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Dispense del corso di Storia Contemporanea1

Corso di Laurea in Sociologia – prof. Igor Pellicciari

Dispensa n. 2

2.1. L’EUROPA DELLE GRANDI POTENZE (1850-1890)

Il ventennio 1850-70, segnato da ben quattro guerre, fu caratterizzato da un elevato tasso di
conflittualità e di instabilità, originata soprattutto del tentativo della Francia di Napoleone III di
riaffermare la sua posizione contrapponendosi all’Impero asburgico. Ma l’indebolimento dell’Austria
ebbe fra le sue conseguenze quella di facilitare l’ascesa della potenza prussiana. La crescita della
Prussia costituiva una minaccia intollerabile per la Francia, che da oltre due secoli aveva fondato la sua
egemonia continentale proprio sulla debolezza e sulla frammentazione politica della Germania: la
strada dell’unità tedesca passava quindi inevitabilmente attraverso lo scontro con la Francia.
L’esito di questo scontrò elevò la Germania al ruolo di garante di un nuovo equilibrio continentale
e di fulcro di un sistema di alleanze mirato all’isolamento della Francia. Sul piano delle politiche
interne, le sconfitte dei democratico-radicali del ’48 non pregiudicarono il cammino dell’Europa verso
forme più avanzate di governo. La Gran Bretagna consolidò le sue istituzioni liberali, la Francia si
ritrasformò in repubblica dopo la sconfitta con la Prussia e dopo il 1870 nel Reich tedesco era in vigore
il suffragio universale maschile.

2.1.1. La Francia del Secondo Impero


Il Secondo Impero inaugurò un modello politico nuovo, che da allora fu detto bonapartismo:
l’omaggio formale al principio della sovranità popolare (attraverso i plebisciti, strumenti di democrazia
diretta) legittimava in realtà lo scavalcamento delle istituzioni rappresentative (il parlamento) e
l’instaurazione di un potere conservatore e paternalista, fondato sulla forza delle armi; il centralismo
autoritario si univa ad una certa dose di riformismo sociale. Oltre al consenso delle campagne,
l’imperatore ottenne quello della borghesia urbana, del mondo degli affari, della finanza e
dell’industria. Le costruzioni ferroviarie e le grandi opere pubbliche promosse dal regime bonapartista
svolsero la funzione di motore dello sviluppo. Sul piano interno, lo scontro con l’Austria e l’appoggio
al movimento nazionale italiano determinarono un contrasto fra l’imperatore e i gruppi cattolico-
conservatori. L’esperimento nel 1870 fu bruscamente interrotto dallo scoppio della guerra franco-
prussiana dal crollo del regime napoleonico.

2.1.2. Il declino dell’Impero asburgico e l’ascesa della Prussia


La costituzione concessa dall’imperatore asburgico nel 1849, e mai realmente applicata, fu revocata
                                                                                                               
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Avvertenze: queste dispense costituiscono materiale didattico integrativo, esclusivamente destinato ai
frequentanti il corso. I non frequentanti dovranno preparare l’esame sui testi.
 
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nel ‘51. Il centralismo amministrativo fu rafforzato e la burocrazia sempre più “germanizzata”, a
scapito delle altre componenti nazionali dell’impero (slavi, ungheresi, italiani). L’abolizione della
servitù della gleba aveva danneggiato l’aristocrazia e giovato ai contadini, che da allora avrebbero
finito col costituire il sostegno più sicuro per la monarchia. L’altro pilastro su cui poggiò la
restaurazione assolutistica di Francesco Giuseppe fu l’alleanza con la Chiesa cattolica. La monarchia
sacrificò le esigenze della borghesia produttiva (soprattutto in Lombardia e Boemia). L’Impero mancò,
dunque, l’appuntamento con lo sviluppo economico degli anni ’50 e ’60, senza riuscire a mantenere il
ruolo di primissimo piano che aveva nel concerto delle potenze europee.

Fu così la Prussia a riproporre con autorità la sua candidatura alla guida della nazione tedesca fidando
sulla forza trainante del suo sviluppo industriale e sulla stretta integrazione della sua economia con
quella degli altri stati tedeschi (1834, Lega doganale “Zollverein”). L’abolizione degli ordinamenti
feudali non aveva scalfito il potere dei nobili latifondisti prussiani, gli Junker. Questi fornivano la
quasi totalità degli ufficiali di carriera e occupavano anche i più alti gradi dell’amministrazione statale.
Lo stesso sistema elettorale rimasto in vigore dopo il ’48 assicurava agli Junker una rappresentanza
sproporzionata alla loro consistenza numerica. La mancata evoluzione delle istituzioni e la presenza ai
vertici dello stato di un ceto di aristocratici non ebbero però sulla società tedesca gli effetti negativi che
ebbero in Russia e nell’Impero d’Austria. Autoritarismo politico e conservatorismo sociale si
rivelarono componenti essenziali di quella “via prussiana” allo sviluppo che avrebbe finito col
costituire una sorta di modello alternativo a quello britannico. In Germania esisteva un efficiente
sistema di comunicazioni interne che facilitavano gli scambi, una rete ferroviaria sviluppata e un’alta
diffusione dell’ istruzione elementare.
Infine la politica della potenza dello Stato prussiano prevedeva un necessario complemento: lo sviluppo
di un’adeguata forza militare. Il problema del rafforzamento dell’esercito venne in primo piano agli
inizi degli anni ’60, quando il nuovo sovrano Guglielmo I, succeduto nel ’61 a Federico Guglielmo IV,
cercò di fare approvare al parlamento un progetto di riforma delle forze armate. Non riuscendo a venire
a capo dell’opposizione parlamentare, Guglielmo I decise di sfidarla apertamente e, nel 1862, nominò
cancelliere il conte Otto von Bismarck, esponente dell’ala più reazionaria degli Junker. Nel momento
in cui salì al potere si impegnò a realizzare il progetto di riforma dell’esercito a prescindere dal
consenso del parlamento e basato sul vincolo di fiducia con l’imperatore, proclamando di voler
risolvere il problema dell’unità nazionale “non con discorsi né con deliberazioni della maggioranza
bensì col sangue e col ferro”.
Il primo ostacolo sulla via dell’unificazione era costituito dall’Austria. Il contrasto si fece acuto nel
1864-65, quando le due potenze, dopo essersi accordate per strappare alla Danimarca i ducati
Schleswig, Holstein e Lauenburg, entrarono in conflitto circa l’amministrazione dei territori
conquistati. Bismarck svolse un abile lavoro di preparazione diplomatica, alleandosi con il
neocostituito Regno d’Italia e assicurandosi la benevola neutralità di Francia e Russia. Cominciata nel
giugno 1866, la guerra durò solo tre settimane. Mentre l’Italia impegnava, con scarsa fortuna, una parte
delle forze imperiali, il rinnovato esercito prussiano, guidato dal generale von Moltke, il 3 luglio nella
grande battaglia campale di Sadowa, infliggeva agli austriaci una durissima sconfitta. Si giunse così
alla firma della Pace di Praga. L’Austria non subì mutilazioni territoriali, salvo quella del Veneto

