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MONTALE

VITA
- NASCITA: Genova, 1896, da una famiglia borghese: il padre era comproprietario di una ditta di prodotti
chimici presso cui era impiegato Italo Svevo, genero di Veneziani
- EDUCAZIONE: studiò ragioneria e canto lirico, proseguendo privatamente gli studi classici.
- IL CANTO LIRICO: il debutto di Montale fu impedito, dallo scoppiare della I guerra mondiale, dalla
morte del suo maestro e dalla sua timidezza. Montale avrà sempre la percezione di aver vissuto solo al 5%
delle sue possibilità
- IN GUERRA: fu sottotenente, nelle retrovie; di fatto non visse mai in prima persona momenti drammatici,
e ciò differenzia la sua esperienza da quella di Ungaretti
- A MONTEROSSO: visse il suo primo amore, quello per Arletta (Anna Degli Uberti)
- MONTALE E IL FASCISMO: prese subito le distanze da esso sottoscrivendo nel 1925 il Manifesto degli
intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Il suo antifascismo ha una dimensione non tanto politica quanto
culturale: si nutre di un disagio esistenziale e di un sentimento di malessere nei confronti della civiltà
moderna, tanto che questo pessimismo sopravvive anche dopo l'avvento della democrazia - è evidente ne La
bufera e altro, nel suo non riconoscersi nei due partiti di massa (DC e PCI) e nella società dei consumi - .
- PRIMA RACCOLTA: Ossi di seppia, pubblicata con l’editore antifascista Gobetti, fondatore della rivista
“Il Baretti” (sulla quale Montale pubblica un saggio intitolato Stile e tradizione), sarebbe stato ucciso l’anno
dopo a bastonate.
Trasferitosi a Firenze, dove collaborò con la rivista Solaria, diresse il Gabinetto letterario Vieusseux (incarico
dal quale sarà dispensato per essersi rifiutato di iscriversi al partito fascista).
Qui conobbe Irma Brandeis, studiosa americana di origine ebraica (che Montale canterà come Clizia), il
suo grande e tormentato amore cui sarà costretto a dire addio con la promulgazione delle leggi razziali e la
conseguente partenza di lei.
Parallelamente, Montale frequentò Drusilla Tanzi, sposerà: sarà la sua amata “Mosca”.
In una delle numerose lettere inviate a Irma (mai dimenticata), Montale le rivelò di aver impedito per ben
due volte il suicidio di Drusilla; questa temeva che Eugenio l’avrebbe abbandonata per raggiungere Irma, e
con il suo gesto riuscì nello scopo di dissuaderlo da tale effettivo proposito.
Successivamente, presso Einaudi pubblicò la seconda raccolta, Le occasioni; nello stesso periodo le esigenze
economiche spinsero Montale ad intraprendere l’attività di traduttore e a collaborare al progetto
dell’antologia “Americana” promosso da Elio Vittorini per Bompiani.
Durante la II guerra mondiale ospitò Saba e C. Levi, perseguitati per motivi razziali, e si iscrisse al Partito
d’Azione (esperienza abbandonata dopo un anno), ispirato all’omonimo partito fondato da Giuseppe Mazzini
(con obiettivi come il suffragio universale, la libertà di stampa e di pensiero).
Successivamente si trasferì a Milano, dove fu redattore presso il Corriere della sera, su cui pubblicò articoli
che confluiranno nel volume di prose Farfalle di Dinard: nella storia che dà il titolo alla raccolta, Montale
racconta che ogni giorno, mentre se ne stava seduto in un caffè di Dinard, una piccola città francese, venne a
trovarlo una farfallina color zafferano (forse epifania di Clizia, che nella cittadina bretone aveva soggiornato
per un certo periodo della sua vita).
Allo stesso periodo risale la terza raccolta, La bufera e altro, in cui confluirono poesie già pubblicate come
volume a sé con il titolo “Finisterre”.
Un’altra importantissima raccolta, intitolata Satura, fu pubblicata pochi anni prima che Montale ricevesse il
premio Nobel per la letteratura e pronunciasse, in quest’occasione, il celebre discorso È ancora possibile la
poesia?.
Anche Satura contiene poesie già pubblicate come volume a sé con il titolo “Xenia” (da intendersi come
dono alla moglie Drusilla).
Montale morì a Milano nell’81.
Il fondo dolente che caratterizza la sua poesia non deriva tanto dall’esperienza della guerra quanto piuttosto
da un dramma esistenziale: “mi pareva di vivere sotto a una campana di vetro”, “avevo sentito fin dalla
nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava”.
È un senso di profonda estraneità alla vita e al mondo.

