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Pirandello

LA VITA
- NASCITA: 1867, Agrigento, da famiglia borghese agiata
- STUDI: lettere a Roma, ma a seguito di un contrasto con un professore proseguì gli studi in Germania,
dove si laureò
- MOGLIE: la ricca cugina Maria Antonietta Portulano, da cui avrà 3 figli
- A ROMA: divenne docente di Linguistica e Stilistica in un istituto superiore, anche se manchevole di una
vocazione per l’insegnamento e dell’amore per la materia insegnata.

Il dissesto economico della famiglia Pirandello a seguito di uno sfortunato investimento del padre di Luigi
(Il fu Mattia Pascal sarà specchio di questo periodo complesso), minò il già fragile equilibrio psichico di
Maria Antonietta, sempre più spesso soggetta a crisi isteriche, a causa delle quali o lei rientrava dai genitori
in Sicilia, o Pirandello era costretto a lasciare la casa.
La malattia prese la forma di una gelosia delirante, che la portava a scagliarsi contro tutte le donne che
parlassero col marito; perfino la figlia Rosalia susciterà la sua gelosia, e a causa del comportamento della
madre tenterà il suicidio per poi andarsene di casa.
Si capisce dunque bene che la convivenza con la donna fu per Pirandello un tormento, germe della sua
concezione della famiglia come trappola soffocante.
Il dissesto economico costrinse Luigi anche a integrare lo stipendio di professore con ripetizioni private (di
italiano e tedesco), nonché avviando una collaborazione con il Corriere della sera, e prestandosi a lavorare
per l’industria cinematografica.
Pirandello divenne però soprattutto scrittore teatrale, pur non abbandonando mai la narrativa; erano gli anni
della guerra, destinati a segnare la sua vita: suo figlio Stefano fu fatto prigioniero dagli Austriaci e ciò
aggravò la malattia mentale di sua moglie, che egli fece ricoverare in una casa di cura in cui restò fino alla
morte.
In seguito Pirandello, avendo riscontrato i suoi drammi successo in tutto il mondo, si dedicò interamente al
teatro, prima seguendo varie compagnie per cui lavorò nelle loro tournees in Europa e in America, poi
dirigendo il Teatro d’Arte a Roma, dove visse un amore platonico con una giovane attrice, Marta; la
direzione gli era stata affidata dal Partito fascista, cui Pirandello si era iscritto per ottenere appoggi da parte
del regime.
La sua adesione al fascismo però, ebbe vita breve, pur non sfociando mai in una vera rottura.
Da un lato il suo conservatorismo lo spingeva a vedere nel fascismo una garanzia di ordine, dall’altro il suo
spirito antiborghese lo induceva a vedervi l’affermazione di un’energia vitale.
Il regime era un esempio di quella falsità dei meccanismi sociali tanto criticata da Pirandello.
Due anni dopo aver ricevuto il premio Nobel per la Letteratura si ammalò di polmonite e morì, mentre
assisteva alle riprese di un film tratto dal suo romanzo Il fu Mattia Pascal.

POETICA
Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica, per cui la realtà è
movimento vitale e tutto ciò che si stacca da essa per assumere una forma propria inizia a morire.
Ciò vale soprattutto per gli uomini, che tendono a cristallizzarsi in identità che loro stessi si danno ma che in
realtà non sono che illusioni.
Inoltre, anche gli altri, vedendoci ciascuno secondo la propria prospettiva, ci danno delle forme, sicché noi
crediamo di essere “uno” per noi e per gli altri, mentre siamo “centomila”.
Ciascuna di queste forme è una maschera, sotto la quale non c’è un volto definito, non c’è “nessuno”, solo
un fluire in perenne trasformazione.
Pirandello fu influenzato dalle teorie dello psicologo francese Binet sull’alternarsi della personalità ed era
convinto che nell’uomo esistessero più persone.
Caratteristico della visione pirandelliana è così un relativismo conoscitivo: ognuno ha la sua verità, sicché
gli uomini non possono intendersi mai fino in fondo.
Tutto ciò riflette la crisi sia di una realtà oggettiva interpretabile con gli schemi della ragione (crisi del
positivismo), sia di un io definito: è il periodo dell’affermarsi di tendenze spersonalizzanti (delle macchine
che meccanicizzano l’esistenza umana, delle metropoli che rendono difficili i legami interpersonali), in cui
entra in crisi l’idea dell’individuo creatore del proprio destino.
La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io suscita smarrimento nei personaggi, che si “vedono
vivere”, si sentono sdoppiati; la stessa società gli appare come enorme trappola che isola l’uomo e lo porta
alla morte (anche se apparentemente continua a vivere).
La frantumazione dell’io pone Pirandello al di là del Decadentismo (cui pure è vicino sia per la crisi
gnoseologica che per il suo vitalismo irrazionalistico), che identificava io e mondo.
L’istituto in cui più si manifesta la trappola della forma è la famiglia, seguita dal lavoro.

La società borghese che egli esamina è manifestazione di una condizione di annichilimento universale.
Alla base dell’opera pirandelliana si scorge, poi, un rifiuto della vita sociale e dei ruoli che essa impone, e
di contro un disperato bisogno di autenticità.
L’unica via di salvezza è la fuga nell’irrazionale, nell’immaginazione o nella follia.
Il rifiuto della socialità dà vita alla figura del “forestiere della vita”, colui che ha capito “il giuoco”, ha cioè
preso coscienza del carattere fittizio del meccanismo sociale e si isola, rifiutandosi di indossare la maschera e
osservando invece chi lo fa con un atteggiamento umoristico di irrisione e pietà; è la “filosofia del lontano”,
che consiste nel contemplare la realtà come da un’infinita distanza, per vedere da una prospettiva straniata
ciò che sembrerebbe normale.
Tale è pure l’atteggiamento di Pirandello intellettuale, che rifiuta il ruolo politico attivo perseguito dagli
intellettuali a lui contemporanei e si riserva un ruolo contemplativo.
L’umorismo, che dà il titolo all’omonimo saggio, è alla base della concezione pirandelliana dell’arte: esso
consiste nel cogliere di una persona e/o di un fatto sia il ridicolo che il fondo dolente, e viceversa, ciò in
considerazione del fatto che in una realtà multiforme comico e tragico vanno sempre insieme.
Nel saggio Pirandello fa l’esempio di una vecchia signora tinta e imbellettata: il comico nasce
dall’ “avvertimento del contrario”, ossia dall’avvertire che ella è tutto il contrario di ciò che una vecchia
signora dovrebbe essere.
Subentra poi il “sentimento del contrario”, che suggerisce che quella signora si imbelletta sperando di poter
trattenere l’amore del marito più giovane; a quel punto non si può solo ridere.