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ceduto all’Italia. Ma dovette accettare la fine di ogni sua influenza nell’Europa centro-settentrionale.
Gli stati tedeschi situati a nord del fiume Meno entrarono a far parte di una nuova Confederazione della
Germania del Nord presieduta da Guglielmo I, mentre gli Stati del Sud rimanevano formalmente
indipendenti. Il trionfo di Bismarck ebbe immediate ripercussioni anche sulla politica interna prussiana:
la borghesia liberale rinunciò in pratica a guidare il processo di unificazione nazionale e accettò di
collocarsi in una posizione subalterna nei confronti della corona e dell’aristocrazia terriera.
Dopo la sconfitta con la Prussia, nel 1867 l’Impero asburgico fu invece diviso in due stati, l’uno
austriaco l’altro ungherese, uniti fra loro nella persona del sovrano, ma ciascuno con un proprio
parlamento e un proprio governo, salvo che per i ministeri degli Esteri, Guerra e Finanza. Nasceva
l’Impero Austro-Ungarico. Col “compromesso” del ’67, la dinastia asburgica si accordava con il
gruppo nazionale più forte e compatto, ma scontentava soprattutto gli Slavi.

2.1.3. La guerra franco-prussiana e l’unificazione tedesca


La Prussia di Bismarck e di Guglielmo I poteva accingersi a realizzare l’ultima fase del suo ambizioso
programma: l’unificazione di tutti gli stati della defunta Confederazione Germanica. L’ultimo ostacolo
reale era ora rappresentato dalla Francia di Napoleone III. L’occasione per il conflitto fu offerta da
una questione dinastica. Nel 1868 il trono di Spagna era rimasto vacante, il governo provvisorio
spagnolo aveva offerto la corona a Leopoldo di Hohenzollern, parente del re di Prussia. La prospettiva
spaventava ovviamente la Francia, che si sentiva minacciata di accerchiamento. La reazione del
governo francese fu fermissima, al limite dell’ultimatum, tanto da indurre il principe di Hohenzollern,
d’accordo con la corte prussiana, a declinare la proposta. Ma Bismarck all’indomani di un incontro tra
Guglielmo I e l’ambasciatore francese, comunicò alla stampa un telegramma a lui indirizzato dal re: il
testo, opportunamente manipolato, lasciava intendere che il rappresentante di Napoleone III fosse stato
bruscamente congedato. Quel comunicato provocò in Francia un’ondata di furore nazionalistico. Il
governo e lo stesso imperatore francese dichiararono guerra alla Prussia. Come nel ’66, le truppe
prussiane si mossero con grande rapidità e metà dell’esercito francese venne accerchiato a Sedan e
costretto ad arrendersi. Lo stesso imperatore cadde prigioniero dei tedeschi. Il 18 gennaio 1871, nella
reggia di Versailles, Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco, anche perché le vittorie
prussiane in Francia avevano fatto cadere le residue resistenze degli stati tedeschi del sud, rimasti fino a
quel momento formalmente indipendenti. Nasceva il Secondo Reich. La Francia fu costretta a
corrispondere una pesante indennità di guerra e a mantenere truppe d’occupazione tedesche sul proprio
territorio fino al completo pagamento di questa indennità, inoltre dovette cedere al Secondo Reich
l’Alsazia e la Lorena.
La guerra franco-prussiana fu diversa da tutte quelle che l’avevano preceduto dalla Restaurazione in
poi: guerre che si erano concluse con paci di compromesso e non avevano impedito la ripresa di
normali rapporti fra gli ex-belligeranti. La disfatta di Sedan rappresentò per la Francia più che una
semplice sconfitta, si tratto di una vera e propria umiliazione nazionale. Il desiderio di riparare a questa
umiliazione avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese.