RACCOLTE
Ossi di seppia
Il titolo, che chiama in causa i residui calcarei dei molluschi che il mare deposita a riva, fa riferimento a una
condizione vitale impoverita; centrale è in questa raccolta la tematica dell’aridità: il paesaggio ligure che fa
da sfondo a molte poesie è inaridito dallo stesso sole che non è simbolo di vita (come per D’Annunzio) bensì
una forza che prosciuga.
La pienezza vitale, cui l’uomo vorrebbe attingere, gli è evidentemente preclusa da un “muro”, impossibile da
valicare, oltre il quale si cela il senso stesso della vita.

L’uomo, incapace di soddisfare questi suoi bisogni, è come prigioniero di un tempo che eternamente ritorna
su se stesso, nel ripetersi monotono di gesti e azioni (Montale parla di “minuti uguali e fissi”, di ossimorico
“immoto andare”).
Cerca un varco che gli consenta di evadere da questa prigione, ma non si apre, almeno non per lui (nella
poesia che chiude la raccolta, Riviere, Montale si rivolge alla sua anima “non più scissa” (col proposito di
cambiare l’elegia in inno, ossia la poesia arida che nasce dall’inaridimento esistenziale nel canto che celebri
la ritrovata armonia col mondo), ma lui stesso parlerà di “guarigione prematura”).
La sua anima è frantumata, scissa (tema della crisi d’identità), in disarmonia col mondo esterno: l’adesione
panica alla vita, che garantisce l’organicità del soggetto, è possibile solo durante l’infanzia, mentre si perde
col passaggio (ricco di rimpianti) all’età adulta.
Neanche nel ricordo l’uomo può trovare consolazione alcuna, perché nonostante lo sforzo di recuperare il
passato, questo inevitabilmente si deforma, e quasi più non ci appartiene.
L’aridità esteriore diviene presto inaridimento interiore, incapacità di provare sentimenti intensi, ma è
proprio in quest’indifferenza che ci si può salvare dal male di vivere che affligge tutti gli esseri (animati e
inanimati – es. la foglia riarsa – ).
Questo atteggiamento di stoico distacco, nato dalla lucida consapevolezza del male che affligge il cosmo,
non può non far pensare al pessimismo cosmico di Leopardi e al suo atteggiamento di eroica accettazione
della sofferenza universale.
D’altro canto, il pessimismo montaliano ricorda quello di Schopenhauer, ravvisabile nell’idea che le realtà
sensibili altro non siano che parvenze ingannevoli.
- POETICA
Montale, a differenza di Ungaretti, non crede nel fatto che la poesia, possa consentire di attingere al mistero
dell’esistenza; la poesia è incapace di comunicare messaggi positivi, certezze, perché di certezze non ve ne
sono.
In “Non chiederci la parola”, ad esempio, è evidente come per il poeta la conoscenza sia possibile solo in
negativo (sappiamo solo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo).
La stessa parola poetica, dinanzi all’aridità esistenziale e cosmica, si riduce a qualche “sillaba storta”: negli
Ossi prevalgono suoni aspri, antimusicali, parole impoetiche (spesso sapientemente accostate a termini aulici
- come insegnava Gozzano, esponente del Crepuscolarismo, tendenza poetica che, in toni dimessi, incerti
cantava l'amore per le piccole cose e gli ambienti provinciali, considerati i più vicini alla loro incapacità di
grandi ideali e alla loro sazietà di grandi parole).
La metrica di Montale è più tradizionale di quella di Ungaretti (prevale l’endecasillabo, i versi sono spesso
raggruppati in quartine e sono frequenti le rime, anche se spesso nella forma di rime ipermetre qualora non
sostituite da un gioco di assonanze).
La poesia di Montale, a differenza di quella di Ungaretti, non mira, poi, a fissare misteriose corrispondenze
tra realtà lontane, anzi: quella degli Ossi è una poetica degli oggetti, chiamati a dare concretezza a concetti
astratti è, questa, la poetica del correlativo oggettivo: es.:
- cavallo stramazzato, foglia riarsa, rivo strozzato: correlativo oggettivo del male di vivere;
- limoni: correlativo oggettivo di pace, la pace delle piccole cose, di cui si accontentano quelli che, come
Montale, non hanno ambizioni paniche o superomistiche come D’Annunzio, pur spesso tirato in ballo
dall’autore (che si propone, però, di attraversarlo, di lasciarselo alle spalle, in primis distanziandosi dalla
sua poesia magniloquente); in ciò Montale risente della poetica pascoliana.
Se l’analogia simbolista giocava sul piano dell’irrazionale, la poetica del correlativo oggettivo - che Montale
dal poeta anglo-americano Eliot - tende ad avere un rapporto razionale con il mondo.

