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Francesco Petrarca (1304-1374)

[Parte Progredita]
Biografia
Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304. Il padre, notaio fiorentino, si trovava in esilio
ad Arezzo, e faceva parte della fazione dei guelfi bianchi, come Dante Alighieri. La famiglia
di Petrarca segue poi il papa ad Avignone, dove era stata trasferita nel 1309 la sede pontificia.
Nel 1318 muore la madre del poeta, ciò spinge il poeta a comporre il suo primo
componimento, un'elegia in latino. La corte avignonese si presenta come un ambiente
cosmopolita e moderno, che forma il giovane Francesco e il fratello Gherardo.
Nel 1327, come data Petrarca stesso, avviene l'incontro con Laura, l'evento più importante
della sua vita. La donna probabilmente è Laura de Noves, donna sposata con l'aristocratico
Ugo de Sade. Nel 1330 Petrarca assume lo stato di chierico, dandosi alla carriera
ecclesiastica. Negli anni Trenta del XIV secolo il poeta affronta diversi viaggi, in particolare
Parigi e Roma, città importante per l'elaborazione del mito della classicità da parte di
Petrarca. Nel 1341 la sua crescente fama di letterato e umanista lo porta a un gesto innovativo
per l'epoca: si sottopone a un certame poetico, che gli viene fatto dal re di Napoli, Roberto
D'Angiò, che vaglia la sua preparazione umanistica e poetica e lo incorona con l'alloro sul
Campidoglio. Continua i suoi studi di carattere filologico e i suoi viaggi per monasteri e
biblioteche alla ricerca di manoscritti rari di autori classici (sua è la scoperta di alcune
epistole di Cicerone e sua è la prima raccolta di 4 decadi delle Storie di Livio). Il suo metodo
di ricerca, il suo studio degli autori antichi e la sua passione per la classicità rendono Petrarca
un precursore dell'Umanesimo.
Dal punto di vista politico Petrarca è un uomo che resta all'ombra del potere per tutta la vita.
Svolge il suo ruolo all'interno della corte pontificia. Solo nel 1347 per un breve periodo
Petrarca sembra appoggiare l'occupazione di Roma da parte di Cola di Rienzo, un tribuno del
popolo, che cerca di costruire una nuova forma governativa, un tentativo destinato presto a
fallire. Nel 1348 in Europa scoppia la peste nera. Durante la peste, tra i conoscenti di
Petrarca, muore anche Laura, la donna amata del poeta. L'ambiente della corte pontificia
appare al poeta sempre più soffocante e nel 1353 si stabilisce in Italia, a Milano alla corte dei
Visconti, da cui si allontana nel 1361. Ricomincia un nuovo periodo di peregrinazioni in
Veneto e Petrarca si stabilisce nel 1368 a Padova,
Nel 1374 Petrarca muore per un attacco di febbre, mentre sta completando l'opera in volgare
a cui ha dedicato la vita intera, il Canzoniere.

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Petrarca fu un poeta d’amore e fu inoltre un grande modello poetico dei suoi tempi: fu uno
dei maggiori intellettuali del Trecento e venne visto, in alcuni casi, anche come filosofo. I
poeti che lo seguiranno avranno sempre un occhio di riguardo nei suoi confronti,
considerandolo sempre un punto di riferimento per la loro poesia.
Come già detto, l’opera più importante del Petrarca fu il Canzoniere, ma questo non può
essere davvero capito se prima non vengono analizzate le opere latine dell’autore: in esse,
infatti, il poeta spiega la sua filosofia di vita, la quale si rispecchia in tutte le sue creazioni.
Fuori dall’Italia era conosciuto soprattutto per le opere in latino, in quanto quest’ultimo era
capito in tutta Europa, quindi esse sono anche il motivo per cui Petrarca è una figura
importante anche oltre le Alpi. Egli lavorò alle opere latine soprattutto nella seconda parte
della propria vita e vi dedicò molta attenzione, in quanto erano pensate per persone dotte,
ovvero in particolare per la classe dirigente, che conosceva il latino e doveva prendere
importanti decisioni per gli altri.

De Vita Solitaria
Il De Vita Solitaria è dedicato al Vescovo Filippo di Cavaillon, poiché Petrarca si isola nel
suo territorio per studiare gli artisti che, come lui, hanno vissuto in solitudine.
L’opera consiste in due libri, dei quali il secondo rappresenta una vera e propria innovazione:
l’autore, infatti, si avvicina a Boccaccio in fatto di stile e parla della differenza tra chi vive in
solitudine (uomo solitario), vista come una cosa positiva, e chi invece vive nel pieno della
società (uomo sociale), fattore negativo.
Petrarca nel De Vita Solitaria si rivolge soprattutto ai chierici, i pochi che potevano studiare
latino ma che potevano influenzare le masse popolari, e infatti i suoi manoscritti latini si
trovano tutt’oggi in vari monasteri, mentre quelli volgari si trovano in luoghi laici.
L’autore scrisse e modificò l’opera fino al 1366, volendo istruirsi particolarmente bene prima
di trascrivere i suoi pensieri e le sue opinioni: egli chiese ai suoi conoscenti di recuperare
opere che trattano dei vari argomenti che gli interessavano, compiendo un lavoro erudito che
durò circa 20 anni. La prima parte del De Vita Solitaria è incentrata sullo studio delle opere di
Cicerone, mentre la seconda si basa più su fonti classiche (Ovidio e Seneca) unite a quelle
moderne (Padri della Chiesa). Petrarca, in poche parole, utilizza la determinazione degli altri
per dare valore alle proprie parole, anche se non sempre cita le fonti.
Opere come il De Vita Solitaria hanno segnato la cultura dei popoli, modellando il modo di
pensare odierno di tutta Europa.