2.1.4. La Comune di Parigi 


Nella primavera del 1871, mentre si stava ancora negoziando la pace con la Germania, la Francia

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dovette affrontare una drammatica crisi interna. Dopo la sconfitta di Sedan, era stato il popolo della
capitale ad insorgere, a costituire una guardia nazionale e a decretare la fine del regime napoleonico.
Parigi aveva vissuto la caduta dell’impero come una nuova occasione rivoluzionaria, con una forte
caratterizzazione socialista. I dirigenti della Comune diedero vita nel giro di poche settimane al più
radicale esperimento di democrazia diretta che mai si fosse tentato in Europa. Fu abolita la distinzione
fra potere esecutivo e legislativo; tutti i funzionari furono resi elettivi e continuamente revocabili;
l’esercito fu sostituito da milizie popolari armate. Tutta racchiusa entro i confini di una sola città,
isolata dal resto del paese, la Comune avrebbe avuto qualche speranza di sopravvivere solo se fosse
riuscita a provocare un moto generalizzato che coinvolgesse anche i piccoli centri e le campagne, dove
però prevalevano le tendenze conservatrici. La frattura si delineò con chiarezza dopo le elezioni della
nuova assemblea nazionale, che si tennero nel febbraio 1871; l’Assemblea risultò composta in
stragrande maggioranza da moderati e conservatori. A presiedere il governo fu chiamato Adolphe
Thiers che si affrettò ad aprire trattative con i vincitori per la conclusione della pace. L’esperienza della
Comune durò il tempo necessario a Thiers per raccogliere, con la benevola neutralità degli occupanti
tedeschi, un esercito abbastanza forte per muovere alla conquista della capitale. In maggio le truppe
governative procedettero all’occupazione di Parigi. Alla disperata resistenza dei comunardi fece
riscontro la condotta spietata dei reparti regolari. La repressione governativa proseguì con immutata
durezza anche dopo la caduta delle ultime resistenze. Per la seconda volta in poco più di vent’anni, il
movimento rivoluzionario francese si trovava sconfitto e numericamente decimato.

2.1.5. L’equilibrio bismarckiano


Compiuti i processi di unificazione italiano e tedesco, la carta politica d’Europa assunse un effetto più
definito e stabile. Non per questo però vennero meno i motivi di rivalità ma il teatro delle tensioni si
spostò ai Balcani e all’Asia e all’Africa. Il risultato fu che per quasi mezzo secolo nessuna regione
d’Europa fu mai attraversata da eserciti in guerra. La pace fu assicurata soprattutto dall’indiscussa
egemonia esercitata sugli equilibri del continente dall’Impero tedesco. Se prima del 1870
l’iniziativa bismarckiana aveva rappresentato l’elemento dinamico e perturbatore nel concerto delle
grandi potenze, dopo la vittoria sulla Francia e la proclamazione del Reich, gli obiettivi della politica
tedesca mutarono radicalmente e Bismarck divenne il custode dell’equilibrio europeo. Infatti, sotto il
suo cancellierato la Germania poté contare sulla tradizionale tendenza dell’Inghilterra a non impegnarsi
sul continente europeo e riuscì a costruire alleanze con le altre due potenze maggiori – Austria e Russia
- e la stessa Italia. Fulcro iniziale del sistema bismarckiano fu il “patto dei tre imperatori”, stipulato
nel 1873 fra Germania, Russia e Austria: un patto essenzialmente difensivo che aveva per mira la tutela
degli equilibri conservatori. L’alleanza aveva però un punto debole: la vecchia rivalità fra Austria e
Russia nei Balcani. Nel 1875-76 l’esercito turco intervenne in Bosnia, in Erzegovina e in Bulgaria
schiacciando una serie di rivolte scoppiate tra le popolazioni slave. Nella primavera ’77, la Russia,
grande protettrice dei popoli slavi, entrò in guerra con la Turchia e la sconfisse imponendole una pace
molto onerosa (Trattato di Santo Stefano) che prevedeva la creazione di un grosso stato bulgaro,
l’indipendenza della Serbia e del Montenegro e l’autonomia della Bosnia e dell’Erzegovina.
Questo accordo provocò però la reazione di Austria e Inghilterra. Bismarck prese allora l’iniziativa di
convocare un primo congresso tra le grandi potenze a Berlino nel 1878. Si giunse così ad un

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accordo: Serbia e Montenegro mantennero l’indipendenza, lo stato Bulgaro venne ridimensionato nei
confini, la Bosnia e l’Erzegovina furono dichiarate autonome ma sotto l’amministrazione provvisoria
dell’Austria, la Gran Bretagna ottenne Cipro (strategica per il controllo di Suez) e alla Francia venne
data mano libera per un’eventuale azione in Tunisia. In questo modo Bismarck creava le premesse per
un contrasto tra Francia e Italia. La diplomazia bismarckiana si impegnò nella difficile impresa di
rimettere assieme l’alleanza con Austria e Russia. L’intesa fu raggiunta con la divisione dei Balcani in
zone d’influenza e, nel 1881, fu rinnovato il patto dei tre imperatori. L’anno seguente, nel 1882, il
complesso edificio diplomatico fu completato con la firma della triplice alleanza che univa Germania,
Austri e Italia. La costruzione era in apparenza perfetta visti anche gli ottimi rapporti tra la triplice e
l’Inghilterra, ma fra Italia e Austria c’era la questione irrisolta del Trentino e della Venezia Giulia e
restava sempre la frizione tra Austria e Russia. Nel 1884-85 si tenne il secondo congresso di Berlino,
con cui Bismarck tentò di alleggerire le tensioni prodotte dalla competizione coloniale nelle relazioni
tra le potenze europee. Fu stabilito il criterio della “effettiva occupazione”, in base al quale era
possibile rivendicare il possesso di una colonia solo dopo averne effettivamente occupato il territorio.
Questo scatenò una corsa alla spartizione di ciò che restava dei territori liberi e a farne le spese fu
soprattutto il continente africano che, in dieci anni, fu quasi completamente occupati dagli europei.
Nel 1885-86, una serie di scontri fece di nuovo salire la tensione nel continente europeo. Non potendo
tenere assieme i due imperi, Bismarck intraprese la via degli accordi bilaterali. Mantenne ferma
l’alleanza con l’Austria ma senza informarla stipulò con la Russia il trattato di controassicurazione:
un patto di non aggressione che impegnava la Russia a non aiutare la Francia in caso di attacco alla
Germania e la Germania a non unirsi all’Austria in caso di attacco alla Russia. Di lì a tre anni i
contrasti con Guglielmo II avrebbero determinato la caduta del cancelliere e del suo sistema di alleanze
(1890).

