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Christophe Picard
Il mare dei califfi
Storia del Mediterraneo musulmano (secoli VII-XII)
Introduzione
La fine del pirata «moro e saraceno»?
sul versante mediterraneo, alcuni documenti sul mare, sulla marina e sui marinai furono
scritti da e per gente di mare. DI questa produzione, è sopravvissuta solo quella dei geografi
e degli enciclopedisti arabi. Solo i documenti che riportavano il nome di Dio, come le lettere
della Geniza, andavano conservati. Le disposizioni concernenti gli arsenali, gli equipaggi,
l’approvvigionamento di viveri o l’ingaggio dei rematori – come quelle scoperte “per caso” su
dei papiri egiziani per l’inizio del VIII secolo -, così come tutti i dati che avrebbero permesso
di ricostruire l’organizzazione della marineria musulmana, non furono conservati se non nel
periodo in cui erano utili.
Ciò significa forse che i marinai e i mercanti musulmani hanno navigato e trafficato meno di
quelli latini? Niente appare meno sicuro. DI certo, hanno girato il mondo più di quanto i
documenti musulmani lascino intendere. Ad esempio, i “pirati musulmani” sono esistiti
semplicemente perché a parlare sono state le vittime cristiane, mentre le autorità
musulmane non ritenevano utile registrare tutte le razzie condotte da equipaggi inviati, in
realtà, dal califfo o dall’emiro, gettando così nell’oblio il mondo marinaio o le sue azioni.
E rieccoci alla domanda posta da Horden e Purcell, nonché da molti storici prima di loro: che
cos’è il Mediterraneo medievale? Se sei prendono in considerazione le testimonianze arabe di
quel periodo, non è quello dei pirati musulmani, bensì quello di marinai, guerrieri o mercanti
al servizio della propria fortuna e del califfo, che contesero il Mediterraneo ai Greci e ai Latini
e che ricevettero onori, benché non allo stesso titolo di tutti gli altri eroi dell’Islam. Di
conseguenza, il tempo di questa storia appartiene in via prioritaria ai califfi, spalleggiati
dagli studiosi e soprattutto dai giuristi.
La prima menzione di una descrizione araba del Mediterraneo risale al califfato abbaside,
alla metà del IX secolo.
A partire dal X secolo, con il progressivo indebolimento del potere reale e del prestigio dei
califfi di Baghdad, le produzioni delle capitali califfati del Mediterraneo – Cordova, Kairouan
o Il Cairo – iniziarono a fare concorrenza a quelle irachene. Possiamo dunque osservare che
furono gli uomini di lettere orientali, dall’Iran all’Egitto, a imporre la cosiddetta forma
classica alla letteratura araba. I Fatimidi, invece, al pari degli Umayyadi, imposero nuovi
profili alla storia e alla geografia del loro mare, in funzione di un contesto nuovo e
dell’importanza che questo spazio rivestiva ai fini della loro stessa legittimazione. Uno sforzo
anche maggiore in tal senso è prodotto dai letterati dell’entourage dei califfi almohadi, gli
ultimi sovrani del Medioevo a concepire a tutti gli effetti il mare come uno spazio imperiale
musulmano.
Spettò poi agli Ottomani, senza rinnegare questo passato, imporre la loro visione del mare,
visto dalle terrazze del palazzo di Istanbul, dopo il 1453. Altre potenze dell’Islam che si
spartirono le sponde mediterranee, in particolare i sultanati d’Egitto, hanno lasciato
anch’essi tracce di attività letterarie. In tutti gli scritti superstiti, il mare occupa un posto
importante e compare in ogni ambito letterario.
1. La conquista araba delle coste e del mare, tra il 634 e il 749 condotta dal califfato rāshidūn
di Medina e poi dagli Umayyadi, ci è accessibile soltanto nelle versioni abbasidi della storia
della ragione marittima e dai testi posteriori. La storia di al-Tabarī, portata a termine verso
il 915, fu considerata dai suo pari come la più grande cronaca araba di tutti i tempi.
2. L’inquadramento delle rive e del mare, a partire dal 750, occupa un posto limitato nelle
fonti prodotte a Baghdad e a Samarra, ma sufficiente per constatare il duraturo interesse dei
califfi iracheni per la costa siriana, nonché per lo spazio marittimo del Mediterraneo nella
sua totalità. Più che la strategia stessa, sono il coinvolgimento dei califfi, tra il 754 e il 945,
sulla frontiera bizantina in Anatolia e, in misura minore, la politica militare lungo le coste
del Vicino Oriente a costruire l’essenziale della materia dedicata alla regione del
Mediterraneo nella letteratura califfale e giuridica. Ma, ancor più, l’attualizzazione del jihād,
resasi per la stabilizzazione duratura dei fronti.
3. Il ricambio fu garantito dai califfati mediterranei, fatimidi e umayyadi. I loro scribi ebbero
gran cura di sminuire il loro coinvolgimento nella guerra contro i cristiani, in particolare sul
mare.
Ibn Khaldūn stesso definì questo periodo come quello della dominazione quasi totale
dell’Islam sul mare. Tuttavia, la rivalità fra i due califfati mediterranei ebbe un impatto assai
maggiore dell’aspirazione di conquistare l’Iraq sulle due strategie marittime, fino
all’insediamento di al-Mu’izz (953-75) in Egitto, nel 971. La politica di quest’ultimo, una volta
insediatosi al Cairo, progredì stabilendo buoni rapporti, principalmente commerciali, con i
Bizantini e successivamente con i Latini. A seguito della crisi che portò alla fame la valle del
Nilo nel 1060, proprio quando i marinai di Pisa, Venezia e Genova cominciavano a
commerciare nella capitale egiziana e ad Alessandria, l’espansione marittima e commerciale
sul Mar Rosso e sull’Oceano Indiano permise i sovrani sciiti di rafforzare il controllo sul
traffico tra le due regioni marittime.
4. A partire dall’XI secolo e fino alla sconfitta di Ascalona contro i crociati (1154), le offensive
latine obbligarono i poteri regionali – in particolare gli Almoravidi di Marrakesh (1072-1147),
poi il califfato almohade in Occidente e i califfi egiziani (971-1171) in Oriente – a mantenere
la loro presenza militare sul Mediterraneo per scoraggiare gli attacchi provenienti dal mare.
Il califfato fu l’ultima potenza marittima musulmana in grado di rivaleggiare con i Latini. In
seguito alla sconfitta di Las Navas de Tolosa, nel 1212, le crisi dello Stato almohade, a partire
dal 1215, e le imprese marittime e commerciali dei porti latini riuscirono a trasformare il
Mediterraneo in un mare latino. In Egitto e in Siria, né gli Ayyubidi (1171-1250) né i
Mamelucchi, pur in grado di armare e galere quando ne sentissero la necessità, presentarono
la marina come un emblema del loro potere. Saladino (1171-93) riconobbe che soltanto i califfi
del Maghreb potevano competere sull’acqua con i nemici latini.
I Merindi a Fes e gli Hafsidi a Tunisi prestarono sufficiente attenzione alla flotta almeno fino
al XIV secolo, nella speranza di resistere alle pressioni cristiane e di conservare il controllo
dello stretto di Gibilterra. Era la fine del Mediterraneo musulmano? Ad ogni modo, i marinai
musulmani non ne frequentavano che qualche zona: si estendevano lungo la costa africana e,
a partire dall’XI secolo, con l’insediamento turco in Anatolia, le coste asiatiche del Mar di
Marmara, e quindi i Dardanelli. Nell’attesa delle prodezze di Barbarossa, ammiraglio della
Sublime Porta, nel XVIsecolo, e soprattutto della dominazione ottomana del Mediterraneo
orientale, né i marinai del califfo né i pirati mori o saraceni potevano ancora aspirare a
contendere il mare alle potenze marittime del mondo latino, se non per commettere qualche
rapina, annunciando il ritorno del pirata musulmano.
