Sei sulla pagina 1di 56

lOMoARcPSD|35317375

Il mare dei Califfi - riassunto

Antropologia (Università di Bologna)

Studocu non è sponsorizzato o supportato da nessuna università o ateneo.


Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)
lOMoARcPSD|35317375

Christophe Picard
Il mare dei califfi
Storia del Mediterraneo musulmano (secoli VII-XII)

Introduzione
La fine del pirata «moro e saraceno»?

Tutte le storie del Mediterraneo medievale accordano un posto subalterno ai marinai


dell’Islam, generalmente confinati al rango di pirati. Alla conquista araba (635-732), la crisi
dei Mare Nostrum dei Romani, scatenata dalla peste verso la metà del VI secolo. L’espansione
musulmana avrebbe fatto precipitare il bacino mediterraneo in una lunghissima depressione
economica, demografica, culturale, alimentata dalla permanenza della guerra tra musulmani
e cristiani. Soltanto il brillante X secolo avrebbe poi segnato il momento dello sviluppo
musulmano sul Mediterraneo. I due califfati mediterranei, umayyade (929-1031) e fatimide
(909-1171), approfittando degli effetti di una ripresa economica, sarebbero stati in grado di
adattare all’Occidente islamico la potenza, il fasto e la gloria del califfato di Baghdad (749-
1258), nonché di contendere il controllo dello spazio marittimo agli imperatori macedoni di
Bisanzio (867-1059). Ha inizio dunque il secondo tempo del Medioevo mediterraneo, con l’XI
secolo, quello dei marinai e mercanti italiani, provenzali e poi catalani.
Il tempo musulmano sul Mediterraneo sembrava passato, perlomeno fino all’alba della
potenza ottomana. Così, l’incontro fra l’Islam conquistatore e lo spazio marittimo verrebbe a
coincidere con il periodo della crisi; mentre il tempo latino è, a sua volta, intimamente
connesso alla fase dello sviluppo economico.
La prima epoca medievale è innanzitutto caratterizzata da carenza documentaria. Quando
gli archeologi, da Peter Brown (1971) a Chris Wickham (2005), seguiti dagli storici, ci hanno
svelato l’esistenza, prima del X secolo, di un mondo dinamico, complesso e variegato. E’ così
che il pirata musulmano fa la sua comparsa negli annali monastici greci e latini, essendo le
vittime le sole a dare testimonianza delle sue nefaste attività contro le coste-cristiane.
Nello stesso tempo, una serie di opere di primo piano, confermano con certezza il ruolo
imprescindibile dell’Islam nella documentazione storica di un Mediterraneo medievale
condiviso, molteplice e complesso.
Il Mediterraneo medievale non può essere letto senza tenere conto dello spazio occupato da
tre continenti e due oceani: il Medioevo fu il tempo dell’apertura a un modo più ampio e
l’Islam vi contribuì in maniera rilevante. Il problema più serio pe chi si interessi al
Mediterraneo dal punto di vista dell’Islam è l’accesso alle informazioni relative a questo mare
a partire dall’Egira del 622. A parte due cronache le prime testimonianze musulmane di
un’espansione islamica nel Mediterraneo provengono dalle capitali dei califfi fatimidi e
umayyadi.
Dopo il XII secolo, il marinaio del califfo sarebbe a sua volta scomparso dalla storia del
Mediterraneo, questa volta a causa dei Latini. Venezia, Pisa e Genova scacciarono poco a
poco i pirati «mori e saraceni» dalle acque mediterranee, imponendo la loro notevole
organizzazione navale e commerciale a tutto il mondo mediterraneo. Affiancati dai catalani,
svilupparono il commercio internazionale con Bizantini e musulmani fino ad assicurarsi, a
partire dal XIII secolo, il monopolio degli scambi marittimi a scapito dei marinai dell’Islam e
dei Greci. In realtà non si può parlare di una crisi duratura che avrebbe investito il
Mediterraneo nella sua totalità tra il VI e il IX secolo. Le menzioni di crisi o di catastrofi sono

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

sì numerose, ma toccano in maniera disuguale e in tempi differenti città e campagne di una


stessa regione.
L’attenzione portata alle trasformazioni sociali, legate a uno stato di conflitto prolungato o a
una crisi causata dal disfacimento del potere, in particolare in Italia, dal IX all’XI secolo, ha
mostrato che la guerra non appare più soltanto come un agente di distruzione e di crisi. Le
ricomposizioni sociali dirette dalle nuove forze emerse dal crollo degli Stati preesistenti, così
come l’evoluzione delle condizioni delle popolazioni, adattare alle situazioni economiche che
hanno determinato la scomparsa della schiavitù o della servitù nella campagne, sono ormai
considerate come i principali elementi di una ristrutturazione delle società e dei paesaggi
rurali. Il materiale documentario ebraico scoperto al Cairo e la geografia araba di al-
Muqaddasì originario di Gerusalemme. Le migliaia di lettere di mercanti ebrei, scoperte nella
Geniza della sinagoga Ben Ezra al Cairo, mostrano che le fonti scritte del mondo musulmano
non provengono esclusivamente dalle cancellerie o dalle cerchie dei giuristi. Tuttavia,
l’eccellente studio di Schlomo Goiten pone l’accento precisamente sulla natura eccezionale di
questa documentazione nel panorama della produzione scritta sul suolo dell’Islam medievale.
Prima ancora della domanda posta da Horden e Purcell, «Che cos’è il Mediterraneo?», non
bisogna forse chiedersi quale Mediterraneo e quale storia del Mediterraneo abbiano voluto
lasciare i contemporanei alla posteriorità, e a chi d’indirizzino queste descrizioni dei territori
dell’Islam? Per l’Islam, la risposta viene data da André Miquel: «La geografia araba è figlia
del califfato di Baghdad […] che concerne, prima di tutto, il ruolo e il posto nel mondo
dell’uomo nuovo creato dall’Islam», più in particolare rapportato all’ambito politico e
religioso, e soprattutto alla dimostrazione della legittimità del califfato universale, fatimide
in questo caso.
L’ambiente della produzione scritta araba ha pesato fortemente sul tipo di documenti e di
contenuti lasciati dai letterari dell’Islam.
Qualunque siano gli scenari della formazione e dell’evoluzione di un Mediterraneo medievale
politicamente diviso, in stato di guerra permanente, le popolazioni che appaiono nella
documentazione lasciata dai tre imperi non sono affatto quelle che sarebbero state stroncate
dalla peste e dalle razzie dell’Alto Medioevo, prima che le potenze latine – marittime
mercantili – si impadronissero di uno spazio divenuto prospero. L’insieme di queste fonti ci
offre un’altra versione dell’evoluzione del Mediterraneo: gli uomini di lettere descrivono più
spesso delle società che, a partire dalla crisi del VI secolo, si adattarono sempre meglio ai
mutamenti connessi alla permanenza dello scontro su una frontiera, terrestre e marittima,
tanto estesa. Quest’ambiente socioeconomico, spesso idealizzato da quanti lo amministravano
o dagli uomini di fede, non fornisce un quadro globale e tanto meno completo della società
cristiana o musulmana, tuttavia permette di comprendere, a volte, come delle popolazioni
laboriose si adattassero a questi mondi in continua evoluzione. Frutto di una civiltà che non
cercava di fare del Mediterraneo un nuovo Mare Nostrum, ma che intendeva percorrerlo per
imporre l’Islam sul continente europeo, i testi delle prime generazioni di letterati musulmani
hanno privilegiato la descrizione di un inquadramento governativo dello spazio costiero e
marittimo costruito per difendersi ma anche per sviluppare attività redditizie. La guerra è
una presenza costante, ma vi appare come strumento fondamentalmente per l’organizzazione
delle regioni di frontiera.
Benché gli Arabi abbiano prodotto nel Medioevo, specialmente a partire dal X secolo, una
quantità straordinaria di scritti riguardanti tutta la vasta area islamica, ben poco concerne
l’attività marittima o mercantile sul Mediterraneo.
Infatti, la quasi totalità dei documenti in arabo riguardanti l’attività navale dei musulmani
nel Mediterraneo è sotto il monopolio di uomini di lettere che gravitano intorno alla cerchia
principesca e che conoscono alla perfezione gli arcani dei palazzi musulmani, ma raramente
le tecniche marittime, per le quali non nutrono alcun interesse. La maggior parte di costoro
erano interessanti soltanto ad aspetti giuridici e fiscali, o all’ambiente militare.
Al contrario di quanto avviene per l’Oceano Indiano, non vi è alcuna letteratura disponibile
sul Mediterraneo che provenga dall’ambito dei marinai se non direttamente, tramite i giuristi
o quanti lavoravano nelle amministrazioni dei sultani. Tuttavia, almeno a partire dal X secolo

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

sul versante mediterraneo, alcuni documenti sul mare, sulla marina e sui marinai furono
scritti da e per gente di mare. DI questa produzione, è sopravvissuta solo quella dei geografi
e degli enciclopedisti arabi. Solo i documenti che riportavano il nome di Dio, come le lettere
della Geniza, andavano conservati. Le disposizioni concernenti gli arsenali, gli equipaggi,
l’approvvigionamento di viveri o l’ingaggio dei rematori – come quelle scoperte “per caso” su
dei papiri egiziani per l’inizio del VIII secolo -, così come tutti i dati che avrebbero permesso
di ricostruire l’organizzazione della marineria musulmana, non furono conservati se non nel
periodo in cui erano utili.
Ciò significa forse che i marinai e i mercanti musulmani hanno navigato e trafficato meno di
quelli latini? Niente appare meno sicuro. DI certo, hanno girato il mondo più di quanto i
documenti musulmani lascino intendere. Ad esempio, i “pirati musulmani” sono esistiti
semplicemente perché a parlare sono state le vittime cristiane, mentre le autorità
musulmane non ritenevano utile registrare tutte le razzie condotte da equipaggi inviati, in
realtà, dal califfo o dall’emiro, gettando così nell’oblio il mondo marinaio o le sue azioni.
E rieccoci alla domanda posta da Horden e Purcell, nonché da molti storici prima di loro: che
cos’è il Mediterraneo medievale? Se sei prendono in considerazione le testimonianze arabe di
quel periodo, non è quello dei pirati musulmani, bensì quello di marinai, guerrieri o mercanti
al servizio della propria fortuna e del califfo, che contesero il Mediterraneo ai Greci e ai Latini
e che ricevettero onori, benché non allo stesso titolo di tutti gli altri eroi dell’Islam. Di
conseguenza, il tempo di questa storia appartiene in via prioritaria ai califfi, spalleggiati
dagli studiosi e soprattutto dai giuristi.
La prima menzione di una descrizione araba del Mediterraneo risale al califfato abbaside,
alla metà del IX secolo.
A partire dal X secolo, con il progressivo indebolimento del potere reale e del prestigio dei
califfi di Baghdad, le produzioni delle capitali califfati del Mediterraneo – Cordova, Kairouan
o Il Cairo – iniziarono a fare concorrenza a quelle irachene. Possiamo dunque osservare che
furono gli uomini di lettere orientali, dall’Iran all’Egitto, a imporre la cosiddetta forma
classica alla letteratura araba. I Fatimidi, invece, al pari degli Umayyadi, imposero nuovi
profili alla storia e alla geografia del loro mare, in funzione di un contesto nuovo e
dell’importanza che questo spazio rivestiva ai fini della loro stessa legittimazione. Uno sforzo
anche maggiore in tal senso è prodotto dai letterati dell’entourage dei califfi almohadi, gli
ultimi sovrani del Medioevo a concepire a tutti gli effetti il mare come uno spazio imperiale
musulmano.
Spettò poi agli Ottomani, senza rinnegare questo passato, imporre la loro visione del mare,
visto dalle terrazze del palazzo di Istanbul, dopo il 1453. Altre potenze dell’Islam che si
spartirono le sponde mediterranee, in particolare i sultanati d’Egitto, hanno lasciato
anch’essi tracce di attività letterarie. In tutti gli scritti superstiti, il mare occupa un posto
importante e compare in ogni ambito letterario.

1. La conquista araba delle coste e del mare, tra il 634 e il 749 condotta dal califfato rāshidūn
di Medina e poi dagli Umayyadi, ci è accessibile soltanto nelle versioni abbasidi della storia
della ragione marittima e dai testi posteriori. La storia di al-Tabarī, portata a termine verso
il 915, fu considerata dai suo pari come la più grande cronaca araba di tutti i tempi.
2. L’inquadramento delle rive e del mare, a partire dal 750, occupa un posto limitato nelle
fonti prodotte a Baghdad e a Samarra, ma sufficiente per constatare il duraturo interesse dei
califfi iracheni per la costa siriana, nonché per lo spazio marittimo del Mediterraneo nella
sua totalità. Più che la strategia stessa, sono il coinvolgimento dei califfi, tra il 754 e il 945,
sulla frontiera bizantina in Anatolia e, in misura minore, la politica militare lungo le coste
del Vicino Oriente a costruire l’essenziale della materia dedicata alla regione del
Mediterraneo nella letteratura califfale e giuridica. Ma, ancor più, l’attualizzazione del jihād,
resasi per la stabilizzazione duratura dei fronti.
3. Il ricambio fu garantito dai califfati mediterranei, fatimidi e umayyadi. I loro scribi ebbero
gran cura di sminuire il loro coinvolgimento nella guerra contro i cristiani, in particolare sul
mare.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Ibn Khaldūn stesso definì questo periodo come quello della dominazione quasi totale
dell’Islam sul mare. Tuttavia, la rivalità fra i due califfati mediterranei ebbe un impatto assai
maggiore dell’aspirazione di conquistare l’Iraq sulle due strategie marittime, fino
all’insediamento di al-Mu’izz (953-75) in Egitto, nel 971. La politica di quest’ultimo, una volta
insediatosi al Cairo, progredì stabilendo buoni rapporti, principalmente commerciali, con i
Bizantini e successivamente con i Latini. A seguito della crisi che portò alla fame la valle del
Nilo nel 1060, proprio quando i marinai di Pisa, Venezia e Genova cominciavano a
commerciare nella capitale egiziana e ad Alessandria, l’espansione marittima e commerciale
sul Mar Rosso e sull’Oceano Indiano permise i sovrani sciiti di rafforzare il controllo sul
traffico tra le due regioni marittime.
4. A partire dall’XI secolo e fino alla sconfitta di Ascalona contro i crociati (1154), le offensive
latine obbligarono i poteri regionali – in particolare gli Almoravidi di Marrakesh (1072-1147),
poi il califfato almohade in Occidente e i califfi egiziani (971-1171) in Oriente – a mantenere
la loro presenza militare sul Mediterraneo per scoraggiare gli attacchi provenienti dal mare.
Il califfato fu l’ultima potenza marittima musulmana in grado di rivaleggiare con i Latini. In
seguito alla sconfitta di Las Navas de Tolosa, nel 1212, le crisi dello Stato almohade, a partire
dal 1215, e le imprese marittime e commerciali dei porti latini riuscirono a trasformare il
Mediterraneo in un mare latino. In Egitto e in Siria, né gli Ayyubidi (1171-1250) né i
Mamelucchi, pur in grado di armare e galere quando ne sentissero la necessità, presentarono
la marina come un emblema del loro potere. Saladino (1171-93) riconobbe che soltanto i califfi
del Maghreb potevano competere sull’acqua con i nemici latini.
I Merindi a Fes e gli Hafsidi a Tunisi prestarono sufficiente attenzione alla flotta almeno fino
al XIV secolo, nella speranza di resistere alle pressioni cristiane e di conservare il controllo
dello stretto di Gibilterra. Era la fine del Mediterraneo musulmano? Ad ogni modo, i marinai
musulmani non ne frequentavano che qualche zona: si estendevano lungo la costa africana e,
a partire dall’XI secolo, con l’insediamento turco in Anatolia, le coste asiatiche del Mar di
Marmara, e quindi i Dardanelli. Nell’attesa delle prodezze di Barbarossa, ammiraglio della
Sublime Porta, nel XVIsecolo, e soprattutto della dominazione ottomana del Mediterraneo
orientale, né i marinai del califfo né i pirati mori o saraceni potevano ancora aspirare a
contendere il mare alle potenze marittime del mondo latino, se non per commettere qualche
rapina, annunciando il ritorno del pirata musulmano.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Parte Prima
Il Mediterraneo degli Arabi: tra rappresentazioni e
appropriazioni.

I. Gli Arabi scoprono il Mediterraneo

• Il Mediterraneo nell’ambito dell’Islam


Nel corso dei primi secoli dell’Ègira, lo spazio al Mediterraneo nella storia riportata dagli
eruditi arabi appare molto circoscritto. I cronisti e i geografi di Baghdad, prima della prolifica
produzione geografica del X secolo, danno l’impressione di assecondare la marginalità del
Mediterraneo, non distinguendo tra mare e coste.
Occorrerà attendere la fine del X secolo, quando grazie alle lettere di mercanti ebrei, scoperte
nei depositi della sinagoga di Fustāt, il mondo marittimo e mercantile dell’Islam
mediterraneo si rivelò appieno. Allo stesso tempo, l’avvento dei califfati fatimidi e umayyadi,
a Kairouan e a Cordova avrebbe rotto il silenzio dell’Islam occidentale, essendo il
Mediterraneo musulmano divenuto uno dei luoghi di produzione trai più fertili della
letteratura araba. Le grandi capitali musulmane della regione facevano ormai concorrenza a
Baghdad e alle grandi città asiatiche che fino a quel momento avevano monopolizzato la
maggior parte della produzione araba.
Sono tuttavia gli scritti che promanano dalle autorità musulmane a offrire la maggior parte
delle risorse al fine di una comprensione più ampia delle relazioni tra le prima generazioni
di fedeli e il Mediterraneo: questo lavoro di raccolta e di scrittura, accompagnato da un
aggiornamento sugli avvenimenti in funzione dell’attualità califfale, ebbe un primo sviluppo
con lo storico al-Tabarī. Nate nel IX secolo nell’ambito dell’amministrazione del califfato
abbaside, la cartografia e la descrizione del mondo furono inoltre dedicate alla dimostrazione
della legittimità dell’Islam e della sua guida, il califfo. La cartografia dell’universalismo
islamico generò una serie impressionante di carte e di descrizioni della terra che le
corredavano. Il Mediterraneo vi trovò logicamente il proprio posto.
Nei testi arabi che descrivono l’Islam ai suoi inizi, lo spazio marittimo del Mediterraneo
rimane in secondo piano, al punto da far pensare che i califfi, stabilitesi in Iraq, non avessero
motivo di interessarsi in modo particolare al lontano mare dei Romani.
Soltanto la nascita della forza navale musulmana in Egitto e quale episodio militare
particolare, come le spedizioni verso Cipro a partire dal 645 o la vittoria navale di Fenice nel
655 sui Bizantini, avevano attirato l’attenzione degli autori dell’entourage califfale. Le
informazioni sull’espansione nello spazio marittimo si concentrano, comunque, sulle
condizioni giuridiche dei rapporti con gli isolani o sull’esito dei negoziati, sulla loro
sottomissione.
La storia dei primi credenti, sul mare o sulle sue rive, non fu dunque distorta, quanto
strumentalizzata per poter spiegare e giustificare la politica dei califfi. Il Mediterraneo degli
storici abbasidi non fu un mare dimenticato o marginalizzato, bensì uno spazio di guerra
particolare e disorientante rispetto al mare di riferimento degli Arabi, vale a dire l’Oceano
Indiano, che dalla fine dei Sasanidi nel 625 era un mare privo di nemici imperiali, familiare
e lasciato ai mercanti della stessa fede. Il numero delle descrizioni e delle carte arabe non
trova equivalente presso i cristiani prima del XIII secolo. Da parte dei Latini, dall’epoca di
Orosio e di Isidoro di Siviglia a quella delle crociate i racconti di viaggio e quelli dei pellegrini
trascurarono qualsiasi rappresentazione o descrizione del mare. Allo stesso tempo, le
rappresentazioni del mondo si limitavano a una cartografia che «iconizzava lo spazio».
All’interno della stessa Dār al-Islām, la nascita di una geografia redatta dagli eruditi
originari del Mediterraneo, di Cordova, Kairouan o del Cairo, a partire dal X secolo, segnò

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

una svolta: il mare occupava infatti ormai un posto preminente nelle descrizioni. Spazio
privilegiato dell’espansione de due califfi occidentali, rivali degli Abbasidi, esso fu dunque
rappresentato come l’altro dominio marittimo centrale della civiltà musulmana, includendo
le attività mercantili e le descrizioni di viaggi.
Sulle rive del Mediterraneo musulmano apparvero nuove forme di descrizioni come i capitoli
o i libri dedicati alle “meraviglie”, derivate dai racconti arabi del mare. Alla fine del XII secolo,
a prevalere sulle geografie califfali furono poi i diari di viaggio compilati da eruditi, quando
ormai l’Islam andava perdendo il controllo dello spazio marittimo di fronte all’inarrestabile
dominazione dei Latini. Risale a quell’epoca la commissione da parte di Ruggero II di Sicilia
al geografo al-Idrīsī di un planisfero il cui centro geografico non era la Sicilia, benché l’isola
vi apparisse eccessivamente ingrandita, ma Baghdad, cosa che dimostra quanto il modello
della cartografia e della geografia astronomica araba, nate in Iraq, fosse divenuto uno
standard universale.
La proliferazione di queste rappresentazioni e descrizioni arabe del mondo non sono le uniche
ragioni di un riconoscimento sempre più preciso dello spazio mediterraneo misurato
sull’affermazione dell’Islam. I geografi e gli enciclopedisti arabi, orientali e occidentali
ispiravano la loro cartografia alla geografia antica che collocava l’Islam al centro del mondo,
e dunque al di sopra degli altri spazi imperiali, sprofondati nell’infedeltà. A prescindere dal
momento, la relazione riferisce le percezioni continuamente aggiornate del bacino
mediterraneo, all’interno di un quadro sì islamico ma in relazione con gli spazi degli infedeli.
Per averne una conferma, possiamo affidarci a tre eruditi arabi tra i più rinomati. Le opere
di al-Mas’ūdī, di al-Idrīsīme di Ibn Khaldūn svelano tre Mediterranei in tempi differenti, pur
conservando un’identità che deriva da una formazione comune degli autori, data dalle origini
irachene della cronografia.

• Una geografia del viaggio: il Mediterraneo di al-Mas’ūdī


Al-Mas’ūdī: la sua visione del Mediterraneo rappresenta certamente uno degli esempi più
compiuti dello spirito della geografia dei viaggiatori.
La consultazione di opere nelle biblioteche delle capitali o in altre città da lui visitate
rappresentava una prima tappa del suo lavoro di scrittore. Le due enciclopedie di al-Mas’ūdī
contengono 165 riferimenti al mare. Citare le fonti costituiva una prova dell’affidabilità dei
suoi racconti, a meno di contraddirli confrontandoli con altre informazioni attinte da scritti
più recenti o ritenuti più affidabili. L’altra fonte di conoscenza era la propria osservazione
personale e quella delle testimonianze raccolte nei propri viaggi.
Emanazione del pellegrinaggio alla Mecca o dei racconti dei mercanti dell’Oceano Indiano
redatti nel IX secolo, il viaggio era diventato una necessità al fine di rendere una verità
accessibile unicamente attraverso l’indagine. Il viaggio viene così a costituire una tappa
preliminare, e in pratica imprescindibile, per rendere credibili le opinioni.
Al-Mas’ūdī distingue due periodi fondamentali della storia dei musulmani, tappe essenziali
che dovevano figurare in ogni enciclopedia: quello preislamico e quello che ha inizio con
l’Ègira. La prima sequenza comprende una descrizione generale della Terra, dell’ecumene e
dei mari. Così spiegato, il temo della Creazione precedeva quello delle profezie, fino
all’ultima, ossia quella di Maometto. Glia argomenti che al-Mas’ūdī sceglie di affrontare nei
capitoli sui mari in generale e sul Mediterraneo in particolare appartenevano già al
patrimonio comune proveniente dalla letteratura di adab che aveva segnato il suo tempo.
Egli ricorse alle “meraviglie” per delimitare i confini dell’ecumene.
La considerazione di al-Mas’ūdī sul Mediterraneo non sembra dunque, a prima vita, molto
originale; l’argomento e il metodo utilizzati, come anche gli obiettivi delle sue enciclopedie,
muovono dall’educazione legata all’adab, quel che André Miquel definisce una «geografia
umana» impostasi nel X secolo e di cui l’enciclopedista fu, insieme a Ibn Hawqal o ad al-
Muqaddasī, uno dei rappresentanti più notevoli.
Come al-Tabarī nella precedente generazione, egli voleva innanzitutto rendere conto delle
opinioni degli antichi, confrontandole alle proprie esperienze, il metodo del poligrafo.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

• Due osservatori mediterranei: al-Idrīsī e Ibn Khaldūn


Al-Idrīsī e Ibn Khaldūn condividono un’origine geografica comune, l’Occidente del mare, che
fece di loro dei “veri e propri” mediterranei. Il loro modo di osservare questo spazio marittimo
fu alquanto differente, benché complementare.
Il primo, nato probabilmente nella Sicilia normanna (Amara, Nef, 2000), vantava una
prestigiosa ascendenza che lo imparentata alla famiglia del Profeta, valendogli il titolo di
shārif, e fu rappresentante eminente della cultura islamica in terra cristiana, al servizio del
re Ruggero II.
Ibn Khaldūn, anch’egli appartiene ad una prestigiosa stirpe araba, himyarita, stabilitasi a
Siviglia dai tempi della conquista di al-Andalus, non superò mai i confini dell’Islam, ma ne
esplorò le regioni che si affacciano sul Mediterraneo, da Granada a Damasco, al servizio dei
grandi del suo tempo. Conosceva straordinariamente bene il Mediterraneo musulmano,
dall’interno questa volta, avendo frequentato pressappoco tutte le cancellerie. Era un’epoca
di crisi, doppia per la ragione, colpita dalla peste e minacciata dall’imperialismo latino.
Le condizioni del momento influenzarono largamente il modo in cui i due pensatori posero il
Mediterraneo al centro della loro opera.

