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DIRITTO INTERNAZIONALE

Introduzione
Ogni problema di Diritto è un problema concreto da risolvere, ha a che fare con la realtà perché
si tratta di regole che servono a tutti noi per convivere.
Le regole si imparano fin da piccoli anche se si vive in un contesto sociale limitato come quello
della famiglia. Nella famiglia i legislatori sono i genitori mentre i destinatari delle regole sono
i figli.
Ogni società (o gruppo di persone) ha delle regole, per cui non sono esclusive del Diritto. Ci
sono regole religiose, regole etiche... spesso possono coincidere come nel caso della regola
fondamentale/d’oro → “non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso”, regola
dalla quale si traggono regole concrete di comportamento.
Da una regola fondamentale possono derivare delle indicazioni che influenzano il
comportamento e la condotta, quindi regole di condotta che possono essere religiose, etiche,
giuridiche (vietato uccidere, vietato torturare, vietato dire falsa testimonianza, vietato rubare
→ sono norme giuridiche).
Quindi il Diritto è collegato alla vita quotidiana, alla cultura e al senso etico che si è sviluppato
in una parte del mondo, questo significa che le regole sono diverse a seconda del paese.

Ordinamento Giuridico → ordinamento vuol dire “fare ordine”, dare organizzazione alle
regole. Secondo l’appartenenza a diverse comunità (famiglia, religiosa, politica). Comunità
politica viene da polis che era la prima forma di aggregazione giuridica nell’Antica Grecia; si
appartiene come comunità politica allo Stato in cui siamo nati e dove risiediamo (nel nostro
caso Italia e Unione Europea, cittadini italiani e cittadini europei). Ma in quanto persone
facciamo parte anche di una comunità umana più grande che politicamente si identifica nella
comunità internazionale → l’insieme degli Stati e delle organizzazioni internazionali che
popolano il pianeta terra.
Ognuna delle comunità necessita di regole, il Diritto studia le regole delle comunità politiche
(nel caso dello Stato, si occupa delle regole che devono essere seguite da tutti coloro che vi si
trovano dentro: cittadini, residenti e stranieri come turisti).
Ci sono regole giuridiche che riguardano le comunità territoriali allargate, cioè le
organizzazioni internazionali come l’UE che creano ordinamenti giuridici più grandi in cui tutti
coloro che si trovano all’interno degli Stati membri seguono queste regole.
Le regole del Diritto Internazionale invece disciplinano i rapporti fra tutti colori che
appartengono alla comunità internazionale, cioè i soggetti. Come si deve comportare uno stato
nei confronti di un altro? In più nell'ordinamento giuridico internazionale sono disciplinati
anche i rapporti tra le organizzazioni internazionali fra loro e con stati terzi (cioè che non
appartengono a quella organizzazione).
Stato di Diritto / Rule of Law → è un concetto che esprime la necessità che il potere statale
ha di proteggere i singoli individui (cittadini e stranieri residenti nel territorio). I poteri pubblici
che governano non possono agire arbitrariamente senza rispettare la legge, ma devono agire
nel rispetto delle regole comuni condivise. In Italia la legge fondamentale è da ritrovarsi nella
Costituzione Italiana, in cui ci sono le regole fondamentali sia di carattere materiale che
organizzativo. Gli organi statali (come le forze di polizia) devono agire secondo la Costituzione
e secondo le leggi presenti.
Quindi il diritto è un insieme di regole posta in essere da una comunità politica; generalmente
le regole più importanti vengono presentate in un documento come la Costituzione e devono
essere rispettate da tutti (sia i governanti che i governati).
I governanti sono:
- Parlamento (potere legislativo, presiede alla funzione di produzione legislativa)
- Governo (potere esecutivo, istituzione che presiede alla funzione dell’amministrazione
della res publica)
- Presidente della Repubblica
- Magistratura (potere giudiziario, funzione di controllo totalmente indipendente dal
legislativo e esecutivo, deve controllare che Governo e Parlamento agiscano secondo
la Costituzione, principio della separazione dei poteri → chi emana le leggi deve essere
diverso da chi le applica, i controllori non possono coincidere con i controllati).

Le leggi normalmente vengono prodotte dal Parlamento:


- Leggi ordinarie
- Leggi costituzionali → se il Parlamento segue il procedimento di revisione
costituzionale contenuto nell’art. 238 della Costituzione.
Il Governo ha la possibilità di adottare delle leggi, cioè atti che hanno lo stesso valore delle
leggi:
- Decreti-legge
- Decreti legislativi delegati, cioè dei decreti che si prefiggono di attuare una materia in
cui il Parlamento ha solo dato linee di direttiva e ha delegato il Governo di decidere la
disciplina di dettaglio.
L'altro soggetto che produce leggi è la Regione:
- Leggi regionali → hanno lo stesso valore di una legge ordinaria e prevalgono se la
materia è di competenza regionale.

Lo Stato è entità astratta, chi agisce per conto suo? Le istituzioni, che sono formate da persone
fisiche intese come organo statale → chiunque esercita un’attività di governo, cioè portare
avanti la res publica statale. L'attività di governo implica che questa venga esercitata da tutte
le istituzioni politiche perché porta avanti l’attività di stabilire le regole di comportamento per
tutti coloro soggetti al potere di governo.
In Italia anche gli enti territoriali (regioni, province e comuni) sono organi statali, ma
decentrati. Il governo centrale delega molti poteri per potersi avvicinare alla realtà del singolo
territorio.
Libertà individuale: è quella sfera intangibile da parte dei poteri, lo Stato non può entrare
nelle mie scelte individuali (religione, vita privata, pensiero). È un concetto strettamente legato
ad uno Stato di diritto e quindi uno Stato democratico. Democrazia → il governo del popolo,
i governanti sono scelti dai governati in base a regole condivise scritte nella Costituzione. È
una forma di governo.
La democrazia può essere:
- Rappresentativa: tramite rappresentati eletti dal popolo, nel caso dell’Italia è
democrazia rappresentativa bi-camerale. Si ammettono forme di democrazia
partecipativa.
- Partecipativa: quando si dà la possibilità al popolo di avere immediata voce in
capitolo. Non è il Parlamento che propone un disegno di legge e poi la approva, ma
sono i cittadini che tramite referendum/raccolta firme che propongono direttamente una
legge. La democrazia partecipativa è accolta nel diritto dell’UE (se si mettono insieme
1 milione di firme di cittadini appartenenti ai 27 stati si possono presentare disegni di
legge agli organi – o istituzioni (carattere costituzionale, più democratico) europee
come la Commissione Europea, che poi può accogliere o respingere).
Stato di diritto - Libertà individuale – Democrazia sono i valori fondanti dell’Unione Europea.
Art.2 del Trattato sull’Unione Europea: l’Unione (27 Stati, Italia stato fondatore) si fonda su
diversi valori... questi valori sono comuni agli stati membri. I valori non sono regole ma
aspirazioni, si aspira al rispetto di questi.

Pluralismo: ha a che fare con la coesistenza di più partiti (ci sono Paesi in cui c’è un solo
partito al governo come la Cina continentale).
Pluralismo di informazione: viene data voce a tutti, non solo chi è affiliato a un partito
politico. Dove non c’è pluralismo di informazione lo Stato non può essere considerato
democratico o uno Stato di diritto, perché lo Stato che non permette critiche è uno Stato
autoritario.
Tolleranza: equivale a solidarietà, cioè la possibilità di pensare non solo a sé stessi ma
condividere anche con gli altri la ricchezza. Solidarietà finanziaria → destinare una somma di
risorse che si hanno a disposizione. Solidarietà è anche quando le case farmaceutiche donano
vaccini a quegli Stati che non hanno risorse.

ART. 2: “L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della
democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i
diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri
in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza,
dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.
I valori sono tutti collegati e riguardano un nucleo di diritti fondamentali, cioè di diritto e di
libertà del singolo individuo. Sono tutti inscindibili, interconnessi e collegati.

Nozioni Giuridiche di base


1. L’ordinamento giuridico
È un insieme di norme e di leggi che disciplinano la vita di una società (intesa come Stato
oppure Organizzazione Internazionale: un’unione di Stati che si accordano per conseguire degli
scopi comuni) e i rapporti dei singoli. L'ordinamento è fatto di norme giuridiche che impongono
diritti e obblighi ai destinatari.
Si può far riferimento all’ordinamento giuridico italiano caratterizzato da un insieme di certe
norme che si può differenziare da quello francese/belga/cinese...
Un ordinamento può anche essere fatto di altre regole (religione, sport...).
Ordinamento giuridico statale: complesso di norme e di istituzioni/organi, cioè di quei soggetti
che producono e amministrano e controllano la corretta applicazione delle norme di
quell’ordinamento. Differenza tra organi e istituzioni, e i destinatari, cioè tutti i cittadini-
residenti-e coloro soggetti alle norme. Nel diritto internazionale si parla di governanti (gli
organi che servono per produzione/amministrazione/applicazione del diritto) e di governati
(tutti coloro assoggettati alle norme, anche gli organi statali sono assoggettati alle regole da
loro prodotte, secondo lo Stato di diritto).
L'ordinamento giuridico è fatto di norme di diritto. Il diritto è secondo Hans Kelsen un
complesso di regole che vige in una società in un determinato territorio e in un certo periodo
storico, perciò soggetto a cambiamenti nel tempo, a prescindere da giudizi di valore. Diritto è
diverso da giustizia, non sono sinonimi. La giustizia è un giudizio soggettivo al quale ciascun
ordinamento giuridico impronta le proprie tecniche legislative, proponendosi determinati
obiettivi da raggiungere
È possibile che una corretta applicazione della legge possa portare a delle ingiustizie. Una
regola universale: “Non rubare”, al divieto si accompagna una sanzione, in alcuni casi la stretta
applicazione di questa regola può portare a risultati ingiusti se per esempio io sono costretto a
rubare per dare da mangiare ai miei figli che rimarrebbero senza di me perché in prigione e
senza cibo.

1.1 Elementi costitutivi dell’ordinamento giuridico


a. La preordinazione di regole di condotta che i singoli devono osservare, le regole
devono necessariamente avere due caratteri:
- Generalità → essere indistintamente applicabili a tutti
- Astrattezza → essere dotate di contenuto applicabile a qualsiasi caso.
“Non rubare” è sia generale sia astratto perché è per tutti coloro soggetti a una determinata
giurisdizione e per qualsiasi caso, non si può rubare nulla.
b. La predisposizione di precise regole di organizzazione, di struttura e di
competenza che permettono poi di porre in essere in maniera corretta e non arbitraria
le regole di condotta.
In genere negli stati democratici, l’ordinamento giuridico si stabilisce partendo da una legge
fondamentale cioè la Costituzione. Intesa come patto o accordo tra governati e governanti, si
mette insieme un’assemblea costituita da massimi esperti politici, i quali stilano un documento
in cui vengono espressi i desideri politici dei vari gruppi. Nel caso della Costituzione Italiana
si dice sia rigida e lunga, la prima perché è un testo che non può essere modificato se non
attraverso un procedimento costituzionale oneroso inoltre ha una forza formale superiore a
quella delle leggi ordinarie (non è possibile andare contro una legge costituzionale con una
legge ordinaria, mentre lo Statuto Albertino era più flessibile). Lunga perché contiene nel
dettaglio tutta una serie di norme che regolano i diritti fondamentali e norme
sull'organizzazione dello Stato (su quali sono gli organi/istituzioni).
c. Il principio di effettività del sistema organizzativo nel suo insieme, in base al quale
intanto esiste un ordinamento, in quanto le regole di struttura e di condotta che lo
costituiscono vengono effettivamente osservate.
Deve essere possibile che questo insieme di regole funzioni effettivamente. Come si fa a far
osservare le regole? Il fattore più importante che garantisce ciò è la spontanea osservanza delle
regole che deriva dal consenso del corpo sociale (cioè i destinatari di tali regole), più tale
osservanza è maggiore più il consenso del corpo sociale riflette la maggioranza della
popolazione (quindi si fonda su un principio democratico perché più le regole sono condivise,
più vengono rispettate) e dalla presenza di un meccanismo sanzionatorio.

1.2 Caratteri dell’ordinamento giuridico


a. La relatività nel tempo che consiste nella possibilità di mutazione delle sue regole nel
tempo perché ogni ordinamento giuridico riguarda un determinato periodo storico e la
relatività nello spazio che consiste nella possibilità della coesistenza di più
ordinamenti giuridici differenti in luoghi diversi ma nello stesso periodo di tempo
(significa che l’ordinamento giuridico italiano è diverso da quello francese sia nel
tempo ma anche nello spazio perché le regole applicabili nel territorio italiano non sono
le stesse applicabili in altri Stati).
b. L'originalità: non è possibile considerare come ordinamento giuridico vero e proprio
quello che dipende da un altro ordinamento giuridico. Il caso più famoso è
l’ordinamento giuridico di uno Stato federato che non è originario perché dipende
dall’ordinamento giuridico dello Stato federale (come Texas e Stati Uniti).
L'ordinamento giuridico deve essere originale in quanto indipendente da altri
ordinamenti giuridici.
c. Dal carattere relativo dell’ordinamento giuridico si deduce il fatto della pluralità degli
ordinamenti giuridici, cioè esistono contemporaneamente in uno spazio e si
susseguono nel tempo. L'ordinamento giuridico italiano del 2020 non è lo stesso del
1900.
Ci sono dei casi in cui in Italia è necessario applicare una legge di un altro ordinamento
giuridico? Si ci sono, se per esempio io cittadino italiano ho un rapporto giuridico (matrimonio,
figli, contratto, eredità) con un cittadino straniero; ogni volta che in un rapporto giuridico
all’interno di uno Stato c’è un elemento di estraneità, come si capisce qual è il giudice
competente e la legge applicabile? Il problema viene risolto con delle norme di diritto
internazionale privato che non hanno a che fare con il diritto internazionale, si tratta di norme
che ogni ordinamento predispone per collegarsi con le leggi e giudici degli altri ordinamenti.
Per esempio, l’Italia ha una serie di norme di diritto internazionale privato che dicono che per
quanto riguarda i diritti di proprietà si applicano le leggi del luogo in cui si trova l’immobile.
L'unico caso in cui uno Stato può giudicare un individuo indipendentemente dal fatto che abbia
commesso il reato sul suo territorio, a patto che quell’individuo si trovi presente sul territorio,
è quando si tratta di un criminale internazionale che ha commesso crimini ai sensi dello Statuto
della Corte Penale Internazionale. In quel caso qualsiasi Stato in virtù del principio
dell’universalità della giurisdizione penale può punire quell’individuo o estradarlo e
consegnarlo allo Stato con cui ha un accordo di estradizione.

2. La norma giuridica
È un modello di comportamento e condotta, una norma giuridica è diversa da una norma morale
o religiosa, la differenza sta nella fonte, cioè nell’origine di quella norma. Nel caso della norma
giuridica deriva da una fonte giuridica, quindi una Costituzione... una stessa norma però può
appartenere a più categorie, per esempio “non uccidere”:
- Morale: perché dettata dalla coscienza individuale
- Religiosa: imposta da un credo religioso
- Giuridica: imposta dall’ordinamento, dalla legge.

2.1 Elementi costitutivi della norma giuridica


La norma giuridica è costituita da:
a. Un precetto, cioè il comando che viene dato dalla norma che dice cosa fare o meno. Ci
sono obblighi di fare e obblighi di non fare, si parla quindi di precetto attivo/positivo
e omissivo/negativo.
b. Ci deve essere un testo in cui viene contenuto questo comando, è la legge formale come
la Costituzione per esempio.
c. Una sanzione, che consiste nella conseguenza negativa per il caso di violazione della
norma giuridica.
Ovviamente la norma è indirizzata a qualcuno, cioè avrà un destinatario nonché un soggetto
dell’ordinamento. Il destinatario è indeterminato ma in concreto ci sarà chi rispetta la norma
e chi no quindi nel caso di violazione si parla di persona responsabile della condotta illecita.
Colui che ha tenuto un comportamento non conforme al comando della condotta giuridica.
Si parla di responsabilità e imputazione di comportamento ad un soggetto preciso. In certi casi
il responsabile della violazione non coincide con il soggetto che ha compiuto l’illecito, come
nel caso dei minorenni (il responsabile sarà il genitore/tutore).
2.2 Caratteri della norma giuridica
Generalità → in quanto indirizzata a tutti i consociati indistintamente
Astrattezza → in quanto finalizzata alla disciplina di ipotesi astratte e non casi concreti
Informata al principio di uguaglianza formale e sostanziale → in Italia in base all’art.3
della Costituzione, in base al quale le norme giuridiche devono disciplinare i casi simili in
modo simile e i casi diversi in maniera differente. I due casi (disabile e non disabile) devono
essere trattati in maniera differente.

2.3 Classificazione delle norme giuridiche


Possono avere varie classificazioni in base a diversi parametri:
a. Contenuto
b. Derogabilità (che possono essere disapplicate di fronte altre norme)
c. Esistenza o meno della sanzione
Inoltre, le norme giuridiche vengono suddivise in due grandi categorie:
- Norme del diritto pubblico → come quelle sulla circolazione stradale, interessano la
generalità dei consociati. Pubblico inteso come generale
- Norme di diritto privato → riguardano rapporti individuali tra privati che interessano
solo quei soggetti

2.4 Entrata in vigore della legge


Ogni ordinamento segue il proprio iter, in Italia c’è la Costituzione e ai sensi dell’art. 73 in
connessione con l’art. 10 delle Disposizioni Preliminari del codice civile, ci viene detto che
una legge entra in vigore dopo aver seguito il seguente iter:
- Approvazione da parte del Parlamento
- Promulgazione da parte del Presidente della Repubblica
- Pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
- Termine della vacatio legis (periodo di tempo) di quindici giorni, per dare modo a tutti
di essere a conoscenza dell’entrata in vigore della legge.
Al termine di questo iter, la legge entra in vigore ed è obbligatoria per tutti indipendentemente
dalla sua conoscenza effettiva da parte dei destinatari. Questo principio è sancito anche dall’art.
5 del codice penale secondo cui “ignorantia legis non excusat” (l’ignoranza della legge non
scusa).

2.5 Abrogazione della legge


Consiste nella cessazione della sua efficacia, cioè quando non può più essere applicata.
L'abrogazione può essere:
- Espressa: da legge successiva o referendum abrogativo (viene chiaramente espresso)
- Tacita: per incompatibilità della legge successiva con quella precedente per il principio
di posteriorità. La legge successiva deroga quella anteriore.
- Abrogazione per dichiarazione d’incostituzionalità della norma giuridica: quando
una legge è contraria alla Costituzione perché viola un principio fondamentale; perciò,
si porta davanti alla Corte Costituzionale che rappresenta il massimo organo di
legittimità delle leggi.
Quali sono gli effetti dell’abrogazione?
Consistono nella cessazione dell’efficacia della norma e della legge: questo comporta l’obbligo
per chi è chiamato a farlo, giudice o pubblico amministratore, di disapplicare la norma abrogata
ex nunc, a decorrere cioè dal momento dell’abrogazione e di applicare la nuova se ce n’è una.
Quando una norma viene giudicata incompatibile dalla Corte Costituzionale, essa è abrogata
ex tunc, cioè viene considerata nulla con efficacia retroattiva al momento della sua entrata in
vigore, fatti salvi i rapporti già definiti in base alla legge così abrogata.

2.6 Deroga della norma giuridica o della legge


È possibile che al posto dell’abrogazione, una norma giuridica non venga applicata in casi
specifici. Questo perché esiste una deroga, c’è una regola generale e poi ci sono dei casi di
deroga che sono eccezioni alla regola. La deroga non fa cadere la legge ma fa sì che la regola
generale non sia applicabile in un caso specifico.

2.7 Irretroattività delle norme giuridiche


A parte il caso dell’incostituzionalità di una legge, l’ordinamento giuridico italiano all’art. 25
comma 2 della Costituzione, sancisce il principio generale di irretroattività della legge
soltanto in relazione a quella penale. Non è possibile che qualcuno venga incriminato perché
si è comportato in un modo che non era previsto da nessuna legge penale come reato nel
momento in cui quella persona si comportava in quel modo. “Nulla poena sine lege”. Si può
essere accusati soltanto quando la legge è entrata in vigore.

2.8 Il diritto applicabile in caso di successione di leggi nel tempo


È il problema del diritto intertemporale che si propone di stabilire quale legge, se la nuova o
la vecchia, sia applicabile ad un caso sorto sotto l’impero della vecchia ma non ancora risolto
quando è entrata in vigore la nuova legge che sostituisce la vecchia.
È possibile che nel periodo di passaggio tra una legge e l’altra, ci sia un periodo intermedio in
cui uno non sa come si deve comportare. Il problema viene risolto da una previsione contenuta
nella nuova legge che pone delle disposizioni transitorie, applicabili cioè ai casi pendenti
(cioè quei casi ancora in corso che dovevano essere decisi secondo la vecchia legge ma ne è
intervenuta una nuova).
Nel diritto penale oltre al principio della irretroattività vige anche il principio della norma più
favorevole al reo → c’è una legge in Italia che vieta il consumo di droghe leggere, se una
persona viene accusata di detenere hashish superiore a una certa quantità e nel mentre cambia
la legge, a quel punto entra in gioco la legge più favorevole al reo secondo l’art. 2 del codice
penale.

2.9 Efficacia nello spazio delle norme


Le norme giuridiche e le leggi hanno un’efficacia spaziale definita, nel senso che esse si
applicano a tutti coloro che si trovano in un certo territorio, secondo il principio della
territorialità della legge. La legge italiana si applica all’interno dei confini del territorio e a
tutti coloro che si trovano sotto la giurisdizione italiana. A San Marino e al Vaticano sono
microstati e si applicano principalmente leggi italiane ma hanno le proprie leggi.
In alcuni casi, alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, attribuiscono alle loro leggi un’efficacia
extra-territoriale, cioè al di là della sfera territoriale di loro competenza. Ciò dà luogo a
controversie giuridiche tra gli Stati coinvolti, che negano la possibilità per uno Stato di imporre
le proprie leggi ad altri Stati.
Può accadere che all’interno di uno Stato non sia possibile applicare la legge di quello stesso
Stato perché il rapporto oggetto della disciplina presenta elementi di estraneità. Ogni
ordinamento per far fronte a queste situazioni, si munisce di un sistema speciale di norme di
diritto internazionale privato. Queste norme non stabiliscono in concreto il comportamento
da tenere né regolano nella sostanza i fatti; si limitano a predisporre dei meccanismi per
consentire l’individuazione del diritto, italiano o straniero, applicabile.

2.10 Applicazione delle norme giuridiche


Applicazione importantissima nel DI perché appartiene a un ordinamento diverso rispetto a
quello italiano, bisogna capire come le norme del DI entrano nell’ordinamento italiano →
fenomeno dell’adattamento del diritto interno al diritto internazionale
Per applicazione della norma giuridica si intende la concreta realizzazione nella vita della
collettività, di quanto è ordinato dalle regole che compongono il diritto statale.
L'applicazione presenta modalità differenti a seconda che riguardi:
- Le regole sull’organizzazione: nel qual caso la loro applicazione consisterà nella
creazione degli organi e delle procedure per il loro funzionamento.
- Le regole di condotta dei consociati: nel qual caso la loro applicazione consisterà
nella concreta osservanza dei comportamenti, positivi o negativi, richiesti dalla norma.

2.11 Il controllo sull’applicazione delle norme giuridiche


Il controllo sull’applicazione delle norme dell’ordinamento ha il fine di attuare il principio di
effettività dell’ordinamento (l’ordinamento è effettivo quando le sue norme vengono
osservate).
Il principio di effettività è predisposto dal legislatore (Parlamento) che fissa preventivamente
i principi, ma è attuato materialmente dall’esecutivo (Governo) attraverso l’attribuzione a
quest’organo di poteri discrezionali nelle materie di sua competenza (discrezionalità
amministrativa).
Il controllo sulla corretta attuazione da parte dell’esecutivo delle norme giuridiche è affidato
invece al terzo potere: la magistratura, cioè i giudici.
Non si deve fare confusione tra:
- Il controllo giurisdizionale → che è il vero e proprio controllo sull’applicazione e
interpretazione della Legge, funzione autonoma e super partes affidata alla
magistratura.
- La funzione di attuazione delle norme → propria dell’esecutivo, nonostante goda di
poteri discrezionali di controllo, è pur sempre soggetto al controllo giurisdizionale dei
giudici.

2.12 L’interpretazione delle norme giuridiche


Per interpretazione della norma giuridica si intende l’operazione mediante la quale si attua un
procedimento per l’attribuzione di significato alle fonti del diritto, quando queste siano
suscettibili di diverse letture. Questo procedimento è di competenza del giudice ed è composto
da varie fasi:
1. L'esame approfondito dei fatti, accertamento: per esempio la morte di una persona.
Questo è un fatto che va specificato perché a seconda delle circostanze concrete
(accertate dal giudice) si potrà procedere all’individuazione della norma applicabile.
Un conto è la morte naturale per malattia, un altro è la morte accidentale per incidente
stradale (devo deciderlo il giudice), un altro ancora è la morte procurata da qualcuno
volontariamente, come l’omicidio. Negli ultimi due casi vale l’applicazione delle
norme del codice penale, mentre nel primo trovano applicazione le norme civili.
2. La determinazione di che cosa si vuol ottenere dall’applicazione o disapplicazione
della norma che deve essere interpretata. Nel caso della morte di una persona: gli eredi
invocheranno le norme del codice civile sulle successioni per ottenere l’eredità del
defunto oppure potranno costituirsi parte civile nel processo penale a carico del
presunto assassino per avere un risarcimento in denaro.
3. L'individuazione della norma concretamente applicabile al caso concreto sulla
base dei fatti e delle circostanze specifici di quest’ultimo. Può accadere che in relazione
ad uno stesso fatto vengano in applicazione contemporaneamente più norme.

L'interpretazione delle norme giuridiche segue tutta una serie di criteri logico-giuridici, sono
gli stessi criteri che servono per interpretare le norme del DI:
a. Il criterio della gerarchia delle fonti, la legge che ha un rango (forza formale)
superiore prevale su quella di rango inferiore. Esempio: la Costituzione prevale su una
legge ordinaria.
b. I criteri di interpretazione cronologici, come il principio di posteriorità (la legge
successiva di pari rango prevale su quella anteriore, quando le due leggi disciplinano la
stessa materia) e principio di specialità (la legge speciale, sia anteriore che posteriore,
prevale su quella generale).
c. Il principio d’interpretazione estensiva, quando si interpreta il significato della
norma da applicare nel modo più ampio (si applica nel commercio internazionale per
la similarità dei prodotti).
d. Il principio d’interpretazione analogica, disciplinare un caso che non è
espressamente previsto ispirandosi a norme che disciplinano casi simili. Un
procedimento attraverso il quale l’interprete ha la possibilità di colmare eventuali
lacune dell’ordinamento, cioè quei casi non disciplinati da alcuna norma giuridica. Per
esempio, per regolare la navigazione aerea quando non c’erano ancora norme in
materia, si potevano interpretare le norme sulla navigazione marittima. Due casi:
analogia legis (quando si estende la sfera di applicazione di una norma esistente ad un
caso non previsto) e analogia juris (quando non esiste alcuna norma neppure per un
caso simile e si ricorre ai principi generali dell’ordinamento per regolare il caso
concreto).
e. Il principio d’interpretazione restrittiva, si applica soprattutto in campo penale, in
base alla quale non si può attribuire alla norma un significato, una sfera di applicazione
più ampi di quanto espressamente essa prevede.
f. Il criterio sistematico, in base al quale la singola norma va inquadrata nel contesto
generale di una determinata disciplina in coerenza con le altre disposizioni ed
interpretata alla luce dei principi generali e degli scopi che quella disciplina si propone.
g. Il criterio d’interpretazione teleologico, che guarda oltre che al tenore testuale della
norma, al suo fine, cioè all’obiettivo che il legislatore si è proposto di raggiungere.
h. I criteri logici

3. I soggetti giuridici
Il soggetto giuridico è il destinatario delle norme giuridiche, titolare dei diritti e dei doveri sui
quali è basato il rapporto oggetto di tutela giuridica.

3.1 Le persone fisiche


Sono persone fisiche tutti gli individui, uomini o donne, nati e viventi. Negli ordinamenti
moderni vige il principio dell’universalità della personalità giuridica, che significa che non
è ammissibile porre limiti alla soggettività di alcuni o addirittura escluderla, come accadeva e
accade per gli schiavi (negli USA fino alla guerra civile) o per le donne (in alcuni Paesi
islamici) o gli appartenenti a certe minoranze (i curdi in Iraq e Turchia) o certe razze (gli ebrei
in Germania durante il nazismo).
3.2 Le persone giuridiche
La persona giuridica può essere definita come un’organizzazione di persone (associazione) o
di mezzi (fondazione), che esistono autonomamente dalle persone che le costituirono, nel senso
che hanno una propria soggettività ed una propria volontà da quella degli individui che l’hanno
costituita. Le persone giuridiche devono essere riconosciute come tali da parte
dell’ordinamento giuridico, non vale per loro il principio dell’universalità della personalità
giuridica in quanto il loro riconoscimento è subordinato all’adempimento di certi requisiti
come lo scopo lecito, determinato dalle attività che si propone di svolgere.
Le associazioni criminali non sono persone giuridiche perché non sono riconosciute dallo Stato
in quanto i loro fini sono illeciti.
Un tipico esempio di persona giuridica è la società che è soggetto cui fanno capo in genere le
attività commerciali ed industriali. Le persone giuridiche possono essere pubbliche o private
a seconda della partecipazione o meno dello Stato nella loro costruzione o nel loro patrimonio.

3.3 La capacità giuridica


È definita come l’idoneità dei soggetti (sia fisici che giuridici) ad essere titolari dei diritti
ed obblighi, tale idoneità si acquisisce al momento della nascita. Il neonato è destinatario del
diritto di essere accudito, mentre il genitore è obbligato di provvedere a lui.
3.4 La capacità di agire
È definita come l’idoneità del soggetto ad acquistare e ad esercitare da solo, con il proprio
volere, i diritti soggettivi e ad assumere obblighi. Essa si acquisisce di norma con la
maggiore età, fissata in Italia a 18 anni.

4. I fatti e gli atti giuridici


4.1 Il fatto giuridico
Sono fatti giuridici tutti gli accadimenti dal verificarsi dei quali l’ordinamento fa derivare
delle conseguenze giuridiche. Distinzione tra fatti giuridici naturali che non derivano
dall’azione dell’uomo (nascita e morte) e fatti giuridici umani quando derivano dalla volontà
dell’uomo (il matrimonio).
Il tempo è un fatto naturale giuridicamente rilevante sia nel diritto civile (per la prescrizione,
cioè l’istituto che estingue il diritto che il soggetto non fece valere per inerzia ingiustificata e
protratta) sia nel diritto penale (prescrizione dei reati se non si fa luogo all’azione penale entro
un periodo determinato dalla legge).
La fattispecie è il concetto che serve a chiarire i rapporti che intercorrono tra il verificarsi di
un fatto giuridico e la sua previsione da parte di una norma, da una parte, e tra i fatti giuridici
e le loro conseguenze, dall’altra. Distinzione tra:
- Fattispecie astratta → è il fatto previsto dalla norma giuridica, e costituisce un’ipotesi
astratta.
- Fattispecie concreta → consiste nel fatto realmente verificatosi in un determinato
momento. Quando quest’ultimo corrisponde ad un’ipotesi astratta contenuta in una
norma, allora quella norma sarà applicabile in quel determinato caso.
4.2 L’atto giuridico
Fa parte dei fatti giuridici, ma indica la volontà di agire quindi un atto giuridico è un fatto
determinato dall’azione dell’uomo.
Distinzione tra:
- Atti leciti → come ad esempio il contratto
- Atti illeciti → che sono vietati dall’ordinamento e che possono riferirsi sia al diritto
civile, che penale.
Gli atti che siano leciti o illeciti possono essere compiuti anche dalla persona giuridica.
Per atto illecito si intende ogni comportamento contrario al precetto di una certa norma
giuridica imputabile ad uno o più soggetti. Il fatto illecito si verifica in presenza di questi
requisiti:
a. Elemento soggettivo: cioè deve potersi individuare la persona che ha commesso
l’illecito oppure la persona alla quale deve poter essere possibile imputare, cioè
addebitare ad essa, le conseguenze del fatto illecito.
b. Elemento oggettivo: cioè deve potersi affermare la concreta violazione di una norma
dalla quale far scaturire la responsabilità.
c. Elemento psicologico: questo elemento attiene più alle forme della responsabilità.
d. Elemento materiale: quando è necessario, perché sorga la responsabilità, che si sia
verificato un danno materiale concreto a seguito della condotta del soggetto in
violazione di una determinata norma, nel senso che se il soggetto commise la violazione
ma non ne conseguì alcun danno, non sarà possibile considerarlo responsabile.
Inoltre, dal fatto illecito di un soggetto può derivare, a seconda della gravità della violazione,
e della norma violata, l’applicazione di sanzioni di diverso tipo, che distinguono appunto i tipi
d’illecito in:
- Penale
- Amministrativo
- Civile

4.3 La responsabilità
Secondo Hans Kelsen: “che una persona sia giuridicamente responsabile di un dato
comportamento o ne abbia la responsabilità giuridica significa quindi che essa è passibile
di una sanzione nel caso di comportamento contrario”. Aggiunge che in quel caso il
soggetto responsabile e il soggetto del dovere giuridico coincidono, anche se in alcuni casi il
soggetto titolare del dovere giuridico e quello responsabile di un comportamento contrario a
tale dovere non coincidono (un organo di una società opera in modo da causare un danno a
terzi, la responsabilità sarà della società con la distinzione tra soggetto del dovere giuridico e
soggetto responsabile).
La responsabilità può assumere diverse forme, a seconda che occorra, per considerare un
soggetto il responsabile di un illecito, che esso abbia agito o meno intenzionalmente o con
negligenza. Ci sono vari regimi di responsabilità, si parla di responsabilità oggettiva quando
sorge immediatamente dal comportamento oppure, dal fatto che non basta che si sia violata una
norma, ma occorre anche un elemento psicologico dell’intenzione-dolo-colpa, si parla quindi
di responsabilità basata sulla colpa.
Ci sono casi in cui la responsabilità è del tutto esclusa perché il mio comportamento illecito è
giustificato da un comportamento illecito altrui.