Petrarca parla del concetto di ozio, non visto in maniera negativa come lo intendiamo
noi oggi, ma piuttosto come avere tempo libero: questo, infatti, era considerato
dall’autore come la cosa più importante, in quanto scrivere era il modo migliore per
utilizzare questo tempo libero, anche se si scontra con fattori di vita quotidiana (es:
gestire le spese, parlare con gli amici, etc…). Per Petrarca, quindi, è molto importante
saper bilanciare tempo libero e ruolo sociale, così come fecero i grandi uomini del
passato.

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Petrarca si chiede quindi come riempire il suo ozio:
● fare ciò che gli piace, ovvero studiare, e aumentare la propria conoscenza al fine
di scrivere qualcosa che possa essere eterno → qualcosa di vero
● lavorare, senza però superare il tempo utilizzato per lo studio
Una cosa che preoccupa Petrarca è l’oscura profondità dei tempi, secondo la quale
non possiamo conoscere il futuro (“oscura”) e non possiamo sapere tutto del passato
(“profonda”). Essa è peggiorata dall’obliosa posterità, ovvero dal fatto che i futuri
(“posteri”) non studiano il passato e quindi tutti i nostri sforzi, tutto ciò che facciamo
potrebbe andar perso. L’autore quindi lavora per poter creare qualcosa che superi
questi ostacoli e, così come il contadino dona parte del raccolto al padrone del terreno,
poterlo poi donare a Filippo di Cavaillon, per ringraziarlo.

Petrarca ha paura, però, di lasciare ai posteri qualcosa di sbagliato che possa rovinare
la sua reputazione → personalità complessa e in scontro con se stessa.
Il De Vita Solitaria può essere davvero apprezzata solo da chi conosce davvero l’autore, e
quindi sa che egli ama vivere in solitudine e studiare, e chi ha una grande conoscenza.
Secondo Petrarca, però, non tutti i “dotti” lo sono davvero: egli infatti considera davvero tali
coloro che si concentrano sullo studio di materie umanistiche, materie fini a se stesse, mentre
critica fortemente chi, invece, prende la strada delle materie più scientifiche ed economiche,
che hanno come fine il riuscire a guadagnare il più possibile (→ materialistici). Chi, quindi,
segue quest’ultimo percorso, non è degno di essere considerato “dotto” e quindi non può
capire davvero l’opera.

La lettura dei libri non sempre porta alla sapienza, poiché se non ci si dedica davvero si
rischia di spiegare male ciò che l’opera vuole insegnare, andando contro il concetto base della
vita solitaria. L’uomo è molto simile agli animali nei suoi aspetti negativi e solo per volere di
Dio ci si può spogliare di questa bestialità e diventare davvero un uomo. Dobbiamo quindi
reprimere questo fattore, ma è una capacità rara: Dio ci dona questa possibilità alla nascita e
non possiamo acquisirla con il tempo.
Il De Vita Solitaria non è altro che una raccolta di exempla di persone che hanno deciso di
abbracciare la vita solitaria e reprimere la loro bestialità (soprattutto la seconda parte).

L’animo dell’uomo è come un campo: se non viene coltivato (→ educato) si riempie di


erbacce e se non ci prendiamo il tempo di osservare ed estirpare le parti negative perderemo
tutto il raccolto, anche le parti positive. Questa tendenza all’educazione, però, non si può
insegnare, ma deve piuttosto essere una devozione personale, un dono di Dio; non si può
inoltre persuadere un animo riluttante a meno che non sia l’animo stesso a cercare qualcosa.

Il benessere di quest'ultimo si può percepire anche dalla necessità di viaggiare: un animo in


pace, infatti, è caratterizzato da una vita sedentaria, mentre un animo in difficoltà cercherà
sempre di fuggire dalla quotidianità per trovare la propria calma.

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Il De Vita Solitaria si vuole presentare come un’opera di facile lettura nella quale Petrarca
cerca di descrivere, estremizzando, i beni della vita solitaria e i mali della vita in società
(prima parte); egli è disposto, però, ad ascoltare chiunque abbia avuto delle esperienze
diverse.

