Sei sulla pagina 1di 108

Il trionfo del Barocco

Bernini vive orgogliosamente il suo tempo ricevendone fama, onori e


ricchezza. Figlio di un modesto scultore di origine toscana, Gian
Lorenzo nasce a Napoli nel 1598 ma la sua formazione avviene
principalmente a Roma dove si trasferisce con la famiglia nel 1605 e dove
svolgerà la sua brillante attività artistica sino alla morte, sopraggiunta nel
1680.
Bernini non è solo scultore ma anche architetto, pittore scenografo,
commediografo e disegnatore.
La sua carriera si svolge principalmente all’interno della corte papale ,
della quale diventa il principale rappresentante artistico e il portavoce
ideologico.
L’adesione dell’arte berniniana alle teorie controriformiste della
Chiesa di Roma è così totale da formare con esse un tutt’uno. Bernini
porta alla massima fioritura il linguaggio barocco dando concreta
attuazione ai grandi piani urbanistici con i quali i pontefici romani
avevano intenzione di sottolineare la grandiosità e la potenza della
Chiesa.
Gian Lorenzo Bernini o anonimo seguace –Autoritratto,
1635 circa- Olio su tela, cm. 46 x 32 Madrid, Prado
L’immensa libertà espressiva di Bernini tradisce ogni regola del classicismo, pur
conservandone l’armonia compositiva e della forma; con lui tramonta
definitivamente il concetto rinascimentale di arte come imitazione della realtà.

La scultura greco- Il virtuosismo manierista La potenza muscolare


romana di Gianbologna di Michelangelo
Scipione Borghese, nipote del papa Paolo V e grande collezionista
di antichità, tra il 1618 e il 1625 commissionò al giovane Bernini
alcuni gruppi statuari (Enea, Anchise e Ascanio, Ratto di
Proserpina, Apollo e Dafne, David) destinati alle sale della
propria villa suburbana sul Pincio, oggi Galleria Borghese.
Essi rappresentano l’incarico più importante dell’inizio dell’attività
di Bernini poiché erano destinati ad integrare la collezione di
statue antiche possedute dal cardinale; uno dei dibattiti più
graditi agli intellettuali del tempo era, infatti, quello della
superiorità degli antichi o dei moderni. Nelle sue opere Bernini
seppe dare pienamente espressione a una nuova concezione della
scultura caratterizzata dal forte dinamismo delle forme, colte
nell’istante del movimento, e dalla spettacolarità teatrale delle
pose.
https://www.raiplay.it/video/2016/12/La-Liberta-Di-Bernini-d43fb201-1bfb-4b6e-813d-
c56fd7e14e09.html Tommaso Montanari spiega le statue Borghese

http://www.treccani.it/magazine/webtv/videos/Int_Anna_Coliva_galleria_borghese.html
approfondimento su Scipione Borghese
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Scipione Borghese, 1632 ca.
https://www.artesvelata.it/david-bernini-statue-borghese/ pagina con podcast Marmo. Roma, Galleria Borghese.
Il Cardinale Scipione Borghese (1576-1633), nipote del pontefice regnante Paolo V, nonché uno degli uomini più
potenti di Roma, nel 1618 gli commissionò i quattro gruppi scultorei che avrebbero fatto la sua fortuna di artista: le
cosiddette Statue Borghese, che ancora oggi si trovano a Roma, nella Galleria Borghese. Si tratta dell’Enea e
Anchise, del Ratto di Proserpina, del David e dell’Apollo e Dafne.
Gian Lorenzo
Bernini,
Enea e Anchise,
1618-19.
Marmo,
altezza 2,20 m.
Roma, Galleria
Borghese.
Il gruppo con Enea e Anchise fu il primo a cui il giovanissimo
artista, appena ventenne, mise mano. Il soggetto è ripreso dal
secondo libro dell’Eneide di Virgilio, che racconta della fuga di
Enea da Troia in fiamme. Secondo il testo virgiliano, Enea tentò
una disperata difesa della propria città durante il terribile incendio
provocato dai Greci. Preso atto che la fine di Troia era segnata, egli
decise di fuggire, portando con sé il padre Anchise e il figlio
Ascanio.
L’episodio offriva lo spunto per esprimere un significato storico-
teologico e celebrativo del committente: l'imperium, trasferito da
Troia a Roma attraverso Enea, sarebbe poi passato alla Chiesa e
al pontefice e sarebbe stato esercitato grazie al sostegno del giovane
cardinal nepote Scipione.

https://www.youtube.com/watch?v=Skx5vVFaOUo video Bernini - Enea e Anchise

Gian Lorenzo Bernini, Enea e Anchise, 1618-19. Marmo, altezza 2,20 m. Roma, Galleria Borghese.
La scultura è realizzata in marmo bianco. È alta 2,2 metri, sorge su un
piedistallo di 113 centimetri. Le figure del gruppo scultoreo sono realizzate a
grandezza naturale e rappresentano tre generazioni della famiglia di
Enea. Tutto ruota intorno la figura di Enea, la cui posa riprende quella del
Cristo scolpito da Michelangelo in Santa Maria sopra Minerva.
Lavorando sulla posizione dei corpi degli eroi e su una composizione
ricca di dinamismo e del senso di movimento, Bernini ha utilizzato le
idee di opere scultoree precedentemente eseguite da altri artisti, per
esempio Il Ratto delle Sabine del Giambologna.
Michelangelo
Buonarroti,
Cristo
Risorto,
o Cristo della
Minerva, 1520

Giambologna,
Ratto della
Sabina, 1583.
Marmo,
altezza 4,10
m. Firenze,
Piazza della
Signoria,
Gian Lorenzo Bernini, Enea e Anchise, 1618-19. Loggia dei
Marmo, altezza 2,20 m. Roma, Galleria Borghese. Lanzi.
Enea sorregge il padre anziano Anchise, che oramai è paralizzato e non
potrebbe scappare da solo, il quale tiene in mano un vaso contenente i Lari
Tutelari, cioè gli antenati. Segue a ruota Ascanio, figlio di Enea che stringe fra
le mani l’eterno fuoco custodito nel tempio di Vesta che servirà per
accendere una nuova esistenza a Roma.

Accanto: Gian Lorenzo Bernini, Enea e Anchise, 1618-19. Marmo, altezza 2,20 m. Roma, Galleria Borghese.
Sopra, dettagli di Anchise con i Lari e Ascanio con il fuoco di Vesta.
Osservando il gruppo da dietro, possiamo notare qualche traccia di non finito sulla schiena di Enea, che ci fa
capire come la statua fosse pensata per stare in una collocazione a parete. Come farà in seguito, fin da questo
gruppo il giovane Bernini sceglie due precisi punti di vista, la parte frontale e il lato destro, come testimoniano
le diverse aree "non finite" e dunque non visibili. Una scelta questa, che avvicina il giovane Bernini alla lezione
di Michelangelo (1475-1564), considerato il più grande fra gli scultori.

Gian Lorenzo Bernini, Enea e Anchise, 1618-19. Marmo, altezza 2,20 m. Roma, Galleria Borghese, visione da dietro, laterale destra e frontale.
L'abile Bernini, traduce nel marmo il tema intrinseco delle tre età dell’uomo, attraverso la differenziazione delle
epidermidi: la pelle del bambino Ascanio è levigata ma percettibile come morbida, quella tesa e turgida di
Enea e quella rugosa e avvizzita di Anchise.

Gian Lorenzo Bernini, Enea e Anchise, 1618-19. Marmo, altezza 2,20 m. Roma, Galleria Borghese. A sinistra, particolare della presa di Enea; a destra particolare della
schiena rugosa di Anchise.
Sebbene la composizione a spirale risenta ancora molto della scultura manierista, si nota già il virtuosismo
tecnico del giovane scultore nel trattamento dell’incarnato, dei capelli e del terreno su cui poggiano le figure e la sua
straordinaria capacità di bloccare nel marmo l’azione dei protagonisti.
Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-22. Marmo, altezza 2,55 m. Roma, Galleria Borghese, visione frontale, laterale, dal retro.
Il gruppo fu
eseguito tra il
1621 e il 1622,
e il cardinale
Scipione lo
regalò nello
stesso anno
1622 al
cardinale
Ludovisi,
nella cui villa
rimase fino al
1908, quando,
acquistato
dallo Stato
italiano,
tornò nella
collezione
Borghese.
Gian Lorenzo
Bernini, Ratto di
Proserpina, 1621-22.
Marmo, altezza
2,55 m. Roma,
Galleria Borghese
Tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, l’opera rappresenta Plutone, signore degli Inferi, mentre rapisce la
fanciulla Proserpina (o Persefone), figlia di Giove e Cerere per farla divenire sua sposa. La madre, quando seppe
del rapimento di sua figlia, si ritirò in solitudine e, siccome lei era la dea delle messi, provocò carestia e siccità. Giove
ordinò quindi che Plutone restituisse la fanciulla, ma siccome questa, nel mondo dell’aldilà aveva mangiato un chicco
di melograno, non poteva far ritorno sulla terra, perché chi va nel regno dei morti e si ciba di qualcosa non può far
ritorno nel mondo dei vivi. Giove concesse allora che Proserpina trascorresse due terzi dell’anno sulla terra e un
terzo con Plutone nel regno dei morti.
P.P Rubens, Il ratto di Proserpina, 1636-1638, olio su tela (180 x 270 cm), Museo del Prado, Madrid