POESIE
La consapevolezza della fine dell’antropocentrismo e della pluralità dell’io è al centro delle poesie di
Pirandello, il quale, agli albori della sua carriera, fu infatti anche poeta, un poeta che lasciava già intravedere
chiare tracce della sua particolare visione del mondo.
Basti pensare al titolo della sua prima raccolta poetica, Mal giocondo, ossimoro che anticipa le incoerenze
che saranno parte integrante delle successive opere teatrali e dei romanzi e in cui l’umorismo, l’aspetto più
significativo della poetica pirandelliana, inizia a gettare le proprie basi.
Ad essere un mal giocondo è per Pirandello, per esempio, il sentimento amoroso.
Nella poesia vengono presentate in forma allegorica le lusinghe d’amore attraverso la rappresentazione di
una selva che avvinghia l’eroe: il rinvio è chiaro ai luoghi bucolici, come quelli dell’Orlando Furioso o della
Gerusalemme liberata.
Tutte le raccolte poetiche dell’autore sarebbero state pubblicate in un volume unico nel 1960.

NOVELLE
Scritte per tutta la sua vita e nate per la pubblicazione su quotidiani (poi organizzate in raccolte), furono
sistemate in un unico volume in 15 libri, Novelle per un anno, così intitolato perché il suo intento era quello
di scrivere 365 novelle, una per ogni giorno dell'anno (ne scrisse solo 256).
A differenza della raccolta di Boccaccio, in quella pirandelliana non si riesce a individuare un ordine
determinato: la molteplicità di situazioni, casi e personaggi riflette la caoticità del mondo.
All’interno della raccolta è possibile distinguere comunque le novelle collocate in una Sicilia contadina e
arcaica da quelle focalizzate su ambienti borghesi.
Se le prime possono ricordare il clima verista, in esse in realtà non si riscontra l’indagine sui meccanismi
della lotta per la vita, anzi: le figure di quel mondo sono deformate fino al parossismo.
Emblematica in tal senso la novella Ciàula scopre la luna, il cui protagonista, un lavoratore di miniera,
potrebbe ricordare Rosso Malpelo, ma che è in realtà molto diverso, nel suo essere un minorato mentale
dedito a una vita di puri istinti; inoltre, Pirandello non adotta il procedimento dell’eclisse/regressione ma
narra dall’alto, giudica.
Lo stesso vale anche per le novelle ambientate a Roma, che presentano piccoli borghesi intrappolati in
famiglie oppressive, senza che gli sia data un’effettiva possibilità di salvezza.
Emblematica in tal senso la novella Il treno ha fischiato, il cui protagonista è Belluca, un contabile
sottoposto a pressioni sia nell'ambito familiare sia in quello lavorativo.
Al lavoro, infatti, i colleghi cercano di provocare sue reazioni violente, poiché sempre controllato.
In famiglia, deve mantenere la moglie, la suocera e la sorella della suocera - tutte e tre cieche - più le due
figlie vedove e sette nipoti.
Belluca per mantenere la famiglia e poter soddisfare le esigenze delle donne è costretto a intraprendere un
secondo lavoro, il copista di documenti, nelle ore notturne.
Una sera, dopo aver sentito il fischio di un treno si ribella alle angherie del capoufficio producendosi in un
imprecisato vaniloquio.
Con queste reazioni, fuori dagli schemi della società e dal suo modo di essere, i suoi colleghi lo ritengono
pazzo e lo fanno rinchiudere direttamente nell'ospizio.

Solo un vicino di casa si rende effettivamente conto delle motivazioni che l'hanno spinto a tale gesto ed è
l'unico a capire che il protagonista non è diventato pazzo, bensì il suo comportamento è stato una semplice
reazione alla situazione diventata ormai insostenibile.
Le novelle nel complesso rispondono al criterio dell’inverosimiglianza, per cui al rapporto di causa ed
effetto postulato dal Naturalismo si sostituisce la casualità più bizzarra.

I ROMANZI
L’esclusa
È la storia – ambientata in Sicilia – di Marta Ajala (il cui nome, inizialmente, dava il titolo al romanzo),
accusata ingiustamente di adulterio e per questo cacciata di casa dal marito per poi esservi riammessa dopo
essersi effettivamente resa colpevole.
Il romanzo sembrerebbe avere contatti col Naturalismo:
- nell’impianto (la narrazione in terza persona)
- nella materia (lo scontro tra la gretta mentalità provinciale e l’intelligenza dell’emancipata Marta)
Ma a ben vedere se ne distacca: al rapporto di causa-effetto si sostituisce il caso, per cui Marta viene
condannata per una colpa non commessa e riaccolta dopo essersene davvero macchiata.

Il turno
È la storia (narrata in terza persona) di una ragazza, indotta dal padre a sposare un vecchio ricco e prossimo
alla morte; il vero fidanzato della giovane, Pepè, riuscirà solo dopo la morte del vecchio (arrivata più tardi
del previsto in quanto la vicinanza alla ragazza aveva riacceso le sue energie) a sposarla.

Il fu Mattia Pascal (18 capitoli)


È la storia paradossale di Mattia, un piccolo borghese ligure che, vittima di una famiglia insopportabile e di
una misera condizione sociale, diviene improvvisamente libero grazie a una vincita a Montecarlo e
all’apprendere, intanto, di essere ufficialmente morto in quanto moglie e suocera lo hanno riconosciuto nel
cadavere di un uomo morto suicida nel suo paese.
A questo punto, però, Mattia commette un errore: si crea una nuova identità, ancor più limitante: cambia
aspetto, modo di vestire e nome, diventando Adriano Meis, ben presto però iniziando a soffrire ad essere
escluso dalla vita degli altri; la nuova identità, che è come la precedente una costruzione fittizia, si rivela
addirittura peggiore della prima perché non presenta i vantaggi connessi all’identità normale (degli affetti,
una casa, la possibilità di lavorare).
Così Adriano decide di trasferirsi a Roma, prendendo in affitto una stanza presso una famiglia piccolo
borghese: qui si innamora della giovane Adriana, figlia del padrone di casa, Anselmo, teorico della
“lanterininosofia”, teoria secondo cui l'essere umano ha la sfortuna di avere coscienza della propria vita.
Gli uomini hanno la possibilità di conoscere soltanto poco della realtà, però, poiché sono dotati di un
lanternino che genera poca luce: il mondo così come appare è soltanto un’illusione, generata dalla luce del
lanternino che tende a tramutare la natura di ciò che ci circonda.
Ogni epoca, inoltre, proietta determinate virtù/ideologie: ad esempio, il lanternino di luce rossa è quello che
ha generato la virtù pagana, ossia una pienezza di vita, in accordo con la mentalità pagana secondo cui
l’uomo vive una vita sola, mentre il lanternino di luce viola è quello che ha generato la virtù cristiana, ossia
una mortificazione della vita, in accordo con la mentalità cristiana secondo cui la vera vita non è quella del
mondo sensibile ma quella che l’uomo vive nell’aldilà.
Nell’epoca della modernità, però, secondo Mattia, il lume ha finito il suo olio sacro, sono cadute tutte le
certezze metafisiche tradizionali che aiutavano l’uomo a sopportare il peso dell’esistenza, come indica
l'espressione “strappo nel cielo di carta”: il cielo rappresenta la metafisica, ed è un cielo di carta, ovvero di
un materiale fragile; l’uomo, quindi, non riesce a trovare dei punti di riferimento, prova un grande senso di
disorientamento.
Mattia non può stabilire un vero legame con Adriana, perché egli non esiste, così come non può denunciare il
cognato della ragazza che lo ha derubato, né accettare la sfida a duello lanciatagli da un rivale; giacché la
nuova identità non gli lascia soddisfare il suo bisogno di immergersi nella vita comune, Adriano simula un
suicidio per liberarsi della falsa identità, ma tornando a casa nelle vesti di Mattia scopre di non poter rientrare
nella vecchia forma, essendosi la moglie sposata col suo migliore amico (da cui ha avuto una figlia).
Solo a questo punto assume quell’atteggiamento di forestiere della vita; riprende il suo mortificante lavoro
come bibliotecario in paese (significativamente frequentata solo dai topi) e si dedica a scrivere la propria
esperienza (l’opera, infatti, si configura come memoriale).
Il processo di formazione di Mattia non termina con una completa assunzione di consapevolezza: lui si limita
a rendersi conto di non sapere chi è, e infatti non rinuncia totalmente al nome, segno esteriore di identità, ma
si limita a porgli davanti un “meno”, quel “fu” che indica l’avvenuta negazione dell’identità senza che
vengano prospettate alternative.

