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gli elettroni Nell'Unità C1 abbiamo considerato l'elettrone come una particella in movimento
regolare attorno al nucleo. In realtà, come la luce mostra talvolta comportamenti da
corpuscolo, così l'elettrone agisce a volte in un modo che può essere spiegato solo se lo si
considera un'onda. Niels Bohr, per esempio, aveva intuito che possono esistere soltanto
alcune orbite sulle quali l'elettrone è in grado di muoversi senza perdere energia. Perché ciò
ac- cade? Nessuno era ancora riuscito a spiegarlo. Se però consideriamo l'elettrone come
un'onda, perché esso descriva un'"or- bita", è necessario che sia un'onda stazionaria, ossia
un'onda che a ogni "giro" si sovrappone esattamente a se stessa: in caso contrario infatti si
avrebbe in- terferenza distruttiva el'onda si annienterebbe. Ma perché questo accada, la
lunghezza dell'orbita dev'essere un multiplo intero della lunghezza d'onda [ 1]. Solo le orbite
con questa proprietà, dunque, sono possibili. In realtà l'elettrone può essere a volte
considerato corpuscolo e a volte onda. Questo risulta essere un comportamento proprio di
tutta la materia con scala uguale o inferiore a quella degli atomi. Nel mondo microscopico
diviene importante anche un'altra proprietà che non riscontriamo a livello macroscopico: non
è possibile misurare con grande precisione tutte le grandezze necessarie a descrivere il
moto di un corpo. Immaginiamo, peresempio, di voler determinare in laboratorio la posizione
di un elettrone mediante irraggiamento con fotoni. Affinchél'elettrone possa essere
individuato deve essere colpito da un fotone che, dopo la collisione, venga deviato verso
l'osservatore. Il fotone però, interagendo con l'elettrone, tra- smette a esso energia,
modificandone velocità e direzione. Per evitare questo pro- blema si può scegliere di usare
un fotone a bassa energia, ma allora la lunghezza dell'onda a esso associata è così grande
che non riuscirà a intercettare l'elettrone o, nel migliore dei casi, non ne darà un'immagine
"nitida", rendendo così impossibile determinarne la posizione [► 2]. La situazione venne
riassunta dal fisico tedesco Werner Karl Heisenberg (1901- 1976) nel principio di
indeterminazione:
PENSANDOCI MEGLIO La quantità di moto (p) di un corpo è il prodotto della sua massa per
la sua velocità. Possiede dunque una maggiore quantità di moto un atleta di massa pari a 75
kg che corre alla velocità di 5mso un proiettile da 1 kg sparato da un cannoncino alla
velocità di 500 m-s?
Cerchiamo di comprendere meglio il significato del principio di indeterminazione facendo un
paragone con la tecnica della fotografia. Se fotografiamo un oggetto in movimento è difficile
scattare un'istantanea che renda il senso della velocità e allo stesso tempo rappresenti bene
l'oggetto: se scegliamo tempi d'esposizione molto brevi otterremo un'immagine ben definita
ma "ferma"; se scegliamo tempi più lunghi otterremo immagini mosse, che rendono bene la
sensazione della velocità ma non permettono di distinguere bene l'oggetto. Il principio di
indeterminazione non è causato dalla nostra incapacità di osservare i fenomeni, ma dalla
natura ondulatoria delle particelle. Dunque non ha alcuna ri- levanza quando si ha a che fare
con corpi macroscopici; esiste invece un limite al di sotto del quale il principio di
indeterminazione non ci consente di osservare la realtà. Accade qualcosa di simile con lo
schermo di un televisore: fino a un certo punto, più ci avviciniamo più l'immagine ci appare
nitida; oltre un certo limite i dettagli diventano sempre meno precisi, fino a confondersi in un
ammasso di pixel indistinguibile [ 3). Il modello atomico di Bohr, che era stato avvalorato
dalla natura ondulatoria dell'e- lettrone, viene accantonato proprio da quest'ultima: non ci
sono orbite definite sulle quali si pensava viaggiasse l'elettrone e nelle quali in ogni istante
velocità e posizione potevano essere esattamente calcolate.