Parte Prima
Il Mediterraneo degli Arabi: tra rappresentazioni e
appropriazioni.
una svolta: il mare occupava infatti ormai un posto preminente nelle descrizioni. Spazio
privilegiato dell’espansione de due califfi occidentali, rivali degli Abbasidi, esso fu dunque
rappresentato come l’altro dominio marittimo centrale della civiltà musulmana, includendo
le attività mercantili e le descrizioni di viaggi.
Sulle rive del Mediterraneo musulmano apparvero nuove forme di descrizioni come i capitoli
o i libri dedicati alle “meraviglie”, derivate dai racconti arabi del mare. Alla fine del XII secolo,
a prevalere sulle geografie califfali furono poi i diari di viaggio compilati da eruditi, quando
ormai l’Islam andava perdendo il controllo dello spazio marittimo di fronte all’inarrestabile
dominazione dei Latini. Risale a quell’epoca la commissione da parte di Ruggero II di Sicilia
al geografo al-Idrīsī di un planisfero il cui centro geografico non era la Sicilia, benché l’isola
vi apparisse eccessivamente ingrandita, ma Baghdad, cosa che dimostra quanto il modello
della cartografia e della geografia astronomica araba, nate in Iraq, fosse divenuto uno
standard universale.
La proliferazione di queste rappresentazioni e descrizioni arabe del mondo non sono le uniche
ragioni di un riconoscimento sempre più preciso dello spazio mediterraneo misurato
sull’affermazione dell’Islam. I geografi e gli enciclopedisti arabi, orientali e occidentali
ispiravano la loro cartografia alla geografia antica che collocava l’Islam al centro del mondo,
e dunque al di sopra degli altri spazi imperiali, sprofondati nell’infedeltà. A prescindere dal
momento, la relazione riferisce le percezioni continuamente aggiornate del bacino
mediterraneo, all’interno di un quadro sì islamico ma in relazione con gli spazi degli infedeli.
Per averne una conferma, possiamo affidarci a tre eruditi arabi tra i più rinomati. Le opere
di al-Mas’ūdī, di al-Idrīsīme di Ibn Khaldūn svelano tre Mediterranei in tempi differenti, pur
conservando un’identità che deriva da una formazione comune degli autori, data dalle origini
irachene della cronografia.
musulmani in determinati luoghi, proprio quando le autorità delle due religioni andavano
rifiutando sempre più queste pratiche.
Ai tempi dell’Islam, le menzioni arabe più antiche del mare sono quelle contenute nel Corano,
eppure né il Mediterraneo né alcun altro mare vi sono menzionati in quanto tali. La prima
generazione di Arabi a aver descritto questo spazio marittimo è stata dunque quella dei
conquistatori. Tuttavia, i racconti dei fatti della conquista non sono accessibili se non
attraverso versioni raccolte nelle cronache del III secolo dell’Ègira. Il Mediterraneo appare
in queste storie come il mare della guerra.
dei musulmani, divenne il solo e vero avversario dell’Islam, essendo l’imperatore della Cina
troppo lontano per farne un nemico diretto tra i grandi sovrani della terra.
La frontiera greca costituiva il principale baluardo militare dei califfi fin dal regno del primo
califfato umayyade Mu’āwiya, e in particolare durante il periodo degli attacchi contro
Costantinopoli. Sotto il califfato abbaside, questa immensa zona di confine rimase la linea
del fronte principale, essendo le relazioni con Bisanzio più che mai la posta essenziale della
guerra. Al-Mansūr, il primo califfo della nuova dinastia in grado di riorganizzare questa
frontiera, ripresa in mano la Siria. Dove si erano stabiliti parecchi clan degli Abbasidi, non
solo per sradicare la presenza umayyade, ma anche per consolidare la posizione di nuovi
padroni dell’Islam sul confine. Al-Mansūr dovette gestire l’emergenza. Costantino V,
l’imperatore soldato, approfittando degli effetti della guerra civile tra gli Umayyadi e gli
Abbasidi, aveva ripreso terreno in modo considerevole e minacciava direttamente la Siria.
Restando forte la pressione bizantina, l’intervento del califfato sulla frontiera assunse una
nuova dimensione a partire dal regno di al-Mahdī. Il califfo si impadronì di questo territorio
di frontiera per farne il luogo di dimostrazione del jihād califfale. Diversamente dai loro
predecessori l’unico califfo della dinastia umayyade ad aver assunto il comando dell’esercito
contro gli infedeli -, i sovrani abbasidi, inizialmente come eredi al trono, poi come capi
dell’Islam, si impegnarono personalmente nella guerra, sino alla fine del regno di al-Mu’tasim
(833-42). L’insediamento di quest’ultimo a Samarra nell’836 e lo spostamento dell’esercito
composto da schiavi turchi, in seguito ad alcune agitazioni a Baghdad, coincisero con
l’abbandono dell’impegno personale dei sovrani contro i Bizantini fino all’892. In quel periodo
i califfi avevano reintegrato l’antica capitale e ripreso la via della frontiera.
Il jihād abbaside appariva così di qualità superiore a quello dei califfi umayyadi, che si
tennero lontani dalla frontiera, lo spazio della frontiera mediterranea catturò a buon diritto
tutta l’attenzione dei cronisti, i quali comunque non trascurarono gli altri fronti, in
particolare quelli orientali, per quanto non fossero teatro del jihād califfale.
‘Uqba, che apparteneva al prestigioso clan qaysita dei Banū Fihrī, fu posto sullo stesso piano
di ‘Amr b. al-‘Ās. Ibn ‘Abd al-Hakam lo considera il primo musulmano ad avere raggiunto i
confini del “Paese dei Neri”, avanzando la frontiera dell’Islam.
L’impresa che gli diede fama fu la fondazione di Kairouan nel 670. La tradizione arabo-
musulmana impose ‘Uqba b. Nāfi come il vero e proprio conquistatore delle regioni occidentali
sotto la costruzione della memoria fece di lui un altro eroe degli estremi del mondo:
l’insuccesso della sua campagna, con la disfatta subita contro il capo berbero Kusayla nel 683,
e la sua morte in combattimento furono trasformati così nella marcia trionfale del martire
‘Uqba b. Nāfi, il primo musulmano a raggiungere l’Oceano Atlantico e l’altro limite del mondo,
a ovest.
Il sito della sua sepoltura divenne uno dei primi “luoghi di visita” (ziyāra) ufficiali della
regione. Talvolta la figura dell’eroe conquistatore appariva più confusa. È il caso di Mūsā b.
Nusayr. Il passaggio di mano della storia andalusa ai cronisti umayyadi trasformò
l’immagine del conquistatore in antieroe, lasciando infone ai soli califfi umayyadi il merito
della conquista araba dell’Hispania condotta dai capi della tribù di Quraysh. Tuttavia, altre
tradizioni misero in luce i meriti del condottiero. In Ibn Habīb, ad esempio, egli appariva
come il vero e proprio stratega dello sbarco e dell’organizzazione della conquista, ma –
soprattutto – era riconosciuto «tra i più esperti in astrologia». Tale qualità lo designava
naturalmente come colui al quale toccava il compito di delimitare lo spazio musulmano,
segnando la fine dell’espansione araba in Europa. Quando raggiunse la fine del mondo, forse
a La Coruña, là dove una statua di Ercole segnalava i confini estremi della Terra, trovò
un’iscrizione recante l’avviso che lì terminava l’espansione, invitando i figli di Ismā’īl a
invertire la rotta.
