l'indebita
ingerenza di fatto dell'Ungheria nei loro affari; la costituzione di privilegi di appartenenza che
possono avere ripercussioni destabilizzanti sulla pace sociale; il rischio che da un giorno all’altro
compaiano dal nulla migliaia di "ungheresi" desiderosi di ottenere i benefici previsti dalla legge,
aumentando la consistenza delle minoranze etniche e creando nella stesse desideri federalisti. Le
polemiche però vengono gradualmente appianate grazie alla guida imposta dalle istituzione
europee alla Romania e al ruolo dell'Udmr.
La Legge nazionale del 13 marzo 2001 sulle lingue minoritarie garantisce l'utilizzo dell'ungherese
nell'organanizzazione dell'insegnamento e nel campo dell'amministrazione pubblica locale. Le
minoranze, ove rappresentano più del 20% della popolazione, godono del diritto di beneficiare dei
servizi forniti dalle autorità locali nella propria lingua materna. La nuova Costituzione approvata nel
2003 richiama direttamente nel suo testo alcuni diritti concessi alle minoranze etniche. L'articolo 6
garantisce il diritto alla propria identità, culturale, linguistica e religiosa, in conformità ai principi di
uguaglianza e non discriminazione. Gli art. 120 e 128 prevedono il diritto a usare la lingua
materna, scritta e orale, e a usufruire di un interprete nelle relazioni con l'amministrazione pubblica
locale e nei procedimenti giudiziari. L'art. 62, infine, stabilisce che le minoranze abbiano comunque
diritto a un deputato nel parlamento. La continua evoluzione dei rapporti romeno-ungheresi segna
un ulteriore passo in avanti con la sconfitta di Gheorghe Funar alle elezioni locali della primavera
2004, quando il leader nazionalista perde dopo dodici anni il municipio di Cluj, teatro dello scontro
politico fra ungheresi e nazionalisti.
Un altro caso di soluzione relativamente pacifica di conflitti etnici o religiosi è quello della
minoranza turca in Bulgaria, ove durante gli anni del socialismo reale si era assistito a una
costante erosione dei diritti minoritari, completamente annullati nella fase 1971-1991. In quella fase
la minoranza turca, dipinta dalla propaganda come un elemento alieno e una minaccia all'integrità
del paese, era stata privata dei suoi diritti culturali e costretta a prendere un nome bulgaro per
poter accedere a una serie di diritti. Dal 1989, Petar Mladenov pone fine alle politiche di Zhivkov e
da inizio a una nuova fase che, pur attraverso mille vicissitudini, riesce a integrare la comunita
musulmane (formate dai turchi ma anche dai pomachi, i musulmani bulgari) nel tessuto politico
bulgaro, recependo la Convenzione per la protezione delle minoranze nazionali anche senza
cambiare la Costituzione. II Movimento turco per i diritti e le libertà ha potuto svolgere la sua
attività di rappresentanza di un'etnia minoritaria ottenendo la predisposizione di norme di tutela
specifiche.
Maggiori problemi sono stati creati dall'Organizzazione per l'unità macedone. La questione
macedone si protrae fin dall'Insurrezione di Sant'Elia (1903) che aveva segnato I'esordio
dell'Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone. La regione era passata poi per le guerre
balcaniche ed era stata divisa fra Bulgaria, Jugoslavia e Grecia, che per tutto il secolo hanno dato
vita a una contesa poi risolta de facto dalla nascita della Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia.
Con la Dichiarazione di sovranità del gennaio 1991 e la Dichiarazione di Indipendenza del gennaio
1992. Nel 1990, in Bulgaria nasce I'Organizzazione macedone unita, la quale viene bandita dalle
autorità di Sofia in quanto ha fra i suoi obiettivi il riconoscimento della nazione macedone e
I'autonomia del Pirin. Si tratta di un progetto ritenuto lesivo della propria sovranità da parte delle
istituzioni bulgare, le
quali fino agli "Accordi Sulla Lingua" del 1999 non hanno nemmeno riconosciuto l'esistenza di una
lingua macedone distinta dal bulgaro.
Nei paesi usciti dal socialismo reale la questione della minoranze è tornata a galla come uno degli
steps più problematici della fase di transizione. In Slovacchia, Romania e Bulgaria l'affermazione
dei diritti minoritari ha incontrato una certa resistenza soprattutto nei primi anni di transizione,
quando il populismo nazionalista veniva rispolverato dai nuovi leader di tali paesi. Nonostante
l'esistenza di realtà ancora critiche si registra la tendenza a voler affrontare tale problematica con
toni nuovi rispetto al passato. Dal 1989 a oggi sono stati adottati programmi specifici per la
protezione dei diritti delle minoranze. Un contributo significativo alla soluzione delle questioni
minoritarie a arrivato anche dall'Unione europea e dagli altri organismi internazionali.

Cap.4- Nazionalismo e nazionalita nell’URSS


4.1- DaIla rivoluzione allo stalinismo
La Russia zarista si affaccia sul XX secolo come un vasto impero multietnico, "una prigione delle
nazioni" nella quale i russi di lingua madre costituiscono meno della metà della popolazione. II
quadro etnico vede consistenti minoranze ucraine (17,4%) e polacche (6,17%) spiccare su una
moltitudine di gruppi etnici differenti per grado di sviluppo economico e struttura sociale, per lingua
e religione. Dopo il 1905, da una parte i sentimenti nazionali si consolidano e si diffondono anche
fra i ceti inferiori, dall'altra tuttavia, si persegue un ampliamento delle competenze statali che si
accompagna a un processo di omogeneizzazione dell'amministrazione. I polacchi hanno già
manifestato le proprie aspirazioni nazionali ribellandosi agli zar più volte subendo poi una dura
repressione da parte dell'autocrazia russa che ricorre anche alle deportazioni in Siberia. È già
presente inoltre un focolaio di nazionalismo russo — Lega del popolo russo, Lega degli ottombristi
— che considera qualsiasi apertura alle altre nazionalita un contributo alla "rovina della stirpe
russa" ritenuta la più forte e dotata fra tutte, e tratta qualsiasi religione diversa da quella ortodossa
come una confessione straniera. Nei Paesi Baltici, in Ucraina e in Bielorussia, vere rivendicazioni
di autonomia vengono avanzate solo quando lo scoppio della guerra pone queste terre a contatto
con l'occupazione tedesca e con il caos rivoluzionario, Finlandia, Estonia, Lituania e Lettonia
riescono a ottenere la creazione di uno Stato indipendente, relativamente omogeneo dal punto di
vista nazionale, mentre in Ucraina, anche dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi si
continua a proclamare la Repubblica popolare ucraina come parte di una federazione delle nazioni
libere e uguali della Russia. La rivoluzione di ottobre rappresenta un ulteriore sviluppo nel
rafforzamento delle tendenze separatiste, alimentate dalla disintegrazione del potere statale e dal
collasso economico. Uno dei primi atti del governo provvisorio è la Dichiarazione sui diritti dei
popoli della Russia, in cui si fa riferimento alla libera autodeterminazione, alla secessione e al
libero sviluppo di minoranze e gruppi etnici. Già nel 1917 sorgono istituzioni autonome in
Bielorussia, Ucraina e nei Paesi Baltici, poi consigli nazionali in Armenia, Georgia, Azerbajdzan,
Crimea, Baskirija, Kazachstan e Turkestan. La capitolazione della Germania, che in base agli
accordi di Brest-Litvosk occupa la parte occidentale dell'Impero russo, pone le condizioni per la
crescita dei movimenti nazionali, elemento che Lenin tiene in considerazione quando decide di
inserire il diritto all'autodeterminazione dei popoli nel programma del partito. Cogliendo di sorpresa
anche i suoi stessi compagni, egli riconosce il diritto dei popoli alla secessione e alla creazione di
Stati indipendenti su base etnica, concessioni che suonano come uno slogan tattico grazie a cui
guadagnare consenso ma che allo stesso tempo denotano una differente sensibilità per la
questione nazionale da parte del rivoluzionario russo. Non si rivela sufficiente a mantenere uniti
tutti i territori non più sottoposti all'autorità degli zar — Ucraina, Bielorussia, Transcaucasia — ove
intervengono le armate sovietiche. La Federazione transcaucasica formatasi con i favori della
Germania ha vita breve e cessa di esistere già nel 1918, e identico destino aspetta la Repubblica
democratica ucraina riconosciuta dalle potenze centrali. II potere bolscevico è a costretto ad anni
di ulteriore lotta. Travagliata si rivela la riconquista dell'Ucraina, dove in seguito al crollo dello
zarismo si instaura il Consiglio centrale ucraino, Rada, Dopo undici giorni di bombardamenti,
tuttavia, le truppe bolsceviche entrano a Kiev. La Rada liberalsocialista si allea dunque con il
comando germanico e, grazie a una rapida offensiva, riprende la capitale. Con I'uscita di scena dei
suoi protettori austro-tedeschi, l'etmano deve cedere il comando ai patrioti della Rada
riorganizzatosi in un direttorio. II nuovo governo popolare, ispirato ai principi socialisti di Volodymyr
Vynnyeenko, si trova pero spaccato al suo interno e non riesce a ingraziarsi i favori delle masse
popolari che, incitate dalla propaganda bolscevica, iniziano a farsi giustizia da sé prendendo
possesso delle terre da espropriare. Nel febbraio 1919 Kiev cade nuovamente nelle mani dei
bolscevichi mentre la Ceka, la polizia politica, arresta e fa fucilare quanti vengono ritenuti
oppositori del nuovo regime. Un momento cruciale per l'affermazione dell'unità sovietica appare il
1920, quando "il diritto a separarsi comincia a venir sostituito dal diritto di unirsi" e si inizia inoltre a
imporre la formula del contratto nazionale con le repubbliche sovietiche indipendenti. Con il
progressivo sfaldamento degli ultimi reparti bianchi, all'inizio del 1921 i bolscevichi sono in grado di
estendere il loro governo su gran parte dell'ex Impero e si apprestano ad abbandonare le violenze
del comunismo di guerra e a iniziare le riforme socialiste. La Repubblica Socialista Federativa
Sovietica Russa conclude con le altre repubbliche accordi in cui viene prevista una stretta unità
militare, finanziaria ed economica. L'Ucraina, almeno formalmente mantiene molti diritti, fra cui
quello di poter stringere rapporti diplomatici con altri Stati, ma viene privata della possibilità di porre
in essere una politica interna autonoma. Nella struttura sovietica, infatti, al di sopra della varietà
nazionale esiste una unica volontà politica direttiva, quella del partito. L'esistenza di un partito
centralizzato garantisce la coesione e la robustezza della costruzione socialista, che già da questi
anni elimina ogni forma di democrazia reale al suo interno preferendo valori come obbedienza e
fedeltà assoluta all'istanza suprema, il partito stesso. Nonostante la sua composizione
plurinazionale, all'interno delle strutture partitiche a netto il dominio dei russi che costituiscono il
72% degli iscritti, seguiti da ebrei e da altri gruppi etnici, fra i quali si nota un insolito e intransigente
attaccamento ai "valori del vero russo". Vie però anche una forte resistenza al dominio russo da
parte dei partiti comunisti nazionali che, ridotti a semplici prolungamenti dell'apparato centrale,
rivendicano maggiori poteri e più ampia autonomia. Questa opposizione viene calmata tramite le
concessioni del X Congresso (marzo 1921) nel quale si dichiara la necessità dello sviluppo delle
culture nazionali e la preparazione dei quadri locali, che devono risultare connazionali alla
popolazione, oltre all'obiettivo del riequilibrio economico e del livello produttivo nelle differenti
regioni.
La linea nazionale che si va delineando a Mosca, nonostante il fermo appoggio di Lenin, non viene
accettata da molti. Nell'agosto 1922, il Comitato centrale istituisce una Commissione per elaborare
iI progetto della nuova Costituzione, il cui testo deve riflettere un compromesso fra
l'internazionalismo ideologico, il riconoscimento del pluralismo nazionale e I'assoluta
concentrazione del potere reale nelle mani del partito.
Nasce nel 1923 la formula repressiva delle deviazioni nazionaliste che devono essere sgominate
dal partito; lt primo caso di questo genere si verifica con Mirza Sultan-Galev, tataro che persegue
le aspettative nazionali del suo popolo e sogna di unificare i turchi, i tatari e tutti i musulmani in uno
Stato comunista indipendente e viene espulso e fatto arrestare, I'intera popolazione tatara paga le
conseguenze di questo scontro con migliaia di morti ed esiliati.
Stalin prepara un Progetto di risoluzione sui rapporti tra la URSS e le repubbliche indipendenti per
I'inserimento formale di queste nella prima. L'adesione delle repubbliche come entità autonome
sembra invece a Lenin una violazione della politica nazionale del partito, oltre che una fonte di
gravi conflitti. II progetto federativo di Lenin, che propone I'unione di tutte le repubbliche in una
nuova federazione riservando a ciascuna di esse il diritto di uscirne liberamente, diventa il cardine
della nuova Costituzione approvata nel 1923 dal Comitato esecutivo dei Soviet e ratificata dal
Congresso. Nasce una federazione di repubbliche contenenti al loro interno altre repubbliche e
regioni autonome. La federazione russa è formata da diverse repubbliche e distretti autonomi,
mentre quella transcaucasica è divisa in Armenia, Georgia e Azerbajdzan, territori a loro volta
comprensivi di ulteriori distretti autonomi. Viene accolto il principio dell'uguaglianza politica e civile
delle diverse etnie alle quali è attribuita una certa autonomia, concessa spesso in base a una
valutazione arbitraria dei diversi sentimenti nazionali espressi.
La formale divisione delle competenze lascia alle repubbliche completa indipendenza solo in
settori secondari come l'assistenza pubblica e da al potere centrale numerose e più importanti
attribuzioni. A tale libertà culturale, soprattutto linguistica, come è ovvio, non corrisponde una pan
autonomia politica: il Partito comunista dell'Unione sovietica (Pcus) non ammette al proprio interno
nessuna discussione sulle questioni nazionali e continua a usare l'accusa di nazionalismo
borghese per dar luogo a epurazioni e allontanamenti. Queste misure si dimostrano più drastiche
in Ucraina. Nel 1930 si svolge il processo a un gruppo di intellettuali accusati di aver creato
l'Organizzazione per la liberazione dell'Ucraina e, come in tutte le altre repubbliche, si susseguono
arresti ed epurazioni, la repressione colpisce gli uomini di cultura, l'insegnamento delle lingue e
delle scuole per le minoranze e, naturalmente, la sfera politica. La situazione è ben diversa da
quella prevista dal testo costituzionale del 1936, che garantisce alle repubbliche federate la facoltà
di recesso e la titolarità dei poteri residui.
Gli anni successivi all'assassinio di Kirov (1934) sono noti come l'epoca del grande terrore,
un'operazione politica pianificata da Stalin per eliminare preventivamente tutti gli elementi dannosi
per la società. Dall'estensione del russo nel sistema scolastico sovietico (la lingua russa viene
dichiarata materia obbligatoria in tutte le scuole dell'Unione), prosegue la centralizzazione
dell'intero assetto amministrativo e burocratico, esautorando le organizzazoni territoriali dei loro
poteri a favore dell'apparato del Comitato Centrale, che dirige la propaganda tramite una rigida
supervisione delle istituzioni educative, culturali e dei mezzi di comunicazione.