Hydria
(vaso per
l'acqua)
magnogre
ca, dalla
Puglia, H.
75,6 cm,
diametro
45,1
cm.,ca.
340-330
a.C.,
Metropoli
tan
Museum
of Art di
New
York,
Stati Uniti
d'America
.
Si tratta di un complesso monumentale
di notevole complessità, con le due
figure che si avvolgono su se stesse
creando una forma a spirale, quasi a
materializzare fisicamente un forza che
produce torsione.
Il gruppo ha una composizione che è
già pienamente barocca, per la sua
grande teatralità e per la potente
sensazione di dinamicità. Da notare
che in questo caso Bernini interseca
talmente le linee di forza, create dai
due corpi, che il gruppo scultoreo,
rispetto ad altri, ha uno sviluppo a
360° nello spazio, proponendosi
senza un punto di vista privilegiato, ma
con molteplici possibili punti di
vista.

https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/gian-
lorenzo-bernini-ratto-di-proserpina

Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-22.


Marmo, altezza 2,55 m. Roma, Galleria Borghese
I due corpi sono rappresentati in colluttazione: la ragazza
lotta inutilmente per sottrarsi al desiderio erotico di
Plutone, mentre egli affonda avidamente le dita nei
fianchi e nelle cosce della malcapitata. Questo dettaglio
unito alla lacrima silenziosa visibile sul volto della Ninfa
mostrano eccezionale realismo e una profonda
attenzione ai dettagli ricercata dallo scultore barocco.

Carattere fondamentale del suo periodo giovanile è la


predilezione per la rappresentazione del momento
transitorio, fuggevole. L’intento del Bernini è appunto
quello di bloccare l’azione al culmine del suo
svolgimento, affinché quel momento di intenso
pathos e drammaticità risulti impresso, immobile nel
Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-22. Marmo, altezza 2,55 m.
marmo bianco per l’eternità. Roma, Galleria Borghese
Bernini rappresenta il momento culminante del racconto, quello più concitato e violento:
il momento del rapimento.
Ade, fiero, possente e muscoloso, ha abbrancato la ragazza, che cerca di scappare e di divincolarsi dalla presa
stretta del dio degli inferi: la mano che affonda nella coscia di Proserpina, con le dita che esercitano la loro
pressione sulla carne della giovane, è forse uno dei dettagli più famosi e celebrati di tutta la storia dell’arte.
Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-22. Marmo, altezza 2,55 m. Roma, Galleria Borghese, dettaglio dela presa di Plutone e delle gambe di Proserpina.
Il dio è ben piantato sulle robustissime gambe, la sinistra è stabilmente
puntata in avanti a fare da perno, e la destra è invece più indietro per bilanciare
la posizione, per far sì che Ade non perda l’equilibrio. Il torso, muscoli scolpiti e
ben definiti, si piega all’indietro per lavorare di dorsali e addominali, chiamati a
supporto delle braccia che si stringono a cerchio onde rendere più efficace la presa:
con la mano sinistra, Ade circonda la schiena di Proserpina in modo che lei non
possa farsi cadere all’indietro per liberarsi e, al contempo, così da stringerla a sé tanto
da renderla più vulnerabile, mentre con la destra esegue lo stesso movimento
cingendo le gambe, in modo da limitarla nei movimenti.
Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-22. Marmo, altezza 2,55 m. Roma, Galleria Borghese, dettagli di Ade.
Lei si dimena, scalcia, con le
gambe tenta di sollevarsi per
trovare una via di fuga, le mani si
agitano, una colpisce il volto
barbuto di Ade. La dea è
prigioniera, ma continua a
lottare. Avvinta tra le braccia di
Plutone, rivolgendo la sua
preghiera al cielo, Proserpina
respinge con la mano il suo
assalitore arricciando così la
pelle del viso del dio.

Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-22. Marmo, altezza 2,55 m. Roma, Galleria Borghese
L’unica speranza, per lei, è
quella di protendersi in
avanti: Bernini la coglie,
infatti, mentre tenta un
movimento spingendosi
con le spalle e
aiutandosi col braccio. Il
tentativo però è vano:
anche perché, peraltro,
Ade ha portato con
sé Cerbero, il mostruoso
cane a tre teste,
guardiano degli inferi,
pronto a bloccare
Proserpina da dietro e,
muovendo le tre teste in
tre direzioni diverse,
attento a verificare che
nessuno sopraggiunga per
ostacolare i piani di Ade.

Gian Lorenzo Bernini, Ratto di


Proserpina, 1621-22. Marmo, altezza
2,55 m. Roma, Galleria Borghese
La Dea non può far altro che lanciare un grido che lascia trasparire,
allo stesso tempo, la vergogna per esser stata denudata (notiamo
infatti il velo che le scivola dal corpo rivelando le sue forme morbide:
una fedele trasposizione del dettaglio del racconto di Ovidio), il
terrore per la violenza che sta subendo, lo sconforto nel
realizzare che nessuno la può aiutare.
La sua chioma, fluente e scomposta, lascia ampio spazio
all’espressività del viso segnato superbamente da una lacrima; il
panneggio, fluido anch’esso, lascia scoperto il corpo perfetto di
Proserpina, mettendo al contempo in evidenza la torsione del
corpo stesso e il pathos.
Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-22. Marmo, altezza 2,55 m. Roma, Galleria Borghese, dettagli del volto di Proserpina.
In questo gruppo lo scultore sviluppa il tema della torsione elicoidale dei corpi, memore della tradizione
manieristica, contrapponendo tuttavia l'impeto delle figure (la mano di Proserpina spingendo arriccia la pelle del
viso di Plutone, che affonda le sue dita nelle carni della vittima
Il gruppo, visto da
sinistra,
rappresenta la
presa al volo con
passo potente e
spedito; visto di
fronte, il vincitore
trionfa fermo con
il trofeo in
braccio; visto da
destra si scorgono
le lacrime di
Proserpina e la sua
preghiera al cielo, il
vento sconvolge la
chioma, e il cane a
tre teste, guardiano
infernale, abbaia.
Momenti successivi
della storia quindi
sono sintetizzati in
un'unica immagine.
Gian Lorenzo Bernini, Ratto di Proserpina, 1621-22. Marmo, altezza 2,55 m. Roma, Galleria Borghese.
L’avvitamento della fanciulla richiama il
virtuosismo di gusto manierista, ma la potenza
della plastica, la tensione dei muscoli, la
tenerezza sensuale delle carni, l’intensità del
sentimento esprimono un nuovo linguaggio
espressivo, fondato su un naturalismo evidente nella
straordinaria resa materica delle superfici.
Attraverso lo studio costante della statuaria
classica e il recupero degli strumenti antichi Bernini
traduce nel marmo la poetica del racconto mitologico,
confrontandosi con le potenzialità della stessa pittura.

Gian
Lorenzo
Bernini,
Ratto di
Proserpi
na, 1621-
22.
Marmo,
altezza
2,55 m.
Roma,
Galleria
Borghes
e, vista
dal
basso.
https://www.rai
play.it/video/20
23/09/Storie-in-
Galleria-Bernini-
--David-
a4616bdd-b3d3-
4030-8bc7-
6cf5963a019b.ht
ml video Italia:
viaggio nella
bellezza
Bernini - David

https://galleriab
orghese.benicult
urali.it/la-
galleria-
borghese-
racconta-un-
capolavoro-il-
david-di-
bernini/

Gian Lorenzo
Bernini, David,
1623-24. Marmo,
altezza 1,70 m.
Roma, Galleria
Borghese.
Il David è una delle
quattro sculture
eseguite dal giovane
Bernini per il
cardinale Scipione
Borghese. L’artista
lavorò ai gruppi
statuari per la Villa
Pinciana per sette
anni della sua vita.
Anni cruciali, in cui la
sua genialità, la
libertà, l’estro
narrativo e il gusto
per la meraviglia
sbocciarono e poi
maturarono in tutta la
loro potenza.