Per la meccanica classica (il ramo della fisica che studia i movimenti di uno o più corpi) è
dunque impossibile descrivere il comportamento di sistemi di dimensioni atomiche. Questo
rese necessaria un'interpretazione nuova dei fenomeni studiati. Nel 1926 il fisico austriaco
Erwin Schrödinger (1887-1961) elaborò un'equazione matematica (l'equazione d'onda [-4])
in grado di rappresentare l'elettrone come un'onda stazionaria che ne distribuisce la massa
e la carica attorno al nucleo. L'equazione di Schrödinger è particolarmente complessa e le
sue soluzioni non sono numeri, ma funzioni (funzioni d'onda, indicate con la lettera greca y,
"psi"). Esse sono collegate alla probabilità di trovare gli elettroni in un determinato spazio.
Proprio il concetto di "probabilità di trovare gli elettroni" ci consente di dare una
rappresentazione dell'atomo non rigorosa ma facilmente comprensibile. Mentre il modello
atomico "planetario" di Bohr affermava che gli elettroni si muovono intorno al nucleo
secondo orbite circolari, il modello che deriva dalle idee di Hei- senberg e Schrödinger,
definito quanto-meccanico, definisce solo le regioni dello spazio in cui è più alta la
probabilità di trovare l'elettrone. Tali regioni furono chiamate orbitali.
L’orbitale è la zona dello spazio in cui la probabilità di trovare l’elettrone è maggiore del
95%.
Un buon modo per rappresentare un orbitale è immaginare di foto- grafare molte volte
l'elettrone "corpuscolo" attorno al nucleo. So- vrapponendo tutti gli scatti otterremmo un
risultato rappresentabile con tanti puntini (uno per ogni istantanea dell'elettrone) [ 5). La
"nuvola elettronica" che viene cosi a formarsi rappresenta la distribu- zione della probabilità
di trovare l'elettrone; la zona dove i punti sono più fitti è l'orbitale.
Il numero quantico principale può assumere tutti i valori interi compresi tra 1e 00 anche se,
quando l'atomo non è eccitato, il massimo valore è 7. Il numero totale di orbitali presenti nel
livello n è n?.
In un dato livello energetico, il numero quantico secondario I può assumere tumii valori interi
compresi tra 0 e n-1.A seconda di tale valore, la forma dell'orbitale è:
• sferica (orbitali s), per l = 0;
• a due lobi (orbitali p), per 1= 1;-DOSLE SAUAD
• a quattro lobi (orbitali d), per l = 2; •
a otto lobi (orbitali f), per 1 = 3;
• molto più complessi, ma utilizzati solo da atomi eccitati (orbitali g. h), per 1= 4el = 5. Il
gruppo di orbitali che condividono lo stesso valore di lè chiamato sottolivello. Per un dato
valore di I, e quindi per un certo sottolivello, il numero quantico ma- gnetico può assumere
tutti i valori interi tra -le +1, zero compreso, il che significa che i suoi valori possibili sono in
tutto 21+ 1. Il numero quantico di spin può assumere soltanto i valori + 1/2e-1/2 e determina
il numero di elettroni che possono condividere un orbitale. Poiché i campi ma- gnetici
generati dalla rotazione consentono di occupare lo stesso orbitale solo a elettroni con spin
opposto, al massimo ce ne possono stare due [► 6]. Quest’ultima considerazione deriva dal
principio di esclusione di Pauli (dal nome del fisico austriaco Wolfgang Pauli):
due elettroni nello stesso atomo non possono avere tutti e quattro i numeri quantici uguali.
In base a questo principio il numero massimo di elettroni che possono stare nel livello n è
pari al doppio degli orbitali possibili, cioè 2nº. Osserviamo la situazione per i primi tre livelli
energetici [► Tab. 1].
Osserviamo un modo sintetico per rappresentare quali orbitali di un atomo sono occupati e
da quanti elettroni [» 10].
I moltissimi studi condotti per definire le leggi ponderali avevano evidenzite dono il XIX
secolo, molte proprietà e molte somiglianze tra alcuni elementi tanto che essi vennero riuniti
in "famiglie naturali", come quella dei "metal calini", formata da sodio, litio e potassio, o
quella degli "alogeni", costituita da fluoro, cloro, bromo e iodio. Nel 1869 il chimico russo
Dmitrij Ivanovič Mendeleev (1834-1907) propose una "classificazione degli elementi" che si
rivelò di importanza fondamentale. Dopo aver determinato la massa atomica di tutti i 63
elementi allora conosciuti. Mendeleev prese in considerazione le formule dei loro composti
con l'ossigeno e con il cloro e alcune proprietà fisiche, come la densità, la durezza e il punto
di fusione. Egli ordinò gli elementi secondo la loro massa atomica crescente, disponendoli in
colonne e allineandoli quando presentavano proprietà simili. Apparve evidente che le
proprietà degli elementi si ripetevano con regolarità periodica e ordinata, per cui tale
disposizione prese il nome di tavola periodica degli elementi [► 11]. Il lavoro di altri
scienziati evidenziò che le proprietà degli elementi sono legate al loro numero atomico.