4.2- La grande guerra patriottica e la fine dell'Unione


Alla fine degli anni 30 l'originario internazionalismo è ormai sostituito dalla politica di russificazione.
In tale processo rientra anche l'uso pilotato della storia, per la quale se fino al 1930 la rivoluzione
aveva aperto la strada per cementare l'amicizia fra i popoli dell'Unione sovietica (Urss),
successivamente si arriva a unificare in maniera strumentale tutti i campi della vita sociale e tutte
le nazionalita, che diventano un unico popolo socialista, con un unico passato e una sola
memoria.
La manipolazione propagandista della storia raggiunge i suoi massimi livelli proprio durante il
conflitto, quando l'Unione sovietica diventa uno Stato ancor più multietnico incorporando i Paesi
Baltici in seguito al patto Molotov-Ribbentropp e annettendo le regioni di Bessarabia e Bucovina
settentrionale che vengono strappate alla Romania.
Nei Paesi Baltici alla prima occupazione sovietica segue quella nazista, l'invasione tedesca
contribuisce inoltre alla rinascita del nazionalismo ucraino, soprattutto in Galizia, e all'esplosione
del risentimento tataro contro il dominio sovietico. Abbandonata l'idea di Hitler e Himmler, che
intendono rendere la Crimea un immenso rifugio per i tedeschi, i nazisti per combattere i partigiani
sovietici utilizzano i tatari, che dal 1943 vengono accusati di collaborazionismo e perciò puniti da
Stalin: l'intera popolazione viene deportata dalla Crimea senza il diritto di tornarvi e numerose sono
le vittime durante i trasferimenti effettuati in vagoni merci sigillati; al termine della guerra, in Crimea
vengono cambiati tutti i nomi tatari di paesi e città; la repubblica autonoma, da cui si iniziano ad
allontanare anche greci, bulgari e armeni, viene inserita come regione nella Federazione russa e
poi ceduta da Nikita Chrukev all'Ucraina. I monumenti tatari vengono abbattuti e i libri bruciati;
viene inoltre riscritta l'intera storia di questo popolo, dipinto come una massa di ladri, banditi e
traditori. I grandi cambiamenti del 1956, con la netta critica dello stalinismo non portano a una
sostanziale revisione dei rapporti nazionali. Mentre il XX congresso del Pcus annuncia il passaggio
dell'Urss alle soglie del comunismo, Chrukev, per modernizzare l'economia, ricorre alla
decentralizzazione e inizia dunque un processo che porta sotto il controllo delle repubbliche
consistenti quote di produzione industriale.
Si tratta di una politica egualitarista, che viene esaltata dalla propaganda per la sua tendenza a
ridurre le sperequazioni economiche tra le nazioni e a eliminare il divario, non si accompagna
tuttavia una analoga libertà di sviluppo culturale. Particolarmente avversata è la "Tesi 19" che pone
di fronte alla scelta dell'istruzione in lingua russa o nella lingua locale, opzione che, nonostante la
pretesa democraticità, di fatto penalizza l'apprendimento degli idiomi non russi e che, dopo le
numerose opposizioni, non viene inserita nella legge pansovietica. Non si procede dunque alla
revisione della politica nazionale seguita in precedenza. L'epoca di Brejnev segna poi il ritorno alla
centralizzazione economica e la conferma di quella linguistica. Nel processo di avvicinamento dei
popoli sovietici la priorità è quella di diffondere la lingua russa e trasformarla per tutti in una vera
lingua madre. La corruzione raggiunge dimensioni tali da creare un vero patronato, contribuendo a
contenere il crescente nazionalismo, e viene solo temporaneamente toccata dalle dure disposizioni
degli uomini inviati dal Cremlino a capo dei partiti comunisti locali. L'orientamento nazionale
prevale anche nei Paesi Baltici, dove filtrano gli eventi della primavera di Praga.
Gli elementi essenziali della politica delle nazionalità rimangono sostanzialmente gli stessi:
centralizzazione, russificazione ed egualitarismo. II malcontento però esiste e si diffonde. Nell'Urss
di Gorbacev, il processo di ristrutturazione portato avanti con gli slogan glasnost' e perestrojka da
libero sfogo alle rivendicazioni etniche fino a quel momento dissimulate all'interno del regime
autoritario.
In concomitanza con gli avvenimenti di Cernobyl, oltre alle aspettative nazionali riemerge
drammaticamente anche la questione ambientale, sollevata per denunciare la colonizzazione
imperialista dell'Urss. Nascono nei paesi baltici partiti politici verdi. La questione nazionale ritorna
alla luce nel 1988 quando si svolgono le prime riunioni dei movimenti nazionalisti che nell'ottobre
dello stesso anno, in occasione dei loro primi congressi, oltre a chiedere apertamente il ripristino di
lingua, bandiera e inno, rivendicano I'indipendenza economica e finanziaria. Nel 1989 la forza dei
movimenti nazionali è notevolmente accresciuta anche in ragione della collaborazione fra estoni,
lettoni e lituani; a maggio si svolge l'Assemblea Baltica. II 23 agosto, anniversario del noto patto
Molotov-Ribbentropp, i Fronti popolari organizzano una grande manifestazione che coinvolge tutto
il Baltico. In Lituania il partito comunista si stacca da Mosca già nel dicembre 1989 e, nel marzo
successivo, viene proclamata I'indipendenza, mentre la Lettonia prevede solo il ripristino de facto
del potere statale della repubblica per un periodo transitorio. In Estonia la transizione alla
democrazia assume i caratteri di una "rivoluzione cantata", poiché si usano occasioni come i
festival canori estivi per rievocare il passato nazionale.
Ha inizio così il braccio di ferro fra Mosca e i Paesi Baltici, che cominciano a godere della loro
libertà economica, rinunciando per esempio alla propria parte di aiuti alimentari forniti dalla
comunità internazionale all'Urss. Gorbachev dichiara nulle le proclamazioni di indipendenza, fa
alcune piccole concessioni e promette la negoziazione di un nuovo trattato di Unione, mentre
vengono indetti scioperi contro i governi repubblicani. Il "nuovo pensiero" di Gorbacev sulle
questioni nazionali, pur prevedendo il massimo rispetto per i valori di qualsiasi popolazione e della
sua lingua, non tollerano l'iniziativa baltica, ma non può agire con i metodi del passato. Viene
seguita la tesi dialettica dello sviluppo delle nazioni, dando maggior rilievo alla necessità di
consolidare l'omogeneità dello Stato tramite lo sviluppo delle singole repubbliche. Le riforme
portano il Soviet supremo a emanare una legge sull'autonomia economica delle repubbliche
baltiche (27 novembre 1989) e una sulla secessione (3 aprile 1990) che permette a "gruppi
nazionali compatti" di tenere referendum per I'indipendenza da Mosca. Nei lavori sul progetto del
nuovo trattato, le competenze delle repubbliche vengono ampliate. I blocchi economici e il
crackdown militare imposti ai Paesi Baltici non si rivelano di grande utilità per la soluzione della
questione baltica. La situazione precipita nel gennaio 1991, quando a Vilnius e Riga l'esercito
interviene contro i manifestanti che occupano le sedi dell'emittente radiofonica e televisiva, mentre
a Tallinn si costituisce uno speciale Consiglio di difesa. Nel 1991 i governi repubblicani indicono dei
referendum che Mosca non ritiene validi dal punto di vista giuridico e con i quali la popolazione si
schiera apertamente contro la permanenza sotto l'autorità russa. L'esito di tali consultazioni
acquista un significato ancor più importante in quanto si svolgono a ridosso del referendum che
Gorbaciov aveva organizzato per mantenere in vita I'Urss ma, sebbene tale proposta fosse stata
approvata dal 76% dei votanti, non aveva coinvolto i Paesi Baltici, la Moldavia, e in gran parte la
Georgia e l'Armenia, dimostrando come il sostegno maggiore alla preservazione della federazione
venga piuttosto dalle regioni rurali e meno sviluppate del paese.