Secondo altre versione fu dopo la presa di Narbona che i musulmani scoprirono tale
avvertimento, in quelo che era considerato un’altra estremità del dominio musulmano: «Figlio
di Ismā’īl, è qui il vostro punto estremo, e dovete far ritorno». Capitale islamica in terra
gallica, consacrata tale dal califfato siriano, la città continuò a far parte della Dār al-Islām,
anche una volta persa: fu forse questa la ragione per cui Narbona continuò a segnare il limite
di al-Andalus nella maggior parte delle descrizioni geografiche, anche molto tempo dopo la
sua conquista ad opera dei Carolingi nel 751.
Un silenzio totale regnava sulle popolazioni non musulmane, al fine di farne dimenticare il
passato: soltanto le fonti giuridiche si esprimevano sulla presenta di “protetti” per
sottolineare la traccia residua dell’errore che li abitava. Gli autori arabi, sbarazzatisi del
passato, descrissero esclusivamente uno spazio mediterraneo islamico e califfale, che
includeva il mare. I cronisti di Baghdad non rievocarono gli spazi degli infedeli se non per
ricordare che costituivano dei territori da conquistare, nell’ottica di portare a compimento
l’opera affidata ai credenti, prima della fine dei tempi terreni.
Ci sono sufficienti testimonianze a provare che i califfi abbasidi non abbiano abbandonato il
mare come per troppo tempo è stato affermato.
Poiché la conquista di Bisanzio era divenuta un obiettivo impossibile, la nozione di frontiera
e gli aspetti della guerra associati alle regioni limitrofe dei territori cristiani e alle coste
musulmane del Mediterraneo si evolsero negli scritto dei letterati iracheni.
I califfi di Baghdad strinsero ben presto relazioni diplomatiche con il basileus. Tuttavia, le
menzioni di questi contatti sono state quasi completamente ricostruite dagli scrittori greci
per il basileus e da quelli arabi per il califfo. Presso questo ultimi, le descrizioni delle
grandiose cerimonie d’accoglienza dei sovrani non sono limitate alla sfera della diplomazia,
ma hanno la funzione di legittimare a livello universale la dinastia.
avrebbe condotto il califfo, ispirato dal suo incontro con Aristotele in sogno, a contendere ai
Bizantini il dominio della conoscenza, appannaggio delle civiltà portatrici di una cultura
universale. Quest’altra guerra rientrava pienamente nelle competenze del sovrano, allo
stesso titolo del jihād. La Profezia di Maometto, infatti, aveva dato agli Arabi – e poi a tutti i
musulmani – la responsabilità di promuovere la conoscenza, a profitto esclusive dell’Islam.
Spostando la posta della lotta tra le due religioni universali dal campo militare a quello del
sapere, i sovrani poterono pretendere di sostituire alle vittorie dei loro predecessori quella di
al-Ma’mūn, ottenuta con l’aiuto del grande filosofo greco. Essa sembrava molto più meritoria
poiché la conoscenza permetteva di rivelare la sola profezia che poteva innescare l’escathon
(il “destino finale del mondo”), la penna infatti aveva la meglio sulla sciabola, tanto più che
quest’ultima non era riuscita a distruggere la seconda Roma.
Una definizione del jihād da parte del califfo e degli “eruditi in armi”
Dal momento in cui i sovrani si impegnarono direttamente al fronte, il sistema di governo
dovette adattarsi. Il califfo operò dei cambiamenti – prima o in occasione dell’eliminazione
dei visir barmecidi nell’803 – che vennero a coincidere con il momento in cui riprese il
comando delle operazioni al di là della frontiera. Al sistema patrimoniale siriano e alla
mobilità del potere umayyade, i califfi sostituirono un coinvolgimento personale che li legava
alle aree del conflitto e che si tradusse nell’edificazione di due residenze califfali sull’Alto
Eufrate, al-Rāfiqa sotto al-Mahdī e al-Raqqa sotto al-Rashīd, che li avvicinava al fronte.
Dall’avvento del primo, la conduzione delle spedizioni da parte del califfo o dei suoi figli
segnava una novità rispetto all’epoca umayyade: la partecipazione del sovrano doveva
cancellare l’effetti indotto dall’allontanamento del centro del potere dal principale fronte di
guerra dei califfi.
L’inedita configurazione del rapporto tra i sovrani e la guerra necessitava la messa a punto
di un vocabolario che definisse le nuove forme del jihād califfale e di una terminologia che
designasse i nuovi spazi della guerra. La lettura dei trattati giuridici mostra difatti
un’evoluzione costante dell’interpretazione delle forme legali della guerra.
Benché il Corano continuasse a fornire tutti i termini necessari, i significati loro attribuiti
necessitavano di essere ridefiniti in funzione delle condizioni della guerra di frontiera per
combattere redassero delle opere sul diritto bellico, basandosi sugli hadīt e sui racconti dei
combattimenti del Profeta per definirne le regole.
zona del diritto islamico da quella dell’infedeltà. Le distinzioni tra territori di guerra e spazi
dell’infedeltà svelano il grado di diversità delle zone al di là della frontiera.
Il tempo di uno spazio non limitato, aperto alla conquista dal campo base era già un lontano
ricordo: il jihād era stato ridefinito sulla base della realtà militare dell’epoca.
Allontanandosi dai modelli del jihād inteso come martirio del periodo delle conquiste, l’opera
di Ibn al-Mubārak fu tra le prima a definire le forme di un jihād adattato al volontario sulla
frontiera. L’erudito definisce l’impegno volontario come il frutto di un percorso individuale,
due forme di combattimento dei musulmani: il jihād maggiore e il jihād minore.
La stretta associazione tra le forme più o meno rigorose di ascetismo e il combattimento o la
sorveglianza della frontiera si sarebbe sviluppata mediante il ribāt. Con questo termine,
soprattutto nella forma verbale rābata, le opere dedicate alla guerra indicano non un luogo
specifico, bensì la pratica delle due forme del jihād. L’esercizio del ribāt doveva assolutamente
essere attuato sulla frontiera e comportava una certa immobilità. Sembra che l’importanza
dell’ascetismo, associato al combattimento, talvolta spinto all’eccesso e criticato, sia stato uno
degli elementi principali degli eruditi in armi.
Antiochia è indicata al tempo stesso come fortezza e ribāt, il che implica che la città era
favorevole alla pratica individuale del jihād.
La fama dei suoi meriti attiravano molta gente: questo legame con i primi tempi dell’Islam
permetteva di fare risalire la pratica del ribāt al periodo profetico.
Quando Hārūn al-Rashīd riorganizzò la frontiera, fece del ribāt un’istituzione califfale
diffondendola lungo i confini dell’impero. L’istituzionalizzazione del volontariato, nell’ambito
del jihād, va collegata alla volontà dei califfi di incanalare e controllare, per quanto possibile,
l’energia dei combattenti volontari. Gli Abbasidi avrebbero così “reinventato” una frontiera
sui luoghi dove conducevano la guerra, adattata alla situazione dell’epoca tentando al
contempo di controllare le forze vitali che ne assicuravano la difesa. L’immediata popolarità
del ribāt appare evidente dalla presenza, a fianco dei soldati, di numerosi uomini pii.
• Il califfo ghāzī
I cronisti si concentrarono sui luoghi del jihād scelti dal califfo piuttosto che sugli altri fronti.
Le menzioni dei combattenti di frontiera seguivano i passi del sovrano o quelli dei suoi
rappresentanti. Quest’effetto di lente di ingrandimento tendeva praticamente a escludere
qualsiasi notizia riguardante la maggior parte delle zone di contatto con i cristiani e la
maggior parte degli attori di questa guerra di frontiera, a meno che fossero gli avversari a
farne riferimento.
L’emergere dei poteri regionali favorì la diffusione dell’immagine del sovrano ghāzī, sugli
altri fronti, in Oriente ma anche nelle regioni occidentali.