• Al-Idrīsī, o la rivalutazione del Mediterraneo in seno allo spazio


islamico
Il siciliano al-Idrīsī fu uno dei più grandi geografo agli occhi dei suoi pari e fu il solo ad avere
descritto tutte le ragioni del Mediterraneo, avendo accesso alle fonti latine come pure a quelle
arabe e greche a Palermo. Visitò personalmente parecchie regioni, in particolare il Maghreb
e al-Andalus, ma anche la Palestina. Il resto delle informazioni gli fu fornito dagli
investigatori che avevano percorso altri territori, grazie alla generosità di Ruggero II.
Questi paesi non sono trattati tutti allo stesso modo né in maniera particolarmente
dettagliata, ma in qualche modo il geografo siciliano, volle per primo, tracciare un quadro
completo, ponendo su un paio di parità la descrizione delle regioni musulmane e di quelle
cristiane del Mediterraneo. La trattazione della parte latina fatta nella Delizia di chi ha la
passione di peregrinare per il mondo – ugualmente conosciuta sotto il titolo di Libro di re
Ruggero – è la descrizione più umanistica e più completa del Medioevo per ciò che concerne
la regione mediterranea.
Per quanto riguarda la parte mediterranea della sua descrizione, il mare occupa una
posizione di rilievo, in un certo senso centrale.
Pur senza rinnegare le sue origini e le sue convinzioni islamiche, il geografo mette in scena
il notevole concentrato di umanità che, in pieno XII secolo, vive sulle tre rive del
Mediterraneo. Ne mostra la vitalità e la ricchezza di attività, il cui epicentro era il mare
stesso che collegava i due universi, cristiano e musulmano in un insieme che era frutto delle
relazioni strette – essenzialmente per iniziativa dei Latini – con Bisanzio e le regioni
dell’Islam. Insomma, al-Idrīsī seppe magistralmente dimostrare la centralità siciliana a
partire da dati che, a prima vista, potevano sembrare insignificanti.
L’autore descrive poi la condizione delle incursioni delle tribù arabe. Secondo la sua
testimonianza, le conquiste normanne, intraprese dal suo signore dal 1130, avevano
accentuato la desolazione dei porti dell’Ifrīqiya e dell’intera regione. Sottolinea le
contraddizioni mediterranee di cui fu testimone privilegiato mettendo anche in luce l’altro
paradosso mediterraneo, ossia le strette relazioni commerciali tra Latini e musulmani:
perfino quando lo scontro tra musulmani e cristiani raggiunge il culmine le due parti
risultano legate da interessi economici comuni.
La ricchezza e l’abbondanza di informazioni sullo spazio mediterraneo condussero il geografo,
consapevolmente o meno, a relativizzare la posizione dell’Oriente e a porre in evidenza la
crescente importanza del Mediterraneo in seno alla dominazione musulmana.
Egli valorizza le reti di relazioni economiche che collegavano le due rive e non esitò a
sottolineare la manifestazioni di sincretismo, come i pellegrinaggi che riunivano cristiano e

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

musulmani in determinati luoghi, proprio quando le autorità delle due religioni andavano
rifiutando sempre più queste pratiche.

• Il Mediterraneo di Ibn Khaldūn


Ibn Khaldūn abbandona la cornice tradizionale della geografia araba e colloca la sua storia
del Mediterraneo, come quella del resto del mondo, entro un quadro spaziale che non è più
quello dei settanta quartieri tradizionali che la geodesia araba sveva scelto per organizzare
la terra, quel che la storia degli uomini imponeva. Malgrado tutto, l’islam rimaneva il vettore
unificatore di questo spazio, riunendo i due estremi e l’origine di tutte le forze che si
sollevavano contro gli infedeli. Colloca il mare, continuamente conteso tra cristiani e
musulmani, nella categoria degli spazi sovrani, la cui storia fu scandita dai mutamenti del
rapporto delle forze tra i due avversari. Ai sovrani musulmani rimproverava la loro
incapacità di perseguire lo sforzo di investire nella manutenzione di una forza navale,
abbandonando dunque il mare ai Bizantini e ai Latini. Questa spiegazione, assai originale
all’interno del panorama letterario arabo, non poteva che essere maturata nella mente di un
profondo conoscitore del Mediterraneo musulmano, che ne aveva davanti agli occhi la crisi.
Ibn Khaldūn elaborò il suo ragionamento a partire dalla stretta relazione fra potere del
sultano e dominio sui mari. L’indebolimento non veniva da una minore qualità dei marinai,
bensì da una colpevole carenza dei poteri che si disgregarono dopo qualche generazione.
L’esempio del califfato occidentale è esplicito: tra il 1147 e il 1198, fino al regno trionfale di
Abu YūsufYa’qūbal-Mansūr (1184-98), i primi tre califfi diedero origine alla più incredibile
delle flotte dell’Islam, dominatrice delle due rive, mediterranea e atlantica, dell’Occidente
musulmano. In seguito alla sconfitta di Las Navas de Tolosa nel 1212 e alla morte prematura
del califfo Muhammad al-Nāsir nel 1214, la potenza navale svanì nella tormenta della lunga
crisi della dinastia almohade.
L’autore offre infine una lezione di sociologia, dimenticata da certi storici contemporanei,
quando ricorda come gli Arabi del deserti abbiano saputo costruire una potenza navale in
grado di prendere il sopravvento a spese dei cristiani, per quanto ricchi di esperienza: solo
l’apprendistato e l’esperienza contano, e non la provenienza.
Gli uomini del deserto si abituarono all’arte della navigazione grazie all’esperienza acquisita
a fianco della gente di mare.
Con questa logica, Ibn Khaldūn volle indicare che il Mediterraneo, addomesticato e sfruttato
dagli uomini, costituì il vero spazio in cui si decise il destino dell’Islam e dell’Occidente.
Il mare da lui descritto appariva come il luogo per eccellenza del confronto secolare tra le
dinastie antiche e medievali, cristiane e musulmane. Come viene sottolineato in tutta la sua
opera, il Mediterraneo che contemplava era uno specchio in cui si riflettevano le tendenze
della sua epoca: esso era ritornato a essere un’area trascurata dai sovrani musulmani,
consentendone il predominio ai Latini. Ibn Khaldūn lo prese in considerazione solo per
rintracciarvi le cause dell’indebolimento dell’Islam. Quando si stabilì definitivamente al
Cairo, invece, rivolse il suo sguardo verso l’Oriente con un’altra speranza, quella di un
avvenire islamico portato dal sultano mamelucco e in seguito da Tamerlano.
La produzione di questi tre grandi eruditi è lungi dal rappresentare la totalità degli
argomenti che trattano del mare nell’insieme delle descrizioni arabe, ma rende bene conto
della ricchezza creativa della geografia araba, in particolare di uno spazio marittimo
dell’Islam che ancora oggi gli storici contemporanei del Mediterraneo o dell’Islam medievale
tendono a trascurare.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

II. La scrittura araba della conquista del Mediterraneo

Ai tempi dell’Islam, le menzioni arabe più antiche del mare sono quelle contenute nel Corano,
eppure né il Mediterraneo né alcun altro mare vi sono menzionati in quanto tali. La prima
generazione di Arabi a aver descritto questo spazio marittimo è stata dunque quella dei
conquistatori. Tuttavia, i racconti dei fatti della conquista non sono accessibili se non
attraverso versioni raccolte nelle cronache del III secolo dell’Ègira. Il Mediterraneo appare
in queste storie come il mare della guerra.

• Le prima testimonianze nelle cronache abbasidi


Le storie, presente sotto forma di annali e che sciorinavano i fatti anno per anno, si
costituirono a partire da tradizioni, risalenti fino alla seconda generazione di fedeli, che
furono conservate e trasmesse come fatti, gesta e parole del Profeta stesso.
I fatti storici degli inizi dell’Islam, raccontati dagli Arabi, passarono attraverso il filtro di
molte generazione di trasmettitori, prima di essere ripresi sotto la forma che ci è nota.
Oltre duecento titoli di circa novantanove autori di tradizioni, precedenti alla prima opera
conservata, cono citati nelle fonti arabe- Tuttavia, la scomparsa completa di un simile
patrimonio continua a porre svariate domande sulle condizioni di questa scrittura, in
particolare quella che si riferisce al Mediterraneo.
Le prima relazioni a nostra disposizione risalgono nella migliore delle ipotesi alla metà del
IX secolo: le prima cronache sono quelle dell’andaluso Ibn Habīb, quelle egiziane scritte da
Ibn ‘Abd al-Hakam e i racconti iracheni di Khalīfa b. Khayyāt, al-Balādhūrī, al-Ya’qūbī e al-
Tabarī. Essi ripresero i racconti della conquista raccolti e registrati da vari tradizionisti.
I cronisti islamici ripreso soprattutto le tradizioni e i racconti composti per riferire le azioni
belliche del Profeta. IL periodo di produzione di queste opere corrisponde a varie fasi di
agitazione del califfato. Le riscritture avevano lo scopo di dare un senso agli avvenimenti e
di conferire legittimità all’autorità califfale.
Il modo in cui questi racconti furono scritti fa supporre una forte influenza delle autorità
califfali e dei governatori delle loro province su questa produzione. I califfi, infatti, dalla
morte di Maometto e soprattutto a partire dalla successione di ‘Umar, nel 644, sentirono
fortemente la necessità di controllare da vicino non solo la scrittura dei testi sacri dell’Islam
ma anche la storia degli esordi dell’Islam. Malgrado la presenza di focolai di produzione,
almeno nelle due capitali, gli scritti della generazione degli emirati aghlabidi e umayyadi non
sono sopravvissuti al tempo e ai drastici filtraggi dei califfati del Cairo e di Cordova.

• La storiografi sotto il controllo del sultano: il Mediterraneo negli scritti


dei cronisti di Baghdad

Baghdad e la vocazione a raccogliere


I cronisti del IX secolo affrontano la storia dell’Islam quasi sempre a partire dagli stessi temi
e molto spesso dalle stesse tradizioni. Essi imposero così le censure cronologiche e gli
argomenti trattati che si ritrovano generalmente tramandati da una cronaca all’altra, fino ai
giorni nostri, nella maggior parte dei manuali di storia. Tuttavia, vi sono anche alcune
differenze di opinione e di interpretazione. Fra tradizioni e cronache, i racconti dei tempi
della conquista sono stati aggiornati a ogni generazione di fedeli, ma i fatti riferiti derivano
per lo più da una trasmissione comune. Nel contempo, i fatti della conquista sono stati
interpretati diversamente da una ragione all’altra.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Gli sviluppi della narrazione, per promuovere l’universalismo abbaside


La scomparsa degli strati primitivi dei racconti composti nel secolo delle conquiste iniziali
dell’Islam non facilita affatto lo studio delle prima forme del racconto storico. Le biografie e
le narrazioni dei combattimenti del Profeta, redatti a Medina al principio dell’VIII secolo,
costituiscono senza dubbio la prima generazione di storie, successivamente adattate al
racconto dell’espansione della comunità.
È possibile che sia stato Shihāb al-Zuhrī a redigere – forse in forma di cronaca dinastica – la
prima storia dei califfi. Ad arricchire la storiografia araba del II secolo dell’Ègira
contribuirono anche gli scritti lasciati dai tradizionisti di origine persiana a da quelli
cristiani, che raggiunsero i sovrani e le autorità nelle capitali regionali.

Una storiografia della conquista al servizio della legittimità abbaside


A partire dal regno di al-Mansūr, il secondo califfo abbaside, la frontiera bizantina diventa il
principale palcoscenico del jihād dei sovrani di Baghdad. Pertanto la politica d’espansione dei
califfati precedenti diviene, nelle mani esperte dei cronisti, un’argomentazione sostanziale
per le riforme sulla difesa della frontiera. La storia della conquista condotta dagli Umayyadi
in Siria e in Anatolia, fino al Bosforo, fu presentata come lo spazio privilegiato della guerra
dei califfi. La costruzione dell’immagine guerriera di Mu’āwiya, il fondatore della dinastia di
Damasco, unanimemente riconosciuto come un grande stratega sulla terra come sul mare,
così come quella di Maslama, tuttavia sconfitto davanti a Costantinopoli nel 717-718, traeva
origine dalla necessità di collegare il jihād abbaside a quello dei primi conquistatori.
La legittimazione del jihād doveva in effetti fondarsi sui governi dei califfati precedenti, che
avevano portato i conquistatori fino all’Atlantico, mentre gli Abbasidi dovevano riconoscere
l’interruzione oggettiva delle conquiste e trovare altre espressioni del jihād per il successore
del Profeta.
L’autorità di ‘Umar b. al-Khattāb, presentato come il più grande dei califfi, fu ampliamente
sollecitata, in particolare per quanto concerne le operazioni militari e la gestione delle
province conquistate, soprattutto dell’Iraq. Anche le dimostrazioni di forza dei califfi siriani
erano argomenti di un certo peso per ricordare che l’autorità di ‘Umar si estendeva a tutte le
regioni conquistate. Inoltre, considerato che le regioni occidentali si sottraevano ormai al
controllo di Baghdad, le nomine di governatori nelle province, tanto da parte dei califfi
rāshidūn quanto glimUmayyadi, potevano avere l’effetto di favorire i dissidenti partiti da
Oriente nel tentativo di sfuggire alle repressioni.
Alcune tradizioni riferiscono di numerose condanne di governatori e generali che avevano
condotto spedizioni di conquista, accusati di aver rubato il bottino. Altri furono licenziati
perché rappresentavano una minaccia per l’autorità del sovrano. Rievocare queste accuse
permette di ricordare che l’amministrazione regionale era sottoposta all’autorità diretta del
sovrano, benché la sede del califfato si trovasse a migliaia di chilometri dal luogo delle
operazioni

• Gli Umayyadi e la conquista del Mediterraneo nelle cronache abbasidi

Una storia umayyade per legittimare i califfi si Baghdad


Fino al 749, la conquista appare come un movimento continuo associante i califfi di Medina
e gli Umayyadi, con il califfo al comando. Solo ‘Umar II sembra rappresentare una rottura.
Gli sviluppi strategici furono dettati dagli episodi di guerra, sull’invariabile sfondo del
principio di una conquista globale. Così, dopo il crollo dell’Iraq e dell’impero sasanide in
seguito alle vittorie musulmane, lo sforzo principale del califfo si rivolse verso il
Mediterraneo, dinanzi all’imperatore di Bisanzio. La scomparse della dinastia sasanide nel
651 consegnò ormai il cuore dell’impero persiano, i suoi uomini, le sue ricchezze, la sua
cultura, nelle mani dei califfi. Nel contempo, il basileus, allora capo della cristianità agli occhi

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

dei musulmani, divenne il solo e vero avversario dell’Islam, essendo l’imperatore della Cina
troppo lontano per farne un nemico diretto tra i grandi sovrani della terra.
La frontiera greca costituiva il principale baluardo militare dei califfi fin dal regno del primo
califfato umayyade Mu’āwiya, e in particolare durante il periodo degli attacchi contro
Costantinopoli. Sotto il califfato abbaside, questa immensa zona di confine rimase la linea
del fronte principale, essendo le relazioni con Bisanzio più che mai la posta essenziale della
guerra. Al-Mansūr, il primo califfo della nuova dinastia in grado di riorganizzare questa
frontiera, ripresa in mano la Siria. Dove si erano stabiliti parecchi clan degli Abbasidi, non
solo per sradicare la presenza umayyade, ma anche per consolidare la posizione di nuovi
padroni dell’Islam sul confine. Al-Mansūr dovette gestire l’emergenza. Costantino V,
l’imperatore soldato, approfittando degli effetti della guerra civile tra gli Umayyadi e gli
Abbasidi, aveva ripreso terreno in modo considerevole e minacciava direttamente la Siria.
Restando forte la pressione bizantina, l’intervento del califfato sulla frontiera assunse una
nuova dimensione a partire dal regno di al-Mahdī. Il califfo si impadronì di questo territorio
di frontiera per farne il luogo di dimostrazione del jihād califfale. Diversamente dai loro
predecessori l’unico califfo della dinastia umayyade ad aver assunto il comando dell’esercito
contro gli infedeli -, i sovrani abbasidi, inizialmente come eredi al trono, poi come capi
dell’Islam, si impegnarono personalmente nella guerra, sino alla fine del regno di al-Mu’tasim
(833-42). L’insediamento di quest’ultimo a Samarra nell’836 e lo spostamento dell’esercito
composto da schiavi turchi, in seguito ad alcune agitazioni a Baghdad, coincisero con
l’abbandono dell’impegno personale dei sovrani contro i Bizantini fino all’892. In quel periodo
i califfi avevano reintegrato l’antica capitale e ripreso la via della frontiera.
Il jihād abbaside appariva così di qualità superiore a quello dei califfi umayyadi, che si
tennero lontani dalla frontiera, lo spazio della frontiera mediterranea catturò a buon diritto
tutta l’attenzione dei cronisti, i quali comunque non trascurarono gli altri fronti, in
particolare quelli orientali, per quanto non fossero teatro del jihād califfale.

Mu’āwiya, primo conquistatore del Mediterraneo, e gli storici abbasidi


Al-Balādhūrī e al-Tabarī rievocano le tappe dell’ascesa di Mu’āwiya, compagno del Profeta in
Siria. Le tradizioni sottolineano le sue qualità di stratega e condottiero: «un uomo al di sopra
degli uomini» avrebbe detto di lui il califfo ‘Umar, in particolare in occasione della conquista
del porto di Cesarea, che resisteva grazie ai rifornimenti e ai rinforzi inviati dalla flotta
bizantina. La maggioranza delle offensive marittime musulmane menzionate nelle cronache
greche e latine, a partire dal califfato umayyade e sino alla fine della dinastia, è stata negletta
dai cronisti di Baghdad, i quali hanno anche trascurato di riportare l’elemento marittimo
delle due azioni belliche mosse contro la capitale bizantina tra il 668 e il 677.
E lo tacciono anche per il 717.

Il tempo dei Marwānidi


La conquista dell’Occidente mediterraneo fu l’altro grande progetto messo in pratica dai
sovrani. Le opere che trattano della conquista dell’Ovest – da Tripoli a Narbona – si
concentrano praticamente sull’azione degli “eroi” che guidarono le truppe musulmane.
Alcune operazioni marittime, tuttavia, affiorano, in particolare nei testi andalusi. Qualunque
fosse l’esito delle conquiste – incompiute -, le tradizioni arabe non potevano tacere la
straordinaria espansione dell’Islam sotto gli Umayyadi, verso Ovest e, ancora di più, in
Oriente, nel Khurāsān e nel Sind. La selezione operata dalle cronache di Baghdad sulle
imprese umayyadi in Occidente permette di constatare che, in effetti, ai loro autori non
interessava la conquista di quella parte dell’Islam che sfuggiva loro: il Mediterraneo
occidentale.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

‘Umar II e la conclusione delle conquiste: le premesse del programma


degli Abbasidi
Dopo il secondo insuccesso contro Costantinopoli, nel 717, il jihād contro i “politeisti” continua
a essere presentato come obiettivo imprescindibile in tutti i programmi califfali.
L’esposizione degli episodi bellici dei predecessori sul fronte siriano rafforzava la legittimità
del califfato che conduceva la guerra su questa frontiera. Nello stesso tempo, gli insuccessi
militari del 717, tanto gravi quanto costosi, spiegano il primo rovesciamento della politica di
conquista, intrapresa dal califfo umayyade, il solo venerato dagli Abbasidi, ‘Umar II.
Anche dopo il cambio di regime, e quindi l’insediamento del califfato, la conquista di
Costantinopoli veniva ancora presentata come un importante obiettivo. Ciò nonostante, la
decisione di ‘Umar II di dare priorità alla gestione dell’impero, a discapito di conquiste troppo
costose, soprattutto dopo un doppio disastroso insuccesso sotto le mura della capitale greca e
sulle rive dell’Indo, s’accordava perfettamente con la politica futura dei sovrani iracheni. La
personalità fuori dal comune del sovrano era di sicuro un mezzo eccellente per legittimare la
nuova politica jihādista dei califfi. Le scelte politiche di ‘Umar II – la rinuncia alla politica di
conquista, eccessivamente costosa dopo le sconfitte del 717-18, e il perorare una gestione sana
dell’impero, fondata sull’esempio del suo illustre omonimo – costituivano per i sovrani di
Baghdad un precedente ideale, tra gli altri programmi, allo scopo di promuovere una pausa
nelle conquiste e una riforma delle frontiere sulla linea del Tauro.
Fu probabilmente a cominciare dal regno di Hishām che una serie di opere dagli echi
apocalittici venne a sottolineare le azioni di ‘Umar II e dell’”eroe” successore di Alessandro,
Maslama, l’uno come finanziatore e l’altro come esecutore di questa campagna che chiudeva
il ciclo delle conquiste. L’avvento degli Abbasidi non coincide con la fine del califfato jihādista,
ma con una nuova forma di jihād che trasformerà profondamente il ruolo e il posto dell’impero
bizantino e degli spazi marittimi del Mediterraneo nella rappresentazione dello spazio di
guerra e, di conseguenze, dell’area musulmana nella sua totalità.

• Gli ulemā e la raccolta delle tradizioni (akhbār): l’esempio dell’Egitto


I cosiddetti ulemā (ossia i “sapienti” nelle scienze, nonché trasmettitori delle tradizioni)
furono essi stessi degli “storici” molto attivi nel promuovere una legittimazione dell’Islam nel
suo complesso, e lo fecero elencando i compagni del Profeta e i loro “seguaci”, e poi, nelle
generazioni successive, i musulmani che ebbero un ruolo preminente nella diffusione
dell’Islam.

Il ruolo delle tribù


La scoperta di papiri scritti in arabo a partire dagli anni Venti dell’Ègira, come pure quella
di un numero considerevole di documenti amministrativi, redatti in seguito, confermano la
precoce diffusione della lingua araba nella regione. Un’ulteriore prova dell’arabizzazione si
ha nella menzione dell’esistenza di sette storie locali, scritte agli inizi del II secolo dell’Ègira.
Questi autori avevano in comune il fatto di essere dei notabili, membri delle tribù arabe
stabilitesi nel paese.
Il consistente numero di tradizioni egiziane, elaborate sin dai primi tempi, deve essere legato
alla necessità di queste tribù di affermare il proprio posto all’interno dell’impero mettendosi
in concorrenza con gli Arabi residenti in Siria – sostegno dei califfi umayyadi – e in Iraq se
non addirittura in Iran. Resta il fatto che il paese divenne uno dei centri se non il centro di
scrittura più prolifico del Mediterraneo musulmano sino alla fine del Medioevo (Miquel)

Una tradizione regionalista


La costruzione di una personalità e di una politica di grande levatura per ‘Amr b. al-‘Ās,
compagno del Profeta, sembrerebbe la conseguenza di un atteggiamento personale dello
stesso ‘Amr, spesso interpretato come volontà di condurre una politica autonoma, svincolata
da quella del califfo.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Tuttavia, le tradizioni che lo riguardano ce ne hanno lasciato un’immagine contradditoria.

Il ruolo fondamentale degli ulemā egiziani nella circolazione delle


tradizioni
Gli ulemā egiziani ebbero un ruolo importante nella diffusione del diritto in Egitto; ne è un
esempio ‘Abd al-Rahmān b. L’esempio, certamente ragguardevole, dei Banū ‘Abd al-Hakam
è rappresentativo del ruolo dei giuristi egiziani nella trasmissione del malikismo verso
l’Occidente e illustra molto bene il ruolo degli ulemā nel processo di accoglienza e di rimessa
in circolazione delle tradizioni nell’area occidentale.
Anche Fustāt e Alessandria divennero, all’alba del IX secolo, centri attivi dell’istruzione del
diritto islamico.

• Il Mediterraneo della conquista, cimitero degli “eroi”


La prima ragione del censimento delle tradizioni e delle biografie fu di ricostruire una
memoria dell’Islam risalente al tempo dei compagni del Profeta e dei loro seguaci. I biografi
dell’Ifrīqiya ricordano infatti quanti fra di essi parteciparono alla conquista e furono seppelliti
nella regione, seguiti dal racconto delle vite dei musulmani meritevoli. Agli occhi degli ulemā,
questa catena vivente costituiva la vera e propria memoria dell’Islam. Essa includeva anche
alcuni rappresentanti del califfo: il valore di tale opere biografiche era determinato
innanzitutto dalla levatura dell’autore, che garantiva della validità dei criteri e della scelta
dei personaggi selezionati.
In tal modo, la prima generazione di musulmani costituiva un anello essenziale, sia perché
lasciava sul suolo l’impronta insanguinata del martirio dei primi credenti, sia perché tramite
l’isnād garantiva la validità della diffusione del messaggio divino sui nuovi territori.

La sorte invidiata del martire


Più in generale, l’auspicio di una sepoltura in terra infedele o al suo confine era strettamente
legato al desiderio di morire come martire. È con quest’unico nome, Balāt al-Shuhadā’ – il
“lastricato” o più probabilmente il “palazzo dei martiri” – che le tradizioni arabe chiamano il
campo di battaglia di Poitiers, nel 732, per tutti i musulmani morti nel corso dello scontro,
sciabola alla mano, ma in particolare per il loro, capo, il governatore di al-Andalus. I luoghi
del martirio e della sepoltura delimitavano così i confini dell’Islam permettendo di dare
un’altra temporanea fine dell’espansione. La localizzazione delle tombe dei compagni del
Profeta in luoghi particolari come la capitale bizantina, delimitavano una frontiera
consacrata dell’Islam. In mezzo a un pantheon ben fornito di eroi di guerra, fin dall’epoca
umayyade si noti l’attenzione particolare portata ai volontari che si lanciavano nella cosa in
mare, reputati particolarmente valorosi.
Al combattente che periva in mare la tradizione concedeva la morte da martire con valore
doppio rispetto a quella del combattente perito sulla terraferma, in quanto non vi era
sepoltura.

L’eroe conquistatore, portabandiera dell’Islam


Accanto ai martiri, è la figura del conquistatore, incarnata da alcuni personaggi che si
innalzano al di sopra dell’uomo comune, a ricoprire un ruolo fondamentale nei testi dell’epoca
abbaside, per tracciare i confini della conquista sotto la responsabilità del califfo. ‘Amr b. al-
‘Ās rappresenta – come si è visto uno di questi “eroi fondatori” a cui il califfo ‘Umar delegò
l’autorità di istituire l’Islam su terra infedele. Un altro condottiero descritto come eroe è
‘Uqba b. Nāfi, considerato il vero e proprio conquistatore dell’Ifrīqiya, se non addirittura il
primo musulmano a penetrarvi. La tradizione che ne faceva un “eroe nazionale” eclissava
l’azione dei generali che l’avevano preceduto o che gli succedettero.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

‘Uqba, che apparteneva al prestigioso clan qaysita dei Banū Fihrī, fu posto sullo stesso piano
di ‘Amr b. al-‘Ās. Ibn ‘Abd al-Hakam lo considera il primo musulmano ad avere raggiunto i
confini del “Paese dei Neri”, avanzando la frontiera dell’Islam.
L’impresa che gli diede fama fu la fondazione di Kairouan nel 670. La tradizione arabo-
musulmana impose ‘Uqba b. Nāfi come il vero e proprio conquistatore delle regioni occidentali
sotto la costruzione della memoria fece di lui un altro eroe degli estremi del mondo:
l’insuccesso della sua campagna, con la disfatta subita contro il capo berbero Kusayla nel 683,
e la sua morte in combattimento furono trasformati così nella marcia trionfale del martire
‘Uqba b. Nāfi, il primo musulmano a raggiungere l’Oceano Atlantico e l’altro limite del mondo,
a ovest.
Il sito della sua sepoltura divenne uno dei primi “luoghi di visita” (ziyāra) ufficiali della
regione. Talvolta la figura dell’eroe conquistatore appariva più confusa. È il caso di Mūsā b.
Nusayr. Il passaggio di mano della storia andalusa ai cronisti umayyadi trasformò
l’immagine del conquistatore in antieroe, lasciando infone ai soli califfi umayyadi il merito
della conquista araba dell’Hispania condotta dai capi della tribù di Quraysh. Tuttavia, altre
tradizioni misero in luce i meriti del condottiero. In Ibn Habīb, ad esempio, egli appariva
come il vero e proprio stratega dello sbarco e dell’organizzazione della conquista, ma –
soprattutto – era riconosciuto «tra i più esperti in astrologia». Tale qualità lo designava
naturalmente come colui al quale toccava il compito di delimitare lo spazio musulmano,
segnando la fine dell’espansione araba in Europa. Quando raggiunse la fine del mondo, forse
a La Coruña, là dove una statua di Ercole segnalava i confini estremi della Terra, trovò
un’iscrizione recante l’avviso che lì terminava l’espansione, invitando i figli di Ismā’īl a
invertire la rotta.
Secondo altre versione fu dopo la presa di Narbona che i musulmani scoprirono tale
avvertimento, in quelo che era considerato un’altra estremità del dominio musulmano: «Figlio
di Ismā’īl, è qui il vostro punto estremo, e dovete far ritorno». Capitale islamica in terra
gallica, consacrata tale dal califfato siriano, la città continuò a far parte della Dār al-Islām,
anche una volta persa: fu forse questa la ragione per cui Narbona continuò a segnare il limite
di al-Andalus nella maggior parte delle descrizioni geografiche, anche molto tempo dopo la
sua conquista ad opera dei Carolingi nel 751.