Le occasioni
Il titolo sembra alludere a poesie collegate a occasioni precise vissute dall’autore, ma in realtà i riferimenti
autobiografici non sono mai esplicitati.
In questa poesia, in cui l’occasione di un riscatto dallo squallore del presente si concretizza in personaggi
femminili, si registra un innalzamento stilistico che la rende più oscura (seppur non a livelli “ermetici”): lo
stesso tacere, da parte dell’autore, il significato degli oggetti che qui, ancor più che negli Ossi, sono al centro
del discorso poetico (in osservanza al suo proposito di eliminare ogni dualismo tra lirica e commento, di far
cioè sparire ogni intervento dell’autore sì che a parlare resti solo l’oggetto) contribuisce a far sì che questa
poesia sia di non immediata lettura.
Dovette su questo giocare un ruolo fondamentale la vicinanza di Montale alla rivista Solaria e agli
intellettuali che intorno ad essa gravitavano, i quali ritenevano la poesia il solo baluardo dei più alti valori
della civiltà contro l’avanzare della barbarie.
Ne derivava una concezione elitaria della cultura e degli intellettuali.
Questa religione della cultura si proietta nella figura della donna-angelo, una nuova Beatrice dotata di
un’intelligenza capace di indicare una via di salvezza dall’inferno quotidiano.

Malgrado la presenza di altre figure femminili (in primis Arletta, la fanciulla morta attorno a cui si
addensano i ricordi di un passato felice ma ormai irrecuperabile), a farsi portatrice di questa speranza di
salvezza è soprattutto Irma Brandeis, cantata con il senhal Clizia.
Nella mitologia greca Clizia è la donna che, innamorata di Apollo, dio del sole e della cultura, e da questi
ripudiata, si trasforma in un girasole/eliotropo, che si rivolge sempre verso la luce del sole.

Finisterre→La bufera e altro


Per questa raccolta gli autori parlano di “terzo Montale”: muta la sua poesia perché muta il contesto che le
fa da sfondo: non più la cultura letteraria fiorentina, col suo culto umanistico, ma uno scenario post bellico
dominato dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista, che il liberalismo del poeta respingeva.
Il titolo “La bufera” è metaforico (la bufera, come rivela lo stesso Montale in una lettera, è la guerra), ma
anche il titolo assegnato alla prima sezione della raccolta Finisterre, che rimanda a Finistere, località nella
penisola iberica, protesa l’ignoto (le “colonne d’Ercole”, non plus ultra, località ultima che diviene metafora
di una civiltà occidentale giunta alla sua conclusione).
A ciò si aggiungono alcune esperienze private, come la morte della madre e l’addio a Irma.
Ritorna la figura della donna-angelo, che adesso si carica di valori cristiani, nella speranza di una salvezza
per tutti, ma questa speranza si rivela presto fallimentare, al punto che la donna è costretta a fuggire in un
oltrecielo irraggiungibile.
Avviene così che sia rivalutata la pura esistenza biologica, l’eros di Volpe, poetessa amica di Montale e per
lui emblema della sensualità (che è un’anti-Beatrice), ma anche il pragmatismo di Mosca, anch’ella
antitetica rispetto a “Beatrice”, nella sua sapienza di vita quotidiana.

Xenia→Satura
La prima sezione di questa raccolta, Xenia, già pubblicata come raccolta a sé stante, ha un titolo che rimanda
all’usanza, tutta greca, di offrire doni agli ospiti accompagnandoli con brevi biglietti; essa, infatti, si
configurava come omaggio del poeta alla moglie morta.
Di tono ben diverso le poesie di Satura (il cui titolo allude al genere latino in cui si mescolavano svariati
argomenti, come svariate pietanze, a base sia di carne che di pesce, nella Satura lanx), in cui esplode il
pessimismo storico di Montale: suo bersaglio prioritario è la società di massa, che omologa modi di pensare
e comportamenti.
Il suo pessimismo non gli consente di vedere alternative nel futuro né consolazioni nel passato, depositario di
nobili valori ormai irrecuperabili.
Per questo egli assume un distacco ironico: dinanzi al trionfo della spazzatura non resta che rassegnarsi.
È proprio Mosca a insegnare al poeta quell’ironica ars vivendi che è l’unica in grado di consentire di
resistere al degrado che impazza.
Adattarsi alla spazzatura implica la fine della poesia, il rassegnarsi a registrarne l’estinzione.
L’unico modo per far parlare la poesia è trasformarla in non-poesia, adottando uno stile comico.

Diario del ’71 e del ’72 + Quaderno di quattro anni


Nelle raccolte conclusive la poesia viene ridotta ad una specie di cronaca del quotidiano; la versificazione
assume le cadenze di una discorsività frantumata, con frasi brevi, come di un taccuino o di un quaderno dove
trovino posto osservazioni e spunti estemporanei.
Dinanzi ad un’omologazione mortificante, la cifra della poesia diventa quella dell’antitesi, dell’ossimoro,
dell’unione dei contrari, come demistificazione e denuncia di una realtà sempre più indistinta e
indifferenziata.