2.1.6. La Germania imperiale 


Dal punto di vista istituzionale il Reich tedesco era un organismo piuttosto complesso. I 25 stati
avevano poteri esclusivamente in campo amministrativo mentre le grandi scelte politiche erano di
competenza del governo centrale, presieduto da un cancelliere responsabile di fronte all’imperatore. Il
potere legislativo era esercitato da una camera eletta a suffragio universale (Reichstag) e da un
consiglio federale dove sedevano i rappresentanti degli stati (Bundesrat). La camera aveva poche
possibilità di condizionare l’operato dell’esecutivo, concentrato nelle mani dell’imperatore e del
cancelliere, il cui potere si fondava su un blocco sociale imperniato sull’alleanza fra il mondo
industriale e bancario e l’aristocrazia terriera e militare. La forma autoritaria ed accentrata del potere
non impedì, tuttavia, il manifestarsi di una vivace dialettica politica. Proprio in Germania si
svilupparono prima che altrove forti movimenti di massa: il Centro (Zentrum) partito di dichiarata
ispirazione cattolica (1871), e il Partito socialdemocratico tedesco (Spd, 1875). Il centro poggiava su
una base sociale piuttosto composita reclutata quasi esclusivamente negli stati cattolici di cui esprimeva
le esigenze autonomistiche. La lotta di Bismarck contro i cattolici, Kulturkampf (battaglia per la
civiltà), toccò il suo apice nel periodo 1872-75, in cui vennero emanate delle misure volte ad affermare
il carattere laico dello stato e a porre sotto sorveglianza l’operato del clero cattolico. La battaglia ebbe
però l’effetto di scatenare l’orgoglio e la compattezza dei cattolici. La chiusura del Kulturkampf fu

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imposta al cancelliere dalla necessità di fronteggiare la nuova e temibile minaccia rappresentata dalla
socialdemocrazia e furono varati provvedimenti espressamente contro di loro come le limitazioni alle
libertà di stampa e di riunione. Bismarck però non si limitò alle misure repressive e fece approvare una
legislazione sociale molto avanzata, inserita nell’ambito di una corrente di riformismo paternalistico e
conservatore. Il cancelliere mirava a integrare le masse lavoratrici nelle stato in una posizione
subalterna. Si ispirava dunque al modello della Francia bonapartista dove la concessione di riforme
sociali non si accompagnava all’allargamento delle libertà politiche. Questa operazione non riuscì però
a bloccare la crescita elettorale dell’Spd che ebbe non poca parte nel determinare l’allontanamento dal
governo del cancelliere Bismarck.

2.1.7. La Terza Repubblica in Francia e l’Inghilterra vittoriana


Alla fine degli anni ‘70 la Francia aveva già recuperato buona parte del suo prestigio internazionale,
disponeva di un forte esercito e riprendeva con decisione la strada delle conquiste coloniali. Se la
ricostruzione economica fu relativamente rapida, assai più travagliato fu il processo di stabilizzazione
politica. La stessa forma repubblicana di governo fu a lungo in forse. Nel 1875 la costituzione della
Terza Repubblica prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato da una camera eletta a suffragio
universale maschile e da un senato composto in parte da membri vitalizi e in parte elettivi. Un elemento
di stabilità era costituito dalla figura del Presidente della Repubblica, capo dell’esecutivo, che veniva
eletto dalle camere riunite e godeva di poteri molto estesi.

Intorno alla metà del secolo, il Regno Unito era, sotto quasi tutti gli aspetti, la più progredita fra le
potenze europee. Aveva la rete ferroviaria più sviluppata in relazione al territorio e una flotta
mercantile pari alla metà di quella di tutti gli altri paesi europei messi assieme. Possedeva un impero
coloniale vasto e in via di ulteriore espansione. Aveva un tasso di analfabetismo fra i più bassi del
mondo. Il ventennio 1848-66, caratterizzato dalla presenza ininterrotta dei liberali al governo, segnò un
ulteriore consolidamento del sistema parlamentare. Alla corona era invece affidato un ruolo
essenzialmente simbolico di personificazione dell’identità nazionale. In Gran Bretagna molti poteri
spettavano ancora alla Camera dei Lords, alla quale si accedeva per diritto ereditario o per nomina
regia. Ma anche la Camera dei Comuni (elettiva) era espressione di uno strato piuttosto ristretto della
popolazione, avevano infatti diritto di voto negli anni ’60 circa il 15% del totale dei maschi adulti. Tra
gli anni ’60 e ’80 la vita politica britannica fu incentrata sul confronto tra i liberali di William
Gladstone e i conservatori di Benjamin Disraeli.

