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2 La socializzazione organizzativa dei nuovi assunti:

adattarsi a nuovi ruoli, colleghi e organizzazioni


Socializzazione organizzativa -> processo attraverso il quale i nuovi assunti, o newcomer, passano
dall’essere individui esterni al diventare membri interni.
È importante parlarne per quattro ragioni:

1) Costi organizzativi che possono derivare dal fallimento del processo di socializzazione del
lavoratore. (Turnover)
2) Una socializzazione efficace può porre le basi per lo sviluppo di alti livelli di commitment e di
prestazione del dipendente. L’efficacia del processo di socializzazione porta ad una più alta
soddisfazione lavorativa, ad un maggiore commitment organizzativo, ad una superiore prestazione.
3) La socializzazione rappresenta uno dei mezzi chiave per la trasmissione delle norme e dei valori
organizzativi ai nuovi assunti e viceversa.
4) Rappresenta uno strumento di estrema importanza per informare i nuovi membri su importanti
politiche organizzative e dinamiche di potere che rappresentano conoscenze utili per il
raggiungimento del successo nel loro nuovo ruolo.

Socializzazione e fit organizzativo nel corso dell’intero arco di vita


Nella vita adulta, il lavoro contribuisce alla sicurezza e all’identità della persona e può avere un notevole
impatto sul benessere fisico e psicologico degli individui. Nel corso della vita, la partecipazione al mercato
del lavoro può ricoprire un periodo di cinque o più decadi. In questo arco di tempo, gli individui crescono e
maturano, apprendono nuove abilità, sviluppano domini di conoscenze relativi a compiti e specifiche
competenze lavorative, creano, modificano e pongono fine a importanti legami relazionali.
Il contesto lavorativo è sempre più multigenerazionale e variegato, di conseguenza, la ricerca organizzativa
ha iniziato sempre più a focalizzarsi sui fattori che influenzano la motivazione, gli atteggiamenti ed il
benessere dei lavoratori in diverse fasi della vita. Il lavoro contribuisce alla costruzione del senso di sé e al
cambiamento delle abilità, dell’identità, e dei bisogni nell’arco della vita.

La Socioemotional Selectivity Thoery (teoria della selettività socio-emotiva)

Sostiene che a causa dei cambiamenti associati allo sviluppo nel corso della vita dei lavoratori, diversi valori
fino ad oggi ritenuti fondativi saranno più o meno salienti: i giovani tendono a perseguire obiettivi di
carriera, i più anziani tendono a prediligere obiettivi di regolazione emotiva.
Se i lavoratori traggono significato e informazioni sulla propria identità dal ruolo lavorativo che ricoprono,
allora tenderanno a prendere in considerazione opportunità lavorative in linea con le concezioni che hanno
di loro stessi.

Attraction-Selection-Attrition-Model (modello attrazione-selezione-attrito, ASA)

Sostiene che gli individui saranno attratti da altri individui, gruppi, o organizzazione ritenuti simili a loro che
rafforzano l’immagine che hanno di sé. Individui con caratteristiche congruenti con quelle del gruppo
avranno maggiori possibilità di essere scelti e accettati dal gruppo. Vedi schema pg 12
Apprendimento Organizzativo e riduzione dell’incertezza
Klein e Heuser -> l’apprendimento a diversi livelli organizzativi (i.e., organizzazione, gruppo di lavoro,
lavoro) è una componente chiave di un efficace processo di socializzazione organizzativa.
Socializzazione organizzativa dei nuovi membri: focalizzandosi sui fattori in grado di promuovere
l’apprendimento (es. tattiche organizzative) in fase di socializzazione, e rilevando ciò che effettivamente
viene appreso dai nuovi assunti.

Teoria della riduzione dell’incertezza

Fornisce una prospettiva teorica molto utile per inquadrare i fattori in grado di contribuire all’efficacia della
socializzazione organizzativa. Le fasi:

- Fase di ingresso: individui sono alla ricerca di informazioni facili da reperire;


- Fase personale: individui cercano informazioni non immediatamente disponibili (es. valori,
credenze, o atteggiamenti dell’altra persona);
- Fase d’uscita: Individui negoziano progetti per le interazioni future (i.e., se la relazione proseguirà o
no).

Questa teoria definisce come i nuovi lavoratori percepiscono chiarezza di ruolo (i.e., la misura in cui
comprendono le attività e le priorità del loro lavoro), autoefficacia (i.e., le convinzioni dei nuovi assunti
rispetto alle loro capacità di essere competenti e efficaci nel loro ruolo), e accettazione da parte dei membri
interni (i.e., sentirsi accettati, apprezzati, degni di fiducia).

Iniziative dell’organizzazione:

Tattiche

Van Maanen e Schein hanno introdotto il concetto di tattiche di socializzazione organizzativa,


riconoscendone sei dimensioni: socializzazione versus individuale, socializzazione formale o informale, fasi
di formazione sequenziali o casuali, fasi di formazione prefissate o variabili, tattiche seriali o separatiste,
investitura o non investitura. Jones e altri studiosi hanno collocato queste tattiche lungo un continuum
composto da due estremi:

- Tattiche istituzionalizzanti (i.e., la combinazione di tattiche collettive, formali, sequenziali, prefissate


e di investitura);
- Tattiche individualizzate (i.e., tattiche individuali, formali, causali, variabili, separatiste e di non
investitura).

Reclutamento

Walker e colleghi hanno rilevato che durante il processo di reclutamento i candidati erano influenzati dalle
interazioni che avevano con l’organizzazione, che potevano servire a mantenere vivo il loro interesse. Ciò
che succede in fase di reclutamento pone le basi per le aspettative su come sarà la vita all’interno
dell’organizzazione una volta che si entrerà a farne parte.
Aspettative realistiche sul lavoro -> possibilità per il candidato di ottenere informazioni accurate sulla
natura dell’attività lavorativa che andrà a svolgere (in termini di compiti lavorativi attesi, ambiente sociale,
cultura organizzativa, ecc…) durante la fase di reclutamento.
Orientamento

Quando un nuovo lavoratore viene assunto, una delle sue prime attività formali è prendere parte ad un
processo di orientamento dei nuovi assunti (new-employ orientation, NEO). È dimostrato che coloro che vi
partecipano tendono ad inserirsi in modo più efficace rispetto a coloro che non ne hanno beneficiato.
Vedi schema pg 22

Membri interni dell’organizzazione

La socializzazione non avviene nel vuoto sociale. Relazioni con i colleghi, con i superiori, e con i mentori
hanno mostrato quanto siano aspetti fondamentali per l’adattamento sociale. Poiché il processo di
socializzazione risulti efficace è importante instaurare buone relazioni con i colleghi, conoscerli, guadagnare
il loro rispetto, socializzare con loro contribuendo ad agevolare l’inserimento dei nuovi assunti.
I newcomer che nelle fasi iniziali della loro esperienza vengono sminuiti dai loro capi sono ad alto rischio di
turnover. Inoltre il supporto dei membri interni nei confronti dei nuovi assunti tende a declinare dopo 90
giorni: i primi novanta giorni sono critici per il processo di adattamento dei newcomer.

Secondo la prospettiva interazionista le caratteristiche ed i comportamenti dei nuovi assunti interagiscono


con l’organizzazione e con i suoi membri, influenzandosi reciprocamente.

La personalità dei neoassunti: i newcomer con una personalità più proattiva sono più motivati ad
apprendere, tendono a prendere l’iniziativa e a cercare informazioni e opportunità per imparare le abilità
necessarie, stabiliscono relazioni con i loro colleghi, e mettono spontaneamente in atto azioni che possono
facilitare la loro integrazione nel sistema organizzativo. Alti livelli di Estroversione (i.e., socievolezza,
gregarietà, assertività) e di Apertura Mentale (i.e., curiosità, intelligenza, audacia) si associano a migliori
livelli di adattamento.

L’autoefficacia dei neoassunti: l’autoefficacia insieme alle tattiche di socializzazione porta a


comportamenti proattivi, tra cui la ricerca di feedback e di informazioni, e le interazioni. Oppure esiti più
distali della socializzazione come ad esempio commitment organizzativo.

La ricerca di informazioni: i nuovi assunti che cercano attivamente informazioni sul proprio ruolo
lavorativo e sull’organizzazione mostrano un adattamento più positivo in termini di chiarezza del ruolo,
autoefficacia e accettazione sociale.

La ricerca di feedback: consiste in un tentativo realmente attivo di comprendere come le altre persone
all’interno dell’ambiente di lavoro interpretano il comportamento del nuovo assunto. Porta a maggiori
livelli di soddisfazione lavorativa e minore tendenza a lasciare il lavoro nei mesi successivi.
Chiarezza del ruolo: si riferisce al grado in cui un lavoratore comprende il proprio ruolo. Lo stress
associato al ruolo (i.e., ambiguità e conflitto di ruolo) ha un impatto negativo sulla prestazione e sul
benessere dei lavoratori. Chiarezza collegata a elevati livelli di prestazione e minor turnover.

Job Crafting -> si riferisce ad un processo di modifica delle mansioni, cognizioni e relazioni associate al
lavoro con lo scopo di incrementarne valore e significato. Si riconosce il ruolo dei newcomer e delle loro
convinzioni e cognizioni non solo nel facilitarne l’inserimento nel loro nuovo ruolo, ma anche nel desiderio
di rimanere nell’organizzazione o di ricoprire una certa posizione.
La stipula di accordi personalizzati (idiosynancratic deals, i-deals) si riferisce al processo attraverso cui i
lavoratori negoziano le proprie condizioni di lavoro e benfit. I lavoratori che hanno successo nel negoziare
cambiamenti nel loro contratto di lavoro percepiscono un fit maggiore con il proprio lavoro, maggior
soddisfazione, e tendono a rimanere nell’organizzazione.

Autoefficacia -> può essere considerata sia come esito prossimale delle pratiche di socializzazione, sia come
predittore di attitudini e comportamenti più distali. Predice il grado in cui i nuovi assunti parteciperanno
attivamente al processo di socializzazione, sia i successivi atteggiamenti e comportamenti sul lavoro, come
le percezione del fit con il lavoro e con l’organizzazione, la soddisfazione lavorativa ed il commitment.

Accettazione Sociale -> risulta essere un importante indicatore di un inserimento di successo nel processo
di socializzazione. Sentirsi accettati dai membri interni dell’organizzazione consente di accedere ad
informazioni utili per la prestazione ed il funzionamento all’interno del gruppo, maggiore attrazione verso il
gruppo, percezioni più elevate del fit e intenzione di rimanere nell’organizzazione.

Atteggiamenti verso il lavoro: gli atteggiamenti piuù studiati sono la soddisfazione lavorativa,
commitment organizzativo e le intenzioni di lasciare l’organizzazione. Questi hanno un impatto positivo su
prestazione in-role ed extra-role, intenzioni di turnover, del turnover effettivo e delle prestazione
lavorativa.

Saks e colleghi hanno mostrato come ci fosse un relazione tra tattiche organizzative, in particolare quelle
classificate come di investitura/istituzionalizzate/di contenuto/collettive, e la prestazione dei nuovi assunti.
la ricerca di feedback, uno dei comportamenti proattivi che i newcomer possono mettere in atto, è
significativamente e negativamente associato al turnover.
Bauer e Erdogan hanno proposto altri possibili esiti del processo di socializzazione: le percezioni del lavoro
o del fit organizzativo, lo stress ed il benessere dei lavoratori, i comportamenti lavorativi etici, il
cambiamento organizzativo, il conflitto lavoro-famiglia, la soddisfazione di vita, la percezione di essere
troppo qualificati, i cambiamenti nelle relazioni organizzative, lo stress ed il benessere del leader.
10 La prestazione lavorativa
O’Boyle e Aguins hanno definito la prestazione lavorativa come il risultato dell’azione organizzativa
individuale. Motowidlo e Kell hanno ampliato questa definizione affermando che il termine coglie il valore
atteso totale dell’intera gamma dei singoli episodi comportamentali che un lavoratore mette in atto nel
corso di un intervallo temporale prestabilito. Campbell identifica la PL (prestazione lavorativa) nei
comportamenti che gli individui mettono in atto per raggiungere un determinato risultato, per cui questa
definizione sposta l’attenzione sulle caratteristiche dinamiche dei fenomeni prestativi e sul loro
rappresentare dei processi organizzativi.
Schmidt e Kaplan hanno infine definito la PL come un valore. L’idea fondamentale è che ogni valutazione
della prestazione di un individuo convogli necessariamente una misura del suo successo lavorativo, ovvero
del valore che il singolo assume per l’organizzazione alla quale appartiene.

Punti comuni delle definizioni: la prestazione lavorativa si compone solo di quei comportamenti rilevanti,
promossi e premiati dall’organizzazione in cui lavora, ovvero quei comportamenti per il quale è stato
assunto; la valutazione della PL richiede un processo di giudizio e di valutazione del lavoro svolto; possono
essere considerati parte della PL solo quei comportamenti che possono essere “scalati”, misurati; la PL così
definita costituisce un costrutto latente, definito da un’ampia serie di comportamenti osservabili.

Struttura della prestazione lavorativa

Tra le numerose componenti che compongono la PL due risultano particolarmente importanti:

- Task Performance -> prestazione in uno specifico compito. Indica l’efficienza con la quale un individuo
svolge quei compiti che contribuiscono al nucleo tecnico dell’organizzazione. Tale contributo può essere
diretto o indiretto, a seconda della tipologia di attività lavorativa svolta dal lavoratore.

Approcci allo studio della task performance:

1) Approccio Unidimensionale (Hulin e Viswesvaran e Ones) -> si basa sull’assunto che i


comportamenti alla base della prestazione lavorativa tendano necessariamente ad essere correlati
tra loro poiché essi sono influenzati dallo stesso set di abilità e tratti di personalità, quali ad
esempio le abilità cognitive e la coscienziosità. Il risultato della correlazione tra le componenti della
prestazione lavorativa è l’emersione di un fattore generale che rappresenta un po’ il corrispettivo
del fattore “g” dell’intelligenza.
2) Approccio Multidimensionale (Campbell e Viswesvaran) ->
Campbell e colleghi distinguono otto componenti principali della prestazione lavorativa:
competenza nei compiti specifici del lavoro, competenze i compiti non specifici del lavoro e quindi
utili per svolgerlo bene ma non essenziali, competenze nei compiti di comunicazione verbale e
scritta, dimostrazione di impegno, competenza nel mantenere un adeguato livello di autodisciplina,
competenza nel promuovere la prestazione del proprio gruppo o dei colleghi diretti, competenze di
supervisione e leadership, competenze di gestione ed amministrazione.
Il modello proposto da Viswesvaran invece deriva dall’estensione dell’ipotesi lessicale alla base
degli studi sui fattori di base in psicologia della personalità. Questi autori hanno derivato una lista di
dieci dimensioni costitutive della prestazione lavorativa: produttività, impegno, conoscenza del
lavoro, competenza interpersonale, competenza amministrativa, qualità, competenza
comunicativa, leadership, prestazione generale, conformismo verso l’autorità.
- Contextual Performance -> prestazione contestuale. Coglie tutti quei comportamenti organizzativi che,
pur non contribuendo al raggiungimento degli obiettivi tecnici dell’organizzazione, contribuiscono allo
sviluppo ed al mantenimento dell’ambiente organizzativo sociale e psicologico. Elementi costitutivi della
contextual performance sono i comportamenti di cittadinanza organizzativa e la partecipazione attiva al
proprio ambiente di lavoro, e l’impegno per il suo miglioramento.
Secondo Sonnentag e Frese è possibile ricomprendere i costrutti compresi nella contextual performance
all’interno di due grandi macro categorie: comportamenti che consentono primariamente il buon
funzionamento organizzativo rispettando la sua configurazione attuale, e comportamenti proattivi che
invece mirano a cambiare e migliorare le procedure ed i processi organizzativi.

Borman e Motowidlo sostengono che: il tipo di comportamenti e attività che definiscono la task
performance tendano ad essere specifici ad un determinato lavoro, mentre quelli che definiscono la
contextual performance tendano a mostrarsi molto simili anche attraverso lavori diversi; il livello di task
performance espresso da un determinato lavoratore sia funzione delle sue abilità, mentre la contextual
performance sia funzione della sua personalità e motivazione; la task performance sia definita da
comportamenti prescritti dal ruolo o in-role behaviors, mentre la contextual performance sia definita da
comportamenti di tipo descrizionale ed extra ruolo.

Oltre alle chiare differenze concettuali, task e contextual performance si sono dimostrate dimensioni
distinte in una lunga serie di studi empirici, risultando predette da variabili diverse. L’abilità mentale e le
abilità nel lavoro tendono a predire la task meglio dei tratti di personalità, e viceversa per la contextual.

Approccio centrato sull’individuo

L’assunto fondamentale di questa teoria è che le differenti capacità prestative che si osservano tra
lavoratori diversi siano il risultato di differenze stabili nei loro tratti di personalità, abilità, competenze e
motivazione la prestazione espressa da ciascun singolo lavoratore sulle otto singole dimensioni di Campbell
viene considerata quale funzione di tre determinanti:

1) Conoscenza Dichiarativa: riguarda la conoscenza rispetto ai fatti, i principi, gli obiettivi ed il proprio
sé. Campbell suggerisce che questo tipo di conoscenza derivi dalle abilità individuali di base, dalla
personalità, dagli interessi, dal percorso formativo, dall’addestramento al lavoro, dall’esperienza
lavorativa e dall’interazione tra questi fattori.

2) Conoscenza Procedurale e Abilità: le conoscenze procedurali vengono apprese dalle persone


attraverso la pratica diretta, l’osservazione o la formazione, nello svolgimento di un compito
specifico. Le abilità, così come concettualizzate nel modello, colgono la massima capacità espressa
dall’individuo nello svolgere un determinato compito, quando gli viene richiesto di fare del suo
meglio.

3) Motivazione: i processi motivazionali colgono la capacità degli individui di attivare le proprie risorse,
direzionarle ed impegnarle per il raggiungimento di specifici obiettivi.
Le abilità personali:

CATEGORIA DEFINIZIONE
Abilità Fisiche Abilità utili allo svolgimento di un compito attraverso l’utilizzo di
movimenti del corpo, della forza, del coordinamento o della velocità.
Abilità Sensoriali Fanno riferimento alle funzioni fisiche della vista, dell’udito, del tatto, del
gusto, dell’olfatto e del feedback cinestesico (es. rilevazione dei
cambiamenti nella postura del corpo).
Abilità psicosomatiche Comprendono le funzioni fisiche del movimento, unite al coordinamento,
alla destrezza, e al tempo di reazione.
Abilità cognitive Capacità associate ad una corretta interpretazione ed integrazione della
realtà. Rientrano in questa categoria l’abilità verbale, l’abilità percettiva,
l’abilità spaziale, l’abilità creativa e la memoria.

Approccio centrato sulla situazione

Questo approccio pone al centro dell’analisi i fattori ambientali che possono svolgere un ruolo di supporto
o di impedimento alla prestazione lavorativa. L’idea di fondo è che esistano alcune situazioni lavorative
nelle quali gli individui tendono a rendere meglio ed altre invece in cui rendono peggio.

- Teoria dei sistemi sociotecnici

Questa teoria si centra più sulla prestazione del gruppo di lavoro che del singolo individuo e descrive i
sistemi lavorativi come composti da sottosistemi tecnici e sociali i quali possono avere un effetto positivo
sulla prestazione solo se congiuntamente ottimizzati. A questo fine vengono precisati un serie di principi
per il disegno del lavoro che vanno dalla compatibilità tra i processi lavorativi ed i loro obiettivi, alla
specificazione essenziali degli obiettivi, all’allocazione razionale dei compiti, ed al controllo puntuale e
contingente dei problemi e degli eventi imprevisti.

- Job Characteristics Model

Questo modello pone l’accento sull’influenza che le caratteristiche del lavoro (abilità, natura e significato
del compito, livello di autonomia, feedback) hanno sullo stato psicologico contingente dell’individuo
(percezione di importanza di ciò che si fa, percezione di responsabilità, conoscenza dei risultati attesi), e sui
risultati del lavoro sia sull’individuo che sul livello di prestazione espressa.

- Caratteristiche situazionali che ostacolano la prestazione

All’interno della teoria dei ruoli, l’ambiguità percepita rispetto al proprio ruolo lavorativo è concettualizzata
come uno stressor in grado di ostacolare la prestazione lavorativa. Gli approcci allo studio del
comportamento organizzativo basati sull’autoregolazione o sul concetto di bilanciamento tra domande e
risorse pongono l’accento su quelle caratteristiche dei contesti lavorativi che richiedono sforzi di
autoregolazione aggiuntivi o l’utilizzo di risorse addizionali agli individui, a tutto detrimento del loro
potenziale prestativo.
Forza Situazionale -> Il concetto rende conto del potere delle caratteristiche dell’ambiente in cui si svolge il
comportamento lavorativo nel limitare, vincolare e nel plasmare l’azione dell’individuo. Nelle situazioni
forti l’espressione delle caratteristiche personali è limitata, perché la gamma di azioni possibili è
predeterminata. In questo tipo di situazioni la relazione tra personalità e prestazione è smorzata, mentre
rimane importante il ruolo svolto dalle competenze possedute.
Meyer e coll. hanno proposto un modello della forza situazionale composta da due dimensioni principali:

- Vincoli (constraints): coglie il grado in cui la libertà di decisione e/o azione del singolo è limitata
da forze a lui esterne.
- Conseguenze (consequences): coglie il grado in cui le decisioni e/o le azioni hanno implicazioni
significative per una data persona o entità.