Poiché però il nucleo non interviene nelle reazioni chimi- che, le proprietà di un elemento, e
cioè il tipo di reazioni a cui può dar luogo e la natura dei composti che può formare, devono
trovare una spiegazione nel numero di elettroni che possiede e nel modo in cui essi sono
disposti, ovvero nella confi- gurazione elettronica degli atomi.
Il comportamento chimico di un elemento è legato al numero di elet- troni presenti nel livello
più esterno (livello di valenza).
Latavola periodica oggi maggiormente utilizzata deriva da un'intuizione del chimico svizzero
Alfred Werner (1866-1919), successivamente elabo- rata alla luce del modello quanto-mec-
canico. Gli elementi vi sono inseriti in funzione della loro configurazione elettronica, vale a
dire dell'ordine di riempimento degli orbitali. Grazie a questa impostazione hanno potuto
trovare una naturale sistema- zione anche gli elementi che sono stati via via scoperti o
prodotti artificial- mente, fino agli attuali 118. Figura 11 Nella prima tavola periodica di
Mendeleev gli elementi simili erano ordinati in righe. I molti punti di domanda indicavano
elementi non ancora noti.
Nella tavola sono distinguibili quattro blocchi, corrispondenti ai primi quattro sottolivelli e
quindi ai tipi di orbitali s, p, d, f [+ 12]. Ogni blocco ha tante colonne quanti sono gli elettroni
che possono essere ospitati nel corrispondente sottolivello: due per gli orbitali di tipo s, sei
per gli orbitali di tipo p, dieci per quelli di tipo d e infine quattordici negli orbitali di tipo f. Gli
elementi risultano disposti su sette righe di diversa lun- ghezza, tante quanti sono i livelli di
energia che ospitano elet- troni quando questi sono nel loro stato fondamentale.
Abbiamo già visto le configurazioni elettroniche degli ele- menti dei primi due periodi. Il terzo
periodo ospita otto elementi con i quali, in se- quenza, si riempiono gli orbitali s e quelli p.
Inizia con il sodio, con configurazione Is 2s 2p°3s', e termina con l'argo (1s 2s 2p°3s*3p°).
Per semplicità, la configurazione degli ele- menti con molti elettroni si rappresenta facendo
riferimento a quella dell'ultimo elemento della riga che lo precede. Così la configurazione
dell'argo si rappresenta con [Ne] 3s 3p. In questo modo si evidenziano gli elettroni del livello
di va- lenza, gli unici che hanno importanza nella determinazione delle proprietà chimiche.
Negli atomi degli elementi appartenenti al quarto periodo vengono riempiti nell'ordine, in
base alla regola della diago- nale, i sottolivelli 4s, 3d e 4p. Il periodo comprende in totale 18
elementi, visto che 18 sono gli elettroni che quei sottoli- velli possono complessivamente
ospitare (2 nel 4s, 10 nel 3d, 6 nel 4p). Gli elementi dallo scandio al rame, caratterizzati dal
riempimento progressivo degli orbitali del sottolivello sono detri 3d, sono detti metalli di
transizione. Il quinto periodo è del tutto analogo al quarto e comprende 18 elementi. Inizia
con il rubidio ([Kr] 5s') e finisce con lo xeno ([Kr] 4d105s²5p°). Il sesto periodo è costituito da
32 elementi, poiché vengono ri- empiti, nell'ordine, i sottolivelli 6s, 4f, 5d e 6p. Rispetto ai
due periodi precedenti vi sono 14 elementi in più, corrispondenti al riempimento dei sette
orbitali 4f. Per la particolare forma degli orbitali 4f, tutti questi elementi hanno
comportamento chimico simile al lantanio e vengono pertanto chiamati lanta- nidi (o
lantanoidi). Spesso vengono indicati con il loro nome originario, terre rare, dovuto alla loro
difficile reperibilità. Del settimo periodo, che inizia con il francio ([Rn] 7s'), si co- noscono 32
elementi (fino al 118), visto che al crescere di Z il nucleo diviene sempre più instabile. Gli
elementi caratte- rizzati dal riempimento del sottolivello 5f hanno proprietà chimiche simili a
quelle dell'attinio e sono pertanto denomi- nati attinidi (o attinoidi).
