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Introduzione

Le Nazioni Unite pag. 1

Il nuovo ordine economico:


2

il piano Marshall, il Fondo Monetario Internazionale, il GATT 3

L’ Italia verso la Repubblica 4

La Costituzione repubblicana 6

Le elezioni del ’48 7

Gli anni del “centrismo”: le riforme 10

La crescita economica: l’ IRI e l’ ENI 11

La Corte Costituzionale 13

Dalla CECA all’ Unione Europea 14

Il “miracolo economico”

17

Le trasformazioni sociali 18

Il centro-sinistra 19

Il ’68 e l’ “autunno caldo” 21

La crisi petrolifera del ’73 22

Il petrolio 24

Britain, energy resources 26

Les hidrocarbures: l’ essentiel est importé 26

Principali critiche alle multinazionali


27 

Caratteri strutturali ed organizzativi delle imprese industriali 29

Ricerca operativa e problemi di scelta: 34

scelta di una campagna pubblicitaria


Alla seconda guerra mondiale si guarda oggi come ad un grande spartiacque storico.

Certo, il mondo attuale è anche il prodotto di processi cominciati molto prima della guerra

(come il declino europeo) e di altri successivi (come i mutamenti nell’economia, nelle

tecniche, nel costume, ecc); tuttavia, pochi avvenimenti come la seconda guerra mondiale

hanno avuto conseguenze così vaste e profonde sugli assetti internazionali, sulla vita dei

singoli Paesi, sulla stessa psicologia individuale e di massa.

La seconda guerra mondiale sancì, oltre che la liquidazione del nazifascismo, la crisi

definitiva della supremazia europea e l’emergere di due superpotenze, USA e URSS,

dando vita così ad un nuovo equilibrio internazionale bipolare. A farsi promotori e garanti

del progetto di un nuovo sistema mondiale furono soprattutto gli Stati Uniti. Come già nel

primo dopoguerra, e in misura maggiore di allora, gli USA diventarono per l’Europa

occidentale il principale punto di riferimento non solo materiale (per la ricostruzione e la

difesa), ma anche ideale e culturale in senso lato.

Le Nazioni Unite

Di matrice americana fu l’ ispirazione di base dell’Organizzazione delle Nazioni Unite

(ONU) creata nella conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945) al posto della

vecchia e screditata Società delle Nazioni, con l’obiettivo di “salvare le generazioni future

dal flagello della guerra” e di impiegare “strumenti internazionali per promuovere il

progresso economico e sociale di tutti i popoli”. Lo Statuto dell’ONU reca l’impronta di due

diverse concezioni: da un lato, quella dell’ utopia democratica wilsoniana di cui era ancora

imbevuta una parte dell’opinione pubblica americana, dall’ altro quella, più propriamente

roosveltiana, della necessità di una sorta di direttorio delle grandi potenze come efficace

strumento di governo degli affari mondiali. L’accordo di costituzione dell’ONU, denominato


“Statuto della Carta”, fu sottoscritto da 50 Stati. L’Italia vi è stata ammessa solo nel 1955 a

causa dell’opposizione dell’URSS. I principali organi dell’ONU sono:

 l’Assemblea Generale, costituita da tutti gli Stati membri. Si riunisce una volta all’anno

per adottare risoluzioni non vincolanti per gli Stati stessi;

 il Consiglio di sicurezza, costituito da cinque membri permanenti (le cinque maggiori

potenze vincitrici, USA, URSS, Francia, Gran Bretagna, Cina) e da altri dieci membri

eletti a turno nell’ambito dell’Assemblea Generale. Le determinazioni del Consiglio di

sicurezza possono essere bloccate da ciascuno dei cinque membri permanenti

mediante l’esercizio del diritto di veto: un meccanismo che fu introdotto soprattutto per

volontà dell’ URSS, diffidente nei confronti di un’ organizzazione in cui avrebbe potuto

facilmente essere messa in minoranza;

 il Segretario Generale che svolge compiti esecutivi;

 il Consiglio economico-sociale, avente il compito di promuovere la cooperazione in

campo economico e sociale e da cui dipendono organismi come la FAO

(Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura), l’UNESCO (Organizzazione delle

Nazioni Unite per l’Educazione,la Scienza e la Cultura), l’OIL (Organizzazione

Internazionale del Lavoro);

 la Corte Internazionale di Giustizia , con sede all’Aja, che giudica sulle controversie

insorte tra gli Stati membri, pronunciando sentenze che obbligano gli Stati ad eseguirle.

Il ruolo dell’ONU, anche se è stato in alcuni casi decisivo per evitare o far cessare conflitti,

incontra notevoli difficoltà quando deve far ricorso alla forza per ottenere il rispetto delle

sue decisioni. Infatti, pur essendo prevista dallo Statuto la possibilità di impiegare

contingenti militari (i cosiddetti caschi blu), di fatto, raramente si è fatto ricorso ad essi, per

via del veto esercitato dai cinque membri permanenti al Consiglio di sicurezza o per

difficoltà finanziarie. I caschi blu sono stati quasi sempre impiegati come osservatori nel

caso di armistizi o per svolgere compiti umanitari; solo di recente l’impiego di contingenti
armati dell’ONU è divenuto più frequente a causa dell’insorgere di crisi in varie parti del

mondo (Iraq, Somalia, Balcani).

Il nuovo ordine economico

Dopo aver mobilitato popolazioni e apparati produttivi in uno sforzo senza precedenti, la

guerra aveva lasciato dietro di sé nazioni dissanguate ed economie stremate.

Soprattutto in Europa il bilancio era pesantissimo. Si ponevano quindi, nell’immediato, due

esigenze: soccorrere le popolazioni più colpite e avviare la ricostruzione

economica.

A questi obiettivi corrispose l’ imponente flusso di aiuti americani, erogati in due fasi: una

prima, fra il ’45 e il ’46, di cui beneficiò in parte anche l’ URSS, e una seconda, più ampia,

che iniziò nel ’47-’48 e prese il nome di European Recovery Program (ERP) o, più

comunemente, Piano Marshall, dal nome del segretario di stato americano che ne

assunse l’iniziativa. Fra il 1948 e il 1952, il Piano Marshall riversò sulle economie europee

ben tredici miliardi di dollari fra prestiti a fondo perduto, macchinari e derrate agricole;

l’effetto fu, non solo, di permettere la ricostruzione,ma anche di avviare un forte rilancio

delle economie. Agli aiuti si accompagnarono alcuni vincoli: l’obbligo di acquistare una

certa quota di forniture industriali americane, i controlli sull’impiego dei fondi e sui piani

economici adottati dai singoli Paesi, le intese per tutelare l’industria statunitense dalla

concorrenza europea. Se è vero che il Piano Marshall non fu un’operazione

completamente disinteressata, i vincoli posti agli aiuti non impedirono, comunque, alla

ricostruita industria europea di entrare poi in vivace competizione con quella americana.

Un discorso analogo vale per la rifondazione dei rapporti economici internazionali,

anch’essa effettuatasi sotto l’impulso e la guida degli Stati Uniti. Con gli accordi di Bretton

Woods del luglio 1944 fu creato il Fondo Monetario Internazionale, con lo scopo di
costituire un adeguato ammontare di riserve valutarie mondiali a cui ogni Stato membro

può attingere in caso di difficoltà della propria bilancia dei pagamenti (cioè,nel pagamento

dei debiti di qualunque natura contratti con un altro Stato) e di assicurare la parità dei

cambi monetari ancorandoli, non soltanto all’oro, ma anche al dollaro (di cui gli Stati Uniti

si impegnavano a garantire la convertibilità in oro). Si venne così a consolidare il primato

della moneta americana come valuta internazionale per gli scambi e come valuta di riserva

per le banche centrali di tutto il mondo: un ruolo detenuto prima, in scala più ridotta, dalla

sterlina britannica.

Al Fondo Monetario fu affiancata la Banca Mondiale, col compito di concedere prestiti ai

singoli Stati per favorirne la ricostruzione e lo sviluppo.

Sul piano commerciale, un sistema fondamentalmente liberoscambista fu instaurato dal

GATT (General Agreement on Tariff and Trade), che prevedeva un generale

abbassamento dei dazi doganali. L’insieme di queste riforme, e più ancora il ruolo del

dollaro,misero nelle mani degli USA leve formidabili per stimolare la rinascita delle

economie europee e per renderle omogenee e complementari alla propria.

Verso la Repubblica

La prima occasione di confronto fra i partiti italiani all’indomani della liberazione si

presentò al momento di eleggere il successore di Bonomi. Dopo un lungo braccio di ferro,

trovarono un accordo sul nome di Ferruccio Parri, che godeva di un notevole prestigio

personale essendo stato uno dei capi militari della Resistenza. Formato un ministero con

tutti i partiti del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), Parri cercò di promuovere un

processo di normalizzazione del Paese ancora sconvolto dagli strascichi della guerra e

mise all’ordine del giorno lo spinoso problema dell’epurazione. Annunciò, inoltre, una serie

di provvedimenti volti a colpire con forti tasse le grandi imprese e a favorire la ripresa delle
piccole e medie aziende; ma in questo modo suscitò l’opposizione delle forze moderate

che ritirarono la fiducia al Governo determinandone la caduta. Il nuovo Governo fu

presieduto da Alcide De Gasperi. La sua nascita è stata spesso considerata come l’inizio

di un predominio che sarebbe durato per tutto il corso della prima Repubblica ed è stata

perciò caricata di un particolare significato. Il dibattito politico s’ incentrava soprattutto sulla

questione della Costituente. De Gasperi chiedeva che all’Assemblea Costituente fosse

affidato solo il compito di redigere la Costituzione, mentre i provvedimenti legislativi

sarebbero stati decisi dal Governo, nell’ambito di una divisione di poteri che gli sembrava

una garanzia contro pericoli di autoritarismo. La paura di un indebolimento del suo partito

gli faceva porre la richiesta che ad essa non fosse demandata nemmeno la decisione sul

problema istituzionale, che voleva affidare a un referendum. La stessa richiesta era

avanzata dalla destra per ragioni diverse: i monarchici ritenevano che il referendum

avrebbe portato a una drammatizzazione della situazione e ad una più forte spaccatura

nel Paese, di cui avrebbero potuto giovarsi le destre spostando verso la monarchia i voti

del fronte moderato. De Gasperi guardava con preoccupazione al voto moderato, temendo

che una chiara presa di posizione della DC sulla questione istituzionale potesse farle

perdere l’appoggio dei monarchici; nel partito, infatti, la corrente repubblicana, le cui

ragioni erano espresse soprattutto da Dossetti, era nettamente prevalente. Nel congresso,

tenutosi dal 24 al 28 aprile, il 60% dei delegati della DC si pronunciarono per la

Repubblica, contro il solo 17% favorevoli alla monarchia. De Gasperi, anche se

faticosamente, riuscì ad appianare i contrasti con la destra cattolica e le gerarchie

ecclesiastiche. In questo modo il partito democristiano avanzava la sua candidatura a

guidare la transizione tra monarchia e Repubblica e si poneva come garante politico e

sociale verso le forze moderate e conservatrici, nonché verso i cattolici e la Chiesa. Nel

referendum istituzionale del 2 giugno la Repubblica prevalse sulla monarchia; nella

Costituente ben 207 seggi andarono alla DC. Il periodo dell’esarchia del CLN era finito e
aveva inizio quello dei partiti di massa. I risultati del referendum misero in evidenza

l’esistenza di due Italie: la monarchia ebbe poco più del 35%dei voti al Centro e al Nord

ma oltre il 60% nell’Italia meridionale e insulare. La DC fu il partito che ottenne il voto più

equilibrato. In questa situazione, si andò delineando, soprattutto attraverso la DC, un’

alleanza tra una parte del Nord e una parte sempre più consistente del Sud, che avrebbe

rappresentato un elemento fondamentale del nuovo blocco di potere: i gruppi industriali e

borghesi economicamente più forti del Nord trovarono un sostegno elettorale, e di

conseguenza politico, più nelle regioni meridionali che in quelle settentrionali e centrali. I

risultati delle elezioni del 2 giugno delusero le sinistre che, rispetto alle aspettative,

subirono una sconfitta: alla prova del voto la DC risultava di gran lunga il più forte partito

italiano. Per i comunisti la delusione era resa più grande dal fatto che i socialisti li

precedevano nei maggiori centri operai, come Milano e Torino, dove erano preceduti

anche dalla Democrazia Cristiana. La misura dell’affermazione della DC veniva anche ad

indebolire l’ipotesi di fondo su cui era basata la strategia di Togliatti e di Nenni: quella di

un’alleanza fra i tre grandi partiti popolari. Questa alleanza si basava, infatti, sul

presupposto che le forze popolari democratiche e repubblicane rappresentassero la

grande maggioranza del popolo italiano; ma le elezioni mostrarono l’esistenza di una

minoranza monarchica così rilevante da invalidare quel presupposto, minoranza che

faceva confluire il suo voto nella DC, che veniva quindi a rappresentare una forza

antagonista alle sinistre. Il primo importante problema che l’Assemblea Costituente

dovette risolvere fu quello del rapporto tra attività costituente e attività legislativa ordinaria;

l’Assemblea lo risolse in modo che l’attribuzione di quest’ultima al Governo non ledesse la

sua sovranità: il Governo fu invitato ad inviarle con la massima urgenza tutti i disegni di

legge che quattro commissioni avrebbero esaminato decidendo quali, per la loro

importanza, dovevano essere sottoposti alla deliberazione della Costituente. D’altra parte,
dopo il successo elettorale, i timori che un’Assemblea troppo spostata a sinistra avesse la

prevalenza sul Governo erano in gran parte svaniti dalla DC.

La Costituzione Repubblicana

L’Assemblea Costituente incaricata di dare all’ Italia una nuova legge fondamentale, dopo

lo Statuto Albertino di cento anni prima, cominciò i suoi lavori il 24 giugno 1946 e li

concluse il 22 dicembre 1947 con l’approvazione a larghissima maggioranza del testo

costituzionale che entrò in vigore il 1 gennaio 1948. Dalla forma di Governo monarchico-

rappresentativo, introdotta dallo Statuto Albertino, si passò al sistema costituzionale-

parlamentare, col Governo responsabile di fronte alle due Camere (la Camera dei Deputati

ed il Senato della Repubblica), titolari del potere legislativo, entrambe elette a suffragio

universale e incaricate anche di scegliere, in seduta congiunta, un Capo dello Stato con

mandato settennale; in tal modo, l’originaria responsabilità del Governo verso il Re si

trasforma in responsabilità verso il Parlamento. La Costituzione repubblicana è totalmente

ispirata ai principi dello stato di diritto per cui Stato e cittadini si trovano nella medesima

posizione di fronte alla legge. La novità fondamentale, rispetto allo Statuto Albertino, è

rappresentata dal riconoscimento in favore dei cittadini di diritti soggettivi pubblici, cioè, dal

potere di pretendere dallo Stato e da altri Enti pubblici, particolari comportamenti. Tutta la

Costituzione è orientata in senso democratico, ossia, verso il riconoscimento

dell’appartenenza al popolo della sovranità e verso l’ apprestamento di strumenti che

possano consentire ai cittadini di partecipare, direttamente o indirettamente, all’attività di

governo. Ciò si realizza particolarmente nel titolo che disciplina i rapporti politici. Un’altra

novità di rilievo è rappresentata dal fatto che un apposito titolo della Costituzione è

dedicato ai rapporti economici, cioè alla tutela del lavoro in tutte le sue forme, alla

previsione di forme di previdenza e di assistenza sociale, all’ affermazione della libertà


sindacale, alla disciplina della proprietà privata, alla tutela della cooperazione mutualistica

e del risparmio. La Costituzione, essendo rigida, non può essere modificata da una

qualunque legge: il processo di modifica richiede maggioranze particolari ed un doppio

esame da parte di entrambi i rami del Parlamento. La necessità dell’ adozione di una

Costituzione rigida fu determinata, oltre che dall’ affermarsi dello stato di diritto, dall’

esperienza del ventennio fascista, al fine di evitare drammatici stravolgimenti nella vita

democratica.

Nel complesso, la Costituzione rappresentò un compromesso equilibrato, e non più

contestato in seguito, fra le diverse forze politiche che avevano contribuito a realizzarla,

nonostante l’ asprezza dei contrasti che si aprirono su singole questioni. Lo scontro più

clamoroso si verificò quando si discusse la proposta democristiana di inserire un articolo

(l’articolo 7) in cui si stabiliva che i rapporti fra Stato e Chiesa erano regolati dal

Concordato (conosciuto come Patti Lateranensi) stipulato nel 1929 fra la Santa Sede e il

regime fascista; la proposta sembrava destinata ad essere respinta, ma, all’ultimo

momento, con una decisione che suscitò non poco scalpore, Togliatti annunciò il voto

favorevole del PCI, motivando la sua scelta con la volontà di rispettare il sentimento

religioso della popolazione italiana e di non creare fratture in seno alle masse. L’art.7 fu

così approvato, nonostante l’opposizione dei socialisti e degli altri partiti laici. Era inoltre

previsto che una Corte Costituzionale vigilasse sulla conformità delle leggi alla

Costituzione, che le leggi stesse potessero essere sottoposte a referendum abrogativo,

che la vecchia struttura centralistica dello Stato fosse spezzata creando il nuovo istituto

della Regione, dotato di poteri anche legislativi.

Le norme relative alla Corte Costituzionale, al referendum e alle Regioni erano però

destinate a restare inattuate per molti anni, anche perché, la Costituente, non essendo

investita dei poteri legislativi ordinari, non ebbe la possibilità di tradurre immediatamente

in leggi applicative le norme del Dettato Costituzionale.


Le elezioni del ’48

Il varo della Costituzione repubblicana fu l’ ultima manifestazione significativa della

collaborazione tra le forze antifasciste. Dall’inizio del ’48 i partiti si impegnarono in un’

accanita gara per conquistarsi i favori dell’elettorato, in vista delle elezioni politiche

convocate per il 18 aprile che avrebbero dato alla Repubblica il suo primo Parlamento.

Caratteristica di questa campagna elettorale fu la polarizzazione fra due schieramenti

contrapposti: quello governativo, guidato dalla DC e comprendente anche i partiti laici

minori, e quello di opposizione egemonizzato dal PCI. Un ulteriore contributo alla

radicalizzazione dello scontro lo diede il Partito Socialista, decidendo di presentare liste

comuni col PCI sotto l’insegna del Fronte Popolare. Gli elettori si trovarono così di fronte

ad un’ alternativa secca: la scelta sembrò dovesse essere per gli Stati Uniti o l’Unione

Sovietica, per la Chiesa o per il bolscevismo ateo. Si discusse, tanto di modelli di vita,

quanto dell’ aiuto che gli Stati Uniti potevano dare all’ Italia espresso nei suoi termini più

elementari: pane, carbone, medicine. L’ immagine più diffusa dell’ America fu quella delle

“navi cariche di roba da mangiare”, immagine che esprimeva le condizioni di miseria in cui

ancora viveva la grande maggioranza degli italiani. Questo consentì ai democristiani di

porsi come i più accreditati rappresentanti della superpotenza e di agitare la minaccia di

una sospensione degli aiuti del Piano Marshall in caso di vittoria delle sinistre. IL partito di

De Gasperi potè giovarsi inoltre dell’ aiuto della Chiesa, che si impegnò in una massiccia

campagna anticomunista e mobilitò tutte le sue organizzazioni in una propaganda spesso

grossolana ma indubbiamente efficace: l’ aver dato alle elezioni del 18 aprile i caratteri di

una crociata religiosa fu già una prima vittoria democristiana.

Le elezioni si tradussero in un travolgente successo del partito cattolico mentre, durissima

fu la sconfitta dei due partiti operai, il cui peso ricadeva per intero sul PSI che vedeva più

che dimezzata la sua rappresentanza parlamentare e pagava così l’ eccessiva


identificazione con le posizioni del PCI. Con le elezioni del 18 aprile ’48, gli elettori italiani

non solo scelsero il partito che avrebbe governato il Paese negli anni a venire, ma si

espressero anche in favore di un sistema economico e di una collocazione internazionale.

Tre mesi dopo, un episodio drammatico rischiò di far precipitare il Paese nella guerra

civile: il 14 luglio, uno studente di destra sparò al segretario comunista Togliatti ferendolo

gravemente; alla notizia dell’attentato, in tutte le principali città, operai e militanti comunisti

scesero in piazza scontrandosi con le forze dell’ ordine. La CGIL proclamò lo sciopero

generale che fornì, però, alla sua componente cattolica l’ occasione per staccarsi dal

sindacato unitario e dar vita ad una nuova confederazione, la CISL (Confederazione

Italiana Sindacati Lavoratori). Pochi mesi dopo, anche i sindacalisti repubblicani e

socialdemocratici abbandonarono la CGIL, fondando una terza organizzazione, la UIL

(Unione Italiana del Lavoro).

Svaniva così l’ ultimo residuo di unità antifascista e la divisione del Paese in due

schieramenti contrapposti poteva ormai dirsi completa. .

Gli anni del “centrismo”

I cinque anni della prima legislatura repubblicana (1948-1953) segnarono il periodo di

massima egemonia della Democrazia Cristiana che, malgrado la maggioranza assoluta

dei seggi alla Camera, continuò a puntare sull’ alleanza coi partiti laici minori. La DC

appoggiò la candidatura alla presidenza della Repubblica del liberale Luigi Einaudi (eletto

nel maggio ’48) e associò al suo Governo, sempre presieduto da De Gasperi,

rappresentanti del PLI, PRI e PsdI: fu questa la formula del cosiddetto “centrismo”, che

vedeva una DC molto forte occupare il centro dello schieramento politico, lasciando fuori

dalla maggioranza sia la sinistra social-comunista, sia l’ estrema destra monarchica e

neofascista. L’ iniziativa più importante del periodo centrista fu la riforma agraria, che

fissava norme per l’esproprio e il frazionamento di una parte delle grandi proprietà terriere.

La riforma costituiva il primo vero tentativo di una profonda modifica dell’assetto fondiario
mai attuato nella storia dell’ Italia unita e, pur osteggiata duramente dai partiti di destra,

dava un duro colpo al potere della grande proprietà assenteista e andava incontro alle

attese delle masse rurali del Centro-sud, protagoniste, ancora alla fine degli anni ’40, di

drammatici episodi di lotta per la terra. Se lo scopo immediato della riforma era quello di

rimuovere una causa di scontento e di protesta sociale, l’ obiettivo a lungo termine stava

nell’ incrementare la piccola impresa agricola: nel rafforzare, quindi, il ceto dei contadini

indipendenti, tradizionalmente considerato una garanzia di ordine sociale e largamente

egemonizzato dalla DC attraverso la potente Coldiretti.

I provvedimenti adottati (1950) furono la Legge per la Sila e la Legge stralcio (così

chiamata perchè “stralciata” da un più ampio progetto che fu poi abbandonato). Le due

leggi (la prima per la Calabria, la seconda per le altre regioni meridionali e centrali e il

Delta Padano), completate da un analogo provvedimento della regione siciliana, diedero il

via all’espropriazione di latifondi con indennizzo, come stabilito dall’ art.42 della

Costituzione. Contemporaneamente alla riforma agraria, fu istituita la Cassa per il

Mezzogiorno, un nuovo Ente pubblico, che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo

economico e civile delle regioni meridionali, attraverso il finanziamento statale per le

infrastrutture (strade, acquedotti, centrali elettriche, ecc.) e il credito agevolato alle

industrie localizzate nelle aree depresse. L’impegno fu effettivamente imponente e si

prolungò per oltre un trentennio (la Cassa è stata sciolta nel 1983), ma i risultati non

corrisposero del tutto alle attese; l’ ingente iniezione di denaro pubblico, se anche ebbe

effetti positivi sull’economia meridionale, non bastò a mettere in moto un autonomo

processo di modernizzazione, né a contenere quel fenomeno di migrazione dalle

campagne che, cominciato all’ inizio degli anni ’50 in coincidenza con i primi segni di

ripresa industriale, avrebbe poi assunto dimensioni enormi alla fine del decennio.

La crescita economica
Gli anni ’50 segnarono la piena trasformazione dell’Italia in società industriale. Lo sviluppo

dell’industria fu dovuto sia all’ iniziativa privata che all’ intervento pubblico. Quest’ ultimo

vvenne in un primo tempo attraverso l’ IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), eredità

di Mussolini e del tentativo del partito fascista di operare un recupero delle industrie dopo

la crisi mondiale del ’29-’32, e poi, a partire dal 1953, anche attraverso l’ ENI (Ente

Nazionale Idrocarburi) che rappresentò una novità assoluta nel quadro degli interventi

statali nell’ economia.

L’ IRI, operante fino al giugno 2000, era strutturata come una holding di stampo

tradizionale, ed è stata per molti anni l’ impresa conglomerata più grande d’ Europa. L’ IRI

controllava aziende siderurgiche (Italsider, Terni), meccaniche (Alfa Romeo),

cantieristiche, marittime, di navigazione aerea (Alitalia), di costruzioni, delle comunicazioni

(SIP) ,del credito (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banco di Roma). Nei

settori in cui l’ IRI non era presente, l’ impresa di Stato era rappresentata dall’ ENI, sua

maggior rivale quanto a dimensioni, operante particolarmente nel settore petrolifero e,

inoltre, in quello chimico, tessile e meccanico. L’ ENI fu creato nel 1953 da Enrico Mattei.

Nel 1945, nominato commissario straordinario dell’ AGIP, con il compito di procedere alla

liquidazione dell’ Ente, Mattei, diede invece impulso alla ricerca di idrocarburi con esiti

favorevoli: fu scoperto il metano nella Pianura Padana ed ebbe inizio a Cortemaggiore lo

sfruttamento del più grande giacimento italiano. Assertore dell’ intervento diretto dello

Stato nei settori chiave dell’economia, come presidente dell’ ENI, orientò la sua attività alla

ricerca di canali autonomi di approvvigionamento petrolifero per affrancare la politica

energetica italiana dalla tradizionale sottomissione ai gruppi americani. In aperto conflitto

con le maggiori compagnie petrolifere, le cosiddette “sette sorelle”, che avevano escluso l’

ENI dalle concessioni in Medio Oriente, concluse accordi diretti con i Paesi produttori, e in

particolare con l’ URSS, per la fornitura di greggio e perseguì una politica di ribasso dei

prezzi sul mercato interno. Grazie alle risorse finanziarie procurate dall’ ENI e dalla
“rendita metanifera”, Mattei diventò uno degli uomini più potenti d’ Italia. La sua politica fu

avversata in Italia dalle aziende produttrici di energia elettrica, e in particolare dal

presidente dell’ Edison, e all’ estero fu combattuta dalle “sette sorelle” e anche dal

governo americano. Se Mattei diventò il maggiore rappresentante del capitalismo

pubblico, quello privato era rappresentato da alcune grandi famiglie: gli Agnelli a Torino, i

Pirelli e i Falck a Milano, i Costa a Genova ; tutte famiglie del Nord. Fu a questo gruppo, e

in particolare agli Agnelli, che si dovette l’inizio del nuovo sviluppo industriale. Alla crescita

dell’ industria automobilistica, lo Stato fornì il necessario supporto della costruzione di un

importante rete autostradale; la legge che fissava i contributi statali per l’ avvio della sua

costruzione fu emanata il 21 maggio 1955; di seguito, tra l’ ANAS e una società

appositamente fondata dall’ IRI, fu stipulata una convenzione per la costruzione dell’

Autostrada del Sole. Il binomio automobili-autostrade rappresentò l’ elemento trainante

dell’ economia e uno dei due principali fattori di trasformazione della società italiana; l’

altro fu rappresentato dalla diffusione della televisione, alla cui comparsa, gli intellettuali,

soprattutto di sinistra, espressero una condanna senza appello. Nel 1956, fu creato il

Ministero delle Partecipazioni statali, col compito di coordinare l’ attività delle aziende di

Stato: era la conferma del rilievo assunto dagli enti a partecipazione statale (soprattutto l’

IRI e l’ ENI) ed anche di una nuova volontà della DC di intervenire più incisivamente nella

gestione dell’ economia. Amintore Fanfani, allora segretario della DC, cercò di rafforzare la

struttura organizzativa del partito collegandolo più strettamente all’ emergente industria di

Stato, in particolare all’ ENI; questa scelta creò, tuttavia, le premesse per quell’ intreccio

fra potere partitico ed economia pubblica che sarebbe stato poi all’ origine di gravi

degenerazioni.

La Corte Costituzionale
Sul piano delle istituzioni, la novità più importante di questi anni, fu l’ insediamento, nell’

aprile ’56, della Corte Costituzionale. Il carattere rigido della Costituzione italiana implica

la predisposizione di forme di controllo sulla conformità alla Costituzione delle leggi

ordinarie e degli atti normativi a queste parificati; tale esigenza venne soddisfatta con l’

insediamento della Corte Costituzionale, un apposito organo, avente funzioni tutte

riconducibili alla nozione di “garanzia costituzionale”. La Corte giudica, infatti, sulle

controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di

legge, sui conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni

e tra le Regioni, sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica per alto

tradimento e attentato alla Costituzione, sull’ ammissibilità delle richieste di referendum

abrogativo. La Costituzione prevede, innanzitutto, la pluralità delle fonti di investitura dei

15 giudici della Corte, che vengono nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica,

per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature

(Corte di cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei conti); tale diversità di provenienze

garantisce un’ equilibrata composizione dell’ organo. Ulteriori garanzie d’ indipendenza dei

giudici stanno nella previsione costituzionale che essi, una volta cessati dal mandato

novennale, non possono essere nuovamente nominati e nel regime delle incompatibilità, in

base al quale l’ ufficio di giudice della Corte è incompatibile con l’ ufficio di talune cariche e

con l’ esercizio della professione di avvocato. I giudici della Corte non possono essere

rimossi o sospesi dal loro ufficio senza una decisione della Corte e godono delle immunità

previste per i parlamentari. La Corte elegge tra i suoi componenti il presidente, il quale è

rieleggibile nell’ arco del novennato. La più rilevante tra le funzioni della Corte

Costituzionale è rappresentata dal giudizio sulla costituzionalità delle leggi; il giudizio di

costituzionalità può essere rilevato d’ ufficio dal giudice stesso o chiesto da una delle parti

di un procedimento civile, penale ed amministrativo (in tal caso il giudizio viene detto

“incidentale”). La legge dichiarata incostituzionale cessa di avere efficacia; se invece la


sentenza afferma la costituzionalità della legge, questa resta in vigore. Le sentenze

emanate dalla Corte Costituzionale non sono impugnabili. Dal momento della sua

istituzione, la Corte Costituzionale, è andata svolgendo una funzione importante e

fortemente progressiva nell’ adeguare la vecchia legislazione ai principi costituzionali e nel

far cadere alcune fra le norme più anacronistiche varate in periodo fascista.

Dalla CECA all’ Unione Europea

In quegli stessi anni, gli Stati europei, per il fatto stesso di aver perduto la posizione

centrale a suo tempo occupata nel mondo, di essere inseriti nella stessa alleanza e retti da

regimi parlamentari molto simili tra loro, vedevano svanire i vecchi motivi di rivalità legati

all’ “Europa delle grandi potenze” e crescere gli elementi di affinità reciproca. Un primo

esperimento unitario fu costituito dall’ OECE (Organizzazione Europea per la

Cooperazione Economica), fondata nel 1948 che si rivelò però insufficiente. Tre anni

dopo, per impulso di Francia e Germania, venne fatta la prima realizzazione concreta sul

cammino dell’ unità con la firma del Trattato di Parigi del 1951 istitutivo della CECA

(Comunità Europea del Carbone e dell’ Acciaio). La CECA è sorta con il compito di

regolare il mercato del carbone e dell’acciaio tra gli Stati membri, vigilando sull’

approvvigionamento, controllando i prezzi, promuovendo il miglioramento delle condizioni

di lavoro e lo sviluppo della produzione stimolando gli scambi commerciali. I risultati

positivi ottenuti da tale organismo e la successiva adesione al medesimo della Gran

Bretagna nel 1954, indussero gli Stati europei a proseguire sulla strada dell’unificazione,

prima con la creazione di una Comunità Europea di Difesa (CED), poi con la stipula, nel

marzo 1957, del Trattato di Roma istitutivo della Comunità Economica Europea (CEE) e

della Comunità Europea dell’ Energia Atomica (EurAtom). Motivo ispiratore della CEE

(art.2 del Trattato) è la creazione di un Mercato Comune Europeo (MEC) attraverso il

coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri e il conseguente sviluppo

equilibrato delle rispettive economie. Nel 1967 è stato adottato un sistema comune di
imposta sulle merci e sui servizi, l’ imposta sul valore aggiunto (IVA). L’ attuazione del

mercato unico si raggiunge non soltanto attraverso il graduale abbassamento dei dazi

doganali interni, ma anche, costituendo un unione doganale (1968) nei confronti degli Stati

terzi, nell’ intento di evitare che la loro concorrenza possa determinare situazioni di crisi

nell’ ambito della CEE.

Attività comuni si sono sviluppate in vari settori, come la politica agricola ed iniziative nei

campi dell’ energia, della ricerca e dell’ ambiente, della protezione dei consumatori.

Tuttavia, la demolizione dei residui ostacoli che ancora impedivano la libera circolazione di

merci, capitali e lavoro, è stata resa possibile dall’ Atto unico europeo, per effetto del

quale, dal 1 gennaio 1993, i cittadini degli Stati membri possono circolare liberamente

negli Stati stessi, trasferirsi in essi, esercitarvi attività professionali di varia natura, ottenere

il riconoscimento dei titoli di studio, muovere capitali, trasferire merci e così di seguito. La

formazione di un’ unica area economica consente ai cittadini europei di poter usufruire di

un più vasto mercato per la manodopera, così come le imprese hanno a disposizione un

mercato di vendita molto più ampio e, soprattutto, molto più libero, privo di protezionismi

nazionali; i consumatori, di conseguenza, hanno a disposizione beni e servizi

concorrenziali. E’ prevedibile che questa ulteriore liberalizzazione comporti il verificarsi di

notevoli flussi migratori fra Stato e Stato. La fisionomia iniziale del Trattato di Roma si è

dunque evoluta nel tempo quando, malgrado i buoni risultati ottenuti tra la fine degli anni

’50 e l’ inizio dei ’60, si è reso evidente che le finalità del Trattato stesso non potevano

essere completamente raggiunte, o sarebbero state raggiunte più agevolmente, qualora

all’ unione economica avesse fatto seguito l’ unione anche politica. La eventualità di un’

entità statuale che abbracciasse tutti i Paesi della CEE rientrava nelle previsioni degli

ideatori del Trattato, ma l’ integrazione era frenata dalla paura di un organismo

sovranazionale che comportasse una parziale rinuncia alla sovranità di ciascuno Stato.

Sul piano economico, risultò evidente che sarebbe stato impossibile competere con i
colossi produttivi del Nord America e del Giappone senza disporre di strumenti in grado di

armonizzare la scelte dei vari Stati in tale campo; inoltre, le ricorrenti crisi che hanno

travagliato le economie di molti Stati membri hanno mostrato l’ indispensabilità di

strumenti idonei ad evitare la prevalenza delle economie forti su quelle più deboli ed

hanno posto con forza il problema dell’ unità monetaria. Al Fondo Sociale Europeo, creato

nel 1960 per finanziare azioni volte a sviluppare l’ occupazione, si è affiancato, nel 1975, il

Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (FESR) destinato a fornire aiuto alle regioni in

difficoltà. Nel 1979 è stato istituito il Sistema Monetario Europeo (SME), con il fine di dare

una certa stabilità alle monete, ed è nato l’ECU, l’unità monetaria europea. L’unione

politica europea viene prefigurata dal Trattato di Maastricht, stipulato il 7 febbraio 1992. Il

Trattato di Maastricht prevede la creazione di una moneta comune gestita dalla Banca

Centrale Europea (l’ EURO, che entrerà in vigore dal 1 gennaio 2002), la politica sociale

ed economica comune, l’ incremento degli investimenti nelle regioni economicamente in

ritardo, l’ ampliamento del ruolo del Parlamento europeo (eletto per la prima volta nel

giugno 1979 a suffragio universale), la creazione di una politica estera e di una difesa

militare comuni, l’ istituzione della cittadinanza europea (disciplinata dagli articoli 8, 8A,8B,

8C, 8D, 8E,del Trattato).

Nel 1989 si è svolto in Italia un referendum consultivo in merito all’ opportunità di redigere

una Costituzione europea; l’ esito del referendum è stato favorevole.

Al progresso verso l’ unione monetaria dell’ Europa si sono spesso frapposti ostacoli quali

l’ inaccettabile aumento della disoccupazione, le difficoltà create dalla recessione e le

fluttuazioni eccessive sui mercati dei capitali e delle valute estere. Per essere forte e

credibile, l’ unione monetaria, deve comprendere solo Paesi ben gestiti sul piano

economico; a tal fine, gli Stati membri si sono impegnati a migliorare i risultati delle loro

economie facendoli convergere verso i livelli più alti conseguiti. E’ quanto significa la

nozione di “convergenza”. Per valutare se il grado di convergenza sia o meno sufficiente, il


Trattato enuncia le norme di corretta gestione da seguire: si tratta dei cosiddetti “criteri di

convergenza”, che danno di fatto espressione ai principi di sana politica economica in

materia di inflazione, tassi di interesse, stabilità dei tassi di cambio e finanza pubblica

(disavanzo e debito pubblico). Affinchè la moneta unica poggi su solide fondamenta,

questi criteri devono essere osservati scrupolosamente. Il Trattato fissa anche procedure

che potrebbero tradursi in sanzioni finanziarie e, vietando le operazioni di “bail-out” o

salvataggio di ultima istanza, consente alle forze di mercato di spingere nella giusta

direzione gli Stati membri che non realizzino questo obiettivo.

Il “miracolo economico”

Fra il 1958 e il 1963, giunse al culmine il processo di crescita economica iniziato nel nostro

Paese dopo il 1950. Furono questi gli anni del cosiddetto “miracolo economico”: anni in cui

l’ Italia, con un tasso di sviluppo inferiore, in Europa, solo a quello tedesco, ridusse

significativamente il divario che la separava dai Paesi più industrializzati. Il reddito medio

degli italiani aumentò più che in tutto il mezzo secolo precedente. Lo sviluppo interessò

soprattutto l’ industria manifatturiera: un incremento particolarmente significativo si ebbe

nei settori siderurgico, meccanico, chimico e petrolchimico, dove più ampio fu il

rinnovamento degli impianti e delle tecnologie.

L’ aspetto immediato più evidente del nuovo peso assunto dall’ economia italiana era

rappresentato dallo sviluppo delle esportazioni di prodotti industriali, soprattutto nei settori

dell’abbigliamento e degli elettrodomestici. La diffusione dei prodotti italiani, la solidità

della Lira (che nel 1960 ricevette l’ Oscar per la moneta più forte), la stabilità dei prezzi,

ma anche, alcuni eventi extraeconomici, come il successo organizzativo delle Olimpiadi di

Roma del ’60: tutto contribuiva a rafforzare l’ immagine di un’ Italia ormai avviata

stabilmente verso nuove prospettive di benessere. Molti erano i fattori che avevano
promosso il “miracolo”: la politica di libero scambio avviata negli anni ’50 e sancita dall’

adesione alla CEE; la modesta entità del prelievo fiscale; e, soprattutto, lo scarto che si

venne a creare fra l’ aumento della produttività e il basso livello dei salari. La

compressione salariale degli anni ’50 era il risultato di una larga disponibilità di

manodopera a basso costo; disponibilità dovuta, a sua volta, al costante flusso migratorio

dalle zone depresse a quelle più progredite. A partire dalla fine degli anni ’50, un aumento

generalizzato delle retribuzioni rese possibile la crescita dei consumi. Il calo della

disoccupazione, conseguenza dello stesso sviluppo economico, accrebbe la capacità

contrattuale dei lavoratori che, con una serie di lotte sindacali, riuscirono ad ottenere

notevoli miglioramenti salariali: il costo del lavoro nell’ industria aumentò di circa il 60%.

Questi aumenti ebbero però l’ effetto di ridurre i margini di profitto e di mettere in moto un

processo inflazionistico; gli investimenti, che erano stati uno dei fattori propulsivi al boom,

si ridussero drasticamente e, nel 1963-’64, il “miracolo italiano” entrò in crisi. La

congiuntura negativa fu superata nel giro di pochi anni e, a partire dal ’66, la crescita

riprese anche se con ritmi più lenti.


Le trasformazioni sociali

In coincidenza col boom industriale, la società italiana subì una serie di profonde

trasformazioni.

Col miracolo economico, l’ Italia si lasciò alle spalle le strutture e i valori della società

contadina ed entrò nella civiltà dei consumi. Vi entrò disordinatamente, quasi di colpo e

senza aver superato i suoi storici squilibri territoriali. La più seria conseguenza sociale

della crescita dell’ industria fu rappresentata dalle migrazioni interne, con un massiccio

esodo dal Sud verso il Nord e dalle campagne verso le città. Nelle zone appeniniche del

Centro-sud si assistette ad un vero e proprio spopolamento. Il Sud rappresentò il

necessario serbatoio di manodopera per le industrie delle grandi città del Nord. Gli effetti

delle migrazioni si ebbero sia nelle campagne di provenienza sia nelle città di arrivo. Nelle

prime esse provocarono lo spopolamento e l’ invecchiamento della popolazione e

accentuarono la lacerazione delle comunità tradizionali. Nelle città gli effetti più gravi si

ebbero nel sovraffollamento e nella conseguente insufficienza dei servizi. L’ espansione


delle città avvenne spesso in forme caotiche, senza piani regolatori e senza un adeguato

intervento dei poteri pubblici nel campo dell’ edilizia popolare: ciò favorì la speculazione e

il disordine urbano, con conseguenze pesanti sulla struttura dei nuovi quartieri.

L’inserimento degli immigrati meridionali nelle grandi città industriali fu tutt’ altro che

indolore e mise in evidenza lo storico divario che non era solo economico, ma investiva

anche i modi di vita e i modelli culturali fra il Nord e il Sud del Paese. La questione

meridionale, infatti, pur avendo la sua espressione più vistosa nello squilibrio

economico,non è riducibile ad esso; è una questione di valori. Se consideriamo che nel

Mezzogiorno, a partire dal dopoguerra, modelli appartenenti alla società industriale hanno

operato e influito su una condizione che era ancora contadina; se pensiamo alla violenza

che il Sud ha subito di una emigrazione collettiva verso il Nord, ma anche verso Paesi

stranieri, ci troviamo di fronte a dati storici ben reali. In queste società, che l’ emigrazione

e il processo economico hanno definitivamente frammentato, esiste, nelle periferie delle

città, una diversa area, quella degli inurbati, presenti, per esempio, nelle decine di borgate

che circondano Roma. In queste colonie i modelli rurali, pastorali e marinari di origine

hanno una loro persistenza che supera la mutazione strutturale. Probante può essere il

caso della Borgata S. Basilio a Roma dove le famiglie, per lo più provenienti dal Sud, che

furono immerse in un caos indecifrabile e incomprensibile, conservano nel loro vissuto

suburbano e periferico tratti propri di quella che noi, con termine generico, chiamiamo la

società contadina, comunque a carattere pre-industriale. Di queste realtà sociali ci parla

Pier Paolo Pasolini in numerosi suoi scritti e, nel caso proprio delle borgate romane, nei

due romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta.

Mentre i contadini entravano, così, faticosamente nella storia contemporanea, gli

intellettuali di sinistra scoprivano la cultura contadina. Più tardi,in particolare sulla rivista il

Menabò diretta da Italo Calvino e da Elio Vittorini, si sarebbe sviluppato il dibattito sulla
“cultura operaia”,sul rapporto tra cultura ed industria e sulla conseguente mercificazione

della cultura.

Il centro-sinistra

I cambiamenti suscitati dal “miracolo italiano” si accompagnarono, all’inizio degli anni’60,

all’allargamento delle basi del sistema politico, attraverso l’ingresso dei socialisti nell’area

di governo: fu il primo mutamento negli equilibri politici dopo il trionfo democristiano nelle

elezioni del ’48. La svolta maturò quando, nella primavera del ’60, il democristiano

Fernando Tambroni formò un governo “monocolore” con l’appoggio determinante dei voti

dell’ MSI, il che suscitò le proteste dei partiti laici e della stessa sinistra DC. La tensione

esplose quando il Governo autorizzò il MSI a tenere il suo congresso a Genova; decisione

che fu interpretata come una sfida alle tradizioni operaie e antifasciste della città,

suscitando una vera e propria rivolta popolare, a cui seguirono altre manifestazioni

antigovernative in molte città. Tambroni fu costretto a dimettersi e con lui cadde ogni

ipotesi di un governo appoggiato dall’ estrema destra. Fu formato un nuovo Governo

monocolore, presieduto da Fanfani, che si reggeva grazie all’ astensione (poi trasformata

in appoggio parlamentare) dei socialisti. Fu proprio in questa fase che la nuova politica di

centro-sinistra conseguì i risultati più avanzati. Il programma di governo prevedeva, infatti,

la realizzazione della scuola media unificata, l’attuazione dell’ ordinamento regionale

previsto dalla Costituzione, l’ imposizione fiscale nominativa sui titoli azionari e la

nazionalizzazione dell’industria elettrica.

Queste ultime due riforme s’ inquadravano nel tentativo di dare avvio a una

programmazione economica che mirava a potenziare gli strumenti dell’ intervento statale

sull’ economia. La nazionalizzazione dell’ industria elettrica fu portata a compimento con la

creazione dell’ ENEL (Ente Nazionale per l’ Energia Elettrica). Breve vita ebbe, invece, il
prelievo fiscale sui titoli azionari, che fu radicalmente modificato dopo una fase di crollo in

Borsa e di fuga di capitali.

L’attuazione delle Regioni, temuta dalla DC perché avrebbe rafforzato le sinistre al livello

del potere locale, fu rinviata. Un Governo “organico” di centro-sinistra (cioè con la

partecipazione di ministri socialisti) si formò, in realtà, solo nel 1963 sotto la presidenza di

Aldo Moro.

Il processo riformatore fu bloccato: si faceva sempre sentire il peso delle forze ostili alla

sinistra, ma gli ostacoli più seri ad una politica innovatrice venivano proprio dall’ interno

della coalizione governativa. La DC, infatti, aveva l’ esigenza di mantenere unito il fronte di

forze, economiche e sociali, che costituiva la sua base di consenso: un fronte in cui le

istanze di rinnovamento erano nettamente minoritarie. La DC riuscì a mantenere la sua

unità, ma il PsI pagò la partecipazione al Governo con un acutizzarsi dei dissensi interni e

con una nuova scissione: la minoranza di sinistra che si opponeva alla scelta governativa

diede vita al PSIUP (Partito Socialista di Unità Proletaria).

Nell’ agosto1964, Togliatti morì lasciando una pesante eredità ma indicando, nel

cosiddetto “memoriale di Yalta” (una sorta di testamento politico redatto alla vigilia della

morte), una linea che affermava il principio dell’ indipendenza da Mosca e l’ originalità

della “via italiana al socialismo”.

Giuseppe Saragat fu eletto Presidente della Repubblica succedendo a Segni. Nonostante

le difficoltà incontrate, la formula del centro-sinistra sarebbe durata, a fasi alterne, per oltre

un decennio con i Governi presieduti fino al ’68 da Aldo Moro e poi da Mariano Rumor ed

Emilio Colombo.

Il ’68 e l’ “autunno caldo”


La fine degli anni ’60 fu caratterizzata da una radicalizzazione dello scontro sociale che

ebbe come protagonisti prima gli studenti, poi la classe operaia. Il movimento studentesco

assunse una posizione sempre più ostile nei confronti del sistema capitalistico e della

“cultura borghese” in generale. La critica alla società borghese divenne rifiuto della prassi

politica tradizionale (compresa quella dei partiti della sinistra “storica”) e, a partire dal ’68,

individuò il suo interlocutore privilegiato nella classe operaia. L’operaismo fu anche il tratto

distintivo di alcuni fra i nuovi gruppi politici che, per sottolineare il distacco dai partiti

tradizionali rappresentati in Parlamento, furono chiamati “extraparlamentari”: Potere

Operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia. La riscoperta della centralità operaia, da

parte del movimento degli studenti, coincise con un’ intensa stagione di lotte da parte dei

lavoratori dell’industria in vista di una serie di rinnovi contrattuali, e culminata, alla fine del

’69, nel cosiddetto “autunno caldo”. Avviatesi in modo spontaneo in alcune grandi

fabbriche del Nord, le lotte ebbero come principale protagonista la figura dell’ operaio

“massa”, ossia del lavoratore scarsamente qualificato, spesso immigrato, sul quale più

gravavano i disagi dell’ inserimento nel contesto urbano e l’ insufficienza dei servizi sociali.

I conflitti, aziendali e studenteschi, si caratterizzarono per l’ adozione dell’ assemblea

come momento decisionale. Le tre organizzazioni sindacali (per quanto contestate dalle

frange più radicali del movimento) riuscirono a prendere in mano la direzione delle lotte e

a pilotarle verso la conclusione di contratti nazionali assai vantaggiosi per i lavoratori dell’

industria; cominciò allora una fase in cui i sindacati assunsero peso crescente nella vita

del Paese; peso che fu favorito, e in qualche modo sancito, nella primavera del ’70, con l’

approvazione da parte del Parlamento dello Statuto dei lavoratori: una serie di norme che

garantivano le libertà sindacali e i diritti dei lavoratori all’ interno delle aziende. Fra il ’68 e il

’70 furono finalmente approvati i provvedimenti relativi all’ istituzione delle Regioni e si

tennero le prime elezioni regionali. Ma la debolezza dell’ esecutivo di fronte alle tensioni

della società apparve in tutta la sua evidenza quando il 12 dicembre 1969, una bomba
esplosa a Milano in Piazza Fontana, nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura,

provocò 17 morti ed oltre cento feriti. L’incapacità di risolvere il caso fu messa sotto

accusa dall’ opinione pubblica e dalla stampa di sinistra, che individuò nell’estrema destra

fascista la matrice politica dell’ attentato e denunciò le pesanti responsabilità dei servizi di

sicurezza nel deviare le indagini verso un improbabile pista anarchica.

Si parlò allora di “strategia della tensione”, messa in atto dalle forze di destra per incrinare

le basi dello Stato democratico.

La crisi petrolifera del ‘73

Nei primi anni ’70, due avvenimenti sconvolsero il corso dell’ economia mondiale.

Nell’agosto 1971, gli Stati Uniti decisero di sospendere la convertibilità del dollaro in oro

(convertibilità che costituiva il pilastro del sistema monetario internazionale): era il segno di

un grave disagio nell’ economia americana, stremata soprattutto dall’ impegno militare in

Vietnam, ma era anche l’ inizio di una lunga fase di instabilità e di disordine monetario,

caratterizzata da continue oscillazioni nei prezzi delle materie prime e nei cambi fra le

monete, non più ancorate a un sistema di convertibilità fisse. Ancora più sconvolgente fu

la decisione dell’OPEC (Organization of Petroleum

Exporting Countries), nel novembre 1973, in seguito alla guerra arabo-israeliana, di

quadruplicare d’un colpo il prezzo del greggio riducendone, al tempo stesso, la

produzione: prezzo che avrebbe continuato a salire negli anni seguenti subendo, nel ’79,

una nuova impennata che lo portò a livelli dieci volte superiori. Lo “shock petrolifero” colpì

tutti i Paesi industrializzati, in particolare quelli che dipendevano quasi interamente dall’

estero per il loro fabbisogno energetico (come l’ Italia e il Giappone) e tutta l’economia

mondiale entrò in crisi.

La crisi determinò mutamenti anche negli atteggiamenti mentali, rivelando un’ insospettata

fragilità delle economie capitalistiche avanzate. Per la prima volta, l’Occidente vedeva
minacciate le fonti d’energia necessarie al funzionamento della sua macchina economica:

ci si chiedeva, in particolare, se l’ idea di uno sviluppo continuo e illimitato non fosse, da

un lato irreale, perché basata sulla presunzione che le risorse della terra fossero

inesauribili e disponibili a piacimento, dall’ altro dannosa, perché portava con sé lo stesso

spreco energetico e la modifica violenta dell’ ambiente. Già in un rapporto del 1972 si

sosteneva che lo sviluppo occidentale doveva essere volontariamente frenato per non

distruggere le risorse mondiali. Sembrò allora necessario a molti dare impulso alla

costruzione di centrali nucleari (già nel 1955 erano entrate in funzione tre centrali, a Trino

vercellese, sul Garigliano e a Latina). In attesa di nuove forme energetiche, l’Italia ricorse

alla restrizione forzosa dei consumi, con una serie di misure decise dal Governo: l’

illuminazione pubblica fu ridotta del 40%, gli esercizi commerciali avrebbero dovuto

chiudere alle 19.00 spegnendo le insegne pubblicitarie, alle 23.00 sarebbero dovuti

terminare gli spettacoli teatrali, cinematografici e anche le trasmissioni televisive, la

domenica e gli altri giorni festivi le automobili non avrebbero potuto circolare. Queste

misure da “economia di guerra” colpirono profondamente l’ immaginario collettivo; esse

suscitarono gli entusiasmi di ecologisti e intellettuali per la riappropriazione delle città da

parte dei pedoni, ma misero in crisi l’ industria automobilistica (la FIAT ridusse gli orari di

lavoro) ed anche alcuni settori del turismo.

Tuttavia, le misure restrittive ebbero breve durata, e rimase solo una vaga consapevolezza

che i modi di vita a cui ci si era abituati erano sottoposti ad una continua minaccia. Il

timore di un abbassamento del tenore di vita rese meno sopportabile la corruzione e

scoppiò un grande scandalo quando si seppe che, tra il 1966 e il 1973, c’ era stato uno

scambio tra i partiti di Governo e i petrolieri: i primi avevano concesso facilitazioni e

aumenti dei prezzi, i secondi avevano finanziato l’ attività dei partiti. Ma nonostante alcune

ammissioni da parte dei petrolieri, non fu provata sul piano giudiziario la stretta

connessione tra le due cose; i dirigenti dei partiti al Governo respinsero ogni accusa
tendente a trasformare in tangenti quelle che per loro erano solo legittime elargizioni. La

rapida adozione di una legge sul finanziamento pubblico dei partiti rappresentati in

Parlamento non servì a sanare la frattura tra società politica e società civile.

Il petrolio, energia ed economia (geografia economica)

Il petrolio naturale o greggio è un liquido oleoso con un peso specifico inferiore a quello

dell’ acqua, cioè galleggia. Chimicamente è una miscela di idrocarburi. Gli idrocarburi sono

composti chimici formati da idrogeno e carbonio (di qui il nome). Tutti i numerosi tipi di

idrocarburi hanno in comune la proprietà di essere combustibili, ovvero, di bruciare

combinandosi con l’ ossigeno e sviluppare calore. Il petrolio è una riserva in quanto non è

rinnovabile in pochi anni.

La sua formazione è dovuta, infatti, alla decomposizione di organismi animali e vegetali

avvenuta nel corso dei secoli: i mari della terra sono stati popolati da innumerevoli esseri

viventi, soprattutto da organismi molto piccoli che oggi conosciamo con il nome di

“plancton”; alla loro morte, questi organismi, precipitavano nei fondali mescolandosi ai

fanghi e ai detriti; qui, in assenza d’aria e ad opera di speciali batteri, si sono scomposti in

idrocarburi.

Gli idrocarburi, essendo più leggeri dell’acqua che impregna le rocce, tendevano a risalire

e a concentrarsi sulla parte più alta delle stesse; in alcuni casi, i giacimenti di idrocarburi,

sono perfino riaffiorati in superficie ed hanno formato fosse di bitume o di pece e laghi di

petrolio. Ma la maggior parte è rimasta intrappolata nel sottosuolo, spesso a grandi

profondità: sono questi i cosiddetti “giacimenti trappola”. In conclusione, gli idrocarburi si

sono nella parte più alta di rocce porose coperte da rocce impermeabili: queste sono le

“trappole petrolifere”. E’ necessario sottoporre il petrolio greggio a delle lavorazioni che


consentano di separare i diversi e numerosi tipi di idrocarburi che lo compongono; ciò

avviene in grandi complessi chiamati raffinerie. Il primo trattamento cui è sottoposto il

greggio è la distillazione frazionata (topping); i prodotti che si ottengono dalla distillazione

frazionata sono: i gas di raffineria; le benzine; i keroseni; i gasoli; gli oli combustibili; il

residuo. Il petrolio è attualmente la più importante forma energetica mondiale. Il

ritrovamento dei giacimenti petroliferi ha cambiato la storia e l’ economia di intere regioni,

un tempo fra le più povere della terra, creando i presupposti per la loro ricchezza; per altri

Paesi, invece, la mancanza di petrolio ne condiziona pesantemente lo sviluppo economico

e industriale ed influisce persino sulle scelte politiche. La distribuzione geografica delle

riserve provate di petrolio è caratterizzata da un elevata concentrazione nell’ area

mediorientale e nordafricana, che insieme rappresentano circa i due terzi delle riserve

mondiali. I problemi dell’ energia, che condizionano in maniera determinante lo sviluppo

industriale, economico e sociale di tutti i Paesi, hanno creato una vera e propria “politica

energetica”. Oggi, per quanto concerne la produzione e il consumo di idrocarburi,

possiamo distinguere i vari Paesi in tre gruppi:

 produttori ma scarsi consumatori (per esempio il Medio Oriente);

 consumatori ma scarsi produttori (per esempio l’ Italia e il Giappone);

 produttori e consumatori (per esempio gli Stati Uniti);

Il prezzo di vendita del petrolio raffinato dipende dai costi del petrolio greggio all’

estrazione (che nel periodo 1950-1970 non hanno subito grosse oscillazioni), dai costi del

trasporto nei porti americani ed europei, dagli utili delle società petrolifere. La proprietà e

la direzione di questo settore sono, nella quasi totalità, concentrate nelle mani di un

ristrettissimo gruppo di compagnie, denominate polemicamente “le sette sorelle”. Di

queste compagnie multinazionali, cinque hanno sede negli Stati Uniti (Exxon; Texaco;

Gulf; Mobil; Standard Oil;), una in Inghilterra (British Petroleum), una in Olanda (il gruppo

Royal Dutch Shell, anglo-olandese); tutte figurano nella classifica dei primi gruppi
industriali del mondo e ricavano fortissimi utili dal mercato dei prodotti petroliferi. Tuttavia,

è andato sempre crescendo il potere contrattuale dei Paesi produttori, riunitisi nell’ OPEC

(Organization of Petroleum Expoting Countries) nel 1960, che hanno cercato di accrescere

le royalties, cioè le quote che le società petrolifere devono versare ai produttori. Le

compagnie petrolifere operano usualmente attraverso tre consorelle:

 Una mineraria, che si occupa della ricerca ed estrazione del greggio;

 Una addetta allo spostamento via mare del greggio dai pozzi di estrazione alle

raffinerie;

 Una che gestisce gli impianti di raffinazione e distribuzione;

Si tratta di società autonome, con ragioni sociali, bilanci e direzioni separate, strettamente

legate però da vincoli di dipendenza con la “società madre” capofila del gruppo. Tale

vincolo può realizzarsi in vari modi: acquisizione del pacchetto di controllo, accordi

determinanti poteri decisionali della società madre sulle società figlie, creazione di organi

amministrativi comuni per tutte le imprese del gruppo,ecc.

Il controllo mondiale del mercato del petrolio e la supremazia nella ricerca e sfruttamento

di altri settori energetici integrativi, pone seri problemi nei rapporti fra le multinazionali e gli

Stati, i quali non possono accettare che funzioni così essenziali per la sopravvivenza della

nostra civiltà siano detenute da un pugno di imprese.

Energy resources

Britain has the largest energy resources of any country in the European Union.

For over 300 years coal was heavily mined in Yorkshire, South Wales and Scotland.