Approccio centrato sull’autoregolazione

La teoria dell’azione (action theory) si propone come una descrizione del processo prestativo alla stregua di
un qualsiasi processo di messa in atto di una sequenza organizzata di azioni, adottando un punto di vista sia
strutturale che processuale. Il punto di vista strutturale esamina l’organizzazione gerarchica delle azioni che
compongono il processo prestativo. Quello dinamico invece si concentra sull’organizzazione sequenziale
delle azioni stesse.
Roe propone un modello di analisi dinamico della prestazione lavorativa che deriva dall’integrazione di
diversi approcci teorici. Individua cinque grandi processi di autoregolazione coinvolti nella prestazione
lavorativa: teoria dell’azione, regolazione energetica, regolazione emotiva, regolazione della vitalità,
regolazione dell’immagine di sé. Secondo Roe il livello di PL espresso da ogni singolo individuo dipende
dall’interazione dinamica di ognuno di questi cinque processi. L’ambito di ricerca sull’expertise e
l’eccellenza è caratterizzato da un profondo interesse per l’individuazione delle caratteristiche che
distinguono tra loro gli individui che esprimono livelli diversi di prestazione lavorativa. Le persone che
esprimono bassi ed alti livelli di PL differiscono nel modo in cui approcciano al compito.

Secondo Mitchell le caratteristiche dell’individuo e le caratteristiche della situazione si integrano a vicenda


intervenendo in diversi momenti nel processo prestativo.

Teoria dell’attivazione dei tratti

Si tratta di una teoria della personalità applicata allo studio della prestazione lavorativa. È incentrata sul
concetto di attivazione dei tratti e propone un’integrazione tra le prospettive della teoria dei tratti,
dell’approccio situazionale e della teoria del fit persona-organizzazione. Secondo questa teoria i tratti di
personalità si manifestano in situazioni lavorative soltanto se vi sono circostanze che rendono salienti tali
tratti. L’enfasi è dunque posta sull’importanza di un tratto di personalità in una determinata situazione, al
fine di comprendere le circostanze entro le quali è probabile che quel tratto si manifesti.
Un aspetto rilevante della teoria è il concetto di forza della situazione. La rilevanza di un tratto e la forza
della situazione sono i due aspetti che determinano il potenziale di attivazione di un tratto. Se da un lato la
rilevanza di un tratto è un aspetto qualitativo e un tratto-specifico di una determinata situazione, dall’altro
la forza della situazione può essere considerata un continuum lungo il quale è possibili definire con quanta
chiarezza tale situazione viene percepita. Pertanto aumentando la forza della situazione si ridurrà l’effetto
delle differenze individuali sul comportamento, e viceversa.
Per lo studio della prestazione lavorativa da un punto di vista dinamico è cruciale la scelta della scala
temporale (l’intervallo rispetto al quale le diverse misure della PL vanno raccolte) e dell’intervallo
temporale (il tipo di variabilità e di cambiamento che sarà possibile rilevare).

I dati longitudinali offrono diverse possibilità conoscitive. Essi contengono informazioni relative a come le
persone cambiano rispetto agli altri individui presenti nel campione.
Questo livello di analisi viene definito between person-level, o livello di analisi “tra le persone”.
La stabilità dell’ordine di rango, spesso indicata anche con il termine di stabilità relativa, quantifica il grado
in cui le differenze tra individui nei livelli di prestazione espressa sino mantenuti nel corso del tempo.
Il livello di analisi within person-level, o livello di analisi “interno all’individuo” è spesso considerato il
livello dei processi, ovvero delle dinamiche intra-d solito gli studi condotti a questo livello utilizzano le
differenze osservate tra due punteggi temporalmente spaziati ottenuti da uno stesso individuo nella
prestazione lavorativa come indice di cambiamento.

Livello di analisi between person-level

L’esame del livello di stabilità dell’ordine di rango è al centro di quella che è stata denominata come “la
polemica sui criteri dinamici”. L’idea è che il livello di prestazione espresso da individui diversi potesse non
essere stabile, ma mutare nel tempo, è stata discussa nel campo degli studi sulla selezione del personale fin
dai primi anni 60’. Le evidenze accumulatesi nel tempo hanno di fatto avvalorato la tesi che la PL si
comporti a tutti gli effetti come un criterio dinamico, e che la correlazione tra due differenti misure di
prestazione diminuisca all’aumentare del tempo. Sono state offerte numerose spiegazioni per questo
fenomeno: la tendenza degli individui con punteggi estremamente alti o estremamente bassi a mostrare
nel corso del tempo una decisa tendenza a ritornare verso la media del proprio gruppo di riferimento;
oppure l’azione di cambiamenti temporanei nei livelli di abilità o nei tratti di personalità degli individui; o
ancora cambiamenti nell’ambiente lavorativo, nei ruoli, offerte di incentivi esterni, ecc.
Alessandri, Truxillo, Tisak, Fagnani e Borgogni hanno indagato l’adattamento di diverse funzioni statistiche
al pattern di cambiamento osservato nei coefficienti di correlazione calcolati sulla stessa misura a distanza
di 1,2,3,4,5,6 e anni, la prestazione lavorativa segue una funzione di decadimento non lineare del tipo
S = a + ( 1 – a ) * e –bt. Alessandri e Borgogni hanno testato l’ipotesi che la stabilità relativa alla PL potesse
variare in funzione dell’età del lavoratore, della sua anzianità lavorativa, e della sua tenure. I loro risultati
mostrano che solo l’età risulta un predittore significativo del livello di stabilità relativa mostrata dalla PL.

Livello di analisi within person-level

A questo livello di analisi è possibile distinguere diversi indici di stabilità e cambiamento (o variabilità),
ognuno dei quali corrisponde più o meno direttamente ad una diversa concezione del fenomeno. Le diverse
tipologie di stabilità e cambiamento non differiscono solo teoricamente (ovvero rispetto a come sono
concepite) e tecnicamente (ovvero come sono calcolate), ma assumono un significato diverso a seconda
dell’intervallo temporale durante il quale sono misurate.
Una prima forma di cambiamento riguarda le traiettorie di sviluppo, lineari o non lineari, che generalmente
vengono descritte come curve di crescita. Il termine curva esprime l’idea generale che il cambiamento
avviene in maniera continua e tende spesso ad alternare fasi di crescita e di declino.
Una seconda forma di cambiamento osservabile al livello degli individui sono i cicli, termine che descrive la
tendenza della PL a mostrare fasi alterne di crescita e decrescita. Sebbene questa forma di cambiamento sia
osservabile negli studi “a breve termine”, essa è ampiamente documentata anche negli studi che hanno
studiato i cambiamenti osservati nella PL durante i periodi di tempo piuttosto estesi.
Un aspetto importante dei cambiamenti osservabili a livello di PL riguarda la natura dei cambiamenti stessi.
Alcuni infatti tendono ad essere stabili e a produrre alterazioni che rimarranno stabili nel tempo. Alcuni
cambiamenti invece tendono a rilevarsi effimeri, e dunque a svanire col passare del tempo. Altri invece
possono permanere più a lungo e poi svanire per sempre.
Nella prestazione lavorativa è possibile distinguere una componente stabile che cambia lentamente, ma
irreversibilmente nel corso del tempo, ed una componente mutevole che cambia rapidamente e
reversibilmente anche nel corso di brevi intervalli temporali. I due tipi di cambiamento, riversibili e
irreversibili, tendono a riguardare i primi la componente stabile della prestazione, e i secondi la
componente mutevole.

Modelli centrati sul cambiamento dell’individuo

Una seconda serie di teorie, riunite sotto l’etichetta changing-person model, assume invece che
all’accumularsi dell’esperienza in un determinato compito aumentino le abilità specifiche dell’individuo nel
compito stesso. Secondo Alvares e Hulin le abilità necessarie per svolgere un compito possono essere
apprese, dimenticate, migliorate attraverso la pratica e anche soppresse. Al variare delle abilità possedute
da un individuo rispetto ad un compito specifico varierà conseguentemente la sua prestazione lavorativa.

Modello di Murphy -> assume la prestazione cambi al variare delle condizioni e delle richieste lavorative
determinando a sua volta una richiesta di cambiamento nelle abilità possedute dall’individuo. Egli ha
individuato due fasi fondamentali:

- Fase di mantenimento: si verifica quando le persone hanno già acquisito le informazioni


necessarie a comprendere la natura delle procedure e delle attività che caratterizzano il loro lavoro,
e hanno sviluppato l’esperienza necessaria a svolgere al meglio i propri compiti.
- Fase di transizione: periodo durante il quale le persone imparano a svolgere le attività e le
procedure richieste dal proprio ruolo lavorativo.

Un elemento importante di questo modello è il ruolo differente assegnato alle caratteristiche individuali
durante le due fasi: durante la fase di mantenimento le persone hanno già acquisito le informazioni
necessarie per comprendere le richieste lavorative e l’esperienza maturata nel compito fornisce loro le
competenze necessarie per il suo svolgimento; durante la fase di transizione le persone non possono fare
del tutto affidamento sulle proprie esperienze precedenti, ma sulle proprie abilità di apprendimento.

Modello della Selezione, Ottimizzazione e Compensazione

Si tratta di un modello più generale introdotto da Baltes e colleghi che è spesso utilizzato per la spiegazione
dei cambiamenti prodotti nella PL dal declino delle abilità lavorative determinato dall’età.
Questo meta-modello propone l’esistenza di tre principali strategie di adattamento che le persone
utilizzano per investire le risorse personali per aggiornare le proprie competenze:

- (S) selezione: ovvero il processo di selezione degli obiettivi necessari al mantenimento di un


appropriato rapporto guadagno-perdita;
- (O) ottimizzazione: ovvero il processo di allocazione razionale delle risorse personali ed ambientali
al fine di raggiungere livelli di prestazione/funzionamento superiore in specifici ambiti di interesse;
- (C) compensazione: ovvero il processo di compensare la perdita di risorse o abilità in un
determinato ambito prestativo con la messa in atto di strategie o processi sostitutivi.

Rispetto alla PL, il modello SOC suggerisce che l’utilizzo razionale delle tre strategie abbia conseguenze
diverse a seconda della fase lavorativa in cui si trova l’individuo.
Teoria degli eventi affettivi

La teoria fu introdotta da Weiss e Cropanzano e rappresenta uno dei modelli più influenti nello studio della
variabilità nella prestazione. Questi autori postulano l’esistenza di due processi paralleli, di cui uno si
sviluppo a livello del singolo individuo, l’altro avviene invece tra gli individui. Il comportamento prestativo
deriverebbe dall’interazione dinamica di questi due processi.
A livello del singolo individuo il comportamento prestativo è il risultato di micro-cambiamenti affettivi,
determinati dal livello affettivo di base che caratterizza l’individuo, e delle sue continue alterazioni. I cicli
affettivi di base vengono continuamente alterati dai singoli episodi di alterazione determinanti, ad esempio,
dal verificarsi di eventi lavorativi di varia natura positiva o negativa. Di conseguenza l’individuo sarà più
reattivo ad un repentino cambiamento del clima lavorativo percepito, che magari passa rapidamente da
positivo a negativo nel giro di pochi secondi, che ad un clima lavorativo stabilmente negativo.
A livello delle differenze tra individui la prestazione lavorativa è ritenuta una funzione di fattori cognitivi
stabili, o attitudini stabili relative al proprio lavoro (come ad esempio la soddisfazione lavorativa) che a loro
volta derivano da caratteristiche stabili del lavoro.
Un merito importante del modello è quello di presentare un’utile cornice teorica di riferimento per l’analisi
dinamica del comportamento prestativo capace di sussumere al suo interno concetti appartenenti ad
approcci teorici differenti. Infine la teoria, rispetto ai modelli presentati precedentemente, si rileva
particolarmente utile per lo studio dei processi a brevissimo termine (ore, giorni, settimane) che
determinano variazioni, alterazioni reversibili e non necessariamente cambiamenti stabili nella PL.

Modello dei processi episodici

Rappresenta un’estensione del modello degli eventi affettivi, ed è centrato sul concetto di episodi
prestativi, definiti come segmenti comportamentali organizzati tematicamente intorno a obiettivi rilevanti
da un punto di vista organizzativo. Un episodio prestativo si definisce positivo qualora durante il suo
svolgimento l’individuo abbia dedicato tutta la sua attenzione al compito lavorativo senza alcuna
distrazione determinata da un evento affettivamente rilevante o l’intrusione nel suo spazio mentale di
elementi estranei al lavoro.

Una teoria classica sugli studi sulle dinamiche prestative è quella incentrata sulla distinzione tra
prestazione tipica, definita come ciò che gli individui devono fare (o fanno) al lavoro, e prestazione
massima, ovvero quello che potrebbero fare qualora si chiedesse loro di svolgere un compito al meglio.
Beus e Withman hanno dimostrato come queste due differenti forme di PL siano distinte, essendo solo
moderatamente correlate tra loro. La prestazione tipica sarebbe il risultato dei processi motivazionali
interni all’individuo e delle sue caratteristiche di personalità, mentre la prestazione massima sarebbe
principalmente una funzione delle sue abilità mentali e dell’intelligenza.

Valutazione delle prestazione lavorativa

Un metodo molto utilizzato per valutare la PL sia in ambito organizzativo che in ambito di ricerca è quello
basato sulla valutazione diretta dell’individuo su diversi indicatori di prestazione effettuata dal soggetto
stesso, dal collega o un pari, da un supervisore o da un capo.

Altri metodi si basano sullo svolgimento di compiti organizzativi simulati. Le simulazioni hanno dalla loro
parte il realismo e l’elevata validità esterna. Tuttavia poiché il loro contenuto deve essere spesso
necessariamente limitato a specifici compiti lavorativi, e per questo possono mostrare validità piuttosto
limitata.
3 Gruppi nelle organizzazioni
L’instabilità e le trasformazioni del mercato hanno spinto le organizzazioni a trovare nei gruppi di lavoro un
importante punto di riferimento. I gruppi di lavoro rappresentano il contesto primario e più prossimo a
influenzare il comportamento dell’individuo nelle organizzazioni.

Passaggio allo studio dei team: lavoro individuale -> team di lavoro + innovazione e flessibilità
Questo cambiamento è guidato dallo sviluppo di un nuovo modo di osservare i team di lavoro e di studiare
come i processi di gruppo si riverberano sia sui singoli membri che sull’organizzazione nel sui insieme.

Gruppo di lavoro: o team di lavoro, si intende un insieme interdipendente di individui, i quali condividono
la responsabilità circa specifici esiti verso l’organizzazione in cui lavorano. Un gruppo è composto da X
individui che interagiscono con regolarità.

Cattel -> un psicologo intende gruppo sociale ogni aggregato di organismi (di persone, nel caso più tipico
che a noi interessa) nell’ambito del quale la presenza e l’azione di tutti siano necessarie per assicurare a
ciascuno, ne sia questi consapevole o meno, determinate soddisfazioni; nel quale dunque l’esistenza di
tutti, nelle reciproche relazioni, sia indispensabile per soddisfare qualche bisogno di ciascuno.

Composizione del gruppo di lavoro

Per composizione del gruppo facciamo riferimento non solo a caratteristiche del singolo membro, ma anche
alla distribuzione che queste caratteristiche possono avere all’interno del gruppo e che ne influenzano la
prestazione (es. competenze, personalità, caratteristiche sociodemografiche). Questi aspetti rapprese tano
quindi un’importante opportunità ma anche una tangibile minaccia per l’operatività dei team di lavoro,
innescando dinamiche conflittuali dentro il gruppo stesso.

Prospettiva di studio di Moreland e Levin:

1) Le caratteristiche proprie dei membri del gruppo;


2) La distribuzione di determinate caratteristiche nel gruppo;
3) La composizione intesa come conseguenza di fenomeni sociali e psicologici, es socializzazione;

La necessità di studiare l’effetto delle caratteristiche dei membri sui risultati del gruppo ha portato allo
sviluppo di nuove tecniche di indagine dei gruppi (Gruop Actor-Partner Interdipendence Model).

Aspetti Sociodemografici

Possiamo trovare caratteristiche molto differenziate, che vanno dall’età, sesso, origini religiose, razziali o
culturali fino al livello di educazione e anzianità lavorativa.
La salienza della caratteristica individuale all’interno del gruppo è ciò che determina l’integrazione ed è data
in misura maggiore dalla salienza della caratteristica nel contesto socioculturale, dalla distribuzione della
stessa all’interno del gruppo, oppure dal suo impatto sugli outcome del gruppo (soddisfazione,
prestazione).
Teoria dell’Identità Sociale di Tajfel -> secondo tale teoria percepire una persona come diversa da sé
significa identificarla come membro dell’out-group. Perciò la salienza di queste caratteristiche è più
rilevante perché influenzano direttamente il modo in cui gli individui percepiscono in modo stereotipico le
caratteristiche individuali (Status, abilità).

Competenza

Le competenze di cui il membro dispone per rispondere in maniera efficace alle richieste del task, sono
fondamentali per il gruppo che deve scegliere con chi lavorare. Nei team in cui la competitività è
incoraggiata tramite incentivi verso i singoli vi è similarità delle competenze. Nei team in cui invece la
cooperazione è la caratteristica ad essere incoraggiata vi è complementarità delle competenze e
adattamento reciproco.

Personalità

Le meta-analisi svolte nel campo della composizioni dei gruppi in termini di personalità hanno mostrato la
necessaria presenza di determinati tratti affinché il gruppo riesca a raggiungere efficacemente certi
obiettivi. La composizione del gruppo in termini di personalità ha una maggiore relazione con la prestazione
del gruppo quando il compito richiede interdipendenza tra i suoi membri (Stabilità Emotiva: prestazione
lavorativa; Coscienziosità: problem solving; Apertura Mentale: adattamento al cambiamento; Amicalità:
scambi interpersonali; Estroversione: maggiore attrattività del gruppo).
Per quanto riguarda la positività, suoi alti livelli in un team possono non solo influenzare e sostenere
positivamente la performance individuale ma anche compensare le carenze individuali. La positività
rappresenta inoltre un’importante risorsa personale all’interno del gruppo, favorendo la messa in atto di
comportamenti prosociali verso i colleghi.
Alti livelli di gradevolezza (tratto di personalità che cattura l’essere altruisti, fiduciosi e cooperativi verso gli
altri) hanno un ruolo importante nel proteggere i membri del gruppo dall’effetto che un conflitto frequente
al lavoro provoca sul benessere individuale. Alti livelli di positività possono favorire una minore percezione
del conflitto tra membri, anche per quegli individui con livelli di positività individuale molto bassi.

Struttura del gruppo

Impalcatura interna che definisce le relazioni tra i membri nel tempo. Conoscere questi aspetti in un gruppo
di lavoro può essere importante per capire come esso funziona e intervenire adeguatamente in caso di
inefficienza. Definizioni:

- Ruoli: aspettative circa comportamento individuale;


- Norme: indicazioni sui comportamenti appropriati nel gruppo;
- Valori: principi guida del gruppo;
- Status: attributi in cui le persone differiscono;
- Relazioni Interpersonali: connessioni all’interno del gruppo.
Aspetti dinamici nei gruppi di lavoro

Aspetti dinamici: processi in divenire che si verificano durante il corso della vita di un gruppo. Contrapposti
ad aspetti strutturali (ruoli, norme, fasi).

Socializzazione -> processo attraverso il quale un nuovo lavoratore entra a far parte dell’organizzazione.
Descrive in maniera dinamica la relazione reciproca tra individuo e gruppo di appartenenza, attraverso tutte
le fasi di vita nel gruppo. Socializzazione come sequenza di fasi:

1) Adattamento: al nuovo contesto;


2) Transizioni: del ruolo;
3) Apprendimento: del contesto organizzativo (norme e ruoli);

La socializzazione nei team di lavoro riveste una particolare importanza perché è proprio nei gruppi che
hanno luogo prevalentemente i processi di identificazione sociale e di acquisizione delle competenze che
mediano processi più ampi di onboarding organizzativo. Questo processo è continuo e sottoposto a
processi valutativi grazie alle interazioni sociali continue. I processi valutativi hanno relativi costi e benefici e
definiscono i livelli di commitment.

Si possono riscontrare tre tipi di accettazione, componente importante del processo di socializzazione, e si
mantengono indipendenti:

- Team Reflection: capacità del gruppo di riflettere su se stesso e di alterare le proprie procedure ed i
propri processi interni;
- Team Knowledge: tendenza a sfruttare al meglio conoscenze, abilità e talenti unici del newcomer;
- Newcomer Acceptance: componente psicologica dell’accettazione;

Un nuovo membro rappresenta una minaccia per il membro più esperto poiché è visto un elemento di
perturbazione di un equilibrio raggiunto precedentemente dal gruppo. I nuovi membri in ambito lavorativo
tendono ad essere maggiormente accettati se percepiti come simili agli altri o al prototipo del gruppo.
Personalità ed accettazione -> Coscienziosità: persona coscienziosa vista come competente, orientata al
successo e diligente; Amicalità: ha mostrato effetto positivo con entrambi i tipi di accettazione; Apertura
Mentale: predispone all’imparare dal gruppo e all’instaurarsi delle relazioni; Estroversione: ha dimostrato
un effetto positivo solo con l’accettazione basata sul compito; Nevroticismo: incide negativamente.
Gruppi caratterizzati da frequente ricambio dei membri sono minacciati dall’instabilità e per questo
tendono a non accettare i nuovi membri, ma anzi a chiudersi. Gruppi più longevi hanno poi più difficoltà ad
accettare nuovi ingressi, al contrario di gruppi di nuova formazione dove i newcomer sono visti più simili ai
membri del gruppo. Caratteristiche dei membri del gruppo possono rendere più difficile l’ingresso dei nuovi
membri, aumentando la percezione della minaccia (es. chiusura cognitiva). Elementi che influiscono
sull’accettazione del newcomer in un gruppo: caratteristiche newcomer, diverso/simile, sostituto/membro
addizionale, temporaneo/permanente, identità subordinata/esterna, conforme alle norme/innovatore,
tratti di personalità, caratteristiche gruppo, dimensione gruppo, longevità gruppo, tipo di task.
Sviluppo del gruppo di lavoro: grado di maturità e coesione che il gruppo raggiunge nel tempo attraverso
continue interazioni. I modelli di sviluppo del gruppo di lavoro:

- Modelli lineari progressivi -> il gruppo segue stadi di sviluppo con un ben definito ordine di
progressione che portano a una maturità e produttività sempre maggiore;

Il modello è descritto da Tuckman e si articola in quattro fasi, più una quinta aggiunta in seguito: Forming
(in cui avviene l’orientamento al compito e lo stabilirsi delle norme di base), Storming (fase in cui insorgono
i primi conflitti), Norming (fase in cui si sviluppa la coesione del gruppo), Performing (gruppo raggiunge la
sua funzionalità a livello relazionale), Adjourning (riguarda i gruppi in via di dissoluzione).

- Modelli ciclici e oscillanti -> il gruppo può ritornare sulle stesse questioni e perciò rivivere ogni
stadio più volte;

Una teoria esemplare in merito è quella di Srivastva, Obert e Neilsen. Il gruppo attraverso cinque stadi che
non seguono un ordine fissato in partenza, per raggiungere lo sviluppo deve confrontarsi con tutte le
problematiche legate ad ogni fase. Nel primo stadio ogni membro è un singolo individuo ed il problema
principale è l’inclusione. Nel secondo stadio vi è una fase di transazione dall’inclusione all’influenza, dove
centrale è la definizione dell’altro in termini di similarità vs differenza dal sé. Nel terzo stadio la fase
riguarda l’influenza, compaiono le coalizioni all’interno del gruppo dove il focus è la dissimilarità, al fine di
proteggere l’identità del gruppo. Nel quarto stadio vi è una fase di transazione, dall’influenza all’intimità,
dove la membership si allarga a tutto il gruppo. Nel quinto ed ultimo stadio si forma il compito del gruppo
diretto verso l’obiettivo ed è la fase dell’intimità. Se l’interdipendenza non è raggiunta non è raggiunta si
arriva all’abbandono.

- Modelli non fasici o ibridi -> non esiste una sequenza prefissata di eventi, ma questi risultano
come la conseguenza di fattori contingenti che spingono a focalizzarsi su attività o su un’altra.

Time, Interaction, and Performance (TIP) di McGrath. Il modello considera i gruppi come un sistema sociale
che assolve tre funzioni principali interconnesse: produzione (livello organizzativo), benessere (livello di
gruppo), supporto (livello individuale).

Funzioni:

Modalità Produzione Benessere Supporto dei membri


I. Inizio Domanda di Domanda di interazione/ Domanda di inclusione/
produzione/opportunità opportunità opportunità
II. Problem Risoluzione dei Definizione della rete di Conquista di
solving problemi tecnici ruolo posizione/status
III. Risoluzione Risoluzione dei conflitti Distribuzione di Relazioni
del conflitto politici potere/ricompensa contributo/ricompensa
IV. Esecuzione Performance Interazione Partecipazione

I modelli di sviluppo hanno perciò lo scopo di seguire come i gruppi cambiano nel tempo, e le ragioni e i
modi per cui questo avviene.

Wanous, Reichers e Malik hanno ipotizzato una possibile integrazione dei due modelli. Tre situazioni in
particolare: socializzazione standardizzata e collettiva; ogni qualvolta un newcomer entra in gruppo di
lavoro; con la creazione di nuovi gruppi di lavoro all’interno della stessa organizzazione. Lo sviluppo del
gruppo avviene contemporaneamente alla socializzazione dei membri al gruppo.
L’efficacia del gruppo di lavoro ed i processi di gruppo

In psicologia del lavoro, per efficacia (effectiveness) si intende generalmente il rapporto tra i risultrati
lavorativi attesi e quelli realisticamente ottenuti. Nel caso di un gruppo di lavoro, si parla di efficacia come
della capacità di un gruppo, nel suo insieme, di raggiungere gli obiettivi lavorativi condivisi.
Efficienza -> definita da un rapporto basato sui risultati osservati e sulle risorse impiegate per raggiungerli.

L’efficacia del gruppo di lavoro viene valutata rispetto a: produttività (definita come risultato), benessere
(grado in cui il gruppo riesce a i bisogni psicologici e sociali dei suoi membri) e possibilità di sopravvivenza
(capacità del gruppo di continuare a lavorare insieme anche in futuro).
È stata fatta una rielaborazione del modello di McGrath, effettuata da Bell e Kozlowski vedi schema pg 40.

Processi Cognitivi -> si intende i processi di rielaborazione delle informazioni che avvengono a livello dei
gruppo, come l’apprendimento di gruppo, i modelli mentali del gruppo, la memoria transattiva, la
macrocognizione e l'autoefficacia collettiva.

Processi Affettivo-Motivazionali -> sono dinamiche emergenti del gruppo che cambiano nel tempo e che
sono studiati nei gruppi di lavoro soprattutto per la loro relazione con prestazione, soddisfazione lavorativa
e salute dei lavoratori. Tra questi processi ci sono:

- Coesione: attrazione dei membri all’idea del gruppo;


- Affetto: tono affettivo determinato dalle dinamiche del gruppo originate in seguito a sentimenti e
comportamenti degli individui (top-down). Unione delle emozioni dei singoli membri a livello di
gruppo (bottom-up);
- Conflitto: conflitti di tipo interpersonale ed in relazione al compito;
- Salienza: salienza percepita dal proprio gruppo all’interno della struttura organizzativa da parte dei
componenti del gruppo;
- Identificazione Sociale: processi connessi con l’identificazione sociale con il proprio gruppo di
lavoro ed in particolare quelli connessi con la motivazione a mantenere un’immagine positiva.

Le dinamiche comportamentali nei gruppi sono l’insieme delle strategie utilizzate dal gruppo per
trasformare i processi cognitivi e affettivo-motivazionali in risultati ottenuti. Tre fattori fondamentali
intervengono in questi processi: Coordinazione (insieme delle attività necessarie a gestire le
interdipendenze del flusso di lavoro), Cooperazione (associata positivamente a efficacia), Comunicazione
(scambio di informazioni relative al compito, stabilire modelli di interazione sociale e sull’aumentare della
loro qualità).

L’efficacia può essere aumentata anche promuovendo la prestazione del gruppo. La motivazione è più
bassa quando un individuo si trova a svolgere un compito insieme ad altri (inerzia sociale). Secondo Steiner
i risultati ottenuti dal gruppo di solito non riescono a raggiungere i risultati potenziali assoluti poiché nel
lavoro di gruppo si verificano perdite nel processo produttivo.
La motivazione nel lavoro di gruppo

Teoria del goal setting di Locke e Latham

Secondo questa teoria gli obiettivi lavorativi funzionano da motivatori: attraverso la motivazione al
raggiungimento di questi ultimi la persona può migliorare la sua prestazione. In particolare gli obiettivi
lavorativi svolgono la loro funzione motivante solo se sono sfidanti e specifici, ovvero quantificabili.
I membri del gruppo devono sentire che il loro contributo individuale ha valore, che c’è una relazione tra lo
sforzo impiegato e il raggiungimento di un obiettivo, al netto del costo del minimo sostenuto dai membri
per contribuire all’obiettivo del gruppo.

Le ricompense sono importanti, soprattutto quando vi è un alto grado di interdipendenza del compito, ad
esempio il riconoscimento da parte dei superiori è legato a migliori esiti del lavoro di gruppo (maggior
commitment maggiore soddisfazione). Obiettivi, incentivi e ricompense sono efficaci solo quando sono
coerenti tra loro.

Il processo di socializzazione può essere dall’organizzazione per favorire sia l’adattamento individuale al
gruppo, che l’accettazione dell’individuo da parte del gruppo stesso. Lo sviluppo del gruppo è importante
per capirne la funzionalità e la sua capacità di scavalcare gli ostacoli e raggiungere gli obiettivi.

L’organizzazione può far leva su tre sistemi differenti:

1) Sistema informativo: rete di informazioni accessibile al gruppo, permette al gruppo di ricevere


informazioni per il raggiungimento degli obiettivi;

2) Riconoscimento dei meriti: importante per motivare un team, invece nella realtà organizzativa
più verso incentivi e prestazioni individuali che collettive;

3) Sistema formativo: la macchina generatrice di nuove competenze e cardine del mantenimento e


sostegno di vecchie conoscenze, riconoscere esplicitamente il gruppo di lavoro come un’entità
operante su cui ci si può intervenire può comportare una spinta produttiva importante per il team.
11 Teoria del Goal Setting
Radici: considerazione che il comportamento sia influenzato da piani ed intenzioni consapevoli e che le
mete future rappresentano una leva significativa nel determinarlo. Nasce da una fusione della psicologia
sperimentale e del Scientific Managment (Taylorismo). Un proposito per regolare l’azione non deve essere
costantemente consapevole per l’individuo, ma può rimanere ai margini della coscienza e continuare ad
essere un punto di riferimento. “Legge della difficoltà della motivazione” -> più un obiettivo è difficile e più
conduce ad una prestazione elevata.

Goal = scopo o obiettivo di un’azione. Contenuto: oggetto o risultato che deve essere raggiunto, qualitativo
o quantitativo. Intensità: riguarda il processo di assegnazione o come esso si raggiunge, sforzo richiesto
importanza e contesto. Il goal attiva, dirige e sostiene la condotta. Rappresenta uno scopo che nasce
dall’interazione e dall’influenza reciproca tra la capacità della mente di proiettarsi nel futuro, di pianificare
attivamente le azioni per raggiungere ciò che la persona desidera e le caratteristiche del mondo esterno che
ne modulano la realizzazione. Inoltre è un precursore dell’azione ed il suo regolatore più immediato.

- Il Goal è diverso dal Task (attività che deve essere svolta secondo criteri prestabiliti, definita come
prescrittiva), poiché nel primo è indicata solo una meta cui tendere. -
Il Goal è diverso dallo Standard di lavoro (livello di prestazione attesa che rappresenta un punto di
riferimento), tuttavia può essere trasformato in Goal se viene adattato alle specifiche esigenze di sviluppo
di una persona e quindi ridefinito come obiettivo.
- Il Goal è diverso dalla Finalità (meta generica che si intende perseguire), quest’ultima infatti a differenza
dell’obiettivo non permette di fare delle previsioni sui comportamenti che si metteranno in atto né di
verificare il suo raggiungimento.
- Il Goal è diverso dal Bisogno (spinta all’appagamento di carenze e disequilibri interni alla persona che
perdono rilevanza e centralità non appena soddisfatti), infatti il bisogno è troppo generico per spiegare
come a partire da un medesimo bisogno persone diverse raggiungano scopi differenti. -
Il Goal è diverso dal Valore (ciò che una persona vuole, desidera o cerca di ottenere), poiché è ancora
troppo ampio come riferimento mentale per prevedere in modo puntuale come verrà indirizzata l’azione.

Goal setting e gestione delle risorse umane -> il goal-setting si qualifica non solo come tecnica
motivazionale, ma come sistema di gestione ovvero come processo mirato al successo delle strategie, delle
attività e dei risultati di lavoro, così come al miglioramento dei comportamenti organizzativi che li
sottendono.

Caratteristiche fondamentali del goal setting:

1) Gli obiettivi difficili, stimolanti, conducono a prestazioni più elevate rispetto a quelli più facili.
2) Gli obiettivi specifici conducono a prestazioni più elevate rispetto a obiettivi vaghi o alla mancanza.

Goal-Setting e teorie della motivazione: rapporto difficoltà-prestazione -> la relazione tra difficoltà
dell’obiettivo, aspettativa di successo e prestazione, secondo le teorie del goal setting di Atkinson e
dell’aspettiva di Vroom. Vedi schema pg 17-18

I Mediatori -> gli obiettivi si traducono in prestazione attesa attraverso i mediatori. Essi sono:

- Direzione: un obiettivo canalizza l’attenzione verso le attività rilevanti per il suo raggiungimento e
mobilita le conoscenze e le capacità di cui l’individuo dispone.
- Sforzo: un goal specifico regola l’investimento di energie, effetto cruciale dell’obiettivo difficile.
- Persistenza: un goal preciso e difficile stimola la persistenza all’azione di fronte ad ostacoli e
difficoltà mantenendo la concentrazione sul raggiungimento dell’obiettivo.
- Strategie: la complessità di un goal stimola a riflettere e sviluppare strategie e piani d’azione.
I Moderatori:

- Impegno nell’obiettivo: senza commitment non possiamo considerare un obiettivo come tale
poiché l’attività si trasformerebbe in un dovere o in un’adesione acritica.

- Desiderabilità: l’autorità del capo e la legittimità di questa figura favorisce l’accettazione della
richiesta che viene fatta; l’influenza del gruppo dei pari che può esercitare pressioni ed influenze
sull’impegno; l’intensità del goal; le inclinazioni motivazionali ovvero l’insieme delle preferenze e
delle inclinazioni;

- Accessibilità: la difficoltà del compito in sé; l’autoefficacia i cui livelli impattano direttamente sulla
disponibilità a mettersi alla prova anche su compiti difficili che rappresentano una sfida piuttosto
che una minaccia; l’intensità del goal, che a seconda del carico mentale richiesto può renderlo più o
meno perseguibile;

- Abilità: l’insieme delle abilità individuali agisce sul rapporto goal-prestazione aumentando le
probabilità di successo nei soggetti con capacità elevate; è importante integrare una valutazione
oggettiva delle abilità realmente possedute con la convinzione di riuscire ad utilizzarle
efficacemente in presenza di difficoltà o in situazioni critiche (self-efficacy);

- Feedback: le informazioni di ritorno consentono di valutare se si è raggiunto lo standard atteso o se


è necessario aggiustare il tiro. Quando? Sia in momenti formali e predefiniti, i colloqui, sia
estemporaneamente per offrire un’informazione tempestiva;

- Contesto di riferimento: il goal setting poggia su una serie di presupposti organizzativi e culturali tra
cui la responsabilizzazione del collaboratore e la delega da parte del capo, l’impegno nella riuscita e
non l’adempimento esecutivo, la comunicazione capo-collaboratore a due vie e finalizzata ad uno
scambio costruttivo, l’equità nel trattamento differenziato che appiattisca le differenze,
l’opportunità di crescita e sviluppo per chi si impegna ed è meritevole;

- Efficacia personale percepita: le convinzioni di efficacia personale attestano il livello di padronanza


nelle diverse situazioni e il grado in cui la persona ritiene di riuscire a dominare specifiche aree di
attività ed ambiti d’azione. L’efficacia personale e la prestazione si influenzano a vicenda e sono
suscettibili di attivare delle spirali di miglioramento, o peggioramento, reciproche.
Persone con bassa efficacia personale evitano attività difficili, hanno basse aspirazioni e scarso
impegno, sotto pressione si concentrano sui propri dubbi, se incontrano difficoltà indugiano sugli
ostacoli, sottostimano aspetti positivi come le potenzialità e le opportunità, sono lente nel recupero
della propria autoefficacia dopo eventuali insuccessi e cadono facilmente vittime di stress e
depressione. Il fallimento indebolisce ulteriormente le proprie convinzioni di efficacia.
Persone con elevata efficacia personale affrontano attività difficili e sfide, hanno alte aspirazioni, si
assegnano obiettivi stimolanti e difficili e mantengono un forte impegno nel conseguirli, si
concentrano su come raggiungere il risultato piuttosto che indugiare in ruminazioni, si riprendono
facilmente da insuccessi, attribuiscono fallimenti a mancanza di impegno, cercano di rimediare o
compensare piuttosto che giustificare le proprie insufficienze;

- Verifica presenza Impegno: modalità diretta (domande esplicite al collaboratore, somministrazione


questionari, colloqui diretto), modalità indiretta (osservazione della prestazione, analisi della
discrepanza tra il livello di goal assegnato ed eventuale obiettivo personale).
6 Clima e Cultura organizzativa

Clima Organizzativo -> percezione che i dipendenti riferiscono e il significato che essi attribuiscono alle
policy, alle pratiche e alle procedure organizzative, ed include i comportamenti organizzativi che essi si
aspettano che vengano premiati, supportati e attesi all’interno del proprio contesto organizzativo.

Cultura Organizzativa -> insieme degli assunti, dei valori e delle credenze condivise che caratterizzano un
contesto. Gli elementi della cultura organizzativa vengono appresi nuovi dai assunti come il corretto modo
di pensare e sentire, attraverso il racconto dei miti e l’ascolto delle relative a come l’organizzazione sia
diventata così com’è e su come, in determinate occasioni, essa abbia agito per risolvere i problemi di
adattamento esterno o di integrazione interna.

È possibile far risalire l’inizio dei primi studi quantitativi e sistematici sul clima organizzativo intorno al 1970,
caratterizzati da uno scarso accordo sulla definizione del concetto di clima. L’aumento dell’interesse per la
cultura organizzativa negli anni ’80 va attribuito in parte all’idea che questo costrutto riuscisse a catturare
meglio di quello di clima la ricchezza dell’ambiente organizzativo. I primi lavori sul clima erano in realtà
condotti al livello del singolo individuo e non dell’organizzazione più ampia. Questo orientamento rifletteva
gli interessi e gli orientamenti teorici degli studi che li hanno condotti. Il superamento della prospettiva
individuale è invece diventato un tema centrale negli studi sul clima durante gli anni ’70 sebbene alcune
soluzioni a questo problema siano emerse solo nel corso degli anni ’80.
Il problema era stabilire se il clima fosse un costrutto riguardante l’esperienza individuale e/o una
caratteristica della unità/organizzazione. Questo problema determinava a sua volta una forte confusione
negli studi condotti sul clima tra il livello di analisi utilizzato nelle diverse prospettive teoriche (individuale o
organizzativo), e il livello (individuale o organizzativo) al quale i dati venivano condotti e le analisi effettuate.

Prospettiva di Glick

Egli notava come per differenziarsi dal resto degli studi su altre caratteristiche individuali di interesse
organizzativo gli studi sul clima avrebbero dovuto: utilizzare item che misuravano esplicitamente il
funzionamento organizzativo, i dati raccolti dovevano essere aggregati a livello di analisi organizzativo, le
misure utilizzate dovevano essere focalizzate sulla rilevazione di importanti esiti organizzativi.

Modello di Chan

Lavori più recenti indicano come la ricerca sul clima sia ben caratterizzabile facendo riferimento ad un
modello di consenso con cambio di riferimento. Questo modello utilizza per la misura del clima
organizzativo questionari composti da item tutti riferiti a caratteristiche dell’unità/organizzazione. Le
misure costruite secondo questo modello sono concettualmente appropriate perché focalizzate sul livello di
analisi al quale verranno poi aggregate le singole risposte rendendo le misure aggregate di clima
organizzativo così ottenute più affidabili.

Livelli di analisi multipli

È emerso un problema nella letterature sul clima rispetto alla selezione del livello di analisi più adeguato e
in particolare rispetto all’idea che il clima organizzativo potesse in fondo essere studiato a livelli multipli.
Un esempio di studio che ha preso in esame livelli organizzativi diversi è quello condotto da Zohar e Luria
sul clima di sicurezza (safety climate). Questi studiosi hanno dimostrato un effetto del clima di sicurezza
sul comportamento di sicurezza sia la livello delle organizzazioni, sia delle sottounità organizzative.
Un secondo importante sviluppo nelle ricerche sul clima organizzativo è la progressiva specializzazione degli
ambiti di ricerca. Schneider ha proposto che l’ampiezza e il focus delle misure del clima organizzativo
dovrebbero corrispondere all’ampiezza e al focus degli esiti da prevedere.

Clima Molare

Nella versione generale, per la misura di caratteristiche molari del clima questo item sarebbe: “il mio
supervisore mostra apprezzamento ogni volta che vede un lavoro ben fatto.”; al contrario la versione
specifica di questo item sarebbe: “il mio supervisore mostra apprezzamento ogni volta che vede un lavoro
svolto secondo le norme di sicurezza”.

Clima di Servizio

Uno degli studi più importanti sui correlati del clima di servizio è stato condotto da Schneider e colleghi.
Questo studio ha replicato molti risultati simili sulla relazione tra clima di servizio e soddisfazione del
cliente, e ha anche dimostrato che leadership di servizio era un importante antecedente del clima di
servizio. Il clima di servizio fa riferimento alle percezioni degli impiegati riguardo alla misura in cui
l’organizzazione offre un servizio di qualità.
Oltre alla leadership altri antecedenti del clima di servizio sono le risorse organizzative, l’engagement a
livello dell’unità e i sistemi lavorativi ad elevata prestazione.
Per quanto riguarda i moderatori della relazione clima-esiti, Dietz e colleghi hanno dimostrato che il clima
di servizio aveva effetti più forti quando il contatto con il cliente era maggiore.

Clima di Sicurezza

La letteratura sul clima di sicurezza ha affrontato molti degli stessi temi generali della letteratura sul clima
di servizio. Gli antecedenti includono la leadership trasformazionale in generale, la leadership
trasformazionale specifica per la sicurezza ed il clima di sicurezza dei livelli organizzativi più elevati. Vi sono
evidenze anche sui moderatori delle conseguenze del clima di sicurezza. Ad esempio Hofmann e Mark
hanno mostrato che il clima di sicurezza può essere più rilevante per la riduzione degli infortuni alla schiena
e degli errori medici quando la complessità delle condizioni del paziente è elevata.