Gian Lorenzo Bernini, David,


1623-24. Marmo, altezza 1,70 m.
Roma, Galleria Borghese.
E’ l’unica fra le quattro sculture Borghese che abbia un soggetto biblico: rappresenta il giovane eroe nel momento
in cui sta per scagliare la pietra contro il gigante Golia. Tradizionalmente David veniva raffigurato stante, spesso
con la testa di Golia ai suoi piedi. Perfino Michelangelo aveva rappresentato il suo David in piedi, saldo sulle gambe
mentre si prepara a fronteggiare il nemico.
https://www.ar
teworld.it/il-
david-un-eroe-
attraverso-i-
secoli/

David Andrea
del
Verrocchio,
1473-75;
David
Donatello,
1408-09;
David
Michelangelo,
1501-04;
David
Donatello,
1435-
40; David
Gian Lorenzo
Bernini,
1623-24
Bernini invece
cambia
l’iconografia
corrente e
raffigura
David in
azione, con il
corpo
sbilanciato e
in torsione.
Sfidando le
possibilità
statiche del
marmo,
Bernini
sposta il
baricentro
sulla gamba
destra, che
diventa il
perno della
rotazione.
Gian Lorenzo Bernini, David, 1623-24. Marmo, altezza 1,70 m. Roma, Galleria Borghese.
David è in piedi, con il busto ruotato verso la sua destra. Con
le mani tende la frombola armata con il grosso sasso. Il suo
volto è contratto in una smorfia che rivela una profonda
concentrazione. Il giovane eroe è nudo, come una statua
classica, coperto solo da un panneggio stretto intorno ai
fianchi. In basso si notano la corazza del re Saul e la cetra
decorata con una testa d’aquila. Tale simbolo indicava la
famiglia del cardinale Scipione Caffarelli-Borghese.
Gian Lorenzo Bernini, David, 1623-24. Marmo, altezza 1,70 m. Roma, Galleria Borghese.
La struttura è organizzata con direttrici a spirale che creano
un intenso movimento. In tal modo si crea infatti l’illusione
della carica muscolare utile per lanciare la pietra con la
frombola. Se osservata frontalmente la figura
del David possiede una forte stabilità che la blocca nel
caricamento dell’azione. Se vista di lato, invece, dimostra
instabilità che deriva dal gesto di avvitamento del torace.

Bernini sceglie di rappresentare il momento di massima tensione dell’episodio biblico. L’energia fisica ed
emotiva dell’azione si traduce in una struttura spiraliforme di grande dinamismo. David appare carico di energia e
pronto a irrompere nello spazio dello spettatore in una posizione fortemente dinamica, creata dal preciso
contrapposto tra il busto e le gambe. Colta nell’istante che precede l’azione, la statua è come sospesa in un
momento transitorio che si rivela solo osservandola da un punto di vista unico e frontale, quello per cui Bernini
l’aveva concepita collocandola contro una parete dalla quale doveva emergere osservando minacciosamente
il proprio riguardante, che veniva a coincidere con Golia, in una aggressiva visione soggettiva.
Tutto il corpo è in
tensione, una tensione
palpabile che trova il suo
culmine nella fionda tesa
allo stremo. Così tesa che lo
spettatore, che si trova di
fronte alla statua
esattamente al posto di
Golia, si sente emotivamente
coinvolto e “vede” con
l’immaginazione il lancio del
sasso.

Il volto del David, volitivo e


contratto dallo sforzo, è
l’autoritratto di Bernini.
Sempre il Baldinucci racconta
che il cardinal Maffeo
Barberini -il futuro Urbano
VIII- si dilettava a reggere lo
specchio con cui l’artista si
ritraeva.
Bernini è un grandissimo narratore e in un’unica Accanto ai piedi del David c’è la cetra con cui dopo la
immagine riesce a sintetizzare tutto il racconto vittoria intonerà un salmo di ringraziamento a Dio. Lo
biblico. Fra le gambe del David si trova infatti strumento è decorato con una testa d’aquila: poiché
una corazza: è quella che Saul, re d’Israele, aveva aquila e drago erano gli animali araldici dei Borghese, si
donato a David perchè si proteggesse dal gigante, può ravvisare in questo dettaglio un richiamo al
ma il giovane non la ha indossata, è ingombrante e committente, il cardinal Scipione, e al suo desiderio di
quindi è stata abbandonata a terra. In questa rinverdire le glorie familiari dopo il pontificato di Gregorio
posizione la corazza ha anche una funzione XV Ludovisi, che era stato poco favorevole ai Borghese e che
statica, serve a Bernini a fornire alla statua un terzo morì nel luglio 1623. La commissione della statua risale a
punto di appoggio e a bilanciare la posa ardita. pochi mesi prima.
Gian
Lorenzo
Bernini,
David,
1623-24.
Marmo,
altezza
1,70 m.
Roma,
Galleria
Borghese,
particolar
e della
corazza
(sinistra)
e della
cetra
(destra).
Gian Lorenzo Bernini, David, 1623-
24. Marmo, altezza 1,70 m. Roma,
Galleria Borghese.
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-25. Marmo, altezza 2,43 m. Roma, Galleria Borghese.
L'arte del Barocco non definisce gli oggetti dentro una
realtà ferma e compatta, bensì rappresenta il movimento
continuo nello spazio e la metamorfosi costante nel tempo.
Il gruppo di Apollo e Dafne fu scolpito da Bernini tra il 1622 e il 1625. Il
soggetto non era nuovo nella storia dell’arte ma gli scultori non lo avevano
mai affrontato. Bernini osò quanto sino ad allora era apparso impossibile:
rappresentare nel marmo un corpo umano che si trasforma in pianta.
Antonio Pollaiolo, Apollo e Dafne, 1480 Paolo Veronese, Apollo e Dafne, 1570-1575 circa, olio su tela
circa, tempera su tavola, 29,5x20 cm, (100,2 x 100,5 cm), San Diego (California), Fine Arts Gallery.
National Gallery Londra

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-25.


Marmo, altezza 2,43 m. Roma, Galleria Borghese.
Narra Ovidio (43 a.C-18 d.C.), nelle sue Metamorfosi, che Apollo, a causa di una vendetta di Eros, viene colpito con
una freccia d’oro, e travolto da una passione incontenibile, inseguiva la ninfa Dafne; la fanciulla, trafitta invece
da un dardo di misero piombo, rifiuta l’amore del Dio e provava repulsione per lui, non voleva neppure essere
toccata, e scappava. Durante la corsa, ella implorò il padre, il dio fluviale Peneo, di salvarla; così, al tocco di Apollo
venne trasformata in albero di alloro. Da qui, l’alloro diventerà caro ad Apollo, che si cingerà il capo con le sue
fronde attributo di artisti e poeti.

L’opera rappresenta il momento culminante della metamorfosi di Dafne in albero di alloro,


un'impresa mai tentata in scultura, che Bernini affronta come in una messa in scena teatrale,
nella quale l’occhio dello spettatore segue lo sviluppo della trasformazione
Con Apollo e Dafne (e le Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-25. Marmo, altezza 2,43 m. Roma, Galleria Borghese.

altre sculture per Scipione


Borghese) Bernini
raggiunse la più alta e
compiuta espressione
della rappresentazione
del movimento. Egli riuscì
a fissare un solo istante
dell’azione, quello cruciale.
Le sue figure, infatti, non
rappresentano più un
fatto ma l’accadere di
quel fatto, non più una
realtà ma la
trasformazione di quella
realtà. Apollo e Dafne sono
colti nella corsa,
nell’attimo esatto in cui
la giovane si sta
trasformando in albero:
un attimo prima era ancora
donna, un attimo dopo non
lo sarebbe stata più.
Nel capolavoro di Bernini, Apollo corre con un piede a terra e uno sospeso, mentre il panneggio che gli copre i
fianchi e la spalla, accompagna il movimento. Apollo ha il corpo di un adolescente, con i muscoli in tensione;
sbilanciato in avanti, compie una rotazione con il busto per afferrare Dafne. Il mantello, che gli sta scivolando
via, si gonfia nel vento. È confuso e ansimante. Apollo riesce a raggiungere, alla fine di una lunga corsa, la bella
Dafne e questa, sfiorata dalle dita del giovane, inizia la sua trasformazione in albero.
La ninfa è subito bloccata nella fuga e con le braccia protese in alto, tenta di guardare indietro, mentre ha già
mutato i piedi in radici e le mani e i capelli in fronde di alloro. Dafne intuisce cosa sta accadendo e urla, più per
lo stupore che per il dolore: si inarca all’indietro, ruota il busto e allarga le braccia in alto. Le sue mani e i capelli
stanno prendendo la forma di rami e di foglie, le gambe stanno diventando tronco e i piedi radici. Le dita di
Apollo infatti, non sfiorano il corpo di Dafne, ma la corteccia dell’albero.

.
La scultura è tutta costruita secondo avvicinamenti e distacchi, in perfetto equilibrio delle parti: il braccio
sinistro di Apollo è proteso in avanti ad afferrare il fianco della ninfa mentre, l'altro braccio del dio, appare
spinto all’indietro nella direzione opposta e allineata, nella diagonale, al braccio destro di Dafne sollevato in
alto e in avanti.
L’Apollo e Dafne si presenta come un vero e proprio miracolo della tecnica. Le due figure sono ricavate da un unico,
enorme blocco e le foglie arrivano a raggiungere spessori minimi, tanto che si potrebbero spezzare con la
semplice pressione delle dita. Il gruppo è anche una dimostrazione di incredibile virtuosismo tecnico: un
accorto lavoro di trapano per rendere le dita di mani e piedi che si trasformano in foglie e radici e le ciocche di
capelli in movimento, colpi di scalpello a gradina per la corteccia, e diversi gradi di finitura per differenziare
la superficie del panneggio da quella dell’incarnato.
Bernini riesce a rendere nel marmo l'attimo che è insieme
narrazione ed esperienza emotiva, tensione di carne e
sentimento.