5. Lo Stato
È quell’entità astratta che si dota di un ordinamento giuridico per gestire una collettività
di individui, che sceglie di obbedire ad un determinato sistema di norme, stanziata su un
territorio. Lo Stato, quindi, può essere identificato come: popolo - Governo – territorio.
Lo Stato è considerato una istituzione sia politica (perché diretta a conseguire un fine generale)
che giuridica (perché fondato su ordinamento giuridico). Presenta inoltre i caratteri
dell'originalità* perché crea il proprio ordinamento e non lo riceve da altri; della sovranità**
perché capace di controllare le persone ed il territorio ad esso soggetti e perché non riconosce
la superiorità di nessun altro soggetto nell’ambito del proprio territorio; dell’indipendenza
perché capace di intrattenere rapporti con gli altri soggetti ad esso simili.

* il Texas non è considerato come Stato in quanto il suo ordinamento interno dipende da quello
degli Stati Uniti, questo per il D.I., mentre per il Diritto Costituzionale è considerato Stato.
** uno Stato che non controlla il suo territorio è la Libia/Siria.
Vi sono accezioni diverse del concetto di Stato:
- Stato come comunità: identifica lo Stato con il suo popolo (nazione).
- Stato come organizzazione: identifica lo Stato con l’insieme degli organi che
concorrono a formare la volontà ed a governare. Organo statale= chiunque esercita
l’attività di governo sia a livello centrale che decentrato e territoriale.
Sul piano del D.I. per considerare uno Stato come soggetto dell’ordinamento internazionale in
quanto organizzazione, servono due requisiti:
1. L'effettività del potere di governo su un certo territorio (Stato come organizzazione).
Ci sono situazioni difficili da inquadrare giuridicamente, per esempio la Libia può
essere considerata Stato se è suddivisa in 3 territori governati da 3 poteri distinti?
2. L'indipendenza del suo ordinamento giuridico da quello di altri Stati.
Non è necessario che lo Stato sia riconosciuto dagli altri Stati per poter essere considerato
soggetto del DI, per esempio Taiwan è considerata dalla Cina continentale come una provincia
ribelle e ha imposto a tutti gli altri Stati di non riconoscere Taiwan (a Roma l’unica ambasciata
presente è al Vaticano).

6. Le Organizzazioni Internazionali
Le organizzazioni internazionali sono delle unioni di Stati (vari Stati che si riuniscono e
decidono di collaborare sul piano internazionale accordandosi per conseguire scopi in comune)
che si realizzano con accordo internazionale, detto Trattato o Carta o Convenzione, per il
raggiungimento di scopi comuni. Per l’attuazione di scopi comuni l’organizzazione si dota di
organi con funzioni legislative, esecutive e giurisdizionali.
Le OI godono della soggettività internazionale come gli Stati, per cui possono intrattenere
con questi ultimi e tra loro rapporti mediante la stipulazione di accordi internazionali.
Quando una si riunisce una O.I. si dà vita ad un nuovo soggetto giuridico, che ha una propria
volontà e propri organi e si costituisce come personalità giuridica distinta da quegli Stati che
l’hanno costituita. Alcuni esempi di O.I. sono la NATO, l’ONU, l’UE...

6.1 L’ONU e gli Istituti specializzati


L'Organizzazione delle Nazioni Unite, cui partecipano tutti gli Stati del mondo (tranne la
Svizzera e Taiwan), ha fini molto generali che vanno dalla tutela della pace nel mondo a quella
dei diritti dell’uomo. È l’ente che ha sostituito la Società delle Nazioni.
Gli organi principali sono:
- Assemblea Generale
- Consiglio di Sicurezza
- Segretario Generale
- Corte Internazionale di Giustizia
Gli atti degli organi ONU sono non vincolanti, cioè sono risoluzioni che contengono
dichiarazioni di principio o raccomandazioni. In alcuni casi può adottare, nella persona dei suoi
organi, atti vincolanti per gli Stati membri come:
- Decisioni del Consiglio di Sicurezza
- Risoluzioni dell’Assemblea Generale
- Sentenze della Corte Internazionale di Giustizia

Gli Istituti specializzati sono delle OI che fanno capo all’ONU ed hanno il compito di dare
attuazione, ognuna nel settore di sua competenza, agli scopi generali dell’ONU contenuti nella
Carta. Tra questi si ricordano la FAO (Organizzazione per l’agricoltura e l’alimentazione, che
ha sede in Italia) e l’OMS (Organizzazione mondiale della sanità). Questi Istituti sono molto
attivi nel redigere norme tecniche non vincolanti molto spesso prese in considerazione dagli
Stati nella legislazione nazionale. L'UNESCO si occupa dell’istruzione, dell’educazione e
della cultura; l’UNICEF si occupa della tutela dei bambini.

6.2 L’Unione Europea


L'Unione Europea creata con il Trattato di Maastricht del 1992, è una OI che si propone fini
di integrazione economica e sociale. L'UE sostituisce e succede alla Comunità Europea (CE)
estintasi nel 2009 per effetto del Trattato di Lisbona del 2007.
L'Unione agisce con poteri legislativi vincolanti adottando atti cioè regolamenti, direttive e
decisioni, che prevalgono sulle leggi nazionali degli Stati membri.

Il Diritto Internazionale e la comunità internazionale


Il D.I. è un ordinamento giuridico, cioè un insieme ordinato di norme (regole di condotta e
organizzazione), fatto di soggetti che solo in parte coincidono con i soggetti dell’ordinamento
statale (in cui i soggetti sono tutti coloro che si ritrovano nell’ambito della giurisdizione di uno
Stato).
Il DI studia le regole che esistono tra governanti, cioè fra Stati (come organizzazione di governo
costituita da organi); ci si trova su un piano più elevato rispetto al diritto statale (regole che
vengono prodotte all’interno di una circoscrizione territoriale). Lo Stato si presenta come un
apparato organizzato verticalmente e gerarchicamente, dotato di organi che esercitano
l’autorità su tutti i soggetti. Gli organi all’interno di uno Stato, o istituzioni, sono quelli che
agiscono sul piano internazionale. In Italia:
- Parlamento
- Governo
- Presidente della Repubblica
- Magistratura
- Organi territoriali
Gli organi centrali sono quelli che si interfacciano con gli organi degli altri Stati, se bisogna
decidere quale strategia utilizzare contro Myanmar chi agisce? I capi del governo che decidono
se attuare delle sanzioni nei confronti di chi viola diritti umani.
Nel DI viene definita comunità internazionale l’insieme di enti che sono i soggetti del diritto
internazionale e che interagiscono tra di loro utilizzando proprio il D.I. Se lo Stato è organizzato
verticalmente, lo stesso non può dirsi della C.I., che si presenta invece come un insieme
composto da Stati che sono dotati di piena capacità di agire e tra di loro si trovano in rapporto
paritario, non subordinato né ordinato gerarchicamente.
I soggetti principali più importanti sono gli Stati (che agiscono attraverso i loro organi),
accanto ai quali ci sono anche le unioni di Stati (quando gli Stati decidono di collaborare per
il raggiungimento di fini comuni, stipulano degli accordi e danno vita ad un nuovo soggetto
che è l’organizzazione internazionale).
La comunità internazionale è cambiata nel tempo perché con l’evolversi delle vicende storiche
il mondo si è scoperto piano piano (scoperta dell’America, colonizzazione dell’Australia e
Nuova Zelanda). All'inizio pochi Stati (quelli imperialisti e colonialisti) erano i soggetti del
diritto internazionale, solo con la decolonizzazione a partire dal 1700 (Guerra di Secessione
americana) la comunità internazionale ha iniziato ad essere più numerosa, seguita dalle
decolonizzazioni del 1800 che hanno portato alla nascita di Stati che erano ex colonie e via via
fino ai giorni nostri.
La comunità internazionale non si è allargata solo grazie ai fenomeni di decolonizzazione, ma
anche grazie alla nascita delle OI come quella dell’ONU nel secondo dopoguerra. Oppure una
nuova fase di immissione di soggetti nel DI dopo la fine della Guerra Fredda con lo
scioglimento dell’Unione Sovietica.
Le tappe principali:
• Secoli XV-XVII: la dottrina si trova concorde nel far risalire le origini della moderna
CI a questo periodo, e più precisamente all’anno 1648, data della pace di Vestfalia che
pose fine alla guerra dei Trent’anni e vide nascere ed affermarsi le grandi potenze come
enti sovrani ed indipendenti l’uno dall’altro. Risale a questo periodo l’affermazione
della sovranità statale come assoluta, nel senso che ogni Stato non accettava di
assoggettarsi all’autorità di altri Stati o di altre autorità come il Papa o l’imperatore.
• Secoli XVII-XIX: in questo periodo si verificarono nuovi avvenimenti storici che
produssero un cambiamento nella composizione della CI: la guerra d’indipendenza
delle colonie nordamericane che portò alla creazione degli Stati Uniti, le continue
espansioni degli Stati europei verso Asia e Africa. Il colonialismo venne facilitato dal
DI attraverso la conclusione dell’Atto generale di Berlino del 1884 che determinò la
ripartizione dei vari territori asiatici e africani tra i diversi Stati europei.
• 1914-1930: un nuovo mutamento si fa risalire a due avvenimenti, lo scoppio della IGM
e la Rivoluzione russa che portò alla creazione dell’URSS. Questi determinarono il
declino dell’Europa come fulcro di relazioni internazionali e sancirono l’affermazione
di nuovi centri di potere: gli USA e l’URSS. È in questo contesto che inizia per la prima
volta a farsi strada l’idea di OI, con la creazione della Società delle Nazioni nel 1919,
che aveva come scopo quello di prevenire per il futuro il verificarsi di conflitti armati
mondiali e di limitare il ricorso alla guerra. La SdN ebbe vita breve estinguendosi a
cavallo tra la IGM e la IIGM.
• II Dopoguerra: un altro importante mutamento si ebbe a partire dal secondo
dopoguerra, con la creazione delle Nazioni Unite, OI che andava a succedere alla SdN,
e con l’avvio del processo di decolonizzazione portato avanti per tutti gli anni 50 e 60.
Accanto ai nuovi Stati si affacciano sulla scena internazionale in modo sempre più
frequente altri soggetti, le organizzazioni internazionali.
• Fine Guerra Fredda anni 90: l’ultimo importante cambiamento nella composizione
della CI risale alla disgregazione dell’URSS, della Jugoslavia e della Cecoslovacchia e
all’unificazione delle due Germanie.
Oggi la vita di relazione internazionale risulta molto più complessa che in passato, dovendo
fare i conti con equilibri politici in continuo movimento.
La dottrina definisce la moderna società internazionale come società naturale costituitasi
spontaneamente, i soggetti che la costituiscono ne fanno parte per un principio di effettività;
si sostiene inoltre che un carattere fondamentale della CI sia la sua universalità.
Un altro carattere della CI è quello di essere una comunità di coordinamento e non di
subordinazione, dove tutti gli Stati vi partecipano paritariamente e dove non esisterebbe alcuna
autorità sovraordinata (principio della sovrana uguaglianza degli Stati).
Lo Stato come soggetto del diritto internazionale. Altri soggetti e presunti
tali
In dottrina si distinguono le seguenti categorie di soggetti:
- Primari (Stati)
- Secondari (OI)
- A piena capacità (Stati)
- A capacità limitata (OI)
- Enti territoriali (Stati)
- Enti non territoriali (OI, individui)

Lo Stato
Il DI è definito come il diritto della comunità degli Stati, e le norme internazionali creano diritti
ed obblighi per questi ultimi. Lo Stato è il soggetto o destinatario delle norme internazionali o
anche membro della comunità internazionale.
Per Stato si intende una entità territoriale organizzata, in grado di esercitare il potere di governo
su di un territorio e rispetto a una popolazione; ci sono diverse concezioni di stato:
- Stato-comunità: inteso come comunità umana stanziata su di una parte della superficie
terrestre e sottoposta a leggi che la tengono unita.
- Stato-organizzazione di governo: insieme dei governanti (gli organi che esercitano il
potere di imperio sui singoli associati).
Dal punto di vista giuridico, la qualifica di soggetto del DI spetta allo Stato-organizzazione.
Sono infatti gli organi statali (tutti coloro che partecipano all’esercizio del potere di governo
nell’ambito del territorio) che partecipano alla formazione delle norme internazionali, norme
che sono dirette a disciplinare e limitare l’esercizio del potere di governo.
Gli organi statali non sono solo i poteri centrali (legislativo, esecutivo e giudiziario), ma anche
i poteri periferici (enti territoriali e locali come Regioni Province e Comuni).

Due sono i requisiti affinché uno Stato-organizzazione sia considerato soggetto del DI:
1. Effettività del potere di governo → quando si riesce mediante l’esercizio effettivo del
potere di governo a controllare politicamente un certo territorio e l’insieme di soggetti
che lo abitano.
Elemento indispensabile per stabilire l’effettività del potere di governo è il territorio, per cui
si pongono una serie di problemi relativi a situazioni che rivendicano la soggettività
internazionale:
- Governi in esilio: “enti che trasferiscono o si costituiscono sul territorio di uno Stato
alleato a seguito di invasione bellica o di conflitti interni sul territorio che intendono
governare”, la loro soggettività è messa in discussione per la mancanza di un territorio
effettivo.
- I comitati nazionali all’estero: “sono enti che assumono gli interessi di una comunità
nazionale che aspira a governare in futuro, attualmente soggetta ad un potere statale”,
per autorevole dottrina se ne deve escludere la soggettività in considerazione
dell’assenza del requisito dell’effettività non possedendo un territorio da governare. Un
esempio è l’OLP cioè Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
- I movimenti di liberazione nazionale: “enti organizzati rappresentativi di un popolo
in lotta per l’indipendenza”.
- Failed states, la cui caratteristica è proprio nella mancanza di un governo effettivo.
Stato Fallito non va confuso con fallimento economico, ma si intende solo la mancanza
di effettività, per esempio, durante una guerra civile (come la Libia).
L'altro requisito indispensabile:
2. Indipendenza o sovranità esterna → occorre che l’organizzazione di governo non
dipenda da un altro Stato. È indipendente e sovrano uno Stato il cui ordinamento sia
originario, tragga la sua forza giuridica da una propria Costituzione e non
dall’ordinamento giuridico o dalla Costituzione di un altro Stato.
In quanto difettano di questo requisito, non sono da considerare soggetti del D.I.:
- Stati membri di Stati federali: in quanto dipendono dalla Costituzione e
dall'ordinamento dello Stato federale.
- Le Confederazioni: unioni di Stati indipendenti e sovrani che perseguono scopi di
difesa e politica estera comuni.
Una sola eccezione può forse ammettersi: Il caso degli insorti. Non si può negare che nel caso
si verifichi in uno Stato un movimento insurrezionale ed il movimento riesca a creare
un’organizzazione di governo che controlli effettivamente una parte del territorio statale, ad
esso vada riconosciuta una soggettività internazionale a titolo provvisorio.
Alcuni esempi:
- Russia e Cecenia: secessione da parte di quest’ultima ma la Russia è riuscita a
reprimere l’insurrezione.
- Georgia: due province a maggioranza russofona, Abkhazia e Ossezia, con l’aiuto di
truppe russe hanno dichiarato l’indipendenza.
- Kossovo: provincia della Serbia a maggioranza albanese, ha rivendicato
l’indipendenza.
- Crimea: territorio ucraino a maggioranza russofona che ha dichiarato la secessione e
l’annessione alla Rep. Federale russa. Acquisizione territoriale illegittima ma sotto il
profilo dell’effettività è un territorio controllato dalla Russia.
- Territorio del Donetsk: scontri tra ucraini e insorti aiutati dalla Russia.

L'organizzazione di governo che eserciti effettivamente ed indipendentemente il proprio potere


su di una comunità territoriale diviene soggetto internazionale in modo automatico; non è infatti
necessario che essa sia riconosciuta dagli altri Stati. Per il D.I. il riconoscimento è un atto
meramente lecito, e meramente lecito è il non-riconoscimento poiché entrambi non producono
conseguenze giuridiche. Il riconoscimento appartiene quindi alla sfera della politica, non
rivela altro che l’intenzione di stringere rapporti amichevoli o di avviare forme più o meno
intense di collaborazione mediante la conclusione di accordi.
Il riconoscimento non è costitutivo della personalità internazionale, gli Stati preesistenti
non possono esercitare nei confronti di un altro Stato una sorta di potere di ammissione nella
comunità internazionale. Ma questi possono giudicare se lo Stato nuovo “meriti” o meno la
soggettività ancorando il loro giudizio ad un certo valore o ideologia: ad oggi si tende a ritenere
che non siano da riconoscere come soggetti del DI quei governi affermatisi con la forza, gli
Stati non democratici, non amanti della pace e che violano i diritti umani. Tuttavia, nella realtà
ciò non si è mai espresso in norme internazionali e quindi nella comunità internazionale non
mancano certo Stati minacciano la pace o violano i diritti umani.

Gli individui
La gran parte della dottrina contemporanea parla di una personalità, sia pure limitata, degli
individui, persone fisiche o giuridiche. Sempre più l’individuo può ricorrere, se non vede
riconosciuto il proprio diritto, ad organi internazionali appositamente creati; alla tutela
dell'interesse individuale si accompagna così l'attribuzione all'individuo di un potere di azione.
In poche parole: vengono considerati soggetti che sono solo destinatari di diritti e obblighi ma
non hanno nessuna possibilità di influire sulla formazione e sull’applicazione del DI, compito
che resta agli Stati.
Numerose sono anche le norme internazionali che tutelano le minoranze etniche, ma non
sembra che con ciò anche le minoranze siano considerabili soggetti di D.I.

Le organizzazioni non governative


La dottrina considera fondamentale il ruolo dei “non State actors” che risultano essere
principalmente le organizzazioni non governative (ONG), come ad esempio il WWF o
Amnesty International. Si tratta di associazioni che perseguono degli scopi della società civile
organizzata, ma non sono formate da enti che hanno soggettività internazionale.
La stessa dottrina, quindi, esclude che tali organizzazioni possano godere di soggettività
internazionale.
Le imprese multinazionali
L'impresa multinazionale può essere considerata come un soggetto unitario sotto il punto di
vista economico, mentre da quello giuridico si articola in diverse società di diversa nazionalità,
ognuna dotata di personalità giuridica in base all’ordinamento interno che le ha costituite.
Data la loro potenza economica, alcune volte superiore a quella degli Stati, esse sono in grado
di influire a livello politico su questi ultimi, determinando l’adozione di leggi poco favorevoli
alla popolazione.
Alcuni sono perciò favorevoli al riconoscimento di una limitata soggettività delle IMN, nel
senso che esse devono essere considerate direttamente responsabili a livello internazionale di
comportamenti illeciti come appena detto.

Popoli
Il popolo rappresenta una delle componenti dello Stato, nella sua concezione ternaria di popolo-
governo-territorio e in quella di Stato come comunità. Per la dottrina non è quindi considerato
soggetto di diritto internazionale, ma gode di un principio detto principio di
autodeterminazione dei popoli. Così definito: l’obbligo indirizzato al Governo straniero
che abbia occupato con la forza un territorio ed un popolo altrui o che li ha assoggetti a
dominazione coloniale, di liberare il popolo dal dominio consentendone
l’autodeterminazione.
È questo il principio di autodeterminazione nella sua dimensione esterna, che vede cioè
contrapposti un popolo ad un governo straniero. Affinché il principio sia applicabile, occorre
che la dominazione straniera, salvo il caso dei territori coloniali, non risalga oltre l’epoca in
cui il principio stesso si è affermato come principio giuridico, ossia oltre l’epoca successiva
alla fine della IIGM (irretroattività del principio di autodeterminazione).
Esempio delle colonie: perché Stati africani devono essere governati da altri Stati? Si tratta del
caso più importante di autodeterminazione, cioè obbligo dello Stato di ritirarsi e non governare
territori altrui. Ciò è successo con le varie ondate di decolonizzazione e dopo la IIGM; infatti,
il principio si è formato dopo il 1945 e sulla scorta dell’attività dell’Assemblea Generale
dell'ONU (creatasi dopo il 1945 con lo scopo di mantenere la pace nel mondo). Quindi l’ONU
promuove il principio.
Nella Carta delle Nazioni Unite c’è una norma, l’articolo 73: “I Membri delle Nazioni Unite, i
quali abbiano od assumano la responsabilità dell’amministrazione di territori la cui
popolazione non abbia ancora raggiunto una piena autonomia riconoscono il principio che gli
interessi degli abitanti di tali territori sono preminenti, ed accettano come sacra missione
l’obbligo di promuovere al massimo, nell’ambito del sistema di pace e di sicurezza
internazionale istituito dal presente Statuto, il benessere degli abitanti di tali territori” →
significa che lo Stato coloniale ha la missione di promuovere l’autonomia dei colonizzati
(autonomia diverso da indipendenza) e il benessere degli abitanti, e si enumerano i diversi
obblighi che hanno gli Stati coloniali.
Questo significa che nella Carta non c’è un principio di autodeterminazione, ma l’ONU offre
attività di assistenza tramite questo art.73.
Chi deve rispettare il principio di autodeterminazione è lo Stato come organizzazione (soggetto
di D.I.), i popoli sono beneficiari.
L'esempio più evidente è l’occupazione israeliana di territori appartenenti agli Stati confinanti
(Egitto, Siria e Giordania) dopo la nascita dello Stato di Israele.
La dimensione interna del principio deve essere definita come il diritto del popolo di
perseguire il proprio sviluppo politico, economico, sociale e culturale all’interno di uno
Stato esistente oppure diritto del popolo di essere rappresentato da una maggioranza
eletta democraticamente e liberamente. L'autodeterminazione interna è respinta da Conforti.
La differenza sta nel fatto che da un lato il popolo ha il diritto di autodeterminarsi e comporta
l’obbligo per lo Stato straniero di liberarlo, dall’altro siamo in una situazione in cui una parte
di popolo non si riconosce nella maggioranza e decide di secedere.

Le organizzazioni internazionali
Le OI sono unioni di Stati che decidono di perseguire determinati scopi comuni e si dotano di
organi ai quali affidano tale compito, in base al principio di attribuzione delle competenze detto
anche dei poteri limitati.
Le OI vengono create mediante la stipulazione di un accordo internazionale detto, trattato
istitutivo (nel caso dell’UE), oppure Carta (nel caso dell’ONU Carta delle Nazioni Unite) ma
anche Patto (Patto atlantico per la NATO).
L’OI si distingue dallo Stato poiché non ha un territorio; nel trattato si indicano quali sono gli
Stati membri, gli scopi da perseguire nonché gli organi competenti ad agire e secondo quali
principi.
Ovviamente l’OI ha bisogno di una sede, di solito si tratta di diversi edifici collocati in diversi
Stati membri. Per esempio, l’ONU ha sede a New York, Ginevra, Vienna e i suoi Istituti a
Roma e Parigi... ciò viene deciso tramite un accordo di sede, tramite il quale si decide il luogo
fisico dove l’OI andrà ad agire. Di solito tale accordo è corredato da un protocollo, in cui si
trovano privilegi e immunità dell’OI e dei suoi funzionari.
Resta da capire qual è il fondamento giuridico che attribuisce la soggettività alle OI.

La Santa Sede
È un ente del tutto indipendente dagli Stati ed attivo nell’ambito della comunità internazionale.
La sua personalità internazionale è sempre stata riconosciuta per tradizione dato che la
personalità si concreta non solo nel potere di concludere accordi internazionali, ma data
l’esistenza dello Stato della Città del Vaticano, anche in tutte le situazioni giuridiche che
presuppongono il governo di una comunità territoriale.
L’Ordine di Malta
Si tratta di un ente religioso che dipende dalla Santa Sede, la cui soggettività è stata contestata
da Conforti.
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa
Si tratta di un ente umanitario che opera con assoluta indipendenza politica, confessionale ed
economica. Vari accordi internazionali di diritto umanitario affidano a questo ente varie
funzioni e nel 1993 esso ha stipulato con la Svizzera un accordo di sede, proprio per sottolineare
la sua volontà di essere considerato un SI.
La personalità giuridica internazionale (cap. 4 Pennetta)
1. Nozione, origine della questione e rilevanza attuale
Con la nozione di personalità giuridica internazionale delle organizzazioni internazionali si fa
riferimento alla titolarità da parte di queste ultime di situazioni giuridiche soggettive – attive
e passive - nonché alla destinatarietà di diritti e obblighi nell’ambito dell’ordinamento
internazionale. Si tratta di una condizione giuridica che produce effetti erga omnes nei
confronti di tutti i consociati.
A differenza invece della personalità giuridica interna che attiene alla capacità giuridica dell’OI
di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive sul piano interno. L'OI sul piano interno
può essere istituita in vari modi all’interno dei vari paesi, a seconda dello Stato in questione,
può essere titolare di determinati diritti a seconda dell’ordinamento interno di quello Stato.
Il discorso sull’effettività e sull’indipendenza proprio degli Stati si pone in maniera differente
nei confronti delle OI, si parla quindi di “adattamento” della nozione di personalità giuridica
proprio perché viene a mancare un effettivo territorio sul quale l’OI esercita la propria sovranità
e inoltre le competenze sono limitate da quelle che vengono attribuite dagli Stati membri
attraverso trattati istitutivi o altri atti.
La questione della personalità giuridica delle OI emerge con la nascita della Società delle
Nazioni nel 1919, OI istituita alla fine della IGM che aveva la funzione di mantenimento della
pace, ma fallì con lo scoppio della IIGM. Al termine della quale fu sostituita da una nuova
organizzazione, l’Organizzazione delle Nazioni Unite con la Carta di San Francisco.
Con la SdN si pone per la prima volta in maniera rilevante il problema dell’accertamento della
personalità giuridica internazionale di un’OI. Perché prima del 1919 c’erano dei fenomeni
aggregativi, unionali di Stati ma si erano finalizzati al convocare conferenze, svolgere attività
comuni... caratterizzate da decisioni assunte all’unanimità.

2. Il (determinante) contributo della giurisprudenza internazionale e interna


La normativa internazionale applicabile alle OI è abbastanza scarna perché il tema delle OI per
lungo tempo non ha avuto rilievo, né in dottrina né nella prassi. Alla luce di questa esiguità
della normativa internazionale che regolamenta il funzionamento delle OI, un rilievo
importante l’ha avuto la prassi.
Bisogna menzionare un parere del 1949 della Corte Internazionale di Giustizia, noto come
Parere sulla Reparation che riguardava la riparazione per i danni subiti al servizio delle NU
le quali erano state istituite da poco e venne a porsi all’attenzione della CIG una questione
relativa alla risarcibilità dei danni. La Corte introduce un approccio di tipo funzionalistico che
costituisce il punto di arrivo sul quale concorda la dottrina più recente.
La CIG faceva presente che quando si verte sulla PGI di una OI bisogna vedere se l’OI è dotata
di organi, quali sono i compiti che le sono attribuiti, se ci sono compiti specifici, se vi è la
possibilità di stipulare accordi internazionali tra le diverse organizzazioni o tra l’organizzazione
e gli Stati membri. Inoltre, metteva in luce come tutti questi elementi fossero presenti nella
Carta delle Nazioni Unite, e che quindi confermava tali caratteri.
Ancora da parte della CIG ci sono stati altri pareri, come quello del 1954 sugli effetti delle
sentenze di indennizzo del Tribunale amministrativo delle NU. Un altro del 1962 sulle spese
delle NU, un altro precedente del 1951 relativo alla possibilità di qualificare la World Health
Organization (OMS) come soggetto di DI oppure no. Si tratta dei principali pareri emanati dalla
CIG durante quel periodo.
Un altro importante parere è quello del 1996 sulla liceità dell’uso delle armi nucleari durante
un conflitto armato, la Corte si pronunciava in maniera da non condannare il loro estremo
utilizzo laddove fosse necessario per la sopravvivenza di uno Stato, come misura difensiva
estrema. La CIG viene a toccare il tema delle OI e della loro personalità e pone in rilievo
l’importanza delle competenze attribuite alle organizzazioni, mettendo in luce come
determinate competenze possono essere attribuite nell’atto istitutivo.
Nuovamente la Corte torna a toccare il tema delle OI nella sentenza Argentina v. Uruguay,
viene a pronunciarsi sulla sussistenza della PGI in capo a un ente che si sarebbe dovuto
occupare di tutelare il fiume Uruguay e regolamentare la questione tra i due Stati, escludendo
quindi in questo caso la PG in capo a questo ente.
Importante è anche la giurisprudenza formatasi in Italia: nella sentenza del 1931 la Corte di
Cassazione affermava la soggettività internazionale dell’Istituto internazionale di Agricoltura
(precedente della FAO).
Nel caso Galasso v. Istituto italo-latino-americano la Corte torna a occuparsi della questione
della soggettività delle OI mettendo in luce l’importanza dell’esistenza di organi comuni,
organi sociali... affronta vari aspetti relativi alla personalità giuridica.
Nel 2005 una pronuncia della Corte Suprema in cui sottolinea che l’attribuzione della
personalità giuridica a un OI non è sufficiente ad equiparare quest’ultima a uno Stato e lo
afferma con riferimento alla questione dell’immunità dalla giurisdizione dell’OI.
Questo è il quadro della prassi giudiziaria della CIG e delle importanti pronunce emanate dalla
corte di Cassazione italiana.

3. L’apporto dottrinale in merito alla definizione del fondamento della personalità


internazionale delle organizzazioni internazionali
Si devono distinguere tre orientamenti principali:
1. Tesi soggettivistica: viene attribuito particolare rilievo alla volontà degli Stati di dare
vita ad un’OI come entità distinta e autonoma rispetto a loro, come espresso nel trattato
istitutivo. L’obiezione principale si dirige verso il fatto che la volontà manifestata da
parte degli Stati non sarebbe sufficiente a istituire un’organizzazione che abbia una PGI
che quindi spieghi i propri effetti nei confronti dell’intera CI. La Commissione del DI
dell’ONU si è espressa contraria a questa obiezione.
2. Tesi oggettivistica: secondo questa tesi la PGI delle OI prescinde dall’elemento
volontaristico, ma ruota intorno alla verifica del fatto che l’organizzazione agisce in
maniera autonoma rispetto agli Stati membri, ossia se sia dotata di organi propri in
grado di esprimere una volontà imputabile all’organizzazione stessa e non ai suoi
membri nelle sue relazioni internazionali. L'obiezione mossa a questa tesi è che non
bisogna dimenticare che l’OI è un soggetto derivato, che non è originario come gli Stati
ma nasce in un’attribuzione di poteri che viene dagli Stati o da altre OI.
3. Tesi funzionalistica: mette insieme gli aspetti delle precedenti tesi. Ad oggi è
l’approccio prevalente. È bene che ci sia un accordo istitutivo ma non è sufficiente per
considerare sussistente la PGI dell’OI; la personalità internazionale deve essere
accertata dal concreto atteggiarsi dell’organizzazione nei confronti degli altri soggetti
del DI e viceversa; in più, viene ricondotto alla sfera più bassa l’eventuale
riconoscimento dell’OI ad opera di Stati terzi, un riconoscimento soltanto dichiarativo
e non costitutivo.

4. I requisiti minimi per la sussistenza della personalità giuridica internazionale


I requisiti minimi per la sussistenza della PGI dell’OI si ravvisano:
- nell’esistenza di un apparato istituzionale che sia permanente e consistente;
- nell’imputazione degli atti che vengono emanati dagli organi dell’organizzazione all’OI
e non agli Stati membri;
- altro requisito, che però da solo non è sufficiente, è quello dell’esistenza di un trattato
istitutivo dell’organizzazione stessa.