Il protagonista di Uno, nessuno e centomila compirà un passo avanti, rinunciando deliberatamente


all’identità (pars destruens) per fondendosi con la vita (pars construens, e a questa fase non arriverà mai
Mattia).

Suo marito
Questo romanzo, di impianto eterodiegetico, vede al centro un conflitto tra una scrittrice emancipata e suo
marito, attento solo agli aspetti economici della vita.
Giustino Boggiolo è un modesto impiegato che sposa la giovane scrittrice Silvia Roncella e, dopo che questa
diventa celebre, rivela uno straordinario fiuto negli affari, prendendo tutte le iniziative di contratto con gli
editori, i critici, i giornalisti, i traduttori e il pubblico, per reclamizzare e far fruttare la produzione letteraria
della moglie.
Questa sua frenetica attività di agente pubblicitario lo espone alla malignità dei colleghi d'ufficio, che lo
ridicolizzano appioppandogli il nomignolo di “Roncello”.
Silvia, che vede il ridicolo della situazione, si distacca sempre più dal marito e si separa da lui, non
ritornandovi insieme neanche quando viene lasciata dal suo nuovo compagno, sicché entrambi restano soli,
ciascuno per la propria strada.
All'interno del romanzo è rilevabile il tema dell'incomunicabilità tra gli uomini: se da principio al lettore è
offerto il punto di vista della moglie, che si ritiene strumentalizzata dal marito, in una seconda parte il punto
di vista del marito emerge, con la conseguenza che agli occhi del lettore non esistono più una ragione e un
torto: Giustino e Silvia propongono due versioni degli stessi eventi che sono entrambe verità.

I vecchi e i giovani
Di impianto eterodiegetico e di ambientazione siciliana, questo romanzo, è incentrato sul conflitto tra due
generazioni: quella che ha fatto l'Unità e che vede perduta l'eredità del Risorgimento, e quella più giovane,
che nel conservatorismo dei padri scorge solo la difesa di interessi reazionari.
Qui l’autore esprime un giudizio storico molto severo sul processo di riunificazione dell'Italia e dello stato
nato da essa.

Si gira...I quaderni di Serafino Gubbio operatore


Il romanzo è costituito dal diario del protagonista, un intellettuale che per sostentarsi deve lavorare come
operatore cinematografico durante le riprese di un film, vedendosi così degradato ad appendice di una
cinepresa; ma tale condizione di alienazione si trasforma in occasione di adottare uno sguardo impassibile su
tutto ciò che lo circonda.
La macchina, temuta da Pascoli e celebrata da D’Annunzio, è vista da Pirandello con ostilità, poiché rendeva
ulteriormente meccanico il vivere umano.
Alla critica alla meccanizzazione si aggiunge quella alla mercificazione: l’industria, cinematografica
trasforma tutto in merce a fini di profitto.
Tuttavia, in tale estraniazione si insinua un bisogno inappagato di amare ed essere amato: Serafino si
innamora, non riamato, di una giovane donna che lavora presso la casa cinematografica, comincia a
sperimentare sentimenti che aveva tentato di tenere lontani.
Inizia così a lasciarsi coinvolgere dalle vicende dei due protagonisti nel film, un’attrice russa “divoratrice di
uomini” e un attore innamorato follemente di lei, finché non prende coscienza della vacuità della loro storia,
simile agli intrecci dei film di consumo di moda all’epoca, e torna all’originario atteggiamento di distacco.
Lo stesso dramma che pone fine al romanzo, con l’attore che, nel girare una scena con una tigre, spara
all’amata piuttosto che a questa, venendo a sua volta sbranato, non ha più la tragica autenticità che dovrebbe
essergli propria, perché è stato fissato dalla cinepresa e finirà nel film, suscitando morbosa curiosità e
fruttando favolosi incassi.
Significativo il finale silenzio di un Serafino, liberazione dai legami di una realtà invivibile.

Uno, nessuno e centomila


In origine uscito sotto forma di romanzo a puntate nella rivista La Fiera Letteraria, il romanzo, autodiegetico,
si configura come ininterrotto monologo del protagonista, Vitangelo Moscarda, il quale scopre che l’idea che
gli altri hanno di lui non coincide con quella che egli ha di se stesso, scopre cioè di non essere uno bensì
centomila, e dunque nessuno.
La forma impostagli è soprattutto quella dell’usuraio, ed è questa in primis che egli mira a distruggere: prima
sfratta un povero squilibrato dalla catapecchia che persino il padre, per pietà, gli aveva concesso
gratuitamente, poi, con un colpo di scena, rivela alla folla indignata, accorsa per assistere allo sfratto, di
avergli donato una casa migliore; in seguito, per liberarsi dalla forma del marito, prende a maltrattare la
moglie, che pure ama, costringendola a lasciarlo; infine, ferito gravemente e inspiegabilmente da un’amica
della moglie, essendo tutta la città convinta del fatto che i due avessero instaurato una relazione clandestina,

si addossa tutte le colpe attribuitegli e, simulando un eroico ravvedimento, dona tutti i suoi averi per fondare
un ospizio per mendicanti in cui egli stesso si ricovera.
Moscarda, che voleva distruggere tutte le forme impostegli, finisce dunque per accettare quella dell’adultero
e per scontare una pena immeritata, ma proprio in questa sconfitta trova la guarigione, scegliendo di alienarsi
totalmente da se stesso, identificandosi di volta in volta nelle cose che lo circondano, rinunciando a qualsiasi
identità definita.