BRANI
I limoni - OSSI DI SEPPIA
La poesia, che dà inizio alla raccolta, ha come temi chiave:
- Il rifiuto della poesia aulica e dei modelli accademici
- L’impossibilità di attingere a un significato ulteriore rispetto alla pura apparenza delle cose
- La gialla solarità dei limoni come simbolo di speranza e rinascita
Il componimento parte con un “ascoltami”, dunque, con un tono confidenziale utilizzato da parte del poeta,
con il quale si rivolge al lettore.
Il significato programmatico del testo consiste nel rifiuto di una versificazione aulica e sublime, quale quella
dei “poeti laureati”, fatta di nobili presenze e termini selezionati.
Ad essa, alla maniera di Pascoli, Montale contrappone una realtà comune, costituita da un paesaggio povero
e scarno.
Il poeta si serve della parola per indicare con precisione cose e oggetti dalla fisionomia specifica.

Al culmine si pone l’immagine simbolica dei limoni, emblema di una realtà cruda, aspra, nuda, ma viva,
colorata.
Il soggetto vive in un momento privilegiato dell’esistenza, in cui sembra potersi verificare un’epifania: nel
silenzio della natura, le cose sembrano abbandonarsi come fossero sul punto di rivelare il segreto che
racchiudono.
Ma è un’illusione, anche se momentaneamente confortante (in questo, Montale richiama Leopardi).
La rivelazione tanto attesa non si compie, ma questa rimane comunque una delle poche poesie di Montale in
cui si possa scorgere una prospettiva di speranza, che consiste nell’estrema riduzione dell’oggetto del
desiderio in un elemento povero e comune, su cui concentrare tutte le certezze limitate da un’effimera gioia,
senza altre attese di rinnovamenti.

Non chiederci la parola - OSSI DI SEPPIA


La poesia presenta come temi chiave:
- L’impossibilità di ricevere risposte dalla poesia
- L’estraneità verso l’uomo sicuro e appagato
- La definizione di un linguaggio scabro
Nella prima strofa il poeta si rivolge al lettore abituato ad ascoltare formule sicure e valori assoluti e lo invita
a non domandargli parole che diano certezze, come aveva potuto fare il poeta tradizionale, e versi che
svelino la complessità del suo animo.
Nella seconda strofa constata che ci sono uomini fiduciosi nella vita, che non si soffermano a riflettere, non
si curano dei dubbi e delle incertezze esistenziali, di quanto di oscuro c’è dentro di loro (rappresentato
dall’ombra proiettata su un muro scalcinato): costoro non sono consapevoli della precarietà del vivere (di cui
l’ombra nella sua inconsistenza è metafora) e ostentano una sicurezza che è solo indizio di superficialità.
Nella terza strofa il poeta ribadisce di non possedere formule magiche capaci di infondere fiducia al lettore,
svelandogli i misteri della vita e dell’universo.
Può solo esprimere il sussurro di una forma poetica scarna ed essenziale (qualche storta sillaba e secca come
un ramo): oggi possiamo sapere solo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
La conclusione esprime la crisi degli ideali e delle certezze.
Suoni aspri e ritmi nuovi, la lirica presenta i moduli espressivi tipici di Montale.
La sintassi è semplice e i periodi coincidono con le strofe.
Il lessico presenta suoni aspri allitteranti, per esprimere il tema della negatività e definire l’adozione di un
linguaggio scabro.