5. I contenuti della PGI e i suoi indicatori


La maggior parte dei diritti e obblighi che fanno capo alle OI presenta natura convenzionale,
sono poche le norme consuetudinarie.
Gli indicatori sono elementi dai quali si può evincere l’esistenza di una PGI in capo a un
determinato ente, sono di contenuto variabile.
a. La capacità di concludere accordi internazionali depone per il possesso della
qualifica di personalità giuridica internazionale per le organizzazioni internazionali.
Questo aspetto viene menzionato nella Convenzione di Vienna del 1986, nell’art. 6 si
prevede che “la capacità di concludere accordi è disciplinata dalle regole delle singole
organizzazioni internazionali”.
b. La partecipazione dell’OI alla creazione di norme internazionali, sia
consuetudinarie sia convenzionali. Come esplicato dalla CEE nel processo di
formazione della norma consuetudinaria che riconosce agli Stati la facoltà di istituire
zone economiche esclusive.
c. La capacità dell’OI di agire a livello internazionale per far rispettare un
determinato obbligo, e eventualmente richiedere la riparazione per i danni subiti.
d. Il diritto di legazione attiva e passiva, ossia la possibilità di intrattenere relazioni
diplomatiche in forma stabile con altri soggetti di diritto internazionale.
e. La capacità dell’OI di emanare atti unilaterali che abbiano rilievo per il DI.
f. La possibilità di partecipare a procedure giudiziarie internazionali e la risoluzione
delle controversie di cui l’organizzazione è parte.
g. La possibilità dell’organizzazione di partecipare ad altre OI.
h. Il godimento di privilegi e immunità per l’OI ed i suoi funzionari al fine di garantire
ad essi l’autonomia necessaria all’esercizio delle funzioni.

Le competenze delle organizzazioni internazionali (cap. 5 Pennetta)


Per poter affrontare lo studio delle competenze delle OI sono necessarie due precisazioni:
1. È opportuno distinguere i termini di competenza e di potere. Il primo viene usato per
indicare le materie e gli ambiti nei quali l’organizzazione svolge la propria attività;
il secondo viene usato per definire, in relazione alle varie competenze, gli strumenti di
cui essa può disporre, ovvero gli atti giuridici che può emanare e/o le attività che
può svolgere. È indubbio che i due termini identifichino concetti strettamente legati e
imprescindibili l’uno dall’altro, considerato che i poteri rendono le competenze reali ed
effettive e misurano l’intensità con cui queste ultime devono essere esercitate. Spesso,
inoltre, tra competenze e poteri esiste un rapporto inversamente proporzionale nel senso
che più un’O ha competenze ampie, meno dispone di poteri incisivi per esercitarle e
viceversa. Esistono delle eccezioni tra cui la più rilevante è l’UE.
2. Ciò che verrà trattato di seguito assume maggiore rilevanza nelle O a struttura più
complessa, ovvero dotate di competenze proprie che esercitano in modo autonomo
rispetto agli Stati membri. A maggior ragione in quelle che, come l’UE, aspirando a
una integrazione sempre più stretta tra gli Stati membri, esercitano le proprie
competenze al posto di questi ultimi.

1. I principi regolatori delle competenze


Gli Stati, in quanto enti sovrani, possiedono a titolo originario (ovvero non conferito da altri
soggetti) qualsiasi competenza essi decidono di esercitare per perseguire un dato fine. Le OI
invece, data la loro natura di enti derivati e funzionali:
- Possono esercitare solo le competenze che gli Stati che le hanno create hanno conferito
loro, entro i limiti dei poteri concessi.
- Possono farlo solo allo scopo di perseguire le finalità dell’organizzazione stessa (di
solito indicate nel trattato istitutivo).
Quanto affermato si sostanzia nei due principi che si pongono a fondamento delle competenze
di qualsiasi OI: principio di attribuzione e di specialità.

1.1 I principi di attribuzione e specialità


Nello stabilire che le OI possono esercitare solo le competenze che gli Stati hanno conferito
loro, il principio di attribuzione evidenzia che siffatte competenze, rimangono sempre
naturalmente limitate.
Il principio di specialità, invece, precisa che le competenze attribuite devono essere esercitate
in modo da perseguire le finalità dell’organizzazione.
Viene precisato che a volte questi due principi vengono sovrapposti, nel senso che vengono
trattati senza operare una specifica distinzione. A questo proposito, viene menzionato un primo
caso nel quale viene fatto cenno ai principi di attribuzione e specialità: un atto della Corte
Permanente di Giustizia Internazionale del 1927, organizzazione istituita prima della CIG, nel
cui parere i due principi vengono sovrapposti.
(CIG → organo dell’ONU che si occupa di risolvere le controversie tra Stati e di pronunciare
pareri consultivi)

1.2 Il principio di sussidiarietà


Regola l’esercizio del potere tra livelli diversi di autorità per determinare quale livello possa
raggiungere gli obiettivi di una determinata azione nel modo più efficiente. In questo senso,
l’azione del livello più alto risulta giustificata solo se gli obiettivi perseguiti non possono essere
realizzati ugualmente a un livello più basso e se essa non interferisce inutilmente con l’autorità
di quest’ultimo.
L'idea è che quella che una determinata misura dovrebbe essere adottata nel livello di governo
più vicino a quel contesto di riferimento, se c’è da adottare una misura per la tutela di una città
l’idea del principio di sussidiarietà è che dovrebbe essere il Comune a risolvere quel
determinato problema; soltanto laddove l’ente più vicino non ha i poteri, interviene un’autorità
di governo più alta.
L'esempio più noto è quello dell’UE. Nel Tratto sull’Unione Europea (TUE) si prevede che
nelle materie in cui l’Unione non ha la titolarità esclusiva essa possa esercitare la propria
competenza “soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere
conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né regionale...”. così
come formulato il principio tende a privilegiare gli Stati membri e a relegare l’Unione in un
ruolo sussidiario.
Strettamente legato a questo principio, c’è il principio di prossimità in base al quale le
decisioni devono essere assunte il più vicino possibile ai cittadini. A loro volta sono legati al
principio di proporzionalità, l’intervento dell’OI deve avere contenuto e forma il più
possibile limitata a quanto strettamente necessario per il raggiungimento degli obiettivi e
finalità attribuiti all’OI in questione.
I rapporti tra Stato e OI sono regolati sulla base di questi principi.

2. Le modalità di attribuzione delle competenze


Per individuare in concreto le competenze attribuite a un'organizzazione internazionale bisogna
fare riferimento alle disposizioni del suo atto istitutivo. Ciò comporta una varietà di situazioni
che difficilmente può essere ricondotta a modelli predefiniti.
Di regola le competenze sono attribuite secondo un approccio funzionale, ovvero devono
essere ricostruite partendo dai fini dell'organizzazione stessa.
In quelle poco evolute e specialmente nelle soft organizations, in cui tutte le competenze
rimangono sostanzialmente nelle mani degli Stati, spesso i fini sono indicati in modo generico
rendendo di conseguenza anche le competenze molto vaghe. In questo senso, l'attività di
attribuzione delle competenze si trasforma in una sorta di processo permanente che gli Stati
membri continuano anche dopo la nascita dell'organizzazione stessa, attraverso l'approvazione
di documenti di varia natura oppure, in modo più pragmatico, stabilendo di volta in volta gli
argomenti di cui occuparsi. Una volta che un'organizzazione inizia ad occuparsi di una materia
di un settore essa tende ad acquisire stabilmente la relativa competenza, potendo così nel tempo
accrescere sempre di più la propria rilevanza.
Più definite sono invece le competenze di quelle forme organizzative che vengono create
nell’ambito di accordi internazionali vertenti su temi d’interesse globale. L'ambito materiale di
attività di queste organizzazioni, denominate Treaty Organizations, coincide necessariamente
con l’oggetto dell’accordo che le ha create, anche se non è raro che gli organi che le devono
gestire godano di ampi poteri d’azione.
Anche organizzazioni evolute (ovvero dotate di una volontà autonoma rispetto agli Stati
membri) possono avere competenze definite in modo ampio e generico, rendendo così
particolarmente complesso circoscrivere gli ambiti entro cui esse sono chiamate a svolgere le
loro attività.

3. Le clausole limitatrici delle competenze


3.1 Le clausole sulla domestic jurisdiction
Per le OI più evolute può nascere il problema di evitare che le loro attività vadano ad incidere
in ambiti che gli Stati considerano di propria competenza esclusiva. A tale scopo, spesso negli
atti istitutivi di tali organizzazioni sono inserite clausole che si riferiscono alle competenze
in modo negativo, al fine cioè di escludere settori o materie.
La clausola a cui si ricorre più spesso è quella sulla domestic jurisdiction (dominio riservato),
il cui scopo è fornire garanzie ulteriori rispetto a quelle già insite nel principio di attribuzione
e che le competenze dell’organizzazione non possano essere interpretate in modo da interferire
con l’esercizio delle competenze rimaste agli Stati.
Una clausola del genere si ritrova nell’art. 2 par. 7 della Carta NU in cui si prevede che “nessuna
disposizione del presente statuto autorizza le NU a intervenire in questioni che appartengono
essenzialmente alla competenza interna di uno Stato”. Tale clausola è stata prevalentemente
interpretata come clausola che regola i rapporti tra l’organizzazione e i propri membri, agendo
come limite all’attività della prima per quegli ambiti considerati rientrare nella competenza dei
secondi.
Caratteristica della clausola è l’indeterminatezza della loro esatta portata e del loro preciso
contenuto, non c’è unanimità rispetto a quali attività risultino precluse all’organizzazione nelle
materie per le quali viene invocata la clausola.
Nel tempo, la dinamica delle relazioni internazionali ha portato a una progressiva contrazione
della domestic jurisdiction e a una crescente internazionalizzazione anche delle materie
elencate.

3.2 Le clausole che contengono eccezioni e deroghe


Quando l’organizzazione presenta competenze specifiche in determinati settori, ha un
maggiore livello di complessità e autonomia, l’inserimento di clausole generiche quali quelle
del rispetto della domestic jurisdiction risulta poco efficace.
Può invece essere più utile prevedere altri tipi di clausole che, definiscano in modo più puntuale
i confini tra la sfera di competenze dell’organizzazione e quella degli Stati membri
contribuendo anche a prevenire e risolvere sovrapposizioni e conflitti.
Le clausole a cui si fa riferimento possono essere di due tipi:
- Riserve di sovranità (clausole di delimitazione): destinate a escludere espressamente
e permanentemente dall’ambito di competenze dell’organizzazione determinati settori
o materie, in modo che questi non possano venire in alcun modo “toccati” anche
laddove se ne presentasse l’occasione. Oggetto di tali clausole sono di solito materie
particolarmente sensibili per gli Stati, quali la salvaguardia della salute, dell’ambiente
o la sicurezza nazionale, interna e esterna.
- Clausole derogatorie (clausole di salvaguardia): incidono su singoli poteri d’azione
previsti dai trattati istitutivi trasferendone temporaneamente la titolarità a uno o più
Stati membri affinché questo o questi, in presenza di determinate circostanze, possano
utilizzarli per salvaguardare specifici interessi nazionali riconosciuti dalla stessa
organizzazione meritevoli di tutela.

4. La dinamica delle competenze


L'attribuzione delle competenze non si esaurisce al momento della loro costituzione, ma
continua anche dopo l’inizio dell'attività. Ciò significa che il sistema di competenze di
un’organizzazione muta nel tempo, gli Stati membri possono ritenere necessario ampliare gli
ambiti d’attività ma anche ridurli, non è infatti escluso che durante la sua vita
un’organizzazione perda alcune competenze.
Un'espansione di competenze richiede che siano vinte resistenze da parte degli Stati membri, i
quali possono temere crescenti limiti alla loro autonomia e sovranità.
Queste dinamiche evidenziano la vitalità, nonché il successo, dell’organizzazione, oppure, al
contrario, possono certificarne il declino fino alla possibile estinzione.
Nelle organizzazioni maggiormente formalizzate, il metodo più naturale per modificare il
sistema di competenze è procedere alla modifica dell’atto istitutivo, seguendo le disposizioni
che disciplinano le procedure di revisione.
In alternativa, la prassi può giocare un ruolo determinante nel garantire un processo di
aggiustamento delle competenze più costante e tempestivo. Un esempio è l’art. 2 par. 7 della
Carta NU, che nel tempo è stato applicato e quindi interpretato in modo sempre più ristretto, in
conseguenza di una spinta della stessa organizzazione a intaccare i limiti fissati da quella
disposizione per salvaguardare in modo più efficace i propri valori.
La modifica delle competenze dell’organizzazione può anche essere il risultato dell’operato
degli organi (o degli Stati membri), se questi scelgono di privilegiare in modo particolare
determinati settori a discapito di altri. Caso estremo è quello in cui tutte le competenze attribuite
dall’atto istitutivo all’organizzazione non vengano più esercitate, tanto da far entrare l’O stessa
in una specie di letargo che può portare alla sua estinzione.

5. I poteri impliciti
Un discorso a parte meritano i poteri impliciti quale possibile ulteriore strumento per estendere
l’ambito di attività di un’OI.
Si tratta di una deroga al principio di attribuzione di competenze.
La teoria dei poteri impliciti trova origine del diritto costituzionale degli Stati Uniti, e in
particolare, nell’interpretazione data dalla Corte suprema dei rapporti esistenti tra Stato centrale
e Stati federati. Essa è stata formalizzata nel 1819, nella famosa sentenza McCulloch v.
Maryland, che ha stabilito che il Governo federale per poter esercitare le proprie competenze
possa ricorrere non solo ai poteri che gli sono stati esplicitamente attribuiti dalla Costituzione,
ma anche a tutti quelli che, benché non espressamente previsti, risultino tuttavia necessari per
svolgere adeguatamente i suoi compiti e sempreché tali poteri non gli siano espressamente
preclusi da specifiche disposizioni costituzionali.
La formulazione della teoria dei poteri impliciti presumeva un collegamento diretto tra una
singola competenza espressa e i poteri implicitamente ricavabili da essa; nel senso che i secondi
dovevano essere strumentali all’esercizio della prima.
Nell'accezione più ampia la teoria dei poteri impliciti, giustifica l’attribuzione di ulteriori poteri
all’organizzazione e non di nuove competenze in senso materiale.
Questa teoria dei poteri impliciti alle OI si giustifica per due ragioni:
- È impossibile che l’atto istitutivo possa descrivere in modo preciso e dettagliato tutti
gli specifici poteri dell’ente che sta creando.
- È impossibile che gli Stati fondatori riescano a prevedere nel suddetto atto istitutivo
tutti i poteri che si renderanno necessari per l’organizzazione in un futuro comunque
incerto.
Il ricorso a tale teoria presuppone però che vengano rispettate due condizioni:
1. I poteri impliciti devono essere invocati per perseguire un determinato obiettivo solo se
mancano poteri esplicitamente attribuiti a tale scopo.
2. I poteri impliciti invocati devono essere riconosciuti come necessari per permettere
all’organizzazione di svolgere le sue funzioni.
Le competenze applicate al caso dell’Unione Europea
L'UE è un’OI a metà con lo Stato federale, con una competenza legislativa derivante dal
trasferimento di poteri sovrani che normalmente le altre OI non hanno. Alcune materie sono
regolate esclusivamente dall’UE in base al principio di sussidiarietà, tramite cui le materie che
sono di competenza concorrente diventano di competenza esclusiva dell’UE.
Nel Trattato sull’Unione Europea distinzione tra:
- Delimitazione delle competenze fra Stati e Organizzazione (ripartizione verticale):
riguarda il confine fra quello che possono fare gli organi dell’O e ciò che invece resta
nella sovranità degli Stati; ciò serve a circoscrivere i poteri d’azione
dell’organizzazione. La delimitazione agisce attraverso il principio di attribuzione,
permette di limitare in base alla volontà degli Stati membri (signori del trattato
istitutivo) dell’organizzazione, i poteri dell’organizzazione stessa.
- Esercizio delle competenze: in un’OI classica una volta delimitate le competenze con
il principio di attribuzione, di rado ha poteri vincolanti normativi (non hanno potere di
emanare atti vincolanti che vanno a sostituirsi alle leggi statali). Al contrario l’UE ha
un regolamento che è una legge immediata che va a inserirsi nell’ordinamento statale
andando a sostituire la disciplina nazionale.
Unione Europea attuale: 27 Stati membri (il 28 era il Regno Unito). L'Italia è stata una dei padri
fondatori di quella che è considerata l’antenato dell’attuale UE; la Comunità Europea si è
estinta nel 2009 con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che ha modificato il sistema
precedente e ha conferito all’Unione lo status di successore.
L'UE è un’organizzazione che ha una disciplina in materia di ripartizione delle competenze
molto interessante perché ha dei grossi poteri d’azione vincolanti: come la possibilità di
adottare norme che toccano tutti i cittadini di tutti i 27 Stati in ogni aspetto della vita quotidiana.
Tutto ciò che circola all’interno dei territori deve portare il marchio CE (Conformità Europea).
All'art. 5 del TUE sono illustrati i principi di ripartizione delle competenze fra Stati membri e
Unione.
(vedere sul TUE)

Le fonti del diritto in Italia


La fonte è il testo della legge; le fonti del diritto in Italia sono costituite da due grandi gruppi
di norme:
a. Interne: cioè quelle adottate dal Parlamento o dal Governo secondo le norme della
Costituzione.
b. Internazionali: che provengono da un procedimento di formazione diverso da quello
adottato per le leggi interne, in quanto sono il risultato della volontà di più Stati e non
solo dello Stato italiano e dei suoi organi.
Le fonti interne
La fonte fondamentale è la Costituzione italiana, è di rango superiore poiché ha una forza
giuridica formale più forte delle altre leggi. La Costituzione detta le regole per la formazione
delle altre leggi interne, sia costituzionali che ordinarie, sia fatte dal Parlamento che dal
Governo, sia detta alcune norme per l’introduzione delle fonti internazionali nell’ordinamento
interno.
Per quanto riguarda le norme poste dal potere centrale:
- Leggi ordinarie: emanate dal Parlamento
- Atti aventi forza di legge: adottati dal Governo, come i decreti-legge (in caso di
necessità e urgenza) e i decreti legislativi delegati (fondati su una legge del Parlamento
che dà i cosiddetti principi di delega, mentre la normativa di dettaglio affidata al
Governo).
- Regolamenti del Governo: atti normativi subordinati alle leggi, servono per
provvedere alla concreta attuazione dei principi sanciti nelle leggi ordinarie. Possono
essere ministeriali o presidenziali (non si trovano allo stesso livello delle leggi
ordinarie, ma sono subordinate).
Esistono poi leggi e regolamenti degli enti territoriali:
- Leggi regionali, provinciali e comunali: ci sono un Consiglio regionale con la Giunta
regionale che legiferano. Queste leggi regionali (+ quelle delle province autonome di
Trento e Bolzano) hanno lo stesso valore giuridico delle leggi ordinarie con le quali si
devono coordinare, si tratta di un criterio di competenza e ciò significa che laddove è
competente lo Stato, è l’ente regionale che non può adottare leggi (e viceversa). Quando
invece le materie sono di competenza concorrente, bisogna ricorrere al principio di
sussidiarietà.
- Regolamenti di altre autorità
All'ultimo posto troviamo gli usi e le consuetudini perché è difficile che venga applicato
qualcosa di non scritto in un testo di legge perché siamo in un ordinamento avanzato in cui
sono presenti organi legislativi.
Quindi la gerarchia sarà:
1. Costituzione e leggi costituzionali
2. Leggi ordinarie, che comprendono quelle del potere centrale ossia le leggi emanate dal
Parlamento e gli atti del Governo, sia le leggi degli enti territoriali.
3. Atti regolamentari del Governo, consuetudini e regolamenti di altri enti locali.

Le fonti internazionali
L'Italia, oltre ad essere essa stessa un ordinamento giuridico, fa parte, assieme a tutti gli Stati
del mondo ed alle OI, dell’ordinamento internazionale, che possiede proprie regole giuridiche
che servono a regolare i rapporti degli Stati tra loro e con le OI.
Il DI può essere detto essere “primitivo” poiché manca di un’organizzazione gerarchica; infatti,
non ci sono governati e governanti, ma ci sono gli Stati che hanno uguale rilievo grazie al
principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati.
Le fonti del DI sono diverse rispetto all’ordinamento interno italiano:
- La fonte principale è la consuetudine, al contrario dell’ordinamento interno italiano in
cui la troviamo all’ultimo posto.
- Poi abbiamo l’accordo, o trattato, o convenzione, internazionale.
- Infine, ci sono le fonti previste da accordo, sono fonti di terzo grado perché derivate
dall’accordo.
Per quanto riguarda la funzione normativa, occorre distinguere tra diritto internazionale
generale e diritto particolare, cioè tra le norme che si indirizzano a tutti gli Stati e a quelle
che vincolano una ristretta cerchia di soggetti, di solito quelli che hanno direttamente
partecipato alla loro formazione.
Tra le norme generali ritroviamo la consuetudine, mentre le tipiche norme di diritto
internazionale particolare sono quelle poste da accordi (o patti, o trattati o convenzioni)
internazionali che vincolano solo gli Stati contraenti. Altra fonte di diritto internazionale
particolare sono i procedimenti previsti da accordi, o fonti di terzo grado.

Il diritto internazionale generale: la consuetudine


L'art. 38 par. 1 lettera b dello Statuto della CIG definisce la consuetudine internazionale come
prova di una pratica generale accettata come diritto. Ciò significa che la consuetudine
internazionale ha efficacia generale, cioè è applicabile nei confronti di tutti gli Stati ed i soggetti
del DI, a prescindere dal fatto che abbiano o meno partecipato al suo processo di formazione.
Si dice quindi che la consuetudine spiega la sua efficacia erga omnes.
La consuetudine nasce da un comportamento spontaneo, nasce quindi dai fatti, dalla necessità
di comportarsi in un certo modo, e non da un atto di volontà come una norma scritta. Anche se
il carattere spontaneo della consuetudine è stato contestato dalla dottrina, secondo la quale
l’evoluzione tecnologica ha fatto sì che gli Stati e gli altri soggetti del DI sono in grado di
esprimere e comunicare in tempo reale le loro posizioni, che costituiscono quindi veri e propri
atti di volontà coscienti, pertanto non si potrebbe parlare più di formazione spontanea.
La consuetudine è formata da due elementi:
1. La diuturnitas: la prassi, cioè la pratica costante e uniforme nel tempo nonché deve
essere rilevato che tale comportamento è seguito dalla maggior parte dei soggetti della
CI.
2. L'opinio juris sive necesitatis: cioè la convinzione non solo della necessità sociale ma
anche dell’obbligatorietà del comportamento costante e uniforme.
La dottrina meno recente riteneva che affinché si formasse una consuetudine fosse sufficiente
la rilevazione dell’elemento della prassi costante ed uniforme; mentre ammettere anche
l’obbligatorietà di tale comportamento dal principio avrebbe significato fondare la norma
generale su un errore. Questo perché la consuetudine nasce da comportamenti spontanei, che
all’inizio, non possono essere considerati già come obbligatori poiché occorre che la pratica si
consolidi nel tempo come uniforme e costante. Questa era la visione della cosiddetta tesi
monista.
A questa tesi però si oppone la tesi dualista, che considera tutti e due gli elementi formativi
della consuetudine come indispensabili. All'inizio è vero che il comportamento non può essere
già considerato come obbligatorio; tuttavia, l’espressione latina completa (opinio juris sive
necesitatis) indica che risulta sufficiente che all’inizio vi sia soltanto la convinzione della
necessità sociale di un certo comportamento e non della sua integrale obbligatorietà.
La CIG si è pronunciata a favore della tesi dualista in un’importante sentenza del 20 febbraio
1969 nel caso della Delimitazione della piattaforma continentale nel Mare del Nord, in cui si
è espressamente detto che affinché si formi una norma consuetudinaria devono
necessariamente essere entrambi gli elementi.
La dottrina considera l’opinio juris un elemento indispensabile ai fini della formazione di una
consuetudine, per tre motivi principali:
1. È l’unico elemento che permette l’interprete di distinguere norme consuetudinarie
da norme di cortesia non vincolanti. Significa che esistono delle norme di cortesia,
per esempio nel diritto della navigazione è buona norma issare la bandiera dello Stato
che si sta attraversando, ma se ciò non viene fatto non comporta alcuna conseguenza,
questo perché non è una consuetudine, ma solo una norma di cortesia; perciò, non viene
considerato come illecito dagli altri Stati.
2. Inoltre, serve a distinguere norme consuetudinarie da quelle convenzionali, cioè
quelle contenute in accordi internazionali. Un certo comportamento contenuto in una
norma convenzionale e ripetuto in un numero rilevante di accordi sulla stessa materia
non prova automaticamente che esso corrisponde ad una norma consuetudinaria, ma è
frutto della volontà degli Stati.
3. L'elemento cosiddetto psicologico serve per distinguere comportamenti illeciti da
comportamenti evolutivi. Significa che un comportamento diverso da parte di uno
Stato, prima di essere considerato violazione della consuetudine e quindi un illecito,
può costituire un comportamento che anticipi la formazione di una nuova norma
consuetudinaria, contribuendo così all’evoluzione di quella esistente. Quindi gli organi
statali possono violare il DI se dimostrano di farlo a fini evolutivi, per una necessità
sociale, e non per commettere un illecito. Ciò dipenderà dall’opinio degli altri Stati.
(Un esempio di quest’ultimo caso: l’Italia spinge per modificare una norma consuetudinaria,
cioè la consuetudine stabilisce che giudici italiani non possono citare in giudizio altri giudici
stranieri, questo dal principio di sovrana uguaglianza degli Stati dal quale deriva il principio di
immunità dello Stato dalla giurisdizione di un altro Stato poiché uno Stato non è mai uguale a
un altro, per cui non può essere giudicato. La Germania non è chiamata a rispondere davanti a
un giudice italiano delle azioni effettuate in territorio italiano durante il periodo nazista. Ma
l’Italia vuole cambiare questa consuetudine, perciò ha cominciato a chiamare in giudizio la
Germania per risarcire le vittime del regime nazista. Dal canto suo la Germania ha accusato
l’Italia di comportamento illecito perché la norma consuetudinaria viene violata (non si può
chiamare in giudizio uno Stato straniero). La Corte Internazionale ha però dichiarato che il
presupposto evolutivo non c’è quindi il comportamento dell’Italia rimane un illecito (non viene
seguito da altri Stati poiché tutti temono possibili ripercussioni future, soprattutto per le azioni
commesse durante il periodo coloniale).

Per quanto riguarda l’elemento della diuturnitas va avvertito che il tempo di formazione della
consuetudine non si presta a soluzioni precise e univoche; alcuni hanno proposto la tesi delle
cosiddette consuetudini istantanee, ritenendo che il ruolo del tempo nella formazione del primo
elemento della consuetudine, ossia la pratica costante nel tempo, non sia sempre indispensabile.
Conforti si esprime in senso critico affermando che il tempo può essere tanto più breve quanto
più diffuso e che le consuetudini istantanee sono una contraddizione poiché non possono
generare norme giuridiche data la mancanza del carattere della stabilità che è insito nel diritto
non scritto.

Quali organi dello Stato concorrono nel procedimento di formazione della norma
consuetudinaria?
Si riconosce generalmente la possibilità di partecipazione da parte di tutti gli organi statali e
non dei soli organi detentori del potere esterno. Secondo Conforti, alla formazione della
consuetudine, concorrono sia atti esterni come la conclusione di accordi, scambi di note
diplomatiche, prese di posizione... sia atti interni quali sentenze dei giudici nazionali, leggi
dei Parlamenti nazionali e dei Governi, atti amministrativi...

Nuovi Stati e obiettore persistente


La consuetudine crea diritto generale e come tale ha efficacia erga omnes, si impone quindi a
tutti gli Stati, abbiano o meno questi partecipato alla sua formazione. Il problema che si pone
è il seguente: gli Stati sorti dopo la formazione di una certa consuetudine, saranno obbligati a
rispettarla? È il caso, soprattutto, dei nuovi Stati sorti dalle dissoluzioni della ex Jugoslavia e
dall’ex URSS, nonché dei nuovi Stati sorti tra gli anni 60 e 70 dalla decolonizzazione.
La risposta sarebbe positiva, quindi: sì, questi stati sono obbligati a seguire la consuetudine,
anche non avendo partecipato alla sua formazione. Ovviamente dipende anche dalla materia
della consuetudine in questione, se riguarda il territorio, per esempio, la consuetudine non sarà
seguita né dalle OI né dagli individui (che rispondono solo a norme sui diritti umani e sul
divieto di crimini internazionali).
Alcune consuetudini formatesi prima vengono contestate dai nuovi Stati, soprattutto quegli
Stati nati dalla decolonizzazione e soprattutto quelle consuetudini riguardanti gli investimenti
stranieri. C'è una consuetudine che impone l’obbligo allo Stato che li accoglie, di tutelare gli
investimenti e gli investitori stranieri, è detta di protezione assoluta. Questa consuetudine ha
iniziato ad essere contestata dai nuovi Stati decolonizzati perché ritenevano che le attività di
investimento non fossero un vantaggio per loro, che continuavano ad essere sfruttati, e
proponevano quindi una nazionalizzazione/espropriazione (acquisizione di proprietà,
controllo, gestione) a patto di riconoscere all’investitore straniero un equo indennizzo a
riparazione del capitale investito.
Quindi cosa accade: un gruppo di nuovi Stati inizia a contestare la consuetudine, si viola il DI
ma non viene considerato illecito perché è un’azione per far evolvere la consuetudine in una
norma più equa per tutti. Se questo nuovo comportamento si diffonde e diventa prevalente,
avrà luogo il fenomeno della desuetudine, con la quale si contribuisce all’evoluzione della
nuova norma e si rende non più efficace la precedente.
In alcuni casi la contestazione proviene da un solo Stato, il cosiddetto persistent objector il
quale in genere invoca il fatto di non aver mai contribuito con il suo comportamento alla
formazione di una certa norma, la quale non potrebbe per tale ragione opporglisi come
applicabile. In poche parole, l’obiettore persistente non è che non voglia applicare la
consuetudine, ma ritiene che tale consuetudine non sia ancora cristallizzata e quindi ne contesta
l’applicazione. Come viene considerato il persistent objector dai tribunali internazionali? Non
viene considerato responsabile di illecito nella prassi, in quanto nega la sua stessa formazione.
Un esempio è la sentenza della CIG del 18 dicembre 1951 nel caso delle Peschiere Norvegesi,
la quale si è espressa a favore della figura dell’obiettore persistente in quanto “la Norvegia si è
sempre opposta a qualsiasi tentativo di applicare la regola alle coste norvegesi”.

Consuetudini locali e particolari


Oltre alle norme consuetudinarie generali, si afferma l’esistenza di consuetudini locali e
particolari, le quali hanno sempre origine da un comportamento spontaneo, ma in questo caso
non generalizzato. Sono definite come quelle consuetudini che vincolano solo una ristretta
cerchia di Stati.
Esse possono avere carattere locale o regionale, quando riguardano Stati appartenenti ad una
stessa area geografica (un esempio di consuetudine locale è la concessione di asilo politico ai
rifugiati dei paesi dell’America Latina).
Possono avere carattere particolare nel senso che si formano all’interno di una cerchia di Stati
più ristretta rispetto all’insieme della CI e fanno riferimento a un certo accordo istitutivo. Un
esempio è contenuto nella Carta delle Nazioni Unite, accordo internazionale tra quasi tutti gli
Stati del mondo. Nell'art. 23 si fa riferimento al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, i cui 5
membri permanenti sono “Repubblica di Cina, Francia, URSS, Regno Unito e Irlanda del Nord
e Stati Uniti d’America (nonché i vincitori della IIGM). Si è formata una consuetudine
particolare perché vediamo come ci siano degli errori contenuti in questo articolo in quanto la
Rep di Cina non esiste più ma è stata sostituita dalla Rep. Popolare cinese; l’URSS si è dissolta
e al suo posto è subentrata la Russia; la Francia non è più la potenza coloniale del 1945.
Quindi vediamo come si è formata una consuetudine particolare dall’acquiescenza degli Stati
che con il loro comportamento diffuso e costante nel tempo hanno riconosciuto e accettato gli
“errori” presenti nell’art. 23.
Un'altra consuetudine particolare si è sviluppata in seno all’art. 27 che riguarda il sistema di
votazione del Consiglio di Sicurezza. In base all’art. 23 è un organo a composizione ristretta,
cioè composto solo da 15 Membri (di cui 5 con status di membri permanenti) che sono gli Stati,
quindi è intergovernativo. L'Assemblea Generale invece è organo plenario poiché composto da
tutti gli Stati membri dell’ONU e segue un principio di voto di uguaglianza secondo cui ogni
Stato ha 1 voto.
Il Consiglio di Sicurezza vota in base alle disposizioni dell’art. 24 della Carta dell’ONU, si
tratta dell’organo che può usare la forza per mantenere o stabilire la pace e la sicurezza
internazionale. Per fare ciò dovrebbe disporre di un esercito come dice l’art. 43, secondo cui
tutti i Membri delle Nazioni Unite avrebbero dovuto mettere a disposizione dell’ONU un
esercito, ma ciò non è mai accaduto dal 1945. Quindi l’unica cosa che può fare è autorizzare
gli Stati (che hanno il divieto di usare la forza secondo l’art. 2) ad intervenire contro uno Stato
che minaccia la pace → è questa una consuetudine particolare che si trova nell’art. 42 (si
deve leggere come il CdS autorizza gli Stati ad intervenire e NON interviene essa stessa).
Nell'art. 27 la consuetudine particolare si trova nel par. 3 in cui si legge “le decisioni del CdS
su ogni altra questione sono prese con un voto favorevole di 9 Membri, nel quale siano
compresi i voti dei Membri permanenti”, ciò ha fatto sì che il Consiglio non sia mai stato in
grado di intervenire in queste questioni perché bastava 1 voto contrario dei 5 permanenti, e per
molto tempo il CdS è stato accusato di inefficienza perché non riusciva ad adottare nessuna
decisone, quindi affinché fosse in grado di intervenire, l’astensione dal voto ha iniziato ad avere
valore positivo e non più negativo.