Clima di processo

Oltre ad integrare gli esiti concreti di specifici tipi di clima, gli studiosi hanno analizzato il ruolo svolto dal
clima rispetto ai diversi processi organizzativi. Alcuni dei primi lavori sul clima di processo si sono
concentrati sula giustizia procedurale. Studi recenti hanno dimostrato che il clima di giustizia procedurale
può essere predetto dalle dimensioni del gruppo, dal livello di collettivismo espresso dal gruppo, dalla
servant e dalla personalità del leader. Inoltre ha conseguenze a livello di unità, come il turnover e la
soddisfazione del cliente, la prestazione l’assenteismo del gruppo, i comportamenti di cittadinanza al livello
dell’unità e a livello individuale.
Recentemente è aumentato l’interesse per un altro clima di processo, il clima relativo alle diversità
(diversity climate). Alcuni studi condotti a questo riguardo sono particolarmente importanti, come lo studio
di Mckay e colleghi che ha mostrato come le differenze nella prestazione tra gruppi etnici/razziali possano
essere significativamente inferiori nelle organizzazioni che supportano maggiormente la diversità.

In generale, sembra ragionevole pensare che qualunque processo organizzativo possa essere studiato
attraverso la lente del clima, il cambiamento della ricerca sul clima verso costrutti più specifici e la
focalizzazione sui processi ha migliorato non solo la validità delle misure e dei risultati ottenuti negli studi
sul clima, ma ha contribuito a migliorare la comprensione dei diversi contesti organizzativi.
Outcome Climate

Un argomento che deve ancora ricevere la giusta attenzione da parte dei ricercatori tuttavia è la questione
riguardante il legame tra clima di processo e clima relativo a specifici esiti (outcome climate). Schneider e
colleghi hanno proposto di concettualizzare il clima di processo come la base del clima legato ad uno
specifico esito.

Forza del clima

Ciò che viene la forza de clima, ovvero la sua più o meno alta omogeneità tra i diversi individui e contesti, e
l’impatto che su essa possono avere tali differenze. Le idee alla base della forza del clima non sono nuove,
essendo connesse al concetto di forza della situazione. Il modello teorico di riferimento di questo tipo di
studi prevede che la forza del clima (quindi la sua omogeneità) moderi la relazione tra il clima stesso e gli
esiti di interesse, in modo tale che la relazione sia più forte quando la forza del clima è maggiore. Non tutti
gli studi attestano un effetto moderatore della forza del clima sulla relazione clima-esiti organizzativi.
Il concetto di forza del clima richiede che esista una significativa variabilità nel consenso tra gli individui che
appartengono alle diverse unità organizzative. Se il consenso è uniformemente alto allora viene meno la
forza del clima. È lecito concludere che un clima forte e positivo tenda ad essere solitamente migliore di un
clima debole e risulta sicuramente migliore di un clima negativo, perciò le implicazioni applicative sono
chiare: al fine di massimizzare le probabilità di raggiungere gli obiettivi di prestazione prestabiliti
dall’organizzazione, è essenziale promuovere costantemente e con determinazione forme di clima
specifiche e positive.

Multiple climate

È necessario sottolineare come le organizzazioni non siano caratterizzate al loro interno da un singolo tipo
di clima, ma piuttosto ospitino simultaneamente diversi tipi di clima riguardanti sia i processi sia specifici
risultati. Per quanto tutto ciò possa sembrare scontato, si riscontra invece una generale carenza di teorie e
studi che abbiano preso in considerazione l’esistenza di climi organizzativi multipli.

Cultura organizzativa

Il concetto deriva sia dal punto di vista concettuale che metodologico dall’antropologia, il livello al quale
essa è stata generalmente studiata ed analizzata è quello di gruppo o collettivo, con poca attenzione
dedicata allo studio delle differenze individuali.
Ad un livello macro-concettuale il miglior modo per distinguere gli approcci descrittivi (e metodologici) alla
cultura è da considerare la cultura come qualcosa che l’organizzazione ha piuttosto che come qualcosa che
l’organizzazione è.

Le organizzazioni hanno delle culture. Interessati ai modi in cui le organizzazioni differiscono. Prospettiva
di ricerca è solitamente di tipo comparativo.

Le organizzazioni sono culture. Descrizione e comprensione di come i membri dell’organizzazione


sviluppano significato e arrivano a condividere le assunzioni più profonde. Approccio di ricerca tende ad
essere induttivo utilizzando un paradigma specifico.
Prospettive sulla cultura

Frammentazione

La prospettiva della frammentazione si focalizza sull’ambiguità. Nega la necessità di una condivisione,


affermando come sia improbabile che in una organizzazione le persone a livelli diversi e in posizioni/attività
differenti, e con diverse personalità, possano avere le medesime esperienze, attribuire all’organizzazione lo
stesso significato e condividere la stessa opinione su cosa abbia valore.

Differenziazione

La prospettiva della differenziazione è una posizione al compromesso. Sostiene che le persone all’interno di
una stessa organizzazione possano in realtà far parte di diverse sottoculture (divise per funzione, per
attività, per genere, e così via) e che esse possano pertanto vivere esperienze diverse e persino attribuire
significati differenti allo stesso evento.

Integrazione

La prospettiva dell’integrazione sostiene che le organizzazioni possiedono una cultura condivisa da tutti. Il
conflitto, l’ambiguità e le differenze vengono di norma ignorate e se prese in considerazione vengono
trattate alla stregua di qualcosa da risolvere o di un’aberrazione.

Prospettiva di Martin

Ha proposto una teoria della cultura che comprende tre livelli di analisi che vengono applicate
contemporaneamente nell’analisi di un determinato contesto organizzativo. Queste tre prospettive
prendono in esame la cultura generale (integrazione), le sottoculture (differenziazione) e la forza della
cultura (frammentazione) all’interno dell’organizzazione.

Nella ricerca sulla cultura organizzativa la questione dei livelli comprende il problema legato
all’osservabilità delle diverse sfaccettature che compongono la cultura. Questi livelli diversi sono stati
concettualizzati in una varietà di modi tra loro simili, ma comunemente sono ricompresi nella cornice
teorica dei livelli della cultura di Schein. Questo autore ha proposto tre livelli di cultura organizzativa:
artefatti, credenze e valori, assunti di base.

Schein ha introdotto il concetto del meccanismo della cultura-includente che descrive ciò che i leader
fanno per diffondere i loro valori (meccanismo primario) e rinforzarli (meccanismo secondario): ciò che
determina se certi comportamenti e valori di riferimento del management alla fine diventano assunzioni è
se tali comportamenti e valori conducano al successo.

MECCANISMI DI INCLUSIONE PRIMARI (diffusione) MECCANISMI DI INCLUSIONE SECONDARI (rinforzo)


Ciò a cui i leader prestano attenzione Il design e la struttura organizzativa
Come i leader reagiscono agli incidenti Il design dello spazio fisico
Come i leader distribuiscono le risorse I sistemi e le procedure organizzative
Come i leader intenzionalmente modellano i ruoli I riti e i rituali organizzativi
Come i leader distribuiscono premi e status Le storie su eventi e persone importanti
Come i leader assumono, selezionano,promuovono Dichiarazioni formali della filosofia organizzativa
Studi empirici hanno testato direttamente la relazione tra fondatore e cultura fornendo specifiche
informazioni sul ruolo del leader nella cultura organizzativa: Bersone colleghi hanno esaminato la relazione
tra i valori del CEO, la cultura organizzativa e la prestazione aziendale in un campione di 26 aziende
israeliane. I loro dati mostrano che il valore dell’autodeterminazione del CEO era positivamente associato
ad una cultura innovativa, il valore della sicurezza era positivamente correlato a una cultura burocratica, e il
valore della benevolenza era positivamente associato a una cultura solidale.
La questione di maggiore interesse teorico quando si parla di cultura nazionale è la misura in cui essa possa
plasmare le culture delle organizzazioni al suo interno. In generale i risultati mostrano che quando la
cultura nazionale è correlata con la cultura organizzativa delle aziende al suo interno, viene trovato
regolarmente un effetto principale significativo.

È possibile trarre due conclusioni importanti: la cultura nazionale ha un impatto sulla cultura organizzativa,
l’impatto lascia una considerevole variabilità ai possibili profili nella cultura organizzativa e perciò la cultura
nazionale è influente ma non determinante.
Savig e colleghi riportano che sia all’interno delle organizzazioni, sia delle nazioni è presente anche una
significativa variabilità dei valori individuali. Da questa rassegna è possibile concludere che la cultura
dell’integrazione e la cultura della differenziazione, in accordo con la proposta di Martin possono esistere
contemporaneamente rappresentando una funzione della lente con cui si guarda alla cultura stessa.

Culture e prestazione lavorativa

Esiste una relazione tra la cultura organizzativa e l’efficacia organizzativa.


Sackamnn nota come tale ricerca sia piena di difficoltà riguardanti: l livello di cultura su cui focalizzarsi (es.
miti, storie, valori, comportamento); unità di analisi (le sottoculture all’interno dell’organizzazione oppure
l’intera organizzazione); le dimensioni di contenuto attraverso le quali è meglio effettuare le valutazioni.

Competing Values Framework (CVF)


Hartnell e colleghi utilizzando come base il CFV hanno probabilmente fornito il test più completo sulla
relazione tra cultura organizzativa e performance organizzativa. Il CFV è caratterizzato da due serie di valori
opposti con dimensioni bipolari che, incrociati, definiscono quattro celle. Queste dimensioni bipolari sono
flessibilità vs stabilità della struttura e focus interno vs esterno. L’incrocio delle due dimensioni produce una
tabella 2x2 composta da quattro celle contenenti valori concettualmente in competizione, ovvero che
giustappongono ciò che è importante nelle organizzazioni, i modi in cui tali valori si manifestano nelle
organizzazioni e la probabilità di successo in diversi domini di performance organizzativa.
Le quattro celle sono denominate Clan (interna e flessibile con un focus sulle persone), Adhocrazia (esterna
e flessibile con un focus sulla crescita), Mercato (esterna e stabile con un focus sulla competizione) e
Gerarchica (interna e stabile con focus sulla struttura organizzativa).
Il CFV riprende il concetto dei diversi livelli in cui la cultura esiste nelle organizzazioni e con diversi punti
focali, proponendo che i diversi livelli delle variabili culturali non esistano casualmente, ma tendano ad
essere associati a variabili concettualmente simili e che la probabilità di successo per un organizzazione sia
una funzione del focus (ad esempio il benessere dei dipendenti vs aumento della quota di mercato), degli
assunti, delle credenze, dei valori, e dei comportamenti che si diffondono nelle organizzazioni.
Questo modello fornisce una possibile cornice teorica per un migliore integrazione tra le prospettive del
clima e della cultura. Una caratteristica particolarmente interessante è che il modello delle CFV rivela la
varietà dei valori e dei comportamenti che potrebbero essere appropriati per creare una cultura del
benessere o una cultura dell’innovazione.
Tale attenzione sul benessere (una cultura di tipologia Clan) potrebbe servire per promuovere obiettivi
globali, es quelli di mercato o operativi/tecnici, e questi a loro volta potrebbero promuovere climi
strategicamente focalizzati.
L’ultimo tema trattato è l’idea che cultura organizzativa possa comportarsi come una variabile contestuale
che modera le relazioni tra gli altri costrutti, tre studi hanno testato questa ipotesi.
Sia nello studio del clima che nello studio della cultura sono stati compiuti progressi nel superare le
difficoltà nell’incrociare i diversi livelli di analisi quando è coinvolta più di una disciplina.

Gli psicologi si sono progressivamente spostati da un approccio allo studio sul clima centrato sul livello di
analisi individuale, ad un focus sui gruppi, le unità organizzative e l’organizzazione.
I ricercatori che si sono occupati di cultura hanno promosso l’idea che la cultura possa manifestarsi
simultaneamente in maniere diverse.
Sia la cultura che le misure del clima dovrebbero concentrarsi sulle esperienze di focalizzazione dei nuovi
assunti, proprio perché sono nuovi arrivati e tutto ciò che accade loro è nuovo e può aiutarli a prendere
consapevolezza, avendo così un impatto a lungo termine. Il riferimento ai newcomers solleva il problema
dello sviluppo delle organizzazioni nel corso del tempo e dei conseguenti cambiamenti nel clima e nella
cultura che potrebbero essere previsti. Schein ha analizzato la questione del ciclo di vita organizzativo e le
implicazioni che esso ha per: le richieste della leadership sui manager; le culture che caratterizzano
inizialmente le organizzazioni e attraversano vari stadi della loro esistenza.

I dirigenti usano la cultura aziendale in un modo più esteso. Le questioni importanti per essi sono:
conoscere la cultura aziendale; cambiare la cultura aziendale e/o sfruttarla per creare vantaggio
competitivo. È essenziale la disponibilità di una misura quantitativa, caratterizzata da un numero finito di
dimensioni comuni alle diverse organizzazioni. Da un punto di vista pratico, l’enfasi sugli intangibili si affida
totalmente agli approcci quantitativi, che però risultano insoddisfacenti per i dirigenti. Questo accade
perché il vocabolario imposto dagli strumenti di misura per la descrizione della cultura può essere molto
diverso da quello usato da chi vive quella cultura.

La conoscenza della cultura è quasi sempre presa in considerazione all’interno di un contesto che abbia un
forte bisogno di cambiamento culturale, o per garantire la conservazione di ciò che è considerato il nucleo
della creazione del valore organizzativo. Infatti gli interventi focalizzati sul cambiamento culturale spesso si
concentrano sul colmare il divario tra le culture esistenti e quelle desiderate, e questi aspetti vengono
tipicamente colti dagli strumenti di misura andando a chiedere ai rispondenti entrambi i tipi di dati. Di per
sé, il cambiamento è difficile da misurare e in ragione di ciò i modelli di cultura aziendale includono
dimensioni che riflettono costrutti come l’adattabilità, intesa come caratteristica centrale dell’efficacia
organizzativa, sostenendo che il cambiamento precede necessariamente la necessità di cambiare domani.

Il tema di fondo di molte conversazioni sulla cultura è il modo in cui essa possa essere sfruttata al pari di
una risorsa. La cultura è oggetto di vantaggio competitivo quando è diversa dalle altre culture e quando gli
elementi che la costituiscono sono difficili da imitare. Quando la cultura auspicata è unica, quando i climi
creati sono unici nella loro complessa attenzione simultanea su importanti processi organizzativi interni e
obiettivi strategici, allora il vantaggio competitivo è possibile.
5 Le caratteristiche del contesto lavorativo

Studiare il comportamento nei contesti lavorativi significa non solo tenere conto delle caratteristiche che
l’individuo mette in gioco o di cui è portatore, ma anche esplorare quali fattori ambientali lo influenzano e
dunque contribuiscono a modellarlo e definirlo. Spesso la prospettiva privilegiata è quella individualista, in
realtà l’ambiente al quale l’individuo è esposto è significativo per far sì che si tragga il meglio all’esperienza
e da te stesso. Una delle principali difficoltà riscontrate nella letteratura di questo settore sta nella
definizione stessa di contesto, la quale non è ancora univocamente condivisa.

Trait Activation Theroy

Si tratta di un contributo teorico che approfondisce l’analisi della personalità in interazione con il contesto.
Secondo questa teoria, di Tett e Burnett, alcuni tratti possono trovare una consistente espressione nel
comportamento, o non trovarne affatto, a beneficio o discapito della performance ed in dipendenza di
determinate caratteristiche contestuali che attivano i tratti attraverso meccanismi affettivi e motivazionali.

CONTESTO -> Johns, “insieme delle opportunità e dei vincoli situazionali che influenzano il verificarsi del
comportamento organizzativo e ne definiscono il significato come pure la relazione funzionale tra le diverse
variabili”. Il contesto interagisce con le variabili individuali influenzando il comportamento organizzativo
attraverso la creazione di vincoli e opportunità per l’individuo. A Johns si riconosce il merito di aver
affrontato una trattazione di quelle che sono le caratteristiche principali del contesto. Egli vede il contesto
come una serie di situazioni aventi una determinata salienza e forza situazionale.
La salienza di determinati elementi influenza in diverso modo il comportamento organizzativo e può
permettere la comprensione del contesto. La forza situazionale è la capacità del contesto di esprimere
vincoli e opportunità, situazioni forti o deboli, che influenzano e limitano in diverso modo il
comportamento organizzativo.
Altre importanti caratteristiche del contesto sono: effetto cross-level, effetto che una determinata variabile
ad un determinato livello di analisi può avere sui livelli superiori o inferiori; contesto come insieme di
stimoli, un insieme di fattori può produrre un certo esito più interpretabile e teoricamente più interessante
rispetto a ciò che potrebbe produrre ogni fattori se preso singolarmente.
Infine risulta interessante la connotazione data da Johns al contesto come modellatore di significato:
questa caratteristica connota il contesto come capace di indirizzare l’interpretazione degli eventi. Questa
caratteristica rende ragione di quello che Firebaugh chiamava frog pond effect, per il quale ogni persona è
da considerarsi immersa in un particolare setting, che ne condiziona le percezioni e i vissuti, contribuendo
alla lettura e all’interpretazione degli eventi.

Un ulteriore contributo viene fornito da Mowday e Sutton secondo i quali il contesto è un insieme di
stimoli che circondano l’individuo, presenti nell’ambiente esterno, molto spesso a diversi livelli di analisi. Gli
autori analizzano l’impatto del contesto negli individui e nei gruppi, adottando tre diverse prospettive:
contesto come opportunità e vincoli, contesto come stimoli distali e prossimali, contesto come similarità o
diversità.
Il contesto secondo Griffin

Egli definisce il contesto come un set di circostanze nelle quali i fenomeni (eventi, entità, processi, ecc.) sono
situati, ed esplica ulteriormente la sua natura multisfaccettata, presentando quattro studi che
operazionalizzano il contesto in maniera diversa a seconda degli obiettivi di ricerca. Gli studi do Griffin
includono il contesto come variabile e ne presentano differenti versioni sia da un punto di vista
dimensionale che temporale. Il lavoro nel complesso mette alla luce la natura multisfaccettata del contesto,
evidenziando inoltre l’utilità di sistemi di misura multipli e approcci analitici multilivello.

Tassonomia del contesto

Il contributo di Johns fornisce una tassonomia del contesto che si articola in due livelli di analisi:

- Con Omnibus context l’autore fa riferimento al contesto considerato in maniera più ampia,
comprensivo di molte caratteristiche a livello macro.
- Con Discrete context l’autore fa riferimento a specifiche variabili situazionali che influenzano
direttamente il comportamento o che moderano le relazioni tra le stesse.

Johns ipotizza tre dimensioni:

- Le caratteristiche specifiche dell’attività lavorativa (task context), quali ad esempio autonomia,


incertezza, responsabilità, risorse, ecc.;
- Le componenti sociali (social context) come la densità, la struttura sociale e l’influenza sociale;
- Gli elementi dell’ambiente di lavoro (physical context) ovvero l’illuminazione, la rumorosità, la
temperatura, ecc.

Johns chiarisce che il Discrete context può essere visto come nidificato all’interno dell’Omnibus context e
che gli effetti di quest’ultimo sono mediati da variabili contestuali discrete e dalle loro interazioni.
Attraverso tale concettualizzazione viene ipotizzato che il più ampio contesto di riferimento (la professione,
intesa come omnibus context) abbia un effetto sul comportamento manageriale attraverso le
caratteristiche del discrete context, ed il loro rapporto con i requisiti di ruolo manageriali.

Anche per le questioni riguardanti la rilevazione del contesto vi è una varietà di misure.
È possibile inquadrare le varie misure del contesto in due grandi categorie: caratteristiche oggettive del
contesto o eventi/situazioni contestuali, percezione e interpretazione del contesto da parte degli individui
che vi operano. Nonostante vi sia un certo consenso nel preferire indicatori oggettivi, essi stesso
presentano alcuni limiti. Nel caso in cui si intenda analizzare specifici elementi contestuali e risulti
importante cogliere la percezione che di essi hanno gli individui, si può fare riferimento a misure di
contesto soggettive, generalmente accomunate da una modalità di somministrazione self-report e che
spaziano nell’analisi di diversi elementi del contesto lavorativo: il Work Design Questionnaire (WDQ) e le
Percezioni di Contesto (PoC).
Un modo per misurare più accuratamente il contesto è attraverso l’utilizzo di misure e modelli multilevel.
I modelli multilevel partono dal presupposto che le persone non sono isolate, ma inserite in gruppi,
dipartimenti e organizzazioni, con cui condividono ambienti e rappresentazioni. Le metodologie di analisi
multilevel consentono di cogliere contemporaneamente il ruolo di fattori individuali e contestuali presenti a
diversi livelli e di studiare l’influenza simultanea su variabili legate alla persona.
Storia del Work Design

Il task context attraverso l’analisi delle caratteristiche del lavoro è stato considerato uno dei più importanti
ambiti di studio all’interno della letteratura del work design. È stato infatti documentato come la
semplificazione del lavoro, inizialmente ipotizzata come one best way, portasse in realtà a conseguenze
negative per i lavoratori e che le caratteristiche del lavoro possono avere una funzione motivante, essendo
in grado di soddisfare i bisogni umani fondamentali.

Tra i primi saggi sulla progettazione dei posti di lavoro è possibile trovare lo studio di Adam Smith. Taylor,
discepolo di Smith, portò avanti lo studio sul lavoro attraverso la creazione dello scientific management. I
due erano guidati dall’idea che per aumentare la produttività si dovesse semplificare il lavoro attraverso
processi di standardizzazione e specializzazione. La divisione del lavoro nei suoi minimi elementi portava
però a considerare le persone intercambiabili al pari dei pezzi di una macchina. All’interno dell’approccio
socio-tecnico, uno studio di Trist e Bamforth sulla riorganizzazione del lavoro in una miniera di carbone
mostra come anche il più recente ritrovato tecnologico debba essere implementato alle pratiche lavorative,
tenendo in considerazione il sistema sociale, interazione con il sistema tecnico.

L’approccio di Herzberg

Herzberg agli inizi degli anni ’60 propose un approccio rivoluzionario nell’ambito del work design, basato
sull’assunto che per motivare i dipendenti a dare il loro meglio, il lavoro doveva essere arricchito piuttosto
che semplificato. L’attività svolta dagli individui doveva esser così progettata e gestita per favorire il senso
di responsabilità, la crescita professionale e lo sviluppo. Il nuovo approccio proposto grazie alle sue
teorizzazioni sul job enrichment ed i fattori igienico-motivanti, è stato quindi il punto di partenza per il filone
di ricerca sul potenziale motivazionale dei posti di lavoro. Dai presupposti di Herzberg e dalle indicazioni di
Turner e Lawrance è nata la Job Characteristic Teory JCT. L’assunto sul quale poggia tale teoria è che alcune
caratteristiche del lavoro incrementano la probabilità che la persona trovi il lavoro significativo. Questi stati
positivi possono incrementare la conoscenza di se stessi, aumentare le possibilità di ottenere delle
prestazioni di successo e di sentirsi motivati al lavoro. Diventano quindi un rinforzo per l’individuo e
rappresentano un incentivo in grado di garantire una nuova performance efficace anche in futuro.

Hackman e Oldham (JCM)

Propongono un modello, il Job Characteristic Model JCM, prevede l’esistenza di cinque caratteristiche
lavorative core quali la varietà di abilità, l’identità del compito, la significatività del compito, l’autonomia ed
i feedback del lavoro. Tali caratteristiche influenzerebbe tre stati psicologici i quali, a loro volta,
determinerebbero benefici personali ed outcome lavorativi, come:

- Un’elevata motivazione intrinseca;


- Alta qualità della performance;
- Soddisfazione lavorativa e bassi livelli di assenteismo e turnover.

Non tutti i lavoratori rispondono allo stesso modo a lavori “sfidanti”, cosi Hackman e Oldham hanno
integrato altre due variabili nel loro modello che agirebbero come facilitatori in questa relazione, ossia:

- conoscenze e competenze rilavanti al lavoro;


- il growth need strenght, ossia il grado in cui il lavoro offre opportunità di crescita e sviluppo.

Sulla base dello stesso JCM, Hackman e Oldham hanno sviluppato uno strumento, il (Job Diagnostic Survey
JDS), che si è rilevato uno degli strumenti più utilizzati per l’analisi delle caratteristiche lavorative. Questo
strumento tuttavia, trascura altre caratteristiche del lavoro.
Per risolvere le lacune concettuali e le evidenze empiriche che inficiano la validità del JCM ed i problemi
riscontrati negli strumenti che lo misurano (JDS e MJDQ), Morgeson e Humphrey hanno revisionato la
letteratura del work design cercando di individuare le caratteristiche fondamentali del lavoro dando vita al
Work Design Questionnaire (WDQ). Questo è stato creato analizzando tutti gli articoli collegati al work
design e hanno identificato le caratteristiche specifiche del lavoro dalle misure precedentemente
sviluppate. Gli autori sono pervenuti ad un ampio numero di termini, 107 in totale, comunemente utilizzati
per descrivere le caratteristiche lavorative. Hanno poi collocato i diversi termini associati a caratteristiche
lavorative in tre grandi categorie: aspetti motivazionali, sociali e contestuali.

Caratteristiche motivazionali

Il principio dell’approccio motivazionale si basa sull’assunto che un lavoro sarà “ricco”, ossia più motivante
e gratificante, se presenta alti livelli di caratteristiche motivazionali. Gli autori, hanno diviso gli aspetti
motivazionali in caratteristiche che riflettono le attività o le conoscenze richieste dal lavoro.
Le caratteristiche del compito (Task Characteristics) rappresentano le caratteristiche estrinseche del
lavoro, il modo in cui esso è realizzato, il raggio d’azione e la natura dei compiti: l’autonomia, la varietà del
compito, la significatività del lavoro, l’identità del compito, il feedback del lavoro.
Le caratteristiche (Knowledge Characteristics) rientrano tra gli aspetti motivazionali del lavoro. Esse si
riferiscono ai tipi di conoscenza, alla capacità e alle abilità richieste ad un individuo per poter portare a
termine il proprio lavoro: la complessità del lavoro, l’elaborazione delle informazioni, il problem solving, la
varietà di abilità e la specializzazione.
Le caratteristiche sociali (Social Characteristics) sono la seconda macro-categoria, ossia gli aspetti
interpersonali e sociali del lavoro: il supporto sociale, l’interdipendenza, l’interazione al di fuori
dell’organizzazione e il feedback dagli altri.
Le caratteristiche contestuali (Contextual Characteristics) riguardano il contesto fisico e ambientale del
lavoro: l’ergonimicità, le richieste fisiche, le condizioni di lavoro, l’equipaggiamento utilizzato.
Le relazioni tra le 21 caratteristiche rilevate e la soddisfazione lavorativa, il training ed il salario previsti dalla
professione hanno evidenziato la forte influenza giocata sia dalle caratteristiche dell’attività che dalle
caratteristiche di conoscenza nel predire la soddisfazione lavorativa, mentre solo le ultime risultano
associate ai requisiti in termini di training e salario.

Anche il supporto sociale è risultato collegato alla soddisfazione, risultando associato negativamente alla
formazione richiesta. Tali risultati confermano l’importanza dei fattori motivazionali, già rilevata in
precedenti studi, soprattutto in lavori dove non è richiesta una lunga formazione, nel favorire la
soddisfazione lavorativa.

Secondo Oldham e Hackman la ricerca sulle caratteristiche lavorative presenta delle peculiarità rispetto alla
ricerca nelle scienze tradizionali. Infatti nella ricerca scientifica in genere il fenomeno studiato rimane lo
stesso nel tempo. Ciò non avviene negli studi di work design poiché ciò che viene studiato sta già
cambiando nel momento in cui lo si studia. Essi inoltre ipotizzano che le ricerche future prenderanno in
considerazione il lavoro dei manager e professional e andranno ad analizzare le modalità per sfruttare i
progressi tecnologici nell’aiutare individui ed i gruppi nei processi di autogestione, coordinamento e
raggiungimento di finalità collettive, valorizzando lo studio degli aspetti interpersonali.
Le percezioni del contesto (PoC)

Alcuni studiosi hanno proposto l’analisi delle dimensioni del discrete context attraverso la rivelazione delle
percezioni che di esse hanno le persone (Perception of Context, PoC). Le percezioni di contesto vengono
definite come le percezioni condivise relativamente al contesto sociale, dell’attività e fisico di ogni contesto
organizzativo. La misura del contesto resa dalle PoC non è pertanto asettica, oggettiva, ma passa attraverso
la percezione dell’individuo, che attraverso lo sviluppo di categorie si rappresenta il contesto lavorativo in
cui si trova ad operare e che esso stesso contribuisce a costruire, almeno quanto ne è a sua volta
influenzato. Le percezioni di contesto vengono operazionalizzate attraverso uno strumento di misura
flessibile che consente sia di valorizzare le specificità di ogni contesto organizzativo, che di valorizzare la
lettura/percezione individuale.

Una tecnica per definire la specificità contestuale è quella degli incidenti critici (Critical Incident Tecnique):
è un metodo qualitativo di raccolta delle informazioni che attraverso focus group si propone di identificare
le situazioni prototipiche organizzative su cui convenire con i partecipanti, tramite la discussione ed il
confronto. In questo modo è possibile conoscere le situazioni ricorrenti che le persone si trovano ad
affrontare al lavoro, identificando le principali componenti organizzative ed i comportamenti attesi sulla
base dei quali costruire lo strumento di misura.

A seconda del contesto specifico le percezioni delle componenti contestuali possono riguardare le
componenti sociali e le componenti dell’attività lavorativa e del contesto fisico. In questo senso si parla di
percezioni di contesto sociale (PoSC) quando si fa riferimento unicamente alle componenti del social
context, mentre vengono intese più in generale come percezioni di contesto (POC) quando vengono
prese in considerazione, separatamente ma simultaneamente, le percezioni di aspetti sia sociali che legato
alle attività lavorative e al contesto fisico. Le percezioni del contesto sociale vengono definite come le
percezioni dei comportamenti più rilevanti del contesto lavorativo (colleghi, supervisore diretto e top
management) del modo in cui essi svolgono il proprio ruolo sociale e interagiscono durante il lavoro. Il
focus delle POSC è sulle componenti sociali poiché esse rappresentano la cornice sociale di riferimento
nella quale la persona lavora.

Dalle analisi statistiche effettuate è emerso che tutti gli item saturavano su fattori relativi ai principali
referenti sociali dell’organizzazione: top management, supervisori, e colleghi. Ciò suggerisce che le persone
descrivono il loro contesto facendo riferimento ai comportamenti adottati dagli attori sociali piuttosto che
aree impersonali, generiche. Prendendo come riferimento i Five Core Social Motives:

- i colleghi consentono di creare, attraverso lo sviluppo di relazioni forti e stabili, un’atmosfera


positiva, basata sulla collaborazione, garantendo senso di appartenenza;

- i supervisori possono favorire la partecipazione dei collaboratori e supportare il loro sviluppo,


aiutando gli individui ad ottenere un maggior controllo sulle conseguenze dei loro comportamenti;

- infine il top management assicura l’integrazione, il coordinamento, il supporto e lo sviluppo


attraverso la proposizione di significati condivisi, linee guida, politiche e procedure.
Alcuni studi hanno dato prova della relazione tra:

- efficacia personale e PoSC -> Le persone con alta efficacia personale sono inclini ad avere una
percezione più positiva dell’ambiente lavoratvo. Inoltre è stato anche rilevato il ruolo svolto dalle
percezioni di contesto sociale nel mediare la relazione tra autoefficacia ed outcome importanti
come il commitment organizzativo e la soddisfazione lavorativa;
- burnout e PoSC -> sia per il burnout (esaurimento e disaffezione lavorativa) che per l’assenteismo
è stato evidenziato il ruolo che hanno le percezioni di contesto sociale nel prevenire da una parte il
rischio di burnout e le ricadute di questo sulla salute, e dall’altra nell’inibire i comportamenti di
assenza attraverso la mediazione della soddisfazione lavorativa;
- assenteismo e PoSC -> attraverso una lettura contestualizzata dell’assenteismo, Dello Russo e
colleghi hanno mostrato come il contesto sociale influenzi la presenza al lavoro ed hanno
evidenziato che in generale, con il passar del tempo, i nuovi arrivati gradualmente conformino i loro
comportamenti di assenza dal lavoro ad un livello ritenuto accettabile dalla cultura organizzativa.

Job Crafting

Riguardo al tema del gruppo Oldham e Hackman suggeriscono due ordini di problemi che potrebbero
essere indagati dalla ricerca futura: 1) in quali attività è opportuno ricorrere a modalità di gruppo piuttosto
che a performance individuali; 2) quale tipologia di team è più adatta nello svolgimento di determinate
attività. In conclusione invitano a prendere in considerazione il crescente interesse verso l’iniziativa delle
persone nel plasmare e personalizzare il proprio lavoro (job crafting).

Prospettive per il futuro

L’obiettivo futuro è rafforzare quanto attiene alla rilevazione della percezione dell’attività e del contesto
fisico. Si tratta di integrare lo strumento già messo a punto con ulteriori sfaccettature e affermazioni che
vadano a coprire gli aspetti riconducibili all’attività svolta e alla percezione dell’ambiente fisico in cui la
persona si trova ad operare. Si intende inoltre approfondire ulteriormente il ruolo svolto dall’autoefficacia
come antecedente delle percezioni di contesto.

Infine un’area di sviluppo e di integrazione prevede la misura delle pereczioni di contesto aggregate a livello
di gruppo, in un’ottica multilevel (es. gruppo di lavoro, ufficio, divisione, organizzazione, regione ecc.)
ricollegando la loro misura aggregata alla forza situazionale e andando a misurare il ruolo di esse nel
generare outcome significativi come la soddisfazione, l’engagement e la prestazione di gruppo.
4 La leadership
In ambito accademico una definizione ampia ed inclusiva di Leadership è quella offerta da Yukl che la
intende come un “processo di influenzamento degli altri e di facilitazione degli sforzi individuali e collettivi
per il raggiungimento degli obiettivi condivisi”.

I grandi classici – focus sul leader

Approccio dei tratti -> chi è? / personalità / profilo motivazionale / autoefficacia / carisma

Approccio dei comportamenti -> Cosa fa? / comportamenti legati al compito e alla relazione / leadership
trasformazionale e transazionale / leadership etica, agentica, autentica, empowering

Approccio situazionale -> quando e per chi? / modello della contingenza / leadership situazionale

Il nuovo focus

I collaboratori ed il gruppo -> leadership relazionale, di servizio, condivisa

Approccio de tratti
Enfatizza le caratteristiche personali dei leader fondandosi sull’assunto che “leader si nasce“. Nel tempo
questo assunto è stato di molto stemperato, ma vi è accordo che alcune caratteristiche facilitano i leader
nelle loro azioni e possono predire anche il successo d programmi di sviluppo della leadership.

Utilizzando anche il modello teorico dei big five, Judge e colleghi hanno misurato la stabilità emotiva,
l’energia e l’apertura mentale sono i tratti di personalità che predicono meglio l’efficacia di un leader. In
situazioni deboli (es. destrutturate, in cui il contesto non propone specifici modelli comportamentali da
seguire) le forze disposizionali hanno maggiore impatto sul comportamento. In situazioni più strutturate
(come le organizzazioni e specie quelle militari e pubbliche) assumono maggiore rilevanza i fattori
contestuali.

Il modello di McClelland pur riconoscendo che i motivi sono appresi di fatto si riferiva ad essi come a dei
bisogni, sottolineandone quindi una natura relativamente stabile. Per questa ragione, altri autori hanno
rivisto il modello originario, sottolineando che i motivi sono degli stati (come opposto dei tratti) e che
possono essere appresi o modellati più facilmente.

I tre aspetti dell’orientamento al potere di Chan e Drasgow:

- Motivo affettivo- identitario: la persona vuole e preferisce essere un leader perché questo le
consente di esprimere le proprie caratteristiche;
- Motivo strumentale: la persona sceglie di assumere tali posizioni solo se ne riscontra vantaggi
personali;
- Motivo socio-normativo: la persona è motivata a condurre un gruppo perché è stata investita da
tale ruolo e lo considera quasi un onore.

Il costrutto inteso è chiamato in un modo ampio “motivazione alla leadership” e indica un attributo
individuale che influenza le decisioni di un leader di assumere posizioni e responsabilità da leader,
l’intensità di sforzi e la persistenza nella sua azione da leader.
Gli studi condotti insieme a Boyatzis hanno evidenziato che la configurazione ottimale della motivazione
manageriale prevede: un forte orientamento al potere, un orientamento alla riuscita moderatamente alto,
un basso orientamento all’affiliazione.

Le convinzioni di autoefficacia di un leader predicono il suo successo, misurato nei termini di una migliore
prestazione del leader stesso e del gruppo. Nel caso di manager con elevata autoefficacia nella leadership i
loro collaboratori riportano una maggiore frequenza di comportamenti quali: ricerca di un miglioramento
continuo nelle modalità di lavoro, spinta al cambiamento all’interno del gruppo, uso di strategie sempre
nuove per il raggiungimento degli obiettivi. Due dimensioni dell’autoefficacia risultano più fortemente
legate a questi comportamenti: autoefficacia nel fornire una direzione ed autoefficacia nell’ottenere
l’impegno dei collaboratori. La terza dimensione di autoefficacia nella leadership fa riferimento alla capacità
del leader di superare gli ostacoli, predice la gestione del cambiamento da parte dei manager solo quando
essi presentano un forte commitment verso l’organizzazione.

Leadership carismatica

Il carisma è definito l’abilità del leader di generare un potere simbolico. Le teorie sulla leadership
carismatica coinvolgono contemporaneamente i tratti, il potere, il comportamento e le variabili situazionali.

House ha identificato alcuni comportamenti tipici del leader carismatico, tra cui: la gestione delle
impressioni per mantenere alta fiducia dei collaboratori (impression management); l’articolazione di una
visione positiva per costruire il commitment (impegno) dei collaboratori; la comunicazione di aspettative
elevate. Sempre House, in collaborazione con Howell ha identificato alcuni tratti che distinguono i leader
carismatici, come: bisogno di potere, autoefficacia, sensibilità ai bisogno dei collaboratori e propensione
alla ricerca del rischio.

I leader carismatici assumono un ruolo centrale nel creare consenso sul modo di interpretare e rispondere
agli eventi e possono essere di due tipi: visionari, che aiutano a rafforzare soprattutto le corrispondenze tra
il modo di agire ed il loro modo di sentire, quindi enfatizzano gli aspetti emozionali connessi alle attività di
gruppo; prodotti dalla crisi, che mirano a rafforzare la corrispondenza tra i comportamenti e le
conseguenze da questi generati, quindi aiutano i collaboratori a percepire di essere agenti attivi.

I cinque grandi fattori, o big five, di personalità sono buoni predittori del carisma nelle sue diverse
componenti (quali la visione e la comunicazione motivazionale), ed in particolare i tratti più fortemente
correlati con il carisma sono amicalità, coscienziosità e estroversione.
Il carisma si associa a migliori prestazioni dei collaboratori, sia in termini di in-role performance sia extra-
role, e a migliori prestazioni del gruppo e dell’organizzazione nel loro insieme.

In relazione al carisma la caratteristica che spesso gli viene associata è il narcisismo, che sebbene
positivamente correlato all’assunzione di ruoli di leadership, non predice tuttavia l’efficacia in tali posizioni.
Il narcisismo consiste nella formulazione di un senso grandioso di sé accompagnato da fantasie di potere e
di superiorità e da un orientamento esibizionista. Il leader carismatico, quando è narcisista, è possibile che
promuova una visione “irrealistica” che riflette più il suo sensi di grandiosità che non la realtà o le
informazioni in suo possesso. Un altro importante elemento che caratterizza la personalità narcisista è la
mancanza di empatia nei confronti degli altri, e questo può ostacolare il successo del leader.
L’approccio dei comportamenti

Assume che sono gli specifici comportamenti agiti dal leader ad influenzare l’efficacia manageriale. I
comportamenti connessi alla leadership possono essere divisi in due grandi domini: orientati al compito,
poiché una delle principali preoccupazioni del leader è quella di raggiungere gli obiettivi; orientati alla
relazione, poiché i leder devono occuparsi anche del benessere dei collaboratori.

De Vries ha messo in relazione l’approccio di tratti con quello dei comportamenti, inoltre ha il vantaggio di
coniugare le auto-valutazioni del leader con le etero-valutazioni dei collaboratori. Lo studio mostre che: la
coscienziosità predice i comportamenti orientati al compito, l’amicalità predice i comportamenti orientati
alle relazioni, l’estroversione predice la leadership carismatica.

Leadership trasformazionale e transazionale

Questa rappresenta una evoluzione significativa rispetto ai due classici assi relazione e compito.
La prima teoria sulla leadership transazionale e trasformazionale fu elaborata da Burns in ambito politico.
I leader trasformazionali mirano a sollevare le coscienze facendo appello ad alti valori e ideali (libertà,
giustizia, uguaglianza) e motivano i loro seguaci puntando sulla soddisfazione dei loro interessi personali.
Bass ha definito:

- la leadership transazionale come fondata su una relazione di scambio: impegno e buone prestazioni
da parte dei collaboratori, e corrispondenti ricompense da parte del leader;
- la leadership trasformazionale come orientata ad aumentare la consapevolezza dei collaboratori e
a trascendere i loro interessi personali, trasformando i loro stessi obiettivi e le loro necessità.

Alcuni comportamenti del leader transazionale sono chiarire le richieste del lavoro e ricompensare il
raggiungimento degli obiettivi. La ricompensa contingente, che comprende l’assegnazione degli obiettivi da
parte del leader e la ricompensa conseguente al raggiungimento degli obiettivi stessi. Altri comportamenti
tipici sono cerare consenso sulla mission del gruppo e allargare le possibilità dei collaboratori. Nel primo
caso il leader reagisce agli eventi esterni ed ai cambiamenti, nel secondo contribuisce attivamente al
processo di cambiamento.
La gestione per eccezioni, che indica il grado in cui l’intervento del leader si manifesta esclusivamente
quando si presentano degli errori, si distingue in: gestione attiva (il leader monitora la prestazione resa dai
collaboratori e mantiene traccia degli errori) e gestione passiva (il leader interviene con feedback negativi e
punizioni solo quando gli errori sono portati alla sua attenzione).