Uno degli indicatori dell’interesse particolare che i califfi nutrivano per la frontiera si misura
anche dal prestigio dei governatori della marche e delle città “protettrici”:
Non v’è alcun dubbio che la frontiera che legittimava il futuro califfo ghāzī non era quella
d’Oriente, bensì quella posta dinnanzi al territorio dell’altro imperatore.
La presentazione fin qui fatta della scrittura geografica dello spazio mediterraneo permette
di constatare che Baghdad fu la culla di questa disciplina che vide la luce nel IX secolo,
proprio quando furono redatte le prime cronache abbasidi giunte fino a noi. Di fatto, scritture
geografiche e cronografiche sono inseparabili, perché procedono ambedue dalla volontà di
dimostrare la legittimità universale dell’Islam. Il Mediterraneo, al contrario di quanto si è a
lungo ritenuto, ebbe un posto importante in seno al dominio musulmano, ancora una volta
quale spazio privilegiato del jihād califfale.
• L’eredità di Baghdad
La tradizione araba ha consacrato al-Ma’mūn come fondatore della scienza geografica.
La geografia fu dunque una delle numerose discipline tenute in alta considerazione a
Baghdad, nell’effervescenza dello sviluppo degli studi “enciclopedici”, mobilitando tutti gli
scibili che potevano servire a valorizzare l’immagine dell’Islam, come desideravano il califfo
e i letterati. La geografia araba, come è giunta fino a noi, prima di essere una «scienza che
ha per oggetti lo studio, la descrizione e la rappresentazione della Terra», aveva come
obiettivo principale quello di rappresentare l’Islam al centro dell’ecumene e di raffigurare sui
mappamondi la potenza e la legittimità del califfato. Le traduzioni, in particolare quella
dell’Almagesto di Tolomeo ma anche della Geografia di Marino di Tito e di molti altri trattati
di geografia ellenica, furono all’origine di una geografia delle cifre e dei calcoli astronomici,
molto prima di quella rappresentazione delle parti della Terra e delle descrizioni dello spazio
fisico e umano. Gli astrolabi e le sfere armillari furono i primi oggetti da collezionare dei
sovrani e poi dell’alta società della capitale. Nello stesso tempo, le carte dell’antichità greca,
quello di Tolomeo in particolare, servirono da modello per i primi mappamondi.
Quando si evoca la geografia araba, cartografica e descrittiva, va tenuto presente che si tratta
di uno strumento di cultura e di propaganda della sovranità islamica e califfale.
L’uso di questa geografia pratica fu però trasformato per rispondere a un altro intento:
rappresentare lo spazio dell’autorità del principe nelle opere scritte al fine di educare in
maniera stimolante le future élite del califfato, dando origine così a una geografia di tipo
enciclopedico che, pur non essendo una guida per il viaggiatore, permetteva ai curiosi di
appropriarsi di un sapere da salotto.
La nascita della geografia araba è collegata strettamente allo sviluppo dell’adab e alle figure
di al-Jāhiz e Ibn Qutayba, la cui influenza sulla scrittura geografica fu decisiva. L’adab è una
«letteratura di tecnici, nel senso che proviene da amministratori e si rivolge allo stesso modo
ad amministratori», pur sottolineando il rifiuto che si lasciasse «prendere dalle sole
preoccupazione tecniche». La geografia, al contrario della storia, non fu concepita come una
scienza a sé stante, bensì come una materia a pieno titolo che permetteva di esporre l
conoscenza dello spazio nell’ambito della cultura generale_ aveva senso solo se messa al
servizio dell’Islam, vale a dire del califfo e di color che lo servivano.
Parallelamente, le geografia si trasformò per diventare specificamente un genere descrittivo
al servizio della promozione dello spazio imperiale. La volontà di far apparire l’Islam, visto
da Baghdad, come il solo universalismo dello spazio umano spinse i geografi a parlare di tutto
l’universo: il cosmo, la Terra, l’ecumene.
L’egocentrismo orientale
La geografia di Baghdad legittimò in effetti un solo spazio islamico, a beneficio dei califfi
sunniti, ma lo fece stabilendo una gerarchia delle regioni all’interno del mamlaka,
valorizzando l’Oriente, terrestre e marittimo, e il centro a spese dei margini occidentali. Era
anche una tradizione persiana quella di descrivere l’ecumene con sembianze animali, spesso
un uccello. Nel X secolo, la nascita di una geografia fondata su «uno studio della terra e degli
uomini» coincise con il fiorire di una generazione di autori particolarmente dotati.
L’Occidente marginalizzato
La struttura dell’opera di al-Muqaddasī si rifà a un modello classico, cominciando da una
rappresentazione generale della Terra e delle sue parti, L’ecumene vi appariva divisa in
quattordici territori; l’impero vi risultava in tal modo separato in due grandi insiemi da una
linea assiale su cui passava la via del pellegrinaggio per La Mecca.
Nei capitoli dedicati a ciascuna delle regioni dell’Islam, viene messa in evidenza la disparirà
tra quelle orientali e quelle occidentali.
Nella sua presentazione generale del mondo, il capitolo sui mari occupa un post importante.
In particolare il racconto invita a considerare i due mari come simboli i un’opposizione
irriducibile tra due civiltà, con il Mediterraneo che appartiene irrimediabilmente alla
cristianità. Nello stesso tempo, al-Muqaddasī fornisce una delle descrizioni più complete del
Mediterraneo della geografia araba.
centro dell’Islam, egli constatava o presentiva già il ruolo a venire dei popoli turchi: l’Islam
descritto dal viaggiatore era diventato un mondo policentrico.
guardia e soprattutto alcune località che accoglievano molti volontari, erano esse stesse
luoghi di ribāt. La fortificazione di questi luoghi fu resa possibile grazie alla generosità dei
principi, ma soprattutto a quella dei ricchi devoti che finanziarono la costruzione di difese in
gradi di ospitare i volontari. La presenza delle spose era sgradita a Sfax e Susa e non si poteva
permettere che risiedessero in un forte dove si incontravano volontari e soldati del jund. Nei
periodi di grande affluenza, i luoghi cittadini destinati al ribāt potevano essere molto
eterogenei: per esempio, alcune cellule venivano collocate in case private, affittate a volontari.
Quando la città non riusciva più ad accogliere i praticanti, lo facevano i sobborghi.
Occasionalmente anche le tende servivano come luogo di ritiro, così come la moschea del
Venerdì e quelle di quartiere. La pratica del ribāt conobbe una continua evoluzione nel corso
del Medioevo. In realtà, i siti deputati al ribāt potevano essere molto diversi a seconda dei
luoghi.
dai cristiani, un campo sempre propizio alla razzia, che potevano condurre al martirio e, se
la sorte si mostrava favorevole, a una conquista duratura.
In seguito alle disfatte in Gallia – nel 732 a Poitiers e sul fiume Berre nel 737 -, seguite dalla
rivolta berbera, a partire dal 739 ogni velleità di conquista fu vanificata, tanto più che il
governo di Cordova fu assorbito dalle lotte tra clan e partiti arabi, fino all’avvento di Abd al-
Rahmān I.
La particolarità del Mediterraneo occidentale fu di essere un mare senza nemici per gli
Andalusi, dal tempo della conquista della Penisola iberica fino all’arrivo dei Vichinghi
nell’844. Disfatti, salvo alcune limitate eccezioni, il raggio di azione della flotta bizantina,
sola forza navale permanente dei cristiani fino alla fine del X secolo, non superava la zona
della Sicilia, delle coste di Ifrīqiya e della Sardegna. Le coste latine dell’impero carolingio,
nonostante alcune operazioni navali finanziate da Carlo Magno e Ludovico Il Pio e condotte
al principio del IX secolo in Corsica e in Sardegna per respingere le incursioni musulmane,
erano più spesso prive di difesa, esposte agli attacchi dei marinai dell’Islam, fino in Italia;
una situazione destinata a peggiorare sempre più con la progressiva decadenza dell’impero
carolingio. Il jihād condotto nelle marche di frontiera fu descritto con l’uso di una
terminologia simile a quella impiegata in altre regioni mediterranee di confine, e che ha
origine nella marca siriana dell’epoca abbaside.