Consuetudine ed analogia
Le norme consuetudinarie generali sono suscettibili di applicazione analogica. L'analogia è da
intendersi come una forma di interpretazione estensiva, consiste nell’applicare una norma ad
un caso che essa non prevede ma i cui caratteri essenziali sono analoghi a quelli del caso
previsto. Il ricorso all’analogia ha senso soprattutto con riguardo a fattispecie nuove: le norme
consuetudinarie possono essere applicate a rapporti della vita sociale che non esistevano
all’epoca della formazione della norma. Gli esempi più banali sono dati dalla applicazione delle
norme sulla navigazione marittima a quella aerea e cosmica.

I principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili


Nello Statuto della CIG, che è un accordo che fa parte del sistema della NU e che regola il
funzionamento dell’organo giudiziario delle NU, cioè la CIG (che ha la funzione di risolvere
in base al diritto internazionale le controversie che gli Stati decidono di sottoporle), troviamo
l’art. 38 nel quale vengono enumerate le fonti del DI.
Al primo posto troviamo gli accordi internazionali, fonti di 2° grado rispetto alle
consuetudini, che sono considerate fonti di 1° grado. Ma allora perché le troviamo in seconda
posizione? Perché in qualsiasi ordinamento giuridico esiste il principio della lex speciali
derogat generali cioè la legge speciale prevale su quella generale, essendo le consuetudini di
carattere generale, queste verranno consultate per seconde.
Alla lettera c par. 1 troviamo anche i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni
civili. Si tratterebbe di una fonte utilizzabile là dove manchino norme pattizie o consuetudinarie
applicabili ad un caso concreto.
Per quanto riguarda l’espressione “nazioni civili”, questa è stata spesso contestata dai paesi in
via di sviluppo, poiché sarebbe portatrice di retaggio culturale. La stessa però, giuridicamente,
è da intendersi come Stato che rispetta i diritti umani, cioè nazione civile che ha una
costituzione e una democrazia.
Ci si chiede se tali principi siano una fonte a sé stante del DI, poiché sono elencati al terzo
posto, oppure se essi non siano riconducibili ad una delle due classiche fonti del DI, in
particolare alle consuetudini.
Conforti considera i principi generali di diritto quali norme consuetudinarie sui generis in
ragione del loro processo di formazione, che a differenza delle normali consuetudini, si
svolgerebbe in parte sul piano degli ordinamenti interni ed in parte sul piano dell’ordinamento
internazionale. Occorre innanzitutto che essi esistano e siano uniformemente applicati nella più
gran parte degli Stati, questo significa che deve trattarsi di principi contenuti negli ordinamenti
giuridici interni. In secondo luogo, e questa è la condizione più caratterizzante, occorre che essi
siano sentiti come obbligatori o necessari anche dal punto di vista del DI, questo vuol dire che
il principio di diritto interno, applicabile nei rapporti giuridici all’interno di uno Stato e nei
confronti dei propri cittadini e residenti, sarà anche un principio generale di diritto
internazionale se la sua osservanza sarà considerata obbligatoria anche nei rapporti tra Stati,
cioè se la sua obbligatorietà passa dal piano interno al piano internazionale.
Ma cosa sono questi principi? Si tratta di principi universali di giustizia e di logica giuridica,
sia di natura sostanziale che processuale, attinenti soprattutto al diritto penale.
Conforti sottolinea che affinché un principio generale di diritto internazionale sia applicabile
da parte di un giudice interno, basta che detto principio sia presente all’interno della maggior
parte degli ordinamenti, mentre non è necessario che esista all’interno dell’ordinamento del
giudice chiamato ad applicare quel principio.

L'inesistenza di norme generali scritte: gli accordi di codificazione


La tesi della dottrina è volta a dimostrare l’inesistenza di norme generali di diritto che siano
scritte. Infatti, le norme ad efficacia generale sono solo le consuetudini e i principi generali di
diritto.
Con le Nazioni Unite l’opera di codificazione ha preso un effettivo slancio, traducendosi in una
serie di trattati multilaterali. L'art. 13 della Carta dell’ONU prevede che l’Assemblea Generale
intraprenda studi e faccia raccomandazioni per incoraggiare lo sviluppo progressivo del diritto
internazionale e la sua codificazione.
Sulla base di questa disposizione l’Assemblea costituì la Commissione di diritto
internazionale delle Nazioni Unite. La Commissione composta da esperti, ha il compito di
provvedere alla preparazione di testi di codificazione delle norme consuetudinarie relative a
determinate materie. I risultati degli studi portati avanti dagli esperti della Commissione
formano poi oggetto di discussione al fine della predisposizione e della stesura di testi di
accordi internazionali di codificazione che vengono negoziati in seno all’AG perché si arrivi a
firmarli e ratificarli.
La Commissione ha finora predisposto varie convenzioni di codificazione, le principali:
- Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, cioè sulle norme in tema di
formazione, validità ed efficacia dei trattati internazionali.
- Le quattro Convenzioni di Ginevra del 1958 sul diritto del mare.

L'accordo di codificazione si distingue dagli altri accordi internazionali per lo scopo che si
propone, che invece di essere quello di disciplinare secondo certe modalità e norme i rapporti
tra Stati contraenti, ha il fine di mettere per iscritto, di codificare quindi, il diritto internazionale
generale non scritto, quali le consuetudini e i principi generali di diritto.
Secondo l’art. 13: codificazione e sviluppo progressivo. Cosa significa?
• Codificazione → mettere per iscritto una certa norma consuetudinaria per il principio
di certezza del diritto
• Sviluppo progressivo → ricostruzione dell’iter di una norma, che si sta sviluppando e
non è ancora cristallizzata
Quali sono i problemi che si vengono a creare in merito agli accordi di codificazione?
1. Problema della doppia valenza
Dal momento che si tratta di accordi internazionali (i quali vincolano solo le parti contraenti)
che codificano norme ad efficacia generale (che vincolano quindi tutti i soggetti), qual è il loro
vero valore? In altri termini, si tratta pur sempre di accordi che vincolano solo gli Stati
contraenti oppure hanno un’efficacia che travalica l’accordo e investe tutti?
Si può affermare che gli accordi di codificazione vanno considerati alla stregua dei normali
accordi internazionali e quindi vincolano solo le parti contraenti, cioè valgono solo per gli Stati
che li ratificano. Le norme consuetudinarie in essi contenute, si applicheranno ai terzi Stati non
a titolo di norma convenzionale (come disposizione contenuta nell’accordo di codificazione),
bensì a titolo di norma del diritto internazionale generale (come consuetudine).
Un esempio:
- Pacta sunt servanda: gli accordi devono essere rispettati, come norma convenzionale di
un accordo sarà rispettata dagli Stati contraenti, ma avendo natura consuetudinaria e
quindi efficacia erga omnes, sarà rispettato anche dagli Stati terzi.

2. Problema del ricambio delle norme codificate


Gli accordi di codificazione costituiscono un importantissimo strumento che permette non
soltanto di precisare il contenuto ed i limiti di norme consuetudinarie esistenti, ma anche di
contribuire allo sviluppo progressivo di nuove norme generali. Cosa succede quando una norma
consuetudinaria si trasforma, si evolve, si estingue ed al suo posto se ne afferma una nuova?
Quali sono le conseguenze di questa evoluzione sull’applicabilità dell’accordo di
codificazione?
Gli Stati contraenti quale consuetudine devono seguire?
- Quella vecchia in quanto norma speciale, contenuta in accordo, in base al principio di
specialità?
- Quella nuova in quanto norma consuetudinaria successiva in base al principio di
posteriorità?
Per quanto riguarda gli Stati terzi, la consuetudine nuova dovrà essere seguita da questi ultimi,
in ossequio al principio dell’inefficacia degli accordi nei confronti dei terzi, ed in base al
criterio interpretativo di posteriorità o successione delle leggi nel tempo, per il quale una
consuetudine successiva prevale su quella anteriore (nella stessa materia).
La situazione è diversa per gli Stati contrenti l’accordo di codificazione, i quali dovranno
seguire la vecchia consuetudine codificata, a titolo di norma convenzionale in base al principio
di specialità. Questa soluzione però potrebbe essere messa in discussione dagli Stati
dell’accordo, i quali dimostrano di voler seguire la nuova norma, cioè quella non ancora
codificata. Affinché ciò sia possibile occorre dimostrare non solo la prassi costante e uniforme
della maggior parte di essi, ma anche la convinzione dell’obbligatorietà di tale comportamento.
L'opinio juris in casi del genere si testa verificando che gli altri Stati parti dell’accordo di
codificazione non protestano perché uno di essi applica la nuova consuetudine. Una volta
ricostruita la prassi e l’opinio, il principio di posteriorità sarà applicabile in luogo di quello di
specialità e la nuova consuetudine potrà così applicarsi anche agli Stati contraenti dell’accordo
di codificazione.

Il valore delle Dichiarazioni di principi dell’Assemblea Generale dell’ONU


Rappresentano un altro problema in merito alla questione dell’esistenze di norme generali di
diritto internazionale scritte.
L'AG è un organo a composizione plenaria di cui fanno parte tutti gli Stati membri delle
Nazioni Unite, per il principio di uguaglianza ogni Stato ha 1 voto. Con il tempo l’Assemblea
si è arricchita di Membri, sia ex-colonie sia ex stati federati.
Il processo di decolonizzazione ha visto fare ingresso sulla scena internazionale una serie di
nuovi Stati che rivendicavano un ruolo attivo nella formazione del DI generale, che fino a quel
momento era stato “comandato” dai paesi colonialisti. Essi iniziarono a spingere per
l’approvazione di principi più equi per i paesi in via di sviluppo, essendoci negli anni 60-70
una forte maggioranza contraria agli interessi dell’Occidente capitalista.
Le Dichiarazioni di principi sono atti giuridici con i quali l’organizzazione emana sia regole
che riguardano i rapporti tra Stati, sia regole che invece toccano i rapporti tra Stato e propri
sudditi e stranieri. Tra le più importanti ritroviamo:
- Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
Le Dichiarazioni vengono adottate mediante l’atto tipico delle OI, la raccomandazione o
risoluzione, che ha mero valore esortativo e non vincolante.
Fu proposta la tesi, soprattutto da parte dei Paesi sorti dalla decolonizzazione, per la quale le
Dichiarazioni dell’AG avrebbero efficacia nei confronti di tutti gli Stati in quanto fonte di
diritto internazionale scritto, che esprime il volere della maggioranza degli Stati. Ma Conforti
critica questa tesi e afferma che esse non costituiscono un’autonoma fonte di norme
internazionali generali. L'AG non ha poteri legislativi mondiali e il carattere non vincolante
delle sue risoluzioni, comprese le Dichiarazioni di principi, è difeso da una parte non
indifferente dei suoi membri.
Si sostiene però che le Dichiarazioni di principi possano svolgere un ruolo importante nella
formazione del diritto consuetudinario, in quanto costituiscono una forma di prassi degli Stati
e quindi vengono in considerazione, in quanto comportamenti statali e non in quanto atti di OI.
Si sostiene anche che alcune Dichiarazioni possano valere come veri e propri accordi
internazionali quando, non solo enunciano un principio ma in modo inequivocabile ne
equiparano l’inosservanza alla violazione della Carta.

I Trattati
Esaurito l’esame dei problemi relativi alla formazione del diritto internazionale generale,
consideriamo ora quella importante fonte di norme particolari costituita dall’accordo. Per
indicare quest’ultimo, la terminologia usata è assai varia: trattato, convenzione, patto, statuto,
carta... ad ogni modo la natura dell’atto non muta ed è quella propria degli atti contrattuali,
l’accordo internazionale viene così definito: l’unione o meglio l’incontro delle volontà di due
o più Stati, dirette a regolare una determinata sfera di rapporti riguardanti questi ultimi.
Ogni accordo internazionale presenta una struttura tipizzata constando delle seguenti parti:
• Preambolo: parte iniziale nel quale sono spiegati lo scopo, l’oggetto e le ragioni che
hanno portato gli Stati alla conclusione dell’accordo.
• Dispositivo: è il vero e proprio testo contenente le norme sostanziali, cioè la disciplina
di una certa materia e le clausole finali, quali quelle sul termine dell’accordo, sulle
lingue ufficiali, sull’entrata in vigore.
• Allegati e protocolli: si tratta di accordi veri e propri ma connessi strettamente con
l’accordo principale, stipulati contemporaneamente oppure in un momento successivo.
È possibile che non tutti gli Stati contraenti di quest’ultimo aderiscano anche a tutti i
protocolli annessi.
Si possono distinguere diverse tipologie di accordi:
- Accordi bilaterali e multilaterali: a seconda che siano conclusi tra due soli Stati o tra
più di due Stati.
- Accordi multilaterali aperti e chiusi: a seconda della possibilità in essi contenuta
mediante apposite clausole, di consentire l’adesione di Stati terzi senza condizioni,
oppure, se multilaterali chiusi, solo alla condizione che tutti i contraenti all’unanimità
accettino il nuovo Stato.
- Accordi multilaterali aperti a parti qualificate: sono accordi che contengono una
clausola di adesione che prevede che lo Stato che chieda di entrarne a farne parte abbia
la qualità di membro dell’ONU.
La Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, 1969
Come i contratti nel diritto interno sottostanno alla legge, così i trattati internazionali
sottostanno ad una serie di norme consuetudinarie che ne disciplinano il procedimento di
formazione nonché i requisiti di validità e di efficacia. Tale complesso di regole forma il
cosiddetto diritto dei trattati a cui è dedicata una delle più grandi convenzioni di codificazione
promosse dalle NU ed elaborate dalla CDI, cioè la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto
dei trattati in vigore dal 27.1.1980. Perché sono passati 11 anni dalla firma (23.5.1969)
all’entrata in vigore? Perché secondo l’art. 84 era necessario che almeno 35 Stati ratificassero
(esprimessero la volontà di obbligarsi alla Convenzione).
Preambolo della Convenzione di Vienna: è fatto di “considerando”, ci dice che siamo di
fronte ad un accordo di codificazione, ciò lo vediamo dal penultimo “considerando”. Ci sono
una serie di richiami alla Carta delle Nazioni Unite, sia esplicitamente che implicitamente.
Parte I: è una parte introduttiva che spiega la sfera di applicazione della Convenzione, i termini
usati, gli accordi che non rientrano nella sfera di applicazione e la sfera di applicazione
temporale (cioè a partire da quando è applicabile per gli Stati che l’hanno ratificata).
Parte II: iniziano le norme codificatorie, con le varie sezioni. Si possono formulare delle
riserve (atto multilaterale attraverso il quale uno Stato può dire “io non voglio applicare una o
più disposizioni”).
Parte III: rispetto, applicazione ed interpretazione dei trattati è la parte più importante. Art. 26
norma consuetudinaria del “pacta sunt servanda”.
Parte IV: modifiche e/o aggiornamenti del trattato.
Parte V: nullità, estinzione e sospensione dell'applicazione dei trattati.
Parte VI: disposizioni che chiariscono alcuni aspetti, come i rapporti della convenzione con
altre questioni del DI.
Parte VII: depositari, notifiche, correzioni e registrazione.
Parte VIII: disposizioni finali.

Sfera di applicazione soggettiva


Ai sensi dell’art. 1 la CVT si applica ai trattati conclusi tra Stati. Essa non trova quindi
applicazione nei casi in cui alcuni dei contraenti non siano Stati ma OI. Un'analoga
convenzione sul diritto dei trattati conclusi tra Stati e OI o tra OI è stata conclusa nel 1986 ed
è largamente riproduttiva delle norme contenute nella CVT/69.
I trattati istitutivi di OI e quelli conclusi adottati in seno ad una OI rientrano, secondo l’art. 5
nella sua sfera di applicazione, poiché si tratta sempre di accordi conclusi tra Stati.
Sfera di applicazione oggettiva
L'art. 2 lett a) stabilisce la sfera oggettiva di applicazione, disponendo che essa è applicabile
unicamente ai trattati conclusi tra Stati in forma scritta e regolati dal diritto internazionale.
Sfera di applicazione temporale
In base all’art. 4 la CVT si applica unicamente ai trattati conclusi tra Stati dopo la sua entrata
in vigore. Questo comporta l’irretroattività della Convenzione, ovvero l’impossibilità di
applicarla quando il trattato oggetto di interpretazione o di controversia sia stato concluso
anteriormente all’entrata in vigore della Convenzione.
Occorre precisare che in base all’art. 84 essa è entrata in vigore il trentesimo giorno successivo
alla data del trentacinquesimo strumento di ratifica, ciò significa che sarà applicabile ai trattati
conclusi dopo il 27 gennaio 1980 solo per quegli Stati che avevano provveduto a ratificarla o
ad aderirvi anteriormente quella data.
Per quegli Stati che invece hanno aderito successivamente, si dispone che essa entrerà in vigore
il trentesimo giorno successivo al deposito del suo strumento di ratifica o adesione.
(se la Germania litiga con l’Italia per l’applicazione di un accordo del 1990, la CVT sarà
applicabile perché entrata in vigore nel 1980 – se l’accordo era stato stipulato nel 1985
l’accordo non varrà perché la Germania ha ratificato la CVT nel 1987, si può però applicare
una norma consuetudinaria come norma generale di diritto internazionale).

I procedimenti di stipulazione degli accordi internazionali


Come si arriva alla conclusione o stipulazione di un accordo? Secondo autorevole dottrina, il
DI lascia agli Stati la più ampia libertà di scelta con riguardo alla forma ed alla procedura di
formazione degli accordi, con la conseguenza che un accordo possa risultare da ogni genere di
manifestazioni di volontà degli Stati purché di identico contenuto e purché dirette ad obbligarli.
La stessa CVT/69 negli art. 7-16 elenca diversi modi di stipulazione.
In genere si tende a distinguere tra:
• Accordi stipulati in forma solenne
• Accordi stipulati in forma semplificata
Per quanto riguarda la forma solenne, è il procedimento normale di stipulazione e si rifà a
quello seguito da secoli dalle monarchie assolute, quando il potere di stipulazione era nelle
mani del Capo dello Stato che si serviva, per la sua negoziazione, dei plenipotenziari, ovvero
rappresentanti muniti di pieni poteri, i quali avevano il compito di predisporre il testo
dell’accordo e di sottoscriverlo, spettando poi al Sovrano la sua ratifica, ossia l’atto con il quale
quest’ultimo accettava i termini dell’accordo. La fase finale con la quale si portava a
conoscenza degli altri Stati la volontà di accettazione del sovrano mediante lo scambio delle
ratifiche perfezionava l’accordo che diventava obbligatorio.
Queste fasi ricalcano le moderne fasi del procedimento solenne, anche se nello Stato moderno
il ruolo del Capo dello Stato nel procedimento di stipulazione non è più preponderante, in
quanto il potere di stipulazione è in linea di principio attribuito al potere esecutivo, in alcuni
casi affiancato da quello legislativo.
Queste le fasi principali:
1. Fase della negoziazione: l’art. 7 della CVT definisce chi sono i plenipotenziari, cioè
coloro che posseggono i pieni poteri, gli organi del potere esecutivo che rappresentano
lo Stato nella fase dei negoziati. Tali organi (ministri, ambasciatori...) devono
dimostrare di possedere la competenza a stipulare, esibendo “pieni poteri appropriati”
cioè poteri conferiti loro in base al diritto interno di ciascuno Stato. Quando il numero
degli Stati partecipanti ai negoziati è molto elevato e la materia da regolare riveste
particolare importanza, per l’approvazione delle singole disposizioni si fa ricorso
sempre più spesso alla regola della maggioranza invece che procedere con la regola
dell’unanimità. L'art. 9 CVT/69 prevede che l’approvazione di multilaterali negoziati
nell’ambito di conferenze internazionali avvenga con il voto favorevole dei due terzi
degli Stati presenti e votanti, a meno che con la stessa maggioranza non si decida di
adottare una regola diversa.
2. Fase della firma o parafatura: una volta steso il testo dell’accordo si procede alla fase
della firma, con la quale il testo è “certificato come autentico e definitivo” secondo
quanto disposto dall’art. 10. Questo significa che una volta firmato il testo non può più
essere modificato, ma ciò non significa che gli Stati siano già vincolati al rispetto
dell’accordo. La parafatura non è altro che l’apposizione sul testo delle sole iniziali dei
rappresentanti degli Stati firmatari.
3. Fase della ratifica o dell’adesione: è l’atto con il quale lo Stato si obbliga al rispetto
dell’accordo sul piano internazionale, nei confronti degli altri Stati contraenti che
abbiano ratificato l’accordo. La ratifica produce effetti solo sul piano internazionale;
per avere effetti sul piano interno, ogni Stato dovrà provvedere all’adattamento
mediante legge o altro atto normativo affinché il trattato sia invocabile davanti ai giudici
nazionali. In Italia l’atto di adattamento è denominato “ordine di esecuzione”. Nel caso
in cui il consenso mediante ratifica è dato da uno Stato che non ha partecipato ai
negoziati, si parla di adesione (a questo punto occorre però che il trattato sia aperto).
4. Fase dello scambio o deposito delle ratifiche: secondo l’art. 16 CVT/69, questa fase
serve per portare a conoscenza degli altri contraenti la volontà di obbligarsi dello Stato
che ha ratificato l’accordo, dato che dal momento della firma a quello della ratifica
possono passare molti anni, è necessario per la certezza del diritto sapere quali sono
stati gli Stati che poi effettivamente si sono obbligati al rispetto del trattato. Lo scambio
delle ratifiche si utilizza per gli accordi bilaterali, mentre quando si è di fronte ad un
trattato multilaterale si ricorre al deposito delle ratifiche, con la nomina di uno Stato o
del Segretario di una OI quali depositari che ogni volta che ricevono uno strumento di
ratifica provvedono a comunicarlo agli altri.
5. (eventuale) Fase della registrazione presso il Segretario Generale dell’ONU: l’art.
102 della Carta ONU dispone che “ogni trattato e ogni accordo internazionale stipulato
da un Membro deve essere registrato presso il Segretario”. In questo senso si tratta di
una fase eventuale, che non mette in discussione la validità dell’accordo concluso nel
rispetto delle fasi appena illustrate. L'unico effetto della mancata registrazione consiste
nel fatto che uno Stato non potrà invocare l’accordo non registrato ai sensi di questa
norma, per esempio, di fronte alla CIG.
Per quanto riguarda la forma semplificata, si discosta dal procedimento solenne per la
mancanza della fase della ratifica. Può definirsi quindi come quell’accordo concluso con la
sottoscrizione del testo da parte del rappresentante dello Stato, attribuendo così alla firma il
valore di piena e definitiva manifestazione di volontà ad obbligarsi. La CVT disciplina questa
modalità di espressione di consenso nel suo art. 12.
È bene sottolineare che per avere un accordo in f.s. non è sufficiente che la fase della ratifica
sia saltata ma è anche necessario che dal testo dell’accordo o dalle circostanze risulti una sicura
volontà di obbligarsi. Ciò va detto perché la prassi internazionale conosce numerosi casi di
intese tra Governi, cui spesso si dà anche il nome di accordi o di Memorandum d’intesa e
Gentlemen’s agreements, ma che certamente non hanno natura di veri e propri accordi in
senso giuridico.
In una zona di confine tra accordi in f.s. e intese non giuridiche si collocano gli accordi
sull’applicazione provvisoria dei trattati, che si hanno quando, nel testo di un trattato da
sottoporre a ratifica, le parti prevedono che il trattato si applichi provvisoriamente in attesa
della sua entrata in vigore. Gli accordi di applicazione provvisoria sono considerati da taluni
come intese prive di carattere giuridico, da altri come accordi in f.s., come tali vincolanti.
(sull’applicazione provvisoria dei trattati si occupa al momento anche la CDI delle Nazioni
Unite).
Secondo Fois, come intese giuridiche non vincolanti sarebbero da considerare anche i trattati
segreti. Il cui problema però non riguarda il DI ma il diritto interno di ogni Stato che può
contenere il divieto della stipulazione di accordi segreti da parte dell’Esecutivo. Questo
problema, perciò, va inquadrato nel tema della invalidità dei trattati conclusi in violazione di
norme interne.

La competenza a stipulare
La competenza a stipulare ed a ratificare gli accordi internazionali è materia disciplinata dal
diritto interno di ciascuno Stato, normalmente a livello costituzionale. Nell'ordinamento
italiano la stipulazione degli accordi internazionali è affidata in linea di principio al potere
esecutivo (Governo) con l'eventuale partecipazione del potere legislativo, quando le materie
oggetto dell'accordo rivestono particolare importanza.
La competenza a ratificare è disciplinata dalla Costituzione nell’art 87 che l’affida al Presidente
della Repubblica previa autorizzazione del Parlamento quando si tratti di materie previste
dall’art. 80 della Costituzione, ossia quando il trattato abbia ad oggetto:
• Trattati di natura politica
• Regolamenti giudiziari
• Modificazioni del territorio nazionale
• Oneri alle finanze
• Modificazioni di leggi
Gli art. 87 e 80 vanno coordinati con l’art. 89 in base al quale “nessun atto del Presidente della
Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la
responsabilità”.
Si evince che il potere di ratifica del Presidente della Repubblica assume carattere formale,
mentre il potere di stipulare gli accordi internazionali riposa sostanzialmente nel potere
esecutivo e nel caso di accordi aventi ad oggetto le materie previste dall'art. 80 nelle mani dei
poteri esecutivo e legislativo.
Ogni Stato disciplina la competenza a stipulare accordi in forma semplificata secondo il proprio
ordinamento interno, generalmente i limiti al potere dell'esecutivo in materia sono posti da
ciascun diritto costituzionale. In Italia si è da tempo affermata la tesi di Cassese, secondo la
quale il governo incontra come unico limite alla stipulazione di accordi in forma semplificata
quello relativo alle materie coperte dall'art. 80 in quanto richiede l'autorizzazione del
Parlamento alla ratifica mediante legge.

Il problema della conclusione di accordi in violazione di norme interne sulla competenza


a stipulare nel diritto internazionale
Che cosa succede quando viene concluso un accordo da parte di un organo statale che non
avrebbe avuto competenza a stipulare secondo il proprio diritto interno? Quali conseguenze ne
derivano sul piano internazionale? Deve ritenersi che il trattato sia ugualmente valido, oppure
bisogna concludere che la volontà dello Stato, essendo viziata per il diritto interno, lo è anche
per il diritto internazionale?
La risposta a tali quesiti dovrebbe essere negativa perché costituisce un principio
consuetudinario del DI, codificato nell’art. 27 CVT/69, il fatto che: “una parte non può invocare
le disposizioni del suo diritto interno per giustificare la mancata esecuzione di un trattato”.
Tuttavia, la disposizione prosegue affermando che: “questa regola non pregiudica quanto
disposto dall'art. 46”.
A sua volta l’art. 46 CVT/69 dispone: “il fatto che il consenso di uno Stato a vincolarsi a un
trattato sia stato espresso in violazione di una sua disposizione del diritto interno riguardante
la competenza a concludere trattati non può essere invocato dallo Stato in questione come
viziante il suo consenso, a meno che tale violazione non sia manifesta e non riguardi una
norma del suo diritto interno di importanza fondamentale”.
Questo significa che l'art. 46 costituisce una deroga al principio generale sancito dall'art. 27,
volendo implicitamente riaffermare che il principio generale è quello dell’irrilevanza del diritto
interno al fine di giustificare il mancato rispetto degli accordi da parte dello Stato, e considera
quale causa di invalidità solo il caso in cui lo Stato contesti la validità dell’accordo in quanto
concluso in violazione di una sua norma interna di importanza fondamentale sulla
competenza a stipulare e solo qualora tale violazione sia manifesta.
La violazione del diritto interno invocabile quale causa di invalidità di un accordo deve
consistere quindi nella violazione di una norma che non soltanto abbia carattere fondamentale
come una norma costituzionale, ma che abbia ad oggetto specificamente la competenza a
stipulare: nell'ordinamento italiano una norma del genere è da considerarsi l'art. 80 della
Costituzione.
Casi di accordi conclusi dal nostro Esecutivo in violazione dell’art. 80 si sono effettivamente
verificati, uno degli esempi più significativi è la domanda di ammissione dell’Italia alle Nazioni
Unite, avvenuta con un atto del Ministro degli Esteri.

Le Regioni
Nell'ambito dell'ordinamento italiano si pone la questione se anche le Regioni possano
concludere accordi internazionali.
La Corte costituzionale prese in un primo tempo una posizione drastica in senso anti-
regionalistico, affermando l'incompetenza degli organi regionali in tema di formulazione di
accordi con soggetti propri di altri ordinamenti.
La Corte costituzionale tornò altre volte sull'argomento, la sentenza più significativa resta
quella n. 179 del 1987 nella quale sostenne che le Regioni, procuratosi il previo assenso del
governo centrale, potessero stipulare non solo intese di rilievo internazionale ma addirittura
accordi in senso proprio tali da impegnare la responsabilità dello Stato e purché si trattasse di
accordi riguardanti materie di competenza regionale e non rientranti nelle categorie previste
dall'art. 80.

Le Organizzazioni internazionali
Le organizzazioni internazionali, in quanto dotate di soggettività internazionale, possiedono
ovviamente la capacità di stipulare accordi internazionali, sia con Stati membri che con Stati
terzi e altre OI.
Per individuare le forme e i limiti della competenza a stipulare delle OI occorre fare riferimento
al trattato istitutivo di ognuna.
Ci sono due trattati per l’UE:
- TUE: detta i principi fondamentali e generali
- TFUE: include regole più specifiche sul funzionamento dell’Unione Europea
Di particolare importanza sono per l'Italia gli accordi internazionali conclusi dall’Unione
Europea, per il principio espresso nel Trattato sul funzionamento dell’UE nel suo art. 216 per
il quale “gli accordi conclusi dall’Unione vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati
membri”.
Art. 216 del TFUE “L’Unione può concludere un accordo con uno o più paesi terzi o
organizzazioni internazionali qualora i trattati lo prevedano o qualora la conclusione di un
accordo sia necessaria per realizzare, nell’ambito delle politiche dell’Unione, uno degli
obiettivi fissati dai trattati, o sia prevista in un atto giuridico vincolante dell’Unione, oppure
possa incidere su norme comuni o alterarne la portata”.
Bisogna vedere sul trattato in quali materie e casi l’Unione può concludere l’accordo con paesi
Terzi (non membri dell’UE) o con OI.
“Gli accordi conclusi dall’Unione vincolano le istituzioni dell’Unione e gli Stati membri”. Si
tratta di una norma unica nel panorama delle OI, normalmente quando una OI stipula un
accordo internazionale è soltanto l’organizzazione che è vincolata e non gli Stati membri
(perché si tratta di soggetti diversi). Il caso dell’UE è un’eccezione.
L'art. 216 stabilisce che gli accordi sono vincolanti per le istituzioni dell'Unione per gli Stati
membri. Viene quindi sancita un'eccezione al principio generale valevole per le organizzazioni
internazionali secondo cui gli accordi stipulati da un'organizzazione restano estranei alla sfera
giuridica degli Stati membri.
Per quanto riguarda le istituzioni, gli accordi in questione si situano a metà strada tra le norme
del TUE e TFUE e gli atti delle istituzioni nel senso che da un lato essi non possono derogare
i trattati dall'altro non possono a loro volta essere derogati dalle istituzioni.
L'art. 218 TFUE dice quali sono gli organi che sono competenti a stipulare, cioè il Consiglio
dei Ministri e la Commissione; in alcuni casi il Parlamento è anche coinvolto. Viene esplicata
tutta la procedura in forma solenne.
L'art. 218 del TFUE regola la procedura normale di conclusione degli accordi. I negoziati sono
condotti dalla Commissione su autorizzazione del Consiglio, il quale può impartire direttive ai
negoziatori. Lo stesso Consiglio autorizza sia la firma del testo sia la sua conclusione previa
l'approvazione del Parlamento. Si va affermando la prassi dei cosiddetti accordi amministrativi
cioè accordi in forma semplificata poiché conclusi esclusivamente dalla Commissione.
Il mancato rispetto delle competenze delle procedure previste dai Trattati in ordine alla stipula
di accordi internazionali comporta l'invalidità dell'atto di conclusione dell'accordo che può
essere accertata dagli organi di giustizia dell'Unione.
Sempre secondo l’art. 218 uno Stato membro, il Parlamento, il Consiglio e la Commissione
possono chiedere alla Corte di giustizia di dare in via preventiva un parere circa la compatibilità
dell'accordo con le disposizioni del trattato.
Specifiche disposizioni del TFUE prevedono la conclusione di accordi. Tra questi sono assai
importanti le convenzioni di associazione (art. 217 l’Unione può concludere con uno o più
paesi terzi o organizzazioni internazionali accordi che istituiscono un'associazione
caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci) nonché gli accordi che rientrano nel quadro della
politica commerciale comune (art. 207). Ad essi vanno aggiunti gli accordi in materia di
politica monetaria e di politica ambientale e di cooperazione allo sviluppo.
Art. 217 TFUE “L’Unione può concludere con uno o più paesi terzi o OI accordi che
istituiscono un’associazione caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci, da azioni in comune
e da procedure particolari”. Accordi di associazione sono accordi che l’Unione ha iniziato a
stipulare negli anni 50-60 con gli Stati vicini (come quello con la Turchia), permettevano di
avere organi comuni e stabilire regimi facilitati di circolazione, per esempio, di lavoratori o
scambio facilitato di merci. Se riguardavano un Paese europeo che non era parte dell’allora
Comunità economica europea, preparavano la strada per far entrare quello Stato.
Soprattutto gli accordi di associazione, commerciali e di cooperazione costituiscono una fitta
rete di rapporti convenzionali con Stati terzi stipulati dalla CE ed oggi facenti capo all'Unione.
Art. 220 TFUE “L’Unione attua ogni utile forma di cooperazione con gli organi delle NU e
degli istituti specializzati, il Consiglio d’Europa, l’organizzazione per la sicurezza e la
cooperazione in Europa e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico”.
Sono accordi di collegamento tipici fra OI, di cooperazione, di agire in comune. Ciò si ha
tramite le delegazioni dell’Unione che sono gli ambasciatori che vanno a rappresentare
l’Unione.
Una particolare competenza in tema di stipulazione di accordi internazionali è stata prevista
dall’art. 6 par. 2 del TUE in virtù del quale “l’Unione aderisce alla Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali”. L'introduzione di tale
previsione rispondeva all'esigenza evidentemente sentita tra gli Stati membri di assicurare un
miglior coordinamento tra i sistemi di protezione dei diritti fondamentali esistenti in Europa.
Su queste basi giuridiche le istituzioni dell'Unione hanno avviato un ciclo di negoziati con il
Consiglio d'Europa giungendo ad un progetto di accordo di adesione senonché tale progetto è
stato bocciato dalla Corte di giustizia che ne ha rilevato l'incompatibilità con i trattati.
La competenza dell'unione a concludere accordi internazionali nei casi contemplati dal
Trattato, e quando il trattato non disponga espressamente il contrario, ha carattere esclusivo.
Ciò significa che gli Stati membri sono obbligati a non concludere per loro conto accordi nelle
stesse materie.
A parte gli accordi la cui conclusione è espressamente prevista da disposizioni specifiche, l’art.
216 del TFUE stabilisce che un accordo possa essere comunque concluso se sia necessario per
realizzare uno degli obiettivi fissati dai Trattati, o sia prevista in un atto vincolante dell’Unione
oppure possa incidere su norme comuni o alterarne la portata.

Altre informazioni
Nel TFUE all’art.3 vengono elencate le materie esclusive di competenza dell’Unione e
nell’art. 4 le materie di competenza concorrente con gli Stati.
Per quanto riguarda la politica commerciale, l’UE ha competenza esclusiva, ciò implica che se
voglio sapere le regole che regolano il commercio tra Italia e Giappone, lo Stato non avrà
competenze in materia, ma si deve consultare l’Unione.
In materia ambientale, l’UE è concorrente con gli Stati, ma sarà sempre lei a fare l’accordo.
Per il principio di sussidiarietà, dove lo Stato non arriva, sarà l’Unione ad intervenire.
Le competenze sono concorrenti all’inizio, poi per verificare chi deve disciplinare la materia si
deve vedere se l’azione dei singoli Stati basta per raggiungere un obiettivo o se è necessaria
un’azione a livello superiore.
Art. 37 TUE “L’Unione può concludere accordi con uno o più Stati o organizzazioni nei
settori di pertinenza del presente capo”. Per presente capo si intende la materia della politica
estera e di sicurezza comune, in cui l’UE non ha competenze forti perché è l’unica che è rimasta
quasi tutta nelle mani degli Stati.
Parte V del TFUE sull’azione esterna dell’Unione che è diverso dall’azione esterna e politica
estera del TUE.
Perché nel TFUE azione esterna riguarda tutto ciò che non è politica estera e di sicurezza
comune (cioè alta politica estera), mentre riguarda tutto ciò che ha a che fare con rapporti
commerciali, aiuto umanitario, cooperazione allo sviluppo, accordi in materia di trasporti,
servizi, agricoltura... tutto ciò che riguarda il settore economico diciamo, quindi bassa politica
estera.
Mentre tutto ciò che riguarda l’alta politica estera (rapporti politici, misure restrittive, minacce
di pace...) si trova nel TUE.
L'azione esterna in materia di alta politica estera è soggetta a disposizioni specifiche, l’UE ha
voce in capitolo molto minore. Questo perché ogni Stato vuole avere la propria sovranità e non
si possono stabilire regole che valgono per tutti; c’è cooperazione intergovernativa in cui tutti
gli Stati devono essere d’accordo sulla base del principio del consenso.
Per quanto riguarda l’azione esterna dell’Unione nelle sue materie di competenza esclusiva
(ma anche concorrente, per il principio di sussidiarietà), c’è piena competenza dell’Unione che
impone la sua azione e i suoi accordi anche agli Stati membri.

Inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi


Come si è più volte detto, le norme pattizie si distinguono dalle norme di diritto internazionale
generale perché valgono solo per gli Stati che le pongono in essere. Ciò ne consegue che
l’accordo è inefficace nei confronti degli Stati terzi.
Diritti ed obblighi per i terzi non potranno derivare da un trattato se non attraverso una qualche
forma di partecipazione di questi al trattato medesimo.
Qual è il problema quindi? In alcuni casi un accordo può contenere disposizioni che si rivelano
a favore/contro terzi Stati che però restano estranei ad esso; potranno tali Stati rivendicare tali
diritti o saranno costretti a rispettare determinati obblighi?
È il caso, per esempio, dai trattati sulla navigazione nei corsi d’acqua internazionali, i quali
prevedono la libertà di navigazione per tutti gli Stati, e non solo per le parti contraenti.
La tesi di Kelsen è chiara: l’accordo ha efficacia per i terzi Stati che ne ricevono vantaggi, i
quali possono rivendicarli, anche se gli Stati contraenti possono in ogni momento decidere di
revocare tali vantaggi. La situazione non è diversa da quanto accade nel diritto statale dove non
si può affermare che quelli attribuiti ai cittadini con legge non siano veri e propri diritti, perché
il Parlamento è libero in ogni momento di modificare le leggi che li contengono.
Tuttavia, la dottrina, e Conforti, si sono pronunciati in maniera differente affermando che non
si possono effettuare paragoni tra DI e diritto interno perché nel primo caso gli Stati contraenti
possono revocare i vantaggi senza dover necessariamente denunciare ed estinguere l’accordo.
Essi possono, in ordine a singoli casi concreti e rispetto a diversi Stati terzi che reclamino
vantaggi, ora accordarli ora negarli. Invece la legge interna è modificabile solo attraverso un
atto formale di modifica o abrogazione e non può che applicarsi a tutti i casi concreti.
Il diritto del terzo di esigere l'applicazione del trattato o di opporsi alla sua abrogazione è stato
sempre negato nella prassi.
Anche la CVT/69 si conforma al principio dell’inefficacia dei trattati nei confronti dei terzi
attraverso una serie di articoli contenuti nella sezione 4 della parte II. L'art. 34 sancisce come
regola generale che un trattato non crea obblighi e diritti per un terzo Stato senza il suo
consenso, il quale secondo l’art. 35 deve essere esplicitamente messo per iscritto.
L'art. 36 prevede a sua volta che un diritto possa nascere a favore di uno Stato terzo solo se
questo vi consenta, controbilanciato dall’art. 37 che autorizza i contraenti originari a revocare
quando vogliono il diritto accettato dal terzo.
In sintesi: perché veri e propri diritti nascano occorre non solo, come dice l’art. 36, che le
parti intendano crearli e che il terzo li accetti, ma anche che l’offerta dei contraenti
originari sia concepita come irrevocabile unilateralmente.

L'incompatibilità tra norme convenzionali


Il problema dell’incompatibilità tra norme convenzionali appartiene al tema della
modificazione ed estinzione dei trattati, ma è preferibile trattarlo in concomitanza con il
problema dell’inefficacia degli accordi nei confronti dei terzi perché è proprio sotto questo
aspetto che possono sorgere dei problemi.
L'accordo internazionale può essere modificato o estinto da un trattato successivo, sia
espressamente che in modo implicito. Tuttavia, se le parti ai due trattati, non coincidono
perfettamente, sorge il problema di sapere quali effetti spieghi il trattato successivo rispetto
allo Stato terzo che non lo abbia ratificato e che sia però parte di quello anteriore.
Ci sono diversi casi:
1. Incompatibilità tra accordi conclusi dalle stesse parti nella stessa materia
È l’ipotesi più semplice, quella in cui le stesse parti contraenti concludono un accordo relativo
ad una certa materia e poi successivamente ne concludono un altro le cui disposizioni sono
incompatibili col primo accordo. In questo caso si applica il principio generale lex posterior
derogat anteriori secondo cui il trattato successivo prevale su quello anteriore, secondo l’art.
30 par. 3 CVT.
Il trattato anteriore potrà applicarsi solo se non è stato espressamente abrogato e se le
disposizioni sono compatibili con quello posteriore.
2. Incompatibilità tra accordi in cui le parti coincidono solo parzialmente
Può accadere che un certo Stato A si impegni con un accordo nei confronti di uno Stato B, ma
successivamente stipuli un secondo accordo con il quale si impegna a tenere un comportamento
contrario con lo Stato C.
Oppure può succedere che solo alcuni degli Stati di un accordo multilaterale ne concludano
uno successivo nella stessa materia le cui disposizioni contrastano con il primo.
La soluzione è espressa nell’art. 30 par. 4 CVT, la soluzione non può che discendere dalla
combinazione dei due principi, quello della successione dei trattati nel tempo e quello
dell'inefficacia dei trattati per i terzi. Fra gli Stati contraenti di entrambi i trattati, quello
successivo prevale. Nei confronti degli Stati che siano parti di uno solo dei due trattati, restano
invece integri tutti gli obblighi che da ciascuno di essi derivano.
Lo Stato contraente di entrambi i trattati si troverà quindi a dover scegliere se tenere fede agli
impegni assunti col primo oppure a quelli assunti col secondo accordo, operata la scelta quindi
sarà responsabile di aver commesso un illecito (perché se adempie gli obblighi del primo
trattato viola quelli del secondo e viceversa).

Caso particolare della Carta ONU


L'art. 103 della Carta ONU sancisce la prevalenza degli obblighi derivanti da quest’ultima su
ogni altro obbligo che gli Stati membri possano in futuro contrarre. La stessa CVT all’art. 30
par. 1 fa espressamente salvo l’articolo 103 della Carta, in quanto lo considera un’eccezione
rispetto al principio per cui il trattato successivo tra le stesse parti prevale su quello anteriore.
Ciò perché l’art. 103 viene considerato di rango superiore, norma consuetudinaria di carattere
jus cogens.
L'art. 103 ha dato luogo ad una prassi consistente nell’inserire, in importanti accordi
internazionali successivi alla Carta, delle vere e proprie clausole di compatibilità o
subordinazione. Attraverso le quali si stabilisce in che misura un nuovo trattato è subordinato
o compatibile a quelli già esistenti.
Un trattato può contenere una clausola di subordinazione rispetto ad altri trattati preesistenti,
ma al tempo stesso può contenere l’impegno delle parti del nuovo trattato a intraprendere tutte
le azioni lecite che siano idonee a sciogliersi agli impegni incompatibili assunti
precedentemente.
Un esempio di clausola di compatibilità: fornito dall’ex art. 307 del TCE (oggi art. 351 del
TFUE). Prevede che le disposizioni del presente trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi
derivanti da convenzioni concluse anteriormente al 1° gennaio 1958. Serve a far salvi i
precedenti trattati in essere tra le parti, cioè vale a dire “ok Stato tu aderisci all’UE stai
tranquillo perché i precedenti trattati che hai stipulato prima dell’adesione prevarranno, ma tu
ti impegni a utilizzare tutti i mezzi per eliminare le incompatibilità che potrebbero esserci”.
Il problema si è posto nel rapporto tra TCE e GATT 47 perché prevedevano entrambi la
disciplina di temi legati al commercio internazionale. Il TCE prevedeva la prevalenza dei
trattati precedentemente stipulati, e quindi l’accordo GATT. Ma la Corte di Giustizia si è
pronunciata dicendo che si è vero che c’era la previsione dell’ex art. 307 ma è anche vero in
realtà le disposizioni del GATT avevano un carattere talmente flessibile che poteva prevalere
il TCE.
Analogamente si è pronunciato anche il Consiglio.
Il problema della compatibilità si pone oggi tra gli accordi stipulati dall’OMC (il principale è
il GATT 47) e dalle convenzioni multilaterali sulla protezione dell’ambiente, quindi
incompatibilità tra accordi su commercio internazionale e accordi a difesa dell’ambiente. C'è
il ricorso a delle clausole di incompatibilità, ad esempio nella Convenzione sulla biodiversità
1992. La soluzione al problema è offerta dalla possibilità di negoziati, cioè rinegoziare nel
corso del tempo determinati accordi e quindi aggiornali anche tenendo conto dei successivi
accordi in materia ambientale che si fanno via via più rilevanti nel tempo.

L' istituto delle riserve


Sul tema delle riserve nei trattati vi è stata una evoluzione della prassi internazionale. La
disciplina è contenuta nella CVT/69 agli art. 19-23 e recentemente è stata oggetto di studio da
parte della CDI la quale ha predisposto delle linee-guida approvate nel 2011.
Con il termine riserva ci si riferisce a quell’istituto che permette ad uno Stato che non abbia
volontà di accettare integralmente il testo di un accordo, di inserire una dichiarazione con la
quale si vuole escludere l’applicazione di una o più clausole per quello Stato autore della
dichiarazione, o semplicemente modificarne l’effetto.
Una definizione di riserva è contenuta anche nell’art. 2 della CVT/69.
Da ciò si capisce che le riserve svolgono un ruolo fondamentale nel favorire la massima
adesione possibile ai grandi accordi multilaterali su temi delicati che interessano tutta
l’umanità. Mentre non sono applicabili ai trattati bilaterali, dal momento che la riserva
equivarrebbe alla proposta di modifica del testo.
Al genere della riserva appartiene anche la dichiarazione interpretativa di cui non vi è traccia
nella Convenzione. Si tratta di una dichiarazione formulata da uno Stato attraverso la quale si
intende specificare bene lo scopo che tale Stato attribuisce all’intero trattato o ad alcune
clausole. Distinzione tra:
- Dichiarazione condizionata: quando lo Stato dichiara che intende vincolarsi al trattato
solo se questo, o alcune sue clausole, sono interpretati in un certo modo (quindi A
CONDIZIONE CHE). La dichiarazione condizionata equivale quindi alla riserva.
- Dichiarazione incondizionata: quando tale intento non risulta dalla dichiarazione, si
tratta di una proposta che mira a salvaguardare una posizione giuridica; trattasi
insomma di un mezzo ausiliario o complementare di interpretazione.
L'evoluzione dell’istituto delle riserve
La disciplina delle riserve ha subito importanti evoluzioni fino ai nostri giorni. Pertanto, è utile
ripercorrere le tappe principali, illustrando le regole del diritto internazionale classico per
passare poi agli sviluppi imposti dalla CIG e dalle regole codificate nella CVT/69.
Il DI classico si rifaceva al principio dell’integrità del trattato, in base al quale eventuali riserve
dovevano essere inserite nel testo durante la fase di negoziazione e poi approvate da tutti i
contraenti perché potessero essere ammesse.
In assenza di tali disposizioni, le riserve sarebbero state inammissibili e lo Stato autore della
riserva, se avesse voluto mantenerla, sarebbe stato estromesso dal trattato.
Tale soluzione però può dirsi in contrasto con la volontà degli Stati che stipulano un accordo
internazionale multilaterale, cui fine ultimo è la partecipazione di più membri possibili.
Una tappa fondamentale nell’evoluzione di questa disciplina è da ritrovare nel parere della
CIG sulla Convenzione sulla repressione del genocidio (nel cui testo non c’era la facoltà di
apporre riserve). L'AG chiese alla CIG se gli Stati potessero ugualmente procedere alla
formulazione di riserve al momento della ratifica, la Corte si pronunciò in maniera positiva
affermando che “una riserva può essere formulata all’atto della ratifica purché essa sia
compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato” (da leggersi come: purché essa non riguardi
clausole fondamentali e caratterizzanti l’intero trattato).
A cui aggiunse però che un altro Stato contraente aveva la facoltà di contestare la riserva e che
tra i due Stati (quello che contestava e quello che voleva apporre riserva) il trattato entrava in
vigore nella sua interezza.
La CVT/69 si esprime sul tema delle riserve in diversi articoli, innanzitutto nell’art. 19 codifica
il principio che una riserva può essere sempre formulata purché non sia espressamente esclusa
dal testo del trattato oppure sia incompatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato stesso.
Inoltre, nell’art. 20 stabilisce che la riserva, quando non prevista dal testo del trattato, può
essere contestata da un’altra parte contraente, ma se tale contestazione non avviene entro 12
mesi dalla notifica della riserva allora tale riserva è da intendersi come accettata. Inoltre,
aggiunge che tale contestazione non deve essere meramente generica, ma deve essere esplicita
e netta altrimenti non avrà effetti giuridici.
Anche la prassi internazionale ha contribuito alla continua evoluzione della disciplina delle
riserve, in particolare, un’importante innovazione riguarda le cosiddette riserve tardive cioè la
possibilità che uno Stato formuli riserve in un momento successivo rispetto a quello in cui
aveva ratificato il trattato purché nessuna delle altre parti contraenti sollevi obiezioni entro un
termine che inizialmente era stato fissato in 90 giorni e poi portato a 12 mesi in seguito alle
proteste degli Stati.

Riserve e giudici internazionali/interni


Un'altra questione da affrontare è il rapporto tra il criterio oggettivo, cioè la compatibilità della
riserva con l’oggetto del trattato, e quello soggettivo, cioè la constatazione da parte di uno
Stato.
Cosa accade se una riserva contraria all’oggetto del trattato non viene contestata? E viceversa,
se la riserva è oggettivamente valida, deve comunque ritenersi inammissibile nei confronti
dello Stato obiettore?
Ma soprattutto chi decide?
Se sulla questione dell’ammissibilità è chiamato a pronunciarsi un giudice (sia internazionale
che interno), egli ha il potere di decidere autonomamente sulla validità o meno della riserva,
ovviamente con effetti limitati al caso specifico.
Se invece un giudice non viene chiamato a pronunciarsi, non resta che aver riguardo alle
eventuali obiezioni.

Inammissibilità della riserva e principio utile per inutile non vitiatur


La tendenza innovatrice più significativa è quella che riguarda le conseguenze della accertata
invalidità della riserva. Cosa accade se una riserva è considerata invalida perché contraria
all’oggetto del trattato? In particolare, come si deve comportare lo Stato, il quale aveva deciso
di vincolarsi a tale trattato in presenza della riserva?
Secondo la prassi l’invalidità della riserva non comporta l’estraneità dello Stato stesso rispetto
al trattato, esso sarà quindi vincolato all’intero contenuto dell’accordo.
Conforti mette in luce un aspetto di criticità, affermando che se questa tendenza si va
consolidando, non si tratta più di facilitare la partecipazione agli accordi multilaterali, ma
piuttosto gli Stati si troverebbero frenati dal rischio di invalidità e quindi si andrebbe a ridurre
quell’evoluzione di cui si è parlato fino ad ora.

Competenza a formulare le riserve


Quando alla formazione della volontà dello Stato diretta a partecipare al trattato concorrono
più organi, può darsi che l’apposizione di una riserva sia decisa da uno di essi ma non dagli
altri. Se a concorrere sono l’Esecutivo e il Legislativo, che cosa accade se il Governo non tiene
conto di una riserva decisa dal Parlamento o formula una riserva che il Parlamento non ha
voluto?
La reciproca delimitazione dei poteri tra Esecutivo e Legislativo in ordine alla formulazione
delle riserve dipende dal sistema costituzionale vigente in ciascuno Stato.

L'interpretazione dei trattati


L'interpretazione, nella teoria generale, può essere definita come l’attività volta a chiarire il
senso e la portata di una norma giuridica. Nel caso specifico dei trattati è definita come “la
determinazione del significato da attribuire alle espressioni utilizzate dalle parti nel testo di un
trattato”.
Nel passato non si riteneva che esistessero regole di diritto internazionale generale
sull’interpretazione, la quale era disciplinata semplicemente da principi di logica giuridica e di
buon senso e da criteri generali dell’ordinamento giuridico.
La dottrina più recente invece considera le regole d’interpretazione dei trattati come principi
generali di diritto internazionale.
L'oggetto dell’attività interpretativa è costituito dunque dal testo di un accordo, occorre
individuare secondo quale metodo s’intende impostare l’interpretazione e secondo quale
modalità e infine le regole.

Metodi di interpretazione
1. Metodo soggettivo: si basa sulla ricerca della volontà effettiva degli Stati, ovvero la
loro intenzione. Può dar luogo ad abusi e a troppo libero arbitrio.
2. Metodo oggettivo: preferisce fare riferimento alla volontà dichiarata dalle parti nel
testo, quindi all’intenzione dichiarata in maniera esplicita. In questo contesto si
inserisce il metodo oggettivo sistematico in base al quale ogni disposizione di un
trattato va interpretata tenendo conto del contesto delle norme in cui è inserita e della
connessione logica tra le varie parti del trattato.
3. Metodo finalistico: predilige, ai fini dell’interpretazione delle disposizioni di un
accordo, quella che meglio risponde all’oggetto e allo scopo dell’accordo. Si guarda
quindi alle finalità dell’accordo stesso. È il metodo preferito nell’interpretazione di
accordi internazionali, soprattutto per ricavare la possibilità di attribuire poteri agli
organi delle OI non espressamente previsti dal Trattato istitutivo, mediante l’utilizzo di
una particolare forma di interpretazione estensiva che è data dalla teoria dei poteri
impliciti. Un settore in cui è molto utilizzato è quello del diritto internazionale
dell’economia, in particolare nell’ambito dell’accordo GATT (strumento multilaterale
di liberalizzazione di scambi di merci, cioè libera circolazione negli Stati contraenti
l’accordo), se si deve far circolare un prodotto io dovrò far circolare tutti prodotti simili
(uno Stato ha l’obbligo di far entrare nel territorio e far commercializzare tutti quei
prodotti simili al suo che però provengono da altri Stati). Cosa succede se si ha un
dubbio se un prodotto è simile o no? Si è nell’ambito dell’interpretazione del diritto,
come si interpreta il concetto di prodotto similare? Ci sono criteri diversi: per
caratteristiche qualitative (interpretazione restrittiva), per lo scopo (interpretazione
estensiva) ... (è simile l’olio evo con l’olio di semi? Qualitativamente no però lo scopo
per cui si usa è lo stesso).

Modi di interpretazione
1. Interpretazione restrittiva: quel particolare modo di intendere una disposizione di un
trattato che si basa sulla lettera del testo e tende ad escludere la possibilità di estendere il
significato di certi termini. La dottrina ricorda che questo modo d’interpretazione è stato in
passato giustificato perché un accordo comporta limiti alla sovranità di uno Stato e quindi una
eventuale estensione delle sue disposizioni si scontrerebbe con il principio per cui le limitazioni
di sovranità non si presumono.
2. Interpretazione estensiva: consente di attribuire a termini o espressioni contenuti nelle
disposizioni di un accordo significati che vanno al di là del dato testuale ma che possano
implicitamente o espressamente ricavarsi dall’analisi sistematica del testo, dalla considerazione
per l’oggetto e lo scopo dell’accordo, dal contesto in cui esso fu concluso.
• 2.1 Analogia: è da intendersi una forma di interpretazione estensiva che consiste
nell’applicare una norma ad un caso che essa non prevede ma i cui caratteri essenziali
sono analoghi a quelli del caso previsto. Si ricorre all’analogia per disciplinare
fattispecie nuove. Il caso più comune è l’applicazione di norme in materia di
navigazione marittima a quella aerea o anche quella cosmica.
• 2.2 La dottrina dei poteri impliciti: è una forma di interpretazione estensiva che ha
assunto particolare importanza in relazione ai trattati istitutivi di OI. Nell’ordinamento
internazionale vige il principio di attribuzione delle competenze, in base al quale gli
organi di una OI non possono esercitare poteri che non siano espressamente previsti dal
trattato istitutivo. Questo principio però incontra un’eccezione nell’interpretazione
estensiva del trattato istitutivo della OI, ed in particolare nella teoria dei poteri impliciti,
in base alla quale gli organi di una OI non solo possono esercitare i poteri
espressamente attribuiti loro ma anche quelli necessari all’esercizio dei poteri
espressi, anche se non previsti dal trattato. Questa teoria è stata utilizzata dalla CIG
in alcuni pareri per giustificare l’attribuzione agli organi dell’ONU di poteri non
espressamente previsti dalla Carta.
• 2.2.1 La teoria del parallelismo: la dottrina dei poteri impliciti ha ricevuto importanti
applicazioni in seno a un’altra OI, l’Unione Europea, il cui trattato istitutivo prevedeva
addirittura una espressa disposizione che riconosce la possibilità (a certe condizioni)
per gli organi dell’organizzazione di ricorrere a poteri impliciti. Nonostante questa
espressa disposizione, la CIG dell’UE ha fatto ricorso alla dottrina dei poteri impliciti
per allargare ulteriormente le competenze dell’organizzazione a scapito di quelle degli
Stati membri, in materia di conclusione di accordi internazionali. Si tratta di
un’applicazione della dottrina dei poteri impliciti ed è chiamato principio del
parallelismo delle competenze interne ed esterne, ed è la possibilità per l’UE, ogni volta
che c’è un potere normativo interno, di concludere anche accordi internazionali
(competenza esterna).
3. Interpretazione evolutiva: consiste nell’interpretare le disposizioni e i termini in esse
contenuti alla luce degli sviluppi della normativa internazionale.
4. Interpretazione autentica: in base al principio che chi ha il potere di modificare una norma
o abrogarla ha anche il potere di interpretarla, è autentica l’interpretazione frutto di un accordo
delle parti contraenti (accordo contemporaneo o successivo a quello principale).
5. Interpretazione giudiziale: è l’interpretazione di un accordo resa da un giudice o arbitro
internazionale a cui è stato affidato il compito.
6. Interpretazione unilateralistica: è l'interpretazione resa dai singoli Stati contraenti al
momento dei negoziati o della ratifica del trattato, mediante il ricorso a dichiarazioni
interpretative, e quella resa dai giudici nazionali degli Stati contraenti chiamati ad applicare
l'accordo all'interno dei rispettivi ordinamenti. Questo tipo di interpretazione andrebbe evitata
poiché uno stesso termine tecnico-giuridico potrebbe essere interpretato in molte maniere
differenti a seconda dei singoli ordinamenti interni.
7. Interpretazione uniforme: un modo per evitare il ricorso a quella unilateralistica, si affida
ad un giudice unico il compito di interpretare le disposizioni di un trattato con effetti vincolanti
all’interno degli ordinamenti degli Stati contraenti. Una tecnica è il rinvio pregiudiziale con il
quale ogni giudice di ogni Stato parte di un accordo può effettuare ad un giudice determinato,
il quale emetterà pronunce interpretative vincolanti per tutti gli ordinamenti interni degli Stati
parte.

Regole di interpretazione
Sono quelle regole che devono essere utilizzate in via preliminare in ogni attività interpretativa
ai fini dell’individuazione della specifica norma da applicare al caso concreto.
- Principio gerarchico: stabilisce che la norma di rango superiore prevale su quella di
rango inferiore. Nel DI questo principio non è applicabile ai rapporti tra accordi né a
quelli tra consuetudine e accordo. Mentre si applica senza dubbio ai rapporti tra norme
consuetudinarie e pattizie da un lato e norme cogenti dall’altro; così come ai rapporti
tra le norme di un trattato istitutivo e le fonti da esso derivato. Anche se in certi casi gli
atti prodotti in base ad accordo possono costituire dei veri e propri accordi e in questi
casi il principio gerarchico non potrà applicarsi essendo di fronte a norme di pari rango,
le quali dovranno essere interpretate secondi i seguenti criteri.
- Principio di posteriorità: dal brocardo latino lex posterior derogat anteriori, quindi
tra norme di pari rango e della stessa materia, la successiva prevale su quella anteriore.
Il principio in questione non si applica ai rapporti tra consuetudine ed accordi, in quanto
norme di diversa efficacia.
- Principio di specialità: la legge speciale prevale su quella generale. In questo caso
l’accordo, essendo norma speciale in quanto è specifica per la materia e per determinati
soggetti, prevarrà sulla norma generale della consuetudine.

Gli articoli 31-33 della Convenzione di Vienna


Le regole in materia di interpretazione contenute nella CVT si applicano ai trattati in forma
scritta, secondo quanto previsto dal suo articolo 2 ed a tutti gli strumenti ad esso connessi.
In dottrina ci si è posti il problema se tali regole interpretative, nella loro dimensione di norme
consuetudinarie, possono applicarsi anche agli atti di OI in quanto fondati pur sempre su di un
accordo e la risposta positiva viene giustificata considerando il fondamento pattizio della
competenza degli organi delle OI ad emanarli.
Art. 31
Par. 1 → detta le regole essenziali, si evince come la Convenzione non codifica un unico
metodo d’interpretazione come regola generale, ma ricorre a quello oggettivo (senso da
attribuire ai termini del trattato), sistematico (contesto) e finalistico (oggetto e scopo).
Negli altri paragrafi ci sono riferimenti ad altri criteri e metodi interpretativi, cioè
interpretazione evolutiva, metodo soggettivo (nel par. 4).
Questo fa sì che l’art. 31 sia una norma molto difficile da commentare.
Par. 2 → viene specificato, secondo l’interpretazione sistematica, cosa vuol dire “contesto”.
Ciò comprende, oltre al testo, ogni accordo in rapporto col trattato come protocolli, annessi,
allegati tecnici; e ogni strumento posto in essere da una o più parti come, ad esempio, le
riserve e le dichiarazioni interpretative.
Par. 3 → si deve tener conto anche di ogni accordo ulteriore, nel senso di ogni accordo deciso
successivamente dalle parti contraenti al fine di chiarire alcuni aspetti d’interpretazione delle
sue disposizioni più controverse. Ma anche di qualsiasi prassi successivamente seguita, in
questo modo la Convenzione legittima la possibilità per gli Stati contraenti di adottare
comportamenti in relazione all’applicazione di un trattato che in base ad un tacito accordo o ad
una consuetudine formatasi tra tali Stati, attribuiscano una determinata interpretazione ad una
o più delle sue disposizioni.
Si tratta del fenomeno della prassi applicativa successiva di carattere interpretativo, la
quale può determinare una vera e propria modifica delle disposizioni di un accordo, tale
modifica sarà il frutto di un tacito consenso tra i contraenti o di una vera e propria consuetudine
formatasi (è il caso dell’art. 27 della Carta ONU relativo alle procedure di voto in seno al CdS
e il valore dell’astensione, ma anche l’art. 23 e la composizione dello stesso CdS).
Nella lettera c si parla di interpretazione che deve aggiornare in senso storico, e quindi far
evolvere, il significato dei termini e delle disposizioni di un certo accordo. Siamo nell’ambito
dell’interpretazione evolutiva. Che deve tenere conto di quelle norme che si sono formate nel
DI generale dalla data in cui è stata adottata una certa convenzione al momento in cui
quell’accordo deve essere applicato.
Esempio di interpretazione evolutiva: parere della CIG in riferimento alle conseguenze per gli
Stati della persistente presenza del Sud Africa in Namibia (Namibia era stata occupata dal Sud
Africa finché non si è resa indipendente), nell’epoca del parere la CIG si chiese cosa potessero
fare gli altri Stati per opporsi alla persistente occupazione della Namibia. La CIG ha detto che
bisognava far riferimento a un vecchio articolo del Patto delle SdN perché era l’accordo
applicabile al caso della Sud Africa. La CIG doveva interpretare l’art. 22 del 1919 (si era nel
1970) che riguardava il regime dei mandati e la SdN poteva conferire a uno Stato il mandato
ad amministrare un certo territorio per favorire il benessere e lo sviluppo con una missione
sacra e civilizzatrice. Secondo la CIG questi termini dovevano essere interpretati tenendo conto
dell’evoluzione storica e giuridica degli ultimi 50 anni, e quindi si esprime sulla interpretazione
evolutiva dell’art. 22. Tenendo conto che il Patto non c’è più, al suo posto c’è la Carta ONU e
sul piano del DI si sono formate certe consuetudini.
In sintesi: secondo la Corte quella missione sacra e civilizzatrice doveva essere interpretato
come autodeterminazione e indipendenza dei popoli, tenendo conto ovviamente dei 50 anni di
evoluzioni dal 1919 al 1970.
Sempre alla lettera c: si dice che bisogna tener conto di qualsiasi altra norma pertinente. Svolge
un ruolo fondamentale nel momento di incompatibilità fra norme convenzionali, esempio:
l’Italia è parte del GATT (libera circolazione merci) e del CITES (restringe la circolazione di
certe merci perché prodotto di certi animali in via di estinzione). I due accordi sono
incompatibili, come si risolve? O c’è una norma consuetudinaria o clausola di incompatibilità
oppure vado in violazione dell’accordo CITES. A meno che il GATT non tenga conto di
deroghe.

