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Oltre alle registrazioni dei pontefici, la storiografia annalistica è stata influenzata anche da altri
documenti, quali: trattati e leggi sacre scritte su materiali particolari, come le clausole del patto e della
parità di diritti tra Romani e Gabini, su uno scudo ligneo avvolto in pelle di bue [T9] o libri di lino con
nomi di alcuni consoli conservati presso il tempio di Giunone Moneta e spesso utilizzati dall’annalista
Licinio Macro [T13]; o ancora incise su bronzo, come il trattato con i Latini, esposte in luoghi pubblici o
comunque accessibili ad esso [T10, T11]; a queste si aggiungono scritture non divulgate, documenti
privati di magistrati o censori tramandate per discendenza [T12]. Le registrazioni dei magistrati, spesso
ritoccate [T4] erano conservate, per motivi pubblici, presso i Tablinum, luogo vicino all’atrio [T14]. Tali
ritocchi avvenivano soprattutto mediante laudi funebri, dove veniva lodato il defunto e le sue imprese,
venivano organizzati cortei in suo onore dove alcune persone vestivano di porpora, se il defunto fosse
stato console o pretore o censore, e oro se fosse stato investito di qualche onorificenza. Su queste lodi
dovevano formarsi anche i comportamenti delle nuove generazioni [T15].
T9, T12 Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae
T10 Cicerone, Pro Balbo
T11, T15 Polibio, Historiae
T13 Livio, Ad urbe condita
T14 Festo, De verbo rum significatu
Le Historiae di Polibio
Nell’ “Historiae”, Polibio, uomo politico greco, pone il problema dell’imperialismo romano
paragonandolo a precedenti imperi, come quello dei Macedoni, che benché conquistarono vasti territori,
non avevano mire di conquista come quelle dei Romani, che conquistarono ed assoggettarono quasi tutta
la terra abitata [T34, T35]. Secondo Polibio, la storia è la migliore preparazione all’attività politica [T36],
soprattutto quando, oltre ad essere elencati gli avvenimenti accaduti (come fa Timeo), ne vengono citate
anche le cause, in modo tale da poterle confrontare con i propri comportamenti [T37]. La storia ben
scritta è pertanto di uomini d’azione, d’affari [T38] e soprattutto bisogna essere imparziali e, se
necessario, lodare i nemici o rimproverare gli amici [T39]. Polibio celebra l’impero Romano, perché la
dinastia dei Romani non ha precedenti né paragoni e rende possibile realizzare una storia universale, non
c’è costituzione migliore di quella romana, ove ogni cittadino collabora alla realizzazione dei
provvedimenti dello Stato, soprattutto in caso di pericoli, e coloro che occupano un posto di rilievo
devono essere legati l’uno all’altro e collaborare alla pari; nonché elogia la grande e rapida espansione
dell’Impero [T40]. Ma, così come tutte le cose, anche Roma è destinata, prima o poi, alla fine, dettata
proprio dalle sue eccessive mire espansionistiche e dalle ribellioni del popolo [T41].
T34, T35, T36, T37, T38, T39, T40, T41 Polibio, Historiae
Annalistica ed antiquaria
Alcune notizie sparse, che derivano dalla letteratura antiquaria e che si trovano in opere storiche e
letterarie, vengono scartate, nelle versioni ufficiali e nelle tradizioni annalistiche, per svariati motivi; un
esempio è la conquista del Campidoglio da parte dei Galli di Brenno o di Roma da parte di Porsenna,
perché non adeguate alla futura gloria della città [T62]. Oppure perché tali frammenti sottolineano aspetti
giuridici, economici e sociali che l’annalistica, che si occupa prevalentemente di fatti politici, istituzionali
e militari, trascura; e addirittura contrastano o non hanno corrispondenza con la ricostruzione dei fatti
nelle tradizioni annalistiche; un esempio è la versione di Varrone sulla struttura proprietaria di età
arcaica, di cui abbiamo un frammento ove si sofferma soprattutto sul sistema della misurazione dei terreni
e le sue possibili varianti con corrispettiva nomenclatura [T63]. Il fatto che si sia cominciato a scrivere di
storia a fine III sec. a.C., quando Roma era divenuta un’importante potenza nel Mediterraneo, ha alterato
la comprensione di alcune pagine della storia precedente, lette spesso dagli storici antichi suggestionati da
vicende e motivi ideologici e politici più recenti. Quell’annalistica è infatti una ricostruzione coerente
della storia di Roma, in quanto viene elaborata in prospettiva di continuità pensando all’evoluzione
successiva; questo accade anche in diritto, Gaio e Pomponio ad esempio fanno coincidere l’inizio delle
loro esposizioni con le origini della città [T64, T65], o ancora Giustiniano che studiò le leggi in
successione a partire dalle più antiche, per poterle poi depurare da superfluità e contraddizioni [T66].
T62 Silio Italico, Punica
T63 Varrone, De re rustica
T64, T65 Digesta (Gaio) - (Pomponio)
T66 Giustiniano, Constitutio Deo auctore
LE ISTITUZIONI
LA NASCITA DI ROMA
Per la nascita di Roma furono decisivi stratificazione sociale e comparsa di spazi monumentali pubblici,
civili e religiosi, segno di un corpo civico urbano coeso. Ci affidiamo soprattutto a dati archeologici,
come la fortificazione del Palatino da parte di Romolo (le cui mura furono poi consacrate da Servio
Tullio), seguendo alcuni rituali in onore degli dei e di Ercole [T1]; da questo gesto si fa risalire la nascita
di Roma, probabilmente il 21 aprile 753 a.C. Il fondatore, con l’ausilio dell’aratro, tracciò un solco lungo
i confini, delimitando il pomerio (“dietro il muro” o “dopo il muro”) [T2], limite sacro della città, striscia
di terreno consacrata, dietro le mura, ove si possono prendere gli auspici; fu ampliato tante volte, in
seguito all’ampliamento dei confini romani quando venivano sottratti territori ai nemici [T3]. Secondo
Livio, pomerio vuol dire “attorno le mura”, quel luogo che, in antichità, gli Etruschi consacravano
laddove avrebbero costruito le mura e dove non si poteva né arare, né abitare. Esso fu spostato in avanti
con l’ampliamento della città ad opera di Servio Tullio, che vi aggiunse Quirinale, Viminale ed Esquilino
e cinse la città [T4]. Inoltre nel pomerio non poteva né radunarsi l’esercito e lì i consoli perdevano il loro
potere militare [T30].
T1, T4 Livio, Ad urbe condita
T2 Plutarco, Romulus
T3 Gellio, Noctes Atticae
RELIGIONE E POTERE
Il sovrano doveva adempiere ad obblighi religiosi e consultare il volere degli dei, tant’è vero che lo stesso
Romolo stabilì che tutti i suoi successori non dovevano assumere sovranità e magistrature senza
consultazione divina [T5]. Secondo la tradizione, questo fu il motivo scatenante la disputa mortale tra
Romolo e Remo (secondo la leggenda appartenenti alla stirpe di Alba Longa, città fondata dal figlio di
Enea), si dice infatti che, affinché gli dei scegliessero il re, Romolo scelse il Palatino per prendere gli
auspici, e Remo l’Aventino. Remo vide sei uccelli e Romolo il doppio, si scatenò così una disputa tra le
due schiere di sostenitori, poiché pare che il diritto al potere dipendesse dal numero di uccelli avvistati, e
dal litigio che ne nacque Remo rimase ucciso. E’ però più accreditata la versione che racconta che Remo,
per deridere Romolo, avesse superato saltando le nuove mura e che quindi Romolo l’avesse ucciso in un
momento d’ira [T6]. Durante la disputa si discusse sul nome della città, che a seconda del sovrano si
sarebbe chiamata Roma o Remora [T7]. Solo il capo della comunità può chiedere gli auspicia (da aves
spicere= osservare il volo degli uccelli); gli auspici dei patrizi sono di due tipi e i più importanti sono
detenuti da consoli, pretori e censori [T8].
T5 Livio, Ad urbe condita
T6 Ennio, fr.57 Vahlen= Cicerone, De divinazione
T7 Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae
T8 Aulo Gellio, Noctes Atticae
IL CONSOLATO
I poteri dei consoli
Il consolato era collegiale ed annuo, a turno, ciascuno dei due colleghi aveva tutto l’imperium, e l’altro
aveva diritto di opporre il suo divieto. Tutti i magistrati erano subordinati ai consoli, tranne i tribuni della
plebe. I consoli si occupavano di questioni militari: imporre decisioni, nominare tribuni militari, dare
punizioni, arruolare soldati, e pubbliche: convocare comizi, proporre leggi, attuare decisioni [T30].
Secondo Livio, i primi due consoli furono Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino [T29].
T29 Livio, Ad urbe condita
T30 Polibio, Historiae
IL SENATO
Secondo Livio, Romolo istituì il senato affermando di dover dare un intelletto alle forze, alla moltitudine
attirata in Roma. I cento senatori furono chiamati patres, patrizi i loro discendenti [T34]. Il senato aveva
il primato nel formulare decisioni politiche (tant’è che secondo Polibio, la vittoria contro i Cartaginesi
deriva dal loro saper deliberare [T35]). Oltre che sull’importanza in decisioni politiche, la centralità del
senato nella costituzione romana si basava sulle competenze assegnategli dalle consuetudini. Polibio
individua la superiorità decisionale del senato, sostenendo che quando il console parte con l’esercito, per
prendere qualsiasi decisione, stabilire piani ed obiettivi, ha bisogno delle delibere del senato (ad esempio
in materia di rifornimenti all’esercito) [T36]; inoltre, il senato detiene pieni poteri sull’erario, ordinando
entrate ed uscite e gestendo spere di questori e censori, si occupa di delitti per cui si avvia un’inchiesta
statale e di risoluzioni di controversie o condanne per una città o un privato; detiene anche ruolo di
ambasciatore in luoghi esteri [T37]. Quando i magistrati convocavano il senato per prendere decisioni o
richiedere pareri, quest’ultimo rispondeva con il senatoconsulto, che diveniva norma di diritto che
vincolava il magistrato che aveva richiesto il parere [T38]. Questo è evidenziato nel senatoconsulto sulla
repressione dei baccanali, quando i consoli Quinto Marco (figlio di Lucio) e Spurio Postumio (figlio di
Lucio) stabilirono il divieto di celebrare baccanali (festività romane propiziatorie) e chiunque ne avesse
avuto l’esigenza avrebbe dovuto richiederlo al senato, che avrebbe in seguito deciso [T39]. Nei confronti
delle attività dei comizi, da un lato i magistrati sottoponevano prima al senato le proposte da fare ai
comizi, cosicché il senato potesse prima esaminarle [T40], dall’altro allo stesso senato spettava l’avallo
alle decisioni prese dai comizi [T41]. All’inizio della repubblica il senato era di 300 membri, nel corso
del I sec. divennero addirittura 900.