Fino al regno di al-Hakam I, le campagne erano dirette soprattutto contro i movimenti di
dissidenza interna, per la maggior parte nelle regioni delle marche, ed erano spesso seguite
da un’incursione in terra cristiana. Le fonti arabe non fanno mai menzione delle spedizioni
navali condotte indipendentemente da comunità di marinai, poiché implicavano a priori una
totale autonomia degli stessi. Le spedizioni non governative erano segnalate solo quando le
vittime cristiane avevano motivo di farlo, in genere per problemi di politica interna. Rimo
sovrano andaluso a confrontarsi con un nemico venuto dal mare, in fattispecie i Vichinghi,
‘Abd al-Rahmān II decise, nell’844, di fare uno di una flotta.
Le misure di difesa delle rive andaluse erano molto simili a quelle attuate sulle altre rive
musulmane del Mediterraneo e consistevano in particolare nella fondazione di ribāt. Inoltre,
il sovrano approfittò di questa riorganizzazione per tentare di porre le Baleari sotto il
controllo degli Umayyadi. Su ordine dei sovrani, i marinai andalusi si accanirono contro le
coste della Provenza, toccando il picco con il saccheggio del monastero di San Cesario (Arles)
nell’850. Si tratta di azioni non menzionate dalle fonti arabe, come del resto nessuna delle
razzie contro le coste cristiane.
La descrizione delle misure di difesa costiere per essere legittima doveva porre in relazione
queste ultime ai principi enunciati dai califfi di Baghdad in materia di jihād, tuttavia esse
permettevano anche al principe dissidente di affermare la propria autonomia, appropriandosi
della messa in sicurezza del territorio che controllava.
patrocinato un programma ambizioso di protezione delle rive. Il nuovo califfo, però, mise in
scena una serie di programmi spettacolari mentre, dal canto loro, gli scrittori si mantennero
assai discreti a proposito delle imprese precedenti.
La pratica del ribāt in al-Andalus diventò affare esclusivo del califfato.
Non c’era più spazio per l’autonomia delle comunità di marinai, considerato che ogni
operazione navale doveva essere il risultato di una decisione del califfo gestita
dall’ammiragliato. Malgrado gli autori andalusi riportino all’unanimità il 954-5 come data di
fondazione di Almerìa, tale fondazione pone un problema poiché il sito era già sede
dell’arsenale della flotta del califfato, costruito nel 931 utilizzando le strutture della città di
Pechina, situata a 12 chilometri, risalenti a oltre vent’anni prima dell’erezione della nuova
città. L’appropriazione da parte del sovrano dell’arsenale della città a rimanere nella
memoria come l’evento che fece della città il porto del califfato, prima dell’attacco della flotta
del Mahdī e dell’edificazione della città nuova.
La scelta si giustificava con il fatto che il porto di Almerìa era diventato il più attivo della
Penisola. La presenza di un ribāt in loco aveva anche una certa forza simbolica, come lascia
supporre il nome scelto per la nuova città: la parola al-Mariyya. In un secondo tempo, la città,
fondata sull’area dei cantieri navali del vecchio agglomerato urbano, ebbe tutte le prerogative
riservate alle istituzioni califfali.
Un califfo che non venne mai nella sua città, mentre la sua flotta ne rappresentava la
sovranità. Le città portuali del califfato dovevano offrire agli occhi stupiti dei visitatori, ad
Almerìa come a Tortosa, a Siviglia, Algeciras o a Ceuta, l’immagine della potenza di al-
Andalus e della flotta costruita negli arsenali del sovrano.
Pechina divenne la sede dell’ammiragliato. L’arsenale umayyade perpetuava l’autorità
universale del califfato nelle città portuali e, per estensione, sul mare: ‘Abd al-Rahmān, una
volta califfo, non vide più le sue amate navi, Al-Hakam II, diventato califfo, non si recò mai
sulle coste, ma ciò non gl’impedì di seguire le orme di suo padre, senza muoversi dal suo
palazzo.
Per quanto riguarda Ibn Abī ‘Amir al-Mansūr, ufficialmente servitore del califfo, egli utilizzò
la flotta come sostegno durante le campagne militari. Per organizzare le campagne del
Maghreb, lo hājib – questo il titolo del sovrano andaluso – doveva prendersi cura delle sue
truppe: già sotto gli Umayyadi e ancor più in occasione delle spedizioni africane, il
comandante militare aveva controllato gli importanti lavori di fortificazione di Ceuta, testa
di ponte degli Andalusi. I due litorali di al-Andalus furono anch’essi soggetti a una
riorganizzazione. La spedizione del 997, che aveva per obiettivo Santiago di Compostela,
necessitò dell’uso della flotta per ragioni logistiche e indusse lo hājib a fare edificare delle
infrastrutture navali.
un’imbarcazione del califfo ismailita, causando una violenta reazione che si concluse nel
saccheggio di Almerìa. Le quattro menzioni, tra il 933 e il 942, di attacchi marittimi condotti
contro le coste cristiane, come pure la carta politica dei possedimenti diretti o indiretti del
califfo umayyade, redatta dai geografi orientali, davano così l’impressione di una notevole
estensione del “territorio” imperiale. Con le rive latine ormai sempre accessibili, anche il Mar
Tirreno, nel suo insieme, fu considerato a pieno titolo come uno spazio di sovranità, che
andava idealmente a estendere il territorio andaluso e del Maghreb occidentale, poiché era
controllato dal sovrano umayyade. La squadriglia di quest’ultimo assicurava il collegamento
tra le varie parti del dominio califfale.
Il potere ismailita diede ben altre garanzie della sua volontà di integrare lo spazio
Mediterraneo nella sfera della sovranità califfale. L’inclusione sulla scena narrativa di
aspetti relativi all’amministrazione dei porti, compreso il deposito delle armi, ne è una delle
più evidenti dimostrazioni.
Una sana gestione della flotta rappresentava uno dei settori privilegiati della dimostrazione
dell’infallibilità del califfo ispirata dai suoi antenati, legame spirituale che, secondo la
dottrina ismailita, risaliva fino al Profeta attraverso Fatimida.
Nelle due capitali, la “Casa del mare”, collocata al centro degli arsenali, richiamava il fatto
che il califfo era il sovrano degli spazi marittimi.
questi signori, detentori di una forza navale, riuscirono a perpetuare l’immagine della
sovranità andalusa, dominatrice sul mare. Le questioni giuridiche afferenti il mare assunsero
una posizione di rilievo nel corpus legislativo andaluso di quell’epoca, di pari passo alla
prosperità del commercio marittimo.
l’Oriente sembrava perdere i colpi. LO spazio marittimo, disputato dai due califfati
occidentali nel X secolo, aveva approfittato largamente delle iniziative berbere che da molto
tempo assicuravano una buona parte dello sfruttamento della zona occidentale. Prima dei
califfi furono gli emirati regionali a riuscire a mettere al loro servizio tali forse vitali, in
particolare sul mare. I Rustamidi avevano fatto la stessa cosa con i Berberi ibaditi sul
versante del Sahara.
Un mare familiare
Le prime lettere e i primi diari di viaggio marittimo conservati, nei quali l’esperienza del
viaggio per mare è riservato un posto estremamente importante, risalgono al XII secolo,
quando imbarcarsi per una traversata – per esempio per andare in pellegrinaggio alla Mecca
significava una lunga cesura dalla quotidianità.