I soggetti competenti ad interpretare i trattati:


- Stati contraenti
- Stati membri di OI
- Organi di OI
- Giudici internazionali e arbitri
- Giudici interni

Cause d’invalidità e di estinzione dei trattati


Nella CVT il tema è trattato nella Parte V, art. 42-72.
Le cause di invalidità e di estinzione sono questioni che gli Stati possono sollevare per liberarsi
dagli obblighi e diritti che derivano dall’essere parte di un trattato. C'è quindi un obbligo che
in caso di violazione nei confronti degli altri Stati, produce una responsabilità internazionale
dello Stato.
Questi obblighi possono essere più o meno gravosi per il soggetto; ciò che importa è che lo
Stato si sia obbligato a rispettare il trattato e non può essergli consentito di liberarsi dagli
obblighi in maniera arbitraria.
Le cause di invalidità e di estinzione a questo punto gli consentono di liberarsi da questi
obblighi quando si verificano determinate situazioni.
Secondo autorevole dottrina, al momento in cui ci si riferisce alle cause di invalidità dei trattati,
si esclude che possa applicarsi nell’ordinamento internazionale la tradizionale distinzione che
si ha nel diritto interno, tra nullità e annullabilità di un atto. Perché queste categorie giuridiche
sono legate a meccanismi procedurali che difficilmente trovano riscontro nel DI.
Nel DI è bene parlare dunque di invalidità assoluta e invalidità relativa.
Invalidità relativa → un trattato può essere considerato invalido per una causa di invalidità
relativa se:
- questa è invocata soltanto dalla parte contraente vittima del vizio (chi ritiene di aver
subito determinate conseguenze del vizio di un trattato, criterio della legittimazione
attiva);
- se la causa di invalidità può operare soltanto nei confronti di una o più disposizioni del
trattato senza stravolgerlo per intero (criterio della divisibilità, viene separata una
disposizione invalida dal trattato che rimane valido);
- se l’esecuzione del trattato può avvenire nonostante la conoscenza del vizio di validità
(criterio della sanabilità, significa che pur essendo le parti consapevoli del vizio, il
trattato può essere eseguito e viene sanato);
- se la parte contraente, per l’effetto dell’esecuzione nonostante la conoscenza della causa
di invalidità, perde il diritto di invocarla.
Nella Convenzione di Vienna le cause di invalidità relativa si ritrovano negli art. 46-48-49-50.
Invalidità assoluta → si ha se:
- la causa può essere invocata da qualsiasi parte del trattato (anche dalla parte che non è
vittima di un vizio);
- oppure se la causa travolge non una singola parte, ma l’intero trattato (non è applicabile
il criterio della divisibilità);
- se non è possibile sanare la causa di invalidità mediante acquiescenza (no criterio
sanabilità, per cui non si può dare esecuzione al trattato).
Nella CVT sono quelle previste dagli art. 51-52-53.

Analisi della Convenzione


Negli art. 42-45 ci sono disposizioni generali che valgono sia per le cause di invalidità che le
cause di estinzione.
Art. 46 → disposizioni di diritto interno sulla competenza a stipulare
Viene in gioco, per quanto riguarda l’Italia, il rapporto che intercorre tra Governo e Parlamento
per la stipulazione di un trattato.
Uno Stato, laddove un trattato sia stato stipulato in violazione di una norma interna sulla
competenza a stipulare, può invocare una causa di invalidità a condizione che la violazione sia
manifesta e che riguardi una norma di diritto interno di importanza fondamentale, altrimenti le
questioni interne sulla competenza a stipulare non hanno rilievo sul piano internazionale.
In Italia, il problema si pone in relazione agli accordi in forma semplificata, attraverso i quali
con la sola firma del plenipotenziario, lo Stato si obbliga sul piano internazionale.
Art. 48 → l’errore
L’errore riguarda un fatto o una situazione che uno Stato supponeva come esistente al momento
della conclusione del trattato e che costituiva una base essenziale (aspetto fondamentale) per il
fatto stesso di vincolarsi a quel trattato.
Per poter invocare la causa di invalidità, lo Stato non deve aver contribuito alla creazione di
quell’errore e non si devono essere create le circostanze tali per cui lo Stato potesse essere a
conoscenza della possibilità della presenza di tale errore.
Art. 49 → il dolo
Uno Stato viene indotto a concludere un trattato da un comportamento doloso di un altro Stato
che ha partecipato alla negoziazione. Nel caso dell’art. 48 si cade in errore da soli,
autonomamente, in questo articolo si viene indotti da un altro soggetto.
Laddove lo Stato si accorge di essere stato indotto a concludere il trattato a causa del
comportamento doloso di un altro, allora si può invocare la causa di invalidità.
Art. 50 → la corruzione
Secondo Conforti l’art. 50 può essere ricondotto all’art. 49 come rapporto di specie a genere.
È il caso in cui il rappresentante di uno Stato, che si è occupato della negoziazione del trattato,
si è fatto corrompere da una parte del trattato. In questo caso lo Stato che è la parte offesa
(perché si è affidata al plenipotenziario) può invocare la causa di invalidità.
Art. 51 → violenza esercitata sul plenipotenziario
Riguarda la violenza esercitata sul rappresentante dello Stato mediante atti o minacce, il quale
si trova indotto a firmare un accordo. Può essere invocata la causa di invalidità.
Art. 52 → violenza esercitata sullo Stato
Non si tratta di violenza fisica, ma è esercitata nei confronti dello Stato nella sua interezza. Si
tratta di impiego della forza in violazione dei principi di DI incorporati nella Carta ONU.
Conforti dice che si tratta di forza armata o minaccia di uso di forza armata da parte di un altro
Stato.
Perciò si escludono tutti i casi di pressioni politiche, economiche, commerciali ecc...
Art. 53 → trattati in conflitto con una norma imperativa di diritto internazionale
Si fa riferimento alle norme jus cogens, cioè norme consuetudinarie inderogabili che si
collocano al primo grado nella gerarchia delle fonti del DI assieme alle norme di diritto
consuetudinario e ai principi generali di diritto riconosciute dalle nazioni civili.
Le norme jus cogens sono inderogabili (al contrario delle consuetudini e accordi), possono
essere derogate solo da altre norme jus cogens.
È nullo qualsiasi trattato che al momento della sua conclusione è in conflitto con una norma
jus cogens.

Esistono poi delle cause di estinzione e sospensione dei trattati.


Il diritto dei trattati conosce cause che possono funzionare sia come cause sospensive e anche
estintive, mentre altre sono esclusivamente cause di estinzione.
Tra le cause di estinzione ritroviamo:
- Denuncia o recesso → Si tratta di due strumenti che lo Stato ha per liberarsi
legittimamente dell’obbligo verso un trattato, normalmente non ha effetto immediato
poiché nel trattato stesso è previsto un periodo entro il quale continua comunque ad
essere efficace. La denuncia riguarda i trattati bilaterali, mentre il recesso quelli
multilaterali. Se uno Stato recede significa che quel trattato sarà estinto per lui ma
continuerà ad essere in vigore per gli altri. Un esempio è il caso Brexit.
- Condizione risolutiva → all'avverarsi, in un momento futuro e incerto, di una
determinata condizione, il trattato si estingue.
- Termine finale → il trattato può contenere disposizioni circa la sua durata, un esempio
è l’estinzione avvenuta nel 2002 del trattato CECA di durata cinquantennale.
- Abrogazione espressa → un accordo successivo nella stessa materia intercorso tra le
stesse parti contraenti può contenere una disposizione relativa all’abrogazione del
trattato precedente.
- Abrogazione per incompatibilità tra norme convenzionali → in base alle regole
consuetudinarie sull’incompatibilità tra norme convenzionali, codificate nell’art. 30
CVT, un accordo successivo sulla stessa materia e tra gli stessi contraenti prevarrà, per
il principio della successione delle leggi nel tempo, su quello anteriore, abrogandolo a
meno che il trattato successivo non intercorra soltanto tra alcuni dei contraenti del
precedente, e/o non contenga clausole di compatibilità col trattato precedente
facendone salva l’efficacia.
- Abrogazione per sopravvenienza di una nuova norma cogente → in caso di
sopravvenienza di una nuova norma imperativa di DI generale, qualsiasi trattato
esistente in conflitto con tale norma, diviene nullo e si estingue. Differenza con art. 53
sta nel fatto che la causa di invalidità si può invocare con una norma di jus cogens già
esistente; mentre nell’art. 64 si parla di una nuova norma, non esistente al momento
della conclusione del trattato.

Tra le cause di estinzione e/o sospensione troviamo:


- Inadempimento della controparte → la violazione sostanziale di un trattato ad opera
di uno dei contraenti autorizza le altre parti a sospendere o estinguere l’accordo, alle
condizioni previste dall’art. 60.
- Sopravvenuta impossibilità dell’esecuzione → l’art. 61 dispone che una parte può
invocare l’impossibilità di esecuzione di un trattato come motivo di estinzione o
sospensione se questa impossibilità risulta dalla scomparsa di un oggetto indispensabile
all’esecuzione del trattato stesso. Dipende dal carattere dell’impossibilità, se è
temporaneo si invoca causa di sospensione, se carattere definitivo sarà causa di
estinzione.
- La clausola rebus sic stantibus → le parti di un accordo hanno concluso lo stesso
tenendo in considerazione la situazione di fatto esistente in quel momento, cosicché
fatti sopravvenuti successivamente, che modificano l’equilibrio dell’accordo a
svantaggio di una parte, autorizzano questa a chiederne la modificazione. L'art. 62 si
esprime al negativo, escludendo come regola generale che un mutamento delle
circostanze possa causare l’estinzione di un accordo, a meno che l’esistenza di tali
circostanze era una base essenziale per il consenso delle parti e soprattutto se tale
mutamento non abbia determinato un grave sbilanciamento degli obblighi ancora da
eseguire.
- Gli effetti della guerra → se tra le parti contraenti di uno stesso trattato sorge un
conflitto armato, cosa ne sarà di quel trattato? Secondo Conforti è da escludere che la
questione riguardi quei trattati che si applicano proprio in occasione di conflitti armati,
poiché è ovvio che tali trattati iniziano ad applicarsi in queste occasioni. Per quanto
riguarda tutti gli altri accordi, secondo la dottrina maggioritaria essi restano
quantomeno sospesi per il periodo delle ostilità. Il quesito, quindi, è: una volta cessate
le ostilità, devono ritenersi definitivamente estinti, oppure, essendo stati prima sospesi,
possono rientrare in vigore? Il DI classico andava verso la prima direzione di estinzione,
ma oggi si tende ad escludere che gli accordi multilaterali si estinguano per effetto della
guerra, i quali resterebbero sospesi solo nei confronti degli Stati in guerra. La CVT non
tocca l’argomento poiché all’epoca si escluse che l’apertura delle ostilità potesse
rientrare nel diritto dei trattati, mentre adesso la CDI afferma il contrario.

Quando una di tali cause si verifica, come si fa valere?


Opera automaticamente, nel senso che il solo fatto di verificarsi automaticamente determina
l’invalidità/estinzione/sospensione? Oppure occorre che la parte che la invoca notifichi agli
altri contraenti la sua intenzione? Ed in caso di contestazione, si deve attendere la sua
soluzione prima di poterla considerare operativa?
La dottrina sottolinea che esistono alcune cause di invalidità/estinzione/sospensione che
possono senz’altro operare automaticamente; mentre la maggior parte possono dipendere da
fatti e circostanze non oggettivamente rilevabili, ma valutabili dagli Stati in modi diversi.
A questo punto Conforti distingue tra operatività delle cause davanti a giudice nazionale e sul
piano internazionale.
Sul piano interno la giurisprudenza dimostra la tendenza dei giudici nazionali a risolvere le
questioni relative alle cause d’invalidità e di estinzione di un accordo ai fini della soluzione del
caso concreto. Si parla quindi di automaticità dell’operatività di tali cause, che però avranno
effetto solo nel caso concreto, e non avranno effetti sul piano internazionale, dove resterà
vigente.
Sul piano internazionale, quando uno dei contraenti di un trattato ritenga che si sia verificata
una causa di invalidità/estinzione, e voglia perciò sciogliersi dal vincolo, sarebbe opportuno
che esso lo notificasse agli altri contraenti mediante un atto unilaterale di denuncia (secondo
Conforti non è obbligatorio).
La competenza a denunciare un trattato dipende dalle norme costituzionali di ogni Stato così
come avviene per la competenza a stipulare. In Italia la tesi preponderante esclude la necessità
dell’intervento del Parlamento ed assegna tale competenza al Governo.
Infine, gli art. 65-68 della CVT disciplinano la procedura per far valere le cause di
estinzione/invalidità.

La successione degli Stati nei trattati


Il problema della successione nei trattati può impostarsi così: quando uno Stato si sostituisce
ad un altro nel governo di un territorio, è vincolato dai trattati stipulati dal suo predecessore e
in vigore in quel territorio?
La sostituzione può avvenire per le cause e nei modi più vari. Può darsi che una parte del
territorio di uno Stato passi sotto la sovranità di un altro Stato già esistente oppure si costituisca
in Stato indipendente; può darsi che il cambiamento di sovranità riguardi l’intero territorio
dello Stato e che quindi l’intera comunità territoriale sia incorporata o si fonda con un altro
Stato oppure si smembri dando luogo a più Stati oppure che venga a trovarsi sotto un regime
radicalmente diverso.
Tutte queste vicende sono costituite da circostanze di fatto, cioè dall’affermarsi dal ritirarsi e
dall’espandersi della sovranità territoriale, ossia dell’effettivo esercizio del potere di governo
nell’ambito di un territorio.
Sul piano giuridico il problema che si pone è se, una volta verificatosi il cambiamento di
sovranità, i diritti e gli obblighi internazionali che facevano capo al predecessore passino allo
Stato subentrante. È chiaro che si fa riferimento agli obblighi pattizi, dato che il diritto
consuetudinario vincola comunque tutti gli Stati.
È chiaro che la questione sulla successione è collegata al problema della soggettività
internazionale; tant’è che alla successione degli Stati nei trattati è dedicata una Convenzione di
codificazione predisposta dalla CDI e firmata a Vienna nel 1978 (si decise di non inserire il
problema nella CVT/69 poiché questo fu considerato un istituto autonomo non avente a che
fare con la disciplina del diritto dei trattati).
La Convenzione è per altro criticata dalla maggior parte della dottrina poiché le sue soluzioni
non sempre si uniformano al diritto internazionale consuetudinario e alla prassi.

I trattati localizzabili e non localizzabili


Per quanto riguarda i trattati localizzabili, cioè quei trattati conclusi dallo Stato predecessore
che riguardano l’uso di determinate parti di territorio, saranno vincolanti per lo Stato che in
qualsiasi modo si sostituisce ad un altro governo di una comunità territoriale.
È il caso dei trattati che istituiscono servitù attive o passive nei confronti di Stati vicini; accordi
per la concessione in affitto di parti di territorio; trattati che prevedono libera navigazione di
fiumi, canali e altre vie d’acqua; trattati che prevedono la costruzione di opere sui confini ecc.
Chiamato anche principio di continuità perché si ha l’obbligo di continuare con i diritti e
obblighi derivanti dai precedenti trattati.
La successione nei trattati localizzabili incontra però solo un limite. Il quale riguarda quegli
accordi che abbiano una prevalente caratterizzazione politica, che siano cioè strettamente legati
al regime vigente prima del cambiamento di sovranità. Quindi non si verificherà successione
negli accordi che concedono parti di territorio per l’installazione di basi militari straniere.
Si tratterebbe in realtà dell’applicazione del principio generale rebus sic stantibus secondo il
quale un trattato o determinate clausole di un trattato si estinguono se mutano in modo radicale
le circostanze esistenti al momento della conclusione.
Per quanto riguarda i trattati non localizzabili, ossia la maggior parte (cioè i trattati istitutivi
delle OI, trattati commerciali, trattati sulla libera circolazione ecc), la regola fondamentale da
assumere è la cosiddetta regola della tabula rasa per cui lo Stato che subentra nel governo di
un territorio non è in linea di massima, a parte alcune eccezioni, vincolato dagli accordi
conclusi col predecessore.
Una interessante variante a questa tesi è quella proposta dalla Puoti, secondo la cui opinione i
trattati resterebbero sospesi (causa di sospensione) finché lo Stato nuovo e gli altri Stati
contraenti non abbiano regolato la materia.
C'è una limitazione alla regola della tabula rasa, che si ritrova nella Convenzione per cui gli
Stati sorti da decolonizzazione non si applicherebbe questo principio, bensì quello della
continuità.
Analisi delle singole ipotesi di mutamento della sovranità:
- Distacco di parti di territorio: può darsi che la parte di territorio distaccatasi si
aggiunga, per effetto di cessione o di conquista, al territorio di un altro Stato
preesistente. In tal caso gli accordi vigenti nello Stato che subisce il distacco cessano di
aver vigore con riguardo al territorio distaccatosi. A questo si estendono invece in modo
automatico gli accordi vigenti nello Stato che acquista il territorio. La dottrina parla di
mobilità delle frontiere dei trattati.
- (segue) Secessione: può darsi invece che sulla parte distaccatasi si formino uno o più
Stati nuovi (per secessione). Anche in questo caso gli accordi vigenti nello Stato che
subisce il distacco cessano di aver vigore con riguardo al territorio che acquista
l’indipendenza.
- Smembramento di uno Stato: mentre la secessione non implica l’estinzione dello
Stato che la subisce, la caratteristica dello smembramento sta proprio nel fatto che uno
Stato si estingue e sul suo territorio si formano due o più Stati nuovi. Poiché in entrambe
le situazioni si verifica una divisione del territorio, l’unico criterio per distinguere le
due situazioni è quello della continuità o meno dell’organizzazione di governo
preesistente. L'ipotesi dello smembramento è da ammettere ogni volta che nessuno
degli Stati residui abbia lo stesso regime dello Stato preesistente. Agli Stati nuovi
formatisi sul territorio di uno Stato smembrato è applicabile il principio della tabula
rasa, anche se nella prassi c’è piuttosto la tendenza degli Stati nuovi ad accollarsi le
obbligazioni pattizie dello Stato smembrato. Si perde quindi la certezza
dell’applicabilità delle regole (un caso concreto è quello dello smembramento
dell’URSS e dell’ex Jugoslavia. La Russia si è presa carico di tutti gli obblighi e diritti
derivanti dall’URSS dichiarandola come estinta e dichiarandosi essa stessa come
sopravvissuta, ciò è stato accettato a livello internazionale perché conveniente in quanto
così non avrebbe perso il posto nel CdS dell’ONU e tutto il patrimonio convenzionale;
nel caso della Jugoslavia invece ciò non è avvenuto e la Bosnia fu considerata come
nuovo Stato).
- Incorporazione e fusione fra Stati: la prima si ha quando uno Stato, estinguendosi,
passa a far parte di un altro Stato; la seconda si ha quando due o più Stati si estinguono
e danno vita a uno Stato nuovo. L'ipotesi di incorporazione va preferita a quella di
fusione ogni volta che vi sia continuità tra l’organizzazione di governo di uno degli
Stati preesistenti e l’organizzazione di governo che risulta dall’unificazione. Un
esempio di incorporazione è la formazione del Regno d’Italia nel secolo scorso o la
riunificazione delle due Germanie. All'incorporazione si applica tradizionalmente la
stessa regola che abbiamo visto applicarsi ai trasferimenti di territori da uno Stato ad
un altro, ossia la regola della mobilità delle frontiere dei trattati. I trattati dello Stato
che si estingue cessano di aver vigore mentre al territorio incorporato si estendono i
trattati dello Stato incorporante. Per i trattati dello Stato incorporato vale ancora una
volta il principio di tabula rasa. Lo stesso regola i casi di fusione.
Un caso a parte, che non può annoverarsi tra i mutamenti territoriali ma che può determinare
effetti sui trattati è costituito dal mutamento radicale o rivoluzionario di governo. Stando
alla migliore dottrina in questo caso, che si verifica quando muta il regime politico in modo
radicale senza che i confini statali siano toccati, tale mutamento non ha effetti sui trattati
conclusi dal precedente governo ad eccezione di quelli di natura politica, per l’applicazione
della causa di estinzione data dalla regola rebus sic stantibus.
In relazione agli Stati sorti da decolonizzazione è pressoché unanime il consenso della
dottrina nel ritenere che il nuovo Stato sorga libero dai vincoli pattizi contratti dal predecessore,
allineandosi con il principio della tabula rasa.
Tale principio però subirebbe un temperamento dato dalla possibilità di utilizzo di uno
strumento che mira ad assicurare la continuità degli accordi conclusi dalla madrepatria per il
nuovo Stato: si tratta della notificazione di successione, un atto unilaterale attraverso il quale
il nuovo Stato dichiara di voler subentrare negli obblighi convenzionali del predecessore con
effetto retroattivo, a far data cioè dal momento dell’acquisto dell’indipendenza (per evitare
vuoti giuridici).
Vanno ricordati anche gli accordi di devoluzione che intercorrono tra la madrepatria e l’ex
colonia divenuta indipendente e che hanno per oggetto il subentro del nuovo Stato negli accordi
conclusi dalla madrepatria. La dottrina però li considera irrilevanti ai fini della partecipazione
dei nuovi Stati agli accordi multilaterali e bilaterali di cui era parte contraente la madrepatria,
occorrendo in ogni caso il consenso dei terzi Stati contraenti affinché tale partecipazione possa
dirsi effettiva.

Le fonti previste da accordi e il fenomeno delle organizzazioni internazionali


Le fonti previste da accordi
Nel DI è stata elaborata una gerarchia, nel senso di ordine che si dà alle fonti. In particolare,
nello Statuto della CIG all’art. 38 vengono elencate le fonti, ma non in ordine gerarchico. Si fa
solo riferimento a quali sono le fonti seguite dalla CIG nel momento in cui deve risolvere
controversie fra Stati.
Secondo l’art. 38, l’ordine che si dà è questo:
- Accordi
- Consuetudini
- Principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili
- Altro
In dottrina è stata elaborata una gerarchia in cui sono comprese anche le fonti previste da
accordi:
1. Norme di diritto internazionale generale: consuetudini, norme jus cogens, principi
generali di diritto
2. Norme di diritto internazionale particolare: accordi, convenzioni, trattati...
3. Fonti previste da accordi: gli atti delle organizzazioni internazionali o fonti di terzo
grado.
Le fonti previste da accordi sono atti previsti all’interno degli accordi istitutivi delle
organizzazioni internazionali, cioè si prevede che l’OI possa emanare determinati atti secondo
quanto scritto nel trattato stesso.
Quegli atti che l’OI emanerà, così come previsto dall’accordo, sono le fonti previste da accordi,
nonché fonti di terzo grado o anche fonti di diritto derivato.
In alcuni casi possono esserci degli atti atipici che non sono previsti nell’accordo, ma che sono
casomai simili e sono atti non vincolanti.
Non esiste un elenco di fonti di terzo grado che vale in generale, per cui la terminologia non è
indicativa perché non sono le stesse con gli stessi effetti per tutte le OI. Fenomeno del diritto
dell’integrazione: fenomeno per cui le organizzazioni tendono a imitarsi a vicenda per
uniformare il significato di alcune fonti di terzo grado.
Art. 17 della Carta ONU dice che uno dei pochi casi in cui l’AG può adottare atti vincolanti è
in riferimento alla ripartizione delle spese tra i Membri, e tali deliberazioni in merito hanno
natura vincolante.
Un caso ambiguo riguarda l’art. 109 Carta ONU su procedura di revisione della Carta che
prevede l’approvazione da parte di due terzi e poi la ratifica, per questi se approvata varrà come
accordo quindi come fonte di secondo grado (dato che c’è anche la ratifica), mentre per il
restante 1/3 avrà valore di fonte di terzo grado.
Tra le attività più importanti delle OI c’è la produzione normativa, ma ciò non va inteso come
possibilità di emanare leggi o atti vincolanti, ma norme in senso ampio (modelli di
comportamento che producono obblighi oppure no).

Normalmente le OI si pronunciano con degli atti non vincolanti, che hanno una funzione
esortativa, ciò non vuol dire che tali atti non abbiano rilievo. Un esempio è l’agenda 20-30 per
lo sviluppo sostenibile dell’AG dell’ONU, atto non vincolante del 2015, ma la sua importanza
è fuori ogni dubbio (tanto che ogni Paese si è impegnato a porre al centro lo sviluppo
sostenibile, così come articolato nell’agenda).
Ci sono dei casi in cui l’OI può emanare atti vincolanti come deciso dal suo trattato istitutivo.
Conforti parla di atti vincolanti delle NU, come quelli adottati dall’AG che riguardano il
finanziamento dei lavori delle NU. E la ripartizione delle spese tra gli Stati membri, così come
agli atti adottati dal CdS ai sensi del cap. 7 della Carta ONU laddove vi siano esigenze di
mantenimento della pace, il Consiglio può adottare misure non implicanti l’uso della forza e
laddove siano inefficaci può adottare misure ai sensi dell’art. 42 implicanti l’uso della forza
armata.
Un caso emblematico di OI che ha la competenza di adottare atti vincolanti è l’UE, caso unico
a livello mondiale. L'organizzazione ai sensi dell’art. 288 del TFUE può adottare,
nell’esercitare le proprie competenze, atti tipici vincolanti e non vincolanti. Le istituzioni
dell’UE, in particolare Consiglio e Parlamento, possono adottare atti vincolanti quali
regolamenti, direttive e decisioni.
Gli Stati sono ancora oggi restii a dotare le organizzazioni di effettivi poteri vincolanti e a
limitare conseguentemente la propria sovranità; nonostante il numero delle OI esistenti sia
impressionante, solo alcune di esse dispongono di un vero e proprio potere decisionale.
Generalmente il loro compito non è quello di emanare norme, quanto quello di facilitare la
collaborazione tra gli Stati membri. Quindi predispongono progetti di convenzione che gli Stati
sono poi liberi di tradurre o meno in norme giuridiche attraverso la ratifica delle convenzioni.
Altra attività svolta dalle OI è costituita dall’emanazione di raccomandazioni, atti che hanno
valore di esortazione e che quindi non vincolano gli Stati cui si indirizzano.

L'organizzazione delle Nazioni Unite


Fu fondata dopo la IIGM da quegli Stati che avevano combattuto contro le Potenze dell'Asse,
e prese il posto della disciolta Società delle Nazioni. La Conferenza di San Francisco ne elaborò
nel 1945 la Carta, che venne ratificata dagli Stati fondatori. Successivamente ne sono divenuti
membri quasi tutti gli Stati del mondo.
L'art. 7 definisce quali sono gli organi principali:
- Consiglio di Sicurezza: composto da 15 membri, di cui 5 a titolo permanente (USA,
Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) che godono del diritto di veto, e 10 membri
eletti ogni due anni. Esso si occupa di questioni riguardanti il mantenimento della pace
e della sicurezza internazionale.
- Assemblea Generale: ha una competenza vastissima, senza alcun potere vincolante. È
composto dai rappresentanti di tutti gli stati membri che hanno pari diritto di voto.
- Consiglio economico e sociale
- Consiglio di amministrazione fiduciaria
- Segretario generale: l’organo esecutivo dell’organizzazione, nominato dall’AG su
proposta del CdS.
- Corte Internazionale di Giustizia: composta da 15 giudici, ha sia la funzione di
dirimere controversie fra Stati, sia una funzione consultiva in quanto può emanare
pareri su qualsiasi questione, i quali però non sono né vincolanti né obbligatori.
I primi 4 sono organi composti da Stati, ciò significa che gli individui che con il loro voto
concorrono a formare la decisione collegiale sono organi del proprio Stato, manifestano la
volontà del loro Stato.
Gli ultimi 2 sono invece organi composti da individui, non manifestano la volontà di alcuno
Stato e senza ricevere istruzioni da alcun Governo.
Gli scopi dell’organizzazione sono ampi, ma possono individuarsi 3 grandi ambiti di
competenze:
1. Mantenimento della pace
2. Sviluppo delle relazioni amichevoli tra gli Stati
3. Collaborazione in campo economico, sociale, culturale ed umanitario.
All'ampiezza dell’organizzazione però non corrispondono dei poteri vincolanti nei confronti
degli Stati membri. L'attività principale dell’ONU è quella di emanazione di raccomandazioni
e dalla predisposizione di progetti di convenzione.
Quali sono i rari casi di decisioni vincolanti dell’ONU?
Per l’AG un caso importante è quello previsto dall’art. 17 della Carta, in cui si attribuisce il
potere di ripartire tra gli Stati le spese dell’organizzazione; inoltre, la stessa, può decidere le
modalità e i tempi per la concessione dell’indipendenza ai territori sotto dominio coloniale.
Per il CdS le decisioni vincolanti sono quelle previste dal Cap. 7 della Carta, principalmente
art. 41 e 42 riguardanti misure non implicanti e implicanti l’uso della forza contro uno Stato
che abbia anche soltanto minacciato la pace.

Gli Istituti specializzati delle Nazioni Unite


In campo economico e sociale opera tutta una serie di organizzazioni internazionali sia a
carattere universale che regionale, si tratta degli Istituti specializzati delle Nazioni Unite, in
quanto sono collegate con queste ultime e ne subiscono un certo potere di coordinamento e
controllo.
Il collegamento tra ciascun Istituto e le NU nasce da un accordo che le due stipulano.
L'importanza di tale accordo di collegamento sta nella conseguente applicabilità delle norme
della Carta che si occupano degli Istituti e che quindi li sottopongono entro certi limiti, al potere
di coordinamento e controllo dell’ONU.
Anche gli IS emanano di solito raccomandazioni oppure predispongono progetti di
convenzione. In alcuni casi però emanano decisioni vincolanti per gli Stati qualora questi non
manifestino entro un certo periodo di tempo la volontà di ripudiarle. Tali decisioni vanno
inquadrate tra le fonti previste da accordo.
Principali Istituti specializzati:
- FAO: organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura, creata nel 1945.
- UNESCO: organizzazione delle nazioni unite per l’educazione la scienza e la cultura.
- OMS: organizzazione mondiale della sanità, obiettivo principale consiste nel
conseguimento da parte di tutti i popoli del livello più alto possibile di salute.