Si definisce gruppo ogni insieme di elementi appartenenti alla stessa colonna Essi banno lo
stesso numero di elettroni nel loro guscio più esterno l-1
Per esempio, gli elementi della seconda colonna costituiscono un gruppo perché hanno le
configurazioni elettroniche seguenti: berillio [He] 2s², magnesio [Ne] 3. calcio [Ar] 4s,
stronzio [Kr] 5s², bario [Xe] 6s', radio [Rn] 7s³. Se analizziamo la disposizione degli elementi
nella tavola periodica notiamo che le "famiglie naturali" (ovvero gli insiemi degli elementi con
comportamento chi- mico analogo) presentano lo stesso tipo di configurazione elettronica
esterna; possiamo perciò affermare che:
I gruppi vengono indicati con numeri progressivi che vanno da sinistra verso de- stra, da 1 a
18. Molti gruppi hanno anche nomi particolari derivanti dalle loro ca- ratteristiche o dal
comportamento dei loro composti.
Raggio atomico
Molte proprietà periodiche degli elementi dipendono dalle dimensioni dei loro atomi.
Possiamo immaginare che la disposizione dell'insieme degli elettroni attorno al nucleo sia
tale da formare approssimativamente una sfera: la dimensione dell'a- tomo è in relazione
diretta con la misura del suo raggio (raggio atomico) [► 14]. Per poter giustificare la
variazione delle dimensioni dei raggi atomici degli elementi che si incontrano "scendendo"
lungo un gruppo, si deve tener conto che gli elet- troni vanno a collocarsi in orbitali a numero
quantico principale sempre più alto, quindi più lontani dal nucleo. All'interno di un periodo gli
elettroni aumentano di numero, ma rimangono sempre nello stesso livello di energia, mentre
il con- temporaneo aumento di protoni li attrae in modo via via crescente, così che essi
tendono ad avvicinarsi di più al nucleo [ 15]. Dunque:
Sappiamo (Unita C1) che l'energia necessaria per allontanarel'elettrone piler da up atomo allo stato
gassoso si dice energia di prima ionizzazione (E atomo + E.I. → ione + elettrone / L'atomo che perde
uno o più elettroni, ma mantiene inalterato il numern di toni del nucleo, assume una o più cariche
positive dando luogo a uno ione posi. tivo (o catione) [ 16a). Quando un atomo, allo stato gassoso,
acquisisce un elettrone, libera una certa quantità di energia, detta affinità elettronica (A.E.): atomo +
elettrone + ione + A.E. Il nuovo elettrone conferisce una carica negativa all'atomo, che diviene cosi
uno ione negativo (o anione) [ 16b].
Gli andamenti descritti sono in relazione con il valore del raggio atomico. Infatti, più gli
elettroni sono lontani dal nucleo, minore sarà l'energia necessaria per di- staccarli, L'energia
di ionizzazione è minima nei metalli alcalini, che danno facil- mente ioni positivi, e massima
nei gas rari. Anche l'affinità elettronica è collegata al raggio atomico: quanto più piccolo è
l'atomo, tanto più vicino al nucleo si col- locherà l'elettrone acquisito e tanto maggiore sarà la
quantità di energia liberata.
Elettronegatività
Tra i vari criteri utilizzati per calcolare l'elettronegatività di un elemento, oggi il più diffuso è
quello proposto dal chimico statunitense Linus Pauling (1901- 1994), che ha definito una
scala arbitraria assegnando il valore minimo (0,7) al francio e il valore massimo (4) al fluoro.
Con questo metodo non è calcolabile l'elettronegatività dei gas nobili, cui è attribuito il valore
0. Gli elementi più elettronegativi si trovano in alto a destrae quelli meno elettronegativi in
basso a si- nistra [> 17].
Si dice legame chimico l'unione tra atomi, uguali o diversi, che dà luogo a uno stato più
stabile dal punto di vista energetico.