• La nascita di un Mediterraneo esclusivamente islamico


Malgrado la mobilitazione di questo prestigioso pantheon di eroi mitici, il paesaggio
mediterraneo, come appare nelle fonti che si riferiscono al tempo delle conquiste arabe, fu
subito circoscritto dai narratori a uno spazio esclusivamente islamico. Infatti, solo ciò che si
riferiva all’Islam entrò di diritto nelle cronache che rievocano la conquista, cancellando in
qualche modo l’esistenza di tutto ciò che rappresentava il dominio precedente, eccezion fatta
per le rovine che i musulmani esibirono come trofei a testimoniare la vittoria dell’Islam sui
cristiani. Solo le popolazioni che si convertirono all’Islam, come i Berberi diventati alleati
degli Arabi, ebbero l’onore di essere integrate in questo nuovo mondo.

Un silenzio totale regnava sulle popolazioni non musulmane, al fine di farne dimenticare il
passato: soltanto le fonti giuridiche si esprimevano sulla presenta di “protetti” per
sottolineare la traccia residua dell’errore che li abitava. Gli autori arabi, sbarazzatisi del
passato, descrissero esclusivamente uno spazio mediterraneo islamico e califfale, che
includeva il mare. I cronisti di Baghdad non rievocarono gli spazi degli infedeli se non per
ricordare che costituivano dei territori da conquistare, nell’ottica di portare a compimento
l’opera affidata ai credenti, prima della fine dei tempi terreni.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

III. Il silenzio del mare: il jihād degli Abbasidi

Ci sono sufficienti testimonianze a provare che i califfi abbasidi non abbiano abbandonato il
mare come per troppo tempo è stato affermato.
Poiché la conquista di Bisanzio era divenuta un obiettivo impossibile, la nozione di frontiera
e gli aspetti della guerra associati alle regioni limitrofe dei territori cristiani e alle coste
musulmane del Mediterraneo si evolsero negli scritto dei letterati iracheni.
I califfi di Baghdad strinsero ben presto relazioni diplomatiche con il basileus. Tuttavia, le
menzioni di questi contatti sono state quasi completamente ricostruite dagli scrittori greci
per il basileus e da quelli arabi per il califfo. Presso questo ultimi, le descrizioni delle
grandiose cerimonie d’accoglienza dei sovrani non sono limitate alla sfera della diplomazia,
ma hanno la funzione di legittimare a livello universale la dinastia.

• Il sapere, obiettivo del dominio universale dell’Islam

L’universalismo sasanide al servizio dell’Islam


Al-Saffāh, il primo sovrano abbaside, e soprattutto suo figlio trovarono in Iran il sostegno di
un partito forte che li portò al poter. Circondati da eruditi persiani convertiti all’Islam, i califfi
incoraggiano la diffusione della cultura ereditata dai Sasanidi.
Lo zoroastrismo, religione di Stato dell’impero persiano, considerava il sapere come
un’emanazione divina. Tali idee influenzarono profondamente il regno dei primi califfi
abbasidi, i quali vollero che l’islam se ne avvantaggiasse.

L’appropriazione del sapere a scapito del basileus


La descrizione della cerimonia con cui fu accolto l’ambasciatore bizantino a Baghdad, sotto
regno di al-Muqtadir, costituisce un’altra classica forma di rappresentazione della superiorità
del califfato, e dunque dell’Islam, sull’imperatore di Bisanzio e sul cristianesimo. Le
informazioni sulle relazioni diplomatiche, del tutto normali e correnti, furono deformate per
alimentare una guerra di religione a colpi di messaggi e descrizioni che si rivolgevano
esclusivamente ai sudditi dell’impero, in particolare ai sudditi cristiani del califfato.
Il movimento delle traduzioni sarebbe partito dagli Umayyadi, prima che i califfi iracheni
prendessero lo slancio conferendogli un’ampiezza ben maggiore rispetto alle iniziative dei
loro predecessori. L’opera avrebbe avuto avvio sotto il regno di al-Mansūr al momento
«dell’adozione [da parte di quest’ultimo] degli elementi principali dell’ideologia sasanide»,
ugualmente manifesta «nella sua scelta delle persone che guidarono l’amministrazione del
regno». Questa fase corrisponde anche a un trasferimento del centro del sapere forse da
Jundishapur, l’antica città delle scienze dei Sasanidi, verso Baghdad. La trduzione di opere
greche sarebbe cominciata, su vasta scala, sotto l’impulso del califfo al-Mahdī.
Il crescente proselitismo islamico, indotto dai sovrani che incoraggiavano il loro entourage
cristiano (numeroso nei palazzi califfali) a convertirsi all’islam, finì per provocare o
amplificare una reazione difensiva dei cristiani della regione. Ne conseguirono dibattiti
teologici per i quali gli studiosi cristiani, educati alla logica aristotelica, possedevano una
solida formazione. Era dunque necessario che i musulmani potessero aver accesso ai trattati
di logica, fornendo loro i mezzi argomentativi per dimostrare la superiorità dell’islam sulle
altre religioni del Libro, e del sunnismo sulle correnti sovversive in seno all’islam.
Per fare proprio le discipline necessarie alla promozione dell’islam occorreva in primo luogo
acquisire le opere, molte delle quali si trovavano già nei monasteri cristiani dell’area
musulmana, da Alessandria all’Iraq, passando dalla ragione di Harrān. Bisognava inoltre
che vi figurassero anche le collezioni di Costantinopoli, almeno a livello di discussione in modo
da affermare la vittoria dell’Islam colto su Bisanzio, spogliata dei suoi libri più preziosi.
Raccolte e poi tradotte in arabo, queste opere selezionate trovarono posto negli scaffali delle
biblioteche della capitale. Secondo la sua versione, l’antagonismo fra le due città imperiali

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

avrebbe condotto il califfo, ispirato dal suo incontro con Aristotele in sogno, a contendere ai
Bizantini il dominio della conoscenza, appannaggio delle civiltà portatrici di una cultura
universale. Quest’altra guerra rientrava pienamente nelle competenze del sovrano, allo
stesso titolo del jihād. La Profezia di Maometto, infatti, aveva dato agli Arabi – e poi a tutti i
musulmani – la responsabilità di promuovere la conoscenza, a profitto esclusive dell’Islam.
Spostando la posta della lotta tra le due religioni universali dal campo militare a quello del
sapere, i sovrani poterono pretendere di sostituire alle vittorie dei loro predecessori quella di
al-Ma’mūn, ottenuta con l’aiuto del grande filosofo greco. Essa sembrava molto più meritoria
poiché la conoscenza permetteva di rivelare la sola profezia che poteva innescare l’escathon
(il “destino finale del mondo”), la penna infatti aveva la meglio sulla sciabola, tanto più che
quest’ultima non era riuscita a distruggere la seconda Roma.

• Le nuove condizioni della guerra


Nel riferirsi ai primi secoli dell’Islam, le cronache arabe distinguono due periodi dell’attività
navale dei musulmani nel Mediterraneo: per gli anni fino al 752 sono menzionate parecchie
spedizioni marittime, il cui ritmo sostenuto implicava un investimento marittimo
relativamente pesante. Nonostante le fasi di tregua imposte dai problemi interni e alcuni
insuccessi, il numero delle spedizioni navali è impressionanti, tanto più per una potenza
tracciata di temere il mare: oltre cinquanta incursioni importanti sono state censite nelle
fonti – non solamente cristiane – che coprono gli anni 643-752.
Gli obiettivi si sono evoluti, ma è la coerenza della strategia marittima degli Umayyadi a
caratterizzare l’espansione navale. In forza di ciò, il contrasto con il periodo abbaside, dopo
un’ultima incursione nelle acque occidentali segnalata nel 752, appare tanto più
sorprendente. Per tutto il successivo periodo fino al 779, infatti, non viene menzionata alcuna
spedizione navale né nelle fonti arabe né in quelle del campo opposto. Tra il 779 e l’838 in
occasione delle razzie di terra condotte dal califfo o dai suoi figli in Anatolia sono segnalate
alcune incursioni della flotta che accompagnava le spedizioni condotte dal sovrano lungo la
costa. In realtà questi movimenti non erano affatto paragonabili alle imprese navali degli
Umayyadi. Al tempo del dominio del califfato il Mediterraneo era dunque considerato un
territorio al di fuori dell’area che rientrava nel diritto islamico.
Le uniche menzioni di incursioni marittime provengono dalle vittime e dalle autorità latine.
La linea di demarcazione fra i territori coperti dagli annali arabi e quelli che non ne erano
interessati ha condotto la maggior parte degli storici del Mediterraneo a pensare che il mare
fosse diventato una no man’s land. Gli attacchi musulmani, di conseguenza, non potevano
essere altro che l’azione di “pirati”. Questa “rapida” lettura delle fonti arabe e cristiane pone
delle domande sulla politica dei califfi, riguardo al mare dei Romani. Al culmine della loro
potenza, grazie alla vittoria ottenuta contro gli Umayyadi, i loto successori riportarono sulla
frontiera bizantina, comprese le rive mediterranee del Vicino Oriente, tutte le iniziative del
jihād califfale; ma è lecito affermare che essi non condussero alcuna politica marittima,
accontentandosi di rinforzare le difese costiere? Queste interpretazioni desunte dai silenzi
della cronografia araba a riguardo della politica marittima musulmana nell’VIII e IX secolo
– considerata solamente dal punto di vista delle vittime greche e soprattutto latine –
appaiono in totale contraddizione con le ambizioni mediterranee ostentate dai califfi iracheni
nel momento in cui si impegnarono personalmente alla testa delle loro truppe, sul territorio
anatolico di Bisanzio.
In seguito alla sottomissione della Siria e delle marche anatoliche ad opera dei loro eserciti,
il califfo al-Saffāh e i suoi successori si impegnarono in una politica di frontiera.
A fianco delle forze armate e dei militari “aristocratici”, una nuova generazione di
combattenti, quella degli “eruditi militanti”, competenti in materia di diritto che si diffusero
a quel tempo, apparvero nel panorama della frontiera tra la seconda metà dell’VIII secolo e
la metà nel IX secolo, per coordinare il jihād sul posto.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Ai cronisti interessava soprattutto dimostrare la legittimità dei sovrani attraverso le azioni


guerresche. Il mare stesso non appariva mai come un ambito di guerra dei califfi nelle fonti
ufficiali. La preoccupazione dei sovrani circa il mare si manifestò molto presto.
Per consolidare la base della loro politica marittima, gli stessi cronisti si premurarono di
ricordare che fu il grande califfo Mu’āwiya a fondare la forza navale musulmana, rivelatasi
vittoriosa e conquistatrice.
Il trasferimento del comando navale rappresenta il solo cambiamento dell’organizzazione
marittima effettuato dalla dinastia irachena, che poneva l’intera catena del comando
marittimo sotto il controllo diretto dei califfi, mettendo fine ad una direzione bicefala,
egiziana e siriana.

• Gli spazi del jihād mediterraneo nel programma abbaside

Il «jihād difensivo», una strategia unilaterale


La politica militare dei primi califfi, almeno fino al regno di al-Mutawakkil, viene
ampiamente commentato dagli amministratori, divenuti storici. Se le cronache non ci
permettono di conoscere le tattiche e la strategia di difesa delle coste e delle strade, lodate
dai califfi successivi, sono proprio i giuristi e gli “eruditi in armi” a descrivere le regole della
guerra.

Una definizione del jihād da parte del califfo e degli “eruditi in armi”
Dal momento in cui i sovrani si impegnarono direttamente al fronte, il sistema di governo
dovette adattarsi. Il califfo operò dei cambiamenti – prima o in occasione dell’eliminazione
dei visir barmecidi nell’803 – che vennero a coincidere con il momento in cui riprese il
comando delle operazioni al di là della frontiera. Al sistema patrimoniale siriano e alla
mobilità del potere umayyade, i califfi sostituirono un coinvolgimento personale che li legava
alle aree del conflitto e che si tradusse nell’edificazione di due residenze califfali sull’Alto
Eufrate, al-Rāfiqa sotto al-Mahdī e al-Raqqa sotto al-Rashīd, che li avvicinava al fronte.
Dall’avvento del primo, la conduzione delle spedizioni da parte del califfo o dei suoi figli
segnava una novità rispetto all’epoca umayyade: la partecipazione del sovrano doveva
cancellare l’effetti indotto dall’allontanamento del centro del potere dal principale fronte di
guerra dei califfi.
L’inedita configurazione del rapporto tra i sovrani e la guerra necessitava la messa a punto
di un vocabolario che definisse le nuove forme del jihād califfale e di una terminologia che
designasse i nuovi spazi della guerra. La lettura dei trattati giuridici mostra difatti
un’evoluzione costante dell’interpretazione delle forme legali della guerra.
Benché il Corano continuasse a fornire tutti i termini necessari, i significati loro attribuiti
necessitavano di essere ridefiniti in funzione delle condizioni della guerra di frontiera per
combattere redassero delle opere sul diritto bellico, basandosi sugli hadīt e sui racconti dei
combattimenti del Profeta per definirne le regole.

Una ridefinizione delle frontiere


Il significato di parole come “jihād”, “martirio” o “ribāt” si trasforma a partire dal senso che
avevano nel Corano, per adattarlo all’evoluzione strategica e ideologica delle guerre sotto i
primi califfi. Tuttavia, questa elaborazione della lotta rimaneva strettamente connessa agli
aspetti pratici della guerra. I giuristi al servizio del califfato fecero evolvere lo statuto
materiale del combattente in uno scenario di guerra circoscritto alla zona di frontiera del
Tauro. La zona di frontiera segnava il confine tra la Dār al-Islām, spazio di pace dove
vivevano le popolazioni che seguivano la legge islamica e dove la guerra era normalmente
proscritta, e l’area del conflitto, respinta sul territorio dell’infedeltà, accessibile ai soli soldati
e marinai musulmani a partire dalle frontiere. La frontiera doveva separare con chiarezza la

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

zona del diritto islamico da quella dell’infedeltà. Le distinzioni tra territori di guerra e spazi
dell’infedeltà svelano il grado di diversità delle zone al di là della frontiera.
Il tempo di uno spazio non limitato, aperto alla conquista dal campo base era già un lontano
ricordo: il jihād era stato ridefinito sulla base della realtà militare dell’epoca.
Allontanandosi dai modelli del jihād inteso come martirio del periodo delle conquiste, l’opera
di Ibn al-Mubārak fu tra le prima a definire le forme di un jihād adattato al volontario sulla
frontiera. L’erudito definisce l’impegno volontario come il frutto di un percorso individuale,
due forme di combattimento dei musulmani: il jihād maggiore e il jihād minore.
La stretta associazione tra le forme più o meno rigorose di ascetismo e il combattimento o la
sorveglianza della frontiera si sarebbe sviluppata mediante il ribāt. Con questo termine,
soprattutto nella forma verbale rābata, le opere dedicate alla guerra indicano non un luogo
specifico, bensì la pratica delle due forme del jihād. L’esercizio del ribāt doveva assolutamente
essere attuato sulla frontiera e comportava una certa immobilità. Sembra che l’importanza
dell’ascetismo, associato al combattimento, talvolta spinto all’eccesso e criticato, sia stato uno
degli elementi principali degli eruditi in armi.
Antiochia è indicata al tempo stesso come fortezza e ribāt, il che implica che la città era
favorevole alla pratica individuale del jihād.
La fama dei suoi meriti attiravano molta gente: questo legame con i primi tempi dell’Islam
permetteva di fare risalire la pratica del ribāt al periodo profetico.
Quando Hārūn al-Rashīd riorganizzò la frontiera, fece del ribāt un’istituzione califfale
diffondendola lungo i confini dell’impero. L’istituzionalizzazione del volontariato, nell’ambito
del jihād, va collegata alla volontà dei califfi di incanalare e controllare, per quanto possibile,
l’energia dei combattenti volontari. Gli Abbasidi avrebbero così “reinventato” una frontiera
sui luoghi dove conducevano la guerra, adattata alla situazione dell’epoca tentando al
contempo di controllare le forze vitali che ne assicuravano la difesa. L’immediata popolarità
del ribāt appare evidente dalla presenza, a fianco dei soldati, di numerosi uomini pii.

Una difesa attiva


I califfi di Baghdad si impegnarono personalmente nella guerra contro i Bizantini,
adoperandosi per imporre l’immagine del califfo combattente, in nome del jihād, nell’intento
di superare i meriti dei conquistatori umayyadi. A tal fine, il loro impegno esclusivo in
Anatolia, con un programma di difesa delle coste e di offensive navali che doveva coprire la
frontiera marittima dell’impero, consolidò l’identificazione del Mediterraneo come frontiera
e zona di guerra del califfato.

• Il califfo ghāzī
I cronisti si concentrarono sui luoghi del jihād scelti dal califfo piuttosto che sugli altri fronti.
Le menzioni dei combattenti di frontiera seguivano i passi del sovrano o quelli dei suoi
rappresentanti. Quest’effetto di lente di ingrandimento tendeva praticamente a escludere
qualsiasi notizia riguardante la maggior parte delle zone di contatto con i cristiani e la
maggior parte degli attori di questa guerra di frontiera, a meno che fossero gli avversari a
farne riferimento.
L’emergere dei poteri regionali favorì la diffusione dell’immagine del sovrano ghāzī, sugli
altri fronti, in Oriente ma anche nelle regioni occidentali.
Uno degli indicatori dell’interesse particolare che i califfi nutrivano per la frontiera si misura
anche dal prestigio dei governatori della marche e delle città “protettrici”:
Non v’è alcun dubbio che la frontiera che legittimava il futuro califfo ghāzī non era quella
d’Oriente, bensì quella posta dinnanzi al territorio dell’altro imperatore.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

IV. Il Mediterraneo dei geografi, «figlio del califfato di Baghdad»


(IX-X secolo)

La presentazione fin qui fatta della scrittura geografica dello spazio mediterraneo permette
di constatare che Baghdad fu la culla di questa disciplina che vide la luce nel IX secolo,
proprio quando furono redatte le prime cronache abbasidi giunte fino a noi. Di fatto, scritture
geografiche e cronografiche sono inseparabili, perché procedono ambedue dalla volontà di
dimostrare la legittimità universale dell’Islam. Il Mediterraneo, al contrario di quanto si è a
lungo ritenuto, ebbe un posto importante in seno al dominio musulmano, ancora una volta
quale spazio privilegiato del jihād califfale.

• L’eredità di Baghdad
La tradizione araba ha consacrato al-Ma’mūn come fondatore della scienza geografica.
La geografia fu dunque una delle numerose discipline tenute in alta considerazione a
Baghdad, nell’effervescenza dello sviluppo degli studi “enciclopedici”, mobilitando tutti gli
scibili che potevano servire a valorizzare l’immagine dell’Islam, come desideravano il califfo
e i letterati. La geografia araba, come è giunta fino a noi, prima di essere una «scienza che
ha per oggetti lo studio, la descrizione e la rappresentazione della Terra», aveva come
obiettivo principale quello di rappresentare l’Islam al centro dell’ecumene e di raffigurare sui
mappamondi la potenza e la legittimità del califfato. Le traduzioni, in particolare quella
dell’Almagesto di Tolomeo ma anche della Geografia di Marino di Tito e di molti altri trattati
di geografia ellenica, furono all’origine di una geografia delle cifre e dei calcoli astronomici,
molto prima di quella rappresentazione delle parti della Terra e delle descrizioni dello spazio
fisico e umano. Gli astrolabi e le sfere armillari furono i primi oggetti da collezionare dei
sovrani e poi dell’alta società della capitale. Nello stesso tempo, le carte dell’antichità greca,
quello di Tolomeo in particolare, servirono da modello per i primi mappamondi.
Quando si evoca la geografia araba, cartografica e descrittiva, va tenuto presente che si tratta
di uno strumento di cultura e di propaganda della sovranità islamica e califfale.
L’uso di questa geografia pratica fu però trasformato per rispondere a un altro intento:
rappresentare lo spazio dell’autorità del principe nelle opere scritte al fine di educare in
maniera stimolante le future élite del califfato, dando origine così a una geografia di tipo
enciclopedico che, pur non essendo una guida per il viaggiatore, permetteva ai curiosi di
appropriarsi di un sapere da salotto.
La nascita della geografia araba è collegata strettamente allo sviluppo dell’adab e alle figure
di al-Jāhiz e Ibn Qutayba, la cui influenza sulla scrittura geografica fu decisiva. L’adab è una
«letteratura di tecnici, nel senso che proviene da amministratori e si rivolge allo stesso modo
ad amministratori», pur sottolineando il rifiuto che si lasciasse «prendere dalle sole
preoccupazione tecniche». La geografia, al contrario della storia, non fu concepita come una
scienza a sé stante, bensì come una materia a pieno titolo che permetteva di esporre l
conoscenza dello spazio nell’ambito della cultura generale_ aveva senso solo se messa al
servizio dell’Islam, vale a dire del califfo e di color che lo servivano.
Parallelamente, le geografia si trasformò per diventare specificamente un genere descrittivo
al servizio della promozione dello spazio imperiale. La volontà di far apparire l’Islam, visto
da Baghdad, come il solo universalismo dello spazio umano spinse i geografi a parlare di tutto
l’universo: il cosmo, la Terra, l’ecumene.

• Il Mediterraneo in rapporto all’Oceano Indiano


L’Oceano Indiano è il mare di riferimento sul quale i geografi di Baghdad misurarono il
Mediterraneo. Le più antiche descrizioni di mari a nostra disposizione, la Relazione della
Cina e dell’India, il Libro delle strade e dei regni di Ibn Khurradādhbih – che riprende
largamente la Relazione per descrivere l’oceano – e le Meraviglei dell’India, di cui si rese
disponibile un’edizione dalla metà del X secolo, sono le fonti più antiche delle descrizioni

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

marittime. A questi geografi si riferì principalmente al-Mas’ūdī nel descrivere il


Mediterraneo o il Mar Caspio. Qualunque sia il genere di queste descrizioni, che associano
“meraviglie” e itinerari, esse si rivolgevano a un ambiente colto di cui i lettori lavoravano
nelle cancellerie.
Sono note due versioni dell’opera d Ibn Khurradādhbih: la prima, datata 846, e la seconda –
in realtà la stessa opera ampliata con nuovi passaggi – redatta dell’885, data probabile della
sua morte. Si tratta al tempo stesso dello scritto (adab) di un tecnico e di un uomo di lettere,
la cui versione definitiva si presenta come un lavoro con intento educativo destinato agli
amministratori del suo entourage. La sua influenza fu dunque decisiva, non soltanto sulla
geografia regionale, ma anche su quella delle altre aree dell’Islam: l’autore nomina tutte le
parti dell’Islam, utilizzando innanzitutto le conoscenze e le informazioni, l’impero
musulmano è rappresentato nel suo insieme dalle città, dagli itinerari e dall’imposta sul
valore del Sawād, veri marchi dell’autorità imperiale.
Infine, l’opera contiene riferimenti a sovrani e a grandi Stato fuori dall’Islam, come impero
bizantino, nonché agli itinerari dei mercanti.

• Il Mediterraneo marginalizzato dei geografi viaggiatori

L’egocentrismo orientale
La geografia di Baghdad legittimò in effetti un solo spazio islamico, a beneficio dei califfi
sunniti, ma lo fece stabilendo una gerarchia delle regioni all’interno del mamlaka,
valorizzando l’Oriente, terrestre e marittimo, e il centro a spese dei margini occidentali. Era
anche una tradizione persiana quella di descrivere l’ecumene con sembianze animali, spesso
un uccello. Nel X secolo, la nascita di una geografia fondata su «uno studio della terra e degli
uomini» coincise con il fiorire di una generazione di autori particolarmente dotati.

L’Occidente marginalizzato
La struttura dell’opera di al-Muqaddasī si rifà a un modello classico, cominciando da una
rappresentazione generale della Terra e delle sue parti, L’ecumene vi appariva divisa in
quattordici territori; l’impero vi risultava in tal modo separato in due grandi insiemi da una
linea assiale su cui passava la via del pellegrinaggio per La Mecca.
Nei capitoli dedicati a ciascuna delle regioni dell’Islam, viene messa in evidenza la disparirà
tra quelle orientali e quelle occidentali.
Nella sua presentazione generale del mondo, il capitolo sui mari occupa un post importante.
In particolare il racconto invita a considerare i due mari come simboli i un’opposizione
irriducibile tra due civiltà, con il Mediterraneo che appartiene irrimediabilmente alla
cristianità. Nello stesso tempo, al-Muqaddasī fornisce una delle descrizioni più complete del
Mediterraneo della geografia araba.

• Ibn Hawqal: il Mediterraneo al centro dell’Islam


Ibn Hawqal fu il primo geografo orientale della generazione abbaside a liberarsi realmente
dalle barriere mentali che separavano l’Oriente dall’Occidente islamico: non che egli
rinnegasse i lavori geografici del passato, tuttavia è il solo, tra gli autori iracheni ad accordare
un posso centrale all’area mediterranea, popolosa e fiorente, nell’ambito dell’Islam.

La fine di uno spazio polarizzato da Baghdad


La sua testimonianza su questa parte del mondo musulmano costituì l’essenziale del suo
apporto personale all’opera di al-Istakhrī, suo maestro e modello, e segnò una profonda
rottura con la visione tramandata fino a quel momento dai geografi orientali dell’Occidente
musulmano. Egli mise in risalto il peso delle periferie, divenute i focolai attivi dell’Islam, i
mondi “nuovi”: là si giocava ormai il destino dei musulmani. Per quanto l’Iran restasse il

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

centro dell’Islam, egli constatava o presentiva già il ruolo a venire dei popoli turchi: l’Islam
descritto dal viaggiatore era diventato un mondo policentrico.

Il Mediterraneo di Ibn Hawqal: uno spazio ricco ma minacciato.