Quando qualcuno è immerso nel mondo della compravendita e dalla fretta di vivere, l’animo
si fa trascinare dall’ira, dal desiderio e dalla disperazione: Ci si lega così tanto agli altri che
perdiamo noi stessi.
L’uomo solitario, invece, non ha persone che richiedono la sua presenza, quindi può vivere
con calma; non deve pensare e come ingannare gli altri e la sua vita tranquilla porta al
desiderio di leggere, di educarsi. Vivere in natura, inoltre, lo rende in grado di creare qualcosa
di vero, al contrario di chi vi si allontana e non può far altro che creare qualcosa destinato al
difetto, alla falsità → margine di errore altissimo

L’uomo infelice guarda il volo degli uccelli per scoprire come sarà il suo futuro, lasciandosi
trascinare dalle credenze popolari mentre passeggia nel Foro; l’uomo solitario, invece,
cammina nella natura e sa che il suo futuro è buono.
L’umanità, secondo Petrarca, non guarda abbastanza al passato e, di conseguenza, non sa
come affrontare i problemi che all’apparenza sembrano nuovi ma che, in realtà, sono già stati
riscontrati dai nostri predecessori. Guardando la natura, però, si troveranno sempre le giuste
soluzioni e non si sbaglierà mai.
Tutti gli uomini che vivono immersi nella società mischiano vero e falso: calpestano i diritti
degli innocenti e alimentano l’audacia dei colpevoli. Gli avvocati, per esempio, cercano
sempre un modo per aggirare le leggi che proteggono gli innocenti per difendere i colpevoli;
ma gli avvocati stanno, paradossalmente, facendo il loro lavoro, quello per il quale hanno
studiato (materia studiata al fine di guadagnare), e non provano rimorso.

In questo tratto Petrarca fa dei riferimenti alla Roma Classica: l’uomo sociale è indicato
come Oratore e non come Aratore, poiché quest'ultimo, a contatto con la natura, dopo aver
svolto il suo dovere politico torna nei campi a lavorare (uomo solitario), mentre il primo si
limita a vivere in società, lontano dalla natura.

Il Sole è una delle cure, secondo l’autore, per l’infelicità della vita in società, poiché il Sole
viene paragonato alla luce di Dio. L’uomo sociale non riuscirà mai a non essere infelice
perché deve scontrarsi con tutti gli altri individui, mentre l’unica battaglia che deve sostenere
l’uomo è contro sé stesso.
Petrarca afferma che, se vogliamo davvero qualcosa, possiamo ottenerla se viviamo secondo
una vita solitaria: la felicità è, quindi, possibile.

Chi finora ha meglio impiegato il suo tempo?

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La parte seguente parla del momento del pranzo, atto più delicato poiché è necessario e
drammatico (la nostra vita proviene dal dolore della morte di altri esseri).
L’uomo sociale sfoga tutti i suoi istinti, mangiando in modo disordinato e caotico e
rigorosamente in compagnia di qualcuno, in quanto egli non è in grado di stare da solo con i
propri pensieri. La scena è descritta come se fosse un campo di battaglia.
L’uomo solitario, invece, rimane solo, salvo alcuni aiutanti che gli portano i piatti, ma per il
resto mangia in solitaria con la natura, curandosi di finire tutta la portata con calma. È
consapevole del fatto che mangiando vivi, quindi si vuole godere il momento.
Chi mangia troppo rischia di ammalarsi, chi sa trattenersi vivrà più a lungo.

La più grande potenza è avere poche cose importanti, quindi si è amati per ciò che si è, non
per ciò che si ha: la nostra eventuale morte porterebbe solo dolore, mentre se si è uomini che
vivono in società la morte porta anche felicità (chi riceve l’eredità). → MEMENTO MORI

L’uomo solitario agisce con calma, senza fretta, mentre il vizio dell’uomo sociale non
permette di rallentare: il primo venera i morti, il secondo inganna i vivi. Da Aristotele in poi,
infatti, i filosofi affermano che la ricchezza può essere raggiunta solo tramite la violenza
→ anche Petrarca lo crede

L’uomo solitario, però, non è solo: è circondato da poche persone che gli vogliono bene
(solitario ≠ solo). Petrarca, infatti, non nega la necessità di avere amici, ma afferma che
averne pochi ma che siamo sicuri ci sosterranno nei momenti più bui, piuttosto che tanti ma
falsi o, peggio, non averne proprio. Nessuno, in realtà, è davvero incline alla vita solitaria

“Preferirei essere privato della solitudine piuttosto che di un amico”

In quest’opera Petrarca non si rivolge a persone “perfette”, ma a coloro che trovano spontaneo
piacere nello studio, facendolo diventare un’azione buona. La vita solitaria, quindi, è un atto
d’amore, poiché studiando e scrivendo, si crearono opere che avrebbero aiutato gli altri
sarebbero arrivati i posteri. Il lato positivo della solitudine è la mancanza di retribuzioni
sociali: l'autore ha i suoi tempi, con le sue regole e lo fa al fine di migliorare le conoscenze
future, piuttosto che ottenere un tornaconto economico.

L'anzianità, visto che Cicerone come il momento più triste e trascurato dalla vita, è visto da
Petrarca come il momento migliore per vivere in solitudine: i momenti più salienti della
propria esistenza sono già stati vissuti, così come gli errori e le mancanze, dalle quali un
individuo può aver tratto determinate soluzioni e insegnamenti che può, quindi, tramandare ai
successori.