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2.2. LE POTENZE EXTRAEUROPEE: STATI UNITI E GIAPPONE

2.2.1. Gli Stati Uniti dalla guerra civile all’imperialismo


Intorno alla metà del 1800, gli USA offrivano l’immagine di un paese in crescente espansione. Ma a
questa eccezionale vitalità dell’economia e del corpo sociale facevano riscontro profonde fratture
interne. Coesistevano infatti tre diverse società, corrispondenti a diverse zone del paese. C’erano gli
stati del nord-est, la zona più progredita, più ricca e più industrializzata, dove sorgevano i maggiori
centri urbani e dove principalmente si indirizzava l’ondata migratoria. Un ambiente dunque in perenne
trasformazione. Quella del sud era invece una società agricola e profondamente tradizionalista, che
fondava la sua economia e la sua organizzazione sociale sulle grandi piantagioni di cotone e sulla
schiavitù. A queste due società così diverse fra loro se ne contrapponeva una terza: quella dei liberi
coltivatori e allevatori di bestiame che popolavano gli stati dell’ovest; questa restava legata all’etica e
ai valori della frontiera: l’iniziativa individuale, l’indipendenza, l’uguaglianza delle opportunità. Fu
proprio l’ovest a costituire il pomo della discordia e al tempo stesso l’elemento risolutore, nel contrasto
che, a partire dalla metà del secolo oppose il nord industriale e il sud schiavista. Fino alla metà del
secolo, il cotone esercitò un peso decisivo sull’economia dell’intero paese. Quando però, con gli anni
’40 e ’50, lo sviluppo industriale si allargò a nuovi settori, diminuì l’importanza della produzione
cotoniera nel complesso dell’economia americana e si allentò il rapporto di dipendenza reciproca;
contemporaneamente si fecero più strette le relazioni tra il nord-est industriale e l’ovest agricolo. Su
queste premesse si inserì l’acutizzarsi dello scontro sulla schiavitù. Al centro del dibattito stava la
possibilità di introdurla nei nuovi territori acquisiti. L’estensione dell’economia delle piantagioni e
dunque della schiavitù ai nuovi territori era richiesta dai piantatori del sud; ma incontrava forti
resistenze nell’opinione pubblica del nord e dell’ovest. Lo scontro sulla questione della schiavitù fece
sentire i suoi effetti anche in campo politico, sempre più incentrato sul confronto tra due partiti: il
partito democratico, che si ispirava a ideali di democrazia, liberismo economico e di rispetto
dell’autonomia dei singoli stati e raccoglieva il consenso sia dei piccoli e medi agricoltori sia dei grandi
piantatori del sud; il partito repubblicano, sorto nel 1854, vicino alle rivendicazioni degli industriali e
dei colonizzatori dell’ovest, e qualificatosi in senso decisamente. Nelle elezioni del 1860, riuscì a
portare alla presidenza un tipico uomo dell’ovest: Abraham Lincoln, proveniente da una modesta
famiglia di agricoltori del Kentucky.
Nonostante fosse un convinto avversario della schiavitù, Lincoln non era un abolizionista radicale.
Ciononostante, la vittoria repubblicana nelle elezioni del ’60 fu sentita da una parte dell’opinione
pubblica del sud come l’inizio di un processo che avrebbe portato alla vittoria degli interessi degli
industriali, al rafforzamento del potere centrale, alla progressiva emarginazione degli stati schiavisti. Di
qui la decisione, presa da 11 stati del sud, di distaccarsi dall’unione e di costituirsi in una
confederazione indipendente.
La secessione non poteva non suscitare la reazione del potere federale; non vi era dunque alternativa
alla guerra civile, che ebbe inizio nell’aprile del 1861. Lo scontro si decise, alla lunga, grazie alla
superiorità economica e demografica degli stati del Nord. Il 9 aprile 1865, quando ormai l’esercito
unionista occupava buona parte del sud, i confederati si arresero mentre l’Unione sanciva l’abolizione
della schiavitù. Pochi giorni dopo il presidente Lincoln cadeva vittima di un attentato per mano di un

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fanatico sudista.
Negli ultimi decenni dell’800, chiuso il capitolo della ricostruzione postbellica, riprese con rinnovato
slancio la colonizzazione dei territori dell’ovest, ora favorita dallo sviluppo della rete ferroviaria (1869,
completamento della linea transcontinentale dall’Atlantico al Pacifico). Intorno al 1890 la conquista
dell’Ovest aveva sottratto agli indiani nativi americani tutti i territori e poteva considerarsi conclusa.
La popolazione statunitense, che nel 1871 ammontava a 31 milioni di persone, passò a 97 nel 1914. Per
oltre un terzo, questo aumento fu dovuto al flusso di immigrati provenienti dall’Europa. Tale era il
bisogno di manodopera che, nel 1882, il governo federale spalancò le porte all’immigrazione. Gli USA
conobbero in questo periodo una rapida crescita dei grandi centri urbani soprattutto nel nord-est.
Fino agli ultimi anni dell’800, la crescita economica della potenza statunitense non ebbe proiezioni
significative al di fuori delle Americhe. La stessa dottrina Monroe, con la quale nel 1823 gli USA
avevano affermato il loro ruolo di custodi degli equilibri del continente contro ogni ingerenza esterna,
fu intesa soprattutto in senso difensivo, tant’è che non agirono ma attivamente nell’emisfero
meridionale. Sarà tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento che gli Usa si sarebbero proiettati in
modo più deciso fuori dai confini nazionali. L’espansionismo statunitense si esercitò in due direzioni:
verso il Pacifico e verso l’America latina. La prima importante manifestazione della nuova politica di
potenza degli USA si ebbe con l’intervento a Cuba dove, nel 1895, era in atto una violenta rivolta
contro i dominatori spagnoli. Questi attuarono una dura repressione che suscitò notevoli
preoccupazione per le sorti dei cospicui interessi che gli USA avevano nelle piantagioni di canna da
zucchero sull’isola. L’affondamento, nel 1898, di una corazzata americana nel porto dell’Avana, portò
così alla guerra con la Spagna, che fu rapidamente sconfitta. Cuba divenne una repubblica
indipendente, sottoposta tuttavia alla tutela degli americani. La Spagna fu inoltre costretta a cedere
Portorico e l’intero arcipelago delle Filippine. Sempre nel 1898 la presenza americana nel Pacifico fu
rafforzata dall’annessione delle Hawai.

