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CAPITOLO 4 - “La prima guerra mondiale"

All’inizio del XX secolo le relazioni diplomatiche tra Germania e Francia erano tese. La sconfitta nella guerra
franco-prussiana aveva rappresentato per la Francia un danno economico a causa della perdita dell’Alsazia e della
Lorena e aveva favorito la diffusione tra i francesi di un sentimento antitedesco e un desiderio di rivalsa, detto
revanscismo. Alla rivalità tra Francia e Germania si aggiungeva quella tra Impero tedesco e Gran Bretagna. Il Reich
rappresentava una grande potenza industriale e l’imperatore Guglielmo II si focalizzò nel far primeggiare la
Germania tra le potenze mondiali. Con la Weltpolitik (“politica mondiale”) il kaiser ambiva a contendere all’impero
britannico l’egemonia dei mari. Un altro scenario di contesa fra gli Stati era rappresentato dalla penisola balcanica.
L’area rimaneva instabile anche perché si trovava al centro degli interessi dell’Austria-Ungheria e della Russia.
Anche l’Italia fu parte in causa, poiché guardava con interesse ai territori dello Stato albanese. Dopo aver
amministrato la Bosnia-Erzegovina per 30 anni, l’Austria-Ungheria l’aveva annessa. L’area balcanica era
caratterizzata da un forte pluralismo etnico, linguistico e religioso, terreno di scontro ideale per i nazionalismi. A
inasprire la situazione contribuivano questioni collegate alla corsa alle colonie. La rivalità era particolarmente
accesa fra le due maggiori potenze coloniali (Francia e Gran Bretagna) ma gravi attriti si verificarono anche tra il
governo di Londra e quello russo.
il 28 giugno 1914 a Sarajevo, capitale della Bosnia, l’arciduca Francesco Ferdinando, nipote dell’imperatore
d’Austria Francesco Giuseppe e successore al trono, fu assassinato insieme alla moglie da Gavrilo Prinicip, un
diciassettenne membro dell’associazione nazionalista “Giovane Bosnia”. Da tempo la Serbia era sospettata di
appoggiare organizzazioni terroristiche in Bosnia. Il governo austriaco, risoluto nel porre fine al problema, inviò al
governo serbo un ultimatum: i serbi, se avessero accettato le condizioni, avrebbero rinunciato alla propria
indipendenza. L’ultimatum fu respinto e il 28 luglio 1914 l’Autria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia. I serbi
sapevano che, in caso di conflitto, la Russia sarebbe scesa in campo al loro fianco. A partire da quel momento le
alleanze militari trascinarono in guerra un paese dopo l’altro. La Germania dichiarò guerra alla Russia e subito
dopo alla Francia che, in quanto alleato con lo zar, aveva già mobilitato le sue truppe. La Gran Bretagna cercò per
qualche giorno di tenersi fuori dal conflitto, ma quando i tedeschi invasero il Belgio, che aveva dichiarato la
neutralità e a cui i britannici avevano garantito protezione, anche Londra dovette impugnare le armi. Si definirono
2 schieramenti contrapposti: da una parte i paesi dell’Intesa, chiamati anche Alleati (Francia, Gran Bretagna e
Russia), dall’altra gli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria). Al fianco dell’Intesa entrò in guerra anche il
Giappone. Fu così che il conflitto fra Impero austro-ungarico e Serbia provocò lo scoppio di una guerra su scala
mondiale.
La Seconda internazionale (l’organizzazione che riuniva i partiti socialisti e laburisti europei) si sarebbe sciolta a
causa delle divisioni interne fra chi intendeva sostenere le ragioni dei propri paesi e chi, invece, si opponeva alla
guerra.