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De Remediis (De remediis utriusque fortunae)
Il De Remediis è un'opera centrale della cultura europea, che influenzò l’interno
continente fino al Novecento: si tratta di un'opera in dialogo, la quale tratta di come
reagire alla buona e alla cattiva sorte. La prima parte tratta della giovinezza e della
speranza nella vita longeva, avendo come protagonisti la Ragione (Petrarca) e il
Gaudio e la Speranza.
L'opera invita il lettore a vivere “nel mezzo”:
● non lasciarsi ingannare dalla buona fortuna
● non lasciarsi scoraggiare dalla cattiva fortuna

Scritto nell'ultima parte della vita di Petrarca, ne riassume le sue varie esperienze di
vita: è scritta in latino ed era quindi indirizzata ai dotti che avevano studiato in ambito
umanistico. L'obiettivo di Petrarca e confutare la tesi del Gaudio e della Speranza
portando i propri ragionamenti fino al paradosso.

Essere giovani non vuol dire essere felici, perché la felicità non può essere trovata in
un breve lasso di tempo: "In un piccolo spazio di tempo non ci sta la felicità".

Come il De Vita Solitaria, anche il De Remediis aiuta a capire meglio il Canzoniere:


quest'ultima infatti è una commedia, nella quale il protagonista capisce ciò che non è
vano e cambia il suo stile di vita, ma questo significato può essere capito solo se si
legge quest'opera in particolare.

La vita ed arriveremo in modo consapevole: se viviamo all'insegna dello sgarro della


follia non riusciremo mai a cogliere le cose importanti che la vita stessa ci offre, così
come se viviamo reclusi isolati da tutto e da tutti.

La bellezza è temporanea, la vanità è inutile perché ciò per cui ci si vanta è fragile ed
effimero. La bellezza non permette di vedere i nostri reali condizioni: essa è infatti un
inganno. Tutti, però, la cerchiamo in modo naturale e non ha bisogno di spiegazioni.
L'unica bellezza da venerare è la bellezza spirituale: essa infatti è la bellezza propria
dell'anima, più delicata e più sincera di quella del corpo, e un modo per abbellire
l'anima è studiare gli autori del passato, intraprendendo però un processo molto lungo.
Petrarca si vergogna perché anche lui si è dedicato tanto alla bellezza fisica,
trascurando la formazione dell'anima, eterna compagna della nostra vita. La bellezza è
utile solo con gli altri, che ammirano il bello e la lodano, ma da soli non è altro che è
un peso.

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L'amore offusca l'intelletto, non permette una valutazione oggettiva della verità di
qualcosa. Noi sappiamo chi amiamo ma non possiamo sapere se gli altri ci amano a
loro volta.
La gioia di essere innamorati ci distrae dal fatto che ci stiamo "ammalando d'amore":
l’amore, infatti, viene considerato una malattia psichica, poiché quando siamo
innamorati non ragioniamo e se abbiamo bisogno di cercare ciò che vorremmo
possedere ma che non avremo mai → scopriamo i difetti della nostra anima
Esempio: Giulio Cesare, quello che vinse tutti ma fu vinto dall'amore per Cleopatra.

“Non amate quello che si vede, ma quello che non si vede, perché ciò che si vede
temporale, quello che non si vede è eterno”

Petrarca scrive quindi le poesie del Canzoniere per consolare gli innamorati →
leggendo il De Remediis possiamo capire meglio lo scopo del Canzoniere.

Lettere
Nel 1345 Petrarca si recò a Verona per studiare i manoscritti della biblioteca capitolare
e trovò delle lettere familiari di Cicerone la quale rimase stupito: quest'ultimo infatti
appare in essere talmente diverso rispetto alle opere scritte. Petrarca allora si concentra
anche sulla propria corrispondenza letteraria, che viene divisa in categorie e libri, per
misurare e mantenere una buona immagine di sé per i posteri.
LETTERA INVIATA ≠ LETTERA TRASCRITTA

Giuseppe Fracassetti raccoglie e commenta le lettere di Petrarca per tradurle dal latino
all’italiano nel 1863 → necessità di una lingua nazionale
Egli sceglie di tradurre le lettere perché il pubblico raggiungibile era più ampio e,
soprattutto, per il fatto che questo non doveva avere un particolare livello intellettuale per
capirle: gli argomenti sono semplici e i testi sono brevi.

Queste lettere erano così importanti nel corso del Trecento che venivano addirittura rubate ai
postini per venderle → avevano valore monetario

Le Lettere di Petrarca, va ricordato, non hanno un valore autobiografico: l'autore le revisionò


e le modificò a lungo nel corso della sua vita, quindi le date e gli eventi non sono affidabili al
100%. Esse furono però la base di spunto di numerose autobiografie di futuri autori.

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Narra la storia della sua vita fino al 1351
È una specie di captatio benevolentia nei propri confronti. Egli afferma che la fama è
qualcosa con cui si nasce → forza della stirpe della sua famiglia
In alcuni punti si ha un rimando alle sue altre opere (“uno corresse la vecchiaia” ; “Trasse
l’adolescenza in inganno” → Canzoniere).
In seguito descrive a grandi linee il suo aspetto fisico e la sua storia. Petrarca ebbe molti
amici (amicizia come amore temperato → l’unico tipo di amore positivo), ma disprezzò
sempre l’ostentare della propria ricchezza (banchetti, feste, etc…).