2.2.2. La Cina, il Giappone e la penetrazione occidentale in Asia


Intorno alla metà del secolo XIX, i due paesi più importanti dell’estremo oriente, Cina e Giappone, si
trovarono entrambi a fronteggiare la pressione delle potenze europee che miravano a imporre la loro
presenza commerciale in aree fino ad allora chiuse alla penetrazione occidentale. La Cina era già lo
stato più popoloso del mondo, la sua organizzazione politica si fondava su un forte potere centrale,
incarnato dall’imperatore e rappresentato in tutto il paese da una classe di potenti funzionari, i
Mandarini. L’impero cinese era rimasto chiuso alle relazioni diplomatiche con l’esterno e aveva da
tempo perso quel primato scientifico e tecnologico di cui aveva goduto fino al ‘500. Il risultato fu che,
al primo traumatico scontro con l’occidente, la Cina imperiale entrò in una crisi irreversibile.
Occasione dello scontro fu il contrasto scoppiato alla fine degli anni ’30 fra il governo imperiale e la
Gran Bretagna a proposito del commercio dell’oppio che, prodotto in grandi quantità nelle piantagioni
indiane, veniva trasportato clandestinamente in Cina, dove il suo consumo era largamente diffuso. La
Gran Bretagna fu ritenuta non a torto la principale responsabile e beneficiaria del traffico. Quando, nel
1839, un funzionario imperiale fece sequestrare il carico di tutte le navi straniere nel porto di Canton, il
governo britannico decise di intervenire militarmente. Dopo una guerra di due anni gli inglesi ottennero
dalla Cina la città di Hong Kong e l’apertura al commercio estero di altri quattro porti, tra cui Shangai.

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Una vicenda analoga fu quella dell’Impero del Giappone. La società giapponese era organizzata
secondo uno schema feudale al cui vertice era l’imperatore, venerato come una divinità. Il potere
politico era esercitato però da una specifica dinastia di feudatari, i Tokugawa, che si trasmettevano per
via ereditaria la carica di shogun, cioè la più alta carica militare e il più alto dignitario.
Non esistevano rapporti diplomatici o culturali con l’occidente. Il commercio con l’estero era vietato e
solo il porto di Nagasaki era aperto ai mercanti stranieri. L’isolamento fu rotto dall’iniziativa degli Stati
Uniti che, nel 1854, inviarono una squadra navale nelle acque giapponesi e chiesero formalmente allo
shogun il libero accesso nei porti. L’iniziativa americana trovò il Giappone impreparato e lo shogun fu
costretto a firmare nel 1858 una serie di accordi commerciali che assicuravano alle potenze occidentali
ampie possibilità di penetrazione economica.
La firma dei trattati ineguali del ’58 suscitò in tutto il paese un’ondata di risentimento nazionalistico
che si indirizzò contro lo shogun e, nel 1868, lo rovesciò. La restaurazione del potere dell’imperatore fu
gestita da una élite di intellettuali, funzionari e militari consapevole dell’inferiorità politica e militare
del Giappone, decisa dunque a colmare il dislivello in tempi il più possibile rapidi. Nel giro di pochi
anni il Giappone compì quella transizione dal sistema feudale allo stato moderno che nella maggior
parte dei paesi europei si era compita in tempi lunghissimi. Nel 1871 fu proclamata l’uguaglianza
giuridica di tutti i cittadini, furono aboliti i diritti feudali. Negli anni seguenti fu introdotto l’obbligo
dell’istruzione elementare, fu unificata la moneta e fu organizzato un esercito nazionale basato sulla
coscrizione obbligatoria. Procedeva intanto l’opera di modernizzazione economica: sia nell’agricoltura,
sia, e soprattutto, nell’industria grazie al massiccio investimento di capitali statali e alla rapidissima
importazione di tecnologia straniera.
Quella che si compì in Giappone dopo il 1868 fu una vera e propria rivoluzione dall’alto, realizzata
senza alcuna partecipazione attiva delle classi inferiori e non seguita da uno sviluppo delle istituzioni
liberali e della democrazia politica. Furono le classi dirigenti tradizionali a guidare la trasformazione,
spogliandosi spontaneamente sei loro antichi diritti, senza per questo perdere la loro posizione
privilegiata, trasformandosi insomma da oligarchia feudale in oligarchia finanziaria ed industriale. Il
processo di rapida modernizzazione si accompagnò alla conservazione dei tradizionali valori culturali e
religiosi.