La Germania aveva adottato un piano per ottenere una rapida sconfitta dei francesi. Il “piano Schlieffen”
prevedeva di cogliere di sorpresa l’esercito francese con una manovra di aggiramento delle linee attraverso il
Belgio. I tedeschi riuscirono ad avanzare, costringendo le truppe francesi a ripiegare. La Francia poté evitare la
resa grazie al sostegno dei britannici, riuscendo ad avere la meglio sul nemico nella battaglia della Marna e nella
battaglia delle Fiandre. Fallito il piano Schlieffen, quella tra Francia e Germania si trasformò da guerra di
movimento (che prevede l’avanzamento di almeno uno degli eserciti) in guerra di posizione (gli eserciti in conflitto
rimangono fermi, protetti da barriere di difesa). Sul fronte orientale i russi si scontravano con gli austro-ungarici e
i tedeschi. Contro i primi ottennero successo nella battaglia di Leopoli. Presto divenne chiaro che la guerra non si
sarebbe risolta in tempi brevi; malgrado ciò e nonostante le gravi perdite subite da entrambe le parti, tutti i
belligeranti erano decisi ad andare avanti, nella convinzione di poter avere la meglio sul nemico. La 1^ guerra
mondiale è considerata la 1^ guerra di massa della storia. La potenza di fuoco delle armi era tale che l’unica
possibilità di sopravvivere per i soldati consisteva nel trincerarsi in posizioni difensive scavate nel terreno; nasceva
così una nuova forma di guerra: la guerra di trincea. Vivere nelle trincee significava combattere anche con
umidità, sporcizia e malattie. La guerra ebbe l’effetto di accelerare lo sviluppo di nuove tecnologie. Le armi
conobbero lo sviluppo più significativo: il carro armato venne inventato dai britannici e impiegato nelle fasi finali
del conflitto; il sommergibile veniva usato per affondare le navi mercantili che rifornivano di materie prime e
viveri i paesi nemici. La guerra fu caratterizzata dall’uso di mezzi di distruzione di massa: la mitragliatrice provocò
enormi perdite, ma la principale causa di morte fu l’artiglieria. L’arma più disumana furono i gas: furono i
tedeschi a usarli per primi e tutti gli altri eserciti si affrettarono a indossare le maschere antigas, accessorio
indispensabile. Parallelamente al fronte militare vero e proprio, in ciascuno degli Stati impegnati nel conflitto
venne a crearsi un “fronte interno”: la guerra doveva essere combattuta e vinta non solo sul campo di battaglia, ma
nel paese stesso, potenziando la produzione industriale e mantenendo alto il morale della popolazione. I normali
ritmi dell’economia furono stravolti a causa dell’intervento degli Stati. Furono creati organi di governo e speciali
ministeri preposti a diversi compiti: controllare i prezzi delle materie prime e i livelli di produzione delle
fabbriche, reclutare nuova forza lavoro. Questo interventismo comportava per gli Stati un enorme sforzo
organizzativo e finanziario: decidendo che cosa le industrie dovevano produrre, lo Stato diventava il loro
principale committente. Per mantenere elevati i ritmi di produzione, era necessario sostituire nelle fabbriche la
manodopera richiamata alle armi; per questa ragione le donne entrarono a lavorare nelle fabbriche. Oltre che in
fabbrica le donne sostituirono gli uomini in altre funzioni: poliziotte, alla guida dei tram e delle ambulanze, come
medici e ingegneri. Dopo alcuni anni dall’inizio del conflitto anche il razionamento dei beni primari e le
requisizioni di prodotti agricoli divennero consuetudine in molti paesi.
L’andamento del conflitto dimostrò come la politica e l’economia fossero diventati globali. I paesi belligeranti
controllavano gran parte del mondo, perciò fin dall'inizio si combatté non soltanto in Europa, ma anche in Africa,
Asia, Medio Oriente. Contribuì all’estensione mondiale del conflitto il fatto che nell’esercito britannico e francese
vennero inquadrate truppe di popolazioni africane e mediorientali: prendendo parte al conflitto queste entrarono
in contatto diretto con nuove idee e conoscenze e sollevarono un dibattito sul loro impiego all’interno dell’esercito.
Fu di natura mondiale anche il legame tra guerra ed economia. La richiesta continua di rifornimenti incentivò il
decollo dell’industria in paesi lontani dal teatro principale delle operazioni belliche, come l’India e la Cina, il
Giappone, il Brasile o l’Argentina. La 1^ guerra mondiale fu anche una guerra totale, espressione per indicare la
volontà della Germania di annientare lo Stato nemico sotto ogni aspetto: militare, economico e sociale. Vennero
infrante alcune norme di comportamento del diritto internazionale in vigore: non venne rispettata la distinzione
tra paesi belligeranti e paesi neutrali (quando la Germania violò la neutralità del Belgio si affibbiò l’immagine di
paese aggressore) e quella tra militari e civili: numerosi furono i casi di sturpo, impiccagione e fucilazione di civili.