Bisogna considerarli il segno di un cambiamento di vedute per quel che riguarda il viaggio
via mare? La sensazione di incertezza tipica di chi si imbarcava. Eredità di una lunga pratica,
il ricorso alla traversata – meno rischiosa su una nave cristiana, meno cara e più veloce
rispetto al viaggio via terra -, così come lo sfruttamento del mare da parte degli abitanti delle
coste testimoniano il ruolo essenziale del mondo marittimo nella memoria collettiva dei
musulmani che vivevano nei pressi del Mediterraneo. Se ne trovano molte tracce nella
letteratura araba di quel tempo. Nel racconto di viaggio di diede sempre più spazio al
trasporto marittimo.
Il mare dei giuristi e dei santi, spazio del diritto e della sacralità
L’attenzione dei giuristi verso i problemi marittimi mette in luce una significativa evoluzione
della società iniziata nel X secolo. Inoltre, a partire dal XII secolo, lo sviluppo dei traffici
commerciali nei porti musulmani, la pratica del viaggio per mare o la guerra navale e i suoi
effetti generarono il bisogno di un inquadramento legislativo più preciso e aggiornato a
proposito del noleggio, delle conseguenze dei naufragi e dello statuto dei marinai. Si tratta di
nuovi fenomeni sociali, come lo statuto delle spose abbondate da parte del marito navigatore,
o ancora le condizioni di viaggio in terra infedele, vietati a priori, che necessitano
dell’intervento del legislatore.
Con lo sviluppo del sufismo, il ritiro in un ribāt – o su un sito elevato che guarda verso il mare
– diventò una pratica ascetica privilegiata, al fine di seguire la via mistica. Lo sviluppo del
sufismo favorì altre forme di misticismo nelle società urbane e nelle comunità rurali, nelle
quali molti di questi personaggi rispettati finirono per assumere un importante ruolo sociale.
Parte Seconda
Le strategia mediterranee dei califfi.
La maggior parte delle informazioni fornite dai testi arabi tende a riflettere l’immagine di
uno spazio mediterraneo confiscato dai califfi e dalle autorità, in particolare quelle giuridiche.
La percezione cristiana dell’invasione araba del mare dei Romani, nei primi secoli del
Medioevo, rafforza questa sensazione di uno spazio marittimo ridotto a campo di battaglia e
in cui ogni altra iniziativa è vanificata. La scoperta delle lettere della Geniza e lo
sfruttamento di questa vasta messe di dati da parte di Schlomo Goiten hanno smentito l’idea
di un monopolio califfale dell’intervento sul mare per rivelare l’esistenza di un altro
Mediterraneo musulmano: quello dei mercanti accompagnati da devoti viaggiatori che si
recavano alla Mecca o quello degli studiosi che solcavano lo spazio islamico, proprio quando i
Latini se ne impossessavano. La somma delle informazioni procurate dai geografi arabi e,
talvolta, dai documenti esterni, latini in particolare, malgrado la precarietà delle
testimonianze sui secoli “bui”, evidenzia, almeno a partire IX secolo, un’attività ben
diversificata legata al mare e alle rive del mare interno, nel momento e nelle regioni in cui
l’autorità dell’Islam si era consolidata.
non formavano che un solo insieme, indissociabile da un punto di vista militare, e la riva non
poteva essere protetta se non si controllava lo spazio marittimo.
Sia dal punto di vista degli Arabi sai da quello dei Greci, la superiorità sul mare apparteneva
a coloro che controllavano le rotte marittime, attraverso la conquista delle isole principali.
‘Umar non poteva dunque contestare il principio di un necessario investimento marittimo
degli Arabi, dal momento che Bisanzio e, in specifico, Costantinopoli erano diventati i bersagli
prioritari dei musulmani. Il califfo valutò la forza e soprattutto l’esperienza navale dei
musulmani, insufficiente ad affrontare gli espertissimi Bizantini.
‘Umar incoraggiò Mu’āwiya e ‘Amr a creare le condizioni che l’avrebbero resa possibile. Lo
stato soddisfacente delle infrastrutture e dell’amministrazione marittima lasciate dai Greci
nella valle del Nilo permise di approntare, fin dal 643, una spedizione navale, comandata da
Wahb b. ‘Umar. Fu la spedizione inviata nel 648 contro Cipro – una delle basi da cui era
partita la flotta greca che attaccò Alessandria nel 644-5 – a trovare, per prima, risonanza sia
nelle fonti arabe sia in quelle greche. In quanto al saggio ‘Umar, seguito da ‘Uthmān, egli
impose il calendario dei preparativi che avrebbero condotto gli Arabi alla vittoria sul terreno
privilegiato dai cristiani, mostrando così come il comandante dei credenti fosse rimasto il solo
padrone della strategia della conquista.
Alla morte di ‘Umar, nel 644, la presenza araba sulle rive mediterranee rimaneva fragile,
come avevano dimostrato i Greci facendo ritorno nella loro vecchia capitale egiziana. IL primo
impegno di una flotta musulmana con sede a Qurra diventò possibile quando
l’amministrazione araba fu in grado di organizzare una spedizione – allo scopo di fornire La
Mecca e Medina di grano – con la partecipazione della vecchia dirigenza greca o egiziana.
Nondimeno, il ripristino delle strutture materiali e amministrative, nonché la mobilitazione
al servizio del nuovo impero delle competenze autoctone, permisero ai musulmani di
intraprendere un’espansione a lungo termine sul Mare Egeo.
• Obiettivo Costantinopoli
Le prima spedizioni insulari menzionate, unitamente alle ripetute razzie in Anatolia,
indicano senza ambiguità quale fosse il principale obiettivo degli Arabi una volta regolata la
fitna che opponeva gli ‘Alindi ai sostenitori del califfo umayyade (661): Costantinopoli.
Innanzitutto, occorreva mettere sotto controllo le rotte marittime ì, perché la capitale
bizantina non poteva essere piegata senza l’appoggio della flotta, tanto più che il mare offriva
agli Arabi, così come ai dissidenti bizantini, l’opportunità di raggiungere la capitale più
facilmente che via terra. I racconti dei due attacchi a Costantinopoli, il primo tra il 674 e il
677, il secondo tra il 717 e il 718, sono estremamente imprecisi, si risolsero in due fallimento
consecutivi.
I Greci avevano già reagito dopo la disfatta di Fenice, nel 655, di fronte a questa nuova
potenza navale. La perdita della Siria e soprattutto dell’Egitto, poi del Maghreb avevano
convinto gli imperatori a riorganizzare la forza marittima. La riforma navale fu una tra le
varie misure di una profonda riorganizzazione, in quanto i Bizantini – come poco dopo gli
Arabi – dovevano adattare l’esercito e la flotta alle nuove forme belliche.
arabe operative in Occidente, sulla terra come sul mare. Le tradizioni maghrebine o andaluse
hanno trasmesso il ricordo di questa centralizzazione del comando militare sia durante il
periodo sufyanide sia in quello marwide. Come sugli altri fronti, chi era nominato campo
militare deteneva il comando delle operazioni belliche e delle amministrazioni delle regioni
conquistate, ma era tenuto a renderne conto, in particolare a proposito del bottino. La catena
del comando eri identica sulla terraferma e sul mare: il governatore o l’ammiraglio
controllavano l’insieme delle operazioni in nome del califfo. L’arsenale del califfato era sotto
la responsabilità del califfo che, se non poteva occuparsene in prima persona, nominava un
ammiraglio al comando della flotta. Fin da questo periodo, l’arsenale costituisce il simbolo
dell’autorità del califfo sul mare.