It was the development of Britain’s coalfields that led to the Industrial Revolution and the

growth of its traditional industries, such as textilies, steel, shipbuilding and engineering.

Today, however, many mines are being closed.


Britain has large resources of low quality iron ore, but the country relies mainly on three

other types of energy: oil, natural gas and nuclear energy. Oil and natural gas were

discovered in 1969 and Britain is a leading producer. Privatization and liberalization have

increased the number of firms operating in the energy market.In the 1994, oil and gas

production accounted for nearly 2 per cent of Britain’s GDP (Gross Domestic Product).

The North Sea produce enough oil for domestic needs and export.

Britain is also a leader in nuclear technology, and the nuclear power industry produces 18

per cent of Britain’s electrical supply.

Les hydrocarbures: l’ essentiel est importé

Le pétrole. Le pétrole fournit des carburants pour les transports, des combustibles à

usages domestiques et industriels et toute une série de matières premières nécessaires à

l’ industrie chimique. Le pétrole dont la France a besoin provient pour une très faible partie

de la production nationale et pour la quasi-totalité des importations.

La production nationale est limitée au Bassin Parisien et aux Landes (Parentis) ; elle est

en baisse constante. 95% du pétrole provient de l’ étranger, principalement du Proche-

Orient, de l’ Afrique et des gisements de la Mer du Nord. Par conséquent la facture

pétrolière de la France pèse lourdement sur le bilan national.

Principali critiche alle multinazionali

Come abbiamo visto, il monopolio del settore petrolifero è interamente concentrato nelle

mani di aziende gigantesche, generalmente chiamate multinazionali o corporazioni

transnazionali, i cui interessi spaziano anche in molti altri settori. L’ ubicazione dell’ alta
direzione (casa madre) e la distribuzione della proprietà, definiscono le caratteristiche di

questo tipo d’ imprese: un impresa si definisce multinazionale quando proprietà ed alta

dirigenza appartengono ad un solo paese ma più del 25% del capitale, delle attività

produttive e commerciali e della forza lavoro risiedono all’ estero. Altri elementi che

definiscono l’ impresa multinazionale sono la dimensione economica (oltre 100 milioni di

dollari di fatturato), il tipo di attività estera (non solo la commercializzazione dei beni ma

anche la loro produzione), il numero dei paesi nei quali l’ impresa è attiva (almeno due

oltre quello d’ origine). Queste imprese si sono sviluppate a mano a mano che si cercava

di acquisire il controllo delle fonti cruciali di materie prime, di limitare i rischi connessi con l’

operare in un solo paese lavorando in più nazioni, di effettuare degli investimenti all’ estero

allo scopo di proteggersi dalle fluttuazioni dell’ economia o da eventuali cambiamenti di

politica dei singoli governi ospitanti. Alcune di queste imprese, si sono sviluppate

attraverso una serie di operazioni finanziarie che sono state in grado di dar vita a

conglomerati giganteschi prendendo le mosse da quasi niente; questa tendenza è stata

tipica degli anni sessanta, quando il mondo della finanza approfittò del boom borsistico

che ha accompagnato la guerra del Vietnam, dando luogo a tutta una serie di acquisizioni

e fusioni a catena di aziende.

Lo sviluppo delle multinazionali ha alterato in maniera significativa la distribuzione del

potere a livello mondiale; non poche di queste aziende hanno dimensioni maggiori a

diversi Stati nazionali e, al contrario di questi, peraltro, non devono rispondere a nessuno

se non a sé stesse. Gli sforzi delle multinazionali volti a controllare il proprio ambiente,

sconfinano anche nella politica: esse si trovano spesso in grado di condizionare in

maniera rilevante i governi dei Paesi che le ospitano, specialmente nel caso che questi

dipendano in maniera significativa dalla presenza della multinazionale o da alcune sue

attività. Un’ impresa multinazionale, quanto più è grande e presente in diversi paesi, tanto

più è in grado di sfruttare i possibili vantaggi che ogni singola situazione nazionale
presenta; si pensi, alla possibilità di sfruttare una situazione salariale molto differenziata. Il

comportamento delle multinazionali nei confronti delle economie ospitanti, al pari di quello

degli imperi coloniali, è caratterizzato da un sostanziale sfruttamento. L’ analisi del ruolo

delle multinazionali nel terzo mondo dimostra che queste imprese si sono tradizionalmente

occupate dell’ estrazione delle materie prime, di risorse alimentari e, in seguito, di attività

manifatturiere. In ogni caso, il controllo delle attività operative, delle tecnologie e degli utili

è nelle mani della multinazionale: in questo modo il paese del terzo mondo che ospita le

attività operative dell’ impresa si trova a dipendere dal paese d’ origine della

multinazionale stessa in maniera ancora più accentuata. Si consideri il modo in cui queste

imprese hanno affrontato le problematiche relative all’ estrazione mineraria e allo

sfruttamento agricolo nei Paesi del terzo mondo: in ambedue i casi hanno usato le risorse

dei Paesi che ospitavano le loro attività operative per aumentare i profitti ed il livello di vita

dei Paesi occidentali. Sino a che i governi ospitanti non hanno esercitato opportune

pressioni, i prodotti erano esportati allo stato grezzo, determinando così un notevole

profitto per l’ impresa,ma quasi nullo per il paese ospitante. Nel caso dell’ agricoltura, poi,

il trovarsi a coltivare per esportare nei paesi dell’ occidente, ha messo le popolazioni del

terzo mondo in una situazione di completa dipendenza nei confronti dei datori di lavoro e

dei mercati stranieri. Il terzo mondo, per via dell’ influenza di un numero limitato di

multinazionali che controllano le varie produzioni agricole, è diventato un esportatore netto

di beni alimentari nonostante sia caratterizzato da una diffusa sottoalimentazione. Un’ altra

critica rivolta al comportamento delle multinazionali riguarda il fatto che tali imprese

riescono spesso ad occultare parte dei loro profitti in modo da evitare di pagare imposte

adeguate. Ogni multinazionale rappresenta spesso il proprio più importante cliente, poiché

le singole filiali si acquistano e si vendono a vicenda prodotti e servizi: acquistando del

materiale da una consociata a prezzi molto elevati e rivendendo i prodotti ad un’ altra

consociata a prezzi molto bassi, è possibile far figurare delle perdite o degli alti profitti;
oppure, è possibile trasferire i prodotti da una consociata all’ altra, per approfittare degli

incentivi offerti dai governi ospitanti. Queste manovre rappresentano spesso una

componente essenziale della politica di queste aziende. Non tutta la colpa va però

addossata alle multinazionali: infatti, queste sono addirittura invitate dai Paesi del terzo

mondo, e raggiungono degli accordi, ufficiosi o ufficiali con le autorità locali. Infatti, se la

storia dello sfruttamento perpetrato dalle multinazionali è veramente imponente, pure è

rimarchevole il sostegno offertogli dalle élites e dai governi locali.

Struttura e gestione delle aziende di produzione industriale

L’ attività indirizzata ad ottenere beni o servizi idonei a soddisfare i bisogni umani viene

denominata produzione. La produzione può essere distinta in produzione diretta e

produzione indiretta. Mentre la produzione diretta modifica le caratteristiche fisiche dei

beni, la produzione indiretta ne prevede solo il trasferimento nello spazio o nel tempo. L’

azienda industriale è un azienda di produzione diretta che attua un processo fisico di

trasformazione di materie o di semilavorati, allo scopo di ottenere prodotti finiti, da

destinare al consumo o ad ulteriori fasi di lavorazione.

Il concetto di processo fisico di trasformazione può comprendere le seguenti ipotesi:

 Lavorazione delle materie prime o dei semilavorati; in questo caso, le materie o

i semilavorati subiscono un processo di lavorazione che ne modifica profondamente

le caratteristiche originarie;

 Assemblaggio di parti componenti; le parti componenti, ossia beni già

precedentemente lavorati, vengono unite tra loro dando origine ad un bene di

maggior valore;

 Lavorazione di materie o di semilavorati in contemporanea con l’

assemblaggio di parti componenti; in alcuni casi, l’ azienda industriale attua


tanto la lavorazione di una materia prima quanto l’ assemblaggio di parti

componenti;

L’ estrema varietà di aziende industriali sul mercato ne rende necessaria una

classificazione:

 In base al settore merceologico

-imprese dei prodotti energetici (energia, gas, acqua) ed imprese manifatturiere

 Secondo i ritmi della produzione

-imprese a produzione continua ed imprese a produzione stagionale;

 Secondo le modalità di produzione

-Produzione a flusso continuo, a lotti, produzione a prodotti singoli;

 Secondo la destinazione della produzione

-Produzione per magazzino, produzione su ordinazione o con destinazione mista;

I prodotti offerti dall’ industria e i modi di produrli, hanno subito nel corso del tempo una

continua evoluzione. I principali elementi caratteristici della moderna produzione

industriale sono:

 L’orientamento alla soddisfazione del cliente, in quanto, in un’ economia

caratterizzata dalla concorrenza fra le varie imprese, la soddisfazione del cliente

rappresenta l’ elemento fondamentale della strategia produttiva e commerciale delle

imprese industriali del nostro tempo.

 L’ apertura all’ innovazione tecnologica, la quale contribuisce a realizzare l’

obiettivo della soddisfazione del cliente e il continuo miglioramento della

produzione;
 Il perseguimento della qualità totale, riferita non solo al prodotto, ma anche ai

“servizi accessori” ad esso connessi: la tempestività nell’ evasione degli ordini, la

qualità dell’ assistenza successiva alla vendita, ecc.

 L’ introduzione di nuovi sistemi di gestione della produzione, tra i quali ha un

rilievo particolare quello denominato just in time.

Il sistema just in time, consiste nel fabbricare i prodotti nella quantità e nei tempi richiesti

dal mercato, riducendo al minimo il tempo di attesa dei materiali e dei componenti

necessari, facendoli giungere “al momento giusto” sulla linea di produzione. Questa

tecnica propone principalmente i seguenti obiettivi:

 riduce a zero le scorte di materiali e prodotti finiti;

 annulla il lead time, ossia i tempi di consegna;

 azzera, conseguentemente, i prezzi di stoccaggio.