L'Unione Europea
Nel 1951 fu creata la prima Comunità Europea, la CECA, a cui fecero seguito la CEE poi
denominata CE. Nel 2009, con il Trattato di Lisbona, si decreta l’estinzione della CE e la
costituzione di un solo soggetto, l’Unione europea.
Al principio si trattò di un’iniziativa senza precedenti, mirante all’integrazione economica tra
gli Stati membri, come premessa di un’integrazione politica.
La vita dell’Unione è regolata da due trattati: il TUE e il TFUE.
Dell’Unione fanno parte ormai 27 Stati membri (visto l’abbandono del Regno Unito), di cui 6
sono membri fin dall’inizio della sua vita, gli altri si sono andati via via aggiungendo nel tempo.
Sulla natura giuridica dell’UE c’è da chiedersi se si tratti di una vera e propria OI, ossia
un’organizzazione fra Stati sovrani che trae dal diritto internazionale i suoi poteri oppure se si
tratti di un embrione di Stato federale, caratterizzato dall’erosione delle sovranità statali.
Certo è che l’UE presenta elementi che non si rincontrano in nessuna altra organizzazione, con
ampi poteri decisionali attribuiti ai suoi organi e la sua sostituzione agli Stati membri nella
disciplina di molti rapporti.
Principali organi:
- La Commissione europea: organo composto da individui e non da Stati, le persone
siedono a titolo personale non ricevendo istruzioni da nessun Governo. Ha poteri
esecutivi e poteri di iniziativa legislativa nei confronti del Consiglio e Parlamento.
- Il Consiglio europeo: sono rappresentati gli Stati membri, presieduto a turno da
ciascun membro per la durata di sei mesi. Congiuntamente con il Parlamento adotta gli
atti più importanti della legislazione comunitaria. In base alle norme del TFUE delibera
delle volte all’unanimità e alle volte a maggioranza semplice o qualificata.
- Il Parlamento europeo: formato da rappresentanti dei popoli dei Paesi membri, eletti
a suffragio universale e diretto, non esercita da solo la funzione legislativa dovendo fare
i conti con il Consiglio. Ha funzione di controllo politico sulle altre istituzioni
comunitarie e per quanto riguarda la funzione legislativa, la esercita congiuntamente
con il Consiglio.
- La Corte dei conti: esercita una funzione di controllo su tutte le entrate e le spese
dell’Unione. Formata da 27 persone che vi siedono a titolo individuale.
- La Corte di Giustizia: veglia sul rispetto del diritto dell’Unione.
- La Banca centrale europea: costituisce il sistema europeo di banche centrali.

L'art. 288 del TFUE prevede i seguenti tipi di atti vincolanti, come tali classificabili tra le fonti
di norme internazionali:
• Regolamento → l’atto legislativo più importante e completo, attraverso il quale la
legislazione dell’Unione si sostituisce o si sovrappone a quella interna degli Stati
membri. Il regolamento contiene norme generali e astratte che vanno osservate da
chiunque operi all’interno del territorio dell’Unione (Stati, persone fisiche e giuridiche,
istituzioni), contiene tutti obblighi precisi di condotta o divieto, per cui non c’è bisogno
di normativa interna di integrazione o specificazione.
• Decisione → non ha portata generale, può indirizzarsi sia a uno Stato membro che a un
individuo o impresa operante nel territorio. In quanto atto vincolante il soggetto la cui
decisione si indirizza è tenuto ad osservarla.
• Direttiva → dovrebbe limitarsi all’enunciazione di principi e criteri generali, di regole
finali destinate ad essere tradotte dal singolo Stato in norme di dettaglio.

Le raccomandazioni e i pareri
Sono l’atto tipico delle organizzazioni. Non sono vincolanti per gli Stati membri, quindi non
sarebbero da annoverare tra le fonti previste da accordi poiché lo Stato il quale, in osservanza
di una raccomandazione, venga meno ad obblighi precedentemente assunti nei confronti di altri
Stati membri dell’organizzazione, non è considerato commettere un illecito.
Quindi le raccomandazioni appartengono al soft low; ciò nonostante, alcuni ritengono che sia
illecito il comportamento dello Stato, il quale si rifiuti di osservare tutta una serie di
raccomandazioni. Ma secondo Conforti la tesi è inaccettabile.
Ci sono casi in cui i pareri sono vincolanti, ma normalmente non lo sono.

L'OCSE e il Consiglio d’Europa


Subito dopo la IIGM furono costituite le due organizzazioni che hanno dato notevole contributo
al rafforzamento dei vincoli tra i Paesi: l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo
Sviluppo Economico) e il Consiglio d’Europa (attualmente comprende 47 Stati dell’Europa
occ+orient).
Il Consiglio d’Europa è importante in quanto da esso è derivato il primo esperimento di tutela
internazionale organica dei diritti dell’uomo.
Scopo del Consiglio, secondo l’art.1 del suo trattato istitutivo, è quello di conseguire una più
stretta unione fra i suoi membri per salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che
costituiscono il loro comune patrimonio e di favorire il loro progresso economico e sociale.
Gli organi principali sono:
- Comitato dei Ministri
- Assemblea consultiva
- Segretariato
Circa le funzioni, che normalmente non danno luogo ad atti vincolanti, va sottolineata la
predisposizione di convenzioni in materie giuridiche e ai diritti umani sia economici e sociali
che civili e politici. A questi ultimi è dedicata la famosa Convenzione europea dei diritti
dell’uomo della quale attualmente sono parti contraenti tutti gli Stati membri del CdE e fu
solennemente firmata a Roma nel 1950, successivamente sono stati aggiunti vari Protocolli che
hanno aumentato il numero dei diritti riconosciuti.
Gli atti normativi (cap. 8 Pennetta)
Gli Stati aderendo ad un trattato accettano i diritti e gli obblighi previsti da questo, è il
cosiddetto diritto primario. Significa che ogni Stato si impegnerà a contribuire al
conseguimento degli obiettivi previsti dal medesimo trattato; tali obiettivi saranno realizzati
attraverso l’attività normativa dell’apparato istituzionale e ciò rappresenta il diritto derivato.
Il diritto derivato è costituito da manifestazioni di volontà che sono quindi finalizzate al
perseguimento degli obiettivi istituzionali, risulta quindi coerente con il diritto primario.
Il diritto derivato va quindi ad integrare il sistema delle fonti, un sistema che presenta differenti
tipologie di atti (che possono essere inquadrate nel trattato istitutivo).
Tra i destinatari dell’attività normativa possono distinguersi:
- Destinatari diretti: cioè gli Stati membri e la stessa OI
- Destinatari indiretti: quei soggetti che pur non essendo i destinatari formali di un atto,
finiscono per esserne interessati in via mediata nelle loro situazioni giuridiche
soggettive (cioè persone fisiche o giuridiche nei cui confronti incidono manifestazioni
di volontà dell’organizzazione).
Gli Stati sono gli obiettivi degli atti a rilevanza esterna come espressione del potere normativo
dell’apparato istituzionale. Essi sono sottoposti a tali atti in ragione della loro adesione
all’organizzazione anche se di regola non sono vincolanti. In genere, l’obbligatorietà di un atto
dovrebbe risultare dal trattato istitutivo, ma talvolta può emergere da altri atti connessi.
Si ha una distinzione tra atti a portata generale quindi rivolti a tutti i partecipanti
dell’organizzazione, e atti a portata individuale rivolti a destinatari specifici.

Il diritto interno dell’organizzazione


L'OI si dota di norme che ne regolano il funzionamento e l’amministrazione, in particolare
dell’apparato istituzionale (sia il singolo organo che le relazioni fra gli organi di
un’organizzazione). Si parla quindi di atti o procedure interne, o interorganiche. Ci si riferisce
cioè ad atti auto-normativi propri dell’organizzazione che si distinguono da quegli atti che
hanno efficacia verso l’esterno dell’organizzazione, i quali disciplinano i comportamenti degli
Stati e sono atti etero-normativi.
L'ampiezza e la complessità di questi atti auto-normativi dipendono dalla complessità
dell’apparato istituzionale (quindi dal numero di organi e loro complessità).
Tali atti sono previsti innanzitutto all’interno del trattato istitutivo dell’OI; a volte però sono
oggetto di completamento e specificazione mediante ulteriori norme che hanno carattere
convenzionale in atti di diritto derivato (in alcuni casi sono conclusi accordi, successivamente
all’istituzione dell’OI, relative a norme procedurali che integrano il contenuto del trattato
istitutivo).

Atti funzionali all’approvazione di un altro atto normativo.


Il diritto interno assume particolare attenzione nelle organizzazioni a struttura complessa ove
accanto all’apparato intergovernativo operano organi rappresentativi di interessi diversi, ne
discende quindi un diritto interno complesso che si esprime in singole manifestazioni di volontà
riconducibili a differenti istituzioni, le quali contribuiscono in maniera differenziata alle attività
dell’organizzazione e alla funzione normativa.
Quindi: queste diverse relazioni possono essere disciplinate in maniera differente attraverso
questa tipologia di atti. In presenza di un diritto interno estremamente differenziato si possono
indicare alcune tipologie di atti ricorrenti:
- La proposta → è collegata al potere di iniziativa normativa e costituisce la
manifestazione di volontà di un organo, che rappresenta la condizione necessaria per
l’emanazione di un atto di contenuto analogo a quello presentato nella proposta, da
parte di un diverso organo. Quindi c’è un organo che presenta una proposta avente ad
oggetto l’emanazione di un atto e poi questa proposta viene indirizzata ad un altro
organo dell’OI (caso dei rapporti tra CdS e AG oppure nel caso dell’UE proposta della
Commissione che si invia al Consiglio e al Parlamento).
- L'autorizzazione → atto di un organo dal quale discende la legittimazione di un altro
soggetto ad adottare un altro atto. Si tratta di autorizzazione che un organo formula e
che consente un altro soggetto ad adottare un atto.
- L'approvazione → c’è un organo che compie un atto e successivamente interviene un
altro organo che lo approva, conferendo efficacia a tale atto.
- La raccomandazione interorganica → atto attraverso il quale un organo esorta un
altro organo ad emanare un determinato provvedimento, oppure a tenere una posizione
su una determinata questione... mentre con la proposta si manifesta la volontà di un
organo affinché un altro adotti un atto normativo, qui la raccomandazione può avere
funzione di impulso ma non è condizione necessaria affinché l’altro organo adotti un
atto o prenda posizione su una questione.
- Parere interorganico → atto funzionale all’approvazione di un altro atto normativo, è
rivolto da un organo ad un altro all’interno della stessa organizzazione. Affinché
l’organo decisionale possa adottare una determinata decisione deve avvalersi del parere
di un altro organo (parere obbligatorio). Si tratta del più importante fra gli atti
funzionali.
- Accordo interorganico/interistituzionale → attraverso il quale gli organi definiscono
l’atteggiamento da tenere congiuntamente in relazione ad atti complessi o altri aspetti
della vita dell’organizzazione che li coinvolgono. L'atteggiamento da tenere è
concordato da più organi attraverso questo accordo.
- Risoluzioni organizzative → atti che riguardano la nomina o l’elezione dei membri di
un organo ovvero di atti mediante i quali vengono istituiti organi e procedure per
l’amministrazione di situazioni di crisi ovvero organi giudiziari.
Questi sono gli atti diretti all’interno dell’organizzazione stessa che sono funzionali
all’approvazione di un altro atto normativo. Gli ultimi due sono tipologie di atti interni che
risultano assai meno frequentemente nella prassi.

Diritto derivato in senso improprio: convenzioni o protocolli conclusi per il


perseguimento degli obiettivi istituzionali.
Laddove gli Stati intendono impegnarsi reciprocamente, in assenza di atti organici obbligatori,
sono soliti ricorrere all’utilizzo delle convenzioni/accordi, le quali dovrebbero essere coerenti
con gli obiettivi previsti nello statuto dell’OI (la cui coerenza è abbastanza flebile).
Gli atti di diritto derivato in senso improprio sono testi di accordi internazionali il cui contenuto
viene elaborato nell’ambito di un’OI oppure nel contesto di una conferenza internazionale che
viene tenuta sotto gli auspici dell’organizzazione stessa.
Quindi il testo (draft) dell’accordo non viene negoziato tra le parti in fase di negoziazione, ma
viene elaborato in seno a un’OI o nel contesto di una conferenza internazionale. In questo caso,
il testo non è ancora vincolante per gli Stati membri dell’OI, tuttavia viene poi sottoposto agli
Stati membri (e anche terzi in alcuni casi) affinché secondo le regole di stipulazione degli
accordi, possano essi decidere se passare alla firma e poi ratifica, oppure no.
Quindi il testo è elaborato dall’OI ma non è parte dell’accordo, per cui non sarà l’OI a
impegnarsi nel rispetto del testo (che diventerà accordo se sarà ratificato), ma sono gli Stati
membri che si impegnano con la ratifica/adesione.
Questo testo non costituisce una espressione di volontà dell’OI stessa, il cui contenuto non sarà
ad essa imputabile la quale si limita a predisporre il testo (draft) che viene sottoposto agli Stati
i quali sono liberi di obbligarsi ad esso o meno.
L'OI e i suoi organi si atteggiano come facilitatori di accordi che sono finalizzati a perseguire
degli obiettivi propri dell’organizzazione stessa.
Questi atti che sono predisposti in seno a un’OI ma poi chi si obbliga sono gli Stati membri,
costituiscono il diritto derivato in senso improprio perché non sono imputabili
all’organizzazione stessa e non sono atti che possono essere qualificati come atti del diritto
dell’organizzazione stessa, ma sono comunque stati elaborati nel contesto istituzionale
dell’organizzazione in questione.
Gli atti di diritto derivato improprio sono l’unico mezzo per definire obblighi giuridici per gli
Stati membri in tutti i casi in cui l’atto istitutivo non abbia definito alcuna tipologia di atto
normativo di carattere obbligatorio. Cosa significa? Laddove uno statuto istitutivo di un’OI
non preveda la possibilità per l’organizzazione di adottare atti normativi di carattere
obbligatorio, per perseguire gli obiettivi dell’organizzazione con atti vincolanti, il diritto
improprio costituisce lo strumento utilizzabile.
Laddove a una organizzazione non sono state attribuite le competenze per emanare atti
vincolanti, per perseguire gli obiettivi presupposti nel suo accordo istitutivo, il diritto derivato
improprio è l’unico mezzo per definire obblighi giuridici per gli Stati membri (aventi
quell’oggetto che è collegato all’oggetto dell’OI stessa).

Il diritto derivato in senso proprio


È costituito da quegli atti delle OI che abbiano i poteri per adottare atti normativi poiché
previsto nel trattato istitutivo, i quali a differenza degli atti di diritto derivato in senso
improprio, sono atti imputabili all’organizzazione attraverso i quali essa esprime la volontà
propria distinta dalla volontà degli Stati membri. Si tratta degli atti che sono espressione della
volontà dell’OI e autonomi rispetto alla volontà degli Stati che compongono l’organizzazione.
Gli atti di diritto derivato proprio, possono avere valore obbligatorio per i destinatari oppure
valore esortativo, quindi di raccomandazione.
Normalmente, la regola generale, per gli atti destinati agli Stati e ai loro organi, è quella della
non obbligatorietà nel senso che l’OI emana decisioni non obbligatorie, mentre può emanare
atti obbligatori soltanto laddove espressamente previsto dal trattato istitutivo.
Ci sono termini diversi per indicare gli atti non obbligatori: raccomandazioni, risoluzioni,
dichiarazioni, piano d’azione...
Gli atti obbligatori sono: regolamento, direttiva e decisione.
Opting out: la possibilità per uno Stato, che di fronte a un atto normativo di carattere
obbligatorio, possa manifestare il proprio dissenso evitando che l’atto diventi vincolante
secondo determinati parametri procedurali e temporali.

La gerarchia delle fonti


Ci si chiede in questa sezione se esista una gerarchia delle fonti nel DI? Esiste una norma con
forza giuridica superiore ad altre? Occorre analizzare i rapporti che intercorrono tra le varie
fonti del DI.
Rapporto tra consuetudine e accordo
I rapporti tra consuetudine e accordo sono improntati alla flessibilità, potendo l’accordo
derogare la consuetudine e viceversa.
L'accordo, in generale, prevale sulla consuetudine perché si applica il principio di specialità (la
norma speciale prevale su quella generale), in quanto fonte applicabile solo agli Stati che lo
hanno contratto (ratione personarum).
La possibilità che una consuetudine prevalga su un accordo è una eventualità più rara, si
verifica come conseguenza alla formazione di consuetudini particolari (una consuetudine si
forma all’interno di una cerchia di Stati), e prevarrà per il principio di posteriorità.
Un altro caso di consuetudine che deroga l’accordo, riguarda gli accordi di codificazione e il
ricambio delle norme codificate. Può essere che un accordo di codificazione codifichi una
norma consuetudinaria e che questa poi vada in desuetudine e sostituita da una nuova
consuetudine, in questo caso se fra gli Stati contraenti l’accordo di codificazione si crea una
prassi (comportamento costante e uniforme nel tempo) e una opinio juris e se questa nuova
condotta non viene contestata, allora andrà a derogare l’accordo.

Rapporti tra fonti di terzo grado e accordi


Il carattere subordinato delle fonti di terzo grado rispetto al trattato istitutivo di un’OI è
evidente; quando si è nell’ambito di un accordo internazionale è possibile che gli atti prodotti
dagli Stati contraenti non abbiano natura di fonti di terzo grado ma siano degli accordi
successivi che possono anche derogare l’accordo principale.
Quindi il problema da risolvere è andare a capire la natura di queste fonti, dato che potrebbero
quindi essere sia di secondo che terzo grado.
Le dichiarazioni di principi generali dell’ONU sono atti non vincolanti nella forma della
raccomandazione emanati dall’AG, ci sono dei casi in cui Conforti afferma che quando queste
dichiarazioni riguardano principi fondamentali di diritto internazionale e quando nella
dichiarazione viene equiparata la violazione dei principi della dichiarazione alla violazione dei
principi della Carta dell’ONU, allora gli Stati che hanno votato a favore di quella dichiarazione,
sono da considerarsi Stati contraenti di accordo in forma semplificata (quindi la fonte di terzo
grado diviene fonte di secondo grado).
Un altro caso riguarda il Trattato NATO che prevede la possibilità per gli Stati di intervenire
quando uno di questi sia minacciato from abroad (paese straniero). Quando si verificò l’attacco
alle Torri gemelle nel 2001, la NATO si riunì e equiparò l’attacco terroristico all’attacco di uno
Stato straniero, ciò permise agli Stati parti della NATO di intervenire contro il paese presunto
sponsor dei terroristi.
Anche in questo caso c’è una norma di un trattato istitutivo che permette l’adozione di una
delibera che sancisce la possibilità di intervenire militarmente, ma il modo in cui è stata
adottata, dà vita ad una nuova prassi interpretativa per cui si considera la delibera come un
accordo (andando a modificare l’art. 5).
Altro esempio di fonte di terzo grado da considerare come accordo riguarda il Trattato
antartico, al cui art. 9 si prevede che le parti consultive possano adottare delle
raccomandazioni, che se approvate all’unanimità diventano vincolanti.
Le parti contraenti del trattato hanno invece adottato una decisione (fonte di terzo grado) che
non è atto previsto dall’art. 9 che prevedeva invece raccomandazioni e se votate all’unanimità
diventava decisione. Con questa decisione n.1 hanno stabilito che in base all’art. 9 le fonti
previste da accordo erano di tre tipi: misure vincolanti, decisioni operative e risoluzioni
esortative.
Non esistono più quindi raccomandazioni, ma questi 3 tipi e ciò trasforma il tutto in un accordo
(come modifica all’art. 9). Mentre quelle che in futuro verranno adottate come misure
vincolanti, decisioni operative e risoluzioni esortative saranno considerate fonti di terzo grado.
Il caso classico di fonte di terzo grado si ritrova in tutte le OI quando l’atto è prodotto
dall’organizzazione e deve essere rispettoso di tutte le regole sulla sua formazione previste
dall’organizzazione.

Lo jus cogens
È il diritto imperativo, o cogente. La cui caratteristica è quella di essere inderogabile.
Si tratta di norme consuetudinarie, tesi confermata dalla CVT all’art. 53 (la quale chiude la
sezione sulle cause di invalidità).
Lo jus cogens ha carattere particolare, perché consta di un terzo elemento oltre alla diuturnitas
e all’opinio juris, cioè la convinzione dell’inderogabilità della norma (non può essere
modificata da altre fonti se non da una norma avente lo stesso carattere).
L'art. 53 tuttavia non chiarisce il processo di ricostruzione di una norma cogente, ma solo quali
sono i suoi effetti.
L'art. 64 riguarda la possibilità che si formi una nuova norma jus cogens, in quel caso tutti gli
accordi esistenti in conflitto con quella norma diverranno nulli e si estingueranno. Causa di
estinzione
Ci sono varie tesi sul fondamento giuridico delle norme di jus cogens, normalmente si ritiene
che sia consuetudinario (cioè una certa comunità internazionale ritiene valido il principio di
inderogabilità delle norme cogenti). Sono considerati principi inderogabili quelli fondamentali
stabiliti dalla Carta ONU, quindi: il divieto della minaccia o uso della forza nelle relazioni
internazionali, il principio di autodeterminazione nella dimensione esterna, alcuni principi di
diritti fondamentali che sono il nucleo duro dei diritti umani (divieto di tortura, di genocidio...).
Sul problema dello jus cogens si sono cimentati in tanti, soprattutto in dottrina. Perché nella
prassi non si hanno casi in cui si è ufficialmente riconosciuta la prevalenza di una norma
imperativa su una consuetudine o accordo.
L'unico caso di cui si può parlare di norme cogenti è il caso delle NU perché c’è l’art. 103 che
secondo la tesi di Conforti: c’è stata una volontà espressa in tanti anni da parte della comunità
internazionale che questa norma sia obbligatoria. Cioè che il principio della prevalenza degli
obblighi previsti dalla Carta su tutti gli altri accordi conclusi fra gli Stati membri delle NU sia
inderogabile (quindi è una norma jus cogens).
Se considerato dal punto di vista convenzionale, l’art. 103 non avrebbe senso, ponendosi in
contrasto con la norma consuetudinaria codificata nell’art. 30 della CVT per la quale gli accordi
successivi conclusi tra le stesse parti e nella stessa materia prevalgono su quelli anteriori.
Senonché l'art. 30 contiene un rinvio all’art. 103, salvandone gli effetti e riconoscendogli un
effetto di deroga al principio di posteriorità.
L'unico caso in cui lo jus cogens ha avuto applicazione è stato quando si è applicato l’art. 103
tramite l’adozione del CdS di una decisione vincolante (fonte di terzo grado) la quale stabilisce
che tutti gli Stati non possano più commerciare con un certo Stato perché minaccia la sicurezza
internazionale (non si tratta altro che di una applicazione di uno dei principi della Carta).
Se il CdS adotta una decisione vincolante, l’obbligo degli Stati di rispettare quella decisione
(che è fonte di terzo grado) deriva dall’art. 103 che dice che lo Stato destinatario di una
decisione di un organo è obbligato a rispettare quella decisione nonostante sia fonte di terzo
grado.
La prevalenza degli obblighi della Carta avrebbe consentito di far prevalere una fonte di terzo
grado, sugli accordi conclusi tra gli Stati. Com'è possibile che una fonte di terzo grado prevalga
sull’accordo? Perché l’art. 103 è da considerarsi come il fondamento giuridico dello jus
cogens (è questa la tesi di Conforti).
Tesi di Focarelli: in realtà lo jus cogens riguarda norme consuetudinarie proprio perché al di
là dell’art. 103, non ci sono casi concreti di applicazione di norme cogenti o casi in cui i giudici
hanno fatto prevalere una norma cogente su altre fonti (solo il caso dei giudici italiani in materia
di immunità per quanto riguarda i crimini commessi dalla Germania durante la IIGM). Quindi
secondo questa tesi lo jus cogens ha solo valore promozionale, cioè vorrebbe promuovere
l’evoluzione delle norme consuetudinarie esistenti che non siano adeguate o interamente giuste
per renderle maggiormente conformi ai diritti umani e a esigenze di giustizia per far sì che
siano sentite dalla maggior parte della comunità internazionale. Questo valore promozionale
però non implica il valore superiore delle norme cogenti.
In generale, la maggior parte degli autori propendono per l’esistenza dello jus cogens come
prevalenza ma è difficile trovare applicazione nella prassi al di fuori dei casi di risoluzioni del
CdS in materia di mantenimento della pace come applicazione dell’art. 103.

L'adattamento del diritto interno al diritto internazionale


L'adattamento del diritto interno al diritto internazionale è l’istituto attraverso il quale il DI può
essere effettivamente applicato all’interno degli Stati, creando quindi la possibilità pe ri
soggetti dell’ordinamento interno di invocare davanti ai giudici nazionali diritti e obblighi
discendenti da norme internazionali.
Perché ciò avvenga occorre un atto statale di volontà di recepimento o di adattamento del
diritto internazionale. Ciò avviene attraverso procedimenti normativi di adattamento del diritto
interno al diritto internazionale, che trasformano la norma internazionale in norma nazionale.
Esistono due meccanismi di adattamento:
1. Procedimento ordinario: consiste nella riformulazione della norma internazionale,
che viene riscritta e quindi trasformata in legge interna del tutto identica alle altre leggi
statali, ad eccetto della sua origine, che trova riscontro in una fonte internazionale.
Quindi un accordo internazionale nell’ordinamento interno italiano sarà applicato come
legge e non come accordo.
2. Procedimento speciale o di rinvio: consiste nell’operare un rinvio direttamente alla
fonte del diritto internazionale che si intende adattare, per cui non c’è riformulazione.
Gli organi preposti alle funzioni normative si limitano ad osservare l’osservanza delle
norme internazionali con l’espressione di volontà attraverso una formula “piena ed
intera esecuzione si dia...”.
Quest'ultimo procedimento è da preferire per i numerosi vantaggi che presenta, poiché con il
suo diretto richiamo nell’ordinamento nazionale consente una più corretta applicazione del DI.
Nel caso del procedimento ordinario, infatti, la norma di DI riformulata in norma interna dovrà
comunque essere applicata dal giudice, anche quando questa sia stata mal riformulata
Nel procedimento speciale invece questi inconvenienti sono superati dal fatto che è l’interprete
direttamente a ricostruire il contenuto della norma internazionale.
Ci sono casi però in cui il procedimento ordinario di adattamento è indispensabile. Questo
accade quando la norma internazionale non è direttamente applicabile all’interno
dell’ordinamento statale, si parla in questo caso di norme non self-executing. In casi del
genere i singoli non possono invocare la norma internazionale davanti al giudice nazionale,
subendo quindi l’eventuale lesione dei loro diritti che da quella norma internazionale
discendono.
Il carattere non self-executing di una norma permette quindi al giudice nazionale di escluderne
l’applicazione; per cercare di limitare questo inconveniente, e per cercare di assicurare il
massimo rispetto del DI all’interno dello Stato, la dottrina ha proposto di limitare la nozione di
norme non self-executing ad ipotesi circoscritte.
Tre casi:
a. Norme che attribuiscono solo facoltà agli Stati: norme che permettono allo Stato
di adempiere un certo obbligo scegliendo tra due o più comportamenti
Un esempio è dato dalla Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, gli art. 5 e 7 lasciano
la possibilità agli Stati di scegliere il sistema delle linee di bassa marea oppure delle linee rette,
per la misurazione del limite esterno del mare territoriale.
Cosa accade? Che finché lo Stato non sceglie quale tra le due opzioni adottare, la norma non
sarà applicabile nel diritto interno. Nel caso specifico l’Italia ha scelto di seguire il sistema
delle linee rette, che tramite procedimento ordinario si è tradotto in legge.
Un altro esempio è dato dalla Carta sociale europea, la quale lascia facoltà agli Stati di decidere
quali sono le 6 norme delle 9 vogliono rispettare. Finché lo Stato non sceglie, il lavoratore si
vedrà negati i propri obblighi e diritti.

b. Norme che hanno bisogno delle predisposizioni di organi o procedure


indispensabili per la loro attuazione.
È il caso dell’istituzione di una legge penale per i crimini ad hoc oppure istituzione di un fondo
per gestire l’indennità di disoccupazione.
La direttiva è un atto non self-executing perché lascia liberi gli Stati di decidere quale forma e
mezzo utilizzare per adempiere all’obbligo di risultato.
(il regolamento è self-executing poiché il contenuto è preciso, non ha bisogno di procedura di
adattamento ordinario)
c. Norme che hanno bisogno per la loro attuazione di particolari adempimenti di
carattere costituzionale.
Premessa: il diritto penale è la massima espressione della sovranità statale perché la funzione
principale dello Stato è quella di mantenere l’ordine pubblico nonché la sicurezza per tutti i
cittadini e ciò è disciplinato dalle norme di diritto penale.
In Italia esiste il principio inderogabile che dice che nessuno può essere incriminato se non c’è
una legge già esistente prima del fatto compiuto.
Quindi si tratta di quelle norme che per essere applicate all’interno dello Stato devono rispettare
certi principi fondamentali.
Norme di DI che impongono l’obbligo di punire i crimini internazionali individuali, prima di
poter essere applicate in ogni ordinamento statale dovrebbero essere specificate da una legge
nazionale.
Caso Scilingo: il tribunale spagnolo ha condannato un ex militare argentino, Francisco
Scilingo, per crimini contro l’umanità commessi durante la dittatura in Argentina, ma si trattava
di una figura di reato non prevista dalla legge penale spagnola all’epoca dei fatti. Significa che
il giudice spagnolo non avrebbe potuto condannare (avrebbe potuto chiamare in causa
l’estradizione). Ma secondo il tribunale spagnolo la norma non era non self-executing, ma
veniva considerata direttamente applicabile.
Caso Barcot: la guardia costiera pattugliava per il contrabbando di armi con la ex Jugoslavia.
Una imbarcazione viene intercettata e scortata fino al porto, il mezzo viene sequestrato e chi
era a bordo viene arrestato. Era tutto giusto perché c’era una risoluzione ONU vincolante per
gli Stati membri che imponeva di punire il contrabbando di armi, però l’Italia doveva fare un
adempimento costituzionale (adottare una legge sulla scorta della risoluzione) e il giudice non
potette intervenire.

La dottrina considera negativamente le tendenze della giurisprudenza di vari Paesi che


ricorrono al concetto di norme non self-executing per non applicare norme indesiderate perché
contrarie a sopravvenuti interessi nazionali, o magari perché progressiste o anche soltanto
perché oggetto di diffidenza da parte dell’operatore giuridico interno a causa della loro
provenienza.
Alcune volte la giurisprudenza interna considera non self-executing quei trattati che
contengono le cosiddette “clausole di esecuzione” con le quali si prevede che gli Stati
adotteranno le misure interne per garantire l’applicazione dell’accordo. Questa tendenza è da
respingere perché le clausole di esecuzione non possono costituire una condizione di
applicabilità del trattato ma hanno la funzione principalmente di impegnare lo Stato contraente
ad adottare le misure necessarie all’applicazione delle norme non self-executing del trattato.

Sfera di applicazione delle norme internazionale adattate all’interno dello Stato


Entro che limiti le norme internazionali adattate possono essere invocate all’interno dello
Stato? Ciò dipende al contenuto della norma internazionale e dalla concreta realizzazione della
fattispecie astratta considerata nella suddetta norma.
In alcuni casi è difficile stabilire la sfera soggettiva di applicazione della norma internazionale
all’interno dello Stato, cioè i suoi destinatari.
Questo è un problema d’interpretazione che si risolve tenendo presente che lo scopo da
raggiungere è quello di determinare esattamente i limiti entro i quali la norma internazionale
vuole essere applicata.
Rango delle norme internazionali adattate
Il problema è: una volta adattate le norme, queste che rango avranno?
Le norme internazionali acquistano il rango, cioè il valore giuridico formale, dello strumento
legislativo di adattamento. In Italia lo strumento è diverso a seconda che si debbano recepire
norme internazionali consuetudinarie o pattizie.
Nel primo caso interviene una norma costituzionale, mentre nel secondo si procede con
l’adozione di atti ad hoc per ogni accordo concluso dall’Italia. Questo atto ad hoc è denominato
ordine di esecuzione, per cui avranno rango ordinario.
A cosa serve stabilire il rango?
Serve nei casi di conflitto tra una legge statale e la norma internazionale adattata che sono
incompatibili, poiché il rango stabilisce quale prevale sull’altra.

L'adattamento al diritto internazionale consuetudinario


Per tutte le norme di DI generale, cioè consuetudini, principi generali di diritto internazionale
e norme cogenti, nell’ordinamento italiano non c’è problema di adattamento. Questo perché
tramite l’art. 10 comma 1 della Costituzione entrano direttamente nell’ordinamento interno.
Questo articolo prevede un procedimento di adattamento speciale o di rinvio.
Chiamato anche trasformatore permanente, perché come la consuetudine cambia,
nell’ordinamento italiano entra quella nuova e si sostituisce quella vecchia, tramite l’art. 10.
La norma internazionale generale sarà adattata tramite lo strumento costituzionale, quindi avrà
rango costituzionale.