La volontà del califfo ‘Abd al-Malik, sostenuto efficacemente da suo fratello, governatore
dell’Egitto, di promuovere una nuova spedizione per portare a termine la conquista dell’Africa
bizantina riguardava anche il settore marittimo centrale e occidentale, ormai accessibile dal
porto di Tunisi. La regolarità delle spedizioni marittime indica chiaramente che il dominio
delle isole era l’altro obiettivo finale, dopo una serie di razzie che dovevano indebolire le
difese.
dissidenti che stabilirono la loro autorità nelle regioni conquistate del Mediterraneo fecero
eco alle spedizioni marittime degli Umayyadi, considerandole come la prima tappa di
un’appropriazione del mare e delle isole di cui i califfi di Baghdad intendevano proseguire e
portare a termine la conquista.
rafforzamento di Bisanzio, della comparsa del potere carolingio e della situazione delle
frontiere orientali di fronte ai Turchi.
Le disfatte di Poitiers nel 732 e sul fiume Berre nel 737 e ancora, nel 751, la perdita di
Narbona, capitale dei musulmani in Gallia dal 719, rivelano la forza crescente dei Pipinidi
nel Sud della Francia attuale. Nello stesso tempo, la crisi provocata dalla rivolta dei Berberi
e le rivalità tra i clan arabi di al-Andalus avevano lasciato spazio alla ricostituzione di un
regno cristiano nella penisola. In seno all’impero, la disfatta umayyade sul Grande Zeb aveva
provocato il crollo del califfato umayyade. Ben presto, sotto il regno di al-Saffāh, le truppe di
frontiera ripresero le razzie contro Bisanzio.
Altra eredità umayyade, la costa siro-palestinese, posta sotto il controllo diretto del califfo,
costituiva il prolungamento della frontiera bizantina. Al-Mansūr impartì l’ordine di
ripristinare i porti e le difese davanti al mare e di trasferire l’ammiragliato da Alessandria a
Tiro. Subito dopo la conquista dell’Iraq, califfi abbasidi di preoccupavano di rafforzare
l’amministrazione delle zone del fronte, minacciate sia per terra sia per mare dagli imperatori
isaurici.
La seconda fare della controversia iconoclastica, alla fine dell’VIII secolo, diede l’opportunità
ai califfi di rilanciare le grandi visite di ispezione a cavallo attraverso l’Anatolia, con il
sostegno delle squadre navali, e addirittura di aggiornare per un breve periodo il grande
progetto al quale gli Umayyadi avevano dovuto rinunciare: la conquista di Costantinopoli.
Fino all’838, parecchie spedizioni sfondarono le difese bizantine, rendendo la Penisola
anatolica più vulnerabile, Ma nello stesso tempo, il rafforzamento militare dei Bizantini non
permise né ai cristiani né ai musulmani di conquistare un vantaggio decisivo: le stesse
frontiere musulmane subivano gli attacchi dei cristiani.
La difesa dell’impero divenne la preoccupazione maggiore. Tenendo conto dei dati di natura
strategica, i sovrani, alla ricerca di legittimità attraverso la guerra, fecero dell’enorme sforzo
di messa in sicurezza delle frontiere la base di un nuovo jihād califfale. Diedero dunque
precedenza alle iniziative che avrebbero impedito alle forze nemiche di aprire varchi nelle
frontiere dell’Islam, per mare e per terra, cosa che non escludeva affatto ulteriori attacchi in
territorio nemico per terra e per mare. Le razzie in Anatolia e per mare non cessarono mai e
portarono alla conquista di molte isole, soprattutto nell’Egeo. A partire dall’827, l’intervento
musulmano a Creta e in Sicilia, dopo quello a Cipro e nelle Baleari, consolidò il potere
islamico sul mare. La considerevole quantità di opere difensive sulla frontiera califfale fa
pensare che la protezione delle coste fosse uno dei più ambizioni programmi portati avanti
all’epoca. Nel contempo, le virtù del jihād furono riprese e adeguate alle norme di
combattimento, considerate più valorizzanti e che erano circoscritte alla frontiera.
La diplomazia abbaside
Le ambascerie, la circolazione delle lettere o, ancora, l’accenno a viaggi compiuti da
messaggeri sono buoni indizi per quel che riguarda l’intensità delle relazioni diplomatiche
tra gli Stati che si affacciavano sul Mediterraneo. E numerose menzioni della circolazione dei
rappresentanti delle corti imperiali, califfali, della Curia romana, dei principati e degli
emirati sono prove dell’esistenza di relazioni ininterrotte tra sovranità cristiane e
musulmane, intorno al Mediterraneo. Anche gli scambi tra capitali avevano una lunga
consuetudine. I Pipinidi inaugurarono i rapporti diplomatici con i sovrani musulmani: Pipino
il Breve nel 765 inviò degli emissari ad al-Mansūr, e questi ritornarono accompagnati degli
ambasciatori del califfo, salpando dalla costa siriana per sbarcare poi a Marsiglia. La
delegazione califfale rimase circa tre anni nel regno franco prima di tornarsene in patria.
Come di consueto, il contenuto delle conversazioni non è precisato: ad attribuire valore
all’iniziativa è l’elenco dei doni, che rispecchia la potenza del sollecitatore, il quale doveva
così impressionare il suo interlocutore. Gli scambi di ambasciate tra Carlo Magno e i califfi
furono avviati nel 797.
La motivazione più spesso avanzata per queste missioni, in assenza di frontiere comuni tra
l’impero carolingio e il califfato, è quella di alleanze di circostanza contro i nemici comuni del
momento: dal lato carolingio, furono gli Andalusi a essere presi di mira, in particolare nel
767, ma anche i Bizantini, diventati avversari dei due imperi da quando Pipino il Breve aveva
deciso di intervenire in Italia. Dopo la consacrazione a re d’Italia del figlio Carlo Magno,
Pipino, e le relative conseguenze sulle relazioni con Costantinopoli, indebolite dalla crisi
iconoclastica, fu ancora la Penisola a essere oggetto di discussioni con i musulmani, quando
nell’806 il Veneto e la Dalmazia furono attaccati dall’esercito franco.
Per i califfi, era importante innanzitutto l’essere riconosciuti come i soli sovrani musulmani
del Mediterraneo. Dal canto loro, i Carolingi erano in guerra contro gli Umayyadi sul fronte
catalano e avevano intenzione di assumere la sovranità delle coste italiane, fino ai confini con
lo Stato Pontificio. Una volta incoronato Carlo Magno imperatore, l’impero carolingio dovette
apparire come una delle grandi potenze del Mediterraneo. Il ricevimento e l’invio di
ambasciatori permisero al califfato di Baghdad di ricollocarsi anche nel cuore degli affari
mediterranei, come interlocutore diretto degli avversari cristiani, ricordando nella stessa
occasione ai sudditi musulmani che la guerra, come la pace, rientrava unicamente nella sfera
dell’autorità califfale: il Mediterraneo occidentale non era più governato dal califfo, ma
rimaneva lo spazio sovrano del comandante dei credenti. La presenza dei suoi ambasciatori
nelle corti imperiali del mondo cristiano ne costituiva il simbolo più evidente.
La lettura dei testi prodotti dalle vittime della violenza reiterata e istituzionale generata dal
carattere permanente del conflitto tra musulmani e cristiani si è sempre tradotta, per il
momento, nella constatazione di una crisi unilaterale, che investiva tutti i paesi affacciati sul
Mediterranei. Eppure, la guerra non è stata soltanto una fonte di impoverimento, bensì –
tutt’al contrario – la base di un’economia ad alto rischio ma proficua per alcune categorie di
popolazioni delle frontiere. Quanto ai testi arabi che descrivono la strategia dei sovrani
musulmani, essi evitano ogni riferimento ai finanziamenti impiegati per la costruzione del
ribāt, se non per indicare la generosità di alcuni ulemā e dei pii sovrani.