Spesso il male di vivere ho incontrato - OSSI DI SEPPIA


L’argomento principale che fa capolino dai versi è il dolore, il male di vivere che non risparmia neppure la
natura: sia gli elementi inanimati che quelli vivi (come le piante e gli animali) sperimentano il male e la
sofferenza.
Si nota subito un parallelismo esistente tra le due strofe che aprono la lirica: il poeta utilizza sapientemente
alcuni oggetti simbolici per spiegare l’affermazione iniziale: “Spesso il male di vivere ho incontrato“.
Nella prima strofa, il termine principale è “male“; intorno a questo ruotano le immagini: il ruscello che non
riesce a scorrere, la foglia inaridita che si accartoccia su se stessa, il cavallo sfinito che stramazza a terra.
Nella seconda strofa il poeta mette in risalto i simboli del “bene”: la statua che si erge silenziosa, la nuvola
sospesa nel cielo, il falco in volo in uno spazio indefinito e lontano.
Al “bene” il poeta affianca un altro stato d’animo che contraddistingue l’esistenza umana: l’indifferenza.
Montale parla di indifferenza attribuendole la maiuscola perché secondo il suo punto vista rappresenta
l’unico rimedio al male di vivere.
Il restare indifferenti dinanzi alle difficoltà e al male della vita permette di non soffrire, adottando il giusto
grado di distacco verso gli accadimenti.
Il male di vivere che Montale descrive in questa lirica è lo stesso di cui parla Leopardi con il suo
“pessimismo cosmico“, ma qui il linguaggio è ridotto all’essenziale e piuttosto scarno.
Poiché “il vivere stesso è il male” non esistono soluzioni per combatterlo, tranne che adottare la
“miracolosa” indifferenza di cui abbiamo detto prima.
Questa poesia esprime perfettamente il correlativo oggettivo montaliano, cioè quel rapporto che la parola
intesse con gli oggetti che nomina.
Stabilito ciò, è facile capire come la sofferenza di vivere sia rappresentata in maniera emblematica dal
ruscello che fluisce faticosamente, dalle foglie che si accartocciano perché riarse dal sole, dal cavallo che,
esausto, stramazza.
Tutte queste vivide immagini vengono riproposte come aspetti della realtà e di un quotidiano segnato dalla
sofferenza degli uomini.

Il fatto che siano parole in cui le lettere s e r si ripetono costantemente non fa altro che accentuare ancor di
più l’asprezza.
L’atmosfera, caratterizzata da immobilità ed estraneità, è percepibile anche attraverso il meriggio, momento
sospeso tra torpore e stupore e caro a Montale e presente in altre due opere, come ad esempio Meriggiare
pallido e assorto.

Cigola la carrucola nel pozzo - OSSI DI SEPPIA


Cigola la carrucola del pozzo affida l’illusione di potersi sottrarre al “male di vivere” al ricordo che emerge
come un secchio che risale pieno d’acqua da un pozzo, alla possibilità vana di riportare dal passato un volto
caro. A Montale sembra, infatti, che sulla superficie dell’acqua contenuta nel secchio si delineino i contorni
di un volto a lui caro, appartenente al passato. Avvicinando il volto alla superficie dell’acqua però,
l’immagine s’increspa e scompare, venendo risucchiata immediatamente da un passato che si deforma
velocemente, e viene percepito come molto diverso dal ricordo felice che se ne aveva poco prima. Il ricordo
appartiene ad un altro sé del poeta, alla parte che aveva amato quella figura (presumibilmente femminile) e
che ora fa parte di un passato che non può essere più recuperato, come si deduce anche dalla spezzatura dei
versi 7 ed 8 che esprimono la distanza tra il poeta e il suo passato e l’impossibilità di riviverlo. L’onomatopea
“cigola” del v. 1, con il suo suono stridente, rappresenta in maniera efficace la fatica della risalita del secchio
dalla profondità del pozzo il quale, tramite la tecnica del correlativo oggettivo, sta ad evocare la memoria. Il
recupero del ricordo, momento felice che si identifica con la forma perfetta del cerchio nel v. 4, è tuttavia
effimero – come riscontriamo nel v. 5 (evanescenti labbri) – fino a dissolversi del tutto nei versi conclusivi
con la ricaduta del secchio nel pozzo e, quindi, dell’immagine che scompare nel passato.

Non recidere, forbice, quel volto - LE OCCASIONI


Non recidere, forbice, quel volto fa parte di quelle poesie che trattano il tema del ricordo, anzi
dell’impossibilità angosciante di conservare il ricordo del volto della donna amata, che, in questo caso, è
Irma Brandeis.

Il viso della donna sembra protendersi ancora in ascolto verso le parole del poeta, ma la nebbia dell’oblio è
destinata ad avvolgerlo, anche se è “grande”, perché domina nella mente del poeta. A fare da correlativi
oggettivi a questa dolorosa esperienza della perdita della memoria sono tre immagini: la forbice, che è
pregata di non tagliare via il volto della donna (anche se è molto evidente che la preghiera del poeta non
potrà essere esaudita, in quanto la forbice rappresenta l’azione inesorabile del tempo, destinato a eliminare il
ricordo dell’amata), il freddo che giunge improvvisamente e il guscio della cicala che viene fatto cadere
dall’albero colpito da un colpo di accetta. La nebbia è una tipica immagine per indicare i ricordi che
svaniscono.

Al di là dell’esperienza individuale del poeta, la forbice che elimina impietosa il ricordo rappresenta la
precarietà della condizione umana e la tristezza degli uomini che non riescono ad accedere ai propri ricordi
per sfuggire all’insensatezza della loro condizione presente. “Belletta” è un termine arcaico, già impiegato da
Dante e D’Annunzio e indica l’avvento dell’autunno, che rappresenta una cornice ideale per la dolorosa
perdita della memoria.

Da un punto di vista stilistico, nell’analisi del testo di Non recidere, forbice, quel volto si evidenzia notevole
anche la fitta trama fonica, di richiami tra i suoni, che collega tra loro parole chiave come recidere e forbice,
acacia e cicala che costituiscono due paronomasie o la rima “sfolla-scrolla” che contribuisce a collegare
strettamente fra loro le due strofe.

La storia - SATURA
Nella lirica Montale imposta la sua definizione di storia negando innanzitutto ciò che essa non è; utilizza
quindi in modo insistente la litote e l'anafora non per incapacità di dare una propria definizione del concetto,
ma per sottolineare l'aspetto negativo di questa realtà e demolire tutte le teorie che alla storia avevano dato
grande peso.
Per Montale la storia non è fatta di cause ed effetti, non c'è una sequenza temporale ricostruibile, non punisce
i malvagi per premiare i buoni, non ha un andamento graduale, non rispetta le regole che l'uomo le impone e
men che meno può insegnare qualcosa (non è magistra vitae).
Il poeta demolisce quindi tutte le certezze che gli uomini hanno riposto nel concetto di storia: - che abbia una
sua giustizia intrinseca - che sia fatta dai grandi eroi o dai filosofi - che sia una forma di miglioramento
continuo - che abbia una teologia (cioè una finalità propria, una meta).
Ma la storia ha anche qualche aspetto positivo; lascia che qualche essere umano le sfugga.

La fortuna cioè è quella di non entrare a far parte della storia, di riuscire a nascondersi abbastanza bene da
non essere mai nominati nei libri, nei documenti, sui monumenti, nelle canzoni patriottiche...anche se questo
anonimato non è facile da mantenere perché la storia, come una rete a strascico, raschia il fondo per catturare
nelle sue maglie tutti gli esseri umani e quei pochi che si salvano non sanno che fortuna hanno e vengono
disprezzati anche da coloro che, dall'interno della rete, li considerano "nessuno" che non lasceranno traccia di
sè nel mondo.
Soprattutto quest'ultimo concetto è prepotentemente attuale: in una società dove apparire, essere famosi, far
parlare di sè (anche a sproposito) è un valore aggiunto, Montale sembra portabandiera dell'anonimato,
dell'uomo qualunque (che oggi ha assunto una connotazione tanto peggiorativa) che nessuno conosce perché
entrare a far parte della storia non è un merito né un valore aggiunto, proprio perché la storia non ha nessun
significato per l'uomo ("la storia non è intrinseca / perché è fuori" e ancora "La storia non è magistra / di
niente che ci riguardi").
Non c'è però nessuna forma di compiacimento in questa demolizione sistematica: il poeta stesso ci avverte
che quello che lui sta dicendo non può cambiare l'essere stesso della storia ("Accorgersene non serve / a farla
più vera e più giusta").
In questo modo toglie anche l'ultima possibilità di consolazione, quella di aver demolito, a fin di bene, un
baluardo metafisico tanto caro agli uomini.

La casa dei doganieri - LE OCCASIONI


In questa poesia il paesaggio estivo della Liguria dell'infanzia e dell'adolescenza del poeta ha acquisito una
tinta oscura, tenebrosa e minacciosa.
Lo stesso paesaggio delle prime poesie appare cambiato, privo di luce, se non di quella "rara" di una
petroliera.
Si introduce una componente emblematica della poesia di Montale, il Tu a cui il poeta si rivolge. Questo Tu
si riferisce a una donna realmente esistita, ma finisce per allontanarsi dalla sua identità anagrafica per
diventare un'istanza grammaticale assoluta, attraverso cui l'Io del poeta si confronta e si specchia.
Gli oggetti e le ambientazioni diventano emblemi della memoria e della mancanza di memoria. Montale
canta l'oblio, l'impossibilità di trovare salvezza nel ricordo.
L'immagine più angosciosa e memorabile è quella della banderuola affumicata che gira senza pietà,
l'impazzito segnavento sembra annunciare l'arrivo di qualcosa di terribile e angoscioso.