Lettera ai Posteri - A Socrate


“Socrate”, molto probabilmente, era il soprannome di Ludovico Santo di Beringen.
Il primo sentimento toccato da Petrarca è il tempo, che toglie speranza e amicizie. Il
letterato vorrebbe bruciare tutto al sol pensiero di tramandare ai posteri un'immagine
sbagliata di sé. Egli non può neanche portare avanti molte opere, quindi deve
selezionarle nonostante l'immenso dispiacere: sarebbe stato peggio continuarle tutte
ma farlo male. Salva solo le carte e i documenti ai quali non deve apporre modifiche.

Definizione di “Libro delle cose Familiari” : una lettera familiare è un’epistola nella
quale si informano gli amici di cose che non sanno ancora.

Lettera I - A Tommaso di Messina


In questa lettera Petrarca parla dell’invidia: essendo una persona famosa, molti lo
invidiavano e lo criticavano inutilmente. Il poeta afferma che la vera fama viene
ottenuta in seguito alla morte, poiché con essa muore l’invidia e viene apprezzata
l’opera; i migliori giudici, però, sono i posteri. Petrarca scrive soprattutto in latino
perché credeva che sarebbe stata la lingua eterna, che tutti avrebbero parlato in futuro.
I re, all’apice del potere che non possono quindi invidiare, potrebbero essere dei buoni
giudici, ma sono troppo influenzati dal potere stesso:
● Criticano chi appartiene ad un ceto minore
● Disprezzano il passato, pensando che il proprio regno sia il migliore

Lettera II - A Raimondo Superanzio o Soranzio (1331)


In questa epistola, l’età giovanile viene chiamata “malagevole”, difficile da vivere
(→adolescenza). Petrarca, però, sa di essere giovane, e le sue conoscenze e scelte non
sono ancora state corrette dalla vecchiaia: egli infatti si innamora e si invaghisce del
bello.
Secondo Petrarca, essere in grado di saper parlare o scrivere bene vuol dire poter
farsi notare da chi è più colto, ma è un’arma a doppio taglio: le opere vengono scritte
per insegnare un certo argomento morale, non per imparare come è fatta una poesia,

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come viene fatto nelle scuole tutt’oggi → si rischia di essere conosciuti non per ciò
che si vorrebbe davvero

Lettera II (Libro XII) - A Niccola Acciaiuoli


La lettera è un institutio regia (come recita il titolo della lettera), un vero e proprio
trattatello sull'educazione e sul comportamento pubblico e privato del perfetto
principe. Si presenta come una sorta di sintesi e di concentrato di quei luoghi comuni
etico-politici che Machiavelli si sforzerà in seguito di confutare e di capovolgere, uno
per uno, nei capitoli XV-XIX de Il Principe e in altri luoghi di questa e altre sue opere.
L'epistola, è un insieme delle molte ricerche che Petrarca ha compiuto in vista della
prosecuzione del suo lavoro sugli uomini illustri; il De viris illustribus nella sua nuova
forma, è un intarsio di ammonimenti e di esempi di classici romani. Venerare Dio,
amare la patria, osservare la giustizia, tenersi lontano dagli estremi, inseguendo la virtù
che sta sempre nel mezzo, ricercare in ogni momento il consenso dei sudditi. E ancora:
coltivare l'amicizia, riservandola ai pochi per bene, evitare i sospetti, mantenere un
comportamento equo e tale da non accumulare su di sé odi e risentimenti.
Anche in questa lettera, possiamo osservare che vi è una differenza tra quello
raccontato e la realtà delle cose, perché lo stesso Acciaiuoli, che Petrarca vede come
un personaggio meritevole di divenire soggetto di storia e di poesia epica e che in
un'altra lettera di questo stesso libro, la 15, non esita a paragonare a Giulio Cesare, era
in realtà un uomo ambizioso e cinico, dai metodi talvolta equivoci e addirittura brutali.
Sicuramente Petrarca, nonostante non lo conoscesse di persona, era al corrente di tutto
ciò. In queste due lettere d'apertura del XII libro delle Familiari si ha un paradosso o
contraddizione: da una parte l'idealizzazione dell'impero nella sua missione
provvidenziale e, dall'altra, la celebrazione di un monarca tutt'altro che ecumenico e
che, fuori dai veli del misticismo imperiale, doveva trovare in se stesso, vale a dire
nelle forme di un'appropriata educazione, la legittimazione del proprio potere
nazionale.

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Canzoniere
Rerum vulgarium fragmenta ("Frammenti di cose volgari") sono una raccolta di 366 liriche di
Francesco Petrarca scritte nell'arco di tutta la vita e messe insieme nella forma definitiva
negli ultimi anni prima della morte, approssimativamente tra il 1336 e il 1373-74. L'opera è
anche impropriamente intitolata Canzoniere e, a differenza della Vita nuova di Dante, non ha
una cornice narrativa in prosa ma presenta una successione di poesie, tradizionalmente divise
tra quelle In vita di madonna Laura (sino al sonetto 264) e quelle In morte di madonna
Laura, benché tale suddivisione non sia resa esplicita dall'autore. L'amore per Laura è il tema
dominante della raccolta, ma non mancano altri argomenti come la critica alla corruzione
della Curia papale di Avignone, la politica del tempo, mentre alcuni componimenti sono
d'occasione e dedicati ad amici e potenti protettori del poeta. L'ordine di pubblicazione delle
poesie non rispecchia quello di composizione e infatti il sonetto di apertura è stato certamente
scritto tra gli ultimi, quando Laura era già morta e l'autore considera in maniera retrospettiva
la sua vita sprecata nell'amore non corrisposto della donna. L'opera ci è stata tramandata da
alcuni manoscritti tra cui specialmente il Codice Vaticano Latino 3196, che per buona parte è
stato vergato di pugno dallo stesso Petrarca con tanto di annotazioni a margine e dunque del
testo possediamo l'autografo (primo caso tra gli autori del Medioevo). Il titolo originale
allude alla scarsa considerazione che l'autore riponeva in quest'opera, da lui giudicata
inferiore agli scritti latini da cui si attendeva la fama, infatti le liriche vengono definite anche
nugae, "cose di poco conto" (tale giudizio apparentemente svalutante è probabilmente di
maniera e contrasta con l'impegno profuso da Petrarca nel continuo lavoro di
rimaneggiamento della raccolta). L'opera è comunque il capolavoro riconosciuto del poeta ed
è considerata come la prima raccolta lirica della poesia "moderna", con una rappresentazione
dell'amore basata molto sull'interiorità dell'autore e con una descrizione della donna amata
come creatura terrena, con difetti e soggetta all'invecchiamento, molto lontana quindi dalla
idealizzazione propria dello Stilnovo.

Sonetto 1 - Proemio
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango et ragiono


fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto


favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

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et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

Parafrasi
O voi che ascoltate in queste poesie sparse il suono di quei sospiri [d'amore] di cui io
nutrivo il mio cuore durante il mio vaneggiare giovanile, quando ero in parte un uomo
diverso da quello che sono oggi, / se fra voi c'è chi comprende l'amore per esperienza,
spero di trovare pietà e perdono per lo stile vario in cui piango e parlo, fra le speranze
e il dolore vano. / Ma ora capisco bene come per molto tempo io fui oggetto di
derisione per tutto il popolo, cosa di cui spesso mi vergogno con me stesso; / e il frutto
del mio vaneggiare [del mio amore infelice] è la vergogna, e il capire chiaramente che
tutto ciò che piace al mondo è un sogno fugace.

Considerazione del Tassoni


Già i primi commentatori considerano questo primo sonetto come il peggiore tra Le
Rime, poiché da un punto di vista della forma, dello stile, Petrarca sembra abbia
peccato un po’. L’autore, infatti, forse l’aveva ideato solo come breve introduzione
dell’opera, senza porvi al suo interno un vero e proprio significato morale. Da un
punto di vista tecnico questo sonetto “non funziona”.
Da qua possiamo capire come i testi letterari non siano qualcosa di sacro, statico, ma
possono essere criticati, analizzati a fondo per trovare sia i pregi che i difetti.
Petrarca può averlo, però, posto all’inizio della sua raccolta per spiegarci come
andrebbero interpretati gli altri sonetti.
Tassoni si sofferma sugli aspetti che contraddistinguono i versi: essi sono i mezzi
retorici utilizzati per colpire il pubblico con un messaggio particolare, per farlo
ragionare su un particolare concetto. Le parole di questo sonetto nello specifico
appaiono, però, piatte, senza spessore e senza un fine morale.
Ciò che infastidisce di più in questo sonetto è la parafrasi dell’inizio, il “voi” senza
verbo e posto in quel punto quasi casualmente. La pararsi in sé non appare lineare,
poiché la lirica è scritta in un modo molto così semplice. È banale che sembra una
prosa.
Il punto in cui Petrarca scrive “in sul mio primo giovenile errore” ha il fine di indicare
la gioventù come il momento in cui l’uomo compie gli errori da cui deve imparare in
futuro, poiché i giovani tendono ad essere convinti che tutto è possibile e non pongono
abbastanza valore nelle loro vite (De Remediis).
Il vaneggiar può portare alla conoscenza perché esso genera la vergogna è tramite
questa l’uomo è in grado di riconoscere l’aver scambiato un oggetto materiale come
qualcosa di spirituale, quindi da venerare (es: denaro), e potendo, di conseguenza,
migliorare (De Vita Solitaria).

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Tassono critica anche il fatto che Petrarca ripeta le parole (es: “me medesimo meco”),
ma il fine dell’autore era enfatizzare proprio quel concetto, sfruttando, appunto, la
ripetizione.

Commento del Muratori


Per Muratori, invece, sebbene non sia il più bel sonetto di Petrarca, il Proemio non
deve portare alcuna vergogna al poeta, poiché ha comunque un fine ultimo ed è stato
scritto per un motivo preciso: introdurre il senso dell’intera opera.
Secondo Muratori, inoltre, la poesia si caratterizza per il buono e il bello, ciò bisogna
dire cose vere e farlo bene, come appare nel quarto verso. Egli afferma anche che un
poeta non deve per forza seguire delle strutture fisse per scrivere un’opera degna di
nota.

Sonetto 16
Movesi il vecchierel canuto et biancho
del dolce loco ov’à sua età fornita
et da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;

indi trahendo poi l’antiquo fianco


per l’extreme giornate di sua vita,
quanto piú pò, col buon voler s’aita,
rotto dagli anni, et dal camino stanco;

et viene a Roma, seguendo ’l desio,


per mirar la sembianza di colui
ch’ancor lassú nel ciel vedere spera:

cosí, lasso, talor vo cerchand’io,


donna, quanto è possibile, in altrui
la disïata vostra forma vera.