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-25. Marmo, altezza 2,43 m. Roma, Galleria Borghese.
Sotto i pontificati di Urbano VIII Barberini e Alessandro VII Chigi, sarà compito soprattutto di Gian Lorenzo
Bernini (spesso affiancato da Francesco Borromini) portare a completamento non solo le decorazioni interne tra cui
il famoso Baldacchino e la Cattedra, ma anche sistemare la piazza antistante la basilica, con il famoso colonnato,
l’abbraccio della Chiesa ai suoi fedeli.

https://www.youtube.com/watch?v=fGfRSce5R4U La Basilica di San Pietro e il Bernini - Roma - Virtual Video 360° HDR

Pare che Urbano VIII abbia affermato:


«È gran fortuna per voi, o cavaliere, di veder papa il cardinal Maffeo Barberino, ma assai
maggiore è la nostra, che il cavalier Bernino viva nel nostro pontificato».
Quando all’interno
della basilica di S.
Pietro fu terminata la
grande navata del
Maderno restava da
occupare l’immenso
spazio vuoto sotto la
cupola: nel 1624, Papa
Urbano VIII, della
famiglia Barberini,
affidò l’incarico al
Bernini, che impegnò
ben nove anni per
progettare e realizzare
l’opera: il Baldacchino
della Confessione, in
bronzo dorato
prelevato dal Panteon,
fu inaugurato il 23
giugno 1633.

La spoliazione del Pantheon ha fatto nascere il detto: "quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini“- Ciò che
non hanno fatto i Barbari lo hanno fatto i Barberini
Grazie alla protezione e all’amicizia con Papa Urbano VIII, di cui
l’artista divenne il miglior interprete della sua visione, le ambizioni
politiche e personali, le idee, Bernini già nel 1624, era divenuto
responsabile unico delle committenze papali e nel 1629, alla morte
di Carlo Maderno, fu nominato architetto della Fabbrica di San
Pietro. Con questo ruolo, egli portò a termine la realizzazione di un
grandioso ciborio, il cosiddetto Baldacchino di San Pietro, già
iniziato nel 1624 su incarico di Urbano VIII e ultimato nel 1633.

Il Baldacchino, primo vero e proprio banco di prova per l’artista,


avrebbe dovuto coprire l’altare maggiore posto al centro della
crociera, sotto la cupola di Buonarroti, uno dei nodi spaziali più
impegnativi dell’intera basilica; uno spazio immenso, che avrebbe
schiacciato, visivamente, qualunque opera avesse accolto.

https://www.youtube.com/watch?v=vPknCVGEjhU&list=RDCMUCjtYiT_LzBjhK
ndbRtverag&start_radio=1&rv=vPknCVGEjhU&t=55 Bernini: Il baldacchino di
San Pietro

https://www.youtube.com/watch?v=Nu4xbq3V_VM Lezioni d' autore con Antonio


Paolucci - Gian Lorenzo Bernini, Il Baldacchino di San Pietro

Gian Lorenzo Bernini, Baldacchino di San Pietro, 1624-33, visione assiale. Bronzo dorato, altezza
totale 28,70 m. Roma, Basilica di San Pietro.
Urbano VIII incarica il Bernini di realizzare il
Baldacchino di San Pietro per l'altare maggiore della
Basilica all'età di soli 25 anni. Il compito che gli si
prospetta mostra aspetti di innegabile difficoltà a
partire dalle dimensioni stimate per l'opera per
finire alla posizione centrale che essa dovrà
occupare all'interno della Basilica di San Pietro.

Il risultato è un complesso architettonico, ed al


tempo stesso scultoreo, che proietta Bernini, e
l'arte tutta, verso il modo di concepire ed interagire
con lo spazio proprio del barocco.
Gian Lorenzo
Bernini,
Baldacchino
di San Pietro,
1624-33,
visione dal
basso e
dall’alto.
Bronzo
dorato,
altezza totale
28,70 m.
Roma,
Basilica di
San Pietro.
Il baldacchino in bronzo ha pianta quadrata
e si alza per circa trenta metri, ma il moto
rotatorio e centripeto della composizione,
così come il colore brunito, che per effetto
ottico tende a far percepire la struttura come
più piccola di quella che realmente è, sono
precise scelte scenografiche del Bernini che
è costretto ad interpretare un vasto spazio
aperto dominato dalla severa geometria
rinascimentale della cupola di
Michelangelo.
A sostegno del
baldacchino Bernini
realizzò quattro
colonne tortili in
bronzo, alte ben 11
metri. Queste
presentano decorazio
ni in oro di motivi
fitomorfi e sono
sormontate da
capitelli compositi
con pulvino, che
conferiscono un
ulteriore slancio alla
composizione.
Il capitello composito è
d’invenzione romana e
raccoglie le volute
ioniche e le foglie
d’acanto tipiche
dell’ordine corinzio.
I basamenti sono invece in marmo policromo e vi sono
raffigurati gli stemmi dei Barberini, sempre con richiami di
carattere naturalistico, come lucertole e api.

http://camminandoeviaggiando.blogspot.com/p/il-mistero-della-nascita-
nel.html Storia curiosa sul Baldacchino di San Pietro
La trabeazione è con
cava, non rettilinea,
come tipica del
Barocco. Le quattro
colonne sono
collegate da una
frangia a festoni che,
data la maestria nella
lavorazione del
bronzo, pare di vera
stoffa, mossa dal
vento. La parte
superiore presenta
una magnifica voluta
”a dorso di delfino”,
così definita per via
del suo andamento
flessuoso, progettata,
si pensa, dal
Borromini.
Il baldacchino è sormontato da quattro statue d’angeli agli
angoli e da alcuni putti che, oltre a sorreggere i festoni, tengono
tra le mani le chiavi di San Pietro e la corona papale. Tutte le
sculture sono impreziosite cromaticamente con la doratura.
Su un lato si può scorgere un putto che alza al cielo un enorme
corpo d’ape rovesciato, a richiamo della commissione
dell’opera: l’ape era infatti simbolo dei Barberini, famiglia
d’origine di papa Urbano VIII. Sulla cima della composizione
svetta il globo con la croce.
La Cattedra di San Pietro rappresenta un trono di legno
vescovile appartenuta secondo la tradizione all’apostolo
Pietro come primo vescovo e papa di Roma. Nella Chiesa
Cattolica antica il Vescovo o il Papa avevano il compito
di insegnare le Sacre Scritture (rappresentando Cristo
stesso) in posizione seduta come viene riportato nei Vangeli.
In realtà la cattedra che
tuttora possiamo ammirare
nella Basilica di San Pietro a
Roma è un manufatto del
IX secolo donato dal Re
dei Franchi (Carlo II detto
il Calvo) a Papa Giovanni
VIII in occasione della sua
discesa a Roma per essere
incoronato imperatore. Essa
viene conservata all’interno
di una maestosa
composizione
barocca progettata e
Cattedra di San Pietro – trono donato da realizzata dal Bernini tra il
Carlo il Calvo a papa Giovanni VIII, 875
ca. – Roma, Basilica di San Pietro
1656 e 1665.
Il Bernini nella sua
opera ha aggiunto un
effetto ottico di
grande livello,
rappresentando la
cattedra in una fase
di liberazione
nell’aria senza peso
su nuvole di stucco
dorato. Questo
particolare è dovuto da
quattro enormi statue
in bronzo
rappresentanti
i quattro dottori
della Chiesa, alti 5
metri (Sant’Agostino,
Sant’Ambrogio per la
Chiesa Latina e
Sant’Anastasio, San
Giovanni Crisostomo
per quella greca)
nell’atto di sorreggere
la cattedra.
Il trono è alto 7
metri. Coronato
da due putti che
reggono i simboli
del potere papale,
sul drappo
frontale viene
rappresentato la
“triditio
clavum” ovvero
l’atto della
“consegna della
chiavi” secondo
cui Cristo
conferisce a San
Pietro l’autorità
apostolica del
Vescovo della
diocesi di Roma
su tutte le Chiesa
cattoliche
(primato papale).
Un colomba, simbolo dello Spirito Santo che guida i successori di Pietro domina dal finestrone che sormonta il
trono. Essa costituisce l’unica vetrata colorata presente nell’intera Basilica di San Pietro.
Senza dubbio la cattedra di San Pietro può essere definita un capolavoro del barocco con la sua rappresentazione di
una visione fantastica dell’artista.
Il più grande mecenate di Gian Lorenzo Bernini, Maffeo
Barberini, papa dal 1623 al 1644 col nome di Urbano VIII,
pretese una tomba monumentale e per essere sicuro del
risultato, la volle vedere lui ancora in vita. Bernini e la sua bottega
lavorarono alla tomba dal 1627 al 1647. Il risultato visivo oggi è
ingeneroso nei confronti del lavoro dell'artista. La tomba si trova
nella nicchia che si apre nella tribuna di San Pietro, a destra della
cattedra del santo, in una zona oggi non accessibile ai
visitatori.Ciò nonostante, l'uso di marmi policromi, di
materiali diversi come bronzo dorato e legno, di statue
mastodontiche, enfatizza il barocco berniniano.