TEATRO
Fare distinzione tra i contenuti dei romanzi (o delle novelle) e le opere teatrali è difficile, in quanto molte
novelle sono state messe in opera a teatro, ad esempio:
- Liolà riprende il tema centrale dai capitoli iniziali de Il fu Mattia Pascal (che sposa Romilda, donna che,
rimasta incinta di lui, era stata convinta a fingere che il figlio fosse di un suo zio - che non riusciva ad
averlo insieme alla moglie Olivia - ; Mattia mette allora incinta Olivia, moglie di questo zio, che, pur
sapendo di non esserne realmente il padre, alla fine sceglie lui come suo figlio per non far scoppiare uno
scandalo, mentre Romilda può sposare Mattia);
- Così è, se vi pare è tratto dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero.
MASCHERE
Per Pirandello sono 3:
- Quella esterna, che si mostra al mondo
- Quella interna, che si mostra ai più cari
- Quella interiore, che si mostra solo a sé stessi
RIVOLUZIONE TEATRALE
La rivoluzione teatrale di Pirandello consistette nello svuotare il dramma di impianto naturalistico (basato su
verisimiglianza, riproduzione fedele della vita quotidiana, rapporti causa-effetto).
I ruoli imposti dalla società borghese (il marito, l’uomo d’affari) vengono assunti sino ad essere smascherati
nella loro inconsistenza; in tal modo il criterio della verosimiglianza viene scardinato, gli spettatori si
trovano dinanzi a un mondo stravolto; a venir meno è pure lo psicologismo naturalistico: i personaggi sono
contraddittori.
I drammi pirandelliani rispondono alla poetica del “grottesco”, che è la forma che l’arte umoristica assume
sulla scena, per cui il tragico è sempre straniato dal comico e il comico rivela sempre un fondo di tragica
serietà.
Proprio per la portata delle novità introdotte, i drammi ottennero in un primo momento scarso successo di
pubblico e tiepidi giudizi da parte dei recensori.

LE FASI
I drammi sono tradizionalmente suddivisi, in base alla fase di maturazione dell'autore, in:
- Prima fase - Il teatro siciliano
- Seconda fase - Il teatro umoristico/grottesco
- Terza fase - Il teatro nel teatro (metateatro)
- Quarta fase - Il teatro dei miti

PRIMA FASE
Alla prima fase appartengono sei drammi, tra i più famosi:

Pensaci, Giacomino!
È la storia di un vecchio professore, il professor Toti, che non ha potuto farsi una famiglia a causa del suo
magro stipendio e che decide di “vendicarsi” sposando Lillina, una donna giovanissima, in modo da
costringere lo Stato a pagarle per molti anni la pensione; mette anche in conto le corna, anzi arriva a favorire
il legame della ragazza con Giacomo, un suo allievo del quale ella è incinta, affermando che le corna non
andranno in testa a lui ma alla parte che recita, quella del marito, che lo riguarda solo in apparenza.

Liolà
È la storia di un povero contadino, Neli Schillaci detto ‘Liolà’, che, messa incinta Tuzza, nipote di un
vecchio benestante ossessionato dalla sua incapacità di non riuscire ad avere figli, appreso che la ragazza
propone allo zio (che accetta) di attribuirgli pubblicamente il figlio (invece di sposare il suo seduttore, che
sicuramente si sarebbe dimostrato un pessimo padre), si vendica mettendo incinta la moglie del vecchio, che,
prima cacciata di casa, viene infine ripresa con sé dal marito, che preferisce questa paternità formalmente
legale ai vincoli del matrimonio a quella illegale di Tuzza. Liolà si ritira, pago della sua vendetta.

SECONDA FASE
Alla seconda fase appartengono dodici drammi, tra i più famosi:

Così è (se vi pare)


È la storia di un uomo che tiene relegata in casa la moglie perché sua suocera non possa vederla. L’uomo
afferma che si tratta della sua seconda moglie, essendo la prima morta in un terremoto, e che la vecchia,
pazza, è convinta erroneamente che si tratti di sua figlia.
A sua volta l’anziana afferma che è pazzo il genero, e che la donna relegata è sua figlia, che si finge una
seconda moglie per assecondare la follia del marito.
Il caso suscita la curiosità di tutta la città, finché non compare in scena, velata, la donna oggetto di
pettegolezzi, che delude la speranza di tutti di poter risolvere l’enigma limitandosi ad affermare “io sono
colei che mi si crede”.
Pirandello porta così in scena il relativismo assoluto.

Il piacere dell’onestà
Vede come protagonista Angelo, un uomo non troppo stimato che, dopo aver accettato di sposare pro forma
una donna (Agata), in modo da dare un padre legale al figlio che questa aspetta dall’amante (un marchese già
sposato), finirà col tempo per voler osservare fino in fondo la forma e per prendersi realmente cura di Agata
e del bambino, riscattandosi.
Come già in Pensaci Giacomino, Pirandello usa l'espediente del falso matrimonio su cui si confrontano
personaggi, costretti a togliersi la maschera dietro la quale hanno ingannato se stessi e gli altri.
Si rivela così il vero volto dei protagonisti.
Chi finora era apparso al sommario giudizio degli altri un disonesto si rivela invece una persona rispettabile,
e chi agli occhi dei buoni borghesi godeva di alta considerazione, un marchese di alto lignaggio, si manifesta
per quello che è: un uomo infido e mediocre.

La patente
È la storia di Chiàrchiaro, considerato uno iettatore da tutto il paese, che querela per diffamazione due
giovani rei di aver fatto, nell’incontrarlo, un atto osceno di scongiuro per proteggersi dalla iella; il giudice,
perplesso, prima che si arrivi a processo convoca Chiarchiaro per consigliargli di ritirare la querela, giacché
non avrebbe mai potuto incriminare i due ragazzi querelati per un fatto così banale e alla fine Chiarchiaro
avrebbe visto consolidarsi ulteriormente la fama di iettatore, ottenendo l'effetto contrario; quando arriva
nell'ufficio del giudice, Chiàrchiaro ammette di essere effettivamente uno iettatore e il giudice meravigliato
gli chiede perché allora abbia querelato i due giovani; di tutta risposta, Chiarchiaro chiede al giudice di
istruire al più presto il processo: perdendo la causa, egli sarà considerato ufficialmente uno iettatore e
chiederà che gli sia rilasciata la patente di iettatore.
In questo modo potrà guadagnarsi da vivere: si metterà davanti ai negozi, vicino alle industrie, e i proprietari
lo pagheranno perché se ne vada; così, egli potrà riscattarsi anche dalla sottile malvagità della gente che fino
ad ora lo ha sempre scansato.
Emergono anche qui alcune tematiche care a Pirandello, come gli intrecci relazionali fra gli uomini resi
alterati e inquinati dai preconcetti, nonché dalle proiezioni che vengono applicate sui soggetti bersaglio in
base alle apparenze, alle esteriorità e ai giudizi superficiali.

Il giuoco delle parti


Ha come protagonista Leone, un uomo che, pur separato dalla moglie, si cala ancora nella parte del marito
sfidando a duello un uomo che l’ha offesa, per poi rifiutare di battersi e lasciare il compito all’amante.

TERZA FASE [La produzione metateatrale:]


Alla terza fase appartengono, tra i più famosi drammi:

Sei personaggi in cerca d’autore


È la storia di sei personaggi nati dalla mente di un autore che si è poi rifiutato di scrivere il loro dramma e
che pertanto si presentano su un palcoscenico dove una compagnia sta provando una commedia (Il giuoco
delle parti di Pirandello) chiedendo che questa metta in scena la loro storia. La storia è quella di un Padre
che, dopo aver scoperto che tra la moglie (Madre) e il proprio segretario è nato un sentimento, decide di
assecondarlo, incoraggiando la donna a formarsi una nuova famiglia abbandonando il Figlio nato dalla
legittima unione.

La Madre, dopo la morte del suo nuovo compagno, per le difficoltà economiche si vede costretta a lavorare
come sarta presso un atelier che in realtà è una casa di appuntamenti in cui la figlia (Figliastra) si
prostituisce.
Qui un giorno giunge il Padre e, senza saperlo, sta per avere un rapporto con la Figliastra, che non ha
riconosciuto, ma sopraggiunge in tempo la Madre a impedire l’unione quasi incestuosa.
Il secondo atto è costituito dalla morte della Bambina (la figlia minore) per un incidente e dal presunto
suicidio del Giovinetto.
Pirandello volle mettere in scena l’impossibilità di scrivere e rappresentare una storia del genere, un
“drammone” dalle forti tinte, portando all’estremo il rifiuto del dramma borghese.
Egli è convinto che la rappresentazione scenica in assoluto, a prescindere dalla maggiore o minore bravura
degli attori, costituisca un tradimento e una deformazione dell’idea dell’autore. Pertanto, questa è la storia di
una rappresentazione che non si può fare.

Enrico IV
Si collega al ciclo del “teatro nel teatro” il dramma di un uomo che da vent’anni vive rinchiuso in una villa
solitaria, convintosi, dopo essere impazzito per una caduta da cavallo, di essere l’imperatore medievale
Enrico IV (che egli aveva rappresentato durante la mascherata in costume). Nella villa, in cui vive
assecondato da chi lo circonda, si introduce Matilde, la donna che egli un tempo amava, con l’amante e la
figlia Frida.
Un dottore maschera Frida come un tempo era la madre durante la cavalcata storica, nella speranza di
provocare uno choc che riconduca il folle alla ragione; questi però rivela di essere rinsavito da molti anni e di
essersi chiuso nella sua parte per disgusto di una società vile, rimanendo però anche escluso dalla vita; ora
vorrebbe vivere ciò che non ha vissuto all’epoca e avere la donna che non ha potuto avere, ma nella forma di
allora, cioè non Matilde ormai vecchia ma Frida; il padre della ragazza interviene per difenderla ma “Enrico”
lo uccide con la spada, tornando a rinchiudersi nella sua pazzia.
Il dramma si collega al ciclo del metateatro perché anche qui avviene una recita, quella di “Enrico” (il cui
vero nome non è mai rivelato), prosecuzione cosciente della finzione che è di tutti, costretti dal meccanismo
sociale a mascherarsi e recitare.

Ciascuno a suo modo


Qui si indaga il rapporto tra attori e pubblico.
Il soggetto della commedia è ispirato a un fatto di cronaca che aveva visto uno scultore suicidarsi a seguito
del tradimento dell’amata, innamoratasi di un barone.
Nella ricostruzione scenica si hanno discussioni fra gli attori sulla responsabilità della donna nel suicidio
dello scultore (qualcuno la difende, qualcuno le addossa tutte le responsabilità), mentre la donna e il barone,
che, dopo il suicidio dello scultore, non si erano più visti, si incontrano in casa di amici e si confessano il
reciproco amore che avevano cercato di nascondere.
Su questa scena termina l’episodio, ma non la commedia: la vera attrice e il vero barone, che assistevano alla
rappresentazione, si precipitano sul palcoscenico perché si sono riconosciuti nei singoli personaggi e
vogliono protestare sul finale, ma, presi dal vortice della recitazione, si accorgono che la finzione scenica ha
scoperto i loro veri sentimenti e, come gli attori che li rappresentavano, fuggono insieme.

Questa sera si recita a soggetto


Qui si affronta il conflitto tra regista e attori (che si ribellano alle direttive del primo e si rifiutano di essere
esecutori passivi della sua volontà).
Un regista propone una recita a soggetto sulla trama di una novella pirandelliana; gli attori accettano, ma si
rifiutano di recitare il dramma come vuole il regista: non vogliono essere delle marionette, ma vogliono
recitare guidati dalla passione.
Nasce sulla scena un conflitto, ma la spuntano gli attori.
Questa è la trama da rappresentare: un uomo, geloso del passato della moglie (che in gioventù si era data alla
bella vita e agli svaghi insieme alle sorelle), la obbliga a trascurarsi e a stare sempre chiusa in casa, finché un
giorno non arriva in città una delle sorelle della moglie, divenuta cantante; appresa la notizia, la moglie non
può non ripensare alla sua giovinezza, a quando andava a teatro ed era felice, e così prende a raccontare alle
sue bambine di quei tempi e a cantare loro alcuni brani uditi all’opera, fra cui Leonora addio è tanta la
passione con cui canta che cade morta.
Anche nella ricostruzione scenica è tale la passione con cui la prima attrice interpreta la donna che si sente
male davvero, ma il regista è trionfante: lo spettacolo è tanto più vivo e riuscito, quanto più gli attori si sono
compenetrati nella loro parte.

La più tarda produzione teatrale pirandelliana rivela un cambiamento di poetica rispetto a quella del
grottesco, col passaggio dal razionalismo umoristico a un irrazionalismo magico e simbolico, in direzione di
un ritorno al decadente.

QUARTA FASE (teatro mistico e novelle surreali – cenni sull’ultimo Pirandello)


Alla quarta fase appartiene la seguente trilogia:

La nuova colonia [“mito sociale”]


Un gruppo di emarginati dalla società civile decide di fondare una colonia su un'isola vulcanica deserta, per
creare una nuova società più giusta e libera. Capo della comunità sarà Currao con la sua donna, La Spera,
un'ex-prostituta che si è riscattata dalla precedente vita dal momento in cui è diventata madre.
Tutto sembra andare per il meglio, quando però sull'isola sbarca, con donne e denaro, padron Nocio, il cui
intento è quello di far fallire quel singolare esperimento, dimostrando come gli uomini rimangano sempre
attratti dal male e dai loro istinti egoistici.
Infatti, La Spera torna ad essere la prostituta che era, mentre Currao l'abbandona per sposare la figlia di
Nocio.

Lazzaro [“mito religioso”]


Per la prima ed ultima volta Pirandello affronta l'argomento religioso esplicitamente, inserendolo in un tema
più ampio, che si ritrova in tanti drammi precedenti: lo scontro di due culture, una istintiva e vitalistica
(materna) e l'altra dogmatica e autoritaria (paterna).
I contrasti tra Diego e Sara, marito e moglie, soprattutto per quanto riguarda l'educazione dei figli Lucio e
Lia, portano inevitabilmente alla loro separazione: Sara se ne va in una casa di campagna dove si innamora
di un fattore con cui inizia una vita tutta spontanea e naturale, senza remore sociali o religiose, mentre Diego,
portatore di una fede negativa, dogmatica e severa, s'incarica della educazione dei figli, mandando Lucio in
seminario e Lia ad un convento di suore.
Il dramma si origina nel momento in cui Lucio si rifiuta di diventare prete, opponendosi al padre che, per la
violenta reazione che segue alla decisione del figlio, accidentalmente muore.
Una miracolosa iniezione però lo riporta in vita.
Novello Lazzaro, Diego scopre che nell'aldilà c'è il nulla: non sono previsti né compensi né punizioni, e tutte
le rinunce che egli ha fatto per conquistarsi il Paradiso non servono a niente.
Se prima del suo ritorno in vita aveva dunque sopportato il tradimento della moglie, ora potrà finalmente
sfogare la sua rabbia e vendicarsi ferendo il fattore.

I giganti della montagna (incompiuto), [“mito dell’arte”]


È il testo più significativo della trilogia, in cui si affronta il problema della posizione dell’arte (specie
teatrale) nella realtà moderna, capitalistica e industriale: la protagonista è un’attrice che si ostina a recitare il
testo di un poeta (ormai morto) che l’aveva amata a un pubblico volgare e indegno; di contro un mago,
chiuso in una villa appartata dal mondo insieme a un gruppo di stravaganti creature, afferma che l’arte può
vivere solo nella sfera della fantasia e deve dunque fare a meno del pubblico.
Questi non riesce, tuttavia, a convincere la donna, la quale si rivolge ai Giganti, potenti creature che vivono
sulla montagna e rappresentano il Potere: il simbolismo rivela che l’arte nella società moderna non può
sopravvivere con le sue sole forze, ma deve cercare l’appoggio del potere economico e politico (attraverso
sovvenzioni e appoggi di varia natura).
Della conclusione del dramma abbiamo solo una bozza: la protagonista, dopo aver recitato il testo poetico
dinanzi ai servi dei Giganti, viene sbranata da questi esseri barbari e rozzi insieme ai suoi attori.
Questi ultimi drammi sono in un certo senso accomunabili all’ultima stagione novellistica pirandelliana,
dove, sebbene in alcune novelle sia mantenuto un riferimento alla realtà comune, a prevalere è la disperata
ricerca di autenticità, in un clima allucinato: significativa in tal senso è la novella C’è qualcuno che ride, in
cui, in una festa mascherata ufficiale e seria, serpeggia l’inquietudine perché c’è una famiglia che si
abbandona a un riso irrefrenabile; il riso rappresenta l’erompere delle pulsioni più profonde dell’inconscio,
da cui la civiltà si sente minacciata in quanto la spontaneità dell’istinto può rivelare le false convenzioni su
cui essa si regge.

BRANI
Ciàula scopre la luna - NOVELLE PER UN ANNO
La novella, tratta da Novelle per un anno, fu pubblicata sul Corriere della sera, poi nel volume Le due
maschere.
Temi chiave sono:
- La rappresentazione del duro lavoro in miniera

- Il simbolismo della rinascita


- La realtà popolare portatrice di elementi primitivi e irrazionali
Il brano si apre con i minatori della cava della Cace che, dopo una giornata di duro lavoro, decidono di
tornare a casa, ignorando del tutto gli ordini del sorvegliante, Caccagallina, che li voleva lì a lavorare tutta la
notte per completare le proprie mansioni.
Il sorvegliante addirittura minaccia di far fuoco su di loro, ma essi reagiscono sbeffeggiandolo, ridendo,
incamminandosi già verso casa.
Tutti tranne due: Zi’ Scarda e Ciàula.
Così, Cacciagallina agguanta per il petto il povero, vecchio Zi’ Scarda, l’unico che non si sarebbe potuto
ribellare ad un gesto del genere, data l’età, gli urla contro, sfoga su di lui la sua rabbia, in quanto egli anche il
solo ad ascoltarlo, suo malgrado.
E Zi’ Scarda riversa, così, la sua di ira sul suo garzone, Ciàula, giovane con evidenti problemi di ordine
psichico.
Zi’ Scarda è un anziano costretto a lavorare come minatore per permettere alla sua famiglia di andare avanti,
dopo la morte prematura del figlio, Calicchio, nella stessa cava in cui sta lavorando, a causa di una mina.
A causa dello scoppio della mina l’uomo,oltre al figlio, perde anche un occhio.
Ogni giorno, mentre lavora, ad un certo punto rivolge la mente al figlio morto e sul volto gli compare una
lacrima più salata rispetto alle altre, che scende lungo il solco scavato dalle precedenti, ed è vista come un
vizio, come quello del fumo o quello del vino.
Ciàula, invece, è un ragazzo sui trent’anni, sfruttato nella miniera, maltrattato da Zi’ Scarda e sbeffeggiato
dagli altri minatori.
Viene chiamato da Zi’ Scarda con lo stesso verso che si utilizza per chiamare le cornacchie, a causa dei versi
che emette.
Il nome Ciàula, infatti, significa proprio “cornacchia”.
Il giovane non aveva paura delle insidie della cava in cui lavorava, anzi: sembrava quasi a suo agio lì dentro
piuttosto che all’esterno.
L’unica sua paura era quella del buio, dal giorno in cui il figlio di Zi’ Scarda aveva perso la vita.
Da allora si era rifugiato all’interno della cava, senza mai più uscire.
Un giorno, però, è costretto ad uscire per completare la sua mansione e, nell’affrontare la sua paura, si
accorge del fatto che fuori non sia più tutto buio come l’ultima volta in cui è uscito.
C’è uno spiraglio di luce, una speranza, davanti alla quale Ciàula si commuove: la luna.
La novella sembra molto simile a Rosso Malpelo, di Verga, ma vi sono alcuni punti di contrasto.
Il rapporto con i compagni di lavoro, ad esempio, è differente: in Malpelo sono indifferenti alla sorte del
ragazzo che trattano in modo crudele, infatti, subisce senza lamentarsi percosse e punizioni, ma si vendica
appena può; in Ciàula invece, gli uomini nella miniera sono meno crudeli e prendono in giro in modo
bonario Ciàula, per la convinzione di essere elegante, per il fatto di indossare una vecchia camicia, che molto
tempo prima doveva essere molto bella.
I protagonisti stessi, sono apparentemente simili, accomunati dalla brutalità dello sfruttamento e dalla fatica
eccessiva cui sono sottoposti.
In realtà sono due personaggi molto diversi tra loro: Ciàula è un minorato mentale di età adulta, uno schiavo
inconsapevole che non si rende conto di nulla, neppure della fatica cui sottoponeva il suo fisico.
Ha una bocca sdentata, cammina scalzo ed ha delle gambe misere e storte; Rosso Malpelo è un ragazzo
orfano di padre e abbandonato da tutti, è, infatti, crudele e vendicativo. Ha i capelli rossi e un viso con
lentiggini.
Entrambi i protagonisti sono condizionati dalla morte, Ciàula vede morire Calicchio, il figlio del suo padrone
Zi Scarda, la morte è stata causata da un incidente, lo scoppio di una mina nella cava, e provoca in lui la
paura del buio e della notte; Malpelo sconvolto dalla morte del padre, avvenuta anch’essa all’interno della
cava, causata dallo sfruttamento imposto dal padrone, che lo faceva lavorare anche di notte.
La morte del padre lo costringe a lavorare per sempre all’interno della cava, per cercare il corpo del padre
sepolto dalla sabbia.
Non ha paura di nulla, infatti, accetta anche una missione molto pericolosa.

Il treno ha fischiato - NOVELLE PER UN ANNO


La novella, tratta da Novelle per un anno, fu pubblicata sul Corriere della sera e successivamente nel volume
La trappola.
Temi chiave sono:
- La trappola del lavoro e della famiglia
- La scomposizione umoristica della realtà
- La follia contrapposta all’apparente razionalità del meccanismo dell’esistenza

La novella si apre in medias res, con un “farneticava”, il cui soggetto resta indeterminato, anche se ben
sappiamo che si sta parlando di Belluca, impiegato protagonista della vicenda narrata, che ha
improvvisamente compiuto stranezze.
I colleghi sono quasi contenti della sua condizione, lui che per così tanto aveva manifestato una calma
disarmante e parecchio invidiata con loro e con la sua famiglia, che pian piano l’ha logorato.
Una mattina giunge a lavoro diverso dal solito, più felice, ma già dai suoi occhi era possibile percepire che
qualcosa non andava in lui: sembrava una montagna in procinto di crollare.
Per tutto il giorno non combina niente, e, alla sera, il capo chiede lui il perché.
Egli risponde d’aver sentito un treno fischiare per la prima volta, un treno che ha metaforicamente portato lui
da qualche parte sconosciuta, ovunque, ma non lì: il suo senno è scappato via, evaso, esasperato da quella
vita insostenibile.
Sentendo le risate dei colleghi, dunque, scoppia, si ribella, lui che per un infinito tempo era stato la vittima
delle loro angherie.
Così gli altri non perdono tempo a mandarlo in un manicomio.
Per il narratore, il vecchio vicino di casa, però, Belluca non è folle, anzi: nella sua situazione, per lui, era
riuscito già per troppo tempo a trattenere il senno.
Soprattutto per via della famiglia.
Egli, difatti, viveva con tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera.
Tutte e tre volevano essere servite, strillavano dalla mattina alla sera insieme ai rispettivi figli e Belluca era
costretto a portarsi anche il lavoro a casa di sera per riuscire a sfamare tutti.
La casa era troppo piccola e troppo caotica per tutte quelle persone.

La rappresentazione teatrale tradisce il personaggio - SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE


Tratto da Sei personaggi in cerca d’autore, riscontra come temi chiave:
- Il grottesco come intima fusione di tragico e comico
- L’impossibilità di rappresentare il dramma
- La polemica contro il teatro del tempo
- L’impossibilità di comunicare
Com’è stato concordato dal capocomico, il Padre e la Figliastra devono rivivere dinanzi alla compagnia la
scena dell’incontro nella casa d’appuntamento, in modo che se ne possa ricavare la stesura scritta destinata
poi ad essere recitata dagli attori.
Quella che potrebbe essere la scena madre del dramma, l’incontro tra un padre e una figliastra in una casa
d’appuntamento, viene qui del tutto straniata: lo spettatore non può che guardare con occhio critico al tutto,
senza possibilità d’immedesimarsi.
L’illusione della realtà è spezzata dall’interruzione della giovane attrice e dalle preoccupazioni per il
cappellino, che trasformano una scena tragica in un momento comico.
Parliamo qui, dunque, di grottesco, di umorismo pirandelliano.
Viene poi trattato il tema, caro a Pirandello, del tradimento che la rappresentazione teatrale opera nei
confronti dell’idea dell’autore.
L’impoverimento e la deformazione sono poi complicati dal fatto che questi attori sono dei mediocri guitti
che recitano in un mondo forzato, seguendo schemi fissi, senza saper veramente far vita ai personaggi
(polemica contro il teatro del tempo)
Infine emerge il motivo dell’impossibilità di comunicare, la tragedia del non potersi riconoscere
nell’immagine che gli altri si fanno di noi.

Nessun nome - UNO, NESSUNO E CENTOMILA


Il brano è tratto da Uno, nessuno e centomila ed è la parte conclusiva del romanzo.
La narrazione si apre in un'aula di tribunale, in cui Vitangelo Moscarda è invitato a deporre a favore di Anna
Rosa.
Si presenta lì, con abiti bizzarri e con un aspetto piuttosto trasandato, che a suo dire favorì l'assoluzione della
donna.
Dal momento in cui viene chiamato, inizia una lunga dissertazione sulla futilità del nome.
Infatti lo stesso Vitangelo, nonostante tutti lo nominassero ancora ''Moscarda'' giunge alla conclusione di non
riconoscersi in tale cognome.
Riconosce che gli uomini della sua civiltà hanno collegato al concetto di nome, l'essenza della cosa stessa, e
ribatte che per lui non è così.
Il protagonista è convinto che il nome si addice solo ai morti, in quanto sulle epigrafi funerarie compare solo
il nome, e la foto della persona a cui tale nome si attribuisce.
Vitangelo non si sente morto, e da tale non riconosce alcun nome, oggi vuole nascere albero, domani libro o
vento (non si riconosce in nulla praticamente).

La narrazione continua con toni via, via sempre più pessimistici.


Vitangelo descrive il paesaggio che circonda il suo ospizio, un posto amenissimo, circondato da estrema
tranquillità in cui lui tuttavia muore giorno dopo giorno.
Il suo compito infatti è quello di rinascere attimo per attimo, evitare che il suo pensiero gli rinfacci l'amara
realtà, e reincarnarsi non in se stesso, ma in ogni altra cosa.

Viva la macchina che meccanizza la vita - QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE


Serafino sfrutta il suo lavoro di operatore cinematografico per osservare con sguardo critico il mondo che sta
intorno a lui: il suo sguardo diventa il filtro fondamentale attraverso cui rappresentare una realtà che appare
profondamente straniata, perché straniante è questo occhio della macchina da presa che osserva tutto.
Serafino guarda con occhio critico la modernità: se in un primo tempo sembra farsi coinvolgere dalle stupide
vicende dei due amanti (la cui storia d’amore sembrano ricalcare un tema trito e ritrito sia della letteratura
che del teatro), in un secondo momento Serafino diventa improvvisamente cosciente (alla vista dei volgari
ritratti nella casa della donna), si rende conto cioè della volgarità e della banalità della storia in cui si è
mescolato, capendo che in un’epoca come questa (la modernità) non c’è spazio per l’autenticità dei
sentimenti, ma c’è spazio solo ad una letteratura, ad un cinema, ad una serie di oggetti di consumo che
possano soddisfare l’industria dello svago.
Serafino, con l’occhio critico della macchina da presa, critica fortemente la modernità industriale che è
impastata di volgarità, banalità, stupidità, conformità squallida.
Il romanzo, come il “Fu Mattia Pascal”, si conclude con la stessa impossibilità di pervenire a dei valori
positivi: l’unico modo per scampare all’inautenticità della vita è alienarsi, adeguandosi alla propria
condizione di “mano che gira la manovella”, poiché nella vita non c’è possibilità di valori autentici, come la
fratellanza o l’empatia (a differenza del romanzo “Uno, nessuno e centomila” che si conclude con un trionfo
vitalistico, ovvero con un’affermazione gioiosa di inesauribili possibilità di essere).
Il set dunque è la metafora della vita, poiché come c’è finzione nel set, allo stesso modo c’è finzione nella
vita: ogni individuo quando vive in società è costretto ad indossare una maschera, nel tentativo di fissarsi
entro certi parametri come personalità unica (cosa impossibile, poiché la vita è un’inarrestabile fluire che
impedisce di essere sempre la stessa persona nel corso del tempo e che inevitabilmente ci costringe a
cambiare).
Gli uomini per Pirandello si adeguano tutti a questa finzione senza esserne consapevoli.
In Serafino Gubbio abbiamo due simboli:
- il simbolo dell’intellettuale declassato, costretto ad adattarsi ad una letteratura e ad un cinema di consumo)
- il simbolo dell’uomo frustato dalla modernità che si rende conto dell’impossibilità di ritrovare valori
autentici nella vita: ed ecco che le pagine di questo romanzo pullulano di critiche che testimoniano questo
scetticismo nei confronti della modernità e delle macchine.