Lo stile trasformazionale è formato da quattro sottodimensioni:

- influenza idealizzata, che riguarda il grado in cui il leader trasmette orgoglio agli altri, fa sacrifici
personali e considera le conseguenze morali ed etiche delle proprie decisioni;
- motivazione ispirazionale, che si riferisce alla capacità del leader di articolare una visione
convincente del futuro e di fissare obiettivi sfidanti;
- stimolazione intellettuale, che comprende i comportamenti del leader volti ad accrescere la
comprensione dei problemi da parte dei collaboratori;
- considerazione individualizzata, che riguarda la misura in cui il leader presta attenzione ai
collaboratori come persone ed è orientato a svolgere una funzione di coaching nei loro confronti.
Bass ha sottolineato che lo stile trasformazionale si fonda su quello transazionale, per motivare i
collaboratori ad uno sforzo maggiore e contribuire ad una migliore prestazione. Tale ipotesi è nota come
effetto accrescitivo e assume implicitamente che vi sia qualcosa da amplificare e migliorare. In una meta-
analisi è stato testato l’effetto accrescitivo e differentemente da quanto previsto dalla teoria la superiorità
di uno stile sull’altro sembra non essere assoluta ma dipendente dal contesto.

Arnold e colleghi hanno preso in considerazione la leadership trasformazionale (come un agglomerato delle
sue quattro sottodimesnioni), la ricompensa contingente, le gestione per eccezioni attiva e passiva e il
Laissez-Faire, una dimensione a sé stante che indica una sostanziale assenza del leader, che non prende
decisioni ed evita le responsabilità.

Le quattro configurazioni:

- gruppo omnicomprensivo, in cui i leader riportano punteggi alti su tutte le dimensioni;


- gruppo disimpegnato, composto da leader con punteggi bassi su tutti gli aspetti (i livelli di burnout
e le richieste di ruolo sono molto alti nel gruppo omnicomprensivo, mentre nel disimpegnato si
rilevano i più bassi);
- un terzo gruppo mostra schemi comportamentali prevalentemente passivi, riportando i punteggi
più alti nelle scale di laissez-faire e gestione per eccezioni attiva e passiva;
- un quarto gruppo è quello caratterizzato da schemi comportamentali ottimali e caratterizzati da alti
punteggi di leadership trasformazionale e ricompensa contingente e bassi nelle dimensioni passive.

Leadership empowering

Vi sono sempre più organizzazioni in cui emergono strutture più flessibili ed efficienti come i gruppi di
lavoro semi-autonomi o auto-gestiti, nei quali le funzioni di leadership classiche sono svolte interamente
dai membri del gruppo stessi; i capi invece sono chiamati ad assolvere a nuove funzioni identificabili in una
sorte di meta-leadership. Le cinque macro-dimensioni della meta-leadership sono:

1) La guida attraverso l’esempio, che comprende i comportamento che esprimono attaccamento al


lavoro e al lavoro di gruppo;
2) Il coaching attraverso cui il leader mira a formare gli altri membri e ad aiutarli a diventare
indipendenti;
3) La presa di decisioni partecipativa, che implica il considerare gli apporti e le informazioni dei singoli
membri nel prendere decisioni comuni;
4) L’informazione, che rimanda alla condivisione della mission organizzativa di altre informazioni
rilevanti nonché alla spiegazione delle decisioni prese;
5) Il mostrare interesse per i membri, che comprende comportamenti di sostegno come discutere i
problemi dei membri e lavorare a stretto contatto con tutto il gruppo.

Lee, Willis e Tian hanno confermato una relazione positiva tra leadership empowering e un insieme di
comportamenti organizzativi tra cui prestazione lavorativa, creatività e comportamenti di cittadinanza. I
meccanismi su cui agisce questo tipo di leadership livello individuale sono: l’empowerment psicologico
(definito come uno stato motivazionale caratterizzato da grande coinvolgimento nel proprio ruolo ed un
forte senso di controllo sulle proprie attività che genera motivazione intrinseca), e la fiducia nel leader.
A livello di gruppo invece agisce su: empowerment di tutto il team, mentre la condivisione delle conoscenze
non sembra avere un ruolo di primo piano.

Questa leadership si associa a più alti livelli di benessere individuale e di soddisfazione ed identificazione
con la propria carriera. Il meccanismo di tali effetti positivi è l’azione proattiva dell’individuo, che risulta
particolarmente stimolata.
Leadership etica

È definita come “la dimostrazione attraverso azioni e relazioni di una condotta normativamente appropriata
e la promozione di simili condotte nei collaboratori attraverso la comunicazione a due vie, il rinforzo e la
presa di decisione”. I due pilastri di questa leadership sono: la persona etica, che rispecchia la percezione
degli altri circa i tratti personali e le motivazioni del leader (es. onestà e motivazioni altruiste); il manager
etico, che rimanda alla percezione degli altri relativamente ai comportamenti del leader, rivolti a
trasmettere ai propri collaboratori l’attenzione all’etica e a modellare i loro stessi comportamenti (secondo
la teoria dell’apprendimento sociale di Bandura.

Leadership autentica

È definita come “un insieme di comportamenti del leader trasparenti ed etici, che incoraggiano l’apertura a
condividere le informazioni necessarie a lui/lei per prendere decisioni e che sollecitano e accettano gli input
dei collaboratori”. Le dimensioni della leadership autentica sono:

- Il processamento bilanciato delle informazioni, che si riferisce all’analisi di tutti i dati rilevanti prima
d prendere una decisione;
- La prospettiva morale internalizzata, che si riferisce all’agire del leader guidato da alti standard
morali interni che sono utilizzati per regolare il proprio comportamento;
- La trasparenza relazionale, che si riferisce al mostrare il proprio sé più autentico condividendo le
informazioni e mostrando i propri sentimenti in modo appropriato al contesto;
- L’autoconsapevolezza, che si riferisce al mostrare comprensione dei propri punti forti e deboli.

I meccanismi psicologici impattati dalla leadership autentica sono: fiducia nel leader, l’engagement,
l’identificazione sociale e valoriale con il leader stesso e/o con il gruppo. Questi meccanismi rispecchiano le
principali cornici teoriche in cui la leadership autentica è stata concettualizzata e indagata, e cioè: la
prospettiva etica, secondo cui l’elemento di autenticità di questo stile di leadership fonda oltre che sulla
tradizione filosofica dell’antica Grecia esemplificata dal celeberrimo aforisma di Delfi “conosci te stesso”,
anche su una forte componente morale; la prospettiva del comportamento organizzativo “positivo” che si
interessa in particolare di quei temi che possono aiutare a costruire benessere e che enfatizzano i punti di
forza anziché le lacune delle persone.

Alcune caratteristiche indispensabili per lo sviluppo della leadership autentica includono:

- Il capitale psicologico che in combinazione con un contesto organizzativo positivo e specifici eventi
precipitanti aumentano l’autoconsapevolezza e l’autoregolazione;
- La capacità morale del leader;
- L’autoconsapevolezza rispetto ai propri valori, emozioni, obiettivi e alla propria identità;
- I processi di autoregolazione che in particolare consentono di allineare le proprie azioni ai valori
sposati.

La ricerca su strumenti e metodologie per rafforzare la leadership autentica, nonché sulla loro efficacia, è
ad oggi ancora molto limitata.
La leadership agentica

Questa trae fondamento dalla Teoria Social Cognitiva di Bandura ed in particolare dal costrutto di human
agency. Con esso si fa riferimento alla capacità agentica dell’uomo alla sua capacità di far accadere le cose,
di influenzare attivamente l’ambiente che lo circonda e di contribuire a causare ciò che gli accade.
Sono presenti due macro categorie di comportamenti:

- Gestione delle attività: rileva le prassi adottate dal leader nella gestione del tempo, l’allocazione
delle risorse per raggiungere gli obiettivi, l’individuazione di strategie per sé e per il gruppo;
- Gestione dei Collaboratori: comprende una serie di comportamenti diretti all’integrazione e al
coordinamento dei membri del gruppo;

Entrambe sono caratterizzate da due orientamenti comportamentali complementari: manutenzione, ossia i


comportamenti orientati al mantenimento della situazione corrente; sviluppo, ossia i comportamenti legati
ad iniziative nuove e che denotano quindi proattività e la fattiva ricerca di un miglioramento continuo.

La dimensione della leadership agentica è la Gestione del Sé e ha le seguenti sottodimensioni:


- Autoregolazione: identifica i comportamenti di gestione dello stress, delle tensioni e delle emozioni
del leader. Richiama la capacità agentica che consente all’individuo di monitorare i propri
comportamenti rispetto ai propri standard personali e ai propri obiettivi. Infatti, in particolare
attraverso il processo di autoreazione, cioè il riconoscimento e la gestione delle proprie reazioni
affettive, la persona riesce a modulare il proprio comportamento e ad assicurare l’efficacia della
propria prestazione;
- Passione: comprende i comportamenti che ispirano una visione nei collaboratori, la capacità del
leader di manifestare il proprio entusiasmo per gli obiettivi perseguiti ed il lavoro da svolgere;
- Etica: comprende alcuni comportamenti del leader improntati alla lealtà e all’equità, al rispetto di
principi etici e dunque delle persone che collaborano con lui. Inoltre comprende comportamenti sia
legati alla persona etica, sia al manager etico;
- Self-Enhancement: inteso anche come “auto-motivazione” è un aspetto centrale della leadership ed
è strettamente legato alle capacità agentiche di anticipazione, autoriflessione e autoregolazione
che fanno sì che i risultati futuri di successo che la persona anticipa diventino fonte di motivazione
per sé ed orientino i suoi comportamenti. Inoltre comprende comportamenti che il leader mette in
atto per perseguire un miglioramento continuo di se stesso.

L’approccio situazionale

Enfatizza l’importanza dei fattori di contesto.


Il modello situazionale di Fiedler secondo cui l’efficacia del leader dipenderebbe dalla corrispondenza fra
stile adottato e controllo della situazione. Il grado di controllo sulla situazione sarebbe risultante dalla
combinazione di tre fattori: posizione del potere del leader (forte/debole), il grado di strutturazione del
compito (alto/basso), i rapporti interpersonali tra il leader e i componenti del gruppo (buoni/cattivi). In base
alla combinazione di questi tre fattori: lo stile orientato al compito sarebbe più efficace quando tutti e tre
sono elevati o quando sono relativamente bassi; lo stile orientato alla relazione sarebbe più efficace
quando i tre elementi hanno punteggi medi o misti. I diversi stili di leadership adottati dalla persona
deriverebbero anche da un tratto individuale definito motivazione alla gerarchia: una caratteristica
relativamente stabile e coerente nelle varie situazioni e nel tempo.
Hersey e Blachard hanno avanzato l’ipotesi che l’equilibrio tra comportamenti orientati al compito e
comportamenti orientati alla relazione messi in atto da parte del leader dipenda dal grado di maturità dei
collaboratori, dalla loro abilità nello svolgere un compito e dalla loro sicurezza di portarlo a termine. La
maturità dei collaboratori è intesa come capacità di stabilire obiettivi elevati ma raggiungibili, come
capacità e volontà di assumersi responsabilità e come competenza/esperienza di un individuo o di un
gruppo. Vedi schema pag 60

Lo stile prescrittivo (Telling) -> caratterizzato da un’elevata guida (orientamento al compito) e da un


basso sostegno (orientamento alla relazione) ed accentra sul leader la presa di decisione. È più utile per i
collaboratori con una bassa maturità o riluttanti, insicuri, o che hanno poche capacità, perché fornisce
indicazioni preciso sullo svolgimento delle attività a collaboratori.

Lo stile negoziativo (Selling) -> il leader definisce in maniera molto precisa le attività per i collaboratori,
ma è aperto ad una comunicazione a due vie anche per spiegare le proprie decisioni. Prevede quindi
un’elevata guida (nel compito) e un elevato sostegno (nella relazione), ed è più efficace con i collaboratori
con una maturità medio-bassa ma capaci e/o disponibili e per questo motivo vi è una maggiore attenzione
agli aspetti relazionali da parte del leader.

Lo stile partecipativo (Partecipating) -> caratterizzato da una bassa guida nella definizione delle attività e
da un elevato sostegno emotivo al gruppo. Questo stile è più adatto con i collaboratori che hanno un livello
di maturità medio-alto, che quindi hanno le capacità per lavorare in autonomia ma la loro disponibilità a
varlo è variabile.

Lo stile delegante (Delegating) -> prevede un livello estremamente basso di strutturazione del lavoro
(compito)e i collaboratori godono del massimo grado di discrezionalità: il leader fa un ampio uso della
delega, tanto che interviene raramente a sostegno dei collaboratori e cura poco anche le relazioni
interpersonali. Questo stile è più efficace con i collaboratori competenti, sicuri di sé, disponibili a assumersi
le proprie responsabilità e con un elevato livello di maturità.

Alcune prospettive teoriche su cui la ricerca si sta concentrando di recente sono accomunate dallo
spostamento del tradizionale focus leader-centrico sui follower, presi individualmente o in gruppo. Questi
approcci guardano alla leadership come un fenomeno diadico, relazionale e condiviso.

Leadership relazionale

Porta a dirigere l’attenzione sulla relazione a due tra leader e collaboratore nella sua unicità.
Il costrutto fulcro di questa teoria è LMX- Leader-Member Exchange, cioè lo scambio tra i due. Esso si
sviluppa nel corso del tempo seguendo grosso modo tre fasi:

- Estranei, generalmente nelle fasi iniziali del rapporto di lavoro;


- Familiarità;
- Maturità;

Non tutte le relazioni però si sviluppano in maniera lineare o raggiungono necessariamente la fase di
maturità. La diversa qualità delle relazioni è legata a fattori affettivi (es. somiglianza reciproca e simpatia
reciproca) e cognitivi (tra cui il tempo limitato che il capo ha per sviluppare relazioni di buona qualità con
tutti). Tuttavia l’evidenza empirica è ancora relativamente modesta sui predittori dell’LMX.

Martin e colleghi hanno evidenziato correlazioni significative tra LMX (relazione di buona qualità tra leader
e collaboratore) e numerosi indicatori di prestazione: correlazioni positive con la prestazione di ruolo e
quella extra-ruolo, correlazioni negative con i comportamenti controproduttivi. Le ragioni di tali
conseguenze si rintracciano nei mediatori della relazione leader-collaboratore, la fiducia nel leader,
l’empowerment, la motivazione e la soddisfazione lavorativa.
La qualità della relazione tra il leader e ciascuno dei suoi collaboratori media l’effetto di diversi
comportamenti leadership. Gli stili di leadership sarebbero efficaci nello stimolare migliori atteggiamenti e
comportamenti lavorativi dei collaboratori perché consentono l’attivazione dei scambi di migliore qualità.

Investire sulle qualità delle relazioni diadiche instaurate può essere più efficace che perseguire gli stili di
leadership che di volta in volta siano più di tendenza o in linea con le aspettative organizzative.

Leadership condivisa e Leadership di servizio

Oggi è possibile assistere sempre più a:

- Strutture piatte e non gerarchizzate, con responsabilità diffuse e condivise;


- Contesti in cui la leadership è concepita come un processo;
- Molte grandi aziende che adottano strutture organizzative basate su gruppi semi-autonomi di
lavoro;
- Rapporti di lavoro interpretati in modo molto più egualitario e informale.

La leadership condivisa -> detta anche distribuita, è definita come “un processo di influenza dinamica e
reciproca che avviene tra i membri del gruppo il cui obiettivo è guidarsi reciprocamente per raggiungere gli
obiettivi di gruppo o organizzativi”. Si tratta di un tipo di influenza orizzontale che generalmente coinvolge i
pari, e talvolta include anche un processo di influenza verticale a due vie, ossia top-down e bottom-up. La
caratteristica peculiare e unica di questo stile di leadership è proprio il fatto di considerarla come un
processo muto e continuo ed il riconoscere che diversi leader emergono nel corso del tempo: alcuni in
modo formale, altri in modo ufficioso e informale.

Questa è stata operazionalizzata in modi diversi: come un aggregato a livello di gruppo della leadership
trasformazione e transazionale; come la distribuzione di oggettive responsabilità all’interno del gruppo;
come lo svolgimento all’interno del gruppo di specifiche funzioni nella guida del gruppo, identificate in varie
tassonomie.

Relazioni positive tra leadership condivisa e importanti comportamenti organizzativi.

La prestazione del gruppo: le operazionalizzazioni di questo tipo di leadership sotto forma di network, che
restituiscono una vera misura di diffusione delle responsabilità, predicono più fortemente la prestazione.

La complessità dei compiti riduce tale relazione, mentre l’interdipendenza non sembra essere un fattore
moderatore, il che implica che anche in gruppi che lavorano semplicemente sommando i contributi
individuali una leadership condivisa può essere efficace.

La leadership condivisa ha un forte impatto sugli stati emergenti del gruppo (ad esempio coesione, conflitto
e clima di gruppo) che possono essere i fattori esplicativi dell’efficacia di questo approccio.
Leadership di servizio -> l’idea di fondo è che una persona sia innanzitutto motivata dal servire gli altri,
rima ancora che dal guidarli, così che l’obiettivo principale sarà aiutare i collaboratori a crescere e non
perseguire interessi personali ancorchè alle esigenze organizzative. Inoltre, non bisogna confondere la
motivazione a servire gli altri con un atteggiamento di servilismo connesso a bassa autostima.
Al contrario la leadership di servizio si fonda sulle virtù del leader, in senso Aristoteliano, e il leader ha una
responsabilità morale nell’aiutare gli altri a migliorarsi.

Vi sono sei caratteristiche chiave del leader di servizio:

- Comportamenti di sviluppo ed empowering: fondano sulla convinzione del valore di ciascun


individuo e muovono dal senso di responsabilità nell’aiutarli a raggiungere la piena espressione di
sé;
- L’umiltà: che consente ai leader di apprendere anche dagli altri e riconoscere quando sbaglia, ma
consente anche di ritirarsi quando è il momento di dare spazio a visibilità ai collaboratori;
- Autenticità: che si riferisce all’essere sempre fedeli a se stessi, alle proprie azioni e alle promesse
fatte;
- Accettazione interpersonale: che include la capacità di mettersi nella prospettiva dell’altro ed
empaticamente capire le loro reazioni, specie quando negative;
- Direzione: che fa sì che le persone sappiano cosa ci si aspetta da loro e cosa è vantaggioso per se
stessi e l’organizzazione;
- Gestione: che rappresenta la volontà di assumersi la responsabilità per l’istruzione nel suo
complesso e preferire il servire gli altri al controllo personale.

Gli antecedenti della leadership di servizio sono rintracciabili in:

- Bisogno di servire gli altri;


- Motivazione alla leadership;
- Bassa distanza dal potere;
- Alto orientamento benevolo verso gli altri;
- Sviluppo morale cognitivo e autodeterminazione, intesa come soddisfazione dei bisogni
fondamentali di competenza, autonomia e appartenenza, che generano motivazione intrinseca.

Un’importante conseguenze di questo stile di leadership è che i collaboratori raggiungano la piena auto-
realizzazione, raggiungendo quindi maggiore benessere, autonomia ed espressione di sé. Gli atteggiamenti
dei collaboratori, le loro prestazioni e conseguenze a livello organizzativo tra cui la responsabilità sociale e
la sostenibilità sono altre conseguenze.
7 Formazione

La conoscenza è considerata una risorsa centrale, e fondamento del vantaggio competitivo delle imprese.
Dei tre ambiti in cui le organizzazioni possono avere successo (finanza, prodotti-servizi e capitale umano),
all’interno di un’economia globale omogenizzante il capitale umano è l’unico fattore che possa davvero
rappresentare una leva strategica capace di “fare la differenza” per un’impresa e favorirne il successo.

Learning Organizations -> organizzazioni che mettono in atto strategie e azioni volte a implementare il loro
capitale intellettuale. Queste organizzazioni consentono alle organizzazioni di: adattarsi, competere,
eccellere, innovare, produrre, essere sicure (safe), migliorare i servizi.
Sono caratterizzate da un processo di apprendimento continuo (lifelong).

Aspetti definitori della formazione:

- Si rivolgono a soggetti adulti già impegnati nella (o da avviare alla) vita professionale;
- Hanno come referente (diretto o indiretto) il mondo del lavoro e delle organizzazioni;
- Si propongono, nei contesti in cui vengono realizzate.

La formazione è uno strumento essenziale di costruzione delle competenze a livello individuale, di gruppo e
organizzativo. Agisce su: conoscenze, competenze e atteggiamenti. Le azioni mirate dell’individuo sono
volte ad ampliare le conoscenze, a favorire adozione di determinati comportamenti e a sviluppare capacità
trasversali. La azioni mirate dei gruppo sono volte a favorire la coesione, a rinforzare l’interdipendenza e a
sviluppare nuove pratiche.

Formazione -> processo intenzionale rivolto alle risorse umane, e pianificato secondo modalità utili a dare
risposte ai bisogni dell’organizzazione. Specificità di saperi e pratiche rispetto all’educazione tradizionale: si
collocano in contesti d’azione caratterizzati da riferimento specifico e diretto al mondo del lavoro e delle
organizzazioni, finalizzati all’accrescimento delle competenze dei lavoratori e lo sviluppo
dell’organizzazione.

Funzione trasformativa -> formare implica un intervento profondo e globale che provoca nel soggetto
uno sviluppo che questo non sia sovrapposto alla struttura esistente, ma sia integrato in nuove strutture più
generali, che consentono a ognuno di raggiungere un livello culturale multidisciplinare, capace di fargli
meglio comprendere i fenomeni della vita. La formazione intende intervenire per modificare quelle
strategie di comportamento stereotipate e favorire piuttosto una tendenza all’esplorazione, all’analisi, alla
ricerca. In questo si sostanzia il cambiamento che la formazione induce a livello individuale organizzativo.

Prospettiva classica

- Organizzazione come macchina e l’uomo rappresenta un ingranaggio intercambiabile, le cui


capacità servono a svolgere i compiti predefiniti dall’organizzazione.
- Formazione: azioni di addestramento utili a rendere le persone abili a eseguire il compito richiesto
con la maggiore efficienza possibile, guidata da criteri di uniformità.
- Job analysis (analisi dei compiti, definizione delle procedure di esecuzione e valutazione delle skill
necessarie) in risposta alle esigenze di progettazione dei processi produttivi dell’organizzazione.
Prospettiva modernista

- Organizzazione come un sistema organico che reagisce alle sollecitazioni ambientali adattandosi ed
elaborando strategie proattive. Tema centrale è il cambiamento organizzativo e si assume che il
gruppo sia il livello sociale deputato al cambiamento.
- Formatore = professionale specifica (dotato di proprie competenze professionali e metodologiche)
e strumento per le politiche di gestione delle risorse umane. Progressivamente si istituzionalizza,
assumendo una posizione organizzativa all’interno della funzione risorse umane.
- L’analisi dei bisogni diventa la fase di indagine preliminare del processo formativo circa i bisogni, le
criticità e le istanze di sviluppo delle varie componenti organizzative.
- La valutazione della formazione estende il proprio ambito, includendo aspetti soggettivi
(soddisfazione e partecipazione) e l’analisi degli effetti della formazione sul contesto lavorativo
(cambiamenti indotti nei processi e nel clima lavorativo).

Prospettiva simbolica e post-modernista

- Paradigma della frammentazione. Il vantaggio competitivo delle organizzazioni si fonda sulla


capacità riflessiva di apprendere dall’esperienza, dai problemi e dagli errori.
- Per rispondere a queste istanze, la formazione non può più essere concepita come un processo
lineare. Diviene un apparato teorico-metodologico capace di sostenere le persone nel riflettere
sulle proprie esistenze.
- Cambiano i luoghi dell’apprendimento;
- Cambiano le metodologie;
- L’analisi dei bisogni, più che decodificare i bisogni dell’organizzazione e dei lavoratori e offrire una
proposta di intervento per colmare questo gap, si propone di facilitare la committenza nel far
emergere criticità.

I paradigmi della formazione

La formazione imitativa (proporre modelli)

Emulazione di un modello -> acquisizione di nuove abilità di tipo manuale.

Paradigma funzionale nelle organizzazioni che richiedono lo svolgimento di compiti semplici e parcellizzati.

La formazione colmativa (trasmettere conoscenze)

Trasferire un sapere istituito, conoscenze strutturate e modelli certi -> portare i discenti a un livello
prefissato di conoscenze è necessario per lo svolgimento di una specifica professione (standard).

Organizzazioni che hanno necessità di riqualificare il personale e nelle organizzazioni scolastiche.


La formazione integrativa (favorire l’integrazione)

Facilitare l’inserimento e l’adattamento dei singoli all’organizzazione, fondere valori e credenze, contenere
il peso dell’identità personale e delle differenze individuali in nome dell’integrazione sociale, creare senso
di appartenenza.

Risponde all’esigenza dell’organizzazione di rinforzare la partecipazione e l’appartenenza dei lavoratori al


sistema organizzativo.

La formazione maturativa (facilitare lo sviluppo)

Valorizzare la capacità di imparare ad apprendere, più che l’apprendimento di specifici contenuti, e di


incrementare le potenzialità del soggetto.

No contenuti ma un setting che consenta al partecipante di sviluppare meta-competenze.

Il formatore è un analista della complessità, che offre un supporto metodologico fornendo strumenti per
analizzare la realtà.

Le organizzazioni fanno formazione per esigenze basate sulle fasi della socializzazione lavorativa: relazione
con il contesto, integrazione relazionale, sviluppo di conoscenze competenze e abilità,cultura organizzativa.

LAVORATORI LAVORATORI LAVORATORI


NEO-ASSUNTI SENIOR ANZIANI
FOCUS
TEMATICO
Relazione con il - Orientamento al - Sostegno ai - Accompagnamento
contesto contesto passaggi di ruolo al ritiro
- Outplacing
Integrazione - Team building - Rimotivazione - Rimotivazione
- Appartenenza al - Integrazione in
ruolo nuovi gruppi-unità
Competenze - Contestualizzazione - “Manutenzione” e - Codifica e
conoscenze aggiornamento trasferimento delle
- Skill e metodologie - Adeguamento ai conoscenze tacite
specifiche comportamenti
- Disapprendimento
Cultura - Condivisione valori - Integrazione di - Modeling dei nuovi
- Introdurre nuovi valori membri
cambiamento
Formazione per i neo-assunti (newcomers): favorire l’adattamento; fondamentale affinché i nuovi
assunti acquisiscano le competenze e le metodologie necessarie per svolgere il nuovo lavoro, le politiche
organizzative e condividano il sistema di valori.

La formazione per i lavoratori senior (full members): presidiare le competenze; si propone di ancorare
le conoscenze dei lavoratori ai cambiamenti del contesto organizzativo e dei processi lavorativi, sostenere i
passaggi di ruolo, di aggiornare le competenze dei lavoratori, di rinforzare la motivazione e di sostenere un
miglioramento della performance.
Sfide: manutenzione delle competenze/abbandono vecchi sistemi cognitivi.

Gli interventi sulle emozioni e sulle relazioni sono frequenti in caso di cambiamenti organizzativi di rilievo.
Servono a rinforzare l’appartenenza al gruppo di lavoro; limare i conflitti; rinforzare il confronto
professionale o interprofessionale; sostenere la motivazione e l’empowerment.

La formazione per i lavoratori anziani (marginal members): ridurre la dissipazione di competenze; interventi
finalizzati al recupero e alla valorizzazione dei saperi individuali; funzioni di tipo riparativo, fornendo il
supporto metodologico affinchè i lavoratori mettano in atto pratiche di condivisione; knowledge sharing tra
lavoratori maturi e newcomer (es. attraverso pratiche di mentoring).

Prima questione: in gruppo, di gruppo

Obiettivi formativi a livello di gruppo: sviluppo di capacità di interazione; sostegno dell’allineamento verso
obiettivi comuni; promozione letture condivise e schemi interpretativi dei fenomeni.
La formazione inoltre può influenzare indirettamente il livello collettivo quando le conoscenze e le
competenze acquisite a livello individuale vengono incorporate e condivise all’interno di un gruppo di
lavoro, di una unità produttiva o reparto, o dell’intera organizzazione.

La formazione in gruppo: pone l’individuo al centro e il gruppo come contesto; le relazioni sono un aspetto
incidentale.

La formazione di gruppo: gruppo costituisce l’entità di riferimento del processo formativo e il sistema di
relazioni è oggetto e strumento di lavoro.

Seconda questione: apprendere nelle/per le organizzazioni

Apprendimento individuale vs apprendimento organizzativo

Nell’apprendimento organizzativo un’organizzazione apprende quando i suoi membri apprendono nel suo
interesse; la conoscenza è un attributo proprio dell’organizzazione non riconducibile all’insieme delle
conoscenze o competenze dei singoli individui. Vedi slide 34
I ruoli del processo formativo

Committente

Colui che commissiona l’intervento (imprenditore, ufficio formazione, membri CdA)

Sistema Cliente

Clienti iniziali: i referenti dell’organizzazione che per primi contattano il formatore;


Clienti Intermedi: tutte le persone che partecipano alla pianificazione degli interventi successivi;
Clienti Primari: coloro che hanno il problema per cui è chiesto il supporto;
Clienti finali: i membri dell’organizzazione fruiscono dell’azione formativa direttamente.

Partecipanti

Individui che partecipano all’intervento formativo: singoli discenti; appartenenti ad un gruppo di lavoro;
aggregati per ruolo o altra variabile organizzativa.

Formatore

Chi gestisce professionalmente il progetto formativo, il facilitatore del cambiamento.

Sono necessarie quattro competenze di base:

- Di contenuto: conoscenze disciplinari specifiche;


- Di campo: capacità di conoscere e decodificare il contesto organizzativo;
- Di metodo: conoscenza dei presupposti teorici;
- Di processo: competenza sui fattori che favoriscono o ostacolano l’apprendimento.

Tre funzioni:

1) Manager dello sviluppo: funzione di consulenza organizzativa; l’interlocutore principale del


formatore manager dello sviluppo è il committente; svolta da professionisti interni
dell’organizzazione.
2) Trainer: formatore gestisce il processo formativo nella relazione con i partecipanti; svolto da
professionisti esterni all’organizzazione che hanno competenze di contenuto disciplinari o
specifiche; valutazione della formazione del formatore trainer è legata prevalentemente alla
partecipazione-soddisfazione dei partecipanti e all’apprendimento dei contenuti.
Il tranier è quindi: istruttore, terapeuta, conduttore, animatore.

Il triangolo C-P-F slide 43

Perché rappresentare i ruoli? Aiuta il formatore a comprendere quale sia il ruolo rivestito dai suoi
interlocutori nel processo e quale rilevanza dare ai diversi stakeholders; la loro partecipazione può essere
concreta e simultanea ma più spesso compartecipazione simultanea. Esclude il rischio di prendere decisioni
sulla base di una prospettiva parziale.
Le fasi del processo formativo

• Fase diagnostica -> si rilevano e analizzano le informazioni utili a comprendere i bisogni formativi.

L’analisi dei bisogni: il termine bisogno fa riferimento a una carenza, necessità o assenza, suggerendo
dunque una funzione colmativa da parte della formazione; l’analisi fa emergere anche esigenze e desideri di
sviluppo individuali e organizzativi e propone una lettura integrata di tali bisogni. Si
tratta di un’attività di ricerca finalizzata all’acquisizione di dati e informazioni utili e attendibili per
proseguire o meno nelle tappe successive del processo formativo.
Questa analisi consente la programmazione delle attività formative, la progettazione di massima degli
interventi e la definizione della progettazione di dettaglio dei singoli interventi.

Punto d’osservazione dell’organizzazione: raccolta dati relativi all’organizzazione nel suo insieme, quali la
struttura, i modelli di divisione del lavoro e di integrazione dei compiti (environmentl readiness).

Punto d’osservazione del lavoro: analizza, a livello di scomposizione (task, job), i compiti tipici della
professionalità da coinvolgere nel processo formativo.

Punto d’osservazione delle persone: rileva competenze e attitudini, esperienze formative passate,
aspettative ed esigenze.

Modelli di consultazione di Schein

Modello “acquisizione di informazioni o competenze” -> Assume che il cliente abbia eseguito una diagnosi
corretta del problema e che lo comunichi chiaramente al consulente. Rientrano in questo modello tutte le
esperienze formative in cui il consulente utilizza esclusivamente le proprie competenze tecnico-
professionali, assumendo una posizione del tipo “a domanda rispondo”.

Modello “medico-paziente” -> il committente si rivolge al consulente sia per la diagnosi del problema sia per
la sua soluzione. È molto facile che clienti e consulenti si facciano intrappolare nel circolo vizioso di una
diagnosi scorretta perché il cliente è ansioso di ottenere aiuto e il consulente di vendere i suoi servizi.

Modello “consulenza di processo” -> Action-Research vede come inscindibili le fasi le fasi di diagnosi e di
intervento, dove la fase di esplorazione e conoscenza iniziali sono in sé un intervento che produce
riflessione e dunque conoscenza; e l’intervento, generando cambiamento, attiva nuove domande.

• Fase realizzativa -> progettazione di massima; azione formativa vera e propria; progettazione di dettaglio
dell’intervento. Ci sono diverse scelte metodologiche:

- Formale – Informale: proporre conoscenze predeterminate e proposte collettivamente a tutti i


partecipanti in modo omogeneo VS proporre percorsi personalizzati in relazione alle caratteristiche
dei partecipanti;
- On the job – Off the job: tradizionalmente la formazione si svolge in un luogo “terzo”, ossia in un
setting dedicato che ha proprio la funzione di sospendere il fare per favorire il pensare VS per
facilitare l’applicazione degli apprendimenti nei contesti lavorativi reali (transfer) molte attività
formative sono svolte nei luoghi di lavoro.
• Fase valutativa -> verificare in itinere e a valle dell’intervento la sua efficacia in relazione agli obiettivi.
Livelli e fattori di questa fase:

- Livello 1: le reazioni dei partecipanti relative al loro gradimento e alle emozioni relative
all’esperienza formativa;

- Livello 2: l’apprendimento, l’insieme dei cambaimenti cognitivi negli atteggiamenti e nei


comportamenti dei partecipanti;

- Livello 3: il comportamento, il trasferimento nel contesto di lavoro di quanto appreso;

- Livello 4: i risultati ottenuti dall’organizzazione.

A) Tassonomia dei quattro livelli di valutazione degli esiti della formazione proposta da Kirkpatrick:

Reazioni -> Apprendimento -> Comportamento -> Risultati

B) Integrazioni successive del modello:

Reazioni -> Apprendimento -> Comportamento -> Risultati -> Successo Organizzativo

C) Modello causale alternativo proposto da Alliger e Janak:

Reazioni Apprendimento -> Comportamento <-> Risultati <- Apprendimento

Modello di valutazione della formazione di Holton

Esiti della formazione

RISULTATI
ORGANIZZATIVI
Fattori
Ambientali Fattori di
abilità o
Influenze PERFORMANCE facilitanti
secondarie INDIVIDUALE
Fattori
Motivazionali

APPRENDIMENTO
8 Selezione, performance e talent management

SELEZIONE
Analisi del contesto organizzativo

La selezione implica un’attività sistematica di confronto tra candidati all’assunzione e attività da svolgere in
azienda, nel contesto culturale, temporale e sociale di riferimento. Le variabili del contesto organizzativo
sono: ambiente di riferimento, cultura condivisa e struttura.

Costa propone cinque variabili che possono guidarci nell’analisi dell’ambiente organizzativo:

1) Mercato degli input: ampiezza, varietà e tipologia di rapporto con i fornitori;


2) Mercato degli output: tipologia e varietà di prodotti, fatturato, competitors, ciclo di vita dei
prodotti, posizionamento nel mercato, obiettivi futuri di mercato;
3) Tecnologie: investimenti in ricerca e sviluppo, tempi, costi e diffusione della tecnologia;
4) Istituzioni: tipologie di istituzioni, rapporti con esse, opportunità;
5) j: rapporto con gli azionisti, percezione esterna dell’azienda, posizionamento nelle indagini
retributive.

La cultura organizzativa, secondo la definizione classica e diffusa rappresenta “un insieme di assunti di
base inventati, scoperti o sviluppati dai membri di un’organizzazione per affrontare problemi di
adattamento esterno o di integrazione interna che si è dimostrato talmente funzionale da essere
considerato valido e da essere indicato ai nuovi membri come il modo corretto di pensare, percepire e
sentire in relazione a quei problemi”.

Dall’analisi della posizione alla definizione del profilo atteso

L’analisi della posizione costituisce il passaggio preliminare e indispensabile per qualsiasi forma di
valutazione. Consiste nella raccolta e analisi delle informazioni sulla posizione organizzativa per quanto
riguarda le attività, i comportamenti e le responsabilità di lavoro.

Posizione -> definisce da un punto di vista più strutturale e neutro le attività lavorative. Per posizione si
intende l’insieme di attività, responsabilità e finalità previste nella posizione occupata nell’organigramma
organizzativo.

Ruolo -> fa riferimento al modo in cui la persona interpreta un certo posto di lavoro, enfatizzando il modo
soggettivo di interpretare la posizione.

Approccio per l’analisi della posizione (job analysis):

- Task Analysis: approccio tradizionale; il focus è su cosa la persona deve fare; l’approccio è indicato
per lavori molto standardizzati, stabili e proceduralizzati; il risultato è la job description; lo
strumento privilegiato è l’intervista classica; Profilo Ideale =
Job Description + tratti di personalità, motivazioni, capacità, attitudini, efficacia personale

- Behaviour Analysis: approccio più recente; focus su come vengono svolte le attività; approccio più
adatto per la valutazione della prestazione, del potenziale, la formazione e la selezione; il risultato è
la stesura di un modello di competenze; vengono utilizzate interviste come la CIT (Critical Intervent
Technique) e la BEI (Behavioural Event Interview);
Profilo Ideale = Modello di competenze + tratti, valori, motivazione

L’approccio per competenze per competenze permette di identificare e valutare i talenti attesi attraverso la
rilevazione di comportamenti prototipici riconducibili a competenze ritenute di successo per un
determinato ruolo e contesto organizzativo.

Il profilo ideale è le descrizione puntale di quello che stiamo cercando nella selezione in termini di
caratteristiche soggettive e oggettive, che costituisce il nostro riferimento nella valutazione dei candidati.

Il testing psicologico nella selezione

Una definizione di test psicologico è fornita da Boncori, secondo cui si tratta di “una situazione
standardizzata nella quale il comportamento di una persona viene campionato, osservato e descritto
producendo una misura oggettiva e standardizzata di un campione di campionamento”.

I test psicologici sono lo strumento principale e più diffuso nelle pratiche di selezione. In questo ambito i
test utilizzati sono quelli che misurano variabili soggettive come i tratti di personalità, la motivazione, i
valori, le abilità cognitive. Sono variabili utili per una valutazione complessiva della persona, predittive della
prestazione di successo e indicatori fondamentali di quanto l’individuo sia compatibile (fit) con la sua
organizzazione. I requisiti minimi che qualsiasi strumento di misurazione deve aver per poter essere
considerato tale sono: validità, deve misurare effettivamente e tradurre empiricamente il costrutto teorico
che intende misurare e deve essere validato su un’ampia popolazione; attendibilità, ovvero il grado di
ripetibilità delle misure ottenute e di indipendenza dell’errore casuale; deve avere una teoria di riferimento
scientificamente fondata che ci permetta di avere consapevolezza dei limiti dell’impiego del test, su quali
aspetti mette il focus e quali invece trascura. I vantaggi che derivano dall’uso del test sono la velocità e la
comodità nella somministrazione e il poter operare un confronto tra le persone e comparale con un
campione standardizzato.

La sistematizzazione di Croncbach distingue i tipi di test sulla base del costrutto che misurano:

- Test di comportamento tipico: valutano il modo abituale di comportarsi di una persona che si
esprime nel comportamento che metterà in atto con maggiore probabilità in una determinata
situazione; misurano variabili come tratti di personalità, motivazione, atteggiamenti e non
prevedono una risposta corretta;

- Test di massima prestazione: valutano la prestazione massima che una persona può raggiungere
dando il meglio di sé; prevedono una risposta corretta e misurano le attitudini, abilità, profitto,
intelligenza e conoscenze.

Il colloquio di selezione

È lo strumento d’intervento privilegiato dello psicologo, in quanto è presente e preponderante la


dimensione di relazione che è oggetto di conoscenza squisitamente psicologia.
Nell’ambito del colloquio sono presenti sempre tre elementi: selezionatore, committente o candidato,
relazione tra i due nella situazione.
Il colloquio ci permette di integrare aspetti relativi al candidato, alla reazione, alla situazione e al contesto e
di raccogliere elementi relativi alla storia professionale, alle motivazioni e elementi di cui il candidato è
portatore.

Le competenze relazionali dello psicologo diventano lo strumento che insieme alle tecniche consente di
poter pervenire al prodotto professionale. L’attenzione alla relazione permette anche di identificare le arre
motivazionali che intervengono nella dinamica del colloquio. Gli aspetti chiave della metodologia del
colloquio di selezione possono essere riassunti in un’articolazione in fasi: preparazione al colloquio, setting,
accoglienza, ricognizione, conclusione.

Gli assessment center in selezione

Scendo le linee guida internazionali con Assessment Center (AC) si intende un complesso metodo di
valutazione del comportamento standardizzato e basato su molteplici input, nel quale vengono usate prove
situazionali che più osservatori addestrati osservano e valutano. Tale metodologia parte dall’assunto che
esponendo la persona a selle prove che simulano la complessità di una reale situazione lavorativa, questa
eliciterà una risposta comportamentale osservabile e valutabile rispetto all’attitudine a ricoprire il ruolo. Le
prove situazionali hanno il vantaggio di poter essere replicabili, inoltre possono essere individuali o di
gruppo. L’AC prevede la somministrazione al candidato di una molteplicità di strumenti (test + colloquio).

Tra le prove di gruppo più utilizzate elenchiamo:

- Leaderless Group Discussion (non strutturata) -> le persone sono invitate a discutere su un tema
proposto o a risolvere un problema sulla base di informazioni uguali per tutti. Permette
l’osservazione della leadership, degli stili comunicativi e la cooperazione/competitività;

- Business Game (strutturata) -> viene simulata una riunione in cui vengono fornite informazioni con
tematiche di gestione aziendale da interpretare e viene assegnato un obiettivo comune. Oltre alla
leadership e alle competenze relazionali, permette la rilevazione di capacità di analisi, orientamento
all’obiettivo e probem solving;

- Role Playing di gruppo (strutturata) -> sono assegnati ruoli organizzativi a ogni partecipante,
vengono fornite informazioni parziali e diverse su un problema comune da risolvere o su un
obiettivo diverso per ogni persona. Mettono in evidenza le competenze relazionali, la disponibilità a
condividere informazioni, disponibilità ad accogliere il punto di vista altrui.

In riferimento alle prove individuali, invece, le più diffuse sono:

- In basket -> il candidato svolge il ruolo del manager e deve riorganizzare la documentazione che gli
è fornita, analizzarla e prendere decisioni strategiche in un tempo limitato. Valuta l’organizzazione,
la pianificazione, la gestione del tempo e l’orientamento al risultato;

- Presentazione -> viene fornita una documentazione ampia in un limitato periodo di tempo. Il
candidato deve preparare una presentazione ed esporla. Valuta la persuasione, la comunicazione in
pubblico, la capacità di sintesi e la gestione dell’ansia;
- Role playing individuale -> viene creata una situazione lavorativa difficoltosa e assegnato al
partecipante un ruolo specifico, mentre un assessor interpreta l’interlocutore. Il candidato deve
gestire la situazione e la relazione con l’interlocutore e proporre soluzioni. Valuta le competenze
nella gestione dei clienti e collaboratori.

Gli esiti della selezione

Una valutazione poco accurata delle capacità individuali e il conseguente inserimento in azienda di
persone che non si adattano alla posizione lavorativa può avere anche ricadute particolarmente
negative per il futuro dell’organizzazione. La selezione è efficace quando la persona:
alte prestazioni + crescita personale + crescita aziendale = selezione efficace

I criteri utilizzati per la valutazione del processo di selezione sono: turnover, prestazione resa. Sarebbe
auspicabile che i criteri utilizzati per la definizione nel profilo ideale in selezione siano gli stessi che
costituiscono le dimensioni su cui si valuta la prestazione delle persone.

PERFORMANCE MANAGEMENT

Dal performance appraisal al performance management

Per valutazione della prestazione si intende ciò che la persona ha fatto, ovvero i comportamenti messi
effettivamente in atto nello svolgimento della propria attività.

Performance Appraisal -> ha cadenza annuale, il focus è sulle difficoltà e sulla performance non
conseguita, punti di forza e di debolezza.

Performance Management -> processo on-going, sviluppo delle capacità e delle competenze, focus
sull’andamento della performance e il raggiungimento degli obiettivi condivisi.
Le fasi della performance management sono:

- Piano di sviluppo e professionalità;


- Pianificazione della prestazione e assegnazione degli obiettivi;
- Osservazione della prestazione;
- Feedback formali e informali;
- Preparazione al colloquio di valutazione finale;
- Colloquio di valutazione.

Le finalità dei sistemi di valutazione

Bilancio tra prestazione attesa dal collaboratore e risultati conseguiti; Raccolta delle informazioni sui punti
di forza e di miglioramento delle proprie risorse; Pianificazione del lavoro da svolgere attraverso un
confronto tra capo e collaboratore, coinvolgendo il dipendente sulle attese che l’azienda ha nei confronti
del suo ruolo; Facilitare il cambiamento organizzativo.
Valutatori

La scelta oggi ricade sul capo poiché ricerche dimostrano che quando organizza colloqui di valutazione, la
prestazione del collaboratore migliora sensibilmente rispetto a quando questi non hanno luogo. Comunque
la fonte più attendibile di dati sulla prestazione è quella fornita dai colleghi.

Un feedback a 360°:

- Capo: focus sul raggiungimento del risultato;


- Collega: focus sulle abilità interpersonali. Favorisce la coesione di gruppo, la comunicazione aperta,
la motivazione al compito e la soddisfazione di gruppo;
- Collaboratori: la prestazione dei manager migliora a seguito della valutazione da parte dei
collaboratori. Il cambiamento nella prestazione avviene tanto più quanto il capo è autoefficace,
orientato a obiettivi di apprendimento;
- Autovalutazioni: poca corrispondenza tra queste e le valutazioni fatte da altri. Minore validità
predittiva sulla futura prestazione. Corrispondenza tra auto ed etero valutazione negli “high
performer”.

Lo strumento di valutazione

Lo strumento utilizzato per effettuare la valutazione della prestazione è la scheda di valutazione.

Competenza -> McClelland la descrive come un complesso di schemi cognitivi e comportamenti operativi
causalmente collegati al successo nel lavoro. Bandura afferma che c’è una netta differenza tra il possesso di
conoscenze e abilità e il loro uso in maniera competente in diverse circostanze.

Tipologie di schede di valutazione:

- Schede per fattori: valutano le dimensioni qualitative (competenze e comportamenti). L’input è


l’analisi delle posizioni e esistono differenti schede per differenti famiglie professionali. Le
dimensioni sono anche in funzione della cultura organizzativa. Sono fortemente strutturate.

- Schede per obiettivi: valutano dimensioni quantitative (obiettivi). Gli obiettivi sono inseriti dal capo
e la valutazione avviene in base al grado di raggiungimento degli stessi e al peso assegnato ad
onguno di essi. Ha bassa strutturazione.

- Schede miste: sono le più diffuse. Coniugano entrambe le tipologie di schede (fattori + obiettivi).

La formazione dei valutatori

Le maggiori motivazioni per cui è consigliabile formare i valutatori è rispetto al fatto che l’oggettività e
l’accuratezza del valutatore è spesso influenzata da altri aspetti come le differenze di personalità, l’umore
negativo, i rapporti politici all’interno dell’organizzazione. Chi valuta è chiamato a prendere delle decisioni
che inevitabilmente possono essere soggette a errori sistematici (bias) insiti proprio nei processi cognitivi
implicati nella presa di decisione. Formare i valutatori sulla presenza di questi meccanismi affinché
sappiano riconoscerli diventa determinante per il successo nella valutazione.
Metodi per fare pratica sono:

- Utilizzo di video che mostrano i comportamenti che devono essere valutati e viene fornito un
feedback sulla propria accuratezza nella valutazione degli stessi;
- Tenere un diario e richiamare alla memoria informazioni in modo strutturato;
- Uso di strumenti più strutturati e meno aperti;
- Abituare i capi a prestare attenzione alla sorpresa, ossia un elemento che si discosta dal giudizio già
consolidato.

VALUTAZIONE DEL POTENZIALE

Le potenzialità della persona

Per potenziale si intende le caratteristiche personali non espresse durante l’attività di lavoro corrente e
quindi si riferisce a quello che la persona potrebbe fare di più o di diverso in futuro. Il potenziale è l’insieme
delle disposizioni, aspirazioni, valori e convinzioni che maturano se messe alla prova in situazioni concrete e
che si consolidano con l’esperienza.

Potenziale relativo -> o ancorato ad una specifica posizione lavorativa, si riferisce alle potenzialità che una
persona ha di poter ricoprire efficacemente una posizione più elevata rispetto all’attuale nel breve o nel
medio termine. Il potenziale è quindi ancorato al possedimento di competenze necessarie per ricoprire il
ruolo con successo, in modo simile a quello che avviene nel processo di selezione.

Potenziale assoluto -> si riferisce a caratteristiche che in maniera più generale contribuiscono al successo
organizzativo.

La valutazione del potenziale

Gli strumenti di valutazione del potenziale più utilizzati sono il colloquio di potenziale, condotto da un
valutatore esterno e specializzato, e gli assessment center, gestiti da un team di assessor sia interni che
esterni all’azienda.

Assessment Center -> Gli AC sono utilizzati con l’intento di rendere la valutazione del potenziale il più
possibile obiettiva, limitando gli errori con fine di aumentarne la capacità predittiva. La persona è valutata
su una lista di dimensioni chiave, selezionate in quanto pertinenti alla posizione che in futuro dovrà essere
ricoperta. L’ancoraggio alla posizione rende gli AC particolarmente utili per la rilevazione del potenziale
relativo. L’output dell’AC è un profilo del candidato composto dai suoi puti di forza e aree di miglioramento
rispetto alle dimensioni valutate. L’output è condiviso col valutato attraverso un colloquio di feedback per
favorirne l’autoconsapevolezza e integrato da indicazioni di sviluppo di personale e professionale.

Colloquio psicologico-motivazionale -> Il colloquio psicologico-motivazionale, condotto da uno specialista


esterno, coniuga gli aspetti relazionali e di setting del colloquio psicologico con la tecnica della Situation
Interview. Indaga le caratteristiche individuali come motivazioni, valori, convinzioni di efficacia personale.
Può dare un valore aggiunto quando usato per confrontare l’esito dell’AC con la percezione che la persona
ha di sé, la capacità di metterla in discussione, l’apertura al feedback. Può far emergere aspetti relativi al
rapporto tra la persona e l’organizzazione, così come gli aspetti legati al lavoro vissuti come maggiormente
gratificanti, le aspettative professionali e gli obiettivi che la persona si pone.
9 Assenteismo e presenteismo nelle organizzazioni

ASSENTEISMO

I principali modelli teorici di riferimento sull’assenteismo

Modello Steers e Rhodes

Assunti chiave sono:

- La motivazione a recarsi al lavoro (attendance motivation): deriva dalla combinazione tra la


risposta affettiva della persona alla situazione lavorativa e le pressioni interne ed esterne ad essere
presente sul lavoro (pressure to attend). La soddisfazione lavorativa si configura come un
mediatore tra li elementi situazionali e personali e la motivazione a recarsi a lavoro, che a sua volta
esercita un’influenza diretta sull’assenteismo.
- L’abilità di essere presente sul lavoro (ability to attend): nonostante l’individuo possa essere
fortemente motivato a non assentarsi, altre cause o vincoli possono rendere le assenze inevitabili,
come malattie, incidenti, responsabilità familiari, lutti o problemi nel trasporto pubblico.

Modifiche di Brooke -> identifica accanto alla soddisfazione lavorativa ulteriori quattro fattori:
commitment organizzativo, job envolvement, stato di salute del lavoratore e assunzione di alcool.

Modelli “informali” di Johns

I modelli processuali e decisionali mirano ad integrare un certo numero di fattori causali per esaminare
come l’assenza si manifesta: Macro-approcci di Steers e Rhodes e Brooke.

Modello “withdrawal” -> Si configura come sottrazione (withdrawal) da circostanze lavorative considerate
spiacevoli, avverse, negative, non soddisfacenti.

Modello “demografico” -> Relazioni tra caratteristiche socio-demografiche (età, anzianità lavorativa,
genere) dell’individuo e comportamenti di assenza.

Modello “medico” -> è incentrato sull’impatto di variabili con l’abuso di alcool o di nicotina, problemi
psicologici, condizioni di dolore cronico, ma riconosce anche la componente strettamente psicologico
sottostante ai comportamenti di assenza per malattia, come ad esempio l’assunzione del ruolo di malato
oppure la centralità delle convinzioni di autoefficacia nella gestione dei problemi di salute.

Modello “sociale” -> superamento di una visone prettamente individualistica. Il modello analizza il ruolo
centrale delle norme sociali nel determinare i livelli di assenza valutati accettabili, le ragioni considerate
legittime e, in ultima analisi, i comportamenti di assenza.
Modello “conflittuale” -> assenza come forma conflittuale, non organizzata, della relazione tra mangement
e lavoratori, leggendola come una reazione individualizzata al controllo manageriale, soprattutto in
mancanza di forme associazionistiche di aggregazione.

Modello “economico” -> assenteismo inserito in una logica strumentale di offerta di lavoro e di calcolo
costi-benifici: la decisione del lavoratore di assentarsi è legata principalmente al salario percepito e alle
considerazioni economiche relative al tempo trascorso al lavoro e disponibile per sé.

La misura dell’assenteismo

March e Simon per primi hanno distinto tra due tipologie basilari di assenze sul lavoro: volontarie, come
ferie e malattie non certificate; involontarie, ossia giorni di assenza per malattia certificati, problemi
familiari o trasporto pubblico.
La maggior parte degli studi ha misurato l’assenteismo tramite un duplice indice: l’indice di frequenza e
l’indice di durata -> indicatori indiretti dell’assenteismo volontario o involontario: la persona ha un maggior
controllo sulla frequenza delle assenze piuttosto che sulla loro durata e che è quindi possibile utilizzare
l’indice di frequenza come segnale di assenteismo volontario e l’indice di durata come misura
dell’assenteismo involontario.
Critiche -> Johns e Al Hajj hanno mostrato come la distinzione tra i due tipi di indici e la loro differente
associazione con la volontà dell’individuo ad assentarsi siano una mera legenda metropolitana. Nonostante
le misure self-report siano risultate affidabili e attendibili, come dimostrato da una recente meta-analisi sul
tema, esse possono condurre a una sottostima dei giorni di assenza a causa di distorsioni a favore del sé
(self-serving bias).

Le determinanti dell’assenteismo

Le dimensioni individuali

L’età, l’anzianità organizzativa e il genere sono tra le caratteristiche socio-demografiche maggiormente


studiate in relazione ai comportamenti di assenza.

- Età: esiste una relazione positiva tra età e assenteismo, naturalmente legata al progressivo declino
psicofisico della persona. Tale relazione tuttavia diminuisce significativamente se viene inclusa
anche l’anzianità organizzativa. D’altro canto è verosimile sostenere che le persone con elevata
anzianità organizzativa siano state “selezionate” dall’organizzazione nel tempo, essendo gli
assenteisti allontanati con maggiore frequenza dall’organizzazione.
- Genere: le donne sembrano assentarsi con maggiore frequenza ma con minore durata degli
uomini. Può essere dovuto alla natura strumentale delle assenze femminili, legate al doppio ruolo
ricoperto nella società a causa delle responsabilità familiari.
- Personalità: l’assenteismo passato della persona rappresenta il miglior predittore del suo
assenteismo futuro, dimostrando l’esistenza di una certa stabilità temporale e transituazionale dei
comportamenti di assenza che può essere in parte ricondotta ai tratti stabili della personalità. Studi
passati suggeriscono una relazione tra i tratti di personalità e l’assenteismo: gli estroversi e le
persone caratterizzate da instabilità emotiva, ansia e aggressività sono meno presenti sul lavoro, a
differenza di coloro con una forte auto-disciplina e un alto bisogno di auto-realizzazione.
Estroversione (e apertura mentale), positivamente, coscienziosità (e amicalità), negativamente,
sono risultati i tratti più associati all’assenteismo.
- Capitale Psicologico:Individui con alti livelli di capitale psicologico generano strategie alternative
per raggiungere i propri obiettivi lavorativi (speranza) e sono convinti di possedere le capacità
necessarie per perseguirli (autoefficacia), prefigurandosi risultati positivi (ottimismo) e reagendo di
fronte alle difficoltà e ostacoli (resilienza); ciò rafforza la loro partecipazione e impegno verso
l’organizzazione cosi come il loro coinvolgimento nelle attività lavorative, diminuendo i
comportamenti volontari di assenza sul lavoro. Il capitale psicologico è risultato benefico per lo
stato di salute delle persone: diminuisce il rischio di malattia, e di conseguenza l’assenteismo;
permette di percepire il contesto come meno stressante, sperimentando minore stress lavorativo e
riportando minori comportamenti di assenteismo; è negativamente associata alla depressione, una
delle maggiori cause dell’assenteismo involontario.

Gli atteggiamenti verso i lavoro

Soddisfazione lavorativa

Esiste un legame negativo e significativo tra soddisfazione lavorativa e assenteismo: coloro che
derivano un sentimento di piacevolezza e appagamento dalle attività lavorative si assentono con
minore probabilità, preferendo recarsi al lavoro per raggiungere gli obiettivi organizzativi prefissati e
per realizzare i propri valori personali attraverso l’attività lavorativa. Distinzione tra soddisfazione verso
il gruppo di lavoro e verso le condizioni lavorative e organizzative: il livello di assenteismo del gruppo
influenza la relazione a livello individuale tra soddisfazione e comportamenti di assenza.

Commitment

Il commitment è stato concettualizzato come distinto in tre dimensioni:

- Commitment Affettivo: quanto più le persone hanno sviluppato un attaccamento affettivo verso
l’organizzazione tanto meno saranno inclini ad assentarsi.
- Commitment Strumentale: relazione negativa con assenteismo perché la persona rimane
nell’organizzazione perché non può uscirne in quanto non vede alternative o crede di aver investito
troppo tempo, impegno e soldi che andrebbero persi se abbandonasse la propria posizione.
- Commitment Normativo: non ha un impatto diretto sui comportamenti di assenza.

Il gruppo e la dimensione normativa

La natura sociale dell’assenteismo è intrinseca alla sua definizione che lo descrive come assenza fisica in un
certo luogo e tempo quando sussiste una precisa aspettativa sociale che il lavoratore sia presente in tale
luogo e tempo. Johns e Nicholson propongono il concetto di cultura dell’assenteismo, che designa
l’insieme degli assunti condivisi su quanto sia legittimo assentarsi in una data organizzazione, stabilendo gli
atteggiamenti e i comportamenti delle persone in merito alle assenze sul lavoro e al loro controllo.
Alla base della cultura dell’assenteismo risiedono le norme di gruppo relative alle assenze e la percezione
soggettiva di esse da parte dei singoli individui. Queste riflettono l’insieme di credenze condivise tra i
membri dell’unità sociale relativamente alla legittimità dei comportamenti di assenza, e definiscono la
percezione dell’identità di gruppo relativa alle assenze sul lavoro.
L’assenteismo a livello individuale può essere predetto dalla percezione della persona del livello di
assenteismo dei colleghi, dalla sua percezione delle norme soggettive dei colleghi verso le assenze, così
come dal numero effettivo di assenze dei colleghi.
L’assenteismo può essere predetto dai livelli di:

- assenza dal manager;


- dalla percezione delle norme soggettive del capo diretto;
- e dai comportamenti di leadership del capo diretto;
- disponibilità al dialogo e alle cooperazione.

La coesione del gruppo riduce l’assenteismo, in quanto contribuiscono a stimolare le persone a recarsi al
lavoro per sostenere il raggiungimento degli obiettivi collettivi. Inoltre, i membri di gruppo coesi tendono ad
essere maggiormente soddisfatti sul lavoro, diminuendo le assenze.

PRESENTEISMO

Principali definizioni di presenteismo: la presenza al lavoro nonostante precarie condizioni di salute, come il
comportamento di recarsi al lavoro quando sarebbe stato meglio aver preso un giorno di assenza per
malattia a causa del proprio stato di salute; la perdita di produttività che si verifica quando la persona che
lavora è ammalata o infortunata, o comunque è al di sotto delle proprie possibilità.

Le conseguenze del presenteismo

Gli effetti negativi del comportamento sono evidenti nel caso di malattie contagiose, quando il lavoratore
presenteista risulta essere una minaccia anche per la salute di clienti e colleghi a causa del rischio di
contagio. Il presenteismo determina una maggiore perdita di produttività se paragonato alla produttività
persa come conseguenza dei giorni di assenza.
Un lavoratore presenteista, parzialmente produttivo a causa del suo stato di salute, può sembrare
nell’immediato più “proficuo” per l’organizzazione rispetto ad un lavoratore assente e può essere
addirittura visto come un ligio cittadino organizzativo, dimostrando lealtà e commitment. Tale lavoratore
può però comportare seri rischi per la sicurezza sul lavoro e ridurre notevolmente sia la quantità che la
qualità dei risultati lavorativi, incrementando il pericolo di errori e incidenti. Infatti gli è richiesto un
maggior sforzo cognitivo, che può interferire con le prestazione resa.
Il presenteismo comporta un deperimento dello stato generale di salute percepito dalla persona e un
incremento del tasso di assenteismo futuro, dal momento che lavorare durante un periodo di malattia può
compromettere il recupero psicofisico e quindi aggravare le condizioni fisiche e causare assenze successive.
Il presenteismo è il risultato associato ad un successivo declino, soprattutto ad un maggior rischio di
depressione, ansia, e burnout nel tempo, specialmente nelle sue componenti dell’esaurimento emotivo e
del distacco lavorativo. Capovolgendo tale punto di vista e offrendo una prospettiva contro-intuitiva, il
presenteismo può rappresentare un comportamento funzionale per il benessere individuale e organizzativo
in caso di malattie croniche o a lungo termine, non contagiose, e quando la presenza al lavoro della persona
non contribuisce a debilitarne ulteriormente le sue condizioni (ad esempio, depressione, alcuni disturbi
muscoscheletrici). Il lavoro può essere considerato come una “cura” che contribuisce al funzionamento
positivo della persona e facilita l’adozione di un punto di vista più attivo del proprio ruolo di malato.

Continuare a lavorare, anche solo part-time, su alcune attività può: stimolare le funzioni cognitive,
focalizzare la concentrazione sui compiti e gli obiettivi lavorativi, allontanare l’attenzione dagli stati negativi
e dalla malattia, favorire un sentimento di autostima autoaffermazione e autorealizzazione. Il presenteismo
può essere costruttivo solo quando la persona ha il giusto tipo di supporto e controllo sul lavoro.
L’assenteismo è causato da qualsiasi vincolo, personale, lavorativo o organizzativo, che impedisce alla
persona di prendere un giorno di assenza per malattia. Ipotesi di sostituzione: in mancanza di giorni di
permesso per malattia, le persone sostituirebbero l’assenteismo con il presenteismo.

Fattori Organizzativi

I fattori organizzativi maggiormente influenti risultano essere le politiche e le pratiche di gestione delle
risorse umane volte a controllare e diminuire l’assenteismo.

Caratteristiche del Lavoro

In accordo con la teoria delle richieste e risorse lavorative, queste fanno riferimento agli aspetti fisici,
psicologici e organizzativi del lavoro che richiedono alla persona un certo sforzo fisico, emotivo e cognitivo
sostenuto nel tempo e che possono determinare costi fisiologici o psicologici. Le risorse lavorative: esiste un
legame negativo tra presenteismo e supporto sul lavoro, sia esso proveniente dal management
dell’organizzazione, dal capo diretto o dai colleghi.

Atteggiamenti verso il lavoro

La soddisfazione lavorativa, il commitment organizzativo e l’engagement sono positivamente correlati con il


comportamento di presenza sul lavoro, mostrando che questi può anche essere il risultato di una spinta
motivazionale.

Modello di Miraglia e Johns

- Percorso Motivazionale: operazionalizzato tramite la soddisfazione lavorativa che risulta predire


positivamente il presenteismo e negativamente l’assenteismo.

- Percorso di diminuzione dello stato di salute: un basso livello di salute aumenta la possibilità di
insorgenza di entrambi i tipi di comportamento.

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