4.3- La disgregazione sovietica e la nascita di nuovi Stati


La stabilità politica è inoltre messa in gioco dal personale antagonismo che oppone Gorbacev a
Eltsin e dal malcontento dell'ala più reazionaria e nostalgica del Pcus, che si raggruppa intorno alla
figura di Yanayev e vede nel nuovo trattato fra la federazione russa e le poche repubbliche
aderenti la fine del vecchio ordine politico. II colpo di Stato del 19 agosto, che si prefigge di far
rientrare le repubbliche in rivolta nella vecchia struttura socialista, fallisce dopo due giorni
sancendo il personale successo di Eltsin e accelerando il processo di disgregazione dell'Unione,
che inizia con l'indipendenza delle nuove repubbliche baltiche le quali presto vengono riconosciute
anche da Mosca. Gli avvenimenti dell'agosto
1991 hanno un forte impatto anche in altri territori della periferia sovietica come in Azerbajdzan,
Armenia, Moldavia, Bielorussia, Georgia e Ucraina, luoghi dove i sentimenti nazionali, seppur non
radicati come sul Baltico, sono comunque forti.
In Moldavia l'appoggio di alcune minoranze al golpe, che viene punito con vari arresti dalle autorità
moldave, porta infatti a richieste di secessione di secondo grado. Sorge una Repubblica sovietica
socialista che intende mantenere all'interno dell'Unione il suo territorio, abitato in maggioranza da
russi, in cui sono concentrate molte industrie moldave. Anche in seguito all'indipendenza del
settembre 1991, rimane viva la tensione fra la Moldova e la repubblica di Transnistria, i cui
contrasti fanno della regione una delle aree più calde del panorama geopolitico europeo.
In Bielorussia, ove già nel 1986, in seguito alle contaminazioni causate da Cernobyl, l'opinione
pubblica aveva cominciato a esprimere perplessità sull'appartenenza all'Unione sovietica, il 29
agosto 1991 il Partito comunista fa una dichiarazione di totale indipendenza nazionale.
In Ucraina le aspirazioni nazionali non trovano ascolto presso larghe fasce della popolazione. La
sovranità dell'Ucraina diviene reale solo in seguito al nuovo referendum del dicembre 1991.
In Georgia, il forte sentimento di identità nazionale radicato nell'antica origine dell'alfabeto
georgiano nutre motivazioni culturali profonde che contribuiscono al consolidamento del principio
della restaurazione nazionale. Di fatto, in tutta la regione caucasica il crollo del regime sovietico,
considerato da molti un punto di partenza per la transizione verso la democrazia, segna il ritorno a
un elevato grado di conflittualità; i nuovi governanti delle diverse repubbliche sembrano preferire la
vecchia pratica di disprezzo e di odio fra le diverse etnie e religioni piuttosto che mirare al
rafforzamento delle strutture statali.
La nuova era si apre con la legge sulla riabilitazione dei popoli repressi voluta da Eltsin nel 1991
ma la debolezza della politica interna ed estera di tali paesi non fa altro che consolidare l'influenza
russa nell'intera regione. I primi scontri in Ossezia del nord nel 1992 sono poi seguiti da altre crisi
etno-nazionali in Cecenia, Crimea, Transnistria, Gagauzia ecc, vengono usati da Mosca per
continuare a difendere i propri interessi.
II ricambio delle élites al potere avviene in modo asimmetrico e i nuovi centri di potere, ove
permangono molti vecchi dirigenti del Pcus, appaiono incapaci di democratizzare i territori.
La nuova Costituzione della Russia viene approvata con referendum ottenendo il 58,4% dei voti,
anche se viene respinta o non raggiunge il quorum per la ratificazione in molte regioni e
repubbliche. Fra Mosca e alcuni di questi territori le relazioni sono ancora piuttosto tese.
L'etno-nazionalismo post-sovietico, dopo essersi rivelato elemento fondamentale per il crollo
dell'Unione, diventa in seguito causa di instabilità politica nell'intero commonwealth russo. Le
nuove costituzioni delle repubbliche indipendenti enfatizzano l'adesione alla nazione maggioritaria.
Nei Paesi Baltici, la definizione di cittadinanza viene inizialmente legata alla discendenza e le
lingue autoctone diventano il filtro attraverso cui definire la nazione. Solo qualche anno dopo,
nuove normative sembrano andare iniziando politiche di integrazione fondate su un reale
bilinguismo. Se i Paesi Baltici hanno ormai intrapreso un destino "europeo" che garantisce
maggiore stabilità e sviluppo, anche relativamente ai diritti delle minoranze, altre realtà appaiono
invece ben più problematiche.
La Repubblica Moldava è stata scossa da una guerra civile che si e conclusa dopo sei mesi con
l'intervento dell'esercito russo — che rimarrà nella regione ancora per anni — e con
l'autoproclamazione della Repubblica della Transnistria con capitale Tiraspol. Qui vivono 700.000
persone suddivise quasi in parti uguali tra moldavi, russi e ucraini. Le autorità di Tiraspol sembrano
interessate solo al russo, tanto da chiudere le scuole nelle quali si parla in romeno e per impedire
anche le scuole all'aria aperta, impongono regole che vietano di riunirsi in gruppi di più di tre
persone.
Nella vecchia periferia sovietica permangono tensioni politiche fra i diversi gruppi etnici.
Questo è il caso della Crimea, territorio la cui composizione etnica è decisamente "poco ucraina".
Popolata da una maggioranza russa del 67% e da una minoranza del 10% di tatari, la Crimea ha
ottenuto il riconoscimento della propria autonomia ma, allo stesso tempo le richieste formulate dal
parlamento della penisola, nel dicembre del 1998, sono state tutte respinte da Kiev. La formazione
sovietica dei dirigenti ucraini rappresenta generalmente un ostacolo per il processo di
cambiamento e democratizzazione. Gli Stati della vecchia Unione in molti casi ripartono da
strutture democratiche deboli, connotate da profonde tensioni e da grande instabilità, da forti
legami fra criminalità organizzata e ambienti politici, da elevati indici di corruzione e soprattutto
dall'incertezza del carattere delle proprie relazioni con Mosca.
Una persistente tensione esiste anche tra la capitale e le singole repubbliche federate. Nel vasto
territorio della vecchia Unione a questioni di indipendenza culturale si sommano interessi
economici e politici, nell'ambito di un generale processo di democratizzazione che investe tanto il
centro quanto la periferia delineando così un panorama ancora sospeso fra le tendenze europeiste
e l'eredità della logica sovietica.

Cap. 5- La questione ebraica nell'Europa centro-orientale


5.1- Dal ghetto alla dichiarazione Balfour
Le complicate relazioni fra politica e potere ecclesiastico, fra società e fede. Con la diffusione del
"dispotismo illuminato" di alcuni sovrani come Giuseppe II, che nel 1781 licenzia il noto Editto di
tolleranza, vi è un ulteriore sviluppo del graduale processo di laicizzazione della società attraverso
il quale si afferma il principio della libertà di culto, si definiscono maggiori garanzie per protestanti,
ortodossi ed ebrei, ampliando le possibilità di tali gruppi minoritari all'interno della società.
La necessità di concedere ampie garanzie di tutela confessionale a tutta la popolazione, dunque,
emerge costantemente nelle diverse epoche storiche da Westfalia fino al XIX secolo, quando
nell'intera area dell'Europa centro-orientale il rapido sviluppo del nazionalismo mette in risalto la
specificità della questione ebraica. La storia dell'ebraismo in Europa era stata caratterizzata dalla
costante difficoltà di realizzare una vera e propria integrazione che consentisse stabilità e
sicurezza.
Gli ebrei in realtà non vengono mai completamente accettati dalle popolazioni locali, in Francia
come in Germania, in Ungheria, Polonia e Russia, ovunque il loro inserimento è problematico e iI
riconoscimento dei loro diritti diventa un percorso tortuoso e ricco di ostacoli. La questione ebraica
viene spesso utilizzata in maniera strumentale nei rapporti con il potere, che modula la propria
disponibilità nei confronti degli ebrei a seconda delle necessità del momento: quando il tasso
demografico scende non mancano decisioni che autorizzano gli ebrei a rientrare in zone da cui
sono stati precedentemente espulsi, poiché l'aumento della popolazione serve ad assicurare il
gettito finanziario e la gestione di una serie di servizi. Così accade in Polonia. Nello stesso XVI
secolo, negli Antichi Stati italiani, la Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio collocano gli ebrei
nei ghetti da dove usciranno solo grazie allo Statuto Albertino. Anche la storia ebraica nel corso dei
secoli vede emergere una viva tensione fra la preservazione della tradizione e le aperture verso
l'esterno, nel tentativo di garantire l'autonomia e il diritto alla sopravvivenza della religione ebraica
nell'ordinamento statale moderno. In tutta Europa, durante l'Ottocento si assiste all'emanazione di
leggi sull'emancipazione degli ebrei, questione particolarmente delicata soprattutto nell'Europa
orientate. Anche a est, infatti, gli ebrei vivono la loro diversità non senza problemi e risentono della
diffusa diffidenza da parte del mondo rurale cristiano, ostilità che si acuisce con il progressivo
rafforzamento demografico della popolazione ebraica. Sopravvivono forti pregiudizi nei confronti
degli ebrei, impegnati prevalentemente nel commercio, attività da molti considerata di scarso
contenuto etico in quanto basata sullo sfruttamento del produttore e del consumatore, cioè del
contadino cristiano. Essi sono gioiellieri, venditori e commercianti in valuta, ma anche operai,
artigiani, sarti e mendicanti di strada, musicanti, giornalai, lustrascarpe. Gli ebrei vivono in un
precario equilibrio fra le difficoltà di integrarsi, e ottenere i documenti, e la conservazione dei tratti
distintivi della propria cultura. Nel secolo in cui l'imperioso principio di nazionalità assimila anche la
nozione di razza, e con essa il legame con un determinato territorio, la contrapposizione fra ariani
e semiti si fa sempre più forte. In tutta Europa gli ebrei diventano il simbolo dell'odioso capitalismo
finanziario e dell'agitazione rivoluzionaria del socialismo. Le divergenze sociali si acuiscono con lo
sviluppo dell'industria. Questo genere di pregiudizi antisemiti è ancor più diffuso in tutta l'Europa
centro-orientale e viene trasmesso da una generazione all'altra, comunicato anche attraverso la
letteratura. Nella Russia zarista le leggi discriminatorie che impongono l'obbligo di residenza nelle
regioni di frontiera, l'ostilita manifestata attraverso aggressioni e assalti organizzati, i pogrom,
caricano la situazione ebraica di un brutale antagonismo nazionale che sfocia in violenza
soprattutto dopo l'attentato ad Alessandro H, il cui assassinio viene attribuito a un ebreo. Si impone
all'attenzione una corrente politica che giudica gli ebrei pericolosi rivoluzionari decisi a dominare il
mondo, colpevoli di tutti i mali della Russia. Gli episodi dei pogrom diventano più diffusi in tutto
l’Impero e spingono gli ebrei a emigrare.
Fra gli ebrei si fa invece strada l'idea della creazione di uno Judenstaat, uno Stato ebraico la cui
sede viene individuata in Palestina, territorio che presenta benefiche prospettive economiche e si
adatta perfettamente al mito della terra promessa. A Versailles si prospetta la creazione di un
"focolare ebraico", cioè uno Stato di Palestina posto sotto il protettorato inglese nel quale gli ebrei
sarebbero confluiti secondo la dichiarazione del ministro britannico Arthur James Balfour. Tale
proposta — supportata dalle organizzazioni sioniste ma ugualmente avversata dai più ortodossi
che considerano la nascita di uno Stato ebraico praticamente una bestemmia —non raccoglie però
l'unanimità e così a Parigi si registrano anche richieste diverse che fanno riferimento a un
commonwealth ebraico con il proprio centro in Palestina e che preferiscono seguire la linea
dell'integrazione all'interno dei
nuovi Stati europei. La rappresentanza degli interessi delle popolazioni ebraiche viene così affidata
a organizzazioni e alla loro capacità di influenzare i governi e la diplomazia delle
grandi potenze, soprattutto in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove la popolazione ebraica è distribuita
su tutto il territorio. La questione ebraica ha dunque radici lontane che affondano nella societa
della Mitteleuropa e dell'est europeo, zone in cui l'ebreo, anche se integrato o convertito, era
spesso rimasto parte isolata nella società.