Dal IX secolo, l’intervento delle truppe, il numero di costruzioni reperite dagli archeologi o
citate nelle fonti arabe, le menzioni delle opere concernenti le città portuali, il coinvolgimento
delle flotte o la concessione di terre agli uomini vicini al potere rappresentavano tutti forme
diverse di investimento, nel complesso abbastanza considerevoli, e pongono la questione dei
mezzi di cui disponevano allora i governi e le popolazioni interessate: la guerra ha sempre
alti costi ma, nel IX secolo, generò un movimento umani ed economico che segnò
profondamente il Mediterraneo medievale e che richiama sviluppi analoghi, benché assai più
documentati, sulle sponde latine.
A partire dal IX secolo, il settore occidentale del Mediterraneo si animò sotto l’impulso dei
musulmani. Le menzioni di questo fervore marittimo mettono comunque in luce un
movimento generalizzato che non può spiegarsi con le iniziative spontanee di comunità di
marinai che avrebbero deciso, più o meno nello stesso momento, di guadagnarsi da vivere
lanciandosi nella pirateria contro i Latini e nel commercio con i loro compatrioti.
La flotta e il jihād
Gli Aghlabidi acquisirono esperienza nell’ambito dell’organizzazione della propria forza
navale, cosa che permise loro di disporre quasi continuamente di mezzi per sostenere il jihād
insulare dall’827 al 902. Malgrado l’impossibilità di effettuare calcoli precisi sul numero di
uomini e navigli coinvolti, le 32 spedizioni partite dall’Ifrīqiya, e che necessariamente
mobilitarono importanti flotte nel quadro della conquista della Sicilia, senza contare le
innumerevoli traversate in direzione dell’isola o del continente europeo, danno un’idea dei
mezzi navali a disposizione. Nell’827-8, all’epoca del primo tentativo condotto da ‘Asad b.
Furāt contro Siracusa, la flotta respinse i rinforzi inviati; alla fine, fu l’arrivo di una nuova
squadriglia bizantina a salvare la capitale, cosicché i musulmani furono obbligati a bruciare
le loro navi sul posto prima di addentrarsi nell’entroterra. Nell’831, Palermo, fu costretta a
cedere; nell’835, la flotta musulmana permise di liberare Napoli, alleata di circostanza, dal
controllo di Sicardo, principe di Benevento, il quale cercava di prendere il controllo sui porti
della regione. Nell’840, le rivalità tra cristiani, in Calabria, offrirono l’opportunità agli Arabi
di impossessarsi di Taranto, che diventò da allora il centro nevralgico delle operazioni
musulmane nell’Italia del Sud. Ancona venne saccheggiata nello stesso anno.
Bari cadde nell’849, nonostante la presenza nella regione degli eserciti dell’imperatore
Ludovico II: senza una flotta, la città non poté essere salvata.
Agli inizi degli anni Settanta del X secolo, fu intrapresa una serie di offensive musulmane
della regione di Salerno ad opera di truppe fatte passare da Taranto, mentre Bari ricadeva
nella mani dei cristiani. L’arrivo nell’875 di un nuovo governatore aghlabile nella capitale
siciliana, con contingenti militari rinnovati, rilanciò la guerra di conquista ma fu solo il suo
successore che riuscì ad impadronirsi di Siracusa nell’878.
le cui basi risalivano al secolo precedente, sia sulle rive di Bisanzio sua su quelle latine.
Questo movimento generalizzato è confermato dallo sviluppo di reti commerciali che
coprirono lo spazio del mare interno, testimoni e attori dello sviluppo generale del commercio
su scala mediterranea.
Il vero confronto tra i due califfati non ebbe luogo sul mare, ma sulla terra maghrebina.
Occorreva che i califfi concentrassero i loro sforzi sull’Africa e mobilitassero la flotta per
traghettare i rinforzi o per pattugliare le coste africane. A parte alcuni allarmi relativi ad
attacchi vichinghi senza reali conseguenze la costa andalusa non fu molto minacciata.
Ibn Abī ‘Āmir al-Mansūr, dopo essere solito al potere a scapito dei comandanti storici del
califfato si lanciò in una serie di campagne militari spingendosi addentro in terra cristiana,
talvolta fino ai piedi dei Pirenei.
Eluse la rivendicazione del califfato universale, che comprendeva la conquista di Baghdad,
dando invece spazio a una guerra sistematica contro i cristiani della Penisola. Il mare non
rappresentava più un terreno di legittimazione poiché la conquista dell’Oriente non era più
all’ordine del giorno.
Gli Almohadi, califfi di Marrakesh, disposero probabilmente della più grande forza navale
dell’Islam medievale sul Mediterraneo e vi rincorsero largamente, all’inizio per conquistare
territori musulmani a spese degli Almoravidi, poi degli Hammadidi di Bugia e degli Ziridi in
Ifrīqiya, fino a Tripoli. La formazione dell’impero si completò nel 1161 con la conquista dei
porti dell’Ifrīqiya, che Ruggero II di Sicilia aveva sottratto agli emiri, in particolare Mahdia.
In seguito, il califfato affrontò le forze navali dei Latini – Italiani, Catalani, Portoghesi, con
l’obiettivo di preservare il dominio marittimo. Fino ai primi segni della crisi dinastica che
seguì il disastro di Las Navas de Tolosa e che fece lentamente collassare su sé stesso il
califfato di Marrakesh, la flotta riuscì a contenere gli assalti latini e a proteggere le coste
Conclusione
Il Mediterraneo medievale, uno spazio di memoria dell’Islam.
Dall’epoca del califfato di Medina, la figura di ‘Abd Allāh b. Qays al-Jāsī, l’uomo che condusse
cinquanta campagna marittime, primo martire musulmano ad aver ottenuto la gloria alla
testa della flotta del califfo sbarcando a Cipro verso la metà del VII secolo, occupa un posto
di rilievo nella memoria collettiva trasmessa dagli storici di Baghdad.
Il destino marittimo di alcuni divenne il soggetto di racconti che rendevano loro onore in
quanto eroi che combatterono i cristiani sul mare. Tutte queste gloriose azioni ricordavano
quelle diffuse dai racconti degli eroi della conquista araba, celebri per aver spostato in avanti
i confini della Dār al-Islām. Il Mediterraneo dei testi arabi si distinse così, tra i mari
dell’Islam, con luogo del compimento del jihād condotto dal califfo, anche se questo non vi si
impegnava personalmente.
Il mare dei Romani era diventato il campo immenso e terribile della dimostrazione
dell’universalità islamica, sotto la guida del califfo. Esso incarnava per eccellenza lo spazio
ostile per il credente, divenuto nel contempo il mare del martirio, la cui conquista, che doveva
concludersi con la presa di Costantinopoli e di Roma, precedeva l’inizio del tempo della
salvezza. Di conseguenza, le gesta dei grandi marinai dell’Islam che rappresentarono il califfo
in mare connotavano il Mediterraneo, tra i mari della Dār al-Islām, come l’unico spazio
marittimo del jihād califfale. Islamizzazione, guerra delle frontiere, terrestre e marittima, o
vantaggi commerciali furono sempre considerati dai musulmani come un solo e medesimo
impulso, che associava spirito di conquista, resistenza contro gli attacchi cristiani e affari
proficui. L’Islam, come Bisanzio, seppe sfoderare le armi del commercio mediterraneo, e i
Latini diedero altrettanto prova di abnegazione prendendo la Croce per liberare il Santo
Sepolcro. Lo scarto tra i due mondi, secondo Fernand Braudel e Jacques Le Goff,
consisterebbe nella capacità delle repubbliche marinare italiane e della Corona di Aragona
di organizzare una struttura che privilegiasse gli affari dei mercanti grazie, innanzitