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Játékok (Giochi) nasce all’insegna della libertà.

Kurtág tentò di raggiungere il più difficile degli obiettivi: scrivere pezzi


pianistici pedagogici che non impartissero subito al bambino rigide
costrizioni; che non lo mettessero subito di fronte al dictat minaccioso “si
fa così...”; che non venisse “torturato” con compiti per lui apparentemente
impossibili.

Ma, al contrario, lo incoraggiassero a fare ciò che avrebbe fatto comunque


se lasciato solo davanti allo smisurato e oscuro strumento: sgambettare
su e giù per la tastiera, stendersi su di essa con i gomiti, colpirlo coi pugni
violentemente oppure abbassare piano piano un tasto in modo che non
suoni. E poi premere i pedali, battere sul mobile...ascoltare il suo respiro.

Játékok incoraggia l’esecutore a utilizzare pienamente la propria


immaginazione; la pagina scritta sollecita subito la fantasia e più
attentamente la si legge, più essa ci fa pensare.

Il modo di suonare, diverso da quello tradizionale, invita alla gioia del


movimento e offre al giovane esecutore l’esperienza di un virtuosismo
superiore alle proprie possibilità.

Kurtág ci insegna che la musica può esistere anche senza suoni e


ritmi precisi; ma non senza il “gesto” e il desiderio elementare di
comunicare.

“Si può scrivere quasi con niente” dice: con una serie di clusters si può
raccontare una storia; una nota è sufficiente a creare una danza; tre note
bastano per combattere una battaglia.

Queste piccole composizioni, che esortano alla libertà i principianti,


ebbero un effetto liberatorio anche per il compositore: dopo i Sayings of
Péter Bornemisza, la composizione di piccole unità musicali e la creazione
di un ordine fra poche note si rivelò, agli inizi degli anni ‘70, come la via
giusta per uscire dalla crisi creativa che attraversava.

Anche lui si liberò dal “si fa così...”; anche lui non doveva dedicarsi ad una
singola forma rigida e prestabilita; e se le idee musicali riaffioravano in
infinite e fantastiche varianti (come i Flowers we are… , i Corali o le
Ligature che ricorrono per tutta la serie), questo non era altro che lo
specchio del moderno: non più la Verità monolitica delle epoche passate,
ma frammenti schegge lampi di verità provvisorie.

Dopo il IV Volume ( per 4 mani e due pianoforti), che fa da spartiacque tra


i sette, lo scopo pedagogico di Játékok è meno preminente; al suo posto
c’è una sorta di diario intimo il cui contenuto caratterizza il proprio
creatore " più accuratamente di una biografia”, per usare le parole di
Bartók: nulla definisce un uomo più di come suona e di come lavora; nei
casi più fortunati non c’è differenza tra i due.

Ricordi, amicizie, messaggi personali, ritratti di colleghi o di ispiratori, la


musica popolare, il canto gregoriano: in una parola, le memorie e il lavoro
di una vita.

Ma Játékok non è solo un’antologia del linguaggio musicale di Kurtág o


una specie di guida al suo mondo musicale: è un organismo vivente, è,
come qualsiasi diario, un’opera in progress.

Crescendo è diventata il suo laboratorio compositivo e noi possiamo


osservare le tracce coerenti delle sue idee musicali, l’apparizione e lo
sviluppo dei suoi “gesti” caratteristici.

Così è naturale che frammenti di Játékok riemergano in modi sempre


diversi negli altri suoi lavori . Forse in questo senso la raccolta differisce
da Mikrokosmos di Bartók, anche se rimane il suo più vicino precedente.

Le trascrizioni da Bach, lungi dall’essere ospiti clandestini in questa


collezione, al contrario, suonano meravigliosamente bene, circondati
dall’aura spirituale di Kurtág.

Negli ultimi anni il vecchio Haydn poteva sopportare solo il suono del
clavicordo; allo stesso modo il tardo Kurtág chiede l’utilizzo del “pianino”,
l’umile pianoforte verticale, per di più col pedale della sordina abbassato,
quello che di solito si usa per non disturbare i vicini; e non è difficile capire
il perché: il suono è pervaso da una luce e un’intimità che irradia
dall’interno, diafano ed essenziale; un mondo sonoro in cui il superfluo è
semplicemente impensabile.

E’ la voce di Kurtág.

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