5.2- Le difficoltà del periodo interbellico


L'antisemitismo, diffuso tanto negli strati più bassi della societa quanto in alcuni settori conservatori
della cultura e del mondo accademico, diventa il tema attorno a cui ruota parte della produzione
letteraria di XIX e XX secolo. In Romania Eminescu e Cioran. Il forte orgoglio nazionale romeno
genera in larghi strati della società un sentimento popolare di anti-semitismo.La minoranza ebraica
(4,2% della popolazione) è ben inserita nella struttura economica del paese, soprattutto
nell'industria e nel commercio, campi in cui svolgono un ruolo importante, mentre nell'agricoltura
prevale la popolazione romena. Gli ebrei sono inoltre ben istruiti, con indici di scolarizzazione
universitaria superiori a quelli della popolazione romena, in Transilvania e Bucovina svolgono un
ruolo importante in numerose imprese, nel campo dei commerci e nel mondo bancario, esercita
funzioni pubbliche e libere professioni. Diversa è la situazione in Bessarabia, dove la popolazione
ebraica ha già subito i pogrom zaristi ed è costretta a guardare come patria ideale all'Unione
sovietica. Si diffonde l'immagine dell'ebreo bolscevico, traditore e cospiratore. Proprio le
discriminazioni dell'epoca zarista hanno portato un gran numero di ebrei ad aderire al partito
comunista, divenendone una componente importante. Tali considerazioni forse aiutano ad
analizzare meglio i casi della Romania e della Polonia, le cui relazioni con Mosca sono piuttosto
tese, e a considerare la riluttanza con cui i governi di questi paesi accettano le clausole minoritarie
di Parigi, che sopportano solo quale prezzo da pagare in cambio della sicurezza delle loro
frontiere. La Costituzione del 1866 poneva la cristianità come requisito necessario per ottenere la
cittadinanza. Le pressioni esercitate su Bucarest al Congresso di Berlino avevano poi favorito una
revisione di tali disposizioni, incompatibili con il modello statale liberale con cui la Romania
intendeva proporsi all'opinione pubblica internazionale. In seguito all'annessione di nuovi territori, il
numero di ebrei, già cresciuto in conseguenza degli arrivi di gruppi in fuga dalle discriminazioni
della Russia zarista, lievita ulteriormente. La Grande Romania, infatti, raccoglie le comunita di
Transilvania e Bessarabia. Gli ebrei romeni lamentano che i principi a loro favorevoli sono applicati
in maniera troppo restrittiva. Si accompagna ben presto anche una certa tensione sociale, la quale
sfocia in diverse agitazioni che trovano nelle università il campo di battaglia ideale. L'antisemitismo
qui trova terreno fertile poiche il regime ha creato speranze di un'ascesa sociale che non vengono
mantenute e il crescente numero di diplomati cristiani, che già incontrano difficoltà a trovare lavoro,
vedono negli ebrei un'ulteriore insopportabile concorrenza. A Cernauti, nel luglio 1926, si verificano
forme di "ostracismo scolastico"; gli allievi ebraici dei licei, poiché venivano sistematicamente
bocciati agli esami, inscenano una protesta che da origine a duri scontri. Sono gli stessi studenti
ebraici a essere processati: uno di questi, David Falik, viene ucciso. II clamore di tali avvenimenti
porta a numerose proteste da parte di Londra, e dagli Stati Uniti. Anche la stampa romena
condanna l'accaduto.
Durante gli anni del governo nazional-contadino di Iuliu Maniu si organizza e consolida la Legione
di Codreanu, un'organizzazione concepita quasi come un ordine religioso,all'interno del movimento
viene creata la "Guardia di Ferro", una formazione elitaria a cui vengono affidati il servizio d'ordine
e i rapporti contro gli avversari e il "comunismo ebraico". Nonostante la sua scarsa consistenza
numerica, I'organizzazione suscita sempre grande clamore per ogni sua iniziativa e per
l'atteggiamento di sfida al governo. La questione ebraica diventa sempre più centrale nel
panorama politico romeno e le formazioni antisemite riescono ad acquistare maggiori consensi
grazie al clima di instabilità istituzionale che vede i partiti tradizionali in grave crisi. Nel 1932 una
parte del Partito national taranesc nella quale si schiera Vaida-Voevod da vita al Fronte romeno,
organizzazione che intende assicurare "l'esistenza e lo sviluppo della nazione romena", mentre nel
1935, grazie all'unione della Lega di Cuza con il Partito nazionale agrario di Goga, nasce il Partito
nazionale cristiano (bandiera rumena con una svastica), che usa il ricorso al cristianesimo e
all'eredità culturale romena per unire antisemitismo e xenofobia. Cuza legge di fronte al consiglio
del partito il programma, nel quale si chiede il riconoscimento costituzionale dell'affermazione
dell'idea nazionale e l'applicazione del principio nazionale del numerus clausus (numero chiuso)
nel quadro delle funzioni statali.
Londra, annuncia l'inizio di una campagna contro la Romania per l'applicazione della circolare del
Ministero del lavoro che prevede una distinzione, secondo Davila fatta per semplici ragioni
statistiche, fra i cittadini romeni per razza o religione. Gli emendamenti alla legge sulla nazionalità
vengono ritenuti discriminatori dal politici ebrei, che si devono confrontare con una serie di misure
sfavorevoli: esclusi da alcune università o professioni. Le nuove disposizioni colpiscono le imprese,
poiché vengono annullate le autorizzazioni di vendita di alcolici agli ebrei, si chiudono i loro giornali
e si ritirano i permessi di viaggio ai giornalisti. Una legislazione particolarmente discriminatoria, che
intende escludere apertamente gli ebrei dalla vita politica, economica e religiosa del paese e
avvicinano ulteriormente il quadro giuridico romeno a quello della Germania nazista.
Il 12 marzo 1939 il governo romeno invia a tutti i propri rappresentanti diplomatici un memorandum
in cui si afferma che la questione ebraica deve essere necessariamente risolta attraverso la
creazione di uno Stato (o comunque un dominio) da colonizzare per gli ebrei della Romania, della
PoIonia e dell'Europa orientale. L'occupazione della Transnistria da parte delle forze tedesche e
romene rende questa regione un luogo ideale per concentrare gli ebrei di Bessarabia, Bucovina e
nord della Moldavia espulsi dal regime Antonescu. Le deportazioni iniziano nel settembre 1941 e
continuano fino all'anno successivo, causando morti per fame e malattia oltre che per rappresaglia.
Più di 150.000 ebrei vengono deportati insieme ai rom, mentre molti riescono a evitare tale sorte
grazie alla corruzione di amministratori e funzionari.
Ugualmente critica si presenta la condizione degli ebrei negli altri paesi dell'Europa
centro-orientale, in Polonia, in Ungheria e negli Stati che durante la seconda guerra mondiale
cadono sotto l’influenza tedesca. La Germania, sempre più padrona della situazione, e vista come
l'unica potenza in grado di poter mutare l'ordine internazionale e disporre delle frontiere,
condiziona così la politica nei confronti degli ebrei negli Stati che gravitano nella sua orbita.
Ciononostante la convivenza fra i popoli cristiani dell'area e gli ebrei si preannunciava molto
difficile già al termine della prima guerra. In Polonia, per esempio, si presentavano molte
similitudini con la Romania, a cominciare dall'atteggiamento di entrambi i governi che opponevano
resistenza nell'accettare le clausole a tutela delle minoranze nel corso delle negoziazioni per i
trattati di pace. Negli anni Venti, finiti gli eccessi e gli episodi di violenza, la discriminazione viene
attuata a livello politico sotto le forti spinte del nazionalismo polacco, che risveglia un latente
antisemitismo, distinguendo fra ebrei e "assimilati”. Come in Romania e Germania, anche in
Polonia esiste una vasta letteratura che si scaglia contro gli ebrei. Sin dal 1923, si intensificano le
manifestazioni universitarie antisemite e si fanno più forti le richieste di numerus clausus, che
portano a un costante calo di afflusso di studenti nelle università. Nel settore pubblico i lavoratori
ebraici costituiscono una rarità. Ai medici non è permesso lavorare negli ospedali statali, gli
avvocati non vengono assunti dalle istituzioni e per commercianti e artigiani ebrei diventa sempre
più duro ottenere prestiti e Iicenze.
Caduta sotto l’influenza tedesca la Polonia vede l’avvicendarsi di una serie di partiti che assumono
posizioni antisemite.
Dopo il 1935, la guerra contro gli ebrei prende strade diverse. Si adottano misure di carattere
economico, nei mercati i polacchi vengono avvisati di non concludere affari con gli ebrei, ecc. II
declino economico contribuisce ulteriormente a diffondere fra la popolazione sentimenti come
sconforto e disperazione, e a far aumentare l'emigrazione verso la Palestina che dal 1933 al 1936
raggiunge quote importanti.
L'invasione tedesca segna l'inizio della fine. Seguono arresti in massa, fucilazioni, esecuzioni
sommarie e razzie; un vortice che insanguina la Polonia con orrendi massacri, con le morti nei
campi di sterminio e con la tragedia dei ghetti.
Tragico è anche I'epilogo della questione ebraica in Ungheria, dove il trattato di Trianon aveva
rappresentato la fine di un lungo periodo di collaborazione tra ebrei e classe dirigente ungherese.
L'antisemitismo acquisisce tonalità diverse, moderato e attento alle distinzioni individuando solo
negli ebrei galiziani elementi antinazionali, o più acceso basato sull'infamante accusa rivolta agli
ebrei di essere stati i responsabili della decadenza del paese. Solo la crisi economica e la perdita
di prestigio del governo contribuiscono a far riemergere Gombos e i fascisti ungheresi che, dopo
molte agitazioni e un fallito colpo di stato, nel 1931 ottengono il potere. Gombos parla di una
Ungheria cristiana libera dall'influenza. L'atteggiamento prudente di Gombos provoca la nascita di
una miriade di gruppi radicali e la diffusione di idee sempre più violente e sempre più estremiste
all'interno del movimento fascista ungherese. Dopo la sua morte, si apre la strada verso un
antisemitismo più violento. Dalla Germania cominciano ad affluire finanziamenti a questi gruppi
sparsi che acquistano forza anche grazie alla minoranza tedesca. Un fiume di denaro comincia
così a finanziare l'opposizione e la questione ebraica diventa merce di scambio per ottenere buoni
rapporti con Berlino. Nel maggio 1941 viene varata la terza Legge Ebraica, la pià dura, che
contiene una definizione del termine "ebreo" copiata da quella delle leggi tedesche del 1935,
senza menzionare i convertiti. Le più dure persecuzioni contro gli ebrei hanno inizio solo dopo
I'ingresso delle truppe tedesche, si prepara il trasferimento di 50.000 ebrei in Germania per il loro
impiego in fabbriche tedesche, dando inizio alle c.d. "marce della morte", percorsi in cui muore
gran parte dei deportati. La seconda ondata di massacri messa in atto si svolge contro l'ultima
comunità superstite, ossia quella di Budapest.
Durante gli anni di guerra la Germania riesce a estendere la sua tutela anche alla vicina
Slovacchia, paese più arretrato dal punto di vista economico ove la questiona ebraica era
condizionata dal forte divario socio-economico esistente fra gli ebrei e gli slovacchi, questi ultimi
impegnati principalmente nell'agricoltura. Cristianità e nazione diventano quasi sinonimi. La svolta
nazionalista e autoritaria si concretizza con reliminazione del sistema pluri-partitico nel gennaio
1939. Tiso si presenta alla Dieta slovacca riportando quanto detto a Berlino con Hitler, agitando lo
"spauracchio" del pericolo revisionista ungherese
e insistendo per la separazione da Praga. Dopo la proclamazione della nascita del nuovo Stato, il
19 marzo, viene così firmato il trattato di protezione con la Germania. Nella slovacchizzazione
dell'intero Stato, che comporta effetti nefasti per le diverse etnie presenti sul territorio, l'unica
minoranza che non subisce pesanti discriminazioni è quella tedesca, la quale pare perfino in grado
di condizionare la politica del governo. L'indirizzo del governo è ormai sempre più filo tedesco e
viene ulteriormente provato con la disponibilità offerta alla partecipazione nell'intervento nazista
contro la Polonia dal quale la Slovacchia, pur non avendo un ruolo influente nell'operazione,
guadagna alcune concessioni come premio per la lealta dimostrata. Gli ebrei vengono
progressivamente esclusi da tutti i settori della vita economica del paese, per poi essere costretti ai
lavori forzati. II "compromesso di Salisburgo", come è stato definito, per un verso riconferma Tiso
nel suo ruolo di presidente della repubblica, per un altro concede più spazio all'ala più radicale. Nel
settembre 1941, con la legge n.198 entra in vigore un codice antiebraico pensato sul modello delle
Leggi di Norimberga e forse anche più duro e ampio, perciò oggetto di proteste da parte degli
ambienti cattolici. Le proteste della Santa Sede provocano una temporanea interruzione delle
deportazioni ma non un reale cambiamento nella politica del governo. Nella lettera di Tiso a Pio
XII, un vero testamento ideologico catto-nazionalista, l'espulsione di cechi ed ebrei viene descritta
come un atto necessario per salvaguardare la nazione slovacca dai propri nemici, mentre le
atrocità a cui sono sottoposti i deportati vengono bollate come dicerie, esagerazioni della
propaganda dell'opposizione. Non è a causa della propria nazionalità, si dice, che boemi ed ebrei
vengono discriminati, bensì in quanto sono pericolosi poichè appoggiano la resistenza e la rivolta.
Allo stesso tempo, all'interno del Partito popolare Tiso rappresenta l'ala moderata per aver
concesso qualche periodo di sospensione nelle deportazioni verso la Germania e la Polonia e per
aver procurato un certo numero di dispense alle famiglie ebraiche.
Le deportazioni hanno anche l'effetto di saldare l'alleanza fra la Germania e la Slovacchia, la cui
rivale, l'Ungheria, viene considerata troppo mite e corrotta dal Fuhrer. Forti scontri antigovernativi
portano all'insurrezione nazionale dell'agosto 1944, quando il governo con l'ordinanza n.1/1944 è
indotto a ritirare tutti i decreti di stampo antisemita. La rivolta è soffocata dall'intervento delle SS.
Ha dunque inizio l'occupazione militare tedesca e la soluzione del problema ebraico subisce una
forte accelerazione: perquisizioni, rastrellamenti e catture sono all'ordine del giorno.
L'influenza tedesca non è tuttavia un elemento di per se sufficiente per comprendere il fenomeno
dell'antisemitismo che, come già in epoche precedenti, si diffonde in buona parte del continente
dando luogo a una delle piil tragiche persecuzioni mai registrate nel corso della storia.

5.3- Gli ebrei e il sistema sovietico


Differente è la situazione ebraica nell'Unione sovietica, costruzione plurinazionale a cui numerosi
ebrei contribuiscono attivamente fin dal principio. I bolscevichi condannano energicamente
l'antisemitismo della Russia zarista; se nei primi anni l'atteggiamento verso gli ebrei è dunque
estremamente positivo e guadagna un'alta percentuale di iscritti al partito, la situazione cambia con
il progressivo rafforzamento di Stalin. II suo atteggiamento verso la questione ebraica, come molti
altri aspetti delle sue politiche, riflette una inquietante ambiguità; da una parte viene creato un
distretto nazionale ebraico, dall'altra l'avvento dello stalinismo comporta un irrigidimento nelle
relazioni con le comunità nazionali, anche quelle ebraiche. I quadri della burocrazia, al centro e
nelle province, sfruttano la diffusione di pregiudizi antisemiti e si sforzano di deviare I'indignazione
delle classi operaie sugli ebrei.
Le epurazioni di Stalin colpiscono anche i capi delle sezioni ebraiche che seguendo le sue direttive
si erano adoperati per eliminare dalla vita politica e culturale le aggregazioni ebraiche. Fra il
settembre 1939 e il luglio successivo gli ebrei della Polonia orientale, della Bessarabia e della
Bucovina si vengono a trovare sotto la sovranità dell'Urss; le società ebraiche attive presso queste
comunità, tutte le organizzazioni e le istituzioni sioniste vengono chiuse e i loro membri mandati in
Siberia.
Nel dopoguerra, è la nascita di uno Stato ebraico in Palestina a ridestare l'entusiasmo degli ebrei
sovietici, che interpretano il sostegno dato dal governo dell'Urss a Israele e il voto favorevole
espresso alle Nazioni Unite come un'autorizzazione a esprimere solidarieta all'entita politica
sionista. Gli ebrei manifestano le proprie speranze, arrivando a presentare alle autorità sovietiche
la domanda per potersi arruolare nell'esercito di difesa di Israele. Stalin guarda con terribile
sospetto alle manifestazioni di amicizia per Israele ritenendole il fallimento delle politiche sovietiche
sulle nazionalità, nonché un pericolo per il proprio potere, comincia così l'emarginazione degli
ebrei, che viene eseguita in maniera sistematica, soprattutto negli ambienti della cultura, della
stampa, della medicina, ma anche in altri settori, come nell'industria metallurgica. Arresti,
licenziamenti e deportazioni si susseguono sotto l'accusa di cosmopolitismo, per cui semplici
simpatizzanti diventano quasi automaticamente spie al servizio della Israele filo-americana e del
mondo capitalista da liquidare attraverso deportazioni. Il Bund, organizzazione nazionalista ebraica
fiorente tra gli ebrei russi, viene definito un partito opportunista di piccoli borghesi che Punta alla
differenziazione dei socialdemocratici ebrei dal generale movimento social-democratico russo.
II complotto dei medici (accusati di aver ucciso il direttore della campagna contro la cultura
cosmopolita, Zdanov) viene denunciato pubblicamente nel 1953 e diventa oggetto dell'attezione
quotidiana della "Prava", dalle cui pagine viene lanciata la campagna contro i nemici del sistema
sovietico. Gli arresti e le esecuzioni coinvolgono in primo luogo i medici, i reali autori del complotto,
ma anche tutti i funzionari sovietici di alto rango sposati con donne ebree, che vengono sottoposti
a pressioni per divorziare, e i familiari di ebrei già giudicati colpevoli o di personalità importanti
all'interno del partito, come Molotov che assiste disciplinatamente al confino della moglie.
In Romania, dove la popolazione ebraica aveva accolto entusiasticamente l'Armata Rossa
l'eliminazione degli ebrei dall'amministrazione statale e soprattutto dalla polizia comincia già nel
1947, ad esempio Ana Pauker, figlia di un rabbino, che era ministro degli esteri viene allontanata.
In questi anni, i media di tutti i paesi del blocco sovietico enfatizzano la pericolosita sionista degli
ebrei. I dirigenti comunisti si dimostrano capaci di usare l'antisemitismo di alcuni settori della
società a fini politici, per consolidare la visione del nemico che penetra all'interno del mondo
socialista con intenti sovversivi. Ancora una volta il sogno di raggiungere la Palestina, finalmente
divenuta il loro Stato, si trasforma così in un incubo per le comunità ebraiche, che vengono
accusate di infedeltà e collaborazionismo con il blocco occidentale.

Cap. 6- Le vicende del popolo rom. Un problema sociale o nazionale?


6.1- Dal nomadismo alle deportazioni
Anche altri gruppi etnici e minoritari nella stessa area di osservazione considerata hanno subito
discriminazioni, condividendo con gli ebrei una storia di soprusi e di emarginazione, ad esempio i
rom. Dopo la costituzione di uno Stato ebraico, i rom rimangono l'unico grande popolo senza Stato
diffuso in maniera transfrontaliera in tutta la regione. Dal punto di vista storico, i rom otre all'essere
vittima di diffusi pregiudizi, condividono con gli ebrei l'esperienza del genocidio nazista, seppur con
molte distinzioni, e un destino comune che si manifesta anche durante il periodo del comunismo.
Grande è invece la distanza culturale fra le due etnie.
Molte sono le teorie elaborate nel corso del tempo dagli studiosi per spiegare l'origine e
l'evoluzione dei rom: studi antropologici e linguistici sembrano confermare che l'origine delle
migrazioni dei rom sia l'India. Durante il periodo di formazione dei primi Stati la diversità degli
zingari comincia a essere oggetto di pregiudizi: non più solo il colore scuro della pelle, la stranezza
degli abiti, ma anche il modo di vita diviene sospetto e malvisto. Ini-
zia, a partire dal Cinquecento e ancor più nel Seicento, un processo di criminalizzazione dei rom,
considerati parassiti che si affidano alla pratica della mendicità e del furto, (ad esempio nei
principati di Moldavia e Valacchia, lo statuto di schiavitù dei rom risale al Trecento e termina solo
nel 1864).
I rom sono aggregati in comunità, piccole o grandi, ciascuna delle quali è responsabile
nell'amministrazione della giustizia. All'interno di esse, cultura, intelligenza, esperienza, giustizia e
capacità nel settore economico suggeriscono l'elezione del capo, il Baro' Rom, il quale viene
spesso aiutato da una controparte femminile, chiamata Mami o daki-dei, guardiana del codice
morale e rappresentante delle donne della comunità. La donna assume un ruolo particolare
all'interno della società rom, queste sono ritenute le guardiane della Romaniya,, il sistema legale
dei rom, la cui conoscenza viene trasmessa oralmente ai bambini. Oltre a nomadi e stanziali, i rom
si distinguono spesso in base all'attività svolta, solitamente scelta fra quelle che richiedono un
equipaggiamento minimo e che garantiscono inoltre liberta e indipendenza. II termine gaje viene
utilizzato, anche in tono negativo, per riferirsi ai non rom, i quali sono considerati come una
popolazione estranea, che ignora le fondamentali regole della società "zingara". Questa si basa
sulla distinzione fra vujo e marime, pulito e sporco, puro e impuro, che opera nei rapporti sociali e
nell'amministrazione della vita comunitaria. Le controversie fra rom vengono inizialmente discusse
in un procedimento informale, divano, con cui i vari clan cercano di mediare la disputa. Solo
successivamente diventa necessario l'intervento del tribunale, kris, che giudica i crimini commessi
all'interno della comunità. Le sanzioni possono essere di carattere economico o sociale, come nel
caso dell'esclusione dal gruppo, considerata da molti la pena più dura in quanto comporta
l'impossibilità di formare una famiglia o di raggiungere accordi economici con gli altri membri.
Questo è forse l'elemento che più contribuisce a mantenere l'isolamento sociale dei rom e la sua
impermeabilità rispetto alla cultura dominante. I sovrani illuminati europei tentano, nel 700, con una
serie di legislazioni di annullare la loro cultura e inserirli nella società, rinunciando alla loro lingua,
vestirsi come gli altri, frequentare le chiese, portando i bambini a scuola ecc.
La Bulgaria è il primo Stato a istituire scuole rom, nel 1910. Nel periodo interbellico, i rom non
costituiscono una preoccupazione particolare per i governi dei paesi europei entro i cui confini tali
popolazioni non vengono considerati una vera minoranza, ma solo una problematica categoria
sociale. Uno degli esempi più importanti è la legge bavarese del 16 luglio 1926, che limita il
nomadismo ai casi autorizzati dalle autorità di polizia e dispone l'obbligatorietà del lavoro.
Il nazismo, una volta arrivato al potere, produce la legge per la prevenzione di progenie ammalata
ereditariamente e sui criminali pericolosi e abituali (entrambe del 1933), categorie in cui molti
ritengono debbano essere fatti rientrare anche i rom. Il trattamento previsto è comunque diverso
da quello a cui sono sottoposti gli ebrei, la questione "zingara" viene sollevata solo
successivamente, con l'istituzione del Centro per la lotta del problema zingaro nell'ambito della
polizia criminale, nel 1936. Ai rom viene imposto di non viaggiare, viene loro proibito esercitare le
tradizionali occupazioni e, per procedere con la soluzione del problema, viene istituito all'interno
del Ministero della salute un'unita di ricerca sull'igiene razziale e la biologia della popolazione. Tale
organo, diretto dal dottor Ritter, svolge studi e oltre a riaffermare l'origine indiana dell'etnia rom,
distinguono la purezza razziale di una minoranza di tale etnia, i cui costumi non costituiscono un
pericolo per la popolazione tedesca, dal 90% dei rom tedeschi che ha perduto i suoi caratteri
originari nel corso delle migrazioni ed e percio impuro, incline a uno stile di vita asociale e
criminale.
In Russia, Polonia e nei Balcani, le SS coadiuvate dall'esercito regolare e dalla polizia uccidono e
internano migliaia di "spie" rom che solo grazie alle direttive di Heinrich Himmler si salvano dal
totale annichilimento, ad Auschwitz la prima liquidazione di massa, che colpisce circa 1700 zingari,
risale al marzo del 1943. La loro situazione legale viene gradualmente assimilata a quella degli
ebrei, con riguardo alle tasse speciali e ai diritti civili, anche se la perfidia nazista non colpisce le
due etnie alto stesso modo. Durante l'anno però, Himmler sembra perdere interesse per la
questione e così le istruzioni della sua circolare non vengono eseguite, non si fa distinzione fra
pura razza e mischlinge e solo a pochi, sottoposti a controllo, sterilizzazione e limitati nelle proprie
attività, viene concesso di rimanere in Germania. Se in entrambi i casi si tratta di eccidi di massa, i
rom non vengono puniti con la stessa fermezza ideologica, ma per ragioni anche più funzionali,
poiché considerati asociali, non utili alla costruzione della comunità tedesca; anche se le perdite
umane fra i rom raggiungono dimensioni enormi non solo in Germania, dove ne sopravvive solo il
12%. Nei territori occupati e nei paesi satellite, come in Croazia, Serbia, Polonia, nei Paesi Baltici e
nell'Italia fascista, nonche nei territori dell'Urss occupati, viene applicato lo stesso genere di politica
che sembra aver toccato fra il 70 e l'80% dei rom europei.
In ritardo rispetto alla Germania, anche l'indipendente Romania avvia una politica specifica per la
soluzione del problema degli tigani; il nazionalismo romeno interbellico non manifesta particolari
attitudini anti-rom poiché questi, anche se considerati una piaga per la società, non sono ritenuti
un'etnia. Con il governo Antonescu e l'ingresso nell'orbita della Germania nazista, le misure a
carattere nazionalista, tuttavia, diventano una coordinata essenziale della politica interna.
L'occupazione della Transnistria offre ad Antonescu il luogo ideale per deportare i rom, stabili o
nomadi, che vengono ritenuti pericolosi e indesiderabili. la diffusione di alcune voci fra i rom
relative alla possibilità di ottenere della terra una volta giunti a destinazione, così come la volontà
di seguire la sorte della propria famiglia o dei congiunti, fanno si che molti si mettano in viaggio con
mezzi propri per poi riunirsi con i treni dei deportati. Fra i deportati si registra una mortalità
piuttosto alta dovuta alle cattive condizioni in cui vengono fatti vivere, concentrati in grandi gruppi,
sottoalimentati e senza visite mediche.
La fine del governo Antonescu, il 23 agosto 1944, è seguita dall'abrogazione della legislazione
fascista e dal "ritorno a casa" dei rom, a cui viene permesso riprendere le loro occupazioni, almeno
fino al momento in cui comincerà un nuovo tentativo di "normalizzare" la vita di tale popolo e
adattarla alle esigenze della società moderna.

6.2- Il socialismo reale e la nascita di una nuova questione minoritaria


Mentre in Germania la persecuzione dei rom viene gradualmente dimenticata, non è oggetto delle
accuse di Norimberga e non da luogo ad alcun risarcimento, ne viene riconosciuta ufficialmente
dal governo di Bonn fino agli anni Ottanta, i tigani romeni e degli altri paesi dell'Europa
centro-orientale, già colpiti dalla guerra, si trovano invece di fronte a nuove politiche di
assimilazione. La società ideate pensata dai leader sovietici è costituita dal modello unico di
cittadino socialista, produttivo e cooperativo, e per raggiungere questa omogeneità necessita che
alcuni elementi, come i rom, vengano trasformati in tal senso. Si sviluppano perciò diversi tipi di
politica e si delineano dei modelli distinti che, pur avendo come scopo l'assimilazione dei rom, si
basano su principi e metodi diversi.
In Cecoslovacchia e Bulgaria si attuano le politiche coercitive più dure; nel 1958 i"nomadi" cechi
vengono privati del diritto a viaggiare e obbligati a trovare un impiego regolare e nel 1966, parte il
programma di sterilizzazione delle donne, di almeno 35 anni con minimo tre figli. Nei censimenti, ai
rom viene chiesto di dichiararsi membri di un'etnia costituzionalmente riconosciuta; vengono
allontanati dai loro stanziamenti e costretti a vivere in zone urbane, mentre l'uso del romani viene
proibito nelle scuole anche durante gli intervalli. Tali programmi subiscono un'accelerazione negli
anni Ottanta, come nel caso delle sterilizzazioni, che da 500 passano a 2.000 all'anno, e dal 1986
vengono permesse per donne superiori ai 18 anni anche senza figli. In Bulgaria la campagna di
assimilazione che inizia negli anni Cinquanta conduce a decreti di uguale natura, con l'obiettivo di
stanziare la comunità rom e inserirla nel regolare ciclo lavorativo. Per unificare la società bulgara, il
governo cerca di riformare i modi di vita dei rom e sviluppare la loro cultura in senso bulgaro,
vietando l'uso della lingua, la pubblicazione di quotidiani e ordinando la chiusura del teatro romani.
La Polonia è il primo Stato a offrire ai rom case e lavoro, con mezzi meno coercitivi e più
comprensivi, creando un ufficio per le questioni dei rom. Solo dopo il 1964 la campagna di
assimilazione, a causa dei pochi risultati raggiunti durante la sua prima fase, comincia a prevedere
la registrazione dei rom da parte delle autorità locali, insieme a restrizioni, controlli e misure più
dure che sono attuate senza continuità e uniformità, consentendo ai rom polacchi una maggior
capacità di resistenza alle pressioni assimilazioniste. Similmente, anche in Romania le disposizioni
governative si differenziano da quelle bulgare e ceche per la minor intensità, dovuta in gran parte
al differente zelo con cui le autorità locali eseguono tali atti. In Romania fra il 1946 e il 1951 inizia
l'assimilazione confiscando cavalli e carrozze, disperdendo le comunità rom e vietando ogni forma
di associazionismo. Arrivano poi i metodi di Ceausescu, connotati dal disprezzo per la reale
esistenza dei rom. Questi vengono abbandonati a se stessi, a un crescente analfabetismo e alla
criminalità che regna nei quartieri periferici delle grandi città. Per punire il parassitismo sociale si
ricorre ad arresti e lavori forzati.
Solo la Jugoslavia si dimostra più attenta all'armonia etnica dei suoi territori, preferendo modelli
integrativi e politiche più tolleranti. La Macedonia, come auspicato da Tito già dopo la guerra,
diventa una località ospitale per i rom, che qui formano una delle comunità più consistenti in
Europa, e anche dopo la morte del dittatore l'integrazione dei rom rimane uno degli obiettivi
prioritari dello Stato.
Paradossalmente, i regimi socialisti hanno contribuito allo sviluppo di ciò che più temevano.
Sopravvivono infatti i pregiudizi sociali derivanti da alti indici di criminalità, dal ricorso a forme di
assistenza sociale come unica fonte di sopravvivenza e dall'eccessiva natalità dei rom, nonché dai
privilegi ottenuti in passato quando, rispetto ai normali cittadini, per i rom era più facile ottenere un
alloggio pubblico, anche se di basso livello. La caduta dei regimi est-europei ha acuito tali
differenze, lasciando spesso nelle comunità rom un ambiguo senso di nostalgia per il comunismo,
che almeno dava loro maggiori possibilità di lavorare, seppur a costo di abbandonare i mestieri e le
attività tradizionali, oltre che di ricevere una minima educazione.
Il crollo del comunismo apre per le popolazioni rom una nuova era e ha come prima conseguenza
la crescita dei flussi migratori verso i paesi occidentali, dove la "minaccia zingara" è diventata
questione all'ordine del giorno. Nei paesi usciti dal socialismo reale, questo tipo di pregiudizi
conduce anche a vari episodi di violenza, come nel caso di Eger, in Ungheria (14 settembre 1990)
o di Bucarest, dove durante la repressione delle proteste di piazza del giugno 1990 da parte dei
minatori alcuni rom vengono attaccati nelle strade e derubati dei propri beni, sequestrati dalle loro
case in quanto ritenuti proventi del mercato nero. I tratti dell'oppressione post-comunista sono
molto differenti da quelli del passato e includono anche violenza fisica, linciaggi e attacchi che
sembrano fare dei rom la nuova preda favorita delle organizzazioni di estrema destra. Allo stesso
tempo però, la popolazione rom può continuare il suo processo di emancipazione più liberamente;
attraverso partiti e organizzazioni. Dopo l'indifferenza dei primi anni Novanta e il crescente numero
di richiedenti asilo arrivati dall'est nei paesi dell'Unione, la condizione dei rom è seguita sempre più
attentamente nel dibattito pubblico, anche nel campo giuridico, settore che, a parte passate
esperienze deflate dalla "ziganofobia", deve oggi essere rivisto in termini diversi, partendo dal
riconoscimento della specificità rom come popolazione transnazionale qualificabile in termini di
"stateless persons", sulla base della Convenzione di Ginevra del 1954. Negli anni successivi si
evolvono fino a costituire programmi di discriminazione positiva pensati per alleviare la marginalità
dei rom. Tali azioni partono dai diritti preliminari, alla vita e all'integrità fisica, spesso minacciati
dalla violenza razziale e dalla mancanza di adeguati strumenti di tutela giuridica, per poi
riconoscere ai rom diritti collettivi, alla cultura, all'educazione, al linguaggio, all'uguaglianza
sostanziale definita dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani.
Tali obiettivi vengono perseguiti anche a livello internazionale, tramite il riconoscimento politico dei
rom come etnia da parte dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce)
e grazie ad alcuni strumenti previsti dalle istituzioni europee, motto attente alla situazione dei diritti
umani nei paesi candidati, soprattutto nell'est europeo, dove vive circa un terzo dei rom nel mondo,
e all'attività di altre numerose organizzazioni anche non governative. Tutti i paesi candidati
rispondono da parte loro lanciando programmi per l'integrazione delle comunità rom; in Ungheria e
Romania è stata garantita la rappresentanza politica tramite le due principali organizzazioni
politiche rom. Speciali programmi diretti alla lotta contro la marginalizzazione e al miglioramento
della socializzazione e della partecipazione politica caratterizzano la fase di transizione
democratica di tutti i paesi dell'area. Le difficoltà incontrate nell'esecuzione di tali strategic rendono
impossibile una puntuale valutazione dei risultati raggiunti nell'integrazione e nel miglioramento
delle condizioni dei rom, oggetto di una legislazione sempre più attenta, anche se spesso carente
sul piano esecutivo, si deve però riconoscere che le condizioni delle comunità rom vengono
costantemente monitorate da numerose organizzazioni internazionali, anche non governative, e
sono così investite da una crescente attenzione.