Ibn Hawqal intuiva che in cambiamento del destino dell’Islam si sarebbe giocato nel
Mediterraneo, in primo luogo perché i protagonisti più importanti del mondo musulmano vi
avevano ormai le loro basi, e poi perché la guerra tra Greci, Latini e musulmani gli sembrava
decisiva. Per primo, l’autore trattò lo spazio mediterraneo, musulmano e anche cristiano,
come un insieme singolare e coerente. Commerciante di mestiere scoprì un mondo
autosufficiente, in cui gli scambi che avvenivano nel bacino erano fonte di arricchimento,
favorito peraltro da un densità di popolazione superiore alle altre regione, in particolare,
all’Asia. Non toccò quasi la parte dell’opera di al-Istakhrī che trattava del «vecchio mondo»
poiché riteneva che l’inventario della parte orientale scritta dal suo maestro fosse ancora
attuale. La scelta di una lettura politica del Mediterraneo, ampiamente debordanti
sull’Oceano Atlantico, lo condussero a far coincidere, come parecchi dai suoi predecessori, il
limite del mare interno non con lo stesso di Gibilterra, bensì con le frontiere marittime
dell’Islam. AI suoi occhi era assai più significativo l’aspetto politico dello spazio marittimo di
quello legato alle caratteristiche fisiche. Poiché disponeva di informazioni tratte dagli archivi
degli Stati visitati, egli impiegò un linguaggio ammnistrativo, più precisamente quello della
fiscalità, come facevano tutti i geografi nell’elencare le località.
Lungi dal fornire un semplice elenco di tribù o di città, egli tracciò, con spirito critico, un
quadro aggiornato di ciascuna sovranità. Le sue fonti gli permisero di valutare la potenza de
due califfati, in base all’inventario dei redditi degli Stati, alla loro organizzazione militare e
alla ricchezza delle capitali.

Le forze dell’Islam nel Mediterraneo condivise con Bisanzio


Un altro elemento di grande originalità di Ibn Hawqal fu la sua capacità di comprendere
l’importanza del ruolo svolto dal mar Mediterraneo per l’intero mondo islamico, che egli
considera come uno spazio omogeneo e condiviso, malgrado lo scontro ricorrente tra cristiani
e musulmani. L’insieme di queste informazioni gli permise di valutare le forze in campo. I
superlativi non mancano riguardo a Cordova, indicata quale modello di fastosa capitale araba
all’estremità dell’Occidente. È tuttavia l’Egitto fatimide a incarnare ai suoi occhi la
supremazia musulmana.
Egli giunse a sostenere che il potere musulmano era ormai ripartito ugualmente tra
Occidente e Oriente. Inoltre Ibn Hawqal dedicò un importante capitolo all’amministrazione
bizantina, citando la testimonianza di uno dei suoi compatrioti, trattenuto a lungo prigioniero
a Costantinopoli. Questa relazione sul mondo greco, le osservazioni sull’Italia e i ricordi del
soggiorno nella regione di Antiochia, dove combatté come volontario, gli permisero di trarre
delle considerazioni personali sulla situazione delle frontiere. Le sue critiche sono forti nei
confronti dei Siciliani. L’autore insiste sull’importanza delle relazioni marittime da un
approdo all’altro e tra i grandi porti; non perde occasione di mettere in rilievo le ramificazioni
commerciali tra Nord e Sud, ma anche le molte atre ragioni di incontri non violenti tra nemici.
Egli accorda al confronto tra musulmani e cristiani un ruolo essenziale nell’evoluzione delle
relazioni della regione.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

V. I centri musulmani del Mediterraneo occidentale: l’Islam


senza gli Abbasidi (VIII-IX secolo)

• La nascita di una cronografia in Occidente


Una delle caratteristiche dell’opera di geografia universale di al-Bakrī, il Libro delle strade
e dei regni, portata a compimento nel 1068, è quella di essere stata composta senza che il
letterato abbia mai lasciato la sua patria andalusa. Adottando un approccio completamente
opposto a quello dei suoi colleghi orientali, per i quali il viaggio nelle regioni descritte era una
necessità preliminare a ogni scrittura.
La sua opera, il cui titolo palesa la parentela con la geografia irachena, rappresenta uno degli
esempi più importanti del cambiamento culturale che segnò il Mediterraneo occidentale a
ovest dell’Egitto a partire dal X secolo. Il fiorire di una letteratura cronografica araba che
accompagnò un movimento culturale molto più ampio poneva ormai questa regione tra le più
prolifiche in campo letterario e nell’ambito delle scienze arabe.

• Una frontiera abbaside sulle coste dell’Ifrīqiya

La difesa delle coste dell’Ifrīqiya


Tre importanti avvenimenti portarono al distacco dell’Ifrīqiya della califfato d’Oriente. La
messa in questione dello statuto delle regioni berbere, integrate nello spazio dell’Islam, dopo
recente di nuovi siti hanno confermatola conquista araba, su ordine del califfo Hishām II al
fine di popolare i suoi palazzi di donne berbere, provocò il sollevamento delle tribù a partire
dal 739. Quando tornò con la calma, che coincise con la “rivoluzione” abbaside, nel 749-750,
ciò provocò il ripetuto malcontento del jund, dato che i soldati non potevano più arricchirsi
con le razzie.
Nello stesso tempo, il movimento kharigita dei sufriti e degli ibaditi – movimento islamico di
origine orientale che rifiutava la legittimità del califfo sunnita e fatimide – cominciò a dare
problemi ai governatori del califfato.
Al di là del riconoscimento formale dei governatori da parte del califfato, il mantenimento di
legami forti con l’Iraq avvenne nello stesso modo in cui gli emiri di Ifrīqiya concepirono la
loro strategia militare dinanzi ai Bizantini. L’organizzazione delle forze armate e della difesa
costiera si ispirò molto a quella attuata dai califfi in Siria e nella valle del Nilo.
Fu in queste circostante che, nel 796, fu edificato il ribāt di Monastir, ovvero nel momento in
cui le cose subivano le irruzioni di “pirati” bizantini. È sufficiente la fama dei due ribāt per
sottolineare l’importante attribuita al jihād nel meccanismo difensivo delle coste dell’emirato
di Ifrīqiya dell’epoca. La reputazione di questi luoghi consacrati diventò proverbiale. Lungo
le coste di al-Andalus, la diversità delle denominazioni dei luoghi di ribāt e la scoperta recente
di nuovi siti hanno confermato – in Oriente e in Ifrīqiya – l’esistenza di diverse forme della
pratica di questo pio esercizio, ma anche la profonda influenza della frontiera del Vicino
Oriente, sotto il controllo abbaside, sugli altri fronti del Mediterraneo. Qui, come in Siria,
l’espressione “fare ribāt” (rābata), che ritorna spesso nei testi, significava forme diverse della
pratica personale e collettiva del jihād. Tuttavia, quello che contava era l’atteggiamento del
devoto musulmano di fronte all’orizzonte marino o terrestre da dove poteva giungere
l’infedele in armi.
L’istituzione del ribāt, contemporanea alla costruzione del primo edificio specificamente
dedicato a questo esercizio, a Monastir, su ordine del califfo aveva seguito di poco la sua
apparizione sulle coste della Siria abbaside. Cardine del potere dei sultani, fu ripresa e
sviluppata dagli emiri che fecero erigere anche il ribāt di Susa.
Lungo la costa tra Susa e Sfax sono stati identificati ben 25 ribāt; per la maggior parte erano
forti mentre la denominazione ribāt fu attribuita più in specifico agli edifici di Monastir e
Susa. Tuttavia, la pratica del ribāt non si limitava a queste due costruzioni: alcune torri di

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

guardia e soprattutto alcune località che accoglievano molti volontari, erano esse stesse
luoghi di ribāt. La fortificazione di questi luoghi fu resa possibile grazie alla generosità dei
principi, ma soprattutto a quella dei ricchi devoti che finanziarono la costruzione di difese in
gradi di ospitare i volontari. La presenza delle spose era sgradita a Sfax e Susa e non si poteva
permettere che risiedessero in un forte dove si incontravano volontari e soldati del jund. Nei
periodi di grande affluenza, i luoghi cittadini destinati al ribāt potevano essere molto
eterogenei: per esempio, alcune cellule venivano collocate in case private, affittate a volontari.
Quando la città non riusciva più ad accogliere i praticanti, lo facevano i sobborghi.
Occasionalmente anche le tende servivano come luogo di ritiro, così come la moschea del
Venerdì e quelle di quartiere. La pratica del ribāt conobbe una continua evoluzione nel corso
del Medioevo. In realtà, i siti deputati al ribāt potevano essere molto diversi a seconda dei
luoghi.

• Il jihād degli Aghlabidi: la prosecuzione del modello abbaside


Gli Aghlabidi adottarono la politica militare dei governatori che li avevano preceduti, prima
di tutto per necessità. Gli attacchi sferrati dalla Sicilia bizantina furono probabilmente una
delle ragioni della spedizione di Mazara dell’827 che segnò l’inizio della conquista dell’isola.
Sullo sfondo vi erano una crisi politica e le rivalità tra capi bizantini. Molto rapidamente, le
operazioni di difesa della costa e le spedizioni sul territorio siciliano e italiano divennero
strumenti efficaci ai fini della promozione della legittimità emirale. Il jihād era tra i meriti
maggiori degli emiri: l’invasione della Sicilia poteva dunque apparire in continuità con il
periodo glorioso delle conquiste, una volta presa Palermo, nell’831. I lavori di fortificazione
del porto di Susa fecero della città costiera il principale porto militare e commerciale.
Quest’ultimo era il doppio di quello di Tunisi, fondato nel 702. Per tutto il periodo aghlabile,
la guerra condotta contro i cristiani non solo restò sotto il controllo delle autorità dell’Ifrīqiya,
ma fu presentata costantemente come una delle loro azioni di maggior rilievo, condotta sotto
la direzione del sultano. L’atto più ragguardevole del jihād fu tuttavia la conquista siciliana
nel suo complesso, condotta sotto il regno di nove degli undici sovrani della dinastia. La flotta
era uno strumento indispensabile alla guerra, non fosse altro che per difendere l’accessi alla
costa. La flotta ebbe infatti un ruolo essenziale quando, a partire dall’831, fu usata da
Palermo per inviare rinforzi o per coadiuvare gli assedi delle città costiere, in particolare
contro Siracusa, capitale bizantina della Sicilia, inespugnabile senza il sostegno navale. Gli
indizi lasciati dai geografi del tempo circa l’esistenza di una navigazione stagionale tra
l’Ifrīqiya e al-Andalus confermano la sopravvivenza e lo sviluppo di un’attività commerciale,
in particolare sulla costa occidentale del mediterraneo, in un momento in cui i governi
regionali erano in condizione di gestire questi scambi.
I sovrani si sono preoccupati di lasciare traccia della loro devozione, soprattutto come emiri
del jihād. Nominalmente fedeli agli Abbasidi, adottarono gli stessi registri di
rappresentazione del sovrano guerriero, i soli a essere considerati fonte di legittimazione
nell’Islam dell’epoca. Il mare occupava un posto importante, ma non costituiva ancora lo
sfondo della rappresentazione della legittimità califfale.

Il malikismo, un ulteriore elemento di diffusione del jihād in Ifrīqiya


I Fatimidi continuarono l’opera degli Aghlabidi, facendo restaurare e costruire i forti che
difendevano le coste. Malgrado questa continuità, nel X secolo l’opposizione malikita
trasformò la pratica del ribāt in una forma di resistenza passiva al potere sciita.
Concorrenza fra tradizione diverse: una che si sforzava di mettere in luce il ruolo degli
Aghlabidi, trasmessa dagli storici arabi, e un’altra – diffusa invece dai malikiti – che
descrivere le azioni degne di essere rese immortali compiute da pii uomini. La formazione di
piccoli principati musulmani sulle coste italiane, a Bari in particolare, e fino a Frassineto, in
Provenza, come pure la conquista di Creta da parte di marinai andalusi, rivelano la
persistenza di uno spirito di impresa “privata” che faceva del Mediterraneo, allora mal difeso

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

dai cristiani, un campo sempre propizio alla razzia, che potevano condurre al martirio e, se
la sorte si mostrava favorevole, a una conquista duratura.
In seguito alle disfatte in Gallia – nel 732 a Poitiers e sul fiume Berre nel 737 -, seguite dalla
rivolta berbera, a partire dal 739 ogni velleità di conquista fu vanificata, tanto più che il
governo di Cordova fu assorbito dalle lotte tra clan e partiti arabi, fino all’avvento di Abd al-
Rahmān I.
La particolarità del Mediterraneo occidentale fu di essere un mare senza nemici per gli
Andalusi, dal tempo della conquista della Penisola iberica fino all’arrivo dei Vichinghi
nell’844. Disfatti, salvo alcune limitate eccezioni, il raggio di azione della flotta bizantina,
sola forza navale permanente dei cristiani fino alla fine del X secolo, non superava la zona
della Sicilia, delle coste di Ifrīqiya e della Sardegna. Le coste latine dell’impero carolingio,
nonostante alcune operazioni navali finanziate da Carlo Magno e Ludovico Il Pio e condotte
al principio del IX secolo in Corsica e in Sardegna per respingere le incursioni musulmane,
erano più spesso prive di difesa, esposte agli attacchi dei marinai dell’Islam, fino in Italia;
una situazione destinata a peggiorare sempre più con la progressiva decadenza dell’impero
carolingio. Il jihād condotto nelle marche di frontiera fu descritto con l’uso di una
terminologia simile a quella impiegata in altre regioni mediterranee di confine, e che ha
origine nella marca siriana dell’epoca abbaside.
Fino al regno di al-Hakam I, le campagne erano dirette soprattutto contro i movimenti di
dissidenza interna, per la maggior parte nelle regioni delle marche, ed erano spesso seguite
da un’incursione in terra cristiana. Le fonti arabe non fanno mai menzione delle spedizioni
navali condotte indipendentemente da comunità di marinai, poiché implicavano a priori una
totale autonomia degli stessi. Le spedizioni non governative erano segnalate solo quando le
vittime cristiane avevano motivo di farlo, in genere per problemi di politica interna. Rimo
sovrano andaluso a confrontarsi con un nemico venuto dal mare, in fattispecie i Vichinghi,
‘Abd al-Rahmān II decise, nell’844, di fare uno di una flotta.
Le misure di difesa delle rive andaluse erano molto simili a quelle attuate sulle altre rive
musulmane del Mediterraneo e consistevano in particolare nella fondazione di ribāt. Inoltre,
il sovrano approfittò di questa riorganizzazione per tentare di porre le Baleari sotto il
controllo degli Umayyadi. Su ordine dei sovrani, i marinai andalusi si accanirono contro le
coste della Provenza, toccando il picco con il saccheggio del monastero di San Cesario (Arles)
nell’850. Si tratta di azioni non menzionate dalle fonti arabe, come del resto nessuna delle
razzie contro le coste cristiane.
La descrizione delle misure di difesa costiere per essere legittima doveva porre in relazione
queste ultime ai principi enunciati dai califfi di Baghdad in materia di jihād, tuttavia esse
permettevano anche al principe dissidente di affermare la propria autonomia, appropriandosi
della messa in sicurezza del territorio che controllava.

• I silenzi del Maghreb marittimo


Per completare questo quadro, peraltro assai lacunoso, delle politiche mediterranee
dell’Islam nel IX secolo, mancano informazioni sui territori a ovest dell’Ifrīqiya, per l’assenza
di cronache composte nelle corti degli emirari. Tuttavia sappiamo che la comparsa dei ribāt
lungo le coste – quella mediterranea e quella atlantica dell’Africa occidentale – fu
conseguenza delle prime due discese vichinghe del’844 e della fine del decennio successivo.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

VI. Il Mediterraneo dei califfi d’Occidente

Il X secolo è considerato il momento di maggiore prosperità del Mediterraneo islamico.


Ibn Khaldūn (lo storico arabo) associava tale superiorità all’avvento, nella regione dei califfati
molto più potenti degli emirati che avevano sostituito, Più ricchi, i califfati furono capaci di
condurre una politica navale che permise di controllare lo spazio marittimo conteso ai Latini
e ai Greci. Ibn Khaldūn imputò la colpa del declino arabo ai sovrani, e non alle comunità
marittime che popolavano le sponde musulmane. Cronache, geografie, testi giuridici ma
anche documenti commerciali offrono una quantità ingente di dati sulle attività navali a
partire dal X secolo. Una produzione, in un clima generale di sviluppo della navigazione e del
commercio, che si nutre dell’antagonismo dei due califfati. Questa guerra mediatica fece
uscire il mondo marittimo delle regioni musulmane dal silenzio e, in concorrenza con le
versioni latine e greche, rivelò sotto una nuova luce il rapporto tra i sovrani musulmani e i
mari.

• L’epoca dei califfi umayyadi


L’avvento del califfato umayyade nel 929 segnò anche quello della geografia in al-Andalus. Il
califfato umayyade stimolò in particolare la produzione di una geografia alternativa a quella
dell’Oriente.
Ahmad e ‘Isā al-Rāzī redassero la cronaca ufficiale del regno del califfo umayyade ‘Abd al-
Rahmān III e di suo figlio al-Hakam II, facendola precedere da una sintetica presentazione
dello spazio iberico musulmano che diventò, nonostante la sua brevità, un riferimento per i
geografi della Penisola. Sucessivamente, la letteratura descrittiva degli Andalusi rimase
fedele a una “geografia provinciale” creando così un nuovo polo dello spazio islamico. La
letteratura cronografica, prodotta sotto l’ala protettrice dei califfati umayyade e fatimide,
accentuò considerevolmente il peso della produzione mediterranea.

L’affermazione della sovranità umayyade sul Mediterraneo


L’obiettivo dell’affermazione della sovranità umayyade sul Mediterraneo è enunciato
chiaramente nella cronaca attraverso la riproduzione di lettere o di panegirici indirizzati al
sovrano. Il necessario controllo dello spazio marittimo diventò uno dei maggiori elementi a
dimostrazioni dell’universalità della sovranità umayyade. La lotta con i rivali fatimidi per il
dominio sullo spazio marittimo e soprattutto sul Maghreb faceva sì che l’importanza
strategica del Mediterraneo aumentasse considerevolmente. L’Occidente musulmano diventò
così il principale campo di battaglia dei due califfati rivali, mentre nel bacino occidentale si
disputa la supremazia navale visto che il Mediterraneo poteva diventare la via più veloce per
raggiungere l’Oriente.
Il mare, sorta di prolungamento della frontiera terrestre della Penisola, costituiva il
principale teatro delle operazioni il saccheggio promosse dagli Umayyadi in nome del jihād.
La difesa dei litorali era un altro impegno fondamentale e richiedeva la manutenzione di un
flotta, particolarmente di fronte ai Vichinghi che, fino al 975, rappresentarono una serie di
minaccia. Anche le operazioni navali contro i cristiani o i Normanni rientravano tra le
decisioni di pertinenza esclusiva del califfato.
Costituita durante la seconda metà del IX secolo, la comunità di Pechina. Questa città di
marinai si arricchì con la pirateria, praticata sulle coste cristiane, e il commercio, in
particolare di schiavi.

La frattura califfale, un artificio letterario


Tra i numerosi elementi che collaborarono a dimostrare la nascita di una nuova epoca, in
mancanza di una nuova strategia, il programma monumentale e amministrativo delle città
e delle fortificazioni costiere testimonia del processo di appropriazione delle coste a partire
dal califfo. I suoi antenati, almeno a partire dal regno di ‘Abd al-Rahmān II, avevano già

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

patrocinato un programma ambizioso di protezione delle rive. Il nuovo califfo, però, mise in
scena una serie di programmi spettacolari mentre, dal canto loro, gli scrittori si mantennero
assai discreti a proposito delle imprese precedenti.
La pratica del ribāt in al-Andalus diventò affare esclusivo del califfato.
Non c’era più spazio per l’autonomia delle comunità di marinai, considerato che ogni
operazione navale doveva essere il risultato di una decisione del califfo gestita
dall’ammiragliato. Malgrado gli autori andalusi riportino all’unanimità il 954-5 come data di
fondazione di Almerìa, tale fondazione pone un problema poiché il sito era già sede
dell’arsenale della flotta del califfato, costruito nel 931 utilizzando le strutture della città di
Pechina, situata a 12 chilometri, risalenti a oltre vent’anni prima dell’erezione della nuova
città. L’appropriazione da parte del sovrano dell’arsenale della città a rimanere nella
memoria come l’evento che fece della città il porto del califfato, prima dell’attacco della flotta
del Mahdī e dell’edificazione della città nuova.
La scelta si giustificava con il fatto che il porto di Almerìa era diventato il più attivo della
Penisola. La presenza di un ribāt in loco aveva anche una certa forza simbolica, come lascia
supporre il nome scelto per la nuova città: la parola al-Mariyya. In un secondo tempo, la città,
fondata sull’area dei cantieri navali del vecchio agglomerato urbano, ebbe tutte le prerogative
riservate alle istituzioni califfali.
Un califfo che non venne mai nella sua città, mentre la sua flotta ne rappresentava la
sovranità. Le città portuali del califfato dovevano offrire agli occhi stupiti dei visitatori, ad
Almerìa come a Tortosa, a Siviglia, Algeciras o a Ceuta, l’immagine della potenza di al-
Andalus e della flotta costruita negli arsenali del sovrano.
Pechina divenne la sede dell’ammiragliato. L’arsenale umayyade perpetuava l’autorità
universale del califfato nelle città portuali e, per estensione, sul mare: ‘Abd al-Rahmān, una
volta califfo, non vide più le sue amate navi, Al-Hakam II, diventato califfo, non si recò mai
sulle coste, ma ciò non gl’impedì di seguire le orme di suo padre, senza muoversi dal suo
palazzo.
Per quanto riguarda Ibn Abī ‘Amir al-Mansūr, ufficialmente servitore del califfo, egli utilizzò
la flotta come sostegno durante le campagne militari. Per organizzare le campagne del
Maghreb, lo hājib – questo il titolo del sovrano andaluso – doveva prendersi cura delle sue
truppe: già sotto gli Umayyadi e ancor più in occasione delle spedizioni africane, il
comandante militare aveva controllato gli importanti lavori di fortificazione di Ceuta, testa
di ponte degli Andalusi. I due litorali di al-Andalus furono anch’essi soggetti a una
riorganizzazione. La spedizione del 997, che aveva per obiettivo Santiago di Compostela,
necessitò dell’uso della flotta per ragioni logistiche e indusse lo hājib a fare edificare delle
infrastrutture navali.

La flotta del califfo, simbolo dell’espansione universale dei califfi


umayyadi di Cordova
Mai presente sul campo di battaglia né sulla terraferma né sul mare, il califfo di Madīnat al-
Zahrā, «immobile» nel suo palazzo, fu al centro di una straordinaria coreografia di spedizioni
terrestri e marittime. Nel panorama della storiografia araba medievale, il posto riservato agli
affari marittimi è in questo caso eccezionale.
La struttura di questi racconti mette sistematicamente in risalto il ruolo fondamentale del
califfo attraverso la descrizione del cerimoniale che accompagnava la mobilitazione.
A partire dal 933, tutte le descrizioni delle uscite della flotta sono circoscritte all’ambiente
della sala del trono: essa, e non il mare o l’attacco del naviglio, costituiva l’autentico cuore del
racconto. Dal momento che il califfato impose la sua autorità diretta si tutti i porti e le
rispettive flotte, ogni operazione navale doveva figurare negli annali, poiché faceva parte
della dimostrazione della sovranità umayyade, nel quadro del jihād organizzato dal califfo.
La partenza della flotta diventava allora l’occasione per decantare le qualità della superba
armata. L’estensione del campo di battaglia al mare permetteva di ampliare
considerevolmente lo spazio imperiale, fino in Sicilia, dove alcune navi umayyadi attaccarono

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

un’imbarcazione del califfo ismailita, causando una violenta reazione che si concluse nel
saccheggio di Almerìa. Le quattro menzioni, tra il 933 e il 942, di attacchi marittimi condotti
contro le coste cristiane, come pure la carta politica dei possedimenti diretti o indiretti del
califfo umayyade, redatta dai geografi orientali, davano così l’impressione di una notevole
estensione del “territorio” imperiale. Con le rive latine ormai sempre accessibili, anche il Mar
Tirreno, nel suo insieme, fu considerato a pieno titolo come uno spazio di sovranità, che
andava idealmente a estendere il territorio andaluso e del Maghreb occidentale, poiché era
controllato dal sovrano umayyade. La squadriglia di quest’ultimo assicurava il collegamento
tra le varie parti del dominio califfale.

• Il califfato fatimide, un potere rivolto verso il mare

I Fatimidi e il Mediterraneo: una nuova dimensione di legami tra potere


califfale e spazio marittimo
Quando l’armata eliminò l’ultimo emiro aghlabilde, ‘Ubayd Allāh al-Mahdī ereditò un forza
marittima importante dai suoi predecessori: infrastrutture portuali, flotte ed equipaggi
agguerriti. La necessità di avere sotto controllo le rotte tra l’Ifrīqiya e la Sicilia, dal Tirreno
alla Tripolitania, giustificava il proseguimento della politica marittima da un periodo
all’altro. A partire dal 971, con l’insediamento califfale in Egitto non venne meno la volontà
dei sovrani di dominare il mare, almeno nelle loro intenzioni.
La ricchezza letteraria delle testimonianze dell’investimento marittimo compiuto dai
Fatimidi è un primo indizio dei legami particolari della dinastia con lo spazio marittimo.
Se il patrimonio marittimo lasciato dai Fatimidi vi trovò un posto in rilievo, questo avvenne
perché rinviava un’immagine lusinghiera del passato marittimo della città. Gli arsenali del
Cairo facevano parte del profilo cittadino sin dal 971 e, ancora nel XV secolo, simboleggiavano
i legami della capitale con il Mediterraneo e il Mar Rosso. L’epoca è d’altronde presentata
come l’apogeo dell’interesse degli Egiziani per il Mediterraneo.

Il mare, dominio del califfo


L’amministrazione dell’arsenale, che dipendeva dalle Finanze, ci è nota principalmente
attraverso opere di epoca ayyubide. Saladino su l’ultimo visir dell’ultimo califfo sciita e, a
questo titolo, governò il paese rispettando le tradizioni del governo ismailita, aspettando la
scomparsa dell’ultimo imām.
Diversi personaggi eminenti coinvolti in questi servizi marittimi hanno descritto il
funzionamento degli arsenali sotto l’amministrazione degli imām. I Fatimidi furono degli
innovatori in materia di organizzazione dell’attività commerciale. Essi mobilitarono tutti i
mezzi di espressione legati al mare per farne strumenti della legittimazione ismailita:
urbanistica, architettura, produzione scritta amministrativa, cronografica e giuridica, ma
anche poesia furono usate per promuovere un califfato che voleva dominare e amministrare
il mare, divenuto spazio imperiale, e non più frontiera. La rivalità con gli Ummayadi ebbe
l’effetto di stimolare fortemente questa promozione.

Gli emblemi marittimi dell’universalità fatimide


Modi differenti ma complementari di definire il rapporto dell’imām con il mare si trovano in
due descrizioni della costruzione della capitale Mahdia. Il qādī al-Nu’mān, nella sua cronaca
incentrata sulla conquista del potere in Ifrīqiya nel 958, presenta brevemente la fondazione
della città stabilendo uno stretto legame tra la pianificazione dello spazio e la natura profetica
dell’avvento della dinastia. Due opere principali costituivano l’emblema del potere dinastico:
le mura che sbarravano l’istmo. Lo spazio portuale e la banchina entrambi simboleggiavano
l’apertura sul resto del mondo attraverso il mare.
La flotta appare fin dalla nascita del califfato, come uno degli strumenti fondamentali
dell’espansione universale dell’ismailismo.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Il potere ismailita diede ben altre garanzie della sua volontà di integrare lo spazio
Mediterraneo nella sfera della sovranità califfale. L’inclusione sulla scena narrativa di
aspetti relativi all’amministrazione dei porti, compreso il deposito delle armi, ne è una delle
più evidenti dimostrazioni.
Una sana gestione della flotta rappresentava uno dei settori privilegiati della dimostrazione
dell’infallibilità del califfo ispirata dai suoi antenati, legame spirituale che, secondo la
dottrina ismailita, risaliva fino al Profeta attraverso Fatimida.
Nelle due capitali, la “Casa del mare”, collocata al centro degli arsenali, richiamava il fatto
che il califfo era il sovrano degli spazi marittimi.

Il mare e l’aldilà, spazi di legittimazione dell’Islam ismailita


Quali erano i contenuti dei discorsi trionfalistici che accompagnavano le sfilate della flotta?
Lo slancio lirico rievoca probabilmente quello dei racconti riferiti al periodo della conquista
araba, per quel che concerne gli assalti contro Costantinopoli, ma al posto della capitale
bizantina gli imām sciiti avevano come obiettivo, almeno in un primo tempo, il predominio
sul Mediterraneo. Il Mediterraneo rimaneva uno spazio di confronto, ma ormai i califfi
ismailiti erano i soli a potere incarnare lo spirito del jihād sui mari a permettere all’Islam di
acquisirne il dominio.
Il mare aveva preso il posto di Costantinopoli ed era dunque diventato lo spazio della vera
fede. Il suo dominio doveva aprire il tempo dell’eschaton. La flotta era diventata lo strumento
di Dio contro il nemico cristiano e il mare la scena del trionfo dei Fatimidi, nonché lo spazio
imperiale per eccellenza. Il racconto della cerimonia del ritorno mette in risalto per aver
saputo dar prova di grande competenza come marinaio e come capo militare.

L’irraggiamento ismailita sugli orizzonti cristiani: una ricomposizione


del Mediterraneo fatimide
Sotto i Fatimidi del Cairo, i documenti che rievocano le relazioni con gli Stati cristiani intorno
al Mediterraneo mettono in evidenza l’attaccamento della dinastia nei confronti della Sicilia.
A causa della scomparsa totale degli edifici principeschi e della carenza di testimonianze,
limitate ad alcune tracce scritte, il cerimoniale ismailita non ha rivelato i sui segreti,
soprattutto quelli che concernevano le relazioni con i nemici dell’Islam. Di conseguenza,
l’ambiguità dei legami stabiliti con la Corona normanna dai sovrani sciiti appare manifesta.
Il duraturo attaccamento dei musulmani alla Sicilia, considerata da sempre come una terra
islamica da riconquistare, può spiegare in parte la volontà degli imām ismailiti di riservare
un posto importante alle relazioni con i re infedeli e di presentare la situazione sotto forma
di un’influenza ismailita esercitata su questo ultimi. Anche altre fonti, come i trattati dei
giuristi musulmani, hanno lasciato numerose testimonianze sui legami mantenuti tra le
genti dell’Islam e le popolazioni islamiche dell’isola, fino allo scorcio del XII secolo.
Il resoconto dei letterati arabi sulle relazioni dei califfi con i Normanni cambia un po’ il senso
di questi rapporti, non più caratterizzati dal tradizionale confronti militare (la speranza di
una riconquista era diventata totalmente vana nel XII secolo), bensì dall’interpretazione del
cerimoniale dei re normanni che imiterebbe quello dei sovrani del Cairo. L’uso di oggetti come
il velo che nasconde il sovrano, il taj o “corona” e soprattutto il parasole agli occhi dei
musulmani manifestava la natura islamica della sovranità normanna. Mantello, trono e velo
erano presentati dai califfi come gli attributi di Maometto, ripresi dagli imām: il primo
ricordava l’abito del Profeta, il secondo il suo viaggio notturno e il terzo la dissimulazione del
suo viso.
Al-Maqrīzī indica Giorgio d’Antiochia, il consigliere più vicino al re normanno, come il
principale responsabile dell’elaborazione di questi legami privilegiati tra le due sovranità e,
di conseguenza, della supposta influenza dei califfi sulla monarchia normanna.
Giorgio si recò a più riprese al Cairo, come inviato del re e intermediario ideale: forte del suo
ascendente sul re normanno, organizzò il cerimoniale reale, riconoscendo così la duratura
influenza dei Fatimidi sulla Sicilia. I numerosi studi sul cerimoniale normanno ne hanno

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

rivelato il carattere complesso, legato a molteplici fonti di ispirazione. Gli elementi di


ispirazione arabo-islamica, associati anch’essi a vari modelli iconografici e architettonici
provenienti dalle diverse parti del mondo musulmano. Rafforzavano la dimensione imperiale
e universale della rappresentazione del potere regio dei Normanni e ne sottolineavano
l’ambizione espansionista, soprattutto ai danni dell’Islam.

VII. Il Mediterraneo occidentale, ultimo focolaio delle ambizioni


marittime dell’Islam (XII-XIII secolo)

• Dalla fine del califfato umayyade di Cordova al califfato almohade di


Marrakesh
In Occidente, il declino umayyade, a partire dal 1009, non significò l’abbandono dello spazio
marittimo. Tra gli emirati che assunsero il potere sul suolo di al-Andalus, molti possedevano
una flotta al servizio delle loro ambizioni marittime. Gli emiri di Dénia e delle Baleari, in
particolare il fondatore Mujāhid al-‘Āmirī (1010-45), si distinsero riprendendo per conto loro
il jihād sul mare e attaccando la Sardegna nel 1015. La forza navale andalusa e dei porti
occidentali permise all’emiro almoravide Yūsufb. Tashfīn di rispondere alla chiamata degli
emiri andalusi e di sbarcare sul suolo europeo per respingere i re di Castiglia nel 1086,
potendo disporre dei mezzi navali degli emirati.
Dopo essersi impadroniti di Marrakesh nel 1147, mettendo fine alla dinastia almoravide, gli
Almohadi ne intrapresero la conquista di tutti i territori. Dopo Siviglia, nel 1152 presero
Cordova; tutta la ragione orientale, però, resistette fino al 1172 e le Baleari fino al 1181. Nel
frattempo, la potenza navale dei cristiani si era rinvigorita, in particolare quella di Pisa e
Genova, che controllavano rispettivamente le coste della Sardegna e della Corsica. Le due
repubbliche marinare, alleate per condurre grandi razzie, approfittarono del declino
almoravide per attaccare i principali avamposti marittimi dei musulmani di Occidente.
Le rotte del Mediterraneo occidentale, che conducevano alle sponde musulmane, erano già
sotto il controllo di Pisa e Genova quando gli Almohadi ereditarono un’immensa fascia
marittima di cui lo stretto di Gibilterra era il fulcro, tra l’Oceano Atlantico e le coste
mediterranee, fino a Tripoli di Libia, conquistata nel 1161.
È ad ‘Abd al-Mu’min (1130-63), primo califfo almohade, originario della regione costiera di
Hunayn, che toccò il compito di costruire una forza navale necessaria al collegamento tra
l’Africa e al-Andalus, come pure alla conquista dell’Ifrīqiya e al jihād contro gli infedeli.
L’organizzazione della marina permise ai primi tre califfi di lanciare la flotta sulle posizioni
cristiane, dapprima in Ifrīqiya, poi nella Penisola iberica, fino allo sconvolgimento
dell’efficiente macchina da guerra seguita alla morte del califfo al-Nāsir. Ma prima di allora,
le descrizioni arabe del mare mostrano fino a che punto esso fosse diventato uno spazio
familiare alla civiltà musulmana, tanto significativo quanto lo era per le società latine.
• La marina degli emiri di taifa, sulla scia umayyade

Una rivalutazione del ruolo del mare nella rappresentazione della


sovranità degli emiri di taifa
Va rivista l’impressione fuorviante di uno Stato umayyade centralizzato ereditato dai re della
taifa, poiché la presenza di un apparato amministrativo nelle capitali di distretto permise
loro di disporre di una clientela locale in grado di gestire l’emirato a profitto del nuovo
padrone. Per contro, la clientela umayyade e amiride che si impose nelle città regionali si
sforzò di diffondere simboli di legittimità ripresi dai califfati umayyade o abbaside. Alcuni di

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

questi signori, detentori di una forza navale, riuscirono a perpetuare l’immagine della
sovranità andalusa, dominatrice sul mare. Le questioni giuridiche afferenti il mare assunsero
una posizione di rilievo nel corpus legislativo andaluso di quell’epoca, di pari passo alla
prosperità del commercio marittimo.

L’eredità di un mare di legittimazione: il destino marittimo degli Amiridi


di Dénia
La dimensione marittima della taifa, priorità della politica di espansione di Mujāhid e di suo
figlio ‘Alī b. al-Mujāhid Iqbāl al.Dawla, è eccezionale non solo per l’impegno dei due sovrani
sul mare in nome del jihād, ma anche per lo sfruttamento marittimo e commerciale del loro
domini e delle regioni attigue. Il primo dei due, di origine schiavona e al servizio degli Amiridi
come governatore di Tortosa dal 078 al 1009, prese il potere al momento della disgregazione
del califfato e trasformò la modesta cittadina di Dénia fino a quel momento alle dipendenze
di Valenza, in uno dei porti musulmani più attivi dell’area di Sharq al-Adalus. Assunse
inotlre il controllo delle Baleari, centro nevralgico del traffico nel Mediterraneo occidentale.
Mujāhid fu probabilmente il solo emiro andaluso a riprendere dai califfi il tema portante
dell’espansione e del jihād marittimo, per farne il principale elemento a sostegno della sua
legittimità. Seppe infatti trarre beneficio dalle razzie contro la Sardegna.
La Sardegna fu il grande obiettivo militare dell’emiro e se pure questi fallì, militarmente
parlando, davanti a Genova, a Pisa e ai Sardi, i documenti arabi e latini mostrano che l’isola
rimase uno scalo accessibile alle navi di Dénia e Maiorca, anche molto tempo dopo l’insuccesso
del 1015-16. In fin dei conti, il successo principale di Mujāhid fu nelle relazioni diplomatiche
e commerciali intessute con i Latini, in Catalogna, e con i porti del Tirreno, salvaguardando
allo stesso tempo la sua reputazione presso i musulmani grazie al jihād, presentato come
obiettivo principale del suo impegno marittimo.
Suo figlio ‘Alī si distinse per le relazioni diplomatiche e i rapporti commerciali regolati che
allacciò con i Fatimidi. Lui è il padre furono i soli, tra le taifa, a creare un territorio marittimo
volto all’espansione economica. Ancora una volta, sulle orme del genitore, ‘Alī seppe
diffondere un’immagine conforme al suo status di emiro musulmano: con un gesto generoso,
nel 1056, inviò un convoglio di navi che trasportavano grano agli sventurati Egiziani,
duramente colpiti da una carestia. In tale occasione, l’uso propagandistico di quest’altra
forma di jihād, caritatevole e personale, riuscì pienamente: l’impresa restò infatti nella
memoria degli storici, che la registrarono nelle loro opere.

Il potere marittimo degli Almoravidi nel Maghreb e in al-Andalus: un


sovvertimento della popolarità islamica nel Mediterraneo occidentale
La fortuna del più grande porto musulmano dell’Occidente mediterraneo dell’epoca
almoravide sarebbe sopravvissuta a lungo nel ricordo degli Andalusi dopo la sua brutale
distruzione da parte dei Genovesi nel 1147 e la successiva occupazione castigliana nei dieci
anni che seguirono.
Almerìa era nota per la sua ricchezza, ottenuta, tra l’altro, grazie all’espansione marittima.
Benché gli Almoravidi non concepissero che una nave, per quanto magnifica, potesse
rappresentare la legittima sovranità islamica, essi seppero comunque adeguare alla
configurazione del loro vasto dominio, che comprendeva un’area marittima essenziale
l’organizzazione amministrativa e militare dell’immenso emirato.

• Il Maghreb, nuova potenza dell’Islam occidentale

Un nuovo focolaio della potenza islamica nel Mediterraneo


Al-Bakrī, geografo andaluso, si dedicò a un’analisi relativamente dettagliata dei rapporti di
forza delle tribù. Nel descrivere, l’uno dopo l’altro, i territori appartenenti a una tribù o a una
federazione tribale – intorno a una città capitale, spesso una fortezza – e i loro villaggi,

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

l’autore ne elenca sinteticamente ricchezze o capacità militari. Questo insieme di quadri


“ecologici”, secondo i criteri derivanti dalla geografia di Baghdad, gli consente di mostrare
che la vera forza dell’Occidente musulmano non risiede soltanto nella coesione del gruppo,
bensì nello stretto legame esistente tra ciascuna tribù e il territorio che controllava e
sfruttava.
Secondo al-Bakrī, l’altro fattore delle forze dell’arabizzazione e, soprattutto,
dell’islamizzazione che rafforzava la coesione delle tribù. L’adozione dell’islam e la coesione
delle tribù berbere furono elementi chiave della profonda trasformazione della società nonché
linfa vitale per l’ascesa al potere dei Berberi. Quando le truppe sfilano sotto la sua finestra,
al-Bakrī, figlio dell’emiro di Huelva, definisce l’emirato almoravide la principale potenza
della regione, l’unica capace di salvare al-Andalus, divisa e incapace di resistere ai
Castigliani.

La nascita di un area marittima nel Maghreb


I Berberi furono i principali protagonisti del fervore che, dall’inizio del IX secolo, animò
l’ambito marittimo tanto a est del blocco maghrebino. Gli elenchi di itinerari e attracchi, la
descrizione dei porti e delle infrastrutture navali, l’identificazione dei sistemi di difese
costiere, con la registrazione delle aree di ribāt, sono i principali indizi dei legami del
Maghrebini con il Mediterraneo e l’Atlantico, utilizzati da al-Bakrī per illustrare il
dinamismo marittimo del Berberi. I marinai andalusi sono presentati come i discendenti dei
Berberi che si erano insediati lungo le coste orientali, fino a Tortosa. Questo movimento
migratorio si era verificato all’inizio del IX secolo. La colonizzazione berbera riprese durante
il regno di ‘Abd al-Rahmān II e all’inizio di quello dell’emiro Muhammad.

I Berberi, marinai affermati


Quello di cui dà testimonianza al-Bakrī è dunque uno sviluppo globale della navigazione. Il
suo punto di osservazione era il Mediterraneo occidentale, tra lo stretto di Gibilterra e il Mar
Tirreno; i principali protagonisti le comunità di Berberi dei due continenti. La fascia
marittima dell’Africa occidentale divenne uno dei maggiori centri di questo commercio in
Occidente. Dopo i primi attacchi vichinghi, fu da al-Andalus che venne l’iniziativa di tessere
regolari relazioni commerciali con le località delle coste atlantiche e mediterranee delle due
sponde. Al-Bakrī disponeva di un gran numero di notizie provenienti dall’ambito marittimo.
Lo si è già osservato: geografi ed enciclopedisti orientali ebbero accesso a fonti locali o rapporti
conservati nelle cancellerie abbasidi; di conseguenza, la sua iniziativa non era una novità,
ma lo era invece fare del Maghreb il luogo d’origine del dinamismo marittimo del
mediterraneo occidentale nel IX secolo. L’autore consultò carte nautiche a scale ridotta in cui
erano registrati i punti di riferimento costieri che i naviganti utilizzavano per conoscere la
propria posizione, ma in questo modo ci svela una rotta marittima valutata dal largo e non
da terra. Occorre attendere il XV secolo per rintracciare carte nautiche originali, portoghesi
o arabe, seppure solo riguardanti il versante indiano del dominio musulmano.
I dati sembrano indicare che il secolo del califfati fatimide e umayyade fu segnato da un
rinnovamento della documentazione nautica, in coincidenza con gli sforzi dei musulmani di
espansione sul mare e di quelli dei giuristi di regolare la navigazione secondo i criteri
dell’Islam. Al-Bakrī potè ricorrere a una miriade di itinerari e di informazioni orali scritte,
raccolte in epoche diverse, che tuttavia non permettono di datare il momento in cui questi
documenti furono redatti. L’unica certezza è l’intento dimostrativo del geografo circa il vigore
delle attività marittime avviate dagli abitanti del Maghreb. A tal riguardo, egli sottolineava
che i traffici e i porti della costa erano sotto il controllo delle tribù che sfruttavano le risorse
marittime che permettevano loro di versare i tributi agli emiri o di fornire loto barche ed
equipaggi. Questo sistema, però, garantiva anche una larga autonomia. Dilatando
considerevolmente la descrizione dello spazio maghrebino rispetto a quello delle altre regioni
e, in particolare, rispetto alla sua patria, al-Bakrī rivelò così un nuovo policentrismo
dell’Islam occidentale: al-Andalus era relegata al rango di frontiera periferica, mentre

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

l’Oriente sembrava perdere i colpi. LO spazio marittimo, disputato dai due califfati
occidentali nel X secolo, aveva approfittato largamente delle iniziative berbere che da molto
tempo assicuravano una buona parte dello sfruttamento della zona occidentale. Prima dei
califfi furono gli emirati regionali a riuscire a mettere al loro servizio tali forse vitali, in
particolare sul mare. I Rustamidi avevano fatto la stessa cosa con i Berberi ibaditi sul
versante del Sahara.

•Gli Almohadi e il mare, l’ultimo imperialismo mediterraneo dell’Islam


medievale

La flotta e il jihād almohadi


Paradossalmente, fu Saladino a fare, dalla penna del suo segretario al-Fadl, uno dei più bei
complimenti alla flotta almohade. Certo, la lettera che, nel 1190, il suo rappresentante Ibn
Munqid recapitò al califfo al-Mansūr esprimeva la richiesta che «l’Occidente musulmano
aiuta i musulmani, ancor più di quanto l’Oriente infedele non aiuti gli infedeli»; tuttavia, in
essa il sultano riconosceva senza ombra di dubbio l’esistenza di una sola forza navale
dell’Islam in grado di misurarsi con le flotte latine: quella del califfato maghrebino.
Dopo questi successi maghrebini, l questioni di al-Andalus monopolizzarono tutti i mezzi
militari degli Almohadi contro i cristiani: fin dal 1162, il califfo mobilitò l’esercito e la flotta
per una campagna nella Penisola iberica condotta su parecchi fronti, cosa che avrebbe in
effetti giustificato la costruzione di quattrocento navi. Il porto di al-Ma’mūra – costruito sulle
rive della foce del Sebou a nord di Salé – diventò il principale arsenale dell’impero, in grado
di costruire 120 imbarcazioni per la prima campagna navale, che mirava alla conquista del
porto di Bugia.

La messa a frutto dell’eredità


L’organizzazione della flotta almohade è spesso presentata come il puro e semplice risultato
di un recupero della flotta almoravide, passata con armi, bagagli, equipaggi e ammiragli dalla
parte dei nuovi padroni del Maghreb occidentale. Nessun dubbio sulla volontà da parte loro
di approfittare di tutte le infrastrutture e delle flotte, disponibili grazie all’efficiente
organizzazione marittima dell’epoca umayyade fino al periodo almoravide: così, l’aver
radunato gli ammiragli – che comandavano le armate almoravidi permise di organizzare il
blocco di Ceuta e di Orano, unica maniera per impossessarsi di queste città costiere.
L’estensione della fascia marittima nella mani degli Almohadi era considerevole: essi non
riuscirono a recuperare la totalità dei porti dell’epoca almoravide.
Lisbona, la capitale portoghese e i porti della costa settentrionale fornirono mezzi e uomini
ad Alfonso I, il quale costituì la prima forza navale cristiana per far fronte all’Islam sulle
acque dell’oceano.
Sull’altro versante della Penisola iberica, il recupero di Almerìa necessitò di una
mobilitazione eccezionale per operare un embargo che durò quasi dieci anni.
Le lettere della cancelleria almohade giunte fino a noi, oltre a riflettere l’opinione dei califfi,
gettano luce su dati di natura strategica che pongono lo spazio marittimo al centro
dell’impero. C’è un segno che non inganna ed è la relativa abbondanza delle informazioni sul
mare, benché la documentazione califfale disponibile non abbia ancora svelato tutti i suoi
segreti. Il numero di cronache conservate è più alto che sotto le dinastie precedenti e inoltre,
in ciascuna di esse, il mare occupa un posto abbastanza importante. L’intervento delle
squadriglie navali permetteva di mostrare che i califfi potevano colpire ovunque lo
desiderassero e che nessuna terra era loro inaccessibile. Strumento indispensabile in un
impero dove il mare era al centro dello spazio dominato, la flotta diventata una delle armi
essenziali del jihād che Ibn Tūmart e ‘Abd al-Mu’min avevano trasformato in uno dei pilastri
dell’universalità califfale.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Sulla relazione personale del sovrano con l’universo marittimo


La presenza del califfo su una nave, nel 1160, per ispezionare le difese di Mahdia assediata
dalla sua flotta costituiva un fatto raro, se si eccettuano le traversate dello stretto di
Gibilterra. Tuttavia, l’empatia dei sovrani nei confronti del mare e, soprattutto, il loro
interesse personale per la flotta e i marina appaiono di frequente negli scritti. Alcuni discorsi
dei sovrani almohaidi, riportati dalla cronografia che fu loro dedicata, rivelano la
preoccupazione costante per questo spazio.
Gli huffāz erano membri eminenti delle tribù berbere, reclutati per diventare “ufficiali” del
califfato, formati tanto per l’amministrazione quanto per comandare l’esercito e la marina. È
tra di essi che veniva reclutata l’élite dell’entourage del governo, i tullāb. Questa “scuola”
rappresentava lo stretto legame che univa il califfo al mare. Il sovrano, avendo fatto costruire
un bacino nella sua capitale, situata nell’entroterra, su cui poteva svolgersi un
combattimento navale, dava l’impressione di portare il mare a sé; più che una vera
“accademia navale”, quest’ornamento del palazzo, come i suoi giochi d’acqua, e ancor di più
gli esercizi navali che avevano i caratteri di una rappresentazione esprimevano innanzitutto
le ambizioni universalistiche del califfato. Risulta anche evidente il ruolo dello spazio
marittimo nella rappresentazione dell’universalità califfale: il mare che da nutrimento, la
difesa della Dār al-Islām, la protezione del mercante e del viaggiatore erano argomenti che
riguardavano la sovranità, rinviando a riferimenti coranici e affrontando funzioni
fondamentali del governo del califfo, delegate all’ammiraglio, personaggio di primo piano che
siede vicino al sovrano. L’autorità del califfo sul mare non era mai stata teorizzata in modo
tanto netto e preciso.

Un mare familiare
Le prime lettere e i primi diari di viaggio marittimo conservati, nei quali l’esperienza del
viaggio per mare è riservato un posto estremamente importante, risalgono al XII secolo,
quando imbarcarsi per una traversata – per esempio per andare in pellegrinaggio alla Mecca
significava una lunga cesura dalla quotidianità.
Bisogna considerarli il segno di un cambiamento di vedute per quel che riguarda il viaggio
via mare? La sensazione di incertezza tipica di chi si imbarcava. Eredità di una lunga pratica,
il ricorso alla traversata – meno rischiosa su una nave cristiana, meno cara e più veloce
rispetto al viaggio via terra -, così come lo sfruttamento del mare da parte degli abitanti delle
coste testimoniano il ruolo essenziale del mondo marittimo nella memoria collettiva dei
musulmani che vivevano nei pressi del Mediterraneo. Se ne trovano molte tracce nella
letteratura araba di quel tempo. Nel racconto di viaggio di diede sempre più spazio al
trasporto marittimo.

Il mare dei giuristi e dei santi, spazio del diritto e della sacralità
L’attenzione dei giuristi verso i problemi marittimi mette in luce una significativa evoluzione
della società iniziata nel X secolo. Inoltre, a partire dal XII secolo, lo sviluppo dei traffici
commerciali nei porti musulmani, la pratica del viaggio per mare o la guerra navale e i suoi
effetti generarono il bisogno di un inquadramento legislativo più preciso e aggiornato a
proposito del noleggio, delle conseguenze dei naufragi e dello statuto dei marinai. Si tratta di
nuovi fenomeni sociali, come lo statuto delle spose abbondate da parte del marito navigatore,
o ancora le condizioni di viaggio in terra infedele, vietati a priori, che necessitano
dell’intervento del legislatore.
Con lo sviluppo del sufismo, il ritiro in un ribāt – o su un sito elevato che guarda verso il mare
– diventò una pratica ascetica privilegiata, al fine di seguire la via mistica. Lo sviluppo del
sufismo favorì altre forme di misticismo nelle società urbane e nelle comunità rurali, nelle
quali molti di questi personaggi rispettati finirono per assumere un importante ruolo sociale.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

È in questo contesto che l’universo marittimo investe la letteratura agiografica, poiché i


mestieri del mare, ma anche il viaggio o la partecipazione alle attività navali hanno
incoraggiato le vocazioni alla santità. I miracoli, che costituivano la materia principale di
questi racconti, avevano spesso luogo sulla scena marina. Così il mare era diventato uno dei
luoghi privilegiati della teatralizzazione del miracolo, direttamente o per intercessione di un
santo sollecitato da un altri mistico.
Esauritosi l’ultimo califfato mediterraneo, i legami stretti tra gli uomini dell’Islam e lo spazio
marittimo non si allentarono subito. Tuttavia, il declino almohade generò a quel punto un
atteggiamento di diffidenza nei confronti di un mare ormai latino, diffidenza che aveva già
conquistato l’Oriente mediterraneo all’epoca del sultani mamelucchi. Ibn Khaldūn, come tutti
gli altri storici della sua epoca, ritenne che il Mediterraneo fosse ormai perduto per i
musulmani. Tuttavia, le comunità dei porti maghrebini, come Bugia, continuarono a vivere
del mare e a perpetuare quella tradizione di buona marineria che aveva fatto guadagnare
un’ottima reputazione alla regione.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Parte Seconda
Le strategia mediterranee dei califfi.

La maggior parte delle informazioni fornite dai testi arabi tende a riflettere l’immagine di
uno spazio mediterraneo confiscato dai califfi e dalle autorità, in particolare quelle giuridiche.
La percezione cristiana dell’invasione araba del mare dei Romani, nei primi secoli del
Medioevo, rafforza questa sensazione di uno spazio marittimo ridotto a campo di battaglia e
in cui ogni altra iniziativa è vanificata. La scoperta delle lettere della Geniza e lo
sfruttamento di questa vasta messe di dati da parte di Schlomo Goiten hanno smentito l’idea
di un monopolio califfale dell’intervento sul mare per rivelare l’esistenza di un altro
Mediterraneo musulmano: quello dei mercanti accompagnati da devoti viaggiatori che si
recavano alla Mecca o quello degli studiosi che solcavano lo spazio islamico, proprio quando i
Latini se ne impossessavano. La somma delle informazioni procurate dai geografi arabi e,
talvolta, dai documenti esterni, latini in particolare, malgrado la precarietà delle
testimonianze sui secoli “bui”, evidenzia, almeno a partire IX secolo, un’attività ben
diversificata legata al mare e alle rive del mare interno, nel momento e nelle regioni in cui
l’autorità dell’Islam si era consolidata.