Il pirla - DIARIO
La parola "pirla" gli è stata detta dalla moglie in punto di morte e, poiché lui la chiamava "mosca" in senso
dolcemente ironico allora lei ha trovato una parola che sdrammatizzasse l'atteggiamento del grande poeta di
fronte alla sua morte.
La moglie conosceva la scarsa adattabilità del marito alle faccende quotidiane, e gli diede del pirla
“affettuosamente” in punto di morte come chi sa bene che il poveraccio se la sarebbe cavata molto male
senza una guida negli affari di tutti i giorni.
I pirla sono sbadati, combinano delle gaffe, dicono cose a sproposito nei momenti sbagliati e credono che
anche gli altri agiscono in buona fede. Insomma, si riconoscono abbastanza facilmente.
Per forza, altrimenti che pirla sarebbero?
E se qualcuno glielo facesse notare non ci crederebbero.
E semmai un giorno se ne rendessero conto proverebbero a togliersi questo marchio con ogni mezzo, ma la
loro fatica sarebbe inutile dal momento che si tratta di un marchio indelebile, che resiste persino alle
sfregature della pietra pomice, che in genere sfrega via tutto.
Vi sono due tipologie di pirla: quelli che non sanno di essere pirla e i pirla che sanno di essere pirla.
Il pirla della seconda specie (come Montale) sa sempre di essere un pirla, ma magari non sa come fare per
non esserlo più.
Montale sarà stato anche un pirla, ma era anche e soprattutto un poeta, e, come diceva Baudelaire, il poeta è
come l’albatros, che quando vola in alto nei cieli appare maestoso, ma quando scende a terra è ridicolo nel
suo camminare, perché impedito dalle sue "ali di gigante", sicché si fa schernire anche da una massa di
imbecilli ed ubriachi.

La primavera hitleriana - LA BUFERA ED ALTRO


Prima strofa
Intorno ai lampioni dalla luce smorta volteggia fitto e disordinato uno sciame di farfalle notturne. Presso gli
argini dell’Arno, le scarpe dei passanti scricchiolano quando le calpestano, come se camminassero su dello
zucchero. Malgrado l’estate imminente, le giornate sono ancora fredde.

Punti chiave

• Il lettore è accolto da un incipit sinistro, realistico e simbolico, in cui la natura sembra anticipare il
gelo della morte imminente.
• Bianche farfalle notturne prima sciamano di giorno, come impazzite, poi, attirate dalla potente luce dei
fari sul Lungarno, si confondono e si schiantano al suolo. Così a terra si forma uno strato di farfalle
morte, in un clima invernale che stride con l’estate alle porte. La scena simboleggia la catastrofe della
guerra imminente e l’irrazionalità del momento storico, come si evince nella strofa successiva.
Qualcuno avanza una metafora atmosferica con la caduta di fiocchi di neve o bellica con il sacrificio di
vite umane.

Seconda strofa
È appena passato nel centro di Firenze un inviato dell’inferno (Hitler) salutato dai soldati e dalla popolazione
in festa. Il Teatro Comunale è addobbato con i simboli nazisti. Chiusi i negozi di alimentari e non, con
particolare attenzione per il macellaio di solito intento a preparare il capretto pasquale.

Punti chiave

• Il fatto è storico: la visita di Hitler a Firenze nel maggio del 1938, con l’invito al Teatro Comunale in
pompa magna per assistere in compagnia di Mussolini ad uno spettacolo con le musiche di “Simon
Boccanegra” di Verdi.
• I negozi vengono chiusi perché è un giorno di festa. Nessuno si oppone con un’acquiescenza che
Montale stigmatizza così: “sagra di miti carnefici”. Con un ossimoro potente, negativo come il campo
semantico riguardante i due dittatori, chiamati “mostri”. Aggiungo che il lifting del centro storico di
Firenze, con annessi e connessi, per la visita di Hitler costò circa 20 milioni di lire nel 1938 (!)
• Secondo Montale in questo frangente nessuno è senza colpa, vuoi per buona fede, per fede politica o
per ignoranza: tutti hanno la loro parte di responsabilità.

Terza strofa
Allora non sono serviti a nulla i momenti positivi trascorsi con Clizia, che hanno preceduto il suo rientro
negli Stati Uniti? Forse ci sarà riscatto e liberazione.

Punti chiave

• Montale si riferisce a quando ha assistito insieme ad Irma Brandeis ai fuochi d’artificio il giorno di san
Giovanni, patrono di Firenze: quando si sono scambiati pegni e promesse prima dell’addio e quando la
luce dei fuochi sembrava promettere un futuro positivo.
• E Clizia, chiamata con il senhal di eliotropo (girasole) sulla scia del IV libro delle Metamorfosi
ovidiane, non si girerà più a vedere il sole? La donna-angelo salvifica, continua nella strofa seguente,
non porterà la salvezza per tutti? Insieme agli angeli che presentano al Signore i meriti umani?

Quarta strofa
Questa primavera, insultata da un freddo anomalo e dalla morìa in pieno giorno di farfalle notturne, è
comunque positiva grazie a Clizia, il cui destino, in quanto girasole, è quello di guardare in alto per la
salvezza dell’umanità. Forse i suoni che festeggiano l’incontro fiorentino tra Hitler e Mussolini si
confondono con altri suoni che scendono dal Cielo, nell’attesa di una nuova alba senza farfalle e senza il
gelo.