Tra gli atomi agiscono forze attrattive (nucleo-elettroni) e repulsive (nucleo-nu- cleo ed
elettroni-elettroni) la cui intensità dipende dalla distanza tra gli atomi stessi, come afferma la
legge di Coulomb[► 1]. Via via che la distanza tra due atomi dimi- nuisce, le forze attrattive
aumentano di intensità fino a che esse vengono bilanciate dalle forze repulsive elettroni-
elettroni e nucleo-nucleo. A questa distanza si ha una situazione di equilibrio e di stabilità,
che corrisponde a un minimo di energia del sistema costituito dai due atomi. La distanza tra
due atomi alla quale il sistema da loro costituito assume la minima energia si chiama
distanza di legame. La distanza di legame tra due atomi varia in funzione delle loro
dimensioni, delle rispettive configurazioni elettroni- che, del tipo di legame che li unisce e, se
fanno parte di una molecola più complessa, dell'influenza di eventuali altri le- gami al suo
interno. Quando un legame si forma, si libera una certa quantità di energia, chiamata
energia di legame, uguale all'energia necessaria per rompere il legame stesso.
La prima interpretazione in senso moderno dei legami chimici si deve al chimico statunitense
Gilbert Newton Lewis (1875-1946), che nel 1916 identificò negli elet troni del livello esterno
(livello di valenza) i responsabili dell'unione tra atomni. Egli si basò sul comportamento dei
gas nobili, che, in condizioni normali, non formano composti e quindi non tendono a legarsi.
Sappiamo che gli otto elettroni dei gas nobili si dispongono secondo una confi- gurazione
s'p", con i sottolivelli s ep completamente occupati. Tale situazione è energeticamente
favorevole anche per l'elio (1s'), che con due elettroni completa l'unico orbitale del primo
livello. Lewis non conosceva l'aspetto degli orbitali, ma concluse che la presenza di otto
elettroni (o due elettroni, per atomi vicini all'elio) nella parte più esterna dell'a- tomo
rappresenta una condizione di particolare stabilità, alla quale tendono gli atomi di tutti gli
elementi. Egli enunció così la regola dell'ottetto:
ogni atomo tende a cedere, acquistare o mettere in comune un numero di elet- troni tale da
raggiungere un ottetto (o duetto) completo nel livello più esterno.
Lewis propose anche una simbologia attraverso la quale si segnano dei puntini, disposti
intorno al simbolo dell'elemento, per rappresentare gli elettroni del li- vello più esterno (quelli
cioè coinvolti nella formazione dei legami), mettendone al massimo due per ogni lato, ma
con l'accorgimento di accoppiarli solo dopo aver sistemato i primi quattro separatamente.
Nella rappresentazione delle molecole, la coppia di elettroni che viene ad appar- tenere
contemporaneamente a due atomi è detta coppia di legame e la rappre- sentazione che si
ottiene è chiamata formula di Lewis [ 2). Èevidentel'attenzione che si pone sugli elettroni di
valenza per interpretare i legami; questo consente anche di spiegare la somiglianza delle
proprietà degli elementi dello stesso gruppo: le loro configurazioni si presentano infatti uguali
[► Tab. 1). Intorno al 1930 si compresel'esistenza degli orbitali (vedi Unità C2) e Linus
Pauling riformulò il concetto di legame chimico tenendo conto di questa nuova realtà. Le sue
considerazioni portarono alla formulazione della teoria del legame di valenza (Valence Bond
o VB): il tipo e il numero di legami che gli atomi sono in grado di stabilire si spiegano
tenendo presente che gli orbitali semioccupati di atomi di- versi si sovrappongono. In altre
parole, Pauling evidenziò che per formare legami chimici è necessaria la presenza
nell'atomo di elettroni spaiati, vale a dire di orbitali incompleti.
La simbologia di Lewis evidenzia già, almeno graficamente, la teoria VB: la dispo- sizione
degli elettroni intorno al simbolo dell'elemento permette di capire a colpo d'occhio quanti
orbitali del suo atomo sono completamente occupati e quanti sono solo semioccupati o vuoti
e di prevedere quindi la sua disponibilità a formare certo numero di legami. Con le
conoscenze che ormai abbiamo acquisito possiamo analizzare quali tipi di legame si
possono formare tra atomi uguali o diversi [> Tab. 2].
Distinguiamo i legami chimici in primari e secondari [► 3]. Tra i legami primari vi sono tutte
le attrazioni tra atomi che danno origine a loro aggregati, molecole o cristalli.
I legami chimici primari intramolecolari sono forze attrattive molto intense, dovute a
interazioni dirette tra atomi, che appartengono allo stesso aggregato e si possono
classificare in tre tipi: covalente, ionico e metallico.
I legami chimici secondari intermolecolari sono tutte le forze attrattive che tengono unite tra
loro le molecole, polari o apolari, e ne giustificano lo stato di aggregazione.
Ilegami chimici secondari sono in genere legami deboli, anche cento volte meno intensi di un
legame primario. Ma su ogni molecola spesso ne agiscono diversi contemporaneamente,
cosi che essi assumono grande rilevanza nel determinare molte proprietà delle sostanze,
come lo stato fisico, il punto di fusione, il punto di ebollizione e la densità.
Consideriamo la formazione di un legame chimico tra due atomi uguali, per esem- pio la
molecola di F2: per ogni atomo di fluoro la rappresentazione di Lewis pre- vede sette
elettroni, distribuiti in tre coppie (o doppietti elettronici) più un elet- trone spaiato. Quando
due atomi di fluoro si avvicinano, l'elettrone spaiato di ciascun atomo interagisce con
entrambi i nuclei e ne viene attratto. Si forma cosi una coppia di legame che fa parte
contemporaneamente di tutti e due gli atomi e consente loro di raggiungere l'ottetto [- 4].
Ciascun atomo di fluoro viene infatti ad avere at- torno al proprio nucleo otto elettroni, che gli
permettono di raggiungere la mas- sima stabilità.
Il legame formato da due atomi con una differenza di elettronegatività nulla (AE = 0), che
mettono in comune elettroni attraendoli in ugual modo, si chiama covalente puro o
omopolare.
Ogni atomo può formare tanti legami covalenti quanti sono i suoi elettroni spaiati. Come
abbiamo detto, Pau- ling spiega i legami covalenti con la sovrapposizione di orbitali
incompleti. Nella molecola di fluoro sono coin- volti gli orbitali atomici incompleti 2p, di
ciascuno degli atomi. E una sovrapposizione frontale, poiché avviene nella direzione
dell'asse che congiunge i due nuclei. In questo caso si ha la formazione di un legame o
(sigma), che corrisponde a un legame forte[+5]. Un legame o può essere generato dalla
sovrapposizione frontale di due or- bitali s [ Sa), di un orbitale s e uno p [- Sb] o di due or-
bitali p [- Sc). L'ossigeno ha una molecola biatomica, che possiamo rap- presentare con la
simbologia di Lewis [ 6a]. Il doppio legame assicura a entrambi gli atomi un ottetto completo
ma deve comportare due sovrapposizioni, una sola delle quali può essere frontale (legame
o). Il secondo legame, più debole del primo, consiste in una sovrappo- sizione laterale di due
orbitalip paralleli e viene deno- minato legamen (pi greco) [ 6b]. Notiamo che nella so-
vrapposizione laterale si sovrappongono entrambi i lobi dell'orbitale p, ma si forma un solo
legame, che si sviluppa sotto e sopra la direzione individuata dal legame o. Consideriamo
ora l'azoto. La sua molecola è formata da due atomi, ciascuno con tre elettroni spaiati.
Questi formano, secondo Lewis, tre coppie di legame o danno luogo, secondo Pauling, a tre
sovrapposizioni di or- bitali, la cui natura può essere dedotta dal tipo di orbitali atomici
interessati. Una sola sovrapposizione può essere frontale e dà quindi luogo a un legame o,
mentre le altre due sono di tipo a[• 7]. Il comportamento che abbiamo descritto nelle
molecole di ossigeno e di azoto è generale: quando due atomi in- staurano legami multipli,
uno solo è di tipo a, mentre tutti gli altri sono di tipo a. Un legame multiplo tiene vinco- lati
due atomi più saldamente che non un legame singolo, perché è più corto di un legame
singolo e la sua energia di formazione più alta. Un atomo, inoltre, tende ad avere il maggior
numero pos- sibile di elettroni spaiati perché questo lo rende in grado di stabilire il massimo
numero di legami possibili. Per carbonio, per esempio, tale situazione si realizza promuo-
vendo un elettrone dall'orbitale 2s al 2p,. Gli elettroni spa- iati risultano pertanto quattro, il
che spiega la sua predi- sposizione a formare quattro legami [+ 8]. Osserviamo che in tal
modo il carbonio presenta la stessa capacità di legame che era stata evidenziata nella
notazione di Lewis [+ Tab. 1).