T34 Livio, Ad urbe condita
T35, T36, T37 Polibio, Historiae
T38 Digesta (Pomponio)
T39 (Bacchanalibus)
T40, T41 Livio, Ad urbe condita
IL DECEMVIRATO
Nel 451 si sarebbe acconsentito alla richiesta da parte della plebe di avere un codice scritto di leggi, fino
ad ora trasmesse oralmente, e si sarebbe eletto un decemvirato legislativo esclusivamente patrizio,
sospendendo le altre magistrature e il diritto di appello delle assemblee popolari sulle loro decisioni. Nel
450 sarebbero stati immessi esponenti della plebe e furono prodotte 12 tavole di leggi, ma il decemvirato
fu cacciato per gli eccessi di potere del patrizio Appio Claudio. Questo quanto sosteneva Livio, che
affermava che quest’istituzione sarebbe stata destinata a sciogliersi dopo aver assolto ai suoi compiti
[T42]. Secondo altri il decemvirato sarebbe diventata una nuova magistratura destinata a durare. Secondo
Cicerone i decemviri avevano somma capacità di comando e di porre leggi per iscritto [T43]. Pare che
anche l’imperatore Claudio pensasse che il decemvirato fosse una nuova forma di magistratura suprema
[T44].
T42 Livio, Ad urbe condita
T43 Cicerone, De republica
T44
I TRIBUNI MILITARI CON POTERI CONSOLARI
Nel 444 a.C. i plebei chiesero di far parte del consolato; richiesta alla quale i patrizi, risposero istituendo
le figure dei tribuni militari con poteri consolari. Fino al 367 a.C. si alternarono collegi di tribuni e di
consoli, finché poi il consolato divenne la magistratura suprema di Roma. Dopo pochi anni dal tentativo
del decemvirato si ripropose il problema dell’assetto delle magistrature superiori. Livio parla di un
dibattito su quest’ulteriore modifica magistratuale, chiedendosi se fosse dovuta ad un momento di
rivendicazione della plebe o in risposta ad esigenze militari [T45]. Si è ipotizzato che l’attribuzione
magistratuale a più esponenti potrebbe esser dovuta all’aumento dei cittadini di ceti inferiori che
arrivavano al censo utile per l’arruolamento, quindi la complicazione progressiva della struttura dei
comizi centuriati e il loro stabilizzarsi tra metà V sec. e metà IV sec. [T46].
T45 Livio, ad urbe condita
T46
LA CENSURA
Risale al 443 a.C. ed erano magistrature nate per assolvere a compiti specifici, ovvero il censimento dei
cittadini. Era una carica inizialmente modesta, ma che acquistò poi grande prestigio, tanto da detenere il
governo dei costumi e della disciplina dei Romani e la regolazione di spazi pubblici e privati. La censura
era la più importante magistratura priva di imperium, i comizi centuriati eleggevano due censori ogni 5
anni, aventi però 18 mesi per assolvere ai loro compiti, che aprivano con un editto il quale ricordava gli
obblighi dei cittadini, di cui raccoglievano informazioni anagrafiche e patrimoniali in base a cui
attribuivano i censiti alle rispettive tribù e classi censuarie. Il censimento terminava con la cerimonia del
lustrum, cerimonia di purificazione. I censori, che aggiornavano liste di senatori e cavalieri e di
conseguenza ne esaminavano i costumi, avevano il regimen morum disciplinaeque Romanae [T47]. I
censori controllavano anche le entrate: contratti per lo sfruttamento dell’ager publicus, contratti di
appalto, riscossione di imposte; anche se il senato aveva comunque il dominio su tali contratti [T48].
L’ultima censura risale al 70 a.C.
T47 Livio, Ad urbe condita
T48 Polibio, Historiae
LA QUESTURA
E’ una magistratura antica, forse già risalente all’età regia, i cui titolari venivano eletti dal popolo, e
probabilmente legata alla presidenza di affari inerenti ai delitti capitali. Il nome di questori deriva dal fatto
che avevano il compito di riscuotere e conservare denaro [T49]. Il questore urbano, che presiedeva
l’erario, regolava anche gli appalti [T50].
T49 Digesta (Pomponio)
T50 Tabula Heracleensis
LE ASSEMBLEE POPOLARI
Contio assemblea in cui il magistrato che la presiedeva effettuava comunicazioni al popolo senza
effettuare rogatio (avanzare formalmente la proposta da mettere ai voti) [T64] (cum populo agere
avanzare proposta formale al popolo; concione habere viceversa [T63]).
I comizi erano convocati per esprimere voto su una materia; l’unità di voto era costituita dal gruppo in cui
il cittadino era inscritto, quindi curia, centuria o tribù. I comizi curiati votavano in base a gruppi
parenterali, i comizi centuriati votavano in base al censo e all’età, i comizi tributi votavano in base alle
tribù. I centuriati non potevano riunirsi nel pomerio in quanto l’esercito doveva radunarsi fuori città
(Campo Marzio) [T66]. Con il sistema centuriato votavano prima le 18 centurie di cavalieri, poi le 80 di
fanti della prima classe, se non si raggiungeva la maggioranza votava anche la seconda classe [T67]. Nei
comizi centuriati le 18 centurie dei cavalieri e la prima classe formavano 89 centurie, ne restavano altre
104 e di queste ne bastavano 8 per la maggioranza [T68]. Le assemblee, come ogni moltitudine,
dovevano avere un capo legittimo, un magistrato che le convocasse, le presiedesse e avanzasse rogatio
[T65]. Le materie dei comizi: eleggere magistrati, celebrare giudizi popolari (assegnare onori e
punizioni), emanare leggi, decidere in materia di pace e guerra; mentre il senato, tra le molte competenze,
aveva quella essenziale del controllo delle entrate e le uscite, così come i consoli avevano pieno potere in
guerre e campagne militari [T62]. Alle competenze sulla repressione criminale è legata la provocatio ad
populum diritto dei cittadini di appellarsi al popolo contro pene indotte dai magistrati, cui si lega anche
lo ius auxilii dei tribuni della plebe. Il tribuno Publicola propose che i cittadini potevano convocare in
giudizio, avanti al popolo, il magistrato che aveva disposto pene di morte o punizioni, cosicché il popolo
potesse votare [T70]. Negli anni tra le due guerre puniche le tribù territoriali divennero 35 e vi fu una
nuova riforma dei comizi centuriati connessi alle tribù: nella prima classe, che passò da 80 a 70 centurie,
ogni tribù forniva una centuria di iuniores e una di seniores. Probabilmente con questo metodo le centurie
sarebbero giunte a 350, stravolgendo la logica di Livio e Cicerone [T67, T68]; che sarebbe rimasta intatta
con le 193 centurie e la sola prima classe modificata. Livio crede che il totale delle centurie riformate sia
diverso da quello serviano; tra l’altro nel nuovo comizio la maggioranza si raggiungeva nella seconda
classe, risultato impossibile con 350 centurie [T71]. Cicerone, nel suo “De legibus”, sosteneva che il
popolo diviso per censo ed età votava con maggior riflessione rispetto a quello convocato in massa per
tribù [T69].
T62 Polibio, Historiae
T63, T66 Aulo Gellio, Noctes Atticae
T64 Cicerone, Pro Flacco
T65, T67, T71 Livio, Ad urbe condita
T68 Cicerone, De republica
T69 Cicerone, De legibus
T70 Dionigi di Alicarnasso, Antiquitate Romanae
I GOVERNATORI DI PROVINCIA
L’impero nacque quando Roma assoggettò i territori conquistati dalle guerre puniche: Sicilia occidentale,
Sardegna e Corsica nel 227 a.C., alcune regioni della Spagna nel 197 a.C. Si elessero 4 nuovi pretori per
governare tali territori, giungendo così a 6 [T72], ma aumentarono poi a 8 con Silla e 16 con Cesare. I
pretori venivano eletti dai comizi centuriati e poi si sorteggiavano le rispettive sfere di competenza, le
provincae [T73]. Se un territorio era in guerra le province venivano però assegnate ai consoli [T74]. In
altri casi di necessità il governo delle province era affidato mediante proroga dell’imperium del pretore
provinciale o dei magistrati urbani per un altro anno, e la possibilità di proroga dipendeva dalla
distinzione tra carica (honos), conferita con elezione dei comizi centuriati, e potere di comando ad essa
inerente (imperium), conferita con legge approvata dai comizi curiati. Il primo caso di proroga risale al
327 a.C. con Quinto Publilio Filone per consentirgli di terminare la guerra contro Napoli [T75]. Per la
proroga, erano essenziali il senatoconsulto, in quanto la riuscita di piani ed obiettivi dei comandanti
dipendevano dal senato [T76] che forniva anche risorse finanziarie e rifornimenti, e la ratifica
dell’assemblea popolare [T77]. I governatori di provincia in regime di proroga erano detti pro-consoli o
pro-pretori, i cui collaboratori erano: i legati, ai cui il magistrato delegava vari compiti di governo, e
questore, che si occupava di denaro e dello svolgimento dei mercati, attività che a Roma spettava agli
edili curuli, e i cui criteri erano pubblicati in un editto [T78].
T72 Digesta (Pomponio)
T73, T74, T75, T77 Livio, Ad urbe condita
T77 Polibio, Historiae
T78 Gaio, Institutiones
LE RIFORME DI SILLA
Sia nell’88 a.C. che nell’82 a.C. Lucio Cornelio Silla entrò a Roma con l’esercito e varò una serie di
misure istituzionali. Nel primo caso agì in quanto console, con il collega Quinto Pompeo Rufo, ed
insieme: stabilirono che qualsiasi proposta doveva essere prima esaminata dal senato che dai comizi e
proposero che le votazioni non avvenissero per tribù ma per centurie (quindi il voto lo gestivano i
cittadini più ricchi), in modo da evitare rivoluzioni e sottrarre potere ai tribuni della plebe, carica ormai
tirannica; inoltre reclutarono 300 membri del senato [T87]. Nel secondo caso Silla, deceduti i consoli
dell’anno, anziché eleggere due nuovi consoli, impose al senato di scegliere l’interrex e fu nominato
Valerio Flacco, il quale comunicò al popolo, sotto richiesta di Silla, della necessità di un dittatore che
avesse poteri senza una durata stabilita e che quindi avesse tempo di ridare stabilità a Roma, il dittatore fu
chiaramente Silla [T88]. Sicuramente Silla, che nel 79 a.C. si ritirò dalla vita politica, volle ripristinare il
controllo del senato, per l’altra misura potrebbero esserci delle alternative: o avrebbe tolto potere ai
comizi tributi per rafforzare i centuriati, o avrebbe modificato la struttura di funzionamento dei comizi
centuriati. Ci si chiede, tra l’altro, se i nuovi cittadini a seguito della guerra sociale confluissero in 8
nuove tribù o nelle 35 esistenti [T89]. E’ comunque probabile che le riforme comiziali di Silla siano state
abrogate. Silla ordinò anche la gerarchia della carriera politica: la pretura non prima della questura, il
consolato non prima della pretura, la stessa magistratura poteva essere rivestita dopo almeno 10 anni, i
tribuni della plebe, cui ridusse il potere, non potevano rivestire altre cariche [T90]. Silla dava così tanta
importanza a questa riforma che pare avesse ucciso un candidato che voleva divenire console pur essendo
ancora cavaliere e prima di questura e pretura [T91]. Per quanto concerne la riduzione del potere dei
tribuni della plebe, pare che Silla lasciò ad essi solo lo iux auxilii [T92]. L’inserimento dei 300 cavalieri
in senato restituì le corti giudicanti ai senatori, dato che prima erano state date ai cavalieri e tolte al senato
da Gracco [T93]; tale progetto era già stato proposto dal tribuno Drusio, che morì [T94]. Inoltre, Silla
sistemò i veterani nelle terre confiscate ai proscritti; istituì quattro nuove quaestio; spostò l’esercito
dall’Italia alla Gallia Cisalpina, provincializzata, per poi ritirarsi, probabilmente, a fine 81 o 80 a.C. Nel
70 a.C. i consoli Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso ripristinarono pieni poteri al tribunato
della plebe [T95], mentre il pretore Lucio Aurelio Cotta vietò di nuovo il dominio del senato sulle corti
giudicanti, affidandole ai cavalieri e ai tribuni aerarii, cittadini che, secondo alcuni, avevano censo
equestre ma non cavallo donato dallo stato, secondo altri erano cittadini di fascia censuaria inferiore ai
cavalieri [T96].
T87, T88, T90, T91, T94 Appiano, Bella Civilia
T89, T93, T95 Velleio Patercolo, Historiae Romanae
T92 Cicerone, De legibus
T96 Asconio, In Pisonianam
Definizione e crisi delle zone di influenza: dal trattato dell’Ebro alla nuova guerra punica
Dopo la prima guerra punica i Cartaginesi costituirono un impero in Spagna, che permise la loro ripresa e
fu la base operativa da cui Annibale progettò l’attacco all’Italia; il suo pretesto fu la conquista di Sagunto
[T34], città della Spagna sottoposta a Cartagine, delimitata dal corso dell’Ebro secondo le clausole del
trattato dell’Ebro del 226/225 a.C. secondo Polibio però, la prima causa della guerra fu il risentimento di
Amilcare, detto Barca, padre di Annibale, e il suo desiderio di rivincita; nonché il fatto che, pur di non
guerreggiare in condizioni pessime, si vide costretto a pagare un’indennità ai Romani [T35, T36]. In
Italia Annibale sconfisse più volte i Romani, cercando di far sì che gli alleati italici abbandonassero i
Romani, trattandoli in modo meno indulgente e affermando di voleva guerreggiare solo contro i Romani e
non contro gli alleati, che invece avrebbero dovuto allearsi con lui per riottenere la libertà e i propri
territori [T37]. Il suo piano però fallì e i Romani sopraffecero Annibale grazie all’enorme disposizione di
uomini e mezzi, in quanto vi furono molti volontari e tutti gli alleati fornirono mezzi necessari per
costruire nuove navi [T38].
T34, T35, T36, T37 Polibio, Historiae
T38 Livio, Ad urbe condita
LO SCONTRO CON LE MONARCHIE ELLENISTICHE: MACEDONIA E SIRIA
Le guerre contro Filippo V
L’azione di Roma nel Mediterraneo orientale iniziò nel 229/228 a.C. con l’attacco ai pirati illirici, che
minacciavano il commercio marittimo italico, e poi contro Demetrio di Faro. Secondo Polibio questo fu
un’altra importante tappa dell’egemonia romana anche nel mondo greco [T39]. Nel 215 il re macedone
Filippo V si alleò con Annibale per bloccare l’egemonia romana sull’Adriatico e sull’Illiria, stabilendo
che Cartaginesi e Macedoni sarebbero stati alleati fino a sconfiggere i Romani [T40]. Nel 205 un
armistizio, che prevedeva la spartizione dei territori, concluse la prima guerra macedonica [T41].
Qualche anno dopo però i Romani attaccarono nuovamente la Macedonia, poi, ai Giochi Istmici di
Corinto dichiararono liberi i Greci [T42], mentre gli Etoli parlavano dei Romani come dei nuovi padroni,
al posto dei Macedoni [T43].
T39, T40 Polibio, Historiae
T41, T43 Livio, Ad urbe condita
T42 Plutarco, Flamininus
ALLEVAMENTO E AGRICOLTURA
Anticamente, il popolo dei Romani era molto dedito alla pastorizia, questo tra l’altro lo si può notare
anche da alcuni particolari, come le antiche multe inflitte in buoi e pecore o le monene antiche
contrassegnate con figure animali [T5]. Anche l’agricoltura era però fondamentale e la tradizione
attribuisce misure agricole anche a Romolo, che creò i sacerdoti dei campi, e a Numa, che stabilì le
offerte votive con cereali ed istituì feste come i Fornacalia, per la torrefazione del farro. Anche i cognomi
più antichi, tra l’altro, sono legati all’agricoltura: Pisone (da pisere= macinare), e poi Fabi, Lentuli,
Ciceroni a seconda di ciò che ciascuno coltivava meglio [T6]. L’importanza dell’agricoltura trova
conferma nel divieto di uccidere e mangiare buoi usati per l’aratura [T7]. Si produceva già vino, per cui
Numa istituì anche delle regole che ne regolavano l’uso e impose, per le cerimonie religiose, il vino
ricavato da viti potate, costringendo così i contadini a potare gli alberi che sostenevano le viti [T8].
T5, T7 Varrone, De re rustica
T6, T8 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia
ROMA ARCAICA
Nell’Italia antica vi erano stretti rapporti tra le comunità locali italiche, rafforzatisi con la conquista
romana. Già prima di Roma esistevano molti popoli, di cui Plinio ne ricorda 30, che celebravano insieme
un rito federale sul monte Albano e che sono poi scomparsi [T1]. Molte sono le tradizioni mitiche delle
vicende del Lazio arcaico, raccontate ad esempio nella Teogonia [T2] o negli scritti di Dionigi, secondo
cui Enea fu il vero fondatore di Roma, così chiamata in onore di una donna troiana, che istigò all’incendio
delle navi troiane perché stanca di peregrinare dopo la caduta di Troia [T3]. In effetti sono diffuse diverse
storie sull’origine e sul nome di Roma che, oltre a quello della donna troiana, pare fosse il nome derivante
da donne legate in qualche modo ad Enea; secondo altri il nome deriva da Romolo [T4]. Altre leggende si
collegano a quella di Roma come colonia di Arcadi guidati da Evandro [T5] e al sacrificio del vitello in
onore di Ercole, che dalla Spagna condusse dei buoi ad Argo e proprio nei pressi di Roma effettuò quel
sacrificio [T6] su un’ara, molto venerata dagli abitanti, che su di essa effettuano voti e giuramenti [T7].
Secondo le fonti, Roma era sin dall’inizio una città aperta ai contatti e all’integrazione, né è esempio
l’asilo romuleo, secondo cui Romolo offriva asilo e protezione a coloro che si fossero rifugiati presso un
tempio sacro al Campidoglio [T8], ma anche l’accoglienza di re stranieri [T9], come Tarquinio Prisco,
figlio del corinzio Demarato rifugiato in Etruria per sfuggire alla tirannide, che per cultura e cortesia
ottenne facilmente la cittadinanza romana e fu amico di re Anco Marcio, tanto sa succedergli [T10, T11].
Lo stesso Demarato educò i suoi figli secondo usanze e discipline greche [T14]. Oltre all’Etruria, i cui
ambasciatori recarono a Roma le dodici asce, una da ogni città, che venivano usate dal comandante
militare in guerra, [T13] e alla Sabina, da cui tra l’altro derivano alcune divinità, come Minerva [T12],
altrettanto importante è stata l’influenza delle colonie greche e della Grecia stessa, da cui molte leggi e
discipline sono state attinte [T15, T16], anche se i Romani sostenevano di aver migliorato ciò che era
stato importato da altri luoghi [T17]. Una tradizione, chiaramente anacronistica, afferma addirittura che
Numa fosse allievo di Pitagora, che in realtà giunse in Italia molti anni dopo la morte del re [T18, T19].
E’ una tradizione che si ricorda perché comunque, tra VI e V sec. a.C., Pitagora ebbe grande fama in
Italia con la sua dottrina [T20] e perché Numa si distinse per sapienza, essendo così considerato, da
posteri che ignoravano i rapporti cronologici, allievo di Pitagora [T21]. L’influenza pitagorica rimase a
lungo a Roma, per esempio al IV sec. a.C. risalgono le sentenze di stile pitagorico di Appio Claudio
Cieco [T22, T23], mentre nel III sec. a.C. una statua di Pitagora fu esposta al Foro Romano [T24].
L’insistenza di un presunto legame tra Pitragora e Numa pare derivi da un atto politico del re, ossia la
divisione della popolazione secondo arti e mestieri per superare le divisioni etniche della città, spaccata in
due grandi gruppi che non riuscivano a fondersi, per cui sarebbe stato più semplice dividerli in tanti
piccoli gruppi [T25]. Nel V sec. a.C. Pitagora era maestro anche di popolazioni quali Romani, Sabini e
Lucani [T26] e l’influenza della cultura greca a Roma si ampliò sempre di più con le conquiste nel
meridione d’Italia, dove vi erano le colonie greche; simbolo di ellenizzazione sono le qualità, tipicamente
greche di armonizzare corpo e anima, attribuite a Scipione Barbato nell’iscrizione sul suo sepolcro [T27],
o ancora la romanizzazione della civiltà ellena della colonia greca di Posidonia [T28].
T1 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia
T2 Esiodo, Teogonia
T3, T6, T7, T8, T10, T13, T15 Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae
T4 Plutarco, Romulus
T5 G.Acilio, fr.1 Peter= Strabone, Geographia
T9 Tacito, Annales
T11, T14, T17, T19 Cicerone, De republica
T12 Varrone, De lingua Latina
T16 Simmaco, Epistulae
T18 Livio, Ad urbe condita
T20, T21, T22 Cicerone, Tusculanae disputationes
T23 Appio Claudio Cieco
T24, T25 Plutarco, Numa
T26 Aristosseno, fr.17 Wehrli
T27
T28 Ateneo, Deiphnosophistae
L’ELLENIZZAZIONE
Sin dall’età arcaica e poi soprattutto con la conquista della Magna Grecia vi fu grande influenza della
cultura greca in Roma. Oltre a culti greci come quello di Cerere ed Apollo, fu introdotto a Roma, ad inizi
III sec., quello di Esculapio, in occasione di una pestilenza [T40]. Le conquiste orientali svilupparono
ulteriormente il processo di ellenizzazione, anche con l’import di oggetti raffinati [T41]. Le élite
cominciarono ad adottare anche tattiche militari tipiche dei Greci, giocando sull’astuzia e sull’inganno
[T42]. L’influenza greca si sentì molto per quanto concerne l’educazione e la cultura del cittadino, un
esempio fu Tiberio Gracco, educato nelle arti letterarie greche sin da piccolo [T43, T44]. Anche le
reazioni a tale cultura furono forti, sia entusiaste, per la dottrina filosofica greca [T45, T46], sia
incriminanti, che consideravano i Greci malvagi, superbi ed indecorosi [T47, T48].
T40 Livio, Annales
T41 Calpurnio Pisone, fr.34 Peter= Plinio il Vecchio, Naturalis Historia
T42 Livio, Ad urbe condita
T43 Cicerone, Brutus
T44, T45 Plutarco, Ti. Gracchus
T46 Plutarco, Cato maior
T47 Plinio il Veccio, Naturalis Historia
T48 Macrobio, Saturnalia
L’INTEGRAZIONE PROGRESSIVA
Già in età regia Roma aveva supremazia sugli altri popoli del Lazio, partecipando ai culti federali dei
popoli latini; ne è un simbolo l’edificazione del tempio di Diana sull’Aventino, voluto da Servio Tullio,
nonché l’attuazione di leggi, che regolassero i rapporti tra le città, fissate con caratteri greci su una stele
bronzea [T49]. Alla supremazia romana si ribellarono però molti popoli latini alleati all’indomani della
cacciata dei re [T50], fino all’alleanza sancita dal foedus Cassianum, che dopo un periodo di contrasti fu
rinnovato a metà IV sec. a.C. [T51]; successivamente i Latini furono assorbiti nello stato Romano in
espansione in Italia meridionale.
Le guerre successive, contro Etruschi, Galli, Sanniti, furono molto dure e sanguinose, molti uomini
furono uccisi [T52] o fatti prigionieri, molte terre furono conquistate, specie in Sabina ad opera di Mario
Curio Dentato [T53]. Durante queste guerre i Romani impararono anche nuove tattiche militari, specie
quelle dei Sanniti (scudi lunghi e giavellotti) [T54] e dei Greci per quanto concerne la cavalleria (lance
più spesse ed affilate, scudi più solidi) [T55].
Roma garantiva ai vinti dignitosi diritti (a proposito di questo, circa i Latini, in senato si discuteva che i
Romani, sia distruggendo sia offrendo la cittadinanza, avrebbero dominato) [T56], un esempio è con la
città di Tusculo, i cui abitanti restarono impuniti e anzi ricevettero anche la cittadinanza, evitando che
rinascessero pretesti per ribellioni [T57]. Questo però suscitò anche reazioni negative, come nel caso
degli Equi che sostennero che Roma, sotto la minaccia della guerra, convinceva i popoli a diventare
cittadini romani [T58]. Roma era decisa al controllo dell’Italia meridionale e pronta a sfidare altre
potenze, come dimostra il discorso di Appio Claudio Cieco nel rifiutare la proposta di pace di Pirro, che
prevedeva la restituzione dei prigionieri di Pirro in cambio della libertà ai Greci d’Italia e della
restituzione di ciò che avevano tolto in guerra a Lucani, Sanniti, Bruzi. Appio Claudio rimase indignato
da questa proposta, sostenendo che i Romani, così facendo, sarebbero diventati schiavi dei Macedoni e
non alleati [T59]. In circa 150 anni (322-180 a.C.) Roma dedusse moltissime colonie latine, comunità ex
novo in zone non romane, adatte alla difesa da molti pericoli [T60, T61] con cittadini Romani che
rinunciavano alla loro cittadinanza in cambio di lotti e possibilità di ascesa sociale. Nel territorio
circostante si diffondevano così usi e costumi romani.
Ad inizi II sec. a.C. nelle colonie i cittadini Romani mantenevano tale status [T62]. Con tale politica
espansionistica si diffuse anche la lingua latina [T63]. Le conquiste fuori Italia avvennero non per offerta
della cittadinanza ma per dominio; in un primo periodo, considerato ancora positivo (guerre puniche), ma
i successivi cent’anni, dalla distruzione di Cartagine, di Corinto e Numanzia ad Augusto, vi furono
importanti imprese militari ma anche molte stragi e grande ricchezza e prosperità, secondo molti,
originaria causa della decadenza di Roma [T64]. A metà II sec. a.C. Roma fu molto dura e decisa nelle
sue azioni, distruggendo ogni suo possibile nemico, come accadde per Cartagine, la cui distruzione fu
istigata da Catone, il quale, mandato lì come ambasciatore durante la guerra della città contro la Numidia,
e vi riscontrò, nonostante le sconfitte e il trattato stipulato con Roma, una città fiorente e ricca, quindi
potenziale minaccia per Roma. Al contrario, Scipione Nasica sosteneva che a Roma doveva restare la
paura per Cartagine, per frenare l’arroganza dei Romani e la loro eccessiva sicurezza [T65]. Altro
episodio che dimostra la durezza di Roma furono i provvedimenti di Lucio Mummio contro le città
greche, a pochi anni dalla proclamazione della libertà dei Greci: distrusse le mura delle città che avevano
combattuto contro Roma e vi tolse le armi, istituì regimi fondati sul censo e sottopose a tributo anche la
Grecia, sciolse tutte le leghe etniche (Achei, Beoti ecc) [T66]. Molto odio fu generato a seguito delle
conquiste dei Romani; ricordiamo in proposito la strage di Giugurta a Cirta, dove furono uccisi molti
commercianti italici e Numidi [T67] o quella, ad opera degli Asiatici, intimata da Mitridate, contro
Romani ed italici lì residenti [T68]. Molti furono i problemi anche in Italia: fu difficile per gli alleati
mantenersi tali durante la guerra annibalica, dato che dopo la sconfitta essi dubitarono della supremazia di
Roma, cui vennero tolti alcuni popoli (Campani, Bruzzi, Apuli ecc) per esser ceduti a Cartagine [T69]; si
giunse allo scontro, tra II e I sec. a.C., a causa dei contrasti nella classe dirigente romana sulla
concessione della cittadinanza ai popoli italici, da molti bocciata, in quanto rimandavano ogni individuo
alla cittadinanza della propria città d’origine [T70]; questo scatenò la ribellione degli alleati italici, che
tanto si prodigavano per sostenere Roma nelle guerre e nelle imprese di conquista e che vedevano negati i
loro diritti [T71], e che inoltre cominciarono a sentire un forte senso d’indipendenza, tra cui i Sanniti, che
andarono contro Silla, decisi a distruggere Roma [T72]. Successivamente, dopo la repressione delle
ribellioni, l’ascesa sociale delle plebi rurali mediante arruolamento volontario e l’entrata delle élite
municipali nella classe dirigente romana portarono a quella che fu definita rivoluzione romana, in cui
viene valorizzata molto l’unità linguistica [T73], nonché l’Italia come base per la conquista
dell’egemonia [T74].