Parafrasi
Il vecchietto dai capelli bianchi e il volto pallido parte dal dolce luogo dove ha
trascorso la vita e dalla sua famigliola che, turbata, vede il caro padre che se ne va; / e
da lì, trascinando il vecchio corpo negli ultimi giorni della sua vita, si aiuta con la
buona volontà per quanto gli è possibile, fiaccato dagli anni e spossato dal lungo
cammino; / e arriva a Roma, seguendo il suo desiderio di ammirare le fattezze di Colui
[Cristo] che spera un giorno di vedere in Paradiso: / allo stesso modo, ahimè, talvolta

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anche io cerco, o donna, per quanto è possibile, il vostro autentico e desiderato aspetto
in altre donne.

In questo sonetto viene ripreso il De Remediis: la famiglia rimane sbigottita alla scelta
dell’anziano, ma il cambio di quest’ultimo è ben motivato, poiché i membri della
famiglia (probabilmente composta da giovani) non si aspetterebbe mai una tale scelta
in vecchiaia. I giovani pensano che solo loro hanno la possibilità di fare certe
avventure, mentre in realtà anche i vecchi possono farlo.
Petrarca cerca il volto di Laura tra le altre donne: i giovani sono legati alla forma, alla
bellezza, a tutte quelle cose che, con l’età, scompaiono.

Sonetto 90
Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;

e ’l viso di pietosi color’ farsi,


non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?

Non era l’andar suo cosa mortale,


ma d’angelica forma; e le parole
sonavan altro, che pur voce humana.

Uno spirto celeste, un vivo sole


fu quel ch’i' vidi: e se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana.

Parafrasi
[Il giorno del mio incontro con Laura] i capelli biondi erano sparsi al vento che li
avvolgeva in mille dolci nodi, e la bella luce di quei begli occhi, che adesso ne sono
così scarsi, ardeva oltre misura; / e mi sembrava che il suo viso (non so veramente o
per mia illusione) assumesse un'espressione di pietà verso di me: che c'è da stupirsi se
io, che avevo nel petto la predisposizione ad amare, arsi subito di amore per lei? / Il
suo incedere non era proprio di una donna mortale, ma simile a quello di un angelo; e
le sue parole risuonavano in modo diverso da quello di una voce umana. / Quello che
io vidi fu uno spirito del cielo, un sole luminoso: e se anche ora non fosse più così, la
ferita non guarisce perché l'arco [che ha scoccato la freccia] si è allentato.

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Tutto il componimento è giocato sul contrasto tra la Laura del primo incontro,
quand'era giovane e bellissima, e quella del presente, invecchiata e la cui bellezza
esteriore è sfiorita: la prima è descritta coi tratti distintivi della donna-angelo dello
Stilnovo, quindi dai capelli biondi ("capei d'oro"), con gli occhi pieni di un "vago
lume", dotata di un incedere che la fa sembrare una "angelica forma" e di una voce
superiore a quella umana, paragonata a uno spirito celeste e a un "vivo sole"; della
seconda è detto solo che i suoi occhi sono "scarsi" della luminosità di un tempo,
intendendo che la donna è invecchiata e reca sul volto i segni del tempo, cosa che
tuttavia non fa diminuire l'amore di Petrarca per lei. L'invecchiamento di Laura è
l'aspetto che più la allontana dallo stereotipo della donna-angelo stilnovista richiamato
solo dalla descrizione esteriore, dal momento che essa è una donna umana priva di
qualunque significato religioso e per cui il poeta prova un amore passionale, centrato
soprattutto sulla sua bellezza fisica; il tema si ricollega a un brano del Secretum, in cui
S. Agostino accusava Francesco di amare l'aspetto esteriore di Laura e lui ribatteva
dicendo che anche adesso che lei è invecchiata i suoi sentimenti restano immutati.
Petrarca pone se stesso come esempio da seguire: non lasciarsi ingannare dalla
bellezza fisica, ma innamorarsi dell’anima della persona.

Sonetto 134
Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.

Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,


né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;


et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;


egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.

Parafrasi

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Non trovo la pace e non ho armi per combattere e ho paura, e spero; e ardo e sono di
ghiaccio; volo in alto e [nello stesso tempo] giaccio supino in terra; non sto stringendo
nulla, ed sto abbracciando tutto il mondo. / Una persona [Laura] mi tiene in una
prigione che non apre né chiude, né mi trattiene come suo prigioniero né mi libera e
Amore non mi uccide, ma nemmeno mi libera dai ferri delle catene, né mi vuol vivo,
ma nemmeno mi libera dalla sofferenza. / Vedo senza avere gli occhi, e pur non
avendo la lingua grido. Desidero morire e [tuttavia] chiedo aiuto verso me stesso,
provo odio ed amo altre persone. / Mi nutro di dolore, piangendo rido. Detesto (mi
dispiacciono) ugualmente la morte e la vita: mi trovo in questa situazione a causa
vostra, o donna.

