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“Si può scrivere quasi con niente” dice: con una serie di clusters si può
raccontare una storia; una nota è sufficiente a creare una danza; tre note
bastano per combattere una battaglia.
Anche lui si liberò dal “si fa così...”; anche lui non doveva dedicarsi ad una
singola forma rigida e prestabilita; e se le idee musicali riaffioravano in
infinite e fantastiche varianti (come i Flowers we are… , i Corali o le
Ligature che ricorrono per tutta la serie), questo non era altro che lo
specchio del moderno: non più la Verità monolitica delle epoche passate,
ma frammenti schegge lampi di verità provvisorie.
Negli ultimi anni il vecchio Haydn poteva sopportare solo il suono del
clavicordo; allo stesso modo il tardo Kurtág chiede l’utilizzo del “pianino”,
l’umile pianoforte verticale, per di più col pedale della sordina abbassato,
quello che di solito si usa per non disturbare i vicini; e non è difficile capire
il perché: il suono è pervaso da una luce e un’intimità che irradia
dall’interno, diafano ed essenziale; un mondo sonoro in cui il superfluo è
semplicemente impensabile.
E’ la voce di Kurtág.