Uno dei problemi fondamentali che si pongono al momento dell’ avvio di una nuova

iniziativa industriale è quello della sua più conveniente localizzazione, ovvero la scelta del

luogo o dei luoghi dove verrà svolta l’ attività produttiva. In generale, la scelta ubicazionale

è effettuata in base ad una pluralità di fattori che si ritengono suscettibili di determinare,

nel loro insieme, la soluzione più vantaggiosa sotto il profilo economico. Fra tali fattori

spiccano i costi di trasferimento (trasporto, assicurazione,ecc.), in relazione ai quali la

localizzazione può avvenire:

 in vicinanza dei mercati di approvvigionamento delle materie prime;

 in vicinanza dei mercati di vendita;

 in località variamente intermedie.

I fattori della localizzazione, saranno dati, anche, dalla disponibilità di personale dotato

delle capacità professionali richieste dalla produzione da effettuare, dalla disponibilità delle
fonti di energia, dalla presenza di adeguate infrastrutture, nonché, dagli incentivi pubblici

concessi dallo Stato o dagli Enti locali (agevolazioni fiscali, incentivi finanziari,ecc.).

La struttura patrimoniale delle imprese industriali, è caratterizzata, dalla prevalenza delle

immobilizzazioni, beni che sono presumibilmente realizzabili in denaro non a breve

termine, rispetto alla consistenza dell’ attivo circolante. Nell’ aspetto quantitativo, il

patrimonio è definito in termini monetari e, come tale, risulta costituito da attività

(componenti positivi che corrispondono al valore attribuito sia alle immobilizzazioni sia all’

attivo circolante) e passività (consolidate per debiti a lungo termine, o correnti per debiti a

breve termine).

La struttura organizzativa dell’ azienda è il risultato di una serie di scelte e decisioni che

riflettono il criterio con cui è stata data attuazione al principio della divisione del lavoro;

essa può essere impostata sotto un duplice profilo: un profilo verticale, che riguarda i livelli

fra i quali viene suddiviso il potere gerarchico con le relative responsabilità, ed un profilo

orizzontale, che considera la suddivisione delle attività e delle risorse tra gli organi dei vari

livelli secondo determinati criteri di specializzazione. Tali criteri di specializzazione, che

caratterizzano il profilo orizzontale della struttura organizzativa, sono i seguenti:

 per funzione;

 per prodotti o linee di prodotti;

 per area geografica;

 per progetto.

I principali modelli organizzativi, che si caratterizzano secondo il criterio con cui viene

attuata la divisione “orizzontale” del lavoro, sono:

-la struttura funzionale,

-la struttura divisionale,dove al primo livello si trovano i dirigenti delle divisioni, le quali

possono essere rappresentate da linee di prodotti, aree geografiche, ecc. Adattata ad

imprese di grandi dimensioni e con produzioni diversificate, è solitamente una struttura


decentrata, in quanto le divisioni sono dotate di autonomia operativa e sono responsabili

dei propri costi e ricavi.

-la struttura matrice, che è propria delle imprese che operano “per progetti”, realizzando

prodotti singoli complessi (grandi impianti, autostrade,navi,ecc.).

La gestione è il sistema unitario di operazioni tra loro coordinate, poste in essere per il

raggiungimento delle finalità perseguite dal soggetto aziendale: obiettivo dell’ impresa

privata è la redditività, cioè generare ricchezza nel tempo, mantenendo un’ equilibrata

situazione finanziaria.

L’ impresa industriale, raggiunge tale obiettivo, mediante processi particolari, che sono:

-processi di finanziamento, con il quale l’ impresa ottiene i mezzi necessari allo

svolgimento della propria attività;

-processi di investimento, con i quali tali mezzi vengono utilizzati per l’ acquisizione di

beni strumentali, materie prime, lavoro, fonti di energia, servizi;

-processi di trasformazione economica tecnica, per cui i fattori produttivi sono tra loro

combinati per l’ ottenimento di prodotti finiti, sottoprodotti,ecc.;

-processi di disinvestimento, cioè di recupero finanziario dei mezzi impiegati, attraverso

la vendita dei risultati della produzione.

I processi di finanziamento, investimento e disinvestimento sono fatti di gestione esterna,

in quanto pongono l’ azienda in contatto con terzi (attraverso atti di scambio); mentre, i

processi di trasformazione economica tecnica sono fatti di gestione interna.

Oltre alla domanda di mercato, che l’ azienda intende soddisfare, influiscono sulla

dimensione della capacità produttiva fattori quali la stagionalità delle vendite, se le vendite

sono concentrate in determinati periodi dell’ anno, e la politica make or buy, poiché spesso

l’ impresa è di fronte alla scelta fra produrre determinati beni (make) o acquistarli all’

esterno (buy).
Problemi di scelta

La ricerca operativa. Durante la seconda guerra mondiale gli Stati Maggiori militari inglesi

ed americani si trovarono di fronte a complessi problemi logistici relativi a perlustrazioni,

bombardamenti, rifornimenti, manutenzioni, ecc., che affrontarono con la collaborazione di

matematici ed altri esperti di discipline non militari. Nacque, così, un nuovo metodo di

studio, basato sulla stretta cooperazione fra gruppi di lavoro composti da elementi di

diversa specializzazione, che si dimostrò particolarmente idoneo per la risoluzione di

numerosi problemi militari. Tale metodo di studio si è trasferito, dopo la guerra, dal campo

militare a quello del commercio, dell’ industria e dell’ amministrazione pubblica. I problemi,

che si presentano sia nel campo militare sia in quello commerciale ed industriale,

comportano per l’ operatore una scelta fra diverse alternative possibili, allo scopo di

conseguire un determinato fine. Per questo motivo si parla di Problemi di scelta oppure di

problemi di decisione. La metodologia che si è sviluppata per la risoluzione dei problemi di

scelta è detta Ricerca Operativa (R.O.). La ricerca operativa è, dunque, una metodologia

che si propone di individuare, con procedimenti basati su concetti matematici e statistici, la

condotta migliore per conseguire, sotto certe condizioni, un obiettivo assegnato a priori. Le

scelte possono essere a livello individuale, riguardanti la convenienza di operazioni che si

prendono nell’ ambito di una famiglia; a livello aziendale, che riguardano, quindi, l’ attività

di un’ impresa (scorte, processi di lavorazione, fissazione dei prezzi,ecc.); a livello

collettivo, che riguardano le condizioni di vita di una collettività (investimenti pubblici, piani

energetici,ecc.). Naturalmente, ogni problema di scelta presuppone la possibilità di

scegliere fra due o più alternative: l’ insieme di tutte le alternative possibili, connesse ad un

dato problema, costituisce il campo di scelta.


Per impostare un problema di scelta è necessario individuare le scelte possibili (cioè

determinare il campo di scelta) e stabilire la funzione obiettivo, cioè quella grandezza che

esprime il fine in base al quale s’ intende effettuare la scelta. La funzione obiettivo, che

traduce in termini matematici l’ obiettivo fissato a priori, può essere un costo, un tempo di

lavorazione, un consumo di energia, un guadagno, ecc,.I problemi di scelta si distinguono

in problemi che comportano scelte in condizioni di certezza ed immediatezza, cioè

problemi nei quali gli effetti della scelta sono noti ed immediati, ed in problemi di scelta in

condizioni di certezza con effetti differiti, cioè problemi nei quali le conseguenze della

scelta sono certe ma differite nel tempo.

Si ha la condizione di certezza quando i dati e le conseguenze sono noti a priori, e

condizione di incertezza quando alcune grandezze sono variabili ed aleatorie (cioè che

dipendono dal caso come per il calcolo delle probabilità). Un problema è a carattere

continuo se il campo di scelta, cioè l’ insieme delle possibili soluzioni, è costituito da

infinite alternative; se invece vi è un numero finito di alternative, il problema si dice a

carattere discreto. I problemi di scelta nel discreto possono essere suddivisi in problemi

nei quali ogni via dà un unico risultato numerico e in problemi in cui ad ogni via

corrisponde un risultato che è funzione di una variabile.

Studio di un caso reale in condizioni di certezza:

scelta di una campagna pubblicitaria

Nel caso della scelta di una campagna pubblicitaria, ci troviamo ad affrontare dei problemi

nei quali si deve scegliere tra due o più alternative ma ogni alternativa dà un unico risultato

numerico. Dal confronto dei risultati delle varie vie, si deduce la soluzione ottima.

Un’ industria, per il lancio di un nuovo prodotto, intende fare una campagna pubblicitaria,

mediante la televisione, della durata di 10 settimane.


Per organizzare la campagna sostiene un costo di £.40.000.000.

Il costo di ogni trasmissione è di £.2.500.000, che si riduce a £.2.000.000 se le

trasmissioni effettuate sono più di tre alla settimana. Si ritiene che, aumentando il numero

di trasmissioni settimanali, aumenti il rendimento della campagna pubblicitaria; secondo i

dati forniti dalla tabella:

N. trasmissioni 1 2 3 4 5 6 7

settimanali
Rendimento 45 80 120 150 180 190 200

(milioni di lire)

Si vuole determinare quante trasmissioni conviene effettuare.

Le alternative possibili sono 7, in quanto è possibile scegliere di effettuare una

trasmissione settimanale, due trasmissioni settimanali, tre trasmissioni settimanali, e così

via.

Determiniamo, ora, relativamente a ciascuna via, il guadagno, dato dalla differenza tra

rendimento e costo.

1° via (una trasmissione settimanale)

 Rendimento £.45.000.000

 Costo (costo fisso + costo di una trasmissione*numero di trasmissioni)

40.000.000+ (2.500.000*10)= £.65.000.000

 Guadagno (o perdita) - £.20.000.000


Procedendo in modo analogo per ogni via, si ottengono i dati riportati nella tabella

seguente:

N.trasmissioni Rendimento Costo Guadagno

settimanali (milioni di lire) (milioni di lire) (milioni di lire)


1 45 65 - 20
2 80 90 - 10
3 120 115 +5
4 150 120 + 30
5 180 140 + 40
6 190 160 + 30
7 200 180 + 20

Confrontando i sette risultati ottenuti, si può affermare che il massimo guadagno si ha con
cinque trasmissioni settimanali.

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