Cap. 7- Il Sud Tirolo e le minoranze linguistiche in Italia


7.1- Versailles e l’avvento del fascismo
Allo scoppio della Grande Guerra, fra le diverse "nazionalita oppresse" soggette all'autorita
asburgica vi è anche una vasta comunità italiana disposta lungo il confine meridionale dell'Impero
attorno ai centri di Trento e di Trieste. Dopo l'unità d'Italia tali territori sono diventati il simbolo
dell'irredentismo, obiettivo ultimo del processo di emancipazione nazionale dell'Italia che si è
formata nel 1861 e che si è poi estesa al solo Lombardo Veneto, lasciando agli Asburgo i territori
del nord-est della penisola. La provincia austriaca del Tirolo racchiude Bolzano, Trento e
Innsbruck, dove ha sede la Dieta in cui sono rappresentati anche gli italiani del Trentino. Si
pongono comunque le basi per uno scontro etno-culturale, che vede impegnate le diverse
associazioni e i partiti. Fra gli italiani che più calorosamente sostengono l'unione del Trentino
all'Italia troviamo Cesare Battisti, leader del locale partito socialista, e Benito Mussolini, giornalista,
socialista, agitatore sindacale, amico di Battisti, acerrimo nemico della Chiesa e di Alcide De
Gasperi. L'attentato di Sarajevo del 1914 ha un forte impatto anche in Trentino e suscita
reazioni differenti in De Gasperi, piu propenso per la neutralità, e in Cesare Battisti che incita "tutti
al fronte con la spada e col cuore", opzione quest'ultima che prevarrà dopo un vivace dibattito.
L'Austria, infatti, pur legata all'Italia dalla Triplice Alleanza rappresenta il principale ostacolo per il
completamento dei confini storici italiani. Lo scoppio del primo conflitto bellico offre quindi a Roma
l'opportunità di completare il processo di unificazione nazionale, obiettivo per cui vengono presi
accordi preventivi con gli alleati per assicurarsi i territori contesi agli austriaci. Al termine delle
ostilità l'accordo di Londra non è però accettato al tavolo delle trattative di Versailles dove l'Italia,
pur con maggiori difficoltà di quanto previsto, riesce a inglobare tutto il Trentino e la parte
meridionale del Tirolo fino al passo del Brennero, una regione abitata da una maggioranza di
lingua tedesca, i nuovi confini non rispecchiano la forte volontà della popolazione che invece
preme affinché l'intero Tirolo venga tenuto unito. La "generosità" con cui si procede a tracciare la
frontiera del Brennero non e però sufficiente a quietare le voci del malcontento che definiscono
quella italiana una "vittoria mutilata". Si preannuncia una impegnativa fase di ricostruzione,
economica ma anche politica; a tali problematiche si deve sommare la non indifferente questione
dell'integrazione in un unico Stato di popolazioni e aree estremamente differenti per tradizioni e
cultura. La presenza di diverse minoranze linguistiche, non solo quella tedesca ma, in misura
minore anche una slovena e una croata, pone il governo italiano di fronte a una situazione in cui
non risulta più adeguata la legislazione post-unitaria pensata per i francesi della Val d'Aosta, l'unica
minoranza la cui lingua era stata riconosciuta dalla prima Costituzione unitaria, lo Statuto Albertino.
Pur vedendo nell'unione con Roma la divisione del proprio territorio storico, i sudtirolesi si sentono
rassicurati dai trattati firmati a Versailles dagli Stati vincitori e dalle promesse di autonomia fatte dai
nuovi governatori. Fra i primi provvedimenti si modificano i programmi scolastici con l'inserimento
della storia e della geografia d'Italia e si impone l'italiano come seconda lingua obbligatoria.
L'avvento del fascismo trasforma la convivenza fra italiani e tedeschi in un attrito quasi culturale fra
le due nazionalità. Nel 1923, all'interno del movimento fascista si verifica lo scontro fra due linee
politiche: da una parte, quella di Giovanni Gentile e del liberalismo linguistico, che prevede una
scuola nazionale unica in lingua italiana con ampio spazio per lo studio dei dialetti e delle tradizioni
locali, dall'altra, quella di Ettore Tolomei, commissario della lingua e cultura italiana nell'Alto Adige,
il quale rende noto il suo drastico programma per eliminare ogni impronta nazionale del gruppo
tirolese. Purtroppo è la seconda soluzione a prevalere definitivamente con effetti devastanti
sull'insegnamento in lingua tedesca. Parte un complesso processo di denazionalizzazione che
coinvolge la cultura ma anche l’economia; i nomi tedeschi vengono tradotti in italiano (il Sud Tirolo
diventa Alto Adige), le tradizionali celebrazioni tirolesi vengono proibite. Nel 1924, inizia anche
l'industriale zione della regione con opere idroelettriche e l’apertura di nuovi impianti rispetto ai
quali viene richiesta la lingua italiana come condizione di accesso al lavoro. Tali progetti sono
considerati ad "alto interesse politico", non solo per motivazioni legate allo sviluppo economico, ma
anche perché coinvolgono mano d'opera italiana che da tutta la penisola si trasferisce nei territori
popolati da tedeschi in una sorta di ri-popolazione o colonizzazione.
Il ventennio fascista diventa così il punto di partenza per l’italianizzazione dell'area di confine dove
si tenta di sradicare ogni elemento di distinzione linguistica e culturale non solo della minoranza
tedesca, che è la più numerosa, ma anche di quella ladina e di quella "slava" che vive in Istria,
territorio occupato nell'autunno 1918 e poi annesso nel 1920. La lingua viene proibita nei pubblici
uffici, vengono soppressi giornali croati e sloveni, le scuole sono chiuse, i cognomi italianizzati,
tutto ciò è supportato da un uso distorto della storia che riconosce nell'Italia una forza superiore
rispetto ai "barbari". Tali elementi riemergono con la politica di Mussolini nei confronti delle
minoranze, che si rivela una singola parte del più ampio progetto con cui il Duce intende stabilire
un impero basato su un'unità linguistica e culturale perfetta.
Con l’alleanza con la Germania la situazione dei tedeschi del Tirolo e i rapporti sono
completamente diversi e si può così pensare al raggiungimento di una soluzione diplomatica del
problema. Dal 1932 compare un partito filonazista e si formano diverse associazioni, come quella
di Peter Hofer, che mirano all'unione di tutto il Tirolo. Hitler però non prevede di intervenire in tale
regione e manifesta la sua preferenza nel saldare i rapporti con l'Italia. Per risolvere i problemi in
discussione e consolidare l'alleanza fra Mussolini e Hitler, si ricorre a un'idea di Hermann Goring
del 1937, quella delle opzioni, facendo così svanire le speranze dei nazionalisti tedeschi, i quali
sognavano un Anschluss che includesse anche il Sud Tirolo. In base a un accordo del 1939, ai
tedeschi viene chiesto di scegliere se rimanere in Italia oppure optare per l'emigrazione in
Germania; il programma parte ma molti sono gli ostacoli procedurali e i ritorni clandestini si fanno
sempre più frequenti. La svolta dell'8 settembre e la divisione dell'Italia, infatti, portano l'esercito
tedesco a varcare i confini italiani per venire in aiuto dell'alleato, rappresentato ormai dalla
Repubblica Sociale di Salò. Dal 1943 il Tirolo entra sotto l'amministrazione tedesca. Le SS
sfruttano quest'area per integrare i propri reggimenti, reclutando i giovani tedeschi.
Molto più esplosiva è la situazione dell'Istria e della provincia occupata di Lubiana, ove regna un
clima di violenza esasperato dall'intolleranza dell'occupazione tedesca e da accese rivalità etniche
che sfociano in episodi di una brutalità estrema. Si forma un forte movimento di resistenza che
collabora con l'armata di Tito e dall'8 settembre iniziano a farsi frequenti jacqueries anti-italiane,
che si concluderanno con la tragica esperienza delle foibe e con l'esodo forzato che si protrarrà
per oltre dieci anni dal termine del conflitto. Dopo la rottura di Tito con Stalin, l'autorità jugoslava
diventa sempre meno tollerabile per le comunità italiane le quali fino al 1956 sono protagoniste di
una massiccia evacuazione che le conduce verso l'Italia. Dopo la fine della 2GM la regione del
Tirolo viene nuovamente assegnata all’Italia. Viene respinta ogni ipotesi di referendum o di
plebiscito e la soluzione avviene a Parigi nel 1946 con l'Austria che riconosce la frontiera del
Brennero mentre, da parte italiana, ci si impegna a garantire ai tedeschi del Tirolo poteri di
autonomia legislativa e amministrativa.

7.2- La repubblica, il Sud Tirolo e le altre minoranze linguistiche


L'accordo De Gasperi-Gruber, che costituisce la Magna Charta dell'autonomia tirolese, è un atto
atipico, redatto in inglese, e in base al cui Vienna segue con grande attenzione la vita politica
italiana e lo sviluppo dell'autonomia tirolese, affidato alla dialettica fra Roma e il partito Siidtiroler
Volkspartei (Svp). La vaghezza di alcuni termini del trattato non contribuisce a chiarire le vere
intenzioni dei firmatari. Nell'aprile 1947 la Commissione dei sette, voluta dal presidente del
Consiglio Alcide De Gasperi, comincia a elaborare una vera e propria proposta di autonomia, ma
la Svp punta sulla costituzione di due regioni autonome, Sud Tirolo e Trentino.
II 31 gennaio 1948 la Costituente approva lo Statuto di Autonomia regionale che viene infine
inserito nel definitivo art. 116 della nuova Costituzione italiana che formalizza la distinzione fra
cinque regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e
Valle d'Aosta) e altre a regime ordinario. Tuttavia, la Svp inizia a esercitare pressioni politiche
lamentando numerose mancanze nell'applicazione di alcuni articoli dell'accordo.
I ritardi nella soluzione della questione dello Statuto di autonomia, che l'ala più radicale della Svp
guidata da Gamper non riesce a digerire, il protrarsi dell'immigrazione italiana nella regione e la
non applicazione della legislazione sulla lingua tedesca rendono la tensione politica fra la Svp e
Roma sempre maggiore. Viene denunciata l'eccessiva immigrazione italiana, nonche la netta
preferenza accordata a questi ultimi nell'ambito del pubblico impiego e dell'alloggio; nella regione
compaiono le prime forme di terrorismo separatista. Sempre più numerosi sono gli atti terroristici
contro i simboli dell'occupazione italiana, polizia e carabinieri, e contro la rete elettrica, molti i danni
all'industria, mentre le autorità rispondono con un'ondata di arresti. La reazione del Governo
italiano è infatti altrettanto dura e si spinge fino a vietare agli Schutzen, "riabilitati" dopo il 1945 i
simboli della storia del Tirolo. Dal punto di vista delle negoziazioni politiche si susseguono accuse
e incomprensioni reciproche che non portano ad alcun risultato. Nel 1959 si giunge così alla prima
vera crisi politica regionale. Parallelamente procede anche la vertenza internazionale che vede
opporsi l'Italia, accusata di non rispettare gli accordi di Parigi, e l'Austria che presenta
ripetutamente la questione all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Sottoposta alla pressione
internazionale di Vienna, l'Italia è così spinta ad agire e accelera il processo di revisione dello
statuto regionale tramite l'attività preparatoria della Commissione dei 19 e un'intensa attività di
mediazione. La regione viene sostanzialmente scomposta in due province autonome alle quali
vengono assegnate consistenti competenze nel quadro di un'autonomia che prevede l'uguaglianza
etnica e linguistica anche per la comunità ladina. Nel 1972, ha termine l'esperienza dell'autonomia
regionale e viene promulgato con decreto del presidente della repubblica il nuovo Statuto di
Autonomia speciale per le province di Trento (a maggioranza italiana) e di Bolzano (a maggioranza
tedesca. Lo Statuto della regione del 1972 attribuisce alle due province autonome la quasi totalità
delle competenze lasciando al livello regionale un ruolo poco più che formale. Roma però esercita
una funzione di supervisione forse troppo invasiva. Sotto la guida del suo leader storico Magnago,
la Svp continua a condurre una costante opera di negoziazione per raggiungere ulteriori
concessioni e dimostra la propria forza e la propria tenacia nel voler perseguire una forma
moderna ed estremamente evoluta di autonomia. Roma deve cedere sulla possibilità di ricorrere
alla Corte internazionale di giustizia. Nel giugno 1992 il Segretariato Generale dell'Onu riceve due
note, con cui Italia e Austria dichiarano chiusa la vertenza, da quel momento la questione tirolese
si configura semplicemente come un problema interno. Bolzano prosegue la sua attività di
negoziazione con Roma ritagliandosi uno spazio di autonomia sempre più ampio a scapito della
regione. Bolzano stabiliva un ufficio comune di rappresentanza a Bruxelles con le autorità del Nord
Tirolo. Tale progetto si inserisce in un più ampio dibattito vertente sulla opportunità di creare una
euroregione tirolese come ponte tra la cultura mediterranea e quella centro-europea.
L'articolato sistema statutario, pur raggiungendo un grado di perfezionamento elevato e venendo
proposto come modello istituzionale da seguire anche in casi più controversi, non sembra in grado
di eliminare del tutto la conflittualità sociale, che viene alimentata da organizzazioni radicali.
Nel 2006 gli Schiitzen di Paul Pacher chiedono a Vienna l'inserimento nella sua nuova
Costituzione di un riferimento alla funzione dell'Austria come potenza tutrice dell'autonomia
dell'Alto Adige, al di la di questi tentativi si va consolidato un sistema di governo locale
estremamente rispettoso della diversità dei gruppi linguistici della provincia di Bolzano che
secondo i dati Istat del 2001 consistono nel 69,15% di tedeschi, 26,47% di italiani e 4,38% di
ladini. In tale articolato sistema la minoranza tedesca risulta dunque essere una minoranza
"superprotetta" dall'ordinamento italiano. Anche se la comunità tedesca del Sud Tirolo rappresenta
la più visibile minoranza storicamente presente nel territorio italiano, bisogna dire che non è certo
l'unica. In mancanza di una disciplina di ordine nazionale, tutte le situazioni minoritarie della
penisola italiana erano state oggetto di disposizioni prese a carattere locale, almeno fino alla citata
legge n. 482 del 1999 che ha invertito l'iniziale tendenza, con la previsione di un sistema organico
simile a quello approntato per le minoranze nelle regioni a statuto speciale. La legge non si applica
nelle regioni a statuto speciale e rimette fondamentalmente agli enti regionali e locali la
determinazione degli strumenti concreti per applicare la normativa statale. La mancanza di un
chiaro indirizzo generale nei rapporti tra centro e periferia naturalmente non contribuisce alla
solidità di tale sistema. In numerosi studi dedicati al regionalismo italiano appaiono infatti
definizioni come anomalia o paradosso, concetti che testimoniano la complessità dei rapporti
Stato-regione. Si fa dunque ricorso a un criterio asimmetrico che diversifica il grado di tutela
accordato, aprendo una nuova fase in cui le regioni e gli enti locali vengono maggiormente
responsabilizzati relativamente alla tutela delle minoranze, materia per certi versi innovativa per
l'ordinamento italiano.