T49, T50, T57 Dionigi di Alicarnasso, Antiquitates Romanae
T51, T56, T58, T63, T69 Livio, Ad urbe condita
T52 Teodoro Siculo, Bibliotheca Historica
T53 Anonimo, De viris illustri bus
T54 Ineditum Vaticanum
T55 Polibio, Historiae
T59 Appiano, Sannitica
T60 Cicerone, De lege agraria
T61 Orazio, Sermones
T62, T71, T72 Velleio Patercolo, Historiae Romanae
T64 Floro, Epitome
T65 Plutarco, Cato maior
T66 Pausania, Descriptio Graeciae
T67 Sallustio, Bellum Jugurthinum
T68 Appiano, Mithridatica
T70 Asconio, In Cornelianam
T73 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia
T74 Strabone, Geographia
IL PRINCIPATO
L’organizzazione amministrativa
Con Augusto continuarono ad esistere le magistrature repubblicane, cui vennero però tolte molte
competenze, affidate a funzionari di nomina imperiale (prefetti e curatori) per garantire una maggiore
efficienza delle strutture amministrative. Questi furono scelti sia nell’ordine senatorio sia tra i cavalieri.
Molti furono i vari curatori di svariati settori: cura delle opere pubbliche, delle strade, della distribuzione
di frumento, la prefettura urbana; Augusto nominò inoltre i censori e aumentò il numero dei pretori [T11].
Scelse poi ex consoli per il controllo di schiavi e rivoltosi [T12], furono stabiliti addirittura controlli sugli
acquedotti e sulla distribuzione dell’acqua, il cui supervisore fu Marco Agrippa, che aveva a disposizione
degli assistenti [T13]. Ai cavalieri spettarono ruoli prestigiosi, come il comando delle coorti pretorie,
affidato a due prefetti [T14, T15]. Roma, essendo ormai molto estesa, fu divisa in 14 regiones, controllare
da magistrati annuali, a loro volta divise in quartieri, a capo del quale vi erano dei magistri, per esser
meglio organizzata in tutti i servizi, come la prevenzione di incendi e la tutela dell’ordine pubblico [T16].
Divise poi l’Italia in 11 regiones [T17]. Vi erano province che facevano capo al popolo e altre che
facevano capo all’imperatore, a seconda che fossero pacificate o meno, quindi a seconda della necessità di
legioni stanzianti sul territorio [T18, T19]. Nelle province populi i governatori, ex consoli o ex pretori,
erano sorteggiati, avevano il titolo di proconsules e duravano un anno in carica; nelle province Caesaris
erano nominati dall’imperatore in genere per tre anni e avevano il titolo di legati Augusti pro praetore.
L’organizzazione finanziaria, nelle province populus era affidata ad un questore, nella province Caesaris
ad un procuratore [T20]. Lo stesso Augusto affermava che tutte le province, compreso l’Egitto,
appartenessero al popolo [T21], in realtà egli poteva esercitare il proprio potere su tutti i territori
provinciali, questo lo testimonia anche un’iscrizione di Cuma, prova che il princeps intervenne in Asia,
circa disposizioni su oggetti sacri, quando questa era affidata al senato [T22]. L’Egitto fu affidato ad un
cavaliere. A senatori e cavalieri illustri era vietato l’ingresso nella regione senza l’autorizzazione del
princeps, per evitare tentativi di usurpazione, dato che l’Egitto era fertile fonte di approvvigionamenti di
grano [T23].
T11, T16 Svetonio, Divus Augustus
T12, T23 Tacito, Annales
T13 Frontino, De aquae ductu urbis Romae
T14, T15, T19, T20 Cassio Dione, Historia Romana
T17 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia
T18 Strabone, Geographia
T21 Augusto, Res gestae
T22 Die Inschriften von Kyme
L’esercito
Per l’esercito si fissò: durata della ferma di 20 anni, stipendium di 225 denari l’anno, congedo di 3000
denari. L’esercito, arruolato con cittadini, popoli sottomessi e alleati, doveva essere sempre in armi e in
allenamento. Alle legioni si affiancarono le unità ausiliarie, reclutate tra i peregrini, che al congedo
potevano avere la cittadinanza romana in cambio dei servigi. Le truppe più importanti erano le coorti
pretoriane, stanziate a Roma cui era affidata la guardia imperiale. Percepivano compensi maggiori [T35].
T35 Cassio Dione, Historia Romana
L’ETA’ DI AUGUSTO
Un periodo complesso
L’età augusta fu tempo di grandi trasformazioni, sia politiche che culturali. Anche la storiografia aveva un
rapporto difficile con il princeps, in quanto “la libertà di scrivere era limitata da colui che poteva
proscrivere” [T1], considerazioni analoghe le fece anche Fedro, paragonando il popolo a un asino che se
cambia padrone, alla fine cambia solo il nome, il padrone resta [T2]. Gli imperatori condizionarono molto
la storiografia, che spesso era distorta, raccontata in modo falso, esagerato, distorto o adulatore dagli
scrittori, per timore delle ritorsioni dei sovrani [T3], molti invece si astennero dallo scrivere, altri lo
fecero molti anni dopo [T4]. Secondo Dione, prima dell’Impero, tutte le questioni venivano sottoposte al
senato e al popolo, cosicché tutti ne venissero a conoscenza e molti ne tramandassero la memoria, in
modo tale che molti avvenimenti potessero essere posti per iscritto, seppur alcuni di questi condizionati
da varie circostanze; in età imperiale invece molti avvenimenti cominciarono a divenire segreti, quelli
pubblici invece non potevano essere verificati, si sospettava che tutto venisse detto e fatto secondo le
decisioni di chi regnasse; pertanto si diffusero avvenimenti di dubbia veridicità e il loro numero immenso
e in continua crescita ne rendeva difficile anche un resoconto [T5]. A tal proposito pare che Cesare avesse
stabilito la pubblicazione degli atti ufficiali del senato [T6], che fu poi revocata da Augusto [T7]. La
storiografia senatoria fu consapevole di dover raccontare cose di scarso rilievo e non essere così
all’altezza delle antiche gesta del passato [T8], raccontate tra l’altro, da altri storici come Dionigi e Livio.
T1 Macrobio, Saturnalia
T2 Fedro, Fabulae
T3, T8 Tacito, Annales
T4 Tacito, Historiae
T5 Cassio Dione, Historia Romana
T6, T7 Svetonio, Divus Augustus
Livio
Lo storico, non senatore, Livio, ha voluto, nella sua opera, cominciare a raccontare Roma dall’antichità,
cercando però di evitare tutte le leggende che la circondano, bensì basandosi su fatti più concreti, come
una sorta di elenco di ciò che è accaduto, senza favoleggiare, per far conoscere quali siano i modi di vita, i
costumi, per opera di chi, con quali mezzi, sia nato e cresciuto l’Impero, come i costumi siano degenerati.
In sostanza vuol fornire insegnamento ai lettori, che possano distinguere gli atti illustri e ricavarne lezioni,
da quelli da evitare perché ignobili [T13]. Livio fu un colto studioso e scrittore, si tenne fuori dagli affari
politici; dai frammenti che ci sono pervenuti sappiamo che glorificò la Roma antica, ammirava Pompeo e
Cicerone, stimava Bruto e Cassio, criticava Cesare. Per capire la concezione di grandezza che aveva di
Roma, frutto dell’unione delle azioni di uomini illustri che si sono susseguiti, si cita un suo discorso in cui
immagina cosa sarebbe successo se Alessandro Magno si fosse mosso contro Roma, arrivando alla
conclusione che avrebbero avuto la meglio molti grandi condottieri romani, di grande esperienza ed
abilità militare, ribadendo così la superiorità di Roma nei confronti di tutte le altre organizzazioni
politiche antiche e concludendo con il desiderio di pace e concordia che lo stesso Augusto sosteneva
[T14]. Livio ha raccolto molte informazioni da Polibio e gli annalisti, confrontando le varie versioni,
trovando analogie ed incongruenze, distinguendo ciò che potesse essere vero da leggenda o da finzione.
T13, T14 Livio, Ad urbe condita
LETTERATURA ED EPICA
Grande contributo alla storiografia hanno dato intellettuali che non erano né Romani né senatori, tra
questi menzioniamo Orazio e Virgilio. Questi, celebra nel poema epico dell’Eneide la vicenda di Enea e
la fondazione della nuova Troia, in cui prefigura l’avvento messianico della nuova Roma, sotto la guida
di Augusto [T23]; Orazio divenne uno dei poeti ufficiali del nuovo regime, soprattutto per le sue Odi e gli
accenni politici contenutivi, e per il carme secolare commissionatogli da Augusto per i ludi secolari nel 17
a.C., che ripercorre i momenti culminanti della storia di Enea: navigazione verso il Lazio, arrivo dei
Troiani al Tevere, la missione dominatrice di Roma [T24]. Ancora ricordiamo le elegie Romane di
Properzio, ove si celebrano le tradizioni locali di Roma e l’origine dei riti religiosi nazionali [T25];
Ovidio, che nei Fasti scrive mese per mese le feste e i riti religiosi, interrotta però dal suo esilio [T26]; il
più recente Lucano, nipote di Seneca, morto nella congiura pisoniana, che nella sua Pharsalia esalta la
lealtà dell’età repubblicana, come nell’elogio di Catone, e condanna il regime imperiale (anche se
all’inizio del poema, per necessità dei suoi tempi, compare un elogio a Nerone) [T27].