VIII. Il Mediterraneo dei due imperi (643-750)

• Mu’āwiya, fondatore della potenza navale degli Arabi


Fin dalla presa di Gaza nel 634, due anni dopo la morte di Maometto, i conquistatori arabi
hanno considerato il Mediterraneo e le terre cristiane rivierasche come uno degli spazi
privilegiati della conquista. Tre sono i principali avvenienti che segnarono gli inizi del
coinvolgimento arabo sul mare, tra il 643 e il 655, e su cui gli storici musulmani e cristiani si
sono soffermati maggiormente: i contrattacchi della flotta bizantina sulle coste siriane ed
egiziane, la battaglia navale di Fenice e gli sbarchi musulmani ad Arado e sull’isola di Cipro.
A partire dal 643, i credenti armati percorsero gli stessi itinerari di cui, prima dell’Ègira, si
erano serviti come mercanti. Gaza costituiva da tempo una tappa fondamentale sulla rotta
commerciale. La presenza di un certo numero di iscrizioni sugli itinerari arabi conferma
l’importanza delle relazioni tra le popolazioni del Vicino Oriente e l’influenza di Bisanzio
sulla regione.
L’assedio di Cesarea, il più lungo nella storia delle conquiste, segnò gli inizi della gloria
militare di Mu’āwiya, ma senza che la presa della città venisse presentata come un successo
definitivo. A disturbare considerevolmente la progressione della conquista araba fu la
presenza della flotta greca, benché questa contasse di un numero limitato di navi, visto che
al tempo i cristiani erano quasi soli sul mare, senza avversari importanti.
La conquista di Tripoli mostra certo i limiti dell’appoggio navale, ma sottolinea anche che i
Greci, respinti degli Arabi sulla terra, trovavano rifugio sicuro a bordo delle loro navi, dove
non potevano essere raggiunti. Dunque, potevano minacciare in ogni momento le conquiste,
Il ritorno dei Greci ad Alessandria, nel 645, rivelò in modo drammatico la recidiva debolezza
data dall’assenza di una politica di espansione sul mare da parte degli Arabi.
Non solo i Greci potevano minacciare le coste musulmane da qualsiasi ormeggio nel
Mediterraneo e comparire senza che le forze arabe avessero il tempo di reagire, ma il
potenziamento della flotta, sotto il regno di Costante II, poteva compromettere la presenza
araba in Siria e in Egitto in qualsiasi momento. La perdita temporanea di Alessandria
confermò la previsione.
In seguito alla prima capitolazione di Alessandria nel 642, ‘Amr b. al-‘Ās aveva dovuto
mobilitare forze considerevoli per riprenderla ai Greci nel 645-6. Tali sforzi lasciavano
apparire una falla strategica che i capi militari arabi non potevano più ignorare: mare e costa

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

non formavano che un solo insieme, indissociabile da un punto di vista militare, e la riva non
poteva essere protetta se non si controllava lo spazio marittimo.
Sia dal punto di vista degli Arabi sai da quello dei Greci, la superiorità sul mare apparteneva
a coloro che controllavano le rotte marittime, attraverso la conquista delle isole principali.
‘Umar non poteva dunque contestare il principio di un necessario investimento marittimo
degli Arabi, dal momento che Bisanzio e, in specifico, Costantinopoli erano diventati i bersagli
prioritari dei musulmani. Il califfo valutò la forza e soprattutto l’esperienza navale dei
musulmani, insufficiente ad affrontare gli espertissimi Bizantini.
‘Umar incoraggiò Mu’āwiya e ‘Amr a creare le condizioni che l’avrebbero resa possibile. Lo
stato soddisfacente delle infrastrutture e dell’amministrazione marittima lasciate dai Greci
nella valle del Nilo permise di approntare, fin dal 643, una spedizione navale, comandata da
Wahb b. ‘Umar. Fu la spedizione inviata nel 648 contro Cipro – una delle basi da cui era
partita la flotta greca che attaccò Alessandria nel 644-5 – a trovare, per prima, risonanza sia
nelle fonti arabe sia in quelle greche. In quanto al saggio ‘Umar, seguito da ‘Uthmān, egli
impose il calendario dei preparativi che avrebbero condotto gli Arabi alla vittoria sul terreno
privilegiato dai cristiani, mostrando così come il comandante dei credenti fosse rimasto il solo
padrone della strategia della conquista.
Alla morte di ‘Umar, nel 644, la presenza araba sulle rive mediterranee rimaneva fragile,
come avevano dimostrato i Greci facendo ritorno nella loro vecchia capitale egiziana. IL primo
impegno di una flotta musulmana con sede a Qurra diventò possibile quando
l’amministrazione araba fu in grado di organizzare una spedizione – allo scopo di fornire La
Mecca e Medina di grano – con la partecipazione della vecchia dirigenza greca o egiziana.
Nondimeno, il ripristino delle strutture materiali e amministrative, nonché la mobilitazione
al servizio del nuovo impero delle competenze autoctone, permisero ai musulmani di
intraprendere un’espansione a lungo termine sul Mare Egeo.

•L’applicazione di una strategia marittima


Con l’accordo di ‘Uthmān, il suo parente Mu’āwiya, governatore della Siria, ebbe
l’opportunità di mettere in pratica una strategia che doveva permettere di allontanare il
pericolo bizantino. Il Mediterraneo si controllava a partire dalle isole. Cipro fu attaccata nel
648 e poi di nuovo nel 652-3.
Le guerre contro i Sasanidi e le rivalità tra pretendenti al trono del basileus avevano
indebolito le difese dei Bizantini in Anatolia, e le trasformazioni della marina non erano in
programma. Le offensive arabe in Armenia e in Asia Minore non poterono essere fermate
prima del 653, con il ritorno al fronte del giovane imperatore alla testa di un esercito, di nuovo
operativo. In compenso, l’Africa bizantina cominciò a cedere. In Italia, i Longobardi
rappresentavano una minaccia fino al Sud e la Sicilia sembrava l’unica regione al sicuro.
Il basileus perdeva così l’importante appoggio che veniva dalle sue province africane. IN
effetti, l’Africa e l’Italia meridionale – continentale e insulare – fornivano da molto tempo,
con la flotta dell’annona, non solo grano, ma anche mezzi navali essenziali. Nello stesso
tempo, sull’Egeo, i musulmani, che disponevano di infrastrutture, navi ed equipaggi,
potevano rivaleggiare sull’acqua con i Greci. Nel 655, la vittoria navale di Fenice fu un
avvenimento considerevole.
Comunque si fosse svolta la battaglia in mare aperto, a quanto sembra vinta per un riuscito
abbordaggio contro le navi greche, e per quanta risonanza avesse avuto la vittoria, il successo
sanciva la capacità dei musulmani di contendere ai Greci la supremazia marittima. I
Bizantini, più esperti, furono indeboliti della perdita di coste, vitali per la loro potenza:
l’Anatolia, i Balcani o l’Italia, e soprattutto il Mar Nero, non erano in grado di compensare, a
quel tempo, le coste africane e asiatiche che fornivano una buona parte dell’armamento
navale, almeno fino a quando Costantinopoli non divenne il grande arsenale della flotta
imperiale. La vittoria di Fenice permise agli Arabi di intraprendere ripetute operazioni in
mare, prima che l’imperatore Costante II e i suoi successori reagissero.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Nello stesso tempo si riorganizzò la forza navale bizantina: Costantino IV (668-85) e


Giustiniano II attuarono una riforma che fu alla base del rinnovamento marittimo bizantino.
L’organizzazione della flotta fu adattata alla nuova situazione creata dalle conquiste arabe e
permise al tempo stesso di proteggere Costantinopoli e di dotare le isole egee, come pure la
costa anatolica, di mezzi di azione efficaci per impedire agli Arabi di raggiungere la rotta del
Bosforo.

Cipro, laboratorio di una strategia insulare


La spedizione navale nel 648, che mirava a Cipro, costituì il primo atto di espansione sul
Mediterranei da parte dei musulmani. L’isola era uno degli snodi essenziali delle vie
marittime tra la Siria, l’Anatolia e l’Egeo. La prima spedizione fu simile a una razzia, per il
modo in cui gli Arabi si lanciarono sulla terra prima di intraprendere la conquista: si concluse
con un accordo con il quale i Ciprioti accettarono di versare un tributo annuo di pari importo
a quello che già pagavano al basileus. Il loro status religioso rimaneva lo stesso.
L’originalità dell’accordo consisteva nel carattere particolare dello statuto conferito agli
abitanti, che trasformava l’isola in una sorta di zona neutra. Nel 652-3, i Ciprioti fecero
appello ai Bizantini, il che comportò una seconda spedizione, motivata, secondo i cronisti
arabi, dalla rottura del trattato. Questa volta, i musulmani avevano deciso di conquistare
l’isola. Il trattamento riservato all’isola rimase nella memoria: gli accordi stabiliti con gli
isolani avrebbero rappresentato in un qualche modo un caso di giurisprudenza.

• Obiettivo Costantinopoli
Le prima spedizioni insulari menzionate, unitamente alle ripetute razzie in Anatolia,
indicano senza ambiguità quale fosse il principale obiettivo degli Arabi una volta regolata la
fitna che opponeva gli ‘Alindi ai sostenitori del califfo umayyade (661): Costantinopoli.
Innanzitutto, occorreva mettere sotto controllo le rotte marittime ì, perché la capitale
bizantina non poteva essere piegata senza l’appoggio della flotta, tanto più che il mare offriva
agli Arabi, così come ai dissidenti bizantini, l’opportunità di raggiungere la capitale più
facilmente che via terra. I racconti dei due attacchi a Costantinopoli, il primo tra il 674 e il
677, il secondo tra il 717 e il 718, sono estremamente imprecisi, si risolsero in due fallimento
consecutivi.
I Greci avevano già reagito dopo la disfatta di Fenice, nel 655, di fronte a questa nuova
potenza navale. La perdita della Siria e soprattutto dell’Egitto, poi del Maghreb avevano
convinto gli imperatori a riorganizzare la forza marittima. La riforma navale fu una tra le
varie misure di una profonda riorganizzazione, in quanto i Bizantini – come poco dopo gli
Arabi – dovevano adattare l’esercito e la flotta alle nuove forme belliche.

• L’espansione araba nel Mediterraneo occidentale

Il Mediterraneo sotto l’autorità dei califfi marwanidi


Malgrado l’esistenza di studi ragguardevoli, il posto occupato dal mare sullo scenario delle
conquiste dell’Occidente mediterraneo rimane molto confuso ed è generalmente considerato
trascurabile. In effetti, nelle fonti arabe non viene menzionato alcun intervento della flotta.
Fu solo in occasione della traversata dello stretto che si fa cenno all’uso delle navi.
Dopo la fondazione dell’arsenale e la costruzione del porto di Tunisi, il governatore
dell’Ifrīqiya e delle regioni occidentali di avvantaggiò, tra il 702 e il 714, del varo di una flotta
che infestò il bacino occidentale e particolarmente le grandi isole: Sicilia, Sardegna, Corsica
e Baleari. Le spedizioni sembrerebbero esserci interrotte tra il 714 e il 718, al momento della
conquista di al-Andalus.
Nel complesso, tutte le operazioni di conquista nell’Occidente mediterraneo, sulla terra come
sul mare, furono su ordine dei califfi di Damasco o dei loro rappresentanti, con i sovrani
umyyadi che pretendevano di conservare il controllo sui governatori e sulle forze armate

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

arabe operative in Occidente, sulla terra come sul mare. Le tradizioni maghrebine o andaluse
hanno trasmesso il ricordo di questa centralizzazione del comando militare sia durante il
periodo sufyanide sia in quello marwide. Come sugli altri fronti, chi era nominato campo
militare deteneva il comando delle operazioni belliche e delle amministrazioni delle regioni
conquistate, ma era tenuto a renderne conto, in particolare a proposito del bottino. La catena
del comando eri identica sulla terraferma e sul mare: il governatore o l’ammiraglio
controllavano l’insieme delle operazioni in nome del califfo. L’arsenale del califfato era sotto
la responsabilità del califfo che, se non poteva occuparsene in prima persona, nominava un
ammiraglio al comando della flotta. Fin da questo periodo, l’arsenale costituisce il simbolo
dell’autorità del califfo sul mare.
La volontà del califfo ‘Abd al-Malik, sostenuto efficacemente da suo fratello, governatore
dell’Egitto, di promuovere una nuova spedizione per portare a termine la conquista dell’Africa
bizantina riguardava anche il settore marittimo centrale e occidentale, ormai accessibile dal
porto di Tunisi. La regolarità delle spedizioni marittime indica chiaramente che il dominio
delle isole era l’altro obiettivo finale, dopo una serie di razzie che dovevano indebolire le
difese.

Razzie e conquista delle isole del Mediterraneo occidentale


Con “razzia” si indica il modus operandi dei musulmani che superano le marche di frontiera
per attaccare la zona di guerra. L’obiettivo annunciato era sempre, idealmente, la conquista
territoriale, che avrebbe per messo di ingrandire la Dār al-Islām, ma solo alla fine dell’azione
si poteva giudicare il risultato. Le cronache registrano le vittorie degli eserciti dell’Islam sui
nemici miscredenti, o annunciando la sottomissione del territorio e registrando le clausole
del trattato di pace, o rievocando il bottino raccolto durante l’incursione. Questo era poi
ripartito tra i combattenti, una volta messa da parte la quota spettante allo Stato, secondo le
regole stabilite all’epoca del Profeta. Nei resoconti, le due fasi della razzia – bottino e
conquista – sono associate, mentre di solito si omettono ai martiri. Nel quadro degli attacchi
condotti contro le isole mediterranee, i cronisti arabi menzionano solo le spedizioni più
riuscite, quelle che hanno condotto a una sottomissione o, più raramente, a un accordo: e
l’importo del bottino ne è la prova.
La cattura di prigionieri e la destituzione dei «re» costituivano la prova della riuscita della
conquista e della sottomissione all’Islam dei tre regni; così Mūsā b. Nusayr è presentato come
il capo che aveva portato a compimento la conquista del mondo, dal lato dell’Occidente,
mentre la Sardegna è designata a più riprese come una terra conquistata, fin dal 708. Altre
incursioni furono condotte negli anni seguenti contro la Sardegna, essendo falliti i tentativi
precedenti. L’occupazione dell’isola fu limitata ad alcuni alunni, almeno fino al 732, e alla
zona di Cagliari. Nello stesso tempo, la presenza di una flotta greca a Siracusa aveva impedito
lo stabilirsi di musulmani in Sicilia. I Bizantini avrebbero approfittato della cessazione degli
attacchi – al momento della conquista di al-Andalus e dell’assedio di Costantinopoli, nel 717,
che mobilitarono tutte le forze navali musulmane, per riprendere possesso della situazione.
Fin dal 728, le offensive musulmane contro la Sicilia, indebolita da una vittoria della flotta
egiziana nel 735, ripresero regolarmente e la capitale bizantina, Siracusa, fu assediata
ancora una volta nel 737. Una fase di tregue nel Maghreb, dopo le rivolte berbere, permise di
lanciare nel 752, da Tunisi, un’ultima spedizione che mirava alla Sicilia e alla Sardegna.
Le menzioni delle spedizioni navali promosse sotto il governo umayyade, selezionate dai
cronisti dei califfi, e in particolare gli insuccessi temporanei o duraturi per quanto riguarda
l’occupazione delle grandi isole, possono quindi dimostrare che i califfi iracheni ebbero
l’intenzione di riprendere la stessa politica di conquista del Mediterraneo degli Umayyadi,
partendo da dove questi l’avevano lasciata. I compagni del Profeta permisero ai musulmani
di contendere la padronanza del mare romani ai Bizantini, fin dal 655. A tal fine, si servirono
efficacemente delle infrastrutture navali lasciate dai Greci in Egitto e in Siria, e fecero della
flotta un vero e proprio strumento di conquista. Questa dimensione marittima della conquista
araba fu giudicata prestigiosa al punto che, a partire dai IX secolo, gli Abbasidi e i poteri

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

dissidenti che stabilirono la loro autorità nelle regioni conquistate del Mediterraneo fecero
eco alle spedizioni marittime degli Umayyadi, considerandole come la prima tappa di
un’appropriazione del mare e delle isole di cui i califfi di Baghdad intendevano proseguire e
portare a termine la conquista.

IX. Controllare il Mediterraneo: il modello abbaside (metà VIII-


X secolo)

• La “rottura” abbaside nel Mediterraneo: un’impostura storiografica


Vinti gli Umayyadi e assunto il controllo della Siria e delle sue frontiere, i nuovi padroni
dell’Islam resero pubbliche le loro intenzioni in materia di jihād, che si iscrivevano nella
continuità della politica dei loro predecessori. Il coinvolgimento califfale sarebbe proseguito
fino agli anni Trenta del X secolo. La portata dell’offensiva terrestre e marittima del 779
diede impulso alle grandi spedizioni che dovevano consentire l’avvicinamento, ancora una
volta, a Costantinopoli. La perdita di controllo, da parte di Baghdad, delle regioni del
Maghreb e di al-Andalus, così come il rafforzamento dei cristiani a est sotto l’impulso degli
imperatori isaurici e a ovest con l’estensione dell’impero carolingio alle rive latine del
Mediterraneo, furono le ragioni che cambiarono profondamente e durevolmente i rapporti di
forza tra musulmani e cristiani. L’islam non era più in posizione di dominio e, malgrado le
dichiarazioni di intenti dei califfi o degli emiri in Occidente, non poteva più sperare nelle
grandi spedizioni nei territori degli infedeli. Questo equilibrio tra le forze si mantenne più o
meno fino agli anni Sessanta del X secolo, decennio segnato dalla avanzate decisive dei
Bizantini sulla terra come sul mare, con la conquista di Creta.

L’interruzione delle conquiste: la falsa uscita degli Abbasidi dalla scena


mediterranea
Dopo le offensive marwindi, gli attacchi delle flotte califfali subirono un arresti nel 725.
Secondo gli annali musulmani e cristiani, fino al 770 nessuna spedizione navale venne più a
turbare il sonno dei rivieraschi greci e latini, da un’estremità all’altra del mare. Questa lunga
pausa, considerata in generale come un’interruzione della conquista, fu imputata agli effetti
della “rivoluzione abbaside”, e talvolta fu anche presentata come il risultato di una decisione
adeguatamente ponderata dei califfi.
L’orientalizzazione dell’esercito califfale ebbe per effetto di spostare il campo delle
rappresentazioni del jihād verso i valori cari ai soldati delle steppe, abbastanza vicini a quelli
delle tribù arabe, e dunque allontanando la nave e il marinaio dai registri delle
rappresentazioni del combattimento, demandato al solo cavaliere.
Non mancano le prove della preoccupazione dei califfi di preservare l’integrità della costa
musulmana. I sovrani ripresero la strategia di Mu’āwiya e dei suoi successori, vale a dire
conquistare o neutralizzare le isole che permettevano alle flotte cristiane di avvicinarsi alle
coste musulmane. La moltiplicazione degli attacchi terrestri e navali condotti dai Bizantini
fece cambiare le priorità della guerra: la difesa della Dār al-Islām rappresentava ormai
l’impegno principale dei califfi nella guerra, almeno secondo i testi.

La difesa della Dār al-Islām, nuova marca del jihād califfale


Se la “rivoluzione abbaside” pretendeva di segnare una rottura radicale con il califfo
umayyade, le opzioni del jihād si iscrissero invece nella continuità con l’epoca della conquista.
La nuova dinastia non ne decretò ma l’interruzione, ma fu obbligata a tenere conto del

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

rafforzamento di Bisanzio, della comparsa del potere carolingio e della situazione delle
frontiere orientali di fronte ai Turchi.
Le disfatte di Poitiers nel 732 e sul fiume Berre nel 737 e ancora, nel 751, la perdita di
Narbona, capitale dei musulmani in Gallia dal 719, rivelano la forza crescente dei Pipinidi
nel Sud della Francia attuale. Nello stesso tempo, la crisi provocata dalla rivolta dei Berberi
e le rivalità tra i clan arabi di al-Andalus avevano lasciato spazio alla ricostituzione di un
regno cristiano nella penisola. In seno all’impero, la disfatta umayyade sul Grande Zeb aveva
provocato il crollo del califfato umayyade. Ben presto, sotto il regno di al-Saffāh, le truppe di
frontiera ripresero le razzie contro Bisanzio.
Altra eredità umayyade, la costa siro-palestinese, posta sotto il controllo diretto del califfo,
costituiva il prolungamento della frontiera bizantina. Al-Mansūr impartì l’ordine di
ripristinare i porti e le difese davanti al mare e di trasferire l’ammiragliato da Alessandria a
Tiro. Subito dopo la conquista dell’Iraq, califfi abbasidi di preoccupavano di rafforzare
l’amministrazione delle zone del fronte, minacciate sia per terra sia per mare dagli imperatori
isaurici.
La seconda fare della controversia iconoclastica, alla fine dell’VIII secolo, diede l’opportunità
ai califfi di rilanciare le grandi visite di ispezione a cavallo attraverso l’Anatolia, con il
sostegno delle squadre navali, e addirittura di aggiornare per un breve periodo il grande
progetto al quale gli Umayyadi avevano dovuto rinunciare: la conquista di Costantinopoli.
Fino all’838, parecchie spedizioni sfondarono le difese bizantine, rendendo la Penisola
anatolica più vulnerabile, Ma nello stesso tempo, il rafforzamento militare dei Bizantini non
permise né ai cristiani né ai musulmani di conquistare un vantaggio decisivo: le stesse
frontiere musulmane subivano gli attacchi dei cristiani.
La difesa dell’impero divenne la preoccupazione maggiore. Tenendo conto dei dati di natura
strategica, i sovrani, alla ricerca di legittimità attraverso la guerra, fecero dell’enorme sforzo
di messa in sicurezza delle frontiere la base di un nuovo jihād califfale. Diedero dunque
precedenza alle iniziative che avrebbero impedito alle forze nemiche di aprire varchi nelle
frontiere dell’Islam, per mare e per terra, cosa che non escludeva affatto ulteriori attacchi in
territorio nemico per terra e per mare. Le razzie in Anatolia e per mare non cessarono mai e
portarono alla conquista di molte isole, soprattutto nell’Egeo. A partire dall’827, l’intervento
musulmano a Creta e in Sicilia, dopo quello a Cipro e nelle Baleari, consolidò il potere
islamico sul mare. La considerevole quantità di opere difensive sulla frontiera califfale fa
pensare che la protezione delle coste fosse uno dei più ambizioni programmi portati avanti
all’epoca. Nel contempo, le virtù del jihād furono riprese e adeguate alle norme di
combattimento, considerate più valorizzanti e che erano circoscritte alla frontiera.

• La sovranità abbaside nel Mediterraneo

La volontà di una dominazione universale


Dopo la formazione, in Occidente, di emirati indipendenti del califfato – gli Umayyadi in al-
Andalus a partire dal 756, gli Idrisidi e i Rustamidi nell’Africa centrale e occidentale alla fine
dell’VIII secolo -, varie testimoniante dell’interventismo dei califfi nei territori dissidenti
dell’Ovest provavano fino a anche punto i sovrani considerassero tutto lo spazio del
Mediterraneo islamico come parte del califfato.
L’influenza intellettuale e culturale di Baghdad su tutta l’area islamica si rivelò un’arma
molto più efficace e riguardò l’insieme delle nazioni dell’Islam, fino alle sponde atlantiche.
Nel fornire informazioni sulla loro regione, i letterati egiziani confermano il disinteresse dei
califfi abbasidi nei confronti delle città costiere dell’Egitto – tra cui Alessandria – fin dal
momento della conquista.

La diplomazia abbaside
Le ambascerie, la circolazione delle lettere o, ancora, l’accenno a viaggi compiuti da
messaggeri sono buoni indizi per quel che riguarda l’intensità delle relazioni diplomatiche

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

tra gli Stati che si affacciavano sul Mediterraneo. E numerose menzioni della circolazione dei
rappresentanti delle corti imperiali, califfali, della Curia romana, dei principati e degli
emirati sono prove dell’esistenza di relazioni ininterrotte tra sovranità cristiane e
musulmane, intorno al Mediterraneo. Anche gli scambi tra capitali avevano una lunga
consuetudine. I Pipinidi inaugurarono i rapporti diplomatici con i sovrani musulmani: Pipino
il Breve nel 765 inviò degli emissari ad al-Mansūr, e questi ritornarono accompagnati degli
ambasciatori del califfo, salpando dalla costa siriana per sbarcare poi a Marsiglia. La
delegazione califfale rimase circa tre anni nel regno franco prima di tornarsene in patria.
Come di consueto, il contenuto delle conversazioni non è precisato: ad attribuire valore
all’iniziativa è l’elenco dei doni, che rispecchia la potenza del sollecitatore, il quale doveva
così impressionare il suo interlocutore. Gli scambi di ambasciate tra Carlo Magno e i califfi
furono avviati nel 797.
La motivazione più spesso avanzata per queste missioni, in assenza di frontiere comuni tra
l’impero carolingio e il califfato, è quella di alleanze di circostanza contro i nemici comuni del
momento: dal lato carolingio, furono gli Andalusi a essere presi di mira, in particolare nel
767, ma anche i Bizantini, diventati avversari dei due imperi da quando Pipino il Breve aveva
deciso di intervenire in Italia. Dopo la consacrazione a re d’Italia del figlio Carlo Magno,
Pipino, e le relative conseguenze sulle relazioni con Costantinopoli, indebolite dalla crisi
iconoclastica, fu ancora la Penisola a essere oggetto di discussioni con i musulmani, quando
nell’806 il Veneto e la Dalmazia furono attaccati dall’esercito franco.
Per i califfi, era importante innanzitutto l’essere riconosciuti come i soli sovrani musulmani
del Mediterraneo. Dal canto loro, i Carolingi erano in guerra contro gli Umayyadi sul fronte
catalano e avevano intenzione di assumere la sovranità delle coste italiane, fino ai confini con
lo Stato Pontificio. Una volta incoronato Carlo Magno imperatore, l’impero carolingio dovette
apparire come una delle grandi potenze del Mediterraneo. Il ricevimento e l’invio di
ambasciatori permisero al califfato di Baghdad di ricollocarsi anche nel cuore degli affari
mediterranei, come interlocutore diretto degli avversari cristiani, ricordando nella stessa
occasione ai sudditi musulmani che la guerra, come la pace, rientrava unicamente nella sfera
dell’autorità califfale: il Mediterraneo occidentale non era più governato dal califfo, ma
rimaneva lo spazio sovrano del comandante dei credenti. La presenza dei suoi ambasciatori
nelle corti imperiali del mondo cristiano ne costituiva il simbolo più evidente.

L’amministrazione marittima di fronte a Bisanzio


In seguito al disastro del 717 davanti a Costantinopoli, nell’Egeo non furono più segnalate
navi musulmane, mentre i Bizantini poterono riprendere l’offensiva sull’acqua. Come sul
fronte terrestre, il califfo delegava il controllo dell’organizzazione marittima, della navi e
degli equipaggi lasciati dall’eccellente amministrazione umayyade, e affidava il comando
delle squadriglie ai suoi clienti. Inoltre, in occasione della ripresa delle grandi incursioni
condote dali eserciti califfali in Anatolia, al-Mahdī e i suoi successori poterono contare sulle
froze navali che al-Mansūr aveva mobilitato con l’obiettivo di proteggere le coste contro la
flotta greca e di sostenere le truppe a terra.
Vi sono molti segnali del fatto che nella nuova regolamentazione abbaside il fronte egiziano
fu emarginato, a cominciare dal silenzio su eventuali spedizioni navali. Il mal funzionamento
dell’organizzazione navale messa in piedi dagli Umayyadi. I porti egiziani restarono
operativi, soprattutto dopo la presa di Creta, ma l’antica capitale non era più la sede
dell’ammiraglio.
Il nuovo spiegamento di forze navali nei porti siro-palestinesi di Ascalona, sulla frontiera
bizantina, assume importanza nell’ambito della riorganizzazione del jihād sulla frontiera
anatolica. I porti di Tripoli e Jable erano i più attivi, data la vicinanza, la manutenzione delle
difese portuali lasciava a desiderare, come Ascalona, che verso il 900 fu attaccata dai
Bizantini, che approfittarono delle condizioni del porto per catturare una grande quantità di
musulmani.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

L’Egeo tra IX e X secolo: mare di pirati o mare abbaside?