Pur mantenendo lo scema piramidale, proprio dei monumenti


funebri rinascimentali, Bernini ne superò il classicismo
infondendo alla composizione una vitalità scenografica
ottenuta attraverso le variazioni cromatiche e luministiche e
grazie all'esibita teatralità dei gesti: egli creò così una tipologia
di sepoltura che divento il modello della scultura funeraria
dell'età barocca.
Bernini sovvertì tutti i canoni accademici, mischiando il
bronzo ai marmi, instaurando complessi rapporti spaziali, in
altezza e in profondità, fra la figura maestosa del papa-principe
e le allegorie della Carità e della Giustizia, unite dalla teatrale
invenzione del Genio della Morte che incide sulla lapide il
nome del papa defunto: ne scaturiscono effetti di acceso
pittoricismo, suggestioni di dichiarata teatralità, retta peraltro
da una regia impeccabile che domina lo spazio semicircolare
della grande nicchia (ancora un proscenio) con la calcolata
rispondenza ed euritmia dei movimenti interni alla grande
piramide formata dal Papa al vertice e dalle Virtù alla base.

Nella parte alta, il Pontefice seduto sul trono è mostrato


nell’atto di benedire.
In basso le allegorie della Carità e della Giustizia vegliano sul
sepolcro; la Morte, impersonata da uno scheletro a grandezza
naturale, scrive su un cartiglio l’epitaffio del Papa.
Le Virtù, legate alla vita, sono scolpite in splendente marmo
bianco, mentre il sarcofago, lo scheletro e la statua del Papa
sono realizzati in bronzo con decorazioni d'oro.
La struttura A fianco del sarcofago si trovano la personificazione della
piramidale è Carità a sinistra, attorniata da due putti e con
sicuramente atteggiamento sereno e materno, e della Giustizia a
mediata dalle destra, con gli occhi rivolti al cielo e lo sguardo
tombe malinconico, accentuato dal viso appoggiato alla mano.
medicee di La Giustizia inoltre ha l'elsa decorata della spada col
Michelangel tipico morivo delle api laboriose, presenti nello
o, come le stemma araldico della famiglia Barberini . Entrambe le
due volute statue sono in marmo di Carrara.
sul
sarcofago
stesso sono
identiche a
quelle su cui
Michelangelo Buonarroti, Tomba di Giuliano de' Crepuscolo e
Medici, duca di Nemours, 1520-1534, marmo, Firenze,
san Lorenzo ,Sagrestia Nuova Aurora,
Giorno e
Notte,
scivolano via
(tempus
fugit..) nelle
tombe di
Firenze
In alto, alla sommità della piramide, campeggia
maestosa la scultura bronzea del Papa, seduto
nel trono nell'atto di benedire i fedeli: : lo
sguardo è fiero e severo.

Sopra la tomba, la Morte velata, in bronzo impreziosito dalle


dorature, sta terminando di scrivere l'epitaffio "Urbanus
VIII Barberinus Pont.Max."L'epitaffio è incompleto, visto che il
Papa era ancora in vita all'inizio dei lavori (forse era
scaramantico?) ed inoltre questa rappresentazione dava
maggior dinamismo all'opera.
Gian Lorenzo Bernini e bottega, monumento funerario di papa Alessandro
VII, Basilica di San Pietro, Vaticano

Il mecenatismo artistico di Fabio Chigi, eletto papa il 7


aprile 1655 con il nome di Alessandro VII, arrivò ad
assumere le forme di un vero e proprio rinnovamento
urbanistico di interi rioni di Roma coinvolgendo in
particolare Bernini che lavorò per lui durante l’arco di
tutta la propria esistenza. Il papa commissionò la
tomba a Gian Lorenzo cinque mesi dopo la sua elezione,
ma al momento della morte, sopraggiunta il 22 maggio
1667, l’opera non era stata neppure iniziata.

Il monumento funerario, impostato su di una geometria


compositiva e scultorea triangolare ascendente e con
al vertice il Papa inginocchiato, rappresenta inoltre
la Morte, sotto forma di scheletro e le quattro virtù del
pontefice: in primo piano la Carità, con il bambino, e
la Verità, con il piede su un globo a simboleggiare
l’universalità di tale virtù; in secondo piano
la Prudenza con lo specchio, e la Giustizia, con la mano
destra a sorreggere la sua testa.
Il sepolcro si differenzia di quello di papa Urbano VIII, eseguito dallo stesso Bernini per la medesima basilica di S.
Pietro, ma anche da altri, che mostrano il papa seduto imperiosamente sul proprio trono. Il monumento è infatti
composto da una statua raffigurante il pontefice umilmente inginocchiato in preghiera, il cui basamento
sovrasta un ampio ed elegante drappo in marmo rosso, sul quale si appoggiano quattro statue femminili che
personificano le virtù praticate da papa Alessandro.
In primo piano a sinistra c'è la Carità con un bambino in
braccio. A destra si trova la Verità, con un piede posato
sopra un globo; si ritiene che sotto l'alluce, in
corrispondenza dell'Inghilterra, vi sia una spina che
rappresenterebbe la sofferenza causata al papa
dall'espansione dell'anglicanesimo. In secondo piano,
rispettivamente a sinistra e a destra, si trovano Giustizia e
Prudenza.

Le statue sono in marmo bianco, in netto contrasto cromatico con il rosso del panneggio realizzato in diaspro
siciliano, e il verde e il nero dei marmi utilizzati per le parti architettoniche del monumento, come il basamento
su cui prega Alessandro.
Al centro, da sotto il drappo marmoreo emerge, con
il capo ancora parzialmente celato come a volersene
liberare, uno scheletro che impugna,
sollevandola nella mano destra, una clessidra in
bronzo dorato, simboleggiante lo scorrere lento,
ma continuo, della vita; si tratta di un tema caro
all'iconografia del periodo barocco, che si richiama
alla «vanitas vanitatum».
Il Colonnato di San Pietro si trova a Roma a Piazza San Pietro, nel rione Borgo, e viene realizzato sin dal 1656
da Gian Lorenzo Bernini su commissione di Papa Alessandro VII Chigi (appartenente alla celebre e influente
famiglia dei banchieri Chigi). Il Colonnato è la porta d’ingresso nel territorio della Città del Vaticano.
La genialità del Bernini fu nella forma che diede a questo colonnato. La piazza venne
articolata in due parti: lo spazio ovale compreso tra i due grandiosi emicicli di
quadruplici file di colonne con capitello tuscanico raccordate da una trabeazione
piatta, e la distesa di forma trapezoidale segnata dai due bracci orizzontali che,
partendo dai colonnati, divergono leggermente e raggiungono gli estremi della
facciata. La piazza acquista così maggiore respiro mentre la facciata, allontanata dal
grande ovale grazie ai bracci che sembrano più corti di quanto non siano, risulta più
equilibrata e quasi rimpicciolita da questo effetto illusionistico. Il porticato, nello
stesso tempo, vive della propria articolazione dinamica e appare come la dilatazione
di un cerchio, teso tra i due contenitori laterali.
https://www.youtube.com/watch?v=vnjrHbR00F8&t=475s Bernini: la Piazza e il colonnato di San Pietro
(videolezione)
Il senso dell’opera lo spiegò bene l’artista Gian Lorenzo Bernini, che tra il 1657 e il 1665 la progettò portandola a
conclusione sotto Alessandro VII: «Sono braccia aperte maternamente ai cattolici – scrisse – per confermarli
nella credenza, agli eretici per riunirli alla Chiesa e agli infedeli per illuminarli alla vera fede». Quelli erano i
tempi della Controriforma e la Chiesa doveva unire e non disperdere i fedeli.

Disegno attribuito al Bernini del colonnato come


abbraccio
I colonnati, realizzati a tre corsie, con 284 colonne di ordine dorico e 88 pilastri in travertino di Tivoli, sono uniti da
una semplicissima trabeazione ma coronati da una serie di 140 statue di santi alte m 3.10, e da 6 grandi stemmi di
Alessandro VII Chigi.
Il diametro maggiore dell'ellissi misura m 240, ben 52 in più rispetto a quello del Colosseo.
Per evitare le disarmonie che la soluzione curvilinea poteva presentare e nello stesso tempo per organizzare
prospetticamente la piazza, Bernini dispose radialmente le quattro file di 284 colonne, di cui aumentò
gradualmente il diametro, riuscendo così a mantenere invariate le relazioni proporzionali tra gli spazi e le colonne
anche nelle file esterne.

L’allineamento delle colonne viene


calcolato sui raggi dell’ellisse, il cui
centro viene fatto coincidere con una
piastrella rotonda posta sul
pavimento della piazza (su entrambi i
lati della stessa). Da quel preciso
punto le colonne appaiono
perfettamente allineate tanto da
sembrare una sola fila. Inoltre,
attraversando la Piazza, sembra che
le colonne si avvicinano e si
allontanano creando movimento,
questo accade grazie a particolari
calcoli geometrici e studi
prospettici.
Al centro della Piazza, all’interno del colonnato
del Bernini, si trova l’ Obelisco Vaticano, di
provenienza egiziana, in granito rosso e privo di
geroglifici il quale raggiunge una altezza di circa
quaranta metri. L’ Obelisco Vaticano viene
collocato nel 1586 al centro di Piazza San Pietro
per volere di Papa Sisto V (al secolo Felice Peretti) e
con il contributo dell’architetto Domenico
Fontana.
Ai lati dell’obelisco, poste sulla stessa linea, si
trovano le due fontane simmetriche: quella
collocata sul lato destro, molto più antica, viene
attribuita a Carlo Maderno, edificata all’inizio
del Seicento su commissione di papa Paolo V (al
secolo Camillo Borghese); la seconda posizionata
sul lato sinistro è opera del Bernini, costruita
poco dopo la realizzazione del Colonnato, su
commissione di Papa Alessandro VII, (al secolo
Fabio Chigi).
Giovan Battista Falda. Progetto definitivo per piazza San Pietro con il terzo braccio.
Nel 1667 Bernini aveva 1667. Incisione. cm. 93X181. In basso, la basilica prima della costruzione di via della Conciliazione in una foto d’epoca
pensato di chiudere la
piazza con un altro settore
di colonnato, il cosiddetto
"terzo braccio" che
continuasse la curva dei due
emicicli dalla parte opposta
alla Basilica. La situazione
che si presentava
all'architetto era
completamente diversa da
quella attuale. Alla zona di
San Pietro si arrivava dal
popolato Quartiere della
Spina di Borgo,
percorrendo due vie
molto strette, che non
lasciavano vedere la
basilica finchè non si fosse In questo modo lo spettatore proveniente dalla "Spina" si sarebbe trovato
giunti nella piazza improvvisamente nella grandiosa piazza e doveva trovarsi nelle condizioni di
antistante (Piazza poter abbracciare con lo sguardo tutto l'ovale per intero. Ma a causa della morte
Rusticucci). di Alessandro VII il terzo braccio non fu più costruito

https://www.youtube.com/watch?v=KwzExKtOJoY P.zza S.Pietro descritta dal Prof.Antonio Paolucci


Durante il regime fascista la Spina di Borgo venne demolita e venne creata l'attuale via della Conciliazione, la
quale ha privato la piazza dell’effetto scenografico a sorpresa pensato da Bernini.
La Spina di Borgo vista dall’anello della Cupola 1923

La spina in
una mappa
dei primi
900
Per gli antichi Romani, l’acqua era un dono degli dei e
ogni fonte aveva il nume tutelare di una ninfa;
leggendaria quella di Egeria che si credeva amante e moglie di
Numa Pompilio, uno dei sette re di Roma. L'acqua,
necessaria alla vita e garanzia d'igiene, alle terme diventava
elemento centrale di socialità.
Dopo le numerose invasioni barbariche che avevano messo
fuori uso i grandi acquedotti romani, dal XII secolo la
popolazione dell'Urbe riprendeva a crescere rendendo così
necessaria una rete idrica che distribuisse l’acqua nelle
strade.
Furono i papi a risolvere il problema. Oltre al potere
spirituale, questi gestivano anche quello secolare e fornire
acqua potabile, divenne un atto di mecenatismo utile e
funzionale ad abbellire le piazze e ad imprimere così, il
marchio del potere in città.

https://www.artesvelata.it/fontana-fiumi-fontane-bernini/ La Fontana
dei Fiumi e le altre fontane del Bernini
https://www.raiscuola.rai.it/storiadellarte/articoli/2021/12/Le
-fontane-barocche-di-Roma--47a76097-85f0-443a-b938-
48956c6dd61a.html Le fontane barocche di Roma

Il rapporto con il gioco infinito dell’acqua fu uno dei temi più suggestivi dell’arte berniniana: l’acqua è vita, è
movimento, è spettacolo, nella sua presenza l’artista coglie uno strumento di meraviglia. A differenza delle
fontane architettoniche rinascimentali, quelle di Bernini sono concepite in funzione dell’acqua, protagonista
assoluta; sono “macchine” che danno lustro alla città, celebrano il prestigio dei committenti, danno sollievo ai
cittadini durante la calura estiva, li allietano con i loro spruzzi e i loro suoni, li stupiscono con le loro invenzioni
plastiche e scenografiche.

Caratteristiche del Bernini sono le fontane con vasche molto basse a livello del suolo. Per lui diventa importante
eliminare la componente architettonica nella parte inferiore per lasciare protagonista l'acqua. Così l'acqua nelle
fontane del Bernini assume innumerevoli forme: zampilli, cascate, spruzzi, specchi, traboccamenti, gocciolamenti,
correnti, ecc. , diventa anch'essa uno spettacolo.
Le fontane di Bernini offrono al visitatore uno
spettacolo ogni volta diverso, sono concepite per
destare meraviglia e ammirazione con le loro
soluzioni originali e inaspettate. Uno dei temi
fondamentali della poetica berniniana,
particolarmente presente nelle sue fontane, è
la fusione tra lo spazio urbano e le forme della
natura, una natura benefica e dinamica, animata
da una metamorfosi incessante. Anche la stessa
materia del travertino sembra perdere il suo stato
inerte, trattata secondo una concezione
dinamica, sembra vivificata da un'energia Ognuna di esse risponde ad una precisa collocazione
urbanistica: le fontane di Bernini qualificano e
misteriosa e diventa una sostanza soggetta ad un
caratterizzano le piazze e i luoghi in cui sorgono, fino a
processo di trasformazione continua. Bernini
diventare punti di riferimento di particolari scorci di Roma.
compie un'evoluzione fondamentale sul tema della
Inoltre non seguono uno schema fisso, ma sono tutte diverse,
fontana basando la sua ricerca espressiva su una e ogni volta sono pensate tenendo conto della massa, della
vera e propria sintesi naturalistica e forza e quantità dell'acqua, oltre che dell'elevazione
architettonica. dell'acquedotto.
La “fontana della
Barcaccia”, comunemente
conosciuta come la
“Barcaccia”, è una fontana
in travertino situata a
Roma in Piazza di
Spagna, ai piedi della
scalinata di Trinità dei
Monti. Commissionata da
Papa Urbano VIII, è stata
interamente realizzata in
tre anni (1627-1629) da
Pietro Bernini, con l’aiuto
del figlio Gian Lorenzo,
che conclude il lavoro in
seguito alla morte del
padre.
Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Fontana della Barcaccia, 1627-29. Roma, Piazza di Spagna

https://www.raiscuola.rai.it/storiadellarte/articoli/2021/12/La-Barcaccia-Pietro-o-Gian-Lorenzo-38a166e6-b0fa-4158-98e4-
ec2f1d69ee08.html La Barcaccia: Pietro o Gian Lorenzo? Il restauro della fontana di Piazza di Spagna
La forma s’ispira a un tipo di imbarcazione bassa e larga che solcava il Tevere trasportando le botti di vino. A
causa dello scarso dislivello fra acquedotto e piazza, che avrebbe permesso solo un basso zampillo, Bernini
pensò bene di far “affondare” la barca in una vasca posta leggermente più in basso della quota del suolo.

Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Fontana della Barcaccia, 1627-29. Roma, Piazza di Spagna
La paternità a Gian Lorenzo
Bernini (1598–1680), la indicano
esplicitamente i dati stilistici
che dovrebbero essere sempre
considerati il vero fondamento
della critica d’arte. In primis, la
duttilità e la sinuosità nel
plasmare il travertino, tra
volute, incavi e arricciamenti,
mostra una sensibilità
naturalistica che richiama
conchiglie e animali, elementi
introdotti dall'artista nelle sue
future fontane. Si tratta della
Pietro e
Gian stessa morfologia
Lorenzo antigeometrica, volta
Bernini, Fo
ntana della all’esaltazione della curva
Barcaccia,
1627-29. naturalistica, che caratterizza
Roma,
Piazza di tutte le opere del Bernini,
Spagna soprattutto nel settore delle arti
decorative.
La Fontana dei Fiumi
Realizzata tra il 1648 e il 1651 su volontà di Innocenzo X
Pamphili, la Fontana dei Fiumi si trova a Roma in Piazza
Navona, luogo simbolo della famiglia di Innocenzo X, sulla
quale sorge Palazzo Pamphili. Con questo monumento
Bernini si conquistò il favore di papa Innocenzo X,
inizialmente a lui ostile

Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Fiumi, 1648-51. Travertino. Roma, Piazza Navona.
Nel 1644 Urbano VIII morì, e salì al soglio pontificio
Innocenzo X Pamphilj, che intese differenziarsi
profondamente dal suo predecessore in campo
politico-economico come pure in quello artistico.
Innocenzo, tra l’altro, detestava Bernini, fosse
stato solo per l’amicizia che lo legava a Urbano VIII.
Il pontificato Pamphilj segnò dunque una battuta
d’arresto nel percorso trionfale dell’artista, i cui
privilegi a corte non furono riconfermati; il nuovo
pontefice, anzi, evitò in ogni modo di coinvolgerlo
nelle imprese papali, preferendogli l’architetto
rivale Francesco Borromini. Tuttavia, per la
costruzione della Fontana dei Quattro fiumi,
malgrado il pontefice avesse vagliato tutte le
proposte dei concorrenti, inclusa quella di
Borromini, nel 1648 commissionò l'opera a
Bernini, riconoscendo la superiorità del suo
modello. Secondo quanto riporta il Baldinucci, il
papa affermò che l’unico modo per non affidare
incarichi al Bernini era non vedere affatto i Gian Lorenzo Bernini, Modello con
obelisco della Fontana dei Quattro
suoi progetti. Fiumi, 1650, terracotta e legno
L'opera si compone di una grande vasca, bassa al livello del
pavimento della piazza, con al centro una sorta di scoglio, un
roccione che sembra eroso dagli agenti atmosferici, su cui sorge
un obelisco, si tratta di un'imitazione egizia di fattura
romana, risale al tempo di Domiziano e proviene dal circo di
Massenzio

Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Fiumi, 1648-51. Travertino. Roma, Piazza Navona.
Incastonato nella roccia del basamento, fra speroni sporgenti e
grotte comunicanti, sfidando le leggi della statica, si innalza un
obelisco stile egizio, ma di epoca romana, ritrovato nel Circo di
Massenzio.
La grande stele, in equilibrio sopra il vuoto della grotta
sottostante, appare a dir poco temeraria, ma era l’ennesimo prodigio
della tecnica e l’ennesima trovata di grande suggestione di
Bernini.In realtà, l’obelisco è assolutamente stabile, perché
sostenuto da quattro “piedi” inclinati, ma l’artificio è tutt’altro che
chiaro e corrisponde alla “controstatica” barocca, cioè la negazione
delle leggi fisiche della stabilità, altro espediente attuato da Bernini
per destare meraviglia.
Agli angoli del plinto si agitano quattro
poderose figure maschili, sono i fiumi
Danubio, Nilo, Gange e Rio de la
Plata, simboli dei continenti allora
conosciuti, delle "quattro parti del
mondo“. I fiumi sono personificati, in
riferimento alle divinità fluviali della
tradizione classica. Nella fontana,
piante e animali rimandano ai
continenti rappresentati: il cavallo al
galoppo accanto al Danubio, evoca la
pianure danubiane, il coccodrillo
ricorda le lontane Americhe, il leone
richiama le praterie africane. Un
serpente di terra striscia nella parte più
alta, vicino alla base dell'obelisco, e
infine un serpente di mare e un
delfino (o un grosso pesce) nuotano
nella vasca con le bocche aperte, avendo
entrambi la funzione di inghiottitoio
Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Fiumi, 1648-51. Travertino. Roma, Piazza Navona. Particolare del
delle acque (un originale espediente). serpente e del delfino.
Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Fiumi, 1648-51. Il Danubio di
Antonio Raggi.
Sul lato occidentale un cavallo
esce dalla cavità delle rocce con le
zampe anteriori sollevate
nell'atto di slanciarsi in un galoppo
sfrenato sulle pianure danubiane
coperte di fiori che incoronano la
testa del fiume.
Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Fiumi, 1648-51. Il Rio de la
Plata di Francesco Baratta e particolare del coccodrillo.
Un coccodrillo (o un armadillo) che sembra uscito fuori da un
bestiario medievale e spunta dall'angolo settentrionale, vicino al
Rio della Plata.
Un dragone che si avvolge intorno al remo tenuto dal Gange. Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Fiumi, 1648-51. Il Gange
di Claude Poussin.
Il Nilo copre il volto
con un panneggio,
giacché le sue sorgenti
all’epoca non erano
state ancora scoperte,
ed associato al leone,
sbuca, come il cavallo,
dalla cavità delle rocce
per abbeverarsi ai piedi
di una palma africana
che si innalza fino alla
Gian Lorenzo Bernini, Fontana dei Fiumi, 1648-51. Il Nilo di Giacomo
base dell'obelisco.
Antonio Fancelli.
La tradizione popolare vuole che Bernini avesse voluto fare dispetto al rivale Borromini, autore della
prospiciente Chiesa di Sant’Agnese in Agone, coprendo gli occhi del fiume che si rifiutava di guardarla, tanto
era brutta. Così, anche il Rio della Plata alzerebbe il braccio per difendersi dall’eventuale crollo del campanile
borrominiano. Ma questa leggenda è del tutto priva di fondamento, giacché la costruzione della chiesa è
posteriore a quella della fontana.
La Fontana del Tritone
Gian Lorenzo Bernini, Fontana del Tritone, 1642-43. Roma, Piazza Barberini.
Nel 1642-1643 l’artista fu incaricato da papa Urbano VIII
Barberini (1623-1644) della realizzazione dell’opera come
“pubblico ornamento della città” al centro della piazza
dominata dal nuovo palazzo della sua famiglia. La fontana è
dotata di una vasca mistilinea in travertino, piuttosto
bassa, dalla quale emergono quattro mostri marini che a
loro volta sollevano con le code una grande conchiglia
bivalve aperta, sulla quale sta seduto un Tritone.

La
Fontana
del
Tritone
in
un’incisi
one di
G.B.
Falda ,
seconda
metà
XVII
secolo

Gian Lorenzo Bernini, Fontana del Tritone, 1642-43. Roma, Piazza


Barberini.
Rappresentato sulle
valve di una
enorme
conchiglia, con il
busto eretto e le
gambe squamose
di un mostro
marino, il Tritone si
erge imponente con
la testa piegata
all’indietro nello
sforzo di soffiare
nella grande buccina
(o conchiglia
tortile) che sostiene
con le braccia levate
verso l’alto e da cui
Gian Lorenzo Bernini, Fontana del Tritone, 1642-43. fuoriesce copiosa
Roma, Piazza Barberini. Particolare del tritone
l’acqua che irrora
tutta l’opera.
Espressione della nuova concezione barocca dello spazio, nella fontana la parte scultorea include ed assorbe
completamente la stessa struttura architettonica: la conchiglia su cui poggia il tritone costituisce infatti il catino
superiore della fontana, ed il balaustro alla base è sostituito da quattro delfini con code intrecciate, tra i quali
sono posti gli stemmi papali con le api, simbolo araldico della famiglia Barberini.
Gian Lorenzo Bernini, Cappella Cornaro, 1647-52. Roma, Chiesa di Santa Maria della Vittoria.
Tra il 1644 e il 1651 lavora alla Cappella L’idea di Federico Cornaro era quella di celebrare la famiglia,
Cornaro, nella chiesa carmelitana di Santa che ad allora contava sette cardinali, e un doge (Giovanni I
Maria della Vittoria a Roma, in uno spazio Cornaro, doge della Repubblica di Venezia, nonché padre di
ricavato del transetto sinistro della chiesa. Il
Federico), onorando al contempo la più importante santa
lavoro fu richiesto dal cardinale
dell’ordine carmelitano, santa Teresa d'Avila, fondatrice
veneziano Federico Corner (Cornaro), da poco
dell'ordine per il quale era stata costruita la chiesa di Santa
trasferitosi a Roma, come cappella funeraria per
la propria famiglia. Maria della Vittoria.

https://www.raicultura.it/arte/articoli/2021/11/La-Cappella-Cornaro-di-Bernini-7a33eed8-2b31-4266-9a6b-43f816656c9c.html Il restauro della Cappella Cornaro


di Bernini

Gian Lorenzo Bernini, Cappella Cornaro, 1647-52. Roma, Chiesa di Santa Maria della Roma, Chiesa di Santa Maria della Vittoria. A sinistra, si intravede la
Vittoria. Cappella Cornaro.
La Cappella Cornaro si Bernini raggiunse uno dei suoi
presenta al Bernini come massimi risultati creativi,
l'occasione per realizzare realizzando il più emblematico
lo "spettacolo totale" in una
esempio dell’ideale estetico del “bel
fusione completa e armonica
composto”, integrazione tra le arti
di pittura, scultura,
dell’architettura, scultura, pittura e
architettura e decorazione.
Tutte le parti scolpite sono teatro con le più raffinate soluzioni
realizzate direttamente dal tecniche di ottica, prospettiva e
Bernini. illuminazione, per una fruizione
totale e coinvolgente, tanto che egli
stesso definirà la cappella la sua “men
https://www.raicultura.it/arte/artic cattiva” opera. L’opera infatti eccelle in
oli/2021/11/La-Cappella-Cornaro-di-
Bernini-7a33eed8-2b31-4266-9a6b- termini di potenza espressiva,
43f816656c9c.html Il restauro capacità di emozionare l’osservatore e
della Cappella Cornaro di
Bernini di suscitare stupore e ammirazione,
perfetta integrazione con lo spazio,
sapienza compositiva, maestria
tecnica.