Rapporti fra norme consuetudinarie adattate e norme interne


I rapporti possono riguardare sia con norme di rango inferiore (quindi leggi ordinarie) sia
norme di pari rango.
Rapporti con norme di rango inferiore
Se io ho una legge interna italiana come una legge ordinaria, regionale o decreto-legge ecc...
siamo di fronte a un rapporto con norme di rango inferiore rispetto alla norma adattata con
rango costituzionale. Ovviamente questa prevarrà sulle altre, secondo l’art. 10.
Rapporti con norme di pari rango
Il principio che si applica è quello di specialità, perché la norma consuetudinaria è considerata
speciale rispetto alle altre norme costituzionali?
Non in base alla materia che tratta né in base alle persone, perché sono norme di carattere
generale.
La specialità è data dal procedimento di formazione; la norma costituzionale si forma attraverso
il procedimento unilaterale dello Stato, mentre la norma consuetudinaria vede la partecipazione
della maggior parte dei soggetti del DI.
Per cui, in genere, le norme di diritto consuetudinario prevalgono sulle norme interne
costituzionali.
Quali sono i problemi che si pongono se c’è un conflitto?
Esiste una norma nella Costituzione che dice che chiunque ha diritto alla tutela dei propri diritti
soggettivi e interessi legittimi. Però delle norme consuetudinarie contrastano con principi
costituzionali di importanza fondamentale, cosa succede in questi casi?
Succede che si applica una clausola di salvaguardia o dottrina dei controlimiti, andando a
bloccare il funzionamento dell’art. 10 (non facendo adattare la norma internazionale) e facendo
prevalere la norma interna.

L'adattamento agli accordi e alle fonti previste da accordi


L'ordinamento italiano non contiene una disposizione simile all’art. 10 della Costituzione per
l’adattamento degli accordi. Anche se in passato si proposero di utilizzarlo lo stesso ma
autorevole dottrina si oppose a tali tesi.
L'ordinamento italiano utilizza l’ordine di esecuzione, che costituisce un procedimento
speciale di adattamento. Generalmente l’ordine di esecuzione riveste forma di legge ordinaria
e costituisce un atto ad hoc, cioè specifico per ogni accordo che lo Stato ratifica.
Un conto è la ratifica dell’accordo che lo rende obbligatorio nei confronti degli altri Stati
contraenti, un conto è che quell’accordo sia applicabile all’interno di ogni Stato contraente.
Perché l’accordo possa essere applicato, non basta solo la ratifica, ma occorre che in ogni
ordinamento sia adattato secondo i propri meccanismi, in Italia ordine di esecuzione.
Differenza tra ratifica e ordine di esecuzione: la ratifica è l’atto finale della procedura in atto
solenne ed obbliga lo Stato nel piano internazionale ma non ha nessun effetto nel piano interno
se non c’è anche l’ordine di esecuzione.
Cosa accade se lo Stato ratifica un accordo ma non lo adatta con l’ordine di esecuzione? Sul
piano internazionale lo Stato starà commettendo un illecito, della violazione di un accordo
internazionale in base alla CVT la violazione è causa di estinzione o sospensione dell’accordo.
Cosa succede se invece si ordina l’esecuzione di un accordo che è stato stipulato dall’Italia in
violazione dell’art. 80 Cost? (è una causa di invalidità)
Però se il Parlamento, l’organo deputato ad autorizzare in via preliminare la ratifica, non è stato
interpellato però dopo che quell’accordo è stato stipulato dal Governo in violazione dell’art.
80, decide comunque di ordinarne l’esecuzione con legge, è come se gli desse autorizzazione
posteriore. Secondo questa tesi l’invalidità viene sanata.
Un'altra tesi più rigida che dice che in caso di violazione, il Parlamento non può eseguire
l’accordo e quella legge è illegittima andando a sollevare la questione davanti la Corte
Costituzionale. Mentre sul piano internazionale si denuncia l’accordo per causa di invalidità in
base all’art. 46 CVT.

Rango dei trattati


Anche qui dipende dal rango dello strumento di adattamento. Normalmente l’ordine di
esecuzione ha rango di legge ordinaria, a parte rari casi in cui si usa legge costituzionale.
Per quanto riguarda i rapporti fra norme e leggi interne, anche qui c’è la doppia articolazione:
tra pari rango e rango superiore/inferiore.
Rapporto rango superiore: ovviamente prevale la Costituzione sull’adattamento con ordine
di esecuzione (corrisponde a legge ordinaria).
Rapporto norme pari rango: per il principio di specialità prevale la norma adattata sulla
legge ordinaria perché è espressione di volontà di più Stati. Nel 2001 è stata inserito l’art. 117
comma 1 nella Costituzione che dice che il Parlamento non può adottare leggi ordinarie che
violino la Costituzione; quindi, si devono rispettare vincoli che derivano dal diritto UE e dalle
norme internazionali e ovviamente dalla Costituzione.
Quindi quando l’Italia fa una legge deve rispettare:
- La Costituzione
- Obblighi internazionali (accordi, fonti previste da accordi)
- Atti internazionali
- Diritto Unione Europea
Se la legge interna deve rispettare l’accordo, ne consegue che esso avrà rango superiore e infatti
si dice che l’accordo ha un rango che sta fra le norme costituzionali e quelle ordinarie, perché
ha una protezione data dall’art. 117.
Questa opinione è sostenuta anche da due sentenze del 2007 della Corte Costituzionale. Ha
chiaramente affermato la superiorità di rango dei trattati anche se eseguiti con legge ordinaria,
rispetto alle leggi ordinarie interne e in caso di conflitto, le norme interne ordinarie
incompatibili con accordo internazionale violano art. 117 e verranno assoggettate al controllo
di costituzionalità e pertanto annullate.
L'accordo diventa norma interposta e acquista rango subordinato rispetto alla Costituzione ma
intermedio tra quest’ultima e la legge ordinaria incompatibile.
Quindi: il vincolo del legislatore italiano al rispetto delle norme internazionali sussiste solo
nella misura in cui la norma non si ponga in contrasto con un principio fondamentale
costituzionale.
Del resto, anche per le norme consuetudinarie adattate con rango costituzionale per effetto
dell’art. 10 si prevedeva un blocco se ritenute in contrasto con i principi della Costituzione.
Quindi di fronte a un caso di incompatibilità la Corte Costituzionale considera necessarie due
operazioni:
- Verificare la conformità dell’accordo internazionale con la Costituzione e le leggi
costituzionali interne.
- Dopo aver affermato tale compatibilità, verificare la conformità della legge interna
ordinaria con l’accordo internazionale annullando la prima se incompatibile con
quest’ultimo.
Questo per quanto riguarda la situazione dal 2001 con l’entrata in vigore dell’art. 117.
Qual era la situazione prima?
Il trattato prevaleva per il principio di specialità ratione personarum, cioè in ragione dei
soggetti. L'accordo sarebbe speciale in virtù del suo procedimento di formazione e del fatto che
esprimerebbe rispetto alla legge ordinaria interna non solo la volontà di disciplinare una certa
materia in un certo modo, ma soprattutto la volontà dello Stato di utilizzare l’accordo a tale
scopo.

Per quanto riguarda il rapporto tra accordo e norme costituzionali, è chiaro che si applica il
criterio gerarchico essendo la Costituzione gerarchicamente superiore all’accordo adattato con
ordine di esecuzione dato con legge ordinaria. In tal caso al giudice nazionale al quale si è
presentato un problema di incompatibilità con norme costituzionali rinvia di regola alla Corte
Costituzionale al fine di far dichiarare nullo l’ordine di esecuzione del trattato nella parte in cui
recepiva norme internazionali in contrasto con norme costituzionali. Il giudice ordinario non
ha alcuna possibilità di agire in via interpretativa e deve comunque rimettere la questione alla
Corte.

L'adattamento alle fonti previste da accordo


L'adattamento alle fonti previste da accordi internazionali è per la dottrina, automatico, nel
senso che gli atti degli organi delle OI sono automaticamente recepiti dagli ordinamenti degli
Stati membri per effetto dell’adattamento al loro interno dei trattati istitutivi.
Secondo Conforti, tale tesi è anche supportata dall’art. 11 della Costituzione secondo cui l’Italia
favorisce l’ingresso di norme prodotte da organi esterni e con procedimenti esterni alla
Costituzione.
Tutto ciò però nella prassi non trova fondamento, perché la pratica della maggior parte degli
Stati, Italia compresa, va nella direzione opposta. Nel senso che gli atti delle OI vengono di
volta in volta adattati singolarmente con strumenti di esecuzione specifici. Focarelli precisa che
in Italia l’adattamento avvenga tramite procedimento ordinario.
Secondo la dottrina tale prassi sarebbe necessaria solo nel momento in cui si tratta di recepire
norme non self-executing e che invece sarebbe inutile per norme direttamente applicabili o
self-executing.
Per quanto riguarda il rango, questo dovrebbe coincidere con lo strumento di adattamento
utilizzato. Si pone però il problema di sapere se, al pari degli accordi, anche agli atti delle OI
sia da attribuirsi un rango superiore alle leggi ordinarie interne, secondo l’art. 117 Cost.
A questo proposito la dottrina propende per estendere l’art. 117 comma 1 anche agli atti delle
OI.

L’adattamento al diritto dell’Unione Europea


Bisogna fare una distinzione tra:
- Adattamento ai trattati istitutivi (o diritto primario dell’UE come TUE, TFUE, Carta
di Nizza sui diritti fondamentali, tutti trattatati successivi di allargamento e revisione.
Perché costituiscono il fondamento giuridico dell’UE).
- Adattamento agli atti di diritto derivato dell’Unione.
Per quanto riguarda il caso dei trattati istitutivi, sono stati adattati con un ordine di esecuzione
dato con legge ordinaria. In altri Stati si è preferito fare con norma costituzionale perché molte
materie contenuti negli accordi toccano materie fondamentali disciplinate dalle Costituzioni.
In Italia il problema è stato risolto grazie alla presenza dell’art. 11 della Costituzione tramite
cui accetta le limitazioni della sovranità. Ciò garantisce la conformità degli accordi con la
Costituzione e l’ordinamento italiano, grazie anche alla Corte Costituzionale.
Per l’adattamento agli atti la situazione è più complicata, bisogna prendere in considerazione
delle norme del TUE e TFUE perché spiegano quali sono i principi che presiedono
l’adattamento del diritto UE all’interno degli Stati membri. Ci sono degli obblighi previsti dai
trattati che impongono regole in materia di adattamento agli Stati membri, tenendo conto che
si è in una realtà sovranazionale.
L'art. 4 paragrafo 3 del TUE disciplina un principio di adattamento chiamato principio di
leale cooperazione. Vale a dire che gli Stati in base a questo principio devono impegnarsi ad
adattare tutti gli obblighi derivanti dal diritto dell’UE al loro interno. Questo significa anche
astenersi dal compiere qualsiasi azione che possa pregiudicare il perseguimento degli scopi.
Nel TFUE invece c’è una norma che ci dice quali atti l’Unione può adottare per conseguire gli
scopi dei trattati, si tratta dell’art. 288.
- Il regolamento ha portata generale, esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e
direttamente applicabile all’interno dei suoi Stati membri. Questo significa che si tratta
di una norma self-executing e una volta pubblicato in gazzetta dell’UE quell’atto
diventa automaticamente legge (dopo il periodo di vacatio legis) in tutti gli Stati
membri, quindi non deve essere adattato. Per portata generale si intende che è
indirizzato a tutti gli individui (persone fisiche e giuridiche) e agli Stati, nonché tutti
coloro che circolino all’interno del territorio dell’Unione. Esistono però dei regolamenti
incompleti in cui c’è necessità per gli Stati di integrarli, quindi non sono
immediatamente applicabili, ma lo Stato deve adoperarsi sin da subito per integrare con
la normativa interna.
- La direttiva è un atto che per definizione è incompleto, perché dice che bisogna
raggiungere un certo risultato. Ciò comporta un obbligo per gli Stati di raggiungere quel
risultato, a cui viene lasciata discrezionalità sul come farlo. Si tratta quindi di una norma
non self-executing (può rientrare nella 1 e 2 categoria di Conforti sulle norme non self-
executing). La direttiva si rivolge solo agli Stati a cui è rivolta (nella maggior parte dei
casi è sempre rivolta a tutti), questo perché spetta a loro integrarla e poi applicarla (non
può essere integrata dagli individui che non hanno capacità legislativa). Adattamento
con procedimento ordinario.
- La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi, se designa i suoi destinatari è
obbligatoria solo per loro, si tratta più che altro un atto amministrativo. Può essere
indirizzata ai singoli individui e agli Stati. Adattamento automatico.
Le raccomandazioni e i pareri non sono atti vincolanti per cui non devono essere adattati.
Premesso che tutti gli atti vincolanti sono obbligatori per gli Stati membri che quindi li devono
adattare, c’è una differenza tra obbligatorietà, diretta efficacia e diretta applicabilità.
La questione si viene a sollevare nel caso del regolamento: obbligatorio significa che deve
essere rispettato da tutti; in tutti i suoi elementi significa che è un atto completo e che non ha
bisogno di essere specificato, quindi è una norma self-executing e risponde al concetto di diretta
efficacia (invocabile davanti al giudice); se è obbligatorio e se è self-executing allora è
direttamente applicabile.
Di solito, nel diritto internazionale, diretta efficacia e diretta applicabilità sono sinonimi, ma
nel caso del diritto comunitario come specificato nell’art. 288 del TFUE i due vengono
utilizzati in maniera diversa. Questo perché non sempre i regolamenti sono completi, ma
devono essere integrati con normativa interna.

La Corte di Giustizia ha elaborato due principi fondamentali in materia di adattamento del


diritto dell’UE all’interno degli ordinamenti statali che sono da considerarsi principi generali
di diritto dell’UE con rango superiore alle norme di diritto dell’UE derivato.
- Principio dell’efficacia diretta del diritto dell’UE: concetto di norma self-executing
quando il suo contenuto non ha bisogno di essere ulteriormente specificato. Permette
direttamente l’invocabilità davanti al giudice.
- Principio del primato del diritto dell’UE sul diritto interno degli Stati: il diritto
comunitario prevale sul diritto interno anteriore e successivo. È un effetto logico
dell’obbligo di DI pacta sunt servanda, elaborato nel caso Costa/Enel. La Corte dice
che il principio si fonda su quello di specialità, diritto comunitario prevale su diritto
interno anteriore e successivo.

Quali sono gli effetti degli atti?


I regolamenti hanno effetto immediato, entrano e prevalgono.
Le decisioni sono atti amministrativi e hanno efficacia solo per lo Stato a cui sono dirette.
Le direttive sono più problematiche. Cosa succede se uno Stato fa scadere il termine di
trasposizione (2 anni) senza aver adottato la normativa per trasporre la direttiva? Cosa succede
se uno Stato adotta una normativa interna di trasposizione di una direttiva ma non è conforme
con i principi fondamentali?
La Corte di Giustizia uniforma questi due punti, tu hai una legge di trasposizione, non è
corretta? È come se non la avessi.
È possibile che se la direttiva concede dei diritti ai singoli creare un effetto diretto? Ci possono
essere direttive dettagliate con un contenuto così preciso che hanno una possibilità di essere
applicate immediatamente davanti al giudice. (direttiva che stabilisce per tutti gli stati il divieto
di discriminazione tra uomo e donna per l’accesso al lavoro, l’obbligo è self-executing e non
ha bisogno di attività statale).
La CdG ha affermato il principio per il quale le direttive possono, se sono chiare, avere effetto
diretto ma solo se il singolo le invoca contro lo Stato (quindi non si può invocare nei rapporti
orizzontali cioè fra singoli), quindi in un rapporto verticale.
L'altra possibilità di riconoscere gli effetti diretti è cercare in tutti i modi di attuare
un’interpretazione conforme del diritto statale alla direttiva, c’è l’obbligo del giudice interno
di trovare una legge o un principio generale che possa avvicinarsi ai dettami della direttiva e
applicarlo al caso concreto (obbligo di applicazione conforme).
Se un trattato prevede un principio (divieto di discriminazione tra uomo e donna) e poi viene
specificato in una direttiva, il giudice applica direttamente il principio e se le norme sono self-
executing possono essere applicate sia verticalmente che orizzontalmente.

Il modo di recepire gli atti non self-executing in Italia è la legge 234 del 2012 (legge italiana
sull’adattamento italiano al diritto dell’UE) che impone al Governo e Parlamento di adottare
due leggi: legge europea (con la quale si abrogano o modificano leggi interne incompatibili
con il diritto dell’Unione) e legge di delegazione europea (il Parlamento delega il Governo)
per provvedere, sulla base del principio di leale cooperazione, ad adottare tutte le misure
necessarie per l’adempimento degli obblighi derivanti all’appartenenza all’Unione Europea.

Rango delle norme comunitarie nel diritto interno


Occupiamoci ora del rango delle norme dell’UE (quelle automaticamente introdotte e
automaticamente applicabili).
La Corte Costituzionale italiana ha cambiato più volte opinione, l’ultimo e definitivo
cambiamento risale al 1984. La Corte non solo ritiene oggi che il diritto comunitario
direttamente applicabile prevalga sulle leggi interne, sia anteriori che posteriori, ma è anche
dell’opinione che qualsiasi giudice debba disapplicare le leggi dello Stato nel caso di conflitto
con una norma comunitaria direttamente applicabile.
Tutto ciò discenderebbe dall’art. 11 della Costituzione che riconoscerebbe che il diritto interno
e quello comunitario si coordino secondo il principio del primato del secondo sul primo, che
tale coordinamento consista nel fatto che il diritto interno si ritragga di fronte alle regole
comunitarie direttamente applicabili. Da qui la conseguenza che a disapplicare il diritto interno
e ad applicare il diritto comunitario sia direttamente qualsiasi giudice o organo amministrativo.
Nel quadro dei rapporti tra leggi interne e diritto dell’Unione va inserito l’art. 117 comma 1
della Costituzione del 2001 che impone al legislatore, oltre al rispetto dei vincoli derivanti da
norme internazionali, anche il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

Rapporti tra diritto dell’Unione Europea e norme costituzionali


All'inizio i due ordinamenti erano intesi come autonomi e distinti, significa che la
partecipazione dello Stato alle allora Comunità europee non comportava la rinuncia a priori ad
ogni difesa dei principi costituzionali. Il diritto comunitario non doveva quindi sfuggire al
controllo della Corte costituzionale, nei limiti in cui non vi sfugge il comune diritto dei trattati.
Col tempo però si è giunti a parlare di un sistema integrato e coordinato, attraverso tre sentenze
della Corte costituzionale che scandiscono le fasi del rapporto tra diritto comunitario e diritto
interno.
La sentenza Costa/Enel 1964: la Corte costituzionale era restia ad una apertura nei confronti
dell’ordinamento europeo, riteneva che le norme sono da porre allo stesso piano della legge
ordinaria. Il rapporto risponde quindi alla logica del principio della successione delle leggi nel
tempo, quindi la possibilità di abrogare la norma comunitaria ad opera della legge nazionale
interna. Il contrasto si risolve con il criterio cronologico della legge che viene dopo che regola
la materia.
La sentenza Frontini del 1973: la Corte riconosce il primato del diritto comunitario su quello
interno, affermando però affinché la norma interna nazionale potesse essere disapplicata questa
doveva essere abrogata dall’organo competente e quindi la Corte costituzionale. Un
orientamento contrario a quello della Corte di Giustizia, la quale riteneva che non fosse
necessario andare a scomodare la Corte costituzionale potendo il giudice di merito procedere
alla disapplicazione della norma interna in contrasto con la norma europea.
La sentenza Granital: la Corte ribadisce di essere in presenza di due ordinamenti coordinati i
cui rapporti vengono disciplinati dai trattati, si riconosce la possibilità al giudice nazionale di
disapplicare la normativa nazionale posteriore che si trova in situazioni di conflitto con le
disposizioni europee. La Corte si allinea con l’orientamento della Corte di Giustizia.
L'art. 11 nasce come disposizione che riguarda le limitazioni di sovranità che tocca anche
l’ambito normativo e legislativo; l’art. 117 ha rilevanza più forte perché afferma che la potestà
legislativa viene esercitata nel pieno rispetto della Costituzione e degli obblighi internazionali
e comunitari.
Teoria dei controlimiti: frutto di un’elaborazione della Corte costituzionale che ha mirato a
una situazione di chiusura verso il sistema europeo. Si tratta di una teoria che pone un freno
all’ingresso delle disposizioni europee quando queste risultano essere in contrasto con i diritti
fondamentali posti dalla Costituzione. Ci sono dei principi fondamentali che non possono
essere derogati in nessun modo da una normativa internazionale europea (come quei principi
che riguardano la dignità umana). La teoria oggi tende ad essere abbandonata perché anche a
livello europeo esista una forte tutela dei diritti umani fondamentali (come la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea).
L'adattamento al diritto internazionale e le competenze delle Regioni
Le regioni sono articolazioni territoriali dello Stato, possono agire quindi come organi statali.
Le leggi regionali o il comportamento che esse assumono possono comportare una violazione
di obblighi internazionali e comunitari.
Chi sarà responsabile? Sempre lo Stato. Però ormai le regioni per poter esercitare le loro
competenze adottano leggi comunitarie perché molte direttive toccano materie di competenza
regionale.
Quando il DI o il diritto UE interferiscono in materie che in Italia formano oggetto di
legislazione regionale si pone il problema del coordinamento tra norme internazionali e norme
statali di adattamento, da un lato, e norme regionali, dall’altro.
Un principio sempre applicato è quello del rispetto da parte delle Regioni degli obblighi
internazionali, come sancito dall’art. 117 della Costituzione che obbliga il legislatore regionali
al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Per quanto riguarda il DI bisogna tener conto anche della legge di attuazione delle modifiche
alla Costituzione introdotte nel 2001 che all’art. 6 stabilisce: “le Regioni e le Province
autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di propria competenza legislativa, provvedono
direttamente all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali ratificati, dandone
preventiva comunicazione al Ministero degli affari esteri ed alla Presidenza del Consiglio dei
ministri”.
Per quanto riguarda il diritto UE, disposizioni sono contenute nella legge 234 del 2012 al cui
art. 29 si stabilisce che, oltre allo Stato, anche le Regioni e le Province autonome, nelle materie
di loro competenza, danno attuazione alle direttive ed agli altri obblighi derivanti dal diritto
dell’Unione Europea.

L'apparato istituzionale (cap. 7 Pennetta)


L'apparato istituzionale comprende un numero estremamente ampio di organizzazioni
internazionali, pur con delle caratteristiche molto diverse tra loro, si hanno delle tendenze di
fondo per quanto riguarda la struttura.
In primo luogo, si rileva la distinzione tra organizzazioni a struttura semplice e quelle a
struttura complessa.
Per quanto riguarda le prime, sono solitamente composte da due organi cioè l’Assemblea e il
Segretariato cui sono attribuite funzioni burocratiche-amministrative a-politiche. Questa
struttura tende ad escludere la previsione di altri organi e caratterizza molte delle
organizzazioni.
Per quanto riguarda le complesse, sono caratterizzate da una pluralità di organi a cui sono
attribuiti funzioni diverse. Pur se un ruolo primario è attribuito agli organi assembleari
interstatuali come espressione della sovranità statuale.
Da tempo si osserva la presenza di strutture ternarie, che vedono accanto all’Assemblea e al
Segretariato, la presenza di un altro organo interstatuale a composizione ristretta (definito come
organo esecutivo). Tale struttura è presente nelle Nazioni Unite.
È chiaro che, con il tempo, l’apparato istituzionale possa evolversi. Ci si riferisce con ciò al
dinamismo normativo e cioè all’evoluzione giuridica e ovviamente politica. Tale dinamismo
si esprime a partire dall’atto istitutivo per poi procedere nella possibilità di emendamenti o
revisioni e talvolta con la sostituzione dello statuto con un nuovo testo.
Tale evoluzione può inoltre presentarsi con un rafforzamento dell’apparato istituzionale,
ovvero con un suo rafforzamento e si trova con particolare interesse nelle organizzazioni a
struttura complessa dove il rafforzamento e il raggiungimento degli obiettivi appaiono
collegati.
Triplice griglia di lettura per quanto riguarda il dinamismo:
1. L'apparato istituzionale risulta definito nella sua originarietà e completezza nel
momento della sua genesi, cioè quando il trattato istitutivo disciplina gli organi
principali e le loro fondamentali regole di condotta e funzionamento.
2. L'apparato è completo in relazione ai suoi organi principali, mentre per quelli secondari,
pur statutariamente previsti, ci si limita ad indicarne l’esistenza (per la cui disciplina si
avrà bisogno di ulteriore attività normativa).
3. La terza espressione di dinamismo si riferisce ai nuovi organi non previsti e non
disciplinati dal trattato istitutivo. Tali organi vengono definiti complementari, in quanto
la loro istituzione viene nel tempo intesa dagli Stati come necessaria o utile ai fini del
perseguimento degli obiettivi previsti. Gli organi complementari sono istituiti con
protocolli ed hanno autonomia funzionale e possono essere di carattere giurisdizionale,
politico ecc.
La più nota espressione del dinamismo istituzionale è caratterizzata dagli organi sussidiari,
cioè organi istituiti con atto organico da uno degli organi principali. Essi esercitano specifiche
competenze, di regola, subordinate rispetto all’organo che li ha istituiti.
La fonte che autorizza la creazione di organi sussidiari si ritrova nel trattato istitutivo. Così
questi organi svolgono attività di supporto agli organi principali, o più correttamente, svolgono
funzioni ausiliarie e serventi rispetto al singolo organo principale che li ha istituiti.
Oltre alla classificazione ratione temporis, in dottrina si indicano diversi criteri di
classificazione degli organi. Interessante è la categoria degli organi specializzati, stabiliti per
l’esercizio di determinate funzioni indicate nello statuto. Si tratta, nella famiglia delle NU, degli
organi a composizione ristretta, a partire dal CdS, che sono definiti anche organi esecutivi negli
statuti.
Altri criteri di classificazione possono essere: organi centrali/periferici, organi
individuali/collegiali (ovvero semplici e complessi).
L'organo che più rappresenta lo Stato è quello assembleare o plenario, ed è presente in tutte
le organizzazioni internazionali come espressione delle opzioni di politica estera di ciascuno
Stato. I delegati degli Stati esercitano nell’organo plenario l’ovvia funzione di rappresentarne
e difenderne gli interessi.
Le competenze dell’organo assembleare sono specificate nel singolo statuto ma tendono ad
essere direttamente collegate alle competenze d’attribuzione della singola organizzazione.
L'organo plenario o assembleare risulta dotato di competenza generale ed è incaricato di
assumere le decisioni fondamentali per il perseguimento degli obiettivi istituzionali.
Per quanto riguarda il rango del rappresentante statuale, nello stesso statuto non è presente
nessun riferimento perciò tale rappresentanza può essere attribuita ai Capi di Stato e di governo,
oppure ai titolari di diverse competenze.
Tradizionalmente si è soliti distinguere tra organi assembleari a partecipazione plenaria o
ristretta, qualificati come organi esecutivi. In tali casi la partecipazione è limitata ad alcuni
Stati, individuati secondo criteri stabiliti nei singoli statuti. L'esempio più noto in tal senso è
dato dal CdS a cui sono attribuiti poteri specifici per il mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale.
Gli organi esecutivi a composizione ristretta non costituiscono la regola, semmai l’eccezione
dato che sono presenti in un numero limitato di organizzazioni.
Summit: in passato risultava eccezionale la partecipazione dei Capi di Stato e di governo in
qualità di rappresentanti, solo recentemente si è sviluppata questa prassi a partire dalla fine
della Guerra Fredda e nell’ambito del CdS e ha trovato affermazione in forme di cooperazione
istituzionalizzata informale che vedono una partecipazione particolarmente selettiva sia in
relazione agli Stati partecipanti che alla singola fattispecie (G7,G20).
Il Summit assume carattere istituzionale nella maggior parte delle organizzazioni regionali a
struttura complessa, si tratta di una esplicita previsione statuaria o di una evoluzione della prassi
collegata.
Per quanto riguarda le funzioni, la prassi risulta estremamente differenziata anche se è evidente
il ruolo preminente dell’iniziativa politica. Pur se talora è previsto un potere normativo diretto,
più spesso il Summit si limita ad approvare Dichiarazioni di elevato livello politico.
La frequenza di riunioni del Summit risulta estremamente differenziata (cadenza
trimestrale/semestrale/annuale).
L'attività del Summit, che è apicale, risulta collegata ad ulteriori livelli istituzionali:
- Livello ministeriale: il normale livello di rappresentanza degli Stati negli organi
assembleari è quello ministeriale anche se nella più recente disciplina c’è la presenza
del Summit e in tali casi ovviamente il livello ministeriale risulta subordinato.
Tradizionalmente lo Stato è rappresentato dal Ministro degli affari esteri che esercita
funzione di coordinamento nei confronti degli altri ministri.
- Livello sub-ministeriale: buona parte delle attività relative alla preparazione e al
funzionamento della cooperazione interstatuale è realizzata attraverso l’azione di
componenti gerarchicamente subordinate a composizione non politica che agiscono con
caratteristiche di relativa stabilità. Si tratta di livelli di cooperazione che assumono
carattere politico-diplomatico, burocratico-amministrativo o tecnico-funzionale.

Il Segretariato si occupa dell’esercizio di attività burocratico-amministrative, dell’assistenza


agli organi interstatuali, dello svolgimento di funzioni di rappresentanza esterna, ed esercita le
competenze che gli Stati attribuiscono all’organizzazione. Pertanto, i segretariati si
caratterizzano per la loro permanenza e stabilità.
Il segretariato non può ricevere istruzioni dai singoli governi, i quali a loro volta devono
astenersi dall’esercitare influenza sui propri cittadini membri del Segretariato.
La Commissione europea è tradizionalmente intesa come il prototipo dell’organo collegiale
rappresentativo degli interessi generali dell’organizzazione ed estraneo a influenze da parte dei
singoli Stati.
Per quanto riguarda gli organi di controllo e garanzia, occorre ricordare che la loro presenza
si ricollega direttamente al rispetto da parte degli Stati delle previsioni dettate
dall’organizzazione. Infatti, l’idea di controllo evoca indirettamente quella di sanzione, intesa
come una misura rivolta ad uno Stato, fondata sulla violazione di una obbligazione e che mira
a porvi fine. Le forme di controllo sono direttamente collegate con la presenza di un organo di
persone, di carattere giurisdizionale. Potrà trattarsi di una Corte variamente denominata (Corte
di giustizia, Tribunale ecc) caratterizzata da tendenziale stabilità, ovvero di un Collegio
arbitrale di volta in volta costituito sulla base di una disciplina, di regola, predeterminata.

Le relazioni esterne delle organizzazioni internazionali (cap. 11 Pennetta)


Le relazioni esterne di una OI coincidono con tutte le attività attraverso cui essa si proietta
verso l’esterno. Quando sono nate, buona parte di queste OI si occupavano solo di regolare i
rapporti tra Stati membri e difficilmente instauravano relazioni esterne. Come sempre
l’eccezione è rappresentata dal caso dell’UE che sin dai tempi della CEE si era dotata di
competenze esterne funzionali all’instaurazione di una politica commerciale.
A un certo punto della loro vita queste OI hanno iniziato a sviluppare (o ampliare nel caso della
CEE) un sistema di relazioni esterne.
Queste relazioni possono così classificarsi:
• Il coordinamento tra Stati membri che è il modo più semplice per dar vita a una
relazione esterna. Gli Stati membri dell’OI decidono una linea di condotta unitaria.
• L'attività declaratoria: la maggior parte delle OI emana dichiarazioni per pronunciarsi
in merito ad un evento o ribadire una certa posizione. Per alcuni la dichiarazione è
sinonimo di Gentlemen’s agreement.
• I dialoghi: si tratta di incontri periodici che una OI instaura con altri soggetti per creare
un collegamento e creare un’abitudine di confronto e discussione favorendo rapporti
più stretti. Al fine di questi incontri vengono pubblicate dichiarazioni o comunicati
stampa, ma possono anche prendere avvio dei negoziati. I dialoghi avvengono tra OI e
partners. In merito ai contenuti ci sono dialoghi politici, economici ecc.
• Instaurazione di relazioni diplomatiche: avvengono attraverso ambasciatori e
rappresentanze diplomatiche sia con gli Stati membri che con i terzi con cui si desidera
stabilire una qualche relazione. La maggior parte delle OI organizza cerimonie o eventi
in cui in genere viene mandato il Segretario.
• La conclusione di accordi internazionali e il Treaty making power: l’attività più
rilevante è stipulare accordi internazionali applicando il Treaty making power. Questo
power vero e proprio dovrebbe riguardare una OI che sulla base del trattato è in grado,
attraverso il proprio apparato istituzionale, di concludere accordi ad essa imputabili. Le
OI che riescono ad esercitarlo sono poche nella prassi perché delle volte è uno Stato
membro che interviene a concludere un accordo. Il CDI ha avviato l’attività di
codificazione che ha portato alla Convenzione di Vienna del 1986 sul diritto dei trattati
conclusi dalle OI anche se non è ancora in vigore perché si attende la 35° ratifica. Per
individuare le modalità attraverso cui essa può esercitare il TMP e quali organi hanno
competenza si deve vedere il trattato. Per le OI semplici il potere è in capo
all’Assemblea; mentre in quelle complesse c’è una collaborazione tra più organi, come
da procedimento indicato dall’art. 218 del TFUE “il Consiglio autorizza i negoziati su
raccomandazione della Commissione, nomina i negoziatori e conclude l’accordo con
una decisione”.

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