T23 Virgilio, Aenedis
T24 Orazio, Carmen Saeculare
T25 Properzio, Elegiae
T26 Ovidio, Tristia
T27 Lucano, Pharsalia
DOPO AUGUSTO
Svetonio scrive che, a partire dall’età di Augusto, la crudeltà aumentò, le parole degli scrittori furono
ritenuti delitti, molti furono accusati e i loro scritti distrutti [T28]. Si possono distinguere tre tipi di
storiografia: una di opposizione, repressa, come Tiberio che rimise in vigore la legge di lesa maestà, che
appunto puniva anche la diffamazione da parte degli scrittori [T29]. In verità Caligola ordinò di
recuperare i libri che Tiberio fece sequestrare (Cremuzio Cordo, Cassio Severo) affinché tutti gli eventi
potessero essere tramandati ai posteri [T30], ma a sua volta infierì contro uomini illustri, distrusse statue
di personaggi celebri, criticò scrittori come Virgilio e Livio [T31]. Altro tipo di storiografia si esercita
morto il principe che si attacca, come Tacito, che cominciò a scrivere alla morte di Domiziano [T32]. E’
sovente una storiografia senatoria che tende a difendere il ruolo del senato e cerca l’accordo con il
principe in carica. Altra storiografia è quella degli storici sostenitori, spesso emersi militarmente o
giuridicamente al seguito dell’imperatore di turno, come il senatore tiberiano Velleio Patercolo, che
elogia Tiberio per aver riportato l’ordine, tra le magistrature, nella giustizia e nelle città [T33]. Legato ai
Flavi era il tribuno militare Plinio il Vecchio, autore delle Historiae, della Naturalis Historia che dedicò a
Tito, e di una storia di guerre germaniche [T34]. Di età augustea è la tradizione dello storico cavaliere,
funzionario al servizio del principe, come Plinio e Svetonio. Le nuove classi di ufficiali e burocrati si
sentivano liberi da implicazioni ideologiche; si distinsero sempre più attività politica e culturale.
Ricordiamo poi Tacito, di cui ricordiamo soprattutto l’Agricola, biografia del suocero, in cui attacca
Domiziano; le Storie, che vanno dalla morte di Nerone a quella di Domiziano; e gli Annali, che vanno
dalla morte di Augusto a quella di Nerone. Ne restano comunque solo frammenti. Rispetto alla
storiografia più antica, secondo Tacito cambiava il contenuto della storia, chi scrive non conosce a fondo
ciò che vuole narrare [T35], il compito della storia nei nuovi tempi deve essere quello di distinguere
l’onesto da ciò che non lo è, indagare e tramandare [T36]. Tacito è sempre stato molto attento a narrare ai
posteri non solo le fonti, ma anche presunte voci, quali quelle sul presunto assassinio di Germanico da
Parte di Tiberio, accordatosi con Pisone [T37], sul malcontento di Agrippina [T38], e sulla predilezione
degli dei per Vespasiano e le sue presunte guarigioni di un cieco e uno storpio, a detta di molti eseguite,
dopo il consulto dei medici e dopo un’iniziale diffidenza, con il tocco delle sue mani [T39].
Svetonio ci offre in contemporanea storia e biografia degli imperatori, fino ai Flavi; il suo incarico accorte
gli diede probabilmente accesso agli archivi imperiali, come possiamo notare circa le notizie su data e
luogo di nascita di Cesare, questione molto discussa dagli storici, anche se Svetonio ne sostiene la nascita
in mesi invernali e ad Anzio, secondo atti pubblici che aveva consultato [T40]. Svetonio soleva scrivere
molte biografie di personaggi chiave della storia romana di imperatori, anche usando fonti ostili (come
quelle che raccontano che Tiberio, in punto di morte, fosse stato soffocato dal prefetto al pretorio allora in
carica [T41]). Il suo modello narrativo ordinava la materia in questione per settori. In età adrianea si
diffuse molto l’epitome, di cui ricordiamo quella di Anneo Floro, che raccontò le guerre romane; suo è un
parallelo tra la storia romana e l’evoluzione biologica età dei re= infanzia, età dai consoli Bruto e
Collatino fino ad Appio Claudio= adolescenza, età fino ad Augusto= maturità, età imperiale di
invecchiamento e ripresa a seconda degli imperatori [T42]. Ancora di età augustea l’opera dell’ebreo
Flavio Giuseppe, ormai rassegnato a convivere con l’impero romano, tanto vasto e grande che
probabilmente era voluto da Dio [T44] Tra gli intellettuali greci ricordiamo invece Plutarco, scrittore di
Vite parallele, biografie di uomini illustri greci e romani narrate parallelamente per poterne trarre
paragoni [T44]. In epoca antoniniana, Elio Aristide, nel suo Encomio a Roma, appunto elogio alla grande
potenza e alla sua capacità governativa, considerava l’Impero come un’unità cui tutti dovevano
contribuirne per mantenerne prosperità [T45]. Lo storico Appiano, esponente dei nuovi ceti di governo tra
II e III sec., ha ordinato la sua trattazione della storia romana secondo un criterio etnografico, raccontando
le vicende dei singoli popoli in rapporto con Roma, raccontandone la vastità e la capacità militare, di
azione e di conquista [T46]. Il più importante tra gli storici greci dell’alto impero è Cassio Dione, che fu
console. Della sua Storia Romana, che va dalle origini al 229 d.C., si è conservata una buona parte,
affronta tutta una serie di argomenti, come il regime di governo, cui suo preferito è la monarchia
illuminata, fondata sul consenso e la partecipazione dei migliori di tutte le province ed è il regime più
stabile, al contrario di quello democratico; tali principi sono esposti nella sua opera, in un discorso fittizio
tra Augusto e Agrippa sull’ordinamento dello stato [T47].
T28 Svetonio, Tiberius
T29, T36, T37, T38 Tacito, Annales
T30, T31, T40, T41 Svetonio, Caligula
T32, T39 Tacito, Historiae
T33 Velleio Patercolo, Historiae Romanae
T34 Plinio il Giovane, Epistulae
T35 Tacito, Agricola
T42 Floro, Epitome
T43 Plutarco, Alexander
T44 Flavio Giuseppe, Bellum Iudacium
T45 Elio Eristide, Romae Encomium
T46 Appiano, Historiae Romanae
T47 Cassio Dione, Historia Romana
L’ITALIA E LE PROVINCE NELLE DINAMICHE SOCIO-ECONOMICHE
Diversi tipi di imposizione fiscale in base alle diverse modalità di conquista e aree dell’impero
Esistevano diversi tipi di imposizione tributaria, a seconda delle modalità di conquista di una provincia e
delle peculiarità della zona, infatti, in alcune aree si mantenne il sistema tributario vigente prima della
redazione in provincia, come in Sicilia e in Asia, ove si riscuoteva la decima, in altre zone si adattò il tipo
di prelievo fiscale alle caratteristiche produttive della provincia, come in Africa e in Spagna [T11], ove i
magistrati romani non potevano stabilire il prezzo del grano né imporre prefetti in città che si occupassero
della riscossione del denaro [T13]. Anche in Bitinia il sistema di riscossione fu la decima [T12].
Comunque, in caso di riduzioni di esigenze fiscali, a volte si ottenevano sgravi o esenzioni.
T11 Cicerone, Actio secunda in Verrem
T12 Dione Crisostomo, Orationes
T13 Livio, Ad urbe condita
Proprietà imperiale
Per quanto riguarda le entrate, da un lato, c’era l’aerarium populi, cassa pubblica, dall’altro fiscus, res
privata, patrimonium, finanze imperiali, tutto appartiene all’imperatore [T14, T15]. Soprattutto grazie alle
imposte provinciali, a confische di beni e grandi fondi, e a donazioni, la proprietà imperiale si accrebbe
sempre più [T16]. La famiglia imperiale divenne sempre più protagonista dell’attività produttiva e
commerciale che era alla base dell’economia imperiale, come per le industrie di laterzi e tegole che
sorgevano su proprietà imperiali e la cui gestione dipendeva dalla famiglia imperiale, questo lo notiamo
dai bolli sulla merce prodotta, anche ne indicavano appunto la provenienza [T17, T18].
T14 Seneca, De beneficiis
T15 Digesta (Ulpiano)
T16 Plinio il Vecchio, Naturalis Historia
T17, T18
LE DINAMICHE ECONOMICHE
Libero mercato, concorrenza e dialettica tra l’Italia e le province. Le dinamiche dell’integrazione
Quindi, l’Impero aveva molti introiti annuali. Per produrre ricchezza sufficiente a pagare le imposte, i
produttori di beni primari dovevano produrre il surplus necessario, cosicché le province, pur di pagare,
incrementarono la loro produzione e soprattutto i commerci con Roma, accrescendosi così in ricchezza. In
tal modo, tra I e II sec. le province potevano concorrere con l’Italia per produzione e sviluppo economico
e questo portò un processo di integrazione economica, sociale e culturale degli esponenti provinciali
dell’impero. L’economia romana era infatti fondamentalmente agricola e commerciale, con un grande
flusso marittimo in ogni dove. I prezzi delle merci erano diverse a seconda dei luoghi e ai tassi d’interesse
del denaro [T19]. Il commercio era garantito da un libero mercato, che lasciava spazio alla concorrenza,
ove i prezzi dei beni erano determinati dal rapporto domanda/offerta, con conseguenti prezzi diversi.
Questo valeva anche per le vendite dei fondi [T20]. Vi erano terre a diverso prezzo, in base alla
localizzazione e alla produttività, e storici come Columella offrono consigli su come sfruttarle e ottenere
il massimo della redditività [T21].
T19, Digesta (Gaio)
T20 Plinio il Giovane, Epistulae
T21 Columella, De re rustica
ROMA E I CRISTIANI
Nella celebre frase di Gesù: “rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”,
pronunciata in merito ad una discussione del diritto o meno di Cesare di riscuotere tributi, si riconosceva,
secondo molti, il potere imperiale ma soprattutto la riaffermazione della netta separazione tra il potere
politico e l’autorità di Dio [T8, T9]. Proprio tale distinzione faceva sì che l’Impero esigesse dai suoi
sudditi una dimostrazione di lealtà attraverso il culto dell’imperatore divinizzato, a cui il cristianesimo
non aderiva e probabilmente per questo da Roma furono espulsi ebrei e cristiani sotto l’imperatore
Claudio [T10]. Grande ed ingiusta persecuzione fu quella di Nerone, accanito contro la comunità cristiana
che intanto cresceva sempre più [T11]. Pare che fosse stato istituito il reato di essere cristiano, e questo è
testimoniato dagli scambi epistolari di Plinio e Traiano, il quale ordinò che se i cristiani avessero negato
la loro “colpa” e avessero sacrificato agli dei, sarebbero stati assolti, altrimenti, in caso di denuncia non
anonima e di colpevolezza, sarebbero stati condannati [T12, T13].