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2.3. LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

Fra XIX e XX secolo, l'industrializzazione si impone come via necessaria e imprescindibile per lo
sviluppo economico degli Stati. L'economia europea e di alcuni paesi extraeuropei conosce una
stagione di forte crescita produttiva su nuove basi energetiche e tecnologiche, in un quadro che vede
completarsi la spartizione coloniale del globo e l'Inghilterra cedere progressivamente il suo primato –
fino ad allora indiscusso – a favore di nuove potenze economiche in Europa (Germania) e fuori
d'Europa (USA, Giappone). Questi paesi, cosiddetti “second comers”, per recuperare il ritardo di
sviluppo e avviare i propri sistemi industriali devono proteggere la produzione interna dalla
concorrenza esterna dei paesi già avanzati – su tutti la Gran Bretagna – e quindi adottano politiche
protezionistiche basate sui dazi doganali. Il passaggio dal liberismo al protezionismo afferma il
ruolo dello Stato e delle banche.
L'industrializzazione, fra gli anni Settanta del XIX secolo e la Prima guerra mondiale, si trasforma
profondamente. S’instaura uno strettissimo rapporto tra scienza, tecnologia e industria; si rivoluziona la
tecnologia produttiva, delle comunicazioni e dei trasporti; cambiano i settori trainanti lo sviluppo; si
utilizzano nuove fonti energetiche; si intensificano i processi di concentrazione e ristrutturazione
industriale; crescono le dimensioni delle aziende; mutano i rapporti tra l'industria e gli istituti bancari e
finanziari.

Lo straordinario numero di scoperte, invenzioni e innovazioni tecniche che avvengono fra XIX e
XX secolo sono l'effetto degli enormi sviluppi della scienza e della tecnologia. Alcuni esempi: è
rinnovato il procedimento per la produzione dell'acciaio; sono costruite: la prima centrale elettrica, la
prima automobile, il primo autobus urbano con motore a scoppio; sono realizzati: il primo film, la
prima radiografia, il primo dirigibile, il primo volo aereo, la prima trasmissione radiofonica; vengono
inventati il telefono, il frigorifero, il motore a scoppio, la lampadina elettrica, la pellicola fotografica, la
penna stilografica, la mitragliatrice automatica, la lavastoviglie, la Coca Cola, i gas asfissianti per la
guerra chimica, la macchina fotografica, i primi coloranti e le prime fibre sintetiche; vengono scoperti
il bacillo della tubercolosi, la radioattività, il neurone, l'elettrone, il ciclo della malaria, i gruppi
sanguigni. La novità di questo periodo sta nell'inedita alleanza che si crea fra scienza, tecnica e
industria. La ricerca scientifica è sempre più orientata verso le sue potenziali applicazioni industriali e
sempre più spesso realizzata nei laboratori delle grandi imprese, che ne applicano sistematicamente i
risultati alla produzione.

Dopo il 1870, benché carbone e ferro rimangano prodotti fondamentali, inizia l'età dell'acciaio, della
chimica, dell'elettricità e del petrolio.
La sostituzione dell'acciaio al ferro è uno dei tratti principali della tecnologia degli ultimi decenni
del XIX secolo. La produzione di acciaio cresce rapidamente (dalle 80.000 tonnellate del 1850, ai 28
milioni del 1900) e l'acciaio viene utilizzato in modo crescente nei più svariati campi al posto del ferro
(rotaie, navi, caldaie, automobili, aerei, cannoni, macchine industriali più leggere, precise, potenti che
favoriscono processi di meccanizzazione, utensili domestici e di lavoro come martelli e chiodi),
rendendo possibile la costruzione di grandi edifici, di grandi ponti, del simbolo forse più famoso di

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quegli anni, la Torre Eiffel, alta 300 metri e pesante 8000 tonnellate, costruita nel 1889 in occasione
dell'Esposizione universale di Parigi.
I progressi della chimica sono una componente fondamentale del nuovo sviluppo industriale. Anche
per la chimica, i campi di applicazione sono i più vari: procedimenti chimici sono, infatti, alla base
della produzione di carta, vetro, saponi, coloranti e fibre artificiali, cemento, esplosivi, gomma,
ceramica, profumi, medicinali, concimi artificiali, reagenti chimici per svariate lavorazioni, metalli
come l'alluminio. All'inizio del XX secolo, l'industria chimica è una presenza centrale nel panorama
industriale, destinata a sviluppi sempre più vasti e complessi, tanto positivi (farmaci capaci di agire sui
processi fisiologici) quanto terribili (i gas tossici utilizzati durante la Prima guerra mondiale, in Etiopia
nel 1936, nei campi di sterminio nazisti e durante il conflitto Iran-Iraq del 1980-1988).
L'elettricità è una forma di distribuzione dell'energia prodotta da altre fonti come il vapore o l'acqua. È
al centro della ricerca scientifica e ha un'eccezionale e veloce influenza sulle altre industrie. Solo dagli
anni Ottanta dell'Ottocento, grazie ai contributi di numerosi scienziati e tecnici, diviene possibile
immagazzinarla, trasmetterla a grandi distanze, distribuirla e utilizzarla per illuminare (la lampadina a
filamento incandescente di Edison è del 1879), per riscaldare, per la locomozione, per costruire nuove
macchine e una gran varietà di cose. Prodotta in quantità nelle grandi centrali (termoelettriche a vapore
e poi idroelettriche) costruite negli ultimi decenni del secolo XIX, l'elettricità avvia profondi processi di
trasformazione nell'industria e nella vita quotidiana. Dagli studi sull'elettricità nascono ad esempio il
telefono, il fonografo, il telegrafo senza fili, la radio, il cinematografo.
L'invenzione del motore a combustione interna, applicato prima alle automobili e poi all'aeroplano,
apre altri nuovi orizzonti. I primi motori a combustione interna funzionavano a gas e potevano essere
applicati solo a macchine fisse, immobilizzate dalla necessaria vicinanza alla fonte di rifornimento.
Solo negli anni Novanta, dopo molte sperimentazioni, questo ostacolo viene superato grazie all'impiego
di combustibili liquidi. Il petrolio e i suoi derivati bruciano bene, producono il doppio del lavoro del
carbone e occupano molto meno spazio, ma hanno costi di produzione assai più elevati. Gli esordi
dell'automobile e, in generale, dei nuovi mezzi di trasporto sono lenti, ma sufficienti a dare impulso
all'estrazione del petrolio (è del 1870 la fondazione della Standard Oil Company a opera di
Rockefeller) che lentamente ma inesorabilmente nel corso del Novecento soppianterà il carbone, il
combustibile della prima industrializzazione.