Lo strappo nel cielo di carta - IL FU MATTIA PASCAL


Mattia Pascal, si è ormai stabilito a Roma, ha assunto un’identità diversa, facendosi chiamare Adriano Meis
ed abita in casa di un certo signor Paleari.
Una sera, quest’ultimo propone a Adriano di andare ad assistere insieme ad uno spettacolo in cui delle
marionette automatiche recitano l’Elettra di Sofocle.
Questa per Pirandello è l’occasione introdurre la tesi di fondo della sua ideologia.
Adriano resta perplesso nel sapere che si ricorre a delle marionette meccaniche per rappresentare una
tragedia greca.
Paluari continua esponendo un’eventualità e chiedendo a Adriano che cosa succederebbe se nel momento in
cui Oreste sta vendicando la morte del padre si aprisse uno strappo nel cielo di carta dello scenario. Adriano
non trova risposta, ma Paleari spiega che “Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da questo buco nel
cielo...insomma diventerebbe Amleto”.
In questa frase, apparentemente sibillina, è racchiuso il concetto che Pirandello ha della condizione umana.
Oreste è il protagonista della tragedia di Sofocle spinto dalla sorella Elettra a vendicare la morte del padre
Agamennone e ad uccidere sia la madre fedifraga, Clitennestra, ed il suo amante. Oreste è un eroe classico
che nella vicenda non ha alcuna esitazione: è sicuro di sé, di quello che deve fare mai una volta un
ripensamento.
Va dritto verso il suo scopo e non esita ad assassinare la madre.
Amleto, eroe moderno, come Oreste, sa che il padre è stato ucciso, ma, preso da mille dubbi, non si decide
mai a vendicarlo.
Alla fine della tragedia, Amleto vendicherà il padre, ma quasi costretto dagli eventi e non dalla sua ferrea
volontà.
Quindi l’uomo antico aveva delle certezze, l’uomo moderno vive nel dubbio e nell’incertezza.

Per questo qualora Oreste, sulla scena, vedesse aprirsi un buon nel cielo perdere tutte le sue certezze che fino
ad ora avevano caratterizzato la sua vita ed il suo comportamento e diventerebbe un nuovo Amleto perché
lacerato da dubbi, ed incapace di agire per eccesso di consapevolezza critica.
Il brano è ricco di metafore: la carta che nel sipario simula il cielo sono le convenzioni,le norme le istituzioni
e qualora esso si strappasse la recita si paralizzerebbe, come l’uomo moderno che non potrebbe vivere al di
fuori della perplessità e della convenzionale falsità che lo circonda.
La vita si basa sull’illusione non è altro che un inganno ed è sufficiente che si verifichi un incidente di poco
conto, come lo “strappo del cielo” per capire il vero senso dell’esistenza umana.
Anche il teatrino è una metafora: le marionette meccaniche recitano una parte senza rendersi conto di quello
che fanno e se si scopre la vera realtà ecco insorgere “vertigini e capogiri”, come scrive Pirandello alla fine
del brano.

La costruzione della nuova identità e la sua crisi - IL FU MATTIA PASCAL


Tratta da Il fu Mattia Pascal, ha come temi principali:
- L’errore di darsi una nuova identità
- La nostalgia delle abitudini quotidiane
- La critica alla società industriale
Il brano si apre con Mattia che rivela ciò che gli è accaduto: egli, creduto morto dalla famiglia poiché da
qualche giorno sparito da casa, volendo abbandonare quel monotono e pesante stile di vita, avendone adesso
la possibilità economica a seguito della vincita di denaro, decide di cambiare la propria identità, di cambiare
vita completamente.
Decide, perciò, di cominciare a viaggiare, inseguendo la sua libertà, dopo aver cambiato modo di vestire,
taglio di capelli e nome, in Adriano Meis.
Era solo, dunque, un giorno, decide di prendere con sé il cane di un mendicante, che vendeva per pochi
spiccioli.
Sul punto di prenderlo, però, si ferma, cominciando a vedere l’animale come una prima tassa, un limite,
quindi dice al venditore che la bestia non valesse tanto quanto diceva e con questa scusa va via.
Continuò a viaggiare per un anno, in completa solitudine, prima di accorgersi, durante il periodo natalizio,
dell’effettiva importanza di un amico, un tetto sotto il quale stare al calduccio con gli altri a trascorrere il
Natale.
Così comincia a pensare ad un posto in cui stabilirsi.
Il problema è che non possedendo una vera e propria identità ormai, gli è impossibile acquistare casa, né può
svolgere molte delle attività che un comune cittadino, uno che “esista”, possa effettivamente svolgere.
Non era nessuno, solo un nome falso che aveva lasciato andare tutto ciò che aveva, per quanto monotono e
triste, per qualcosa di ancor più monotono e triste.
E perciò invidia tutti quelli che incontra, che almeno hanno un nome, e si lascia prendere dall’ira quando,
nella taverna che è solito frequentare, un uomo di non bell’aspetto, parla di mirabolanti avventure erotiche
avute con numerose donne: perché mentire, se non necessario?
Lui almeno una vita vera ce l’ha.
Il brano si conclude con una riflessione sulla natura: a volte sembra che essa ci dia dei segnali (come quello
che sia il momento di cambiare vita per Mattia), ma questi sono solo nostre interpretazioni, ciò che
vorremmo che il destino, la sorte, ci dicesse davvero.
Anche il canarino, quando qualcuno imita il suo verso, crede che stia comunicando con lui, senza sapere che
l’altro non sa assolutamente ciò che sta dicendo attraverso i versi.

Una nuova vita - IL FU MATTIA PASCAL


Mattia Pascal apprende da un giornale di essere morto suicida.
Egli aveva contemplato l'estremo gesto, ma aveva cambiato idea e vinto una gran fortuna in una sala giochi.
A morire era stato un forestiero, scambiato per lui dalla suocera e dalla moglie, che si dicevano affrante.
Non credendo al finto dolore dei familiari e per dare una speranza ai parenti del forestiero, che credendolo
vivo non avrebbero mai perso la speranza di un suo ritorno a casa, decide di cambiare vita, alternando sia
l'aspetto esteriore che quello interiore.

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