Gian Lorenzo Bernini, Cappella Cornaro,


1647-52. Roma, di Santa Maria della Vittoria.
Sotto una pioggia di luce dorata che, in fitti raggi scende dall’alto , Bernini cattura l’estasi mistica nel pieno del
suo svolgimento di Santa Teresa d’Ávila, colta nel momento della transverberazione, ovvero, all’apice
dell’estasi mistica. L’angelo, serafico, sorridente, sopraggiunge tenendo con delicatezza un dardo dorato,
emblema dell’amore divino, rivolto verso il cuore della santa: con la mano sinistra è già pronto a sollevarle lo
scapolare onde poterla raggiungere con la sua freccia.
Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, 1647-1652; marmo e bronzo dorato, h. 350 cm; Roma, Santa Maria della Vittoria

Il gruppo di Santa
Teresa e l'angelo
serafino, scolpiti
su un unico
blocco di marmo
di Carrara, scavato
all'interno fino alla
trasparenza, sono
fissati al muro e
accolti nella
nicchia convessa
del tabernacolo.
Bernini inquadrò l’opera con una grande cornice architettonica,
creando una sorta di proscenio teatrale, anzi trasformando
letteralmente lo spazio della cappella in un teatro. Per
“incorniciare” il gruppo scultoreo, l’artista progetta una nicchia
dall’andamento curvilineo, convessa, inquadrata da due coppie
di colonne e sormontata da un timpano anch’esso curvilineo:
un espediente per avvicinare l’opera all’osservatore e per accrescere
la teatralità dell’insieme. “Mettere in scena” il miracolo,
l’apparizione divina o anche solo l’evento storico era il sistema più
efficace, e più moderno, per coinvolgere un pubblico diventato
davvero di “testimoni”.
Non a caso i committenti, ossia i membri della famiglia
Cornaro, furono qui scolpiti in due palchetti laterali, quasi
fossero degli spettatori che assistono idealmente al miracolo.

Gianlorenzo Bernini. Cappella Cornaro. 1644-51. Marmi policromi, legno, stucco. Roma,
Santa Maria della Vittoria
Bernini di concepire la cappella come un piccolo teatro, dove in luogo del palcoscenico si rappresenta il miracolo
della Transverberazione di Santa Teresa e ai lati i membri della Famiglia Cornaro assistono alla scena, affacciati
da due finti palchi, simili a quelli di un teatro.
Gian Lorenzo Bernini, Cappella Cornaro, Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa, Gian Lorenzo Bernini, Cappella Cornaro, particolare
particolare della famiglia Cornaro che assiste 1647-52. Marmo e bronzo dorato. Roma, Chiesa della famiglia Cornaro che assiste all’Estasi di santa
all’Estasi di santa Teresa, nel palchetto di sinistra. di Santa Maria della Vittoria, Cappella Cornaro. Teresa, nel palchetto di destra.
I sette cardinali, Federico compreso, e il doge Giovanni, suo padre, sono ritratti da Bernini mentre dialogano tra
loro e riflettono sull'evento sacro. Alle loro spalle attraverso uno scorcio prospettico, Bernini suggerisce la presenza
di spazi architettonici, che sembrano continuazioni dello spazio reale dalla chiesa, con volte a botte,
colonnati ionici, nicchie. Le linee prospettiche convergenti verso l'altare offrono a chi entra nella cappella,
un'illusione perfetta di dilatazione dello spazio oltre i suoi limiti reali.

Questa macchina scenografica calcolatissima, di unità artistica e percettiva, non era nuova nella concezione di
monumenti funebri dedicati a Sante e Beate, Bernini ne aveva già realizzati, ma l'insieme scenografico della Cappella
Cornaro, trova uguali solo nella Cattedra di San Pietro di qualche decennio dopo (1666).
Gian Lorenzo Bernini, Cappella Cornaro, 1647-52. Effetti della luce “alla bernina”.

Una luce proveniente dall’alto, attraverso una finestra nascosta e schermata da vetri gialli, illumina il gruppo
scultoreo; è una luce naturale radente, calda, dorata, che valorizza al massimo la qualità dei materiali, rendendo
ancora più lucido il marmo e conferendogli maggiori effetti di sericità. La luce naturale si rifrange poi sui raggi in
bronzo, che rievocano la luce divina che investe la santa, creando suggestivi effetti simbolici.
Questa particolare soluzione berniniana venne chiamata “luce alla bernina”.
Il fulcro, visivo e spirituale, dell’intero complesso è il
gruppo scultoreo con l’Estasi di santa Teresa, in cui la santa
appare sospesa a mezz’aria su una nuvola, totalmente
rapita: gli occhi socchiusi, la bocca semiaperta, le braccia
abbandonate. Un serafino sorridente le scosta appena un
lembo dell’ampia tunica, che nasconde un delicato corpo
femminile, ed è pronto a trafiggerle il cuore con un dardo
dorato, simbolo dell’amore divino.

Gian Lorenzo Bernini, Estasi di santa Teresa d’Avila, 1647 ca, marmi e stucchi
dorati, h cm 350. Roma, Chiesa di Santa Maria della Vittoria, Cappella Cornaro
Santa Teresa d’Avila è semidistesa al di sopra di una
nuvola che la trasporta in alto, nel cielo. Sopra di lei poi, a
sinistra, un Cherubino scaglia un dardo per colpire la
Santa al cuore spostando il tessuto della sua veste. Santa
Teresa inoltre indossa un abito molto ampio e vaporoso
mosso dal vento che crea pieghe scomposte. Infine, il suo
corpo è completamente abbandonato e il viso assume
un’espressione languida. Gli occhi chiusi poi sono rivolti
al cielo e le labbra socchiuse.
L’Estasi di santa Teresa è nota anche come Transverberazione di Santa Teresa d’Avila.
Il termine transverberazione deriva dal latino “trans verberare”, cioè trafiggere. Secondo l’interpretazione
mistica cattolica, Cristo o un angelo trafiggono fisicamente con un oggetto affilato il cuore del
fedele. Bernini inoltre si ispirò ad un passo riportato negli scritti della Santa. La religiosa descrisse una delle sue
esperienze mistiche definite come rapimento celeste (Santa Teresa d’Avila, Autobiografia, XXIX, 13).
“Vedevo un angelo vicino a me, a sinistra, in
sembianze carnali, come non ne avevo mai visti tranne
che nelle mie visioni. [...] Non era alto, era piccolo, e
molto bello, aveva il volto così illuminato che mi
sembrava uno degli angeli delle schiere più alte, quelli che
sembrano bruciare. [...] Gli vedevo in mano un lungo
dardo dorato, e alla fine del ferro mi sembrava ci fosse
un po’ di fuoco. Mi sembrava che col dardo mi
trafiggesse il cuore alcune volte, e che mi arrivasse fino
alle viscere. Quando toglieva il dardo, mi sembrava quasi
che se le portasse via con sé, e che mi lasciasse tutta
bruciare di un grande amore per Dio. Il dolore era
così forte che mi faceva emettere alcuni gemiti, ma
era così grande la dolcezza che questo fortissimo
dolore mi dava, che non riuscivo a desiderare che
smettesse, né che la mia anima si contentasse con altro
che non fosse Dio. Non era un dolore fisico, ma
spirituale, anche se in qualche misura lo stesso corpo
ne era partecipe, anzi lo era davvero molto. Era una
carezza così dolce tra l’anima e Dio, che prego la sua
bontà affinché la possano provare anche coloro che
pensano che io menta”.
I corpi in marmo, materiale pesante per antonomasia, ci appaiono
oltremodo leggeri nel loro muoversi a mezz’aria (il gruppo, peraltro,
non poggia a terra, ma è fissato alla parete della cappella da dietro, per dare
l’illusione che le figure si librino davvero nello spazio), sospesi su
quelle nuvolette che trasportano santa Teresa in una dimensione
spirituale. E ancora, l’aria che solleva la sua veste muovendola in tutte le
direzioni e facendole assumere pieghe innaturali sembra quasi annullare
la sua natura corporea: sotto le mille pieghe dell’ampio saio non
riusciamo a distinguere le fattezze di santa Teresa, e alla nostra vista si
presentano solo i piedi delicatissimi, le belle mani e il volto
attraversato da questo indicibile sentimento.
Malgrado quest’assenza di corporalità, certi autori hanno
provato a fornire un’interpretazione dell’estasi di santa
Teresa in chiave erotica: interpretazione certo suggestiva e
confortata dalla sottile sensualità che l’opera sicuramente
può ispirare, ma che comunque mal s’adatta alle fonti che
parlano di Bernini come di un artista molto religioso e
che, pertanto, possiamo immaginare poco incline a fornire
rappresentazioni della santa che avrebbe potuto ritenere
blasfeme.

Potrebbero piacerti anche