T8 Evangeliuroum secundum Lucam
T9 Paolo, Epistula ad Romanos
T10 Svetonio, Divus Claudius
T11 Tacito, Annales
T12, T13 Plinio il Giovane, Epistulae
L’ORGANIZZAZIONE DELLE COMUNITA’ CRISTIANE
Organizzazione definizione di una dottrina comune, gerarchia nelle e tra le comunità. La fede del
cristiano è quella trasmessa da Cristo agli apostoli e da questi alle comunità, tale tradizione è perpetrata
dai vescovi [T15], appunto “successori” degli apostoli nella gerarchia ecclesiastica di una comunità. Per
quanto riguarda la gerarchia tra le comunità, il primato era del vescovo di Roma, della cheisa fondata da
Pietro e Paolo alla quale tutte le altre devono conformarsi [T14]. Il primato di Roma era in un certo senso
dovuto anche alle maggiori possibilità economiche della chiesa romana, che ha dato assistenza materiale
ai fedeli delle chiese di tutto l’Impero [T16].
T14, T15 Ireneo di Lione, Adversus Haereses
T16 Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica
LE PERSECUZIONI
Marco Aurelio
La crisi imperiale con Marco Aurelio moltiplicò gli episodi anticristiani, tra cui la sommossa contro i
cristiani di Lione, molti dei quali furono percossi e arrestati [T17], o anche il processo di Cartagine del
180 (quando già regnava Commodo) dove alcuni cristiani furono condannati per non aver accettato il
culto dell’imperatore [T18], pare secondo direttive simili a quelle di Traiano e Plinio [T12, T13]
T17 Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica
T18 Acta martyrum, Scillitanorum
Decio
Decio ordinò la prima persecuzione nel 250 contro chiunque rifiutasse di sacrificare, e chi lo facesse
doveva avere un attestato (libellus) che lo comprovasse, secondo disposizioni imperiali [T19]. E’ stato
testimoniato, tra l’altro, anche un traffico clandestino di certificati [T20].
T19 Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica
T20 Cipriano, De lapsis
Valeriano
Valeriano con due editti, 257 e 258, scatenò una persecuzione che non volle più colpire i singoli, ma la
chiesa in quanto istituzione, per cui gli editti stabilirono il divieto di riunioni per adorare Dio, piuttosto
bisognava adorare l’imperatore e gli dei [T21], ancora l’eliminazione fisica delle gerarchie ecclesiastiche
(vescovi, preti, diaconi) ed economica dei funzionari cristiani nell’amministrazione imperiale [T22],
nonché la confisca dei beni a questi ultimi e ai beni della Chiesa. Le disposizioni di Valeriano furono
annullate da Gallieno, che pose fine alla persecuzione, impose la liberazione dei luoghi di culto e restituì i
cimiteri [T23].
T21, T23 Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica
T22 Cipriano, Epistulae
Diocleziano
Il clima di distensione che si era avuto con Gallieno [T24] era destinato a scomparire con Diocleziano,
che nutriva una crescente ostilità nei confronti dei cristiani, anche se pare che la diretta responsabilità
della persecuzione è imputabile al suo Cesare, Galerio, autore di vari editti, che stabilivano di privare ai
cristiani cariche e rango, di torturarli, di privarli di libertà e possibilità di appello [T25], nonché
distruggere le Chiese e le Sacre Scritture, obbligare ai capi ecclesiastici a sacrificare [T26]. L’editto
conclusivo, quello di Serdica del 311, è un editto di tolleranza, quindi l’imperatore concedeva la fede
cristiana per clemenza, con una sorta di perdono per i “peccati” di cui si erano macchiati i cristiani [T27].
T24, T26 Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica
T25, T27 Lattanzio, De mortibus persecutorum
COSTANTINO
L’editto di Milano era invece un riconoscimento del diritto di seguire la fede che si ritenesse più consona,
e in questo caso la divinità il cui favore era invocato dagli imperatori era Dio; il risvolto era dato dal
coinvolgimento della Chiesa nell’organizzazione statale, questo spiega i vantaggi patrimoniali accordati
ad essa, a partire dalla restituzione delle sue proprietà fino all’equiparazione del servizio svolto dai
chierici in chiesa ai servizi svolti dai cittadini per lo Stato [T28]. Costantino consentì anche la
costituzione di un tribunale di vescovi per affari ecclesiastici [T29], ma presto anche le parti di un
processo civile, se concordi, poterono rivolgersi agli ecclesiasti o comunque passare dal tribunale civile a
quello ecclesiastico anche a causa già avviata [T30]. Si poneva, tra l’altro, il problema di definire il ruolo
e l’intervento dell’imperatore nei confronti della Chiesa, e Costantino, per garantire la conciliazione di
tutte le chiese dell’Impero ed evitare che nascessero contrasti, si proclamò vescovo di tutti, costituito da
Dio, e partecipava alle riunioni vescovili per garantire la pace [T31]; inoltre l’imperatore fu anche
vescovo degli affari esterni alla Chiesa, come lui stesso si proclamò per differenziarsi da quelli interni
[T32]. Costatino si adoperò molto per l’unità e l’universalizzazione della Chiesa, promuovendo spesso
concili, quali quello ecumenico di Nicea del 325, in occasione del dibattito ariano, che avviò il discorso
sulla natura di Cristo e da cui nacque il Credo. Ario era un monaco alessandrino che sosteneva che il
Figlio era una creatura del Padre e non partecipava alla sua natura divina [T33].
T28 Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica
T29 Agostino di Ippona, Epistulae
T30 Codex Theodosianus
T31, T32 Eusebio di Cesarea, Vita Constantini
T33 Rufino di Aquileia, Historia Ecclesiastica
I FATTORI DI CRISI
Il personale politico-militare dell’Impero era esiguo, perché l’amministrazione e la difesa erano assicurate
anche dalle élites locali, che tra l’altro riscuotevano le tasse. I costi di questo apparato erano sostenuti
dalla tassazione, che doveva essere contenuta per non gravare troppo sulle masse rurali e permettere alle
élite cittadine di incamerare rendite sufficienti a mantenere il loro status. Era anche necessario che si
mantenesse un equilibrio tra le entrate garantite dalla tassazione e le spese per mantenere l’esercito, ma
tale equilibrio entrò in crisi con Marco Aurelio, quando fu necessario un rafforzamento dell’esercito,
producendo un incremento della spesa, a questo si aggiunse lo scoppio di una forte epidemia che ridusse
le capacità produttive dell’Impero con conseguente decremento di entrate. Vi furono una serie di misure
per riequilibrare la situazione: aumento del carico fiscale, riduzione del contenuto di metallo nella
moneta, allargamento, mediante confische, della proprietà imperiale e quindi dei prodotti che l’imperatore
gestiva direttamente e poteva destinare all’esercito, senza gravare ulteriormente sui contribuenti.
LA PESTE ANTONINA
La guerra partica del 161 comportò delle conseguenze disastrose sull’Impero. L’esercito fu colpito dal
vaiolo e i reduci della campagna portarono la malattia, che decimò la popolazione, in moltissime regioni
dell’Impero e fu contagiosissima, tanto che anche tutti i morti furono seppelliti in luoghi appositi. Inoltre,
approfittando del fatto che la campagna partica aveva lasciato gli altri fronti sguarniti, le popolazioni
germaniche di Quadi e i Marcomanni sfondarono il limes presso il fronte renano e danubiano e invasero i
territori provinciali. Si dovettero reclutare nuove legioni e lo stesso Marco assunse il comando delle
operazioni sul fronte danubiano [T1, T2, T3, T4, T5]. Pare che la pestilenza durò molti anni,
probabilmente 25, con continui scoppi violenti [T6, T7, T8]. Si è a lungo discusso sulla gravità di questa
epidemia; da un documento papiraceo sappiamo che nel Fayum, in Egitto, morì circa un terzo dei
contribuenti, determinando l’aumento del carico fiscale sulle spalle dei sopravvissuti [T9]; altre iscrizioni
riportavano, contro la pestilenza, imprecazioni divine [T10], il cui culto fu molto rafforzato a seguito
della piaga [T11]. Fu difficile anche reclutare nuove truppe, viste le decimazioni, tanto che si arruolarono
anche i barbari [T11], che si insediarono non solo nelle aree di confine ma nella stessa Italia [T12]. Il calo
della popolazione con conseguente diminuzione delle entrare potrebbe spiegare la vendita dei beni
imperiali da parte di Marco Aurelio [T13], dato che non era possibile gravare ulteriormente sui
contribuenti sopravvissuti, tanto che l’imperatore dovette condonare 45 anni di tasse arretrate [T14].
T1 Ammiano Marcellino, Res gestae
T2, T3 Orosio, Historiae adversus paganus
T4, T5, T11, T13 Scriptores Historiae Augustae, De vita Marci Antonini Philosophi
T6, T9, T10
T7, T12, T14 Cassio Dione, Historia Romana
T8 Erodiano, Ab excessu divi Marci
Le riforme amministrative
Costantino sancì una sempre più netta separazione tra carriere civili e militari. Vi furono nuove cariche: il
quaestor sacrii palatii, a cui competeva la redazione di nuovi testi imperiali [T14]; il comes sacrarum
largitionum, che si occupava delle entrate fiscali in denaro e delle spese imperiali; il comes rerum
privatarum, che sovraintendeva il patrimonio imperiale [T16]; il magister officiorum, che sovraintendeva
tutto l’apparato burocratico [T15]. Con un’importante riforma si riorganizzò la prefettura in pretorio, in
cui i prefetti divennero una sorta di viceré, posti a capo di vastissime circoscrizioni territoriali, che
riunivano più diocesi [T17]. Fondò la nuova Roma sul sito dell’antica Bisanzio e la chiamò
Costantinopoli, consacrandone il suolo, cingendola con mura, favorendo l’afflusso di immigrati e
dotandola di strutture analoghe a Roma [T18, T19].