L’ITALIA ENTRA IN GUERRA (1915)
Allo scoppio della guerra il governo italiano era guidato da Antonio Salandra il quale, nonostante l’Italia fosse
legata all’Austria-Ungheria e alla Germania dalla Triplice alleanza, aveva mantenuto il paese neutrale. La
situazione si complicò quando alcune forze politiche iniziarono a chiedere che l’Italia intervenisse nel conflitto,
anche se non a sostegno dell’Austria-Ungheria, bensì delle potenze dell’Intesa. Iniziò un acceso dibattito che vide
scontrarsi interventisti, favorevoli alla guerra contro l’eterno nemico austriaco, e neutralisti, convinti
dell'opportunità dell’intervento italiano. Lo schieramento interventista era molto eterogeneo: ne facevano parte i
nazionalisti, desiderosi che l’Italia si affermasse come grande potenza imperialistica, ma che giudicavano gli
interessi austro-ungarici in contrasto con quelli italiani e per questo ritenevano il conflitto inevitabile. Sostennero
l'intervento delle forze politiche democratiche, per le quali una guerra contro l’Austria Ungheria avrebbe
consentito all’Italia di conquistare le terre irredente (Trento e Trieste). Favorevoli all’intervento furono i liberali di
orientamento conservatore. Dopo la 1^ dichiarazione di neutralità, assunse questa posizione Salandra, sostenuto
dai settori della grande industria, che dalla guerra avrebbero tratto grandi profitti. Anche lo schieramento
neutralista si caratterizzava per una notevole eterogeneità. Contrari all’intervento erano i liberali giolittiani, i
quali ritenevano l’Italia impreparata a una guerra e il mondo cattolico. L’atteggiamento più risoluto fu quello dei
socialisti; l’unica eccezione fu quella del direttore del giornale “Avanti!”, Benito Mussolini, da sempre contrario
alla guerra, ma che nell’ottobre del 1914 cambiò radicalmente linea politica in favore della guerra, tanto che perse
l’incarico di direttore e fu cacciato dal partito.
Il governo stipulò un patto segreto con Francia, Russia e Gran Bretagna firmato il 26 aprile 1915 e noto come patto
di Londra: l’accordo prevedeva l’intervento dell’Italia che, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto il Trentino, l’Alto
Adige, Trieste, la Dalmazia, alcuni territori albanesi e la pensiola istriana. Il patto di Londra fu sottoscritto
all'insaputa del Parlamento: gli interventisti, in particolare lo scrittore Gabriele D’Annunzio, riuscirono a
infiammare le folle e a riempire le piazze con manifestazioni a favore della guerra, in quelle che l’autore avrebbe
definito “radiose giornate di maggio”. Quando Salandra presentò le dimissioni per il mancato sostegno
parlamentare al patto di Londra, Vittorio Emanuele III le respinse. Temendo di contraddire la Corona e di aprire
una grave crisi politica, il Parlamento si piegò e il 20 maggio approvò l’entrata in guerra dell’Italia. Le operazioni
militari ebbero inizio il 24 maggio 1915. Il comandante italiano Luigi Cadorna lanciò offensive sul fiume Isonzo,
con l’intento di conquistare Trieste e Vienna, me non ottennero successo, quindi gli austriaci organizzarono la
cosiddetta “spedizione punitiva” contro l’ex alleato traditore. All’inizio del 1916 la situazione militare sembrava
immobilizzata. I tedeschi cercarono di sbloccarla attraverso un nuovo attacco sferrato a Verdun. La battaglia si
rivelò lunghissima, ma non vide il risultato sperato. Il conflitto si era esteso, coinvolgendo altri Stati: nel settembre
del 1915 la Bulgaria si era alleata con gli Imperi centrali, mentre il Portogallo e la Romania si affiancarono alle
forze dell’Intesa. Sin dall’inizio del conflitto Gran Bretagna e Germania si erano misurate militarmente anche con
le loro flotte. Nel corso dei primi anni di guerra i britannici erano riusciti a riaffermare la loro supremazia sui mari,