Punti chiave

• Clizia può svolgere una funzione salvifica per l’intera umanità, in quanto simbolo di poesia e civiltà.
Non a caso, i puntini di sospensione in chiusura marcano un possibile riscatto futuro, presentato in
termini collettivi.
• La morte riguarda anche il nazifascismo che tra poco condurrà alla catastrofe.
• Ogni riferimento religioso ha un’incidenza etica, non teologica.

Caro, piccolo insetto - SATURA


La moglie del poeta, Drusilla Tanzi, era morta il 20 ottobre del 1963, dopo una dolorosa malattia, compagna
della sua vita, l’indimenticabile Mosca.



E nel 1964 Montale comincia a scrivere le poesie in ricordo di lei e incomincia un dialogo con lei assente.
Sono componimenti in genere brevi e brevissimi, che trovano la loro occasione in eventi apparentemente
comuni, o minimi, o in fulminei ricordi, o in una battuta di dialogo.
Il poeta avverte presso di sé la presenza silenziosa della moglie.
È una sera ed egli è immerso nella lettura di un testo biblico. L'atmosfera è di solitudine: il poeta è solo nella
stanza e legge quasi al buio.
Torna il tema delle pupille offuscate e degli occhiali con il luccichio.
Come la “mosca” pur entrata nel mondo dei defunti, riappare al poeta, così la poesia per la quale sembrano
non esserci più spazi nella moderna società dei consumi, torna a vivere nonostante tutto.
Egli sente che una barriera invisibile lo separa dalla moglie e dal colloquio con essa. Ella non può vederlo
perché è senza occhiali e il poeta non può vederla perché non c'è il luccichio delle lenti che gli permetta,
come quando era in vita, di riconoscerla nella penombra della sera.
Rimane quindi solo nella foschia, nel buio dell’esistenza, sperduto senza la guida della moglie, che
chiamavano «mosca» e il poeta ancora si chiede perché.

Ho sceso, dandoti il braccio - SATURA


Il poeta si rivolge alla moglie e ricorda che insieme hanno sceso, nel viaggio della vita, milioni di scale e le
confessa che ora che lei non c’è più la sensazione di vuoto e lo sgomento lo pervade nel continuare la propria
vita senza di lei.
Ora la vita del poeta continua e le incombenze pratiche, le prenotazioni, le coincidenze, le insidie e gli
smacchi, perdono importanza perché legate ad una realtà che si esaurisce nel mondo visibile.
Scendere le scale dandosi il braccio significa imparare per il poeta a cogliere la vera arte di vedere trasmessa
dalla moglie che tra loro due era quella che, nonostante la vista miope, non si arrestava alla superficie della
realtà visibile ma guardava in profondità sotto di essa.
È una poesia d’amore in cui il poeta vive una condizione di infelicità in quanto è venuta a mancare la moglie
alla quale il poeta vuole rendere un omaggio postumo rivolgendosi direttamente ad ella con delicata
affettuosità, in una conversazione funebre.
Nelle raccolte precedenti di Montale la figura della moglie era stata quasi completamente assente dalla sua
poesia; le muse ispiratrici erano state altre donne della sua vita.
La poesia è strutturata in due strofe:
Nella prima strofa Montale inizia la poesia ricordando il percorrere insieme alla moglie le scale, metafora
della vita vissuta insieme, in cui la direzione discendente è significativa del carattere anti-eroico del viaggio
intrapreso.
La prima strofa si chiude quindi sulla tematica della vuota inconsistenza di quel reale fatto di consuetudini
(“le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni”).
Nella seconda strofa il poeta ribadisce, in maniera simmetrica con il primo verso della poesia, il concetto
della lunga durata della vita vissuta insieme, in reciproco sostegno, rivelando nei versi conclusivi (10-12),
con effetto di sorpresa, la superiore capacità della moglie di penetrare la realtà rispetto al poeta, di vedere
oltre le apparenze e quindi di essere lei, nella coppia, a rappresentare la vera guida nel loro lungo viaggio.
Emerge la tematica dello sguardo della donna amata che risale allo stilnovismo ed a Petrarca (sguardo della
donna-angelo) e che Montale più volte ha già affrontato nelle sue liriche precedenti, appartenenti a raccolte
come le Occasioni e la Bufera ed altro.
Lo sguardo di Mosca, pur offuscato dalla miopia, guida il poeta alla scoperta di una realtà che va al di là del
visibile che porta, a percepire ed accettare la nullità dell’esistenza.
Questa capacità di vedere oltre, questa chiaroveggenza che Montale attribuisce alle donne differisce in
Mosca rispetto a quella riscontrata in Clizia, altra donna amata da Montale e cantata nelle precedenti liriche.
Per Mosca si tratta di una saggezza più modesta e umile, dettata dall’istinto, quasi innata rispetto a quella
intellettuale, cerebrale e spirituale di Clizia.

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