T14 Simmaco, Epistulae
T15, T16 Giovanni Lido, De magistrati bus
T17, T18 Zosimo, Historia Nova
T19 Socrate, Historia Ecclesiastica
LA RELIGIONE E L’IMPERO
Dalla grande persecuzione al cesaropapismo di Costantino
Diocleziano tentò, pur fallendo, di restaurare l’Impero pagano perseguitando i cristiani per 10 anni [T27].
Alcuni, quali Lattanzio, additano invero Galerio come vero responsabile, tuttavia proprio quest’ultimo nel
311 vi pose fine con un editto che concedeva ai cristiani la libertà religiosa [T28]. La svolta del
cristianesimo si ebbe con Costantino, già a partire dalla battaglia di Ponte Milvio aggiunse, a seguito di un
sogno, alle sue insegne il monogramma cristiano e si pose così sotto la protezione di Dio, che pregava e
ringraziava [T29]. Nel 313 promulgò, con Licinio, l’editto di Milano, che riaffermava la tolleranza di
tutte le religioni, compresa quella cristiana [T30]. Il sovrano portò avanti una politica filo cristiana,
intervenendo anche negli affari ecclesiastici, ad esempio partecipò, nel 325, al Concilio di Nicea primo
consiglio ecumenico, istituito per risolvere le controversie ariane, in cui l’imperatore si presentò con vesti
sfolgoranti adornate di pietre preziose, ma che nascondevano un’anima timorosa e veneranda di Dio
[T31]. Il cristianesimo, pur non essendo ancora religione di stato, era favorito; Costantino però non ruppe
del tutto con il paganesimo, a tal proposito si riferisce un rescritto imperiale con il quale l’imperatore
dettava norme per l’effettuazione dei ludi scenici e gladiatorii in Umbria e Tuscia e per la costruzione di
un tempio pagano, a Hispellum, alla famiglia imperiale, presso il quale celebrare i ludi. [T32]
T27 Orosio, Historiae adversus paganus
T28 Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica
T29, T31 Eusebio di Cesarea, Vita Constantini
T30 Lattanzio, De mortibus persecutorum
T32
La giurisprudenza postclassica
Vista la gran quantità di opere dei giuristi, che era ancora diritto vigente ed utilizzabile in ambito
processuale, furono emanate leggi con cui si stabiliva quali opere della giurisprudenza potessero essere
citate nei tribunali [T44].
T44 Codex Theodosianus
LE CLASSI SOCIALI
Il regime vincolistico
Molti cittadini in età imperiale verano vincolati alle proprie professioni, tra cui coloni, cui non era
neanche consentito allontanarsi dai campi, militari [T45, T46, T47, T48] e decurioni [T49]. I discendenti
avevano l’obbligo di ereditare la professione. Non tutte le attività erano però soggette a vincoli.
T45, T47 Codex Theodosianus
T46, T48 Codex Iustinianus
T49 Novella Valentiniani
Honestiores e humiliores
Si accentuò la differenza tra le due categorie. I senatori erano i più privilegiati, in base al rango essi
furono distinti in: illustres, spectabiles e carissimi; godevano di esenzioni e privilegi [T50]. L’ordine
equestre, che con Diocleziano occupava i vertici della carriera militare e burocratica, sparì ad inizi IV sec.
e i cavalieri ottennero il rango senatorio. Ancora, agli honestiores, che comunque avevano privilegi
diversi, appartenevano: militari, funzionari amministrativi, il clero. Agli humiliores appartenevano gli
esclusi dal potere e dalle ricchezze.
T50 Codex Theodosianus
LA STORIOGRAFIA PAGANA
Olimpiodoro
Anche della sua opera dell’Impero (404-425) vi sono solo frammenti, è stata comunque molto usata anche
da Zosimo. Olimpiodoro riteneva che le sciagure dell’Impero erano dovute all’abbandono dei vecchi
culti, con speciale riferimento all’assedio di Alarico, quando le autorità rimossero le immagini pagane e
fuso statue, quali la Virtus (coraggio) di metalli preziosi [T18].
T18 Olimpiodoro, in Zosimo, Historia Nova
Zosimo
Il funzionario imperiale la pensava come Olimpiodoro, anzi, secondo lui proprio la svolta cristiana
dell’Impero avrebbe posto termine a quest’ultimo. Zosimo racconta che Teodosio tenne un discorso in
senato, ancora ancorato alle tradizioni, in cui esortò i membri a seguire la fede cristiana per la liberazione
dal peccato; tuttavia i senatori non vollero rinunciare a quei culti tanto antichi quanto la città stessa;
Teodosio allora elencò gli elevati costi sacrificali e cerimoniali e l’intenzione di sopprimerli [T19]. Inoltre
ribadì come l’Impero tese a sfaldarsi in tempo breve, dopo gli scontri con i Goti nel 378, proprio per
l’abbandono dei culti, e cita ancora l’episodio della marcia di Valente verso la Tracia e l’incontro con un
uomo morente, dilaniato dalle frustate ma ancora vigile, per poi capitolare, metafora della fine che
avrebbe fatto l’Impero [T20]. L’uccisione di Graziano ad opera dell’usurpatore Massimo sarebbe causata,
a detta di Zosimo, dal rifiuto di Graziano di ricevere il titolo di pontefice massimo [T21] e tutti gli
sconvolgimenti del V sec. furono la vendetta degli dei [T22]. Non a caso, nel terremoto del 375 Atene fu
risparmiata, si ritiene grazie al sommo sacerdote che, dopo un sogno rivelatore, per ottenere la salvezza
associò al culto di Atena quello della statua di Achille [T23]; e Atene si salvò anche dall’assedio di
Alarico, che pare avesse avuto visione delle due divinità e avesse abbandonato l’opera di conquista [T24].
T19, T20, T21, T22, T23, T24 Zosimo, Historia Nova
L’APOLOGETICA
Disciplina teologica, nata a fine II sec., che cercava di dimostrare la verità della propria dottrina in difesa
di tesi avversarie. Tertulliano, nel suo “Apologeticum” (II sec.), riporta il rapporto di alcuni imperatori
con il cristianesimo, quindi i favorevoli o comunque tolleranti e gli oppositori [T1], inoltre mette a punto
una cronologia alternativa a quella romana, a partire da Mosè, primo profeta, che raccontò la creazione
del mondo fino al periodo a lui contemporaneo e predisse eventi futuri. Come lui, molto più antichi dei
personaggi della cronologia romana, vi erano altri profeti; inoltre tutte le leggi e le opere d’ingegno
utilizzate dai Romani possono essere ritrovate in quanto anticipate dalla dottrina divina, quindi non sono
invenzione Romana [T2]. L’apologetica ideò anche una filosofia della storia, che ritroviamo nel “De
civitate dei” di Agostino (V sec.) con al centro la provvidenza e il suo piano salvifico, nella cui attuazione
anche l’Impero romano aveva un ruolo [T3].
T1, T2 Tertulliano, Apologeticum
T3 Agostino di Ippona, De civitate Dei
EUSEBIO E LATTANZIO
Il “Chronicon” di Eusebio
Eusebio visse tra III e IV sec. e fu vescovo di Cesarea di Palestina. Tre sono le sue opere storiografiche. Il
“Chronicon” riassume dettagliatamente, per periodi, regni, personaggi di rilievo, la storia dei popoli
antichi: Caldei, Assiri, Ebrei, Egiziani, Greci, Romani. Dispone poi su colonne parallele le date
fondamentali della storia biblica e della storia universale, cioè quella dei diversi popoli. Come data
iniziale sceglie la nascita di Abramo considerata come prima data storica intorno al 2016/2013 a.C.
Nell’introduzione Eusebio esorta i lettori a non vantarsi di poter collocare con precisione i fatti nel tempo,
nessun popolo dispone di una cronologia completamente attendibile, il sistema cronologico deve essere
solo orientativo [T4]. In greco vi sono dei frammenti mentre l’opera intera ci è giunta in traduzione
armena e solo la seconda parte è in latino tradotta da Girolamo.
T4 Eusebio di Cesarea, Chronicon
OROSIO
Il prete spagnolo scrisse, su incarico di Agostino, “Historiae adversus paganus” dopo il sacco di Roma del
410, aveva lo scopo di difendere la dottrina cristiana dalle accuse dei pagani in un periodo ormai di
grande diffusione del cristianesimo e della storiografia cristiana di respiro universale, basata soprattutto
sul concetto di lotta al peccato e alla morte e vittoria finale [T14]. Orosio si basò su una cronologia che
permetteva di abbracciare storia sacra e politica (il re assiro Nino-Abramo, Cesare Augusto-Cristo) [T15];
nella sua opera infatti narrò sia storia religiosa che politica e militare, sentendo quasi la necessità di
scusarsi per il ricorso a fonti provane, utili per precisazioni cronologiche e per la successione coerente dei
fatti [T16]. Aspetto politico-militare a cui Orosio ha dato importanza rilevante, sono i rapporti tra barbari
e Romani, che si traduce però, in chiave religiosa, come la pacificazione prevista dalla provvidenza, di cui
imperatori romani e re barbari devono farsi strumento [T17]. Tuttavia, successivamente Salviano
considerò le invasioni barbariche come punizione per la degenerazione morale della cristianità [T18,
T19].
T14, T15, T17 Orosio, Historiae adversus paganus
T16 Sulpicio Severo, Chronica
T18, T19 Salviano, De gubernatione
I BARBARI E L’IMPERO