imponendo alla Germania un blocco navale molto efficace, che impediva agli Imperi centrali di ricevere
approvvigionamento dalle colonie e dai paesi neutrali. Nel maggio 1916 la flotta tedesca attaccò quella inglese: nella
battaglia dello Jutland nessuna delle flotte riuscì a vincere, ma la Germania prese atto dell'impossibilità di rompere
il blocco navale avversario. Al contempo intensificò la guerra sottomarina. Dopo quasi 3 anni dall'inizio del
conflitto, era evidente che nessuno dei 2 schieramenti era preparato al nuovo tipo di guerra, combattuto
principalmente sulla difensiva. Le condizioni in cui i soldati erano costretti a vivere e morire provocarono
ribellioni e ammutinamenti in molti eserciti. La paura che queste ribellioni dessero il via a una rivoluzione spinse
i comandi a soffocarle nel terrore, ordinando fucilazioni fra i soldati. Nell’esercito italiano, il generale Cadorna,
ritenendo i soldati colpevoli di “codardia” di fronte al nemico austriaco, mise in atto la pratica della “decimazione”,
ovvero l’esecuzione di un soldato estratto ogni 10. In paesi come la Russia, la Germania e l’Austria-Ungheria, che
dall’inizio della guerra non potevano più commerciare col resto del mondo per via del loro isolamento geografico
o del blocco navale imposto dagli Alleati, iniziarono a scarseggiare le risorse. In tutta Europa si verificarono
scioperi e manifestazioni operaie, ovunque repressi duramente. In Italia la rivolta più violenta scoppiò a Torino:
poiché tutti i panifici della città erano rimasti senza pane, gli operai proclamarono uno sciopero generale e
saccheggiarono negozi e caserme. Il 6 aprile 1917 gli Stati Uniti, la più grande potenza industriale del mondo,
entrarono in Germania. Il presidente Woodrow Wilson decise l’intervento a causa dei continui attacchi alle navi
mercantili americane che commerciavano con la Gran Bretagna da parte dei sommergibili tedeschi. La loro
economia traeva enormi vantaggi dalle forniture di armi e altri beni ai paesi dell’Intesa, quindi non potevano
rischiare che questi traffici venissero interrotti. Alle forze dell’Intesa si unirono anche la Grecia e il Brasile.
L’evento più significativo del 1917 fu l’uscita della Russia dalla guerra a causa di 2 rivoluzioni: la 1^ a febbraio
determinò la caduta dell’impero zarista, la 2^, in ottobre, portò al potere i bolscevichi di Lenin, il quale giunse a
una rapida pace. I tedeschi approfittarono della nuova situazione per sferrare un’offensiva sul fronte italiano: il 24
ottobre 1917, la battaglia di Caporetto, fu un disastro per gli italiani.

Caporetto rappresentò per l’Italia una disfatta sia militare sia politica. Sul piano militare una sconfitta così
clamorosa fu resa possibile da più fattori. Gli austro-ungarici trassero vantaggio dalla chiusura del fronte russo e
dal sostegno dei tedeschi, che avevano inviato le loro migliori divisioni. I tedeschi impiegarono una nuova
strategia di attacco, che prevedeva la penetrazione in profondità nel territorio nemico. Il generale Cadorna non
era preparato e non fu in grado di organizzare una resistenza efficace. Cadorna gettò la responsabilità della
disfatta sull’esercito italiano, reo di essersi arreso senza combattere. Secondo lui, a causare la sconfitta non fu il
nemico ma l’esercito italiano. In verità nessun reparto si arrese o tradì; l’esercito era più debole e, a causa
dell’impreparazione dei suoi comandanti, non fu in grado di resistere di fronte all’attacco nemico. Da quel
momento l’obiettivo era liberare il territorio occupato dallo straniero. Intorno alla guerra il mondo politico si
trovò a essere unito e l’esercito italiano ebbe il sostegno di tutte le forze politiche.
Gli austro-ungarici concentrarono le loro forze sul fronte italiano per un attacco decisivo. La speranza era che
l’esercito nemico, dopo Caporetto, non avrebbe resistito e che l’Italia avrebbe chiesto un armistizio. Gli italiani
erano guidati da un nuovo generale, Armando Diaz, più moderno e umano di Cadorna e potevano contare su pezzi
di artiglieria superiori a quelli nemici. L’attacco austriaco sul fiume Piave venne stroncato. Gli italiani passarono al
contrattacco: l’offensiva passò alla storia come battaglia di Vittorio Veneto. La resistenza austriaca fu breve: gli
italiani presero Trento, Trieste e continuarono l’avanzata. In questa situazione il 4 novembre 1918 il comando
austriaco firmò l’armistizio. In Germania anche la popolazione era ridotta alla fame e diede vita a una rivolta:
l’imperatore Guglielmo II dovette fuggire in Olanda e il nuovo governo, dopo aver proclamato la costituzione di
una repubblica, firmò l’armistizio l’11 novembre 1918. Il 1^ trattato di pace fu stipulato tra gli Imperi centrali e la
Russia a Brest-Litovsk, quando il conflitto era ancora in corso. Per i russi si trattò di una pace onerosa, che li vide
perdere ampi territori, tra cui l’Ucraina (ambita per i suoi raccolti di grano e le risorse minerarie). Alle perdite
territoriali si aggiunse l’obbligo di pagare alla Germania e all’Austria-Ungheria un’indennità di 6 miliardi di
marchi. Una volta terminata la guerra i vincitori dovettero organizzare la fisionomia geopolitica di una nuova
Europa. La 1^ conseguenza della guerra fu lo smantellamento di 4 grandi imperi: quello russo, già crollato;
l’Impero austro-ungarico scomparve definitivamente; la Germania dovette rinunciare a molti territori e fu
trasformata in repubblica; l’Impero ottomano si dissolse dopo una storia di convivenza multietnica. Il problema di
come intervenire nel continente europeo per evitare nuovi conflitti era stato affrontato dal presidente americano
Wilson, che aveva esposto il suo punto di vista in un documento articolato in 14 punti e basato su 2 principi:
l’affermazione della libertà di commercio tra le nazioni (dunque l’eliminazione dei dazi e delle barriere doganali) e
del diritto di autodeterminazione dei popoli, che implicava la libertà di ogni nazionalità di scegliere come
governarsi. L’ultimo dei 14 punti indicava la costruzione di un’organizzazione internazionale, la Società delle
Nazioni: avrebbe dovuto riunire tutti i paesi del mondo e rendere possibile diminuire le controversie tra gli Stati.
La Società delle Nazioni trovò effettiva realizzazione, ma non riuscì ad assolvere il compito per cui era stata creata.
I rappresentanti degli Stati vincitori si riunirono a Parigi per negoziare il nuovo assetto dell’Europa. Oltre a Wilson
parteciparono i presidenti francese e inglese, mentre l'Italia ebbe un ruolo secondario. Wilson avrebbe voluto una
pace senza vincitori, ma le altre potenze riuscirono a imporre una pace punitiva, nella volontà di far pagare alla
Germania e ai suoi alleati il costo della guerra. La Germania firmò il trattato di Versailles il 28 giugno 1919. Oltre
alla restituzione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia e alla smilitarizzazione della Renania, furono costretti a
concedere alla Polonia un corridoio territoriale. Le colonie africane vennero affidate alla Francia e alla Gran
Bretagna come mandati (tutela di uno Stato su un altro territorio allo scopo di “accompagnarlo” all'indipendenza).
Ai tedeschi venne proibito di possedere una flotta da guerra e un’aviazione, ma si concesse di mantenere un
esercito ridotto. La Germania fu obbligata a pagare un’enorme somma come riparazione per i danni provocati e a
riconoscere di essere stata responsabile dello scoppio del conflitto. La questione dell’Impero austro-ungarico fu
risolta col trattato di Saint-Germain, sottoscritta il 10 settembre 1919 con l’Austria, con quello di Neuilly con la
Bulgaria, e con quello del Trianon con l’Ungheria. Oltre alla costituzione di 2 Stati indipendenti, l’Austria e
l’Ungheria, videro la luce la Cecoslovacchia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (che cambiò denominazione in
Regno di Jugoslavia), al cui interno convivevano popolazioni di nazionalità diverse. Il Trentino, l’Alto Adige e
Trieste vennero assegnati all’Italia. L’Ungheria perse la Transilvania, che passò alla Romania. La “questione
orientale” si sbloccò il 10 agosto 1920 con il trattato di Sèvres, con cui venne stabilito lo smembramento
dell’Impero ottomano. Il Medio Oriente finì sotto il controllo di Francia e Gran Bretagna. Un nuovo trattato firmato
a Losanna sancì il riconoscimento della Repubblica di Turchia, a cui venne confermata la sovranità sulla penisola
anatolica. L’accordo fissò anche uno scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia. Con la fine della guerra migliaia
di soldati vennero smobilitati e tornarono a casa, ma sorse il problema di reinserirsi nella vita civile. Si dovette
affrontare anche una dura crisi economica: la produzione industriale negli anni del conflitto raggiunse livelli
elevatissimi, ma era stata anche indirizzata dalle commesse belliche degli Stati. Quando la domanda di armi cessò
non fu facile per le industrie convertire in tempi rapidi la produzione in altri beni necessari alla popolazione.
Questo determinò un aumento del tasso di disoccupazione. Durante la guerra gli Stati avevano provveduto a
calmierare i prezzi dei generi di 1^ necessità: con la pace questi vennero abbandonati, producendo un aumento
dell’inflazione. L'aumento dei costi si riverberò su 2 categorie: i contadini e i ceti medi. La fine del conflitto
coincise con un terribile evento, che mietè numerose vittime: nell’inverno tra 1918 e 1919 scoppiò un’epidemia
influenzale particolarmente violenta, chiamata “spagnola”. La guerra determinò, tuttavia, anche cambiamenti
positivi, fra questi l’emancipazione femminile. Durante il conflitto le donne avevano svolto una serie di funzioni
indispensabili affinché l’economia e la società non si fermassero. Oltre a ricoprire ruoli considerati ad appannaggio
maschile svolsero mansioni più delicate, come l’assistenza ai feriti. Furono costituite associazioni volontarie di
soccorso, formate principalmente da donne aristocratiche o dell’alta borghesia, che operavano insieme alla Croce
Rossa. Accanto alle infermiere comparvero anche i primi medici di sesso femminile; alcune donne furono usate in
attività di spionaggio. L’impegno femminile consentì alle donne di uscire dalle mura domestiche e operare
all’interno di una cerchia sociale più vasta. Quasi tutti, però, ritenevano che una volta terminato il conflitto la
situazione sarebbe dovuta ritornare come prima e le donne avrebbero dovuto continuare a svolgere “ruoli
femminili”. Anche il movimento per il suffragio femminile ne uscì rafforzato: in alcuni paesi una delle prime
riforme del dopoguerra fu la concessione del voto alle donne.
Lo scambio di popolazioni fra turchi e greci sdoganò l’idea dei 14 punti di Wilson, ossia che gli Stati dovessero
essere etnicamente o religiosamente omogenei. Per renderli tali si ricorse anche alla deportazioni in massa di
intere popolazioni: una prassi che venne inaugurata allo scoppio della guerra dall’impero zarista e da quello
ottomano. La deportazione rivolta contro la popolazione cristiana degli armeni per motivi politici o etnici assunse
le proporzioni di un genocidio. La persecuzione della popolazione armena risaliva a prima della guerra e all’ascesa
dei Giovani Turchi. Il movimento era nato con l’idea di rifondare l’Impero ottomano su nuove basi, in modo che le
diverse nazionalità potessero convivere pacificamente. Sin dal momento della presa a potere la loro azione di
governo fu ispirata a un marcato nazionalismo: il turco fu dichiarato lingua ufficiale dell’impero e le richieste delle
minoranze nazionali vennero represse. Al momento dello scoppio della guerra l’Impero ottomano era guidato dagli
estremisti dei Giovani Turchi. Il governo risolse la “questione armena” in primo luogo uccidendo i soldati arruolati
nell’esercito e gli intellettuali armeni, successivamente con la “Legge temporanea di deportazione” fu stabilito che
la comunità armena della Turchia venisse deportata, ma si tradusse in uno sterminio. Quanto avvenne si configurò
come un genocidio, che portò all’annientamento dell’intera comunità. Ancora oggi il governo turco rifiuta di
riconoscere questa definizione.

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