Se il declino militare dei porti egiziani, come quello di Alessandria, si può imputare in una
certa misura alle riforme abbasidi, nondimeno sulle coste egiziane i califfi adottarono la
politica marittima dei loro predecessori. Il ruolo di coordinamento del califfato appare
essenziale per comprendere i movimenti marittimi dei musulmani. Finché furono presenti
sul fronte anatolico, fino all’838, i califfi approfittarono dei mezzi navali a loro disposizione.
L’uso della flotta per razzie e commerci costituiva una rilevante fonte di reddito, e il suo
controllo offriva la possibilità di condurre una guerra personale, potendo fornire mezzi
sufficienti ai capi locali per emanciparsi dall’autorità governativa. La posta in gioco era
grande, ragione per cui i califfi, quando ne ebbero la possibilità, reagirono.
La manutenzione della navi, l’ingaggio dei marinai, le operazioni navali stagionali e
l’amministrazione dei porti rientravano sotto la sola responsabilità degli ammiragli e degli
equipaggi che decidevano delle operazioni. È questo grado di autonomia che ha indotto gli
storici moderni a osservare che i comandanti delle spedizioni furono lasciati liberi di agire.
Tuttavia, essi non hanno tenuto conto delle parole dei cronisti arabi, primo fra tutti al-Tabarī,
che riferiscono di forze armate inviate per mettere fine alle azioni dei capi locali, nel caso
avessero attentato agli interessi del califfato. Spesso bastava la solo minaccia.
Per circa 170 anni, il governo del settore musulmano del Mediterraneo orientale era stato
nelle mani dei sovrani iracheni, benché l’autorità califfale fosse stata a più riprese turbata
dai tentativi indipendentisti. Ancor più che l’impegno navale, fu la distesa costiera a
rappresentare l’investimento più significativo: quello che rimase nella memoria.

• L’impegno abbaside nel Mediterraneo: controllo marittimo e difese


costiere

I volontari del jihād e i più eruditi in armi: un impegno sotto controllo


La difesa delle coste si inseriva in una linea di continuità con le misure prese dai loro
predecessori e non aveva nulla di originale. Fin dall’inizio delle conquiste, gli Arabi, poiché
avevano incontrato una forte resistenza da parte dei porti siro-palestinesi, ben protetti e
riforniti dalle flotte bizantine, avvertirono la necessità di proteggere i siti costieri contro un
possibile ritorno dei nemici. Se rottura ci fu tra il periodo umayyade e quello degli Abbasidi,
non scaturì dalla necessità, evidente sotto entrambe le dinastie, di proteggere la costa e di
espandersi sul mare, ma piuttosto si originò da un’evoluzione del discorso sul jihād, adattato
alle nuove priorità della guerra. Minacciata dalla flotta del basileus, divenuta molto più forte
grazie alle riforme dei sovrani isaurici, dopo il 717, la costa, come le marche di frontiera,
apparve a quel punto quale luogo ideale dell’adempimento del jihād, simboleggiato dalla
pratica del ribāt. Restiamo assai poco informati su dispositivi militari, amministrazione dei
luoghi fortificati e delle guarigioni e, più in generale, modalità di finanziamento di questa
immensa frontiera. È spesso l’archeologia a offrirci informazioni più precise sugli aspetti
tecnici della difesa e sull’architettura militare.
A parte il Vicino Oriente, tre regioni, in modo particolare, hanno conservato tracce scritte o
materiali dell’attuazione di una difesa costiera, sempre con l’appoggio interessato della
autorità. Gli Abbasidi, gli Aghlabidi e gli Umayyadi imposero lo stesso programma alle zone
costiere che governavano. Similmente altre regioni si dovettero difendere dalle loro
incursioni. Gli uomini di lettere arabi attribuiscono il merito di aver fatto costruire
un’innumerevole quantità di punti di difesa alla figura del principe e all’impegno individuale
dei pii uomini. L’influenza dei giuristi di Baghdad e di quelli che praticavano il ribāt nelle
città delle frontiere – terrestri e marittime – della Siria fu determinante: dietro questa
immagine devota del jihād si profilavano altri interessi, finanzieri e materiali.

La ricompensa del murābit e i guadagni sulla frontiera: affari di Stato

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

La lettura dei testi prodotti dalle vittime della violenza reiterata e istituzionale generata dal
carattere permanente del conflitto tra musulmani e cristiani si è sempre tradotta, per il
momento, nella constatazione di una crisi unilaterale, che investiva tutti i paesi affacciati sul
Mediterranei. Eppure, la guerra non è stata soltanto una fonte di impoverimento, bensì –
tutt’al contrario – la base di un’economia ad alto rischio ma proficua per alcune categorie di
popolazioni delle frontiere. Quanto ai testi arabi che descrivono la strategia dei sovrani
musulmani, essi evitano ogni riferimento ai finanziamenti impiegati per la costruzione del
ribāt, se non per indicare la generosità di alcuni ulemā e dei pii sovrani.
Dal IX secolo, l’intervento delle truppe, il numero di costruzioni reperite dagli archeologi o
citate nelle fonti arabe, le menzioni delle opere concernenti le città portuali, il coinvolgimento
delle flotte o la concessione di terre agli uomini vicini al potere rappresentavano tutti forme
diverse di investimento, nel complesso abbastanza considerevoli, e pongono la questione dei
mezzi di cui disponevano allora i governi e le popolazioni interessate: la guerra ha sempre
alti costi ma, nel IX secolo, generò un movimento umani ed economico che segnò
profondamente il Mediterraneo medievale e che richiama sviluppi analoghi, benché assai più
documentati, sulle sponde latine.

Le origini di un jihād istituzionale


Nel periodo umayyade la città di Alessandria beneficiava di un finanziamento – alimentato
– che permetteva di mantenere i soldati poveri e i volontari. Il sistema si evolse sotto gli
Abbasidi ì, con il trasferimento dell’amministrazione a Fustāt prima della fine del VIII secolo.
Questa riforma fece sì che i volontari non potessero più essere retribuiti sul posto, tuttavia
poterono continuare a godere dell’ospitalità e del mantenimento da parte dei devoti
alessandrini. Fu soprattutto alla fine del periodo umayyade che il numero dei volontari
aumentò, ossia quando i Bizantini diventarono molto più minacciosi e quando l’avanzata dei
credenti iniziò a perdere vigore. Le prima opere a codificare la pratica della guerra e
dell’ascesi furono composte dagli eruditi in armi della frontiera alla fine dell’VIII secolo, sotto
l’impulso dei sovrani e proprio nel momento in cui vi erano presenti. I pii letterati siriani
aprirono la via alla pratica del ribāt su tutte le frontiere, grazie all’appoggio interessato della
autorità.
La città del Delta rimaneva un luogo di ribāt molto frequentato, ma la sua reputazione venne
innanzitutto dallo sviluppo delle scienze giuridiche. In materia di difesa, la politica di
spiegamento di soldati negli edifici fortificati lungo le coste dell’Ifrīqiya metteva in risalto
l’evidente necessità di proteggere i luoghi più esposti, che erano anche i più popolosi.

Guerreggiare sulla frontiera: un buon affare?


Nel bacino mediterraneo lo spazio di frontiera e, in particolare il litorale, diventò in luogo
privilegiato d’intervento degli Stati e, perciò, una zona di importanti investimenti. Esso
richiedeva un impegno considerevole visto che i siti ed edifici destinati ad accogliere soldati
e volontari necessitavano di somme rilevanti sia per la costruzione delle difese sia per la
retribuzione dei combattenti, stabilitisi colà con le loro famiglie. Di conseguenza, lo sforzo
motivato della situazione militare contribuì nello stesso tempo al popolamento delle regioni
costiere e a investimenti duraturi che trasformarono queste regioni marittime in zone molti
vitali. Venne dunque concepito un vero e proprio sistema economico, adottato alle condizioni
di permanenza degli scontri e degli scambi tra zone di confine, particolarmente quelle
marittime. Nelle regioni latine, il sistema feudale ebbe un ruolo essenziale dopo la caduta
dell’impero carolingio e prima che le città-Stato o i poteri regionali in Catalogna e in
Provenza, regi e imperiali altrove, si assumessero una parte fondamentale della difesa, allo
scopo di bloccare l’offensiva musulmana. Così, tutte le rive del Mediterraneo conobbero, in
una situazione di guerra reiterata, un’evoluzione dell’organizzazione sociale.
La pratica di spostamento e sedentarizzazione di gruppi etnici era diffusa già tra le forze
terrestri dei califfi, dall’836, con l’integrazione massiccia di schiavi turchi, la cattura degli
equipaggi era un ottimo affare e poteva concludersi con un arruolamento dei ranghi

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

musulmani. È pertanto difficile determinare una relazione tra origine e competenze


marittime. In compenso, si sa che disporre di marinai competenti costava caro sia per le alte
remunerazioni sia, più spesso, perché si concedevano loro risorse provenienti da redditi
generati dalla guerra o dalla tassazione delle popolazioni locali.
La stabilità delle frontiere ha sempre favorito gli affari commerciali, proficui per entrambi i
campi. Sotto il regno di al-Ma’mūn, nel tentativo di dirottare l’energia dei turbolenti soldati
musulmani sugli scambi, i Bizantini proposero un trattato che avrebbe dovuto rivitalizzare
il commercio drenato dalle antiche “vie della seta” e di cui Costantinopoli restava il mercato
principale. A partire dall’842, si svilupparono delle lobbies che controllavano le fonti dei
redditi di frontiera, derivanti da tasse.
La messa in difesa del litorale rappresentava una posta che andava ben oltre la cornice del
jihād, Il controllo sull’amministrazione fiscale delle regioni di frontiera, la parte prelevata al
bottino riportato dalle zone cristiane, terrestri e marittime, e più in generale il mantenimento
dell’autorità califfale o emirale permettevano al potere di esercitare la propria influenza su
gruppi di combattenti e marinai professionisti, invitati a stabilirsi nelle aree in questione con
le loro famiglie per difendere le marche. La testimonianza di al-Muqaddasī sulle attività del
ribāt palestinesi, intorno all’anno Mille, rivela i legami inestricabili tra jihād e affari sulle
rive musulmane: nella fattispecie, quelli che riguardavano il riscatto dei prigionieri. Più in
generale, il commercio marittimo con Bisanzio, in cui erano coinvolti importi di denaro più
modesti.
La frontiera permise ai clan, generalmente vicini al potere, di sviluppare i loro affari per
mezzo della guerra di incursione, della colonizzazione delle terre e del commercio terrestre e
marittimo, soprattutto tra zone di confine.
La presenza di poteri sufficientemente forti era indispensabile per garantire la stabilità dei
fronti e il libero accesso al mare, ai marinai e ai soldati della frontiera, sia per lanciare delle
offensive, sia per finanziare la difesa e le spedizioni e sostenere il commercio marittimo da
cui si traeva profitto.
Nel momento in cui gli Abbasidi non furono più in grado di assicurare la difesa dei paesi
affacciati del Mediterraneo, gli Hamdanidi di Aleppo diedero loro il cambio, ma non furono
in grado di rispondere alla potenza greca come avevano fatto i califfi, malgrado l’impegno
profuso da Sayf al-Dawla (945-967), celebrato dal grande poeta al-Mutannabī. Quando i
crociati si impossessarono delle coste del Vicino Oriente, a partire dal 1097, fu al califfo
al.Mustazhir (1094-1118) che gli ulemā siriani inviarono una delegazione, malgrado questi
fosse ormai esaurito a vantaggio del sultanato selgiuchide. Gli ulemā sostenevano infatti che
solo l’erede dei sovrani ghāzī – incaricati del jihād e capaci nel passato di fronteggiare i
cristiani – poteva prendere il comando degli eserciti dei credenti a cacciare i crociati. Una
formidabile mobilitazione di uomini e mezzi a favore del jihād, nonché una propaganda di
grande efficacia continuarono a operare ininterrottamente dalla metà dell’VIII secolo agli
inizi del XII.

X. Controllare il Mediterraneo: il risveglio marittimo


dell’Occidente musulmano (IX secolo)

A partire dal IX secolo, il settore occidentale del Mediterraneo si animò sotto l’impulso dei
musulmani. Le menzioni di questo fervore marittimo mettono comunque in luce un
movimento generalizzato che non può spiegarsi con le iniziative spontanee di comunità di
marinai che avrebbero deciso, più o meno nello stesso momento, di guadagnarsi da vivere
lanciandosi nella pirateria contro i Latini e nel commercio con i loro compatrioti.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

• L’alba di una nuova era marittima: il tempo degli Aghlabidi

Espansione marittima e ripresa delle conquiste


Fu Ziyādat Allāh che per primo concepì un vero piano di controllo dello spazio marittimo,
approfittando delle circostanze favorevoli e della riuscita dello sbarco a Mazara, nella Sicilia
orientale, nell’827. Egli organizzò una forza navale permanente che garantiva così il
proseguimento delle operazioni dell’isola. Il sistema fu sufficientemente efficace da sostenere,
per 75 anni, la guerra contro Bisanzio, a partire da Tunisi e da Susa.
Le campagne verso l’interno dell’isola, rese possibili dai rinforzi inviati dall’Ifrīqiya, nonché
numerosi assedi contro Siracusa, Palermo, Messina e altri luoghi della costa – assedi che si
prolungavano talvolta per parecchi mesi – necessitavano dell’uso della flotta, con l’Ifrīqiya e
della capitale siciliana. Gli attacchi condotti contro l’Italia fino alla foce del Po, gli assedi di
Salerno, Ragusa e soprattutto quelli contro la capitale bizantina dell’isola, bloccata per molte
settimane, implicavano una capacità di mobilitazione logistica considerevole.
L’organizzazione navale degli Aghlabidi fu a dir poco decisiva per la riuscita della conquista
della Sicilia.

La flotta e il jihād
Gli Aghlabidi acquisirono esperienza nell’ambito dell’organizzazione della propria forza
navale, cosa che permise loro di disporre quasi continuamente di mezzi per sostenere il jihād
insulare dall’827 al 902. Malgrado l’impossibilità di effettuare calcoli precisi sul numero di
uomini e navigli coinvolti, le 32 spedizioni partite dall’Ifrīqiya, e che necessariamente
mobilitarono importanti flotte nel quadro della conquista della Sicilia, senza contare le
innumerevoli traversate in direzione dell’isola o del continente europeo, danno un’idea dei
mezzi navali a disposizione. Nell’827-8, all’epoca del primo tentativo condotto da ‘Asad b.
Furāt contro Siracusa, la flotta respinse i rinforzi inviati; alla fine, fu l’arrivo di una nuova
squadriglia bizantina a salvare la capitale, cosicché i musulmani furono obbligati a bruciare
le loro navi sul posto prima di addentrarsi nell’entroterra. Nell’831, Palermo, fu costretta a
cedere; nell’835, la flotta musulmana permise di liberare Napoli, alleata di circostanza, dal
controllo di Sicardo, principe di Benevento, il quale cercava di prendere il controllo sui porti
della regione. Nell’840, le rivalità tra cristiani, in Calabria, offrirono l’opportunità agli Arabi
di impossessarsi di Taranto, che diventò da allora il centro nevralgico delle operazioni
musulmane nell’Italia del Sud. Ancona venne saccheggiata nello stesso anno.
Bari cadde nell’849, nonostante la presenza nella regione degli eserciti dell’imperatore
Ludovico II: senza una flotta, la città non poté essere salvata.
Agli inizi degli anni Settanta del X secolo, fu intrapresa una serie di offensive musulmane
della regione di Salerno ad opera di truppe fatte passare da Taranto, mentre Bari ricadeva
nella mani dei cristiani. L’arrivo nell’875 di un nuovo governatore aghlabile nella capitale
siciliana, con contingenti militari rinnovati, rilanciò la guerra di conquista ma fu solo il suo
successore che riuscì ad impadronirsi di Siracusa nell’878.

Il jihād, sbocco necessario della violenza contro il regime


Questo notevole bilancio marittimo non fu solamente il risultato di una sana gestione
dell’apparato navale. Con Maghreb convertito all’islam, il mare, la Sicilia e il Sud dello
Stivale divennero i nuovi campi di battaglia e di razzie degli emiri. Conquistata Palermo, il
clan aghlabide monopolizzò la direzione delle proficue operazioni dell’isola.
L’emiro Ibrāhīm II, sbarcò in Sicilia nel 902 alla testa delle sue truppe, si impossessò di
Taormina, riducendo l’area controllata dai Greci alla zona di Rometta. Gli emiri avevano fatto
della grande isola e dell’Italia meridionale una marca di frontiera, campo di battaglia del loro
jihād.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

•L’iniziio di una nuova navigazione musulmana nel Maghreb e in al-


Andalus

I Berberi della costa, marinai rinomati


Tra il 710 e il 712, l’invasione della Penisola iberica avevano richiesto l’uso di imbarcazioni
per far attraversare lo stretto di Gibilterra a migliaia di soldati berberi e arabi. La costa più
orientale della Penisola iberica in epoca visigota non era ormai che un deserto marittimo.

Lo scontro tra cristiani e musulmani nel Mediterraneo occidentale


La rivolta degli zii dell’emiro di Cordova contro l’emiro al-Hakam I è considerata
l’avvenimento che avrebbe scatenato i primi attacchi marittimi contro i cristiani, ordinati
dall’emiro andaluso. Dopo il loro fallimentare tentativo di controllo dell’arcipelago gli
equipaggi dei porti orientali di al-Andalus sferrarono una serie di attacchi sulle coste
carolinge, incursioni riportate dalle sole fonti latine. Poiché l’emiro non guidò personalmente
queste operazioni né vi è traccia di un suo ordine, fu il governatore della costa a progettare
le spedizioni, ragione che spiega il silenzio degli storici degli Umayyadi. Dopo parecchie
tregue di breve durata, la vittoria terrestre contro i Franchi di Barcellona nell’815, l’anno
dopo la morte di Carlo Magno, portò alla fine di un conflitto, per mare e per terra, cominciato
nell’801 con la conquista carolingia della capitale catalana. Siamo dinanzi a un conflitto tra
poteri regionali e non tra Provenzali e pirati affamati: occorre ricollocare questi attacchi
navali contro le coste cristiane nel contesto della guerra tra i due diversi universalismi divisi
da un mare che, raggiungendo le coste cristiane, permetteva agli emirati maghrebini di
proseguire il jihād, fonte di legittimazione.
L’incremento delle pirateria, secondo i giusto, risultava dall’incapacità delle autorità di
controllare le popolazioni marittime, mentre in realtà, gli attacchi contro le coste cristiane
cominciarono nel momento in cui i poteri regionali musulmani assunsero il controllo dei porti
e dei marina. Per gli emirati maghrebini in cerca di legittimazione, il mare era diventato
l’unica via del jihād istituzionale.
Il successo del jihād in mare, contro i cristiani, si fondò su criteri secondo i quali i Maghrebini
potevano ormai raggiungere le coste degli infedeli e presentarsi quali nuovi promotori del
jihād marittimo. Benché le tradizioni del Maghreb centrale e occidentale che fanno
riferimento a un simile slancio siano poco numerose, esse mettono però in luce una coerenza
complessiva dello sviluppo dell’attività marittima. La congiuntura economica, ancora molto
difficile da definire, e quella della guerra, appena più conosciuta, permettono di dare un senso
alle azioni di questi marinai che attaccavano unicamente i nemici dell’Islam, se si accentuano
le azioni abituali di pirateria e rapina a livello locale. La concomitanza dei poteri maghrebini
non può essere causale.

• La prima marina andalusa (IX secolo)


Prima dell’844, al-Andalus non ebbe frontiera se non quella che separava la Penisola iberica
dalla foce dell’Ebro a Porto Douro. Oltre lo stretto di Gibilterra, la costa orientale si animò,
perlomeno sul piano militare, all’epoca della guerra contro Carlo Magno. Ma furono i
Vichinghi a risvegliare bruscamente il resti dell’immensa area marittima, restata fino a quel
momento sopita.

Un contraccolpo agli attacchi vichinghi: gli Umayyadi e il controllo sul


mare
L’irruzione dei Vichinghi dimostra lo stato delle regioni costiere, abbandonate dai governatori
a dagli emiri umayyadi. Sulla costa occidentale, solo Lisbona fu in grado di respingere gli
intrusi.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Il ribāt andaluso, un modello importato


I combattenti volontari fecero la loro comparsa contemporaneamente sulle coste e sui fronti
terresti, contro i Latini, in particolare nella regione catalana. Queste scorrerie su coste e isole
cristiane, al crescente intensità delle relazioni marittime con il Maghreb e la volontà di
controllare le rotte marittime, incrociando le isole, rivelano l’importanza strategica dello
spazio marittimo per l’emirato di Cordova. Nell’848, il tentativo di acquisire il controllo delle
Baleari, musulmane ed economico del mediterraneo nello spirito delle autorità andaluse, e
ciò ben prima dell’avvento del califfato.

Fitna e sviluppo marittimo andaluso (875-912): un falso paradosso?


La crisi politica che colpì al-Andalus tra l’875 e il 912, conosciuta solo tramite la visione di
Ahmad al-Rāzī, mette in evidenza le divisioni e le debolezze del governo umayyade, prima
della brillante correzione operata sotto il regno di ‘Abd al- Rahmān III e della proclamazione
del califfato nel 929. Nel contempo, la cronaca califfale fornisce gli indizi di una forte crescita
economica di cui le élite e le popolazioni regionali furono artefici e beneficiarie.
Le descrizioni di attività che riguardano il commercio suggeriscono che dalle coste umayyadi
ripresero le iniziative di sfruttamento marittimo. È quel che mostrano anche le relazioni
stabilite con regolarità tra i porti della costa orientale e quelli del Maghreb, dallo stretto di
Gibilterra fino alla regione di Algeri. Il movimento si avviò esattamente nel periodo in cui
cominciava la fitna, nell’875, anno della fondazione di Ténés, sorta per volontà dei marinai
arabi e berberi venuti dalle rive iberiche.
Al-Jawlānī, nominato governatore di Maiorca, fece costruire moschee, bagni e funduq cioè gli
«elementi fondamentali che definiscono una città islamica». Il controllo dell’arcipelago, dopo
numerosi tentativi falliti, fu probabilmente legato allo sviluppo delle relazioni economiche
con il continente, che portarono gli isolani ad accettare questa tutela. Vari capoluoghi
regionali, come Siviglia, approfittarono delle infrastrutture navali e portuali che erano state
realizzate in occasione degli attacchi vichinghi e diventarono empori prosperi dove
giungevano imbarcazioni da tutto il Mediterraneo. L’esempio più documentato e più
significativo di questo sviluppo in pieno periodo di fitna è quello di Pechina. I marinai berberi
sono spesso presentati come i promotori dello slancio all’origine della fortuna navale della
città marittima, prima dell’invasione califfale.
Il successo di Pechina, situata in prossimità della baia di Almerìa, è da attribuirsi a una
congiuntura economica favorevole e ai legami privilegiati stretti con gli emiri umayyadi sin
dalla sua fondazione.
Il XI secolo fu senz’altro il tempo dello slancio musulmano del Mediterraneo occidentale e
orientale, ma l’inquadramento ideologico imposto dal califfato abbaside, seguito dalle censure
dei califfati mediterranei nel secolo successivo, determinarono dei limiti temporali che
tenevano conto dell’interesse califfale a conservare o meno la memoria di certi fatti. Il titolo
assunto dagli Umayyadi e dai Fatimidi implicava in primo luogo la conquista dello spazio
musulmano nella sua totalità e, in particolare, di Baghdad, pur perseguendo il jihād contro i
cristiani e combattendosi gli uni con gli altri. In questo nuovo contesto, il mediterraneo
costituiva, più che mai, il fulcro degli interessi dei tre califfati.
XI. L’imperialismo marittimo dei califfi mediterranei nel X
secolo: la fine del jihād?

La manipolazione letteraria e la cancellazione delle tradizioni anteriori da parte dei letterati


al servizio dei califfi sollevano la questione dell’effettiva esistenza di una rottura economica
tra il IX secolo degli emirati e il X secolo dei califfati nella regione occidentale dell’Islam. Se
una tale frattura ci fu, essa si verificò innanzi tutto nella Penisola iberica e in Ifrīqiya, là
dove fiorirono gli Stati califfali. Ora, è precisamente in queste regioni che gli investimenti
effettuati da due grandi emirati mediterranei, nel IX secolo, sembrano essere stati i più
significativi. I due califfati furono dunque in grado di sfruttare le conseguenze di una crescita

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

le cui basi risalivano al secolo precedente, sia sulle rive di Bisanzio sua su quelle latine.
Questo movimento generalizzato è confermato dallo sviluppo di reti commerciali che
coprirono lo spazio del mare interno, testimoni e attori dello sviluppo generale del commercio
su scala mediterranea.

• Dal mare del jihād allo spazio imperiale

Il jihād dei califfati mediterranei


Il bilancio dell’evoluzione delle politiche califfali nel Mediterraneo mette in luce la relativa
coerenza nella strategia dei due califfati, fatimide e umayyade, poiché entrambi aspiravano
allo stesso scopo: raggiungere Baghdad. La conquista della sede califfale diventava
necessaria per portare a compimento il disegno alla base della rivendicazione di governo
dell’intero mondo islamico.
I registri della propaganda dovevano dunque evolversi, invertendo per la prima volta
dall’avvento dell’Islam il senso della guerra legittima, non più rivolta principalmente alla
conquista dei territori degli infedeli, bensì al centro del dominio imperiale. Di fatto, il profilo
del Mediterraneo presentato dai cronisti dei due califfati della ragione ne risultò
profondamente modificato, passando da uno statuto di spazio intermedio, di frontiera, che si
confrontava con l’infedeltà, a quello di una mare conquistato e governato dall’Islam. La
rivalità tra le due dinastie divenne la principale posta strategica in gioco delle campagne sia
terrestri sia marittime della regione. La diplomazia di intimidazione dei califfi nei confronti
dei sovrani cristiani della Penisola iberica risultò spesso più efficace. L’impegno dei califfi
fatimidi del quadro del jihād, sul mare e sul continente, si concluse con la conquista della
Sicilia del 965 e il ristabilimento del controllo degli stretti, compromesso, a un certo punto,
dalle iniziative navali dei Bizantini. Ciò detto, la conquista dell’Egitto diventò, fin dal regno
di ‘Ubayd Allāh, il Mahdī, l’obiettivo prioritario dei califfi di Ifrīqiya. A tale scopo furono
necessarie quattro offensive, nel 915,919, 935 e nel 969-71, quest’ultima decisa.
Oltre al sacco di Genova del 934, l’altro avvenimento commentato dall’”ideologo” del partito,
il qādī al-Nu’mān, fu la spedizione punitiva condotta contro Pechina nel 954, per rappresaglia
alla cattura di una delle sue navi al largo della Sicilia. La questione nel mediterraneo non
era più il jihād contro gli infedeli, bensì il controllo e la spartizione delle acque marittime tra
sovranità musulmane.