Questo sonetto è caratterizzato dal fatto che Petrarca utilizza termini opposti (es:
“pace/guerra; volo/giaccio), volendo indicare il miscuglio di emozioni che prova da
quando si è innamorato di Laura.

Sonetto 234
O cameretta che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie diürne,
nte se’ or di lagrime nocturne,
che ’l dí celate per vergogna porto.

O letticciuol che requie eri et conforto


in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor, con quelle mani eburne,
solo ver ’me crudeli a sí gran torto!

Né pur il mio secreto e ’l mio riposo


fuggo, ma più me stesso e ’l mio pensero,
che, seguendol, talor levommi a volo;

e ’l vulgo a me nemico et odïoso


(chi ’l pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo.

Parafrasi
O mia camera, che un tempo sei stata un rifugio sicuro dalle gravi angosce che
provavo durante il giorno, ora durante la notte sei fonte di lacrime che il giorno cerco
di nascondere per vergogna. / O mio letto, che eri pace e conforto in tanti affanni,
l'amore ti bagna con urne dolorose [con le mie lacrime] attraverso quelle mani di
avorio [di Laura] che sono crudeli solo verso di me, così ingiustamente! / E io non

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fuggo solo il mio segreto e il mio riposo, ma soprattutto me stesso e il mio pensiero,
mentre talvolta seguendolo mi sono alzato in volo [ho realizzato opere egregie]; / e
invece cerco quale mio rifugio il popolo a me ostile e odioso (chi l'avrebbe mai
pensato?): è tale la mia paura di ritrovarmi solo.

Questo sonetto, non databile, tratta una serie di temi centrali soprattutto nelle opere
latine.
Il termine “cameretta” (utilizzato tutt’oggi) è intimo, indicando come Petrarca stia
parlando del proprio animo, e appare come un luogo di tristezza, dove si piange per le
“tempeste diürne” che Petrarca nasconde per la vergogna. Questi versi sono in netto
contrasto con il De Vita Solitaria, nel quale l’uomo solitario trova sicurezza e calma
nella notte: in questo caso durante la notte il poeta non dorme, ma ripensa a ciò che è
successo durante il giorno e piange.
La quiete della stanza disturba la vita solitaria “artificiale” che può essere creata da
chi non può viverla davvero ma ne sente la necessità → vita solitaria stravolta
dall’Amore.
Petrarca non cerca di fuggire dall’innamoramento o dal riposo, ma cerca di scappare
dai propri pensieri, i quali lo stanno allontanando dalla sua vita. La situazione è così
paradossale che il poeta trova rifugio tra le persone, una volta tanto odiate e rinnegate,
e ha paura di rimanere da solo. Nel De Vita Solitaria, Petrarca afferma che solo chi è
folle (malato di Amore) preferisce la gente alla solitudine, ma gli sta succedendo
proprio questo (pagina 293 - De Vita Solitaria).
L’autore pone il suo pensiero, nel Canzoniere, in maniera esperienzale: espone delle
situazione che possono essere capite da tutti (esperienza). Tutti, leggendo il
Canzoniere e ritrovandosi nelle esperienze d’Amore del poeta, possono cercare in
qualche modo una luce di salvezza.

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Sonetto 272
La vita fugge, et non s’arresta una hora,
et la morte vien dietro a gran giornate,
et le cose presenti et le passate
mi dànno guerra, et le future anchora;

e ’l rimembrare et l’aspettar m’accora,


or quinci or quindi, sí che ’n veritate,
se non ch’i’ ò di me stesso pietate,
i’ sarei già di questi penser’ fòra.

Tornami avanti, s’alcun dolce mai


ebbe ’l cor tristo; et poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i vènti;

veggio fortuna in porto, et stanco omai


il mio nocchier, et rotte arbore et sarte,
e i lumi bei che mirar soglio, spenti.

Parafrasi
La vita fugge e non si arresta neppure un attimo, e la morte la segue a grandi passi, e il
presente e il passato mi tormentano, così come il futuro; / e il ricordo [del passato] e
l'attesa [del futuro] mi angosciano, ora da una parte ora dall'altra, a tal punto che in
verità io mi sarei già liberato da tutti questi pensieri [mi sarei ucciso], se non avessi
pietà di me stesso. / Ritorno a pensare se il mio cuore triste provò mai dolcezza [nel
passato]; e poi, dall'altra parte [pensando al futuro] vedo la mia navigazione turbata dai
venti; / vedo la tempesta [fortuna] in porto e il mio timoniere [la ragione] ormai
stanco, e rotte gli alberi e le sartie, e spente le belle luci [gli occhi di Laura] che ero
solito fissare.

Questo sonetto è uno degli ultimi scritti poiché Petrarca sta ragionando in un momento
vicino alla morte. I temi principali sono il dolore di quest’ultima, il senso della vita
breve, ma allo stesso tempo la consapevolezza della luce della salvezza. Il concetto di
vita breve è una ripresa del De Remediis.
Petrarca si trova in un momento della vita in cui non si trova speranza nel futuro ma
neppure conforto nel passato → momento più propenso per il suicidio.
Il poeta si accorge che ha riposto tutte le sue speranze in un Amore vago, e quando
questo è venuto meno, tutta l’imbarcazione della Ragione l’ha seguito.

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