Seconda rivoluzione industriale significa anche tendenza alla concentrazione aziendale.


Siderurgia, chimica, elettromeccanica sono industrie ad alta intensità di tecnologia e di capitale. Il
settore tessile e quello metallurgico, nella fase di esordio dell'industrializzazione, avevano richiesto
investimenti relativamente modesti; ora, invece, la costruzione di una fabbrica chimica o di
un'acciaieria ha costi e richiede investimenti enormi, sempre più difficilmente affrontabili da parte di
imprese familiari. Si rendono indispensabili, insomma, nuove forme di proprietà delle imprese (la
società per azioni si diffonde negli ultimi decenni dell'Ottocento fino a divenire prevalente) e nuove
forme di raccolta del capitale attraverso un sempre più strutturato mercato finanziario controllato dalle
banche. Istituti bancari e finanziari canalizzano i capitali raccolti dai depositi dei loro clienti verso gli
investimenti produttivi (banche miste); progressivamente, si specializzano nei vari rami di attività e
tendono a concentrarsi (in Inghilterra le 600 banche del 1824 si riducono a 55 nel 1914). Fra industria
e banche si crea uno stretto rapporto di compenetrazione e il ruolo di queste ultime diventa così
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strategico che molti studiosi definiscono il periodo qui considerato come la fase del capitalismo
finanziario, a sottolineare che è il capitale finanziario a orientare e dominare l'economia. Le esigenze di
ridurre i rischi di investimenti onerosi, di limitare l'accresciuta concorrenza e di stabilire un più forte
controllo sul mercato rafforzano anche la tendenza alla concentrazione delle imprese (fusioni sia
orizzontali sia verticali, legami tra impresa e impresa o tra imprese e banche, trusts, cartelli, holdings).
Con la concentrazione crescono le dimensioni delle imprese. Un esempio fra i più noti di grande
concentrazione verticale e orizzontale è dato dalla Krupp: piccola impresa artigianale con 76 operai nel
1847, nel 1887 è un grande complesso che possiede sue proprie miniere di ferro e carbone e occupa 20
000 operai. In alcuni settori produttivi queste grandi strutture industriali controllano il mercato, fissano
i prezzi e le quantità dei prodotti, danno luogo a situazioni di oligopolio se non di monopolio. Nel
1980, negli USA la Standard Oil di Rockefeller controlla il 90% della produzione petrolifera nazionale
e, negli stessi anni, in Germania tre ditte controllano tutto il settore della chimica di base. È il tramonto
del capitalismo della ‘libera concorrenza’ che aveva caratterizzato gran parte del secolo XIX.

Anche l'organizzazione della produzione industriale è investita da importanti innovazioni volte a


facilitare il flusso della produzione (nastri trasportatori, elevatori, montacarichi, sistemi di tubature e
valvole) o ad aumentare la produttività del lavoro (macchinari che assicurano l'uniformità ai pezzi
prodotti che devono poi essere assemblati). Tra i processi di riorganizzazione produttiva, il più
importante riguarda però, nella grande fabbrica, l'utilizzo più razionale e scientifico dei lavoratori, teso
ad abbassare i costi del lavoro e ad accrescerne la produttività. Le novità in questo campo arrivano
dagli USA, dallo studio e dalle prime applicazioni della “organizzazione scientifica” del lavoro.
Secondo il suo più importante teorico, l'ingegnere F. W. Taylor, il metodo migliore, più economico ed
efficiente per ottenere un prodotto, si basa sulla scomposizione delle varie fasi del ciclo produttivo in
operazioni il più possibile elementari, scientificamente misurate e programmate e sull'attribuzione a
ogni operaio di tali semplici, meccaniche e ripetitive operazioni. Il taylorismo s'interseca con le
innovazioni organizzative introdotte nel 1913 da Henry Ford nella sua industria automobilistica di
Detroit. Ford riorganizza l'intero stabilimento attorno alla catena di montaggio, che unisce le diverse
fasi del lavoro di assemblaggio dell'automobile portando i pezzi ai lavoratori, ciascuno dei quali, fermo
al suo posto e sottoposto a un rigoroso controllo, si limita a eseguire una delle semplici operazioni che
costituiscono il processo di produzione. La catena di montaggio riduce drasticamente i tempi e i costi
unitari di produzione: il prezzo del modello T di Ford, “l'auto per tutti” come recita uno slogan
pubblicitario, passa dai 950 dollari del 1908, quando è immessa sul mercato, ai 360 del 1917 e ai 290
del 1927, quando cessa la sua produzione. Le innovazioni tecniche e organizzative tayloriste e fordiste
si affermeranno solo con la Prima guerra mondiale; fino ad allora, caratterizzano soprattutto le
economie emergenti (USA e Germania) rivelando, già prima del conflitto, il delinearsi di una nuova
gerarchia mondiale che vede nuove potenze scalzare il primato inglese. Applicate progressivamente a
tutti i settori della produzione manifatturiera, portano 7 allo sviluppo di un modello produttivo
cosiddetto fordista che trionferà nel trentennio che segue la Seconda guerra mondiale.

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