Le flotte umayyadi al servizio delle ambizioni califfali


A segnare l’inizio del jihād marittimo degli Andalusi contro gli infedeli latini sarebbe stato
l’avvento del califfato di ‘Abd al-Rahmān III nel 929. In effetti, per la prima volta dalla
conquista di al-Andalus gli uomini di lettere del califfato censirono le incursioni contro le
coste latine. Al di là delle dichiarazioni a fini propagandistici, i vari episodi che implicano
l’intervento della marina del califfo – padrone dei mari e delle due rive – mostrano che la
mobilitazione della flotta, una delle più imponenti del Mediterraneo, fu attuata
principalmente per la conquista dell’Africa del Nord. La costa catalana e le isole adiacenti,
fino alla Corsica, costituirono i principali obiettivi cristiani della flotta califfale che incrociò
lungo queste coste latine, tra il 933 e il 943, proprio mentre l’emissario del califfo firmava
una tregua con il conte catalano, che avrebbe comportato il riconoscimento della supremazia
umayyade. Nello stesso periodo fu portata avanti una politica diplomatica di ampio respiro,
in particolare con il Sacro romano impero germanico, rappresentato a Cordova da Giovanni
di Gorze, e con i Bizantini che combattevano un nemico comune nel Mediterraneo centrale, il
califfo sciita. La fine del jihād marittimo permise di liberare degli equipaggi per indirizzarli
eventualmente contro i Fatimidi. L’intesa tra Cordova e Costantinopoli, a detrimento dei
califfi sciiti, dispensava il califfo umayyade dall’obbligo di azioni marittime rischiose sulle
acque ismailite dopo il 955. Da allora, egli poté concentrare le forze navali sullo stretto di
Gibilterra e sulla costa occidentale del Maghreb.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Il vero confronto tra i due califfati non ebbe luogo sul mare, ma sulla terra maghrebina.
Occorreva che i califfi concentrassero i loro sforzi sull’Africa e mobilitassero la flotta per
traghettare i rinforzi o per pattugliare le coste africane. A parte alcuni allarmi relativi ad
attacchi vichinghi senza reali conseguenze la costa andalusa non fu molto minacciata.
Ibn Abī ‘Āmir al-Mansūr, dopo essere solito al potere a scapito dei comandanti storici del
califfato si lanciò in una serie di campagne militari spingendosi addentro in terra cristiana,
talvolta fino ai piedi dei Pirenei.
Eluse la rivendicazione del califfato universale, che comprendeva la conquista di Baghdad,
dando invece spazio a una guerra sistematica contro i cristiani della Penisola. Il mare non
rappresentava più un terreno di legittimazione poiché la conquista dell’Oriente non era più
all’ordine del giorno.

I jihād marittimi dei Fatimidi, dalla Sicilia al Bilād al-Shām


Dopo la proclamazione del califfato, nel 909, il califfo ‘Ubayd Allāh e suo figlio al-Qā’im molto
dovettero agli emiri aghlabili, specialmente per l’organizzazione navale che questi avevano
lasciato. Tale eredità permise loro di organizzare una serie di campagne marittime a spese
dei territori bizantini in Sicilia e nell’Italia del Sud. Nel 915 che ebbero inizio le campagne
d’Egitto, senza flotta. Una volta pacificata la Sicilia musulmana, nel 917, il sovrano non trovò
più l’opposizione navale dei dissidenti aghlabili sulle acque territoriali del califfato e poté
quindi rilanciare il jihād nell’isola e sul continente.
Tra il 927 e il 930, Otranto, Taranto ì, la regione di Salerno e Napoli subirono ripetuti
attacchi, e anche l’Adriatico ne fu investito. Al tempo del califfato di al-Qā’im, il nuovo
fallimento della conquista dell’Egitto, nel 937, le spinte indipendentistiche del governo
siciliano fino al 941 e, soprattutto, la rivolta dei kharigiti sotto la direzione di Abū Yazīd,
conclusasi nel 948, bloccarono le ambizioni marittime e orientali degli imām ismailiti. In
questa rivolta, è da notare il ruolo fondamentale della flotta che salvò la dinastia: Mahdia,
assediata a partire dal 946, protetta dalla formidabile muraglia che sbarrava l’istmo,
resistette due anni grazie ai rifornimenti che portavano le navi del califfo. Susa accolse nuove
truppe inviate da Mahdia per mare che le permisero di respingere gli assalti kharigiti. Questo
ultimo successo segnò l’inizio del ribaltamento della situazione a favore del califfo al-Mansūr.
Fu la qualità dell’organizzazione marittima a permettere al califfo di disporre della migliore
forza navale del Mediterraneo: la flotta, gli equipaggi, gli arsenali e i porti di guerra erano
sotto il controllo diretto dell’imām, per il tramite dell’enuco Jawdhar, incaricato della
gestione. Il risultato sul campo fu all’altezza della propaganda fatta sulle qualità
dell’organizzazione navale.
Grazie ai successi della flotta contro gli Umayyadi e i Macedoni, nel 971, sotto al-Mu’izz la
potenza navale del califfato raggiunse l’apogeo.
Nonostante l’attestazione di alcune operazioni navali, in particolare le incursioni stagionali
nei porti siriani, le forze navali fatimidi furono sollecitate meno spesso in nome del jihād. La
perdita delle due isole strategiche, Creta e Cipro, prima dell’insediamento degli imām sciiti,
nel 971, e l’efficienza della flotta degli imperatori macedoni limitarono considerevolmente il
raggio d’azione delle squadriglie musulmane. Con la crociata, gli emiri egiziani dovettero
rilanciare il jihād marittimo nel XII secolo. Finché le loro squadre furono in grado di tenere
a bada le flotte crociate davanti a Tiro, la città resistette e permise alle navi egiziane di
rifornirsi nelle città e di risalire lungo le coste siriane. La disfatta della squadra nel 1124, di
fronte all’armata di Venezia, permise ai crociati di impossessarsi di Tiro, ma la lotta per il
controllo della rotta tra la valle del Nilo e le coste palestinesi si concluse solamente dopo una
lunga resistenza e la presa di Ascalona, nel 1153. Le difficoltà italiane nell’imporsi sul Mar
Egeo dimostravano l’efficienza della flotta dei sovrani sciiti, ma la perdita del controllo navale
lungo le coste siriane apriva la rotta alle flotte da guerra dei cristiani in direzione dell’Egitto.

• La “rivoluzione commerciale” nel Mediterraneo nel X secolo, un


cambiamento strategico importante

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Il primo sviluppo economico del Mediterraneo


Nelle fonti contemporanee del mondo islamico, di Bisanzio e, ancor più, negli scritti latini, il
nuovo vigore delle attività economiche nel X secolo appare evidente. L’incremento delle
relazioni commerciali tra cristiani e musulmani ne è uno dei principali indicatori.
Il Cairo divenne il principale erogate di liquidità del Mediterraneo, a scapito dei territori del
califfato orientale. I racconti dei geografi e il materiale archeologico mettono a disposizione
sempre più prove di una fioritura mediterranea che appare come la base di un vero e proprio
sviluppo duraturo degli scambi nella regione. Le descrizioni del Maghreb che ci ha lasciato
al-Bakrī, per quanto formali, mostrano senza ambiguità che il IX e il X secolo segnarono una
tappa decisiva nello sviluppo regionale sotto la spinta degli agricoltori o delle tribù berbere.
Le altre regioni, quelle cristiane in particolare, rivelano uno scenario molto meglio
documentato ma che va nella stessa direzione attribuendo ai contadini e alle piccole comunità
di marinai e di mercanti l’iniziativa di un impulso economico su scala locale.
Sia nell’area latina, meglio studiata, sia nelle regioni bizantine e musulmane, più in
particolare là dove i poteri regionali inquadrano e/proteggono sempre meglio queste
popolazioni, i segni di uno sviluppo degli scambi accompagnano le mutazioni
socioeconomiche. In un secondo tempo, negli Stati musulmani più potenti e meglio
organizzati, così come a Bisanzio, si trovarono tracce evidenti di un’organizzazione economica
più sofisticata.

Un’organizzazione mercantile su scala mediterranea? .


L’organizzazione dei mercati, nelle aree umayyadi, fatimidi e bizantine fu dunque il risultato
di una lunga pratica che aveva permesso di conciliare scontri e scambi commerciali, almeno
a partire dal IX secolo. Dopo questo lungo processo di maturazione, spesso caotico e poco
documentato, la congiura e il rafforzamento economico dei tre imperi furono propizi alla
creazione delle grandi reti commerciali del X secolo, ad esempio quella che permise ai Pisani
di importare ceramiche musulmane, i bacini, e quella che, su invito delle autorità egiziane,
fu ampliata dai commercianti ebrei del Cairo dalle rive dell’Oceano Indiano alla Penisola
ebraica. La scoperta della provenienza dei bacini ceramici che si possono ammirare sulla
sommità delle facciate delle chiese pisane, o che furono ritrovati durante gli scavi della città
medievale, ha permesso di rivelare l’esistenza di un traffico commerciale regolare che si
mantenne vitale fino al XII secolo. A lungo i Pisani sono stati presentati come i promotori e i
soli intermediari di questo commercio: compravano nelle regioni più ricche dell’Islam –
l’Ifrīqiya innanzitutto, l’Egitto e, più tardi, al-Andalus – i bacini, la cui qualità era
particolarmente apprezzata dai loro conterranei, almeno fino al XII secolo, quando iniziarono
a fabbricare per proprio conto delle copie di qualità inferiore destinate alla vendita delle città
portuali della costa tirrenica. L’arrivo di marinai e emrcanti dell’Islam nei porti nel X secolo,
dove venivano accolti molto bene, indica che essi stessi avevano creato delle reti commerciali
tra le due rive, musulmana e cristiana.
Meglio ancora, le lettere ritrovate negli annessi della sinagoga Ben Ezra di Fustāt ci hanno
rivelato l’essenza di reti di commercianti ebrei le cui modalità di funzionamento si avvicinano
a quelle si Amalfi, Genova, Venezia o Pisa.
La sofisticata organizzazione delle dogane negli arsenali della costa e nella capitale egiziana
attirò sempre più mercanti latini, assicurandosi così, meglio dei porti latini, un posto centrale
nel commercio medievale, ormai “mondiale”: a buon diritto i sovrani potevano considerare
che il centro nevralgico del commercio mediterraneo fosse la valle del Nilo, tra i due grandi
mari su cui si svolgeva del commercio e tra il Sahara e il continente asiatico.
La cospicua presenza di mercanti ebrei è un altro indizio dell’importanza dei porti
dell’Ifrīqiya fino alla conquista normanna, così come lo è anche la produzione – da parte di
amministratori – di opere concernenti il commercio, soprattutto al Cairo.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Saladino e i suoi successori intendevano certamente trarre profitto dall’eccellenza


dell’amministrazione ismailita e preservare le competenze del ceto burocratico per formare i
futuri quadri dell’amministrazione egiziana. È del resto per questa ragione che molti letterati
egiziani dell’epoca mamelucca e al-Maqrīzi, in generi differenti, hanno salvato dall’oblio i
trattati amministrativi o altre opere dell’era fatimide.
Tra i settori che, a partire dal 1250, attirarono maggiormente l’attenzione degli scribi
ayyubidi e mamelucchi la marina compare in posizione più che favorevole, sebbene questi
sultani abbiano rivelato una scarsa empatia con le cose di mare. La concorrenza economica
tra i due califfati, di Baghdad e del Cairo, era saldamente nelle mani dei Fatimidi che
puntavano a dirottare la direzione dei traffici tra lo spazio indiano e quello mediterraneo.

L’apertura commerciale di al-Andalus


La scoperta di fornaci da vasaio nelle città costiere del Sud-Est di al-Andalus ha permesso di
circoscrivere la zona di origine della fabbricazione di ceramiche molto apprezzate dai califfi
andalusi. Proprio mentre promuovevano una grande operazione di propaganda dinanzi alle
corti imperiali cristiane e dispiegavano una potentissima flotta sotto le mura di Barcellona,
gli Umayyadi accordarono ai mercanti catalani e amalfitani e, più in generale, italiani
l’autorizzazione a commerciare in terra andalusa. Nel 924 furono invitati a presentare i loro
prodotti di lusso, in particolare le sete bizantine, che stesero ai piedi del califfo ‘Adb al-
Rahmān III. Il racconto della cerimonia, degna delle più grandi udienze accordate agli
ambasciatori degli imperi mediterranei, occupa un posto privilegiato nella cronaca di Ahmad
al-Rāzī e indica al tempo stesso fino a che punto il sovrano desiderasse far conoscere a tutto
il Mediterraneo il cambiamento della sua politica nei confronti dei Latini, a prescindere
dall’origine dei commercianti.
Così prima dell’incidente rappresentato dal sensazionale rapimento dell’abate Maiolo di
Cluny nel 972, la costa occidentale del Mediterraneo era diventata un’area piuttosto pacifica,
uno spazio di scambi più che un territorio della corsa musulmana.
Sono gli ambiti imperiali di Bisanzio e dell’Islam che si incaricarono, per il loro proprio
profitto, di realizzare un primo sistema di scambi ad ampio raggio, su scala mediterranea.
Dietro una congiuntura impalpabile, appare evidente, fin dal IX secolo, che furono le autorità
imperiali, emirali e comitali a gettare le basi delle condizioni materiali, fiscali e giuridiche di
uno sviluppo degli scambi mediterranei. Da parte loro, i mercanti bizantini e musulmani
approfittarono dello spazio strategico ma anche dei bisogni dei Latini, attirati anch’essi dalla
sofisticata organizzazione delle amministrazioni dei due spazi imperiali, allo scopo di
sviluppare le proprie reti nello spazio imperiale che li proteggeva.

XII. La sovranità marittima dell’Islam dinanzi all’espansione


latina nel Mediterraneo (XII-XIII secolo)

Gli Almohadi, califfi di Marrakesh, disposero probabilmente della più grande forza navale
dell’Islam medievale sul Mediterraneo e vi rincorsero largamente, all’inizio per conquistare
territori musulmani a spese degli Almoravidi, poi degli Hammadidi di Bugia e degli Ziridi in
Ifrīqiya, fino a Tripoli. La formazione dell’impero si completò nel 1161 con la conquista dei
porti dell’Ifrīqiya, che Ruggero II di Sicilia aveva sottratto agli emiri, in particolare Mahdia.
In seguito, il califfato affrontò le forze navali dei Latini – Italiani, Catalani, Portoghesi, con
l’obiettivo di preservare il dominio marittimo. Fino ai primi segni della crisi dinastica che
seguì il disastro di Las Navas de Tolosa e che fece lentamente collassare su sé stesso il
califfato di Marrakesh, la flotta riuscì a contenere gli assalti latini e a proteggere le coste

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

musulmane e occidentali. Al di là dell’indebolimento dell’Islam sul Mediterraneo, è la


strategia dei poteri musulmani nei confronti delle potenze commerciali e marittime dello
spazio latino a suscitare interrogativi, nel momento in cui queste ultime si impadronirono
dello spazio marittimo. L’esempio almohade è particolarmente interessante poiché il califfato,
potenza navale capace di far fronte a tutte le marine degli Stati latini fino al 1220, da una
parte attirava i mercanti latini nei suoi porti, dall’altra non poteva ignorare il rischio
considerevole di lasciare agli Italiani la totale padronanza delle rotte commerciali del
Mediterraneo occidentale.

• La politica mediterranea del Maghreb e di al-Andalus nel XII secolo.

Il califfato almohade: una grande potenza navale


Una volta eliminato almoravide di Marrakesh nel 1147, ‘Abd al-Mu’mīn approfitto
dell’alleanza con i Banū Maymūn, gli ammiragli che allora comandavano la flotta almoravide,
e recuperò le strutture navali, gli equipaggi e le imbarcazioni per farne un’arma di conquista
delle coste occidentali dell’Africa, fino a Tripoli di Libia. Nel 1147, Siviglia si arrese senza
opporre resistenza in seguito al blocco fluviale e terrestre della città. Nel 1157 Almerìa fu
sottratta ai cristiani dopo un lungo assedio terrestre e marittimo.
Per contenere la prima flotta portoghese, comandata dall’ammiraglio Dom Fuas Roupinho,
fu necessario convocare gli ammiragli migliori.
L’assedio navale contro la capitale portoghese fu un insuccesso e la città di Santarém si salvò
grazie a una freccia che colpì a morte il califfo. In seguito, il Portogallo dovette far ricorso alle
navi crociate del Mare del Nord, in viaggio per la Terrasanta, per rinforzare le proprie
squadre e bloccare le imprese navali degli Almohadi, prova delle capacità dei marinai del
califfo. Nel 1189, una flotta inglese in rotta per raggiungere Riccardo Cuori di Leone nel
Mediterraneo portò un aiuto decisivo ai Portoghesi in occasione dell’assalto di Silves, la più
grande città musulmana a ovest della capitale andalusa. A sua volta, poi, il califfo al-Mansūr
dovette mobilitare delle forze considerevoli, terrestri e navali, per riprendere la città.
La preponderanza marittima degli Almohadi si sgretolò dopo Las Navas de Tolosa, non a
causa dei Latini, ma principalmente per i dissensi tra i membri stessi della dinastia, in
seguito alla morte del califfo al-Nāsir. Nel 1260, l’assalto condotto dai Latini contro Salé
indicava che, ormai, tutte le zone marittime di un impero in pezzi erano a portata delle galere
cristiane. La descrizione delle rive del Guadalquivir, che fungevano da porto di Siviglia,
annunciava già l’apogeo dell’epoca della dinastia almohade, contrassegnata dalla vitalità del
traffico portuale. Sotto l’autorità dei califfi e dei governatori almohadi la città, profondamente
trasformata r ingrandita, conobbe la sua massima fioritura. L’attività economica e le esigenze
militari giustificarono la costruzione di un nuovo arsenale, vicino al ponte e al palazzo. La
sua organizzazione avrebbe funto da modello a quelli fatti erigere dai re di Castiglia a Siviglia
e dai Catalani a Barcellona. Nella capitale, così ingrandita e abbellita, circolavano enormi
somme di denaro, destinate in buona parte agli affari.

Il mare, uno spazio importante della ricchezza almohade


L’accordo commerciale tra Almoravidi e Pisani, protagonisti di un investimento italiano nel
Maghreb, permise ai marinai toscani di disporre di una base a Maiorca fin dal 1133. Fu
tuttavia all’epoca del califfato di Marrakesh e fino alla crisi del Trecento, grazie alla periodica
stipulazione di trattati con Pisa, Venezia e Genova, che il commercio latino conobbe il suo
massimo sviluppo. Oltre alla congiuntura economica, allora a livelli altissimi, all’origine di
tale sviluppo vi fu l’iniziativa italiana. Tuttavia, va rivalutato il ruolo avuto dalle autorità
califfali, lontano dall’idea, a lungo sostenuta, di un impulso a senso unico e di un sistema di
scambi in cui i sovrani e il mondo degli affari maghrebini avrebbero avuto solo una parte
passiva. In certi anni, i benefici dei traffici commerciali maghrebini, a profitto dei tre porti

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

italiani, superarono quelli dell’Oriente mediterraneo. Anche i periodi di tensione – come


quelli che paralizzarono le attività a Ceuta tra il 1222 e il 1235 e a Salé nel 1260 – e
soprattutto la crisi, accresciuta dalla Peste nera che colpì duramente la regione, non
ostacolarono, se non temporaneamente, questi scambi tanto auspicati dalle potenze sia
islamiche sia latine.

Il crollo del potere alhoade e il dominio economico dei latini: l’esplicativo


esempio di Ceuta
Il destino di Ceuta è esemplare della relazione tra gli sviluppi politici della dinastia califfale
e il crollo del potere marittimo musulmano. Dal 1160, i Genovesi beneficiarono di uno scalo
nel porto dello stretto e furono autorizzati a vendere e acquistare in quello di Salé, aprendo
il ricco entroterra delle pianure atlantiche agli appetiti commerciali dei Liguri: il Garbo dei
documenti latini diventò uno degli scali più redditizi per i mercanti genovesi. La città
portuale con la sua posizione chiave, sede dell’ammiragliato e del potere economico, resa ricca
dalla sua attività marittima, diventò un elemento essenziale tra avversari latini e
musulmani, spesso alleati, dal momento che essa controllava il passaggio marittimo.
Siviglia, Bugia, più tardi Tunisi, poterono anch’esse arricchirsi grazie allo spazio marittimo,
ma lì fortuna dei loro notabili veniva innanzitutto dall’essere al servizio dello Stato.
Ceuta rappresentò sempre la posta in gioco delle ambizioni di poteri esterni molto più forti:
le rivalità tra dinastie regionali fecero di volta in volta dei contendenti almohadi, merindi,
nasridi, più tardi abdalwadidi e hafsidi, degli alleati o degli avversari della città, dato che la
sue élite per la maggior parte del tempo non erano in grado di governare senza il sostegno di
una di queste dinastie musulmane. Furono i Portoghesi a sottrarre la città dello stretto dalle
mani dei musulmani, nel 1415.

• L’Egitto, centro nevralgico del commercio mondiale?


In una lettera inviata al califfo abbaside al-Mustadī, a proposito dell’attacco portato contro
Alessandria nel 1174 su ordine di Guglielmo II, Saladino mostra che le autorità musulmane
avevano interesse ad attirare i mercantili cristiani, al punto da costringersi a sopportare
l’aggressività latina per poter mantenere, a qualsiasi costo, i legami commerciali con questi
ultimi, anche quando si scagliavano contro i porti egiziani o cercavano di invadere il paese.
Saladino, se fino dalla sua salita al potere aveva sostenuto di voler abrogare 88 tasse imposte
dai califfi e giudicate illegali, egli mantenne in compenso il maks (termine che indica
generalmente un prelievo illegale) a titolo di tassazione sulle transazioni con i Latini. I
sovrani consideravano dunque un commercio con gli infedeli, nonché l’arrivo dei Latini in
terra musulmana, come segni della superiorità dell’Islam sulla cristianità, legalizzando di
fatto i trattati commerciali. I sovrani musulmani, come la maggior parte dei poteri medievali,
erano convinti che l’importanza dei prodotti impoverisse i paesi esportatori e arricchisce
l’acquirente, in virtù delle tasse percepite e dall’appropriazione del bene altrui, ad esempio
le armi.
Ogni porto aveva delle regole specifiche per l’utilizzo di proventi. Uno dei rischi economici di
questi scambi, oggi ben noto con i “paesi emergenti”, risiedeva della capacità degli Italiani e
di altri Latini di appropriarsi dell’abilità degli artigiani o dei produttori esportatori come
l’Egitto. La storia dello zucchero di canna ne è un buon esempio. Le dichiarazioni di Saladino
non erano pertanto inappropriate.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Conclusione
Il Mediterraneo medievale, uno spazio di memoria dell’Islam.

Dall’epoca del califfato di Medina, la figura di ‘Abd Allāh b. Qays al-Jāsī, l’uomo che condusse
cinquanta campagna marittime, primo martire musulmano ad aver ottenuto la gloria alla
testa della flotta del califfo sbarcando a Cipro verso la metà del VII secolo, occupa un posto
di rilievo nella memoria collettiva trasmessa dagli storici di Baghdad.
Il destino marittimo di alcuni divenne il soggetto di racconti che rendevano loro onore in
quanto eroi che combatterono i cristiani sul mare. Tutte queste gloriose azioni ricordavano
quelle diffuse dai racconti degli eroi della conquista araba, celebri per aver spostato in avanti
i confini della Dār al-Islām. Il Mediterraneo dei testi arabi si distinse così, tra i mari
dell’Islam, con luogo del compimento del jihād condotto dal califfo, anche se questo non vi si
impegnava personalmente.
Il mare dei Romani era diventato il campo immenso e terribile della dimostrazione
dell’universalità islamica, sotto la guida del califfo. Esso incarnava per eccellenza lo spazio
ostile per il credente, divenuto nel contempo il mare del martirio, la cui conquista, che doveva
concludersi con la presa di Costantinopoli e di Roma, precedeva l’inizio del tempo della
salvezza. Di conseguenza, le gesta dei grandi marinai dell’Islam che rappresentarono il califfo
in mare connotavano il Mediterraneo, tra i mari della Dār al-Islām, come l’unico spazio
marittimo del jihād califfale. Islamizzazione, guerra delle frontiere, terrestre e marittima, o
vantaggi commerciali furono sempre considerati dai musulmani come un solo e medesimo
impulso, che associava spirito di conquista, resistenza contro gli attacchi cristiani e affari
proficui. L’Islam, come Bisanzio, seppe sfoderare le armi del commercio mediterraneo, e i
Latini diedero altrettanto prova di abnegazione prendendo la Croce per liberare il Santo
Sepolcro. Lo scarto tra i due mondi, secondo Fernand Braudel e Jacques Le Goff,
consisterebbe nella capacità delle repubbliche marinare italiane e della Corona di Aragona
di organizzare una struttura che privilegiasse gli affari dei mercanti grazie, innanzitutto,
alla capacità di mobilitare i capitali per un commercio su ampio raggio e di creare con lo
strumento dell’assicurazione marittima i mezzi per affrontare rischi finanziari e tecnici.
Nello stesso tempo, sul Mediterraneo medievale, sia il mercante ebreo della Geniza sia le
ricche famiglie musulmane di Siviglia, proprietarie di grandi tenute agricole, erano esempi
della capacità di condurre affari prosperi, addirittura avventurosi.
Effettivamente, il Mediterraneo e i suoi territori musulmani che gli scritti di numerosi autori
restituiscono non sono spazi riconfigurati da una memoria nostalgica, bensì un territorio
dell’Islam da riconquistare sotto l’impulso di nuove forze.
Ibn Khaldūn assegna la mare il suolo di frontiera, controllata dai poteri più forti dell’Islam,
califfi o sultani, non come fine a sé stesso, bensì come preludio alle nuove conquiste sotto la
guida dei principi più virtuosi e di forze tribali conquistatrici, animate dal soffio dell’islam.
Come altri intellettuali musulmani, egli non cercava un luogo particolare dell’Islam da dove
sarebbe partita la riconquista, bensì un esercito e la sua guida, in grado di rianimare lo spirito
conquistatore degli antenati arabi. Il Mediterraneo perduto non era più il luogo di vane
nostalgie, ma uno spazio da riprendere ai cristiani grazie al soffio dell’islam.
Paradossalmente, una mare “tranquillo” come l’Oceano Indiano – mare degli Arabi -, ossia
senza nemici dell’Islam, non poteva diventare il mare del califfo. Bisognerà attendere un’altra
epoca, quella del dominio del califfato e dei sultani egiziani, o quella dei sultani rasulidi di
Aden perché il commercio marittimo diventi uno strumento della dimostrazione del dominio
dei sultani dei mari arabi. Sotto l’autorità dei califfi di Baghdad, soltanto il mare dei Romani,
ossia il mare nemico, poteva essere lo scenario della rappresentazione del jihād califfale,
integrando ogni forma di espazione, religiosa, militare o commerciale, sebbene né i califfi
della conquista né gli Abbasidi né gli Umayyadi né, tantomeno, i Fatimidi a gli almohadi
avessero mai “cavalcato” il mare dei califfi, se non attraversare lo stretto di Gibilterra.

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)


lOMoARcPSD|35317375

Scaricato da RECHICHI ASSUNTA MARIA (rechichi.assuntamaria@liceimazzinilocri.edu.it)

Potrebbero piacerti anche