Cap. 8- Stato nazionale e integrazione europea. Minoranze e regionalismi nella nuova


Europa
8.1- Stati e nazioni dell'Europa occidentale
Al termine della seconda guerra mondiale, la questione delle minoranze non rientra negli obiettivi
della grande diplomazia, impegnata nell'approntare un regime di diritti umani universalmente validi
e nel definire una nuova legalità internazionale. Solo nel 1966 il Patto sui diritti civili e politici
prende in considerazione nella loro specificità le minoranze, che continuano a costituire una
problematica spinosa in quegli Stati che ancora non sono riusciti a compattarsi dal punto di vista
etnico e che quindi presentano entro i propri confini diverse nazionalità. Dagli anni Settanta i
problemi minoritari si confondono con le questioni delle "nazioni proibite" e si ripropongono con
una certa costanza contribuendo allo sviluppo di un movimento politico affine, il regionalismo, che
in alcuni casi si avvicina o coincide al nazionalismo, ma che si distingue da questo soprattutto per
gli aspetti culturali e ideologici.
Nell’Irlanda del Nord fra XIX e XX secolo nascono le prime società segrete e inizia con Londra una
contesa che si conclude solo con la nascita dell'Irish Republican Army (Ira) nel 1916 e la
costituzione dello Stato libero d'Irlanda nel 1921. Nelle sei contee settentrionali escluse si diffonde
un forte risentimento, nei confronti dei connazionali rei di essersi accontentati di una parziale
indipendenza e per la maggioranza angloprotestante, espressione di una secolare dominazione
che accompagna la discriminazione politica a quella religiosa. Negli anni Sessanta torna a essere
terreno di scontro. L'Ira, che mira all'unione dell'Irlanda utilizzando lo slogan Brits Out!, trova
l'opposizione dell'esercito inglese inviato nell'isola ne 1968 e delle numerose organizzazioni
paramilitari unioniste. Londra revoca le poche concessioni fatte nel 1968 e sospende sia il
parlamento che il governo regionale di Stormont, ricorrendo anche a misure eccezionali come
l'Internment che portano a una serie di arresti indiscriminati, al sanguinoso incidente del Bloody
Sunday (il 30 gennaio 1972 muoiono tredici civili disarmati). La spirale di violenza è solo agli inizi;
bombe e attentati insanguinano il Nord Irlanda e l'Inghilterra; al Bloody Sunday fa seguito il Bloody
Friday, iniziato con l'assassinio di un bambino cattolico e proseguito con una raffica di bombe
piazzate dall'Ira a Belfast e Derry. Grande eco assume il caso di Bobby Sands, dopo la "protesta
delle lenzuola" (1976), quella "dello sporco" e un primo sciopero della fame, Sands nel 1981 inizia
un lungo periodo di inedia che lo conduce fino alla morte, divenendo così un martire della causa
separatista.
Allo stesso tempo il Partito nazionale scozzese inizia a premere per la concessione del
decentramento amministrativo. L'obiettivo viene però è mancato per l'esito negativo dei
referendum che si svolgono nel 1979 sia in Scozia che nel Galles.
Nell'ulster prosegue un clima di violenza quotidiana e di segregazione.
Per tutti gli anni Ottanta e Novanta Londra continua a manifestare una certa resistenza
nell'affrontare sia la questione irlandese che quella del decentramento di Scozia e Galles. Un
cambiamento di tendenza si avverte con la dichiarazione di Downing Street del 15 dicembre 1993,
con la quale si decide di rimettere la questione dell'Ulster al consenso popolare e prosegue fino at
Good Friday Agreement (Accordi del Venerdì Santo), alla costituzione del primo governo
provvisorio nord-irlandese e all'avvio dello storico processo di devolution. Gli Accordi sono divisi in
due parti: il Multi-Party Agreement, firmato dai partiti dell'Irlanda del Nord, prevede la costituzione
di un'Assemblea nord-irlandese, un Consiglio ministeriale e un Consiglio anglo-irlandese, e il
British-Irish Agreement, un vero trattato internazionale fra due Stati sovrani che si impegnano a
dare concreta attuazione ai contenuti della prima parte.
La Gran Bretagna, con la sua multinazionalità, l'abbondante popolazione e la diversità religiosa,
culturale ed economica esistente fra le diverse parti del suo territorio, ha stentato a darsi un
sistema di governo regionale simile a quello sviluppato da altri paesi europei e solo con il governo
laburista di Tony Blair e i referendum del 1997 (in Scozia e Galles) inizia tale storico processo.
Anche in Gran Bretagna, dunque, riappare una questione nazionale che sembra essere stata
ricondotta entro i termini della dialettica politica grazie all'importante distinzione operata tra nazione
(inglese, scozzese, gallese o irlandese) e Stato. Le autorità substatali, infatti, sono solitamente i
livelli di governo territoriali più adatti ad accogliere e rappresentare gli interessi dei molti gruppi
minoritari o nazionali.
La ripresa economica e la progressiva democratizzazione degli Stati europei portano a una
maggiore apertura verso i partiti nazionalisti e regionali, che spesso combinano le rivendicazioni di
carattere economico alla riscoperta della lingua e delle tradizioni locali.
In Belgio, dopo un lungo sciopero di trentaquattro giorni fra 1960 e il 1961, si assiste alla
progressiva regionalizzazione dei partiti tradizionali che si dividono su base etnica. II Belgio è
diviso in tre comunità culturali: francofona, fiamminga e germanofona; tre regioni: Bruxelles,
Fiandre e Vallonia; e in quattro regioni linguistiche.
Un analogo fenomeno si registra, seppur con minore slancio, anche in Francia, ove ai dipartimenti
si va gradualmente sostituendo una costruzione statale impostata sul modello regionale e sul
decentramento. In Corsica negli anni Ottanta i partiti autonomisti e indipendentisti iniziano una
stagione di terrorismo caratterizzata da bombe, sequestri e attentati, che raggiunge il suo picco
con l'uccisione del prefetto francese Claude Erignac.
Fenomeni di violenza hanno contraddistinto anche la transizione spagnola, caratterizzata dalla
rinascita del separatismo basco e di quello catalano, essi si distinguono fin dalle origini per il
diverso approccio, più radicale nel caso dei baschi.
II Partido nacionalista vasco (Pnv) nato nel 1893 viene invece fortemente ispirato dal principio di
difesa della purezza razziale basca e dal legame di questa con la religione cattolica. Terminata la
repressione franchista, che porta nei paesi baschi numerosi operai spagnoli, inizia la violenta
campagna terroristica dell'ETA, organizzazione fondata nel 1959 da un gruppo di dissidenti del
collettivo universitario Ekin che rifiuta ogni compromesso con il governo spagnolo. Il programma
dei nazionalisti riparte dalla difesa della lingua, euskara, dall'antispagnolismo e dalla
rivendicazione di tutti i territori baschi. Se durante, la dittatura l'attivita dell'Eta si era confusa con la
resistenza antifranchista ricevendo la solidarietà di molti, soprattutto in Catalogna, alla fine degli
anni Settanta è però chiaro che essa è diretta contro lo Stato spagnolo. II terrorismo infatti non si
placa durante gli anni della fase costituente, quando si stabilisce il profilo costituzionale del
decentramento spagnolo. Negli anni Ottanta, per contrastare i terroristi, Madrid crea i Grupos
Antiteroristas de Liberacion (Gal), che ricorre alla violenza di Stato per combattere quella dei
separatisti. Le posizioni tra il nuovo governo ed ETA non riescono però a conciliarsi e la tregua
viene rotta dopo 14 mesi.
Grazie a una serie di importanti arresti, raggiunti anche con la collaborazione della Francia, l'Eta
sembra essersi notevolmente indebolita, ma non annientata e infatti proseguono episodi definiti di
violenza residuale che accompagnano lo sviluppo del processo di pace.
L’assetto spagnolo prevede un regionalismo differenziato in cui le diverse comunità autonome,
provviste di un parlamento e di un consiglio del governo, non sono definite in modo rigido, ma si
inseriscono in un ordine flessibile in cui esprimono le proprie particolarità attraverso lo Statuto di
autonomia. La Catalogna ha elaborato un nuovo Statuto che, oltre a riconoscere la regione
catalana come nazione, contiene importanti clausole relative all'amministrazione della giustizia, ad
aspetti linguistici e soprattutto fiscali.
L'autonomismo catalano ha infatti espresso fin dalle sue origini una maggiore moderazione. II
nazionalismo gallego, meno forte e sentito, è notevolmente diverso dalle esperienze basca e
catalana, così come differenti sono le situazioni delle tre comunità autonome e le le loro relazioni
con il potere centrale. La scelta regionalista compiuta per risolvere la questione dell'autonomia
basca e catalana, nonostante per alcuni assuma in origine i connotati di un tentativo di semplificare
e svilire la questione, ha infatti dato vita a un sistema di regionalismo differenziato che in alcuni
casi sembra avvicinarsi maggiormente a un modello più avanzato, quasi di carattere federale.

8.2- II regionalismo e le minoranze in Europa


Solo negli anni Settanta, quando l'attenzione per le questioni nazionali viene risvegliata dalla
tensione vissuta per l'inasprimento di alcuni di questi conflitti (in Spagna e in Ulster) anche
l'approccio delle istituzioni europee nei confronti delle autorità sub-statali di governo comincia a
cambiare.
Le Comunità decidono di creare il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) destinato a divenire
il principale strumento delle politiche comunitarie di coesione economica e sociale. II diritto
comunitario in alcuni casi smette di disinteressarsi della distribuzione di competenze interna ai
singoli Stati membri e vi si intromette, provvedendo direttamente a individuare quale livello, statale
o regionale, abbia il compito di svolgere una funzione o un'attività rilevante per le normative
europee. Proprio grazie a una di queste "intrusioni" nell'ordinamento nazionale, si registra un primo
coinvolgimento diretto delle regioni nelle azioni comunitarie. Tale politica viene consolidata
attraverso l'Atto Unico Europeo del 1986, quando assume carattere di competenza generale delle
Comunità, e viene supportata dall'inserimento dei principi di partenariato e copartecipazione nella
gestione dei fondi strutturali. La Commissione, a sua volta, con la decisione 487/88 istituisce il
Consiglio Consultivo degli enti regionali e locali, poi perfezionato dal trattato di Maastricht e
sostituito dal Comitato delle regioni, organo rappresentatività delle autorità regionali e locali che
partecipa ai meccanismi decisionali comunitari con poteri consultivi. Nell'originario testo del trattato
di Maastricht le competenze del Comitato erano !limitate a cinque settori: coesione economica e
sociale, reti transeuropee, sanità pubblica, istruzione e cultura. In seguito all'entrata in vigore del
trattato di Amsterdam gli sono poi stati attribuiti cinque nuovi ambiti di consultazione obbligatoria:
politica dell'occupazione, politica sociale, ambiente, formazione professionale e trasporti.
Abbandonando la tradizionale logica che vedeva la partecipazione alla vita comunitaria come un
ramo della politica estera, quindi competenza esclusiva dello Stato centrale, in molti ordinamenti
sono stati introdotti particolari meccanismi di partecipazione regionale ai processi di policy-making
in relazione alle politiche europee.
Per indicare iI crescente ruolo delle regioni nell'amministrazione comunitaria, i giuristi sono arrivati
a parlare di multi level governance e di third level governance. La governance che si va delineando
all'interno dell'Unione europea riparte dunque da principi di cooperazione, copartecipazione e
partenariato, e inserisce nella sua complessa articolazione anche le autorità sub-statali di governo,
quelle regioni esistenti sotto forme diverse ormai in tutti gli Stati membri.
In questi casi la regionalizzazione, coniugando economia e politica, può inoltre servire come
strumento di espressione di comunità minoritarie spesso ignorate dal mondo politico, quasi come
mezzo di riconciliazione etnica. La ricollocazione dei paesi dell'Europa orientale nella politica
internazionale ha favorito la costruzione di sistemi democratici di massa che hanno invertito la
tendenza all'esclusione e alla discriminazione manifestata nella prima fase post-totalitaria in
Estonia, Lettonia, Slovacchia, Romania e Bulgaria.
II trattato di Amsterdam prevede che il Consiglio possa adottare opportuni provvedimenti per
combattere discriminazioni fondate su razza, origine etnica e religione, obiettivo poi arricchito della
lunga serie di divieti previsti dall'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
e dal successivo art. 22, che sancisce l'obbligo di rispettare la diversità culturale, religiosa e
linguistica. L'incremento quantitativo delle competenze delle Comunità comporta inoltre la
necessità, da parte delle istituzioni europee, di un utilizzo sempre maggiore degli apparati
istituzionali e amministrativi nazionali, quindi anche regionali e locali. Tali autorità trovano così la
possibilità di affacciarsi all'interno dei processi decisionali a livello europeo secondo le previsioni
dei trattati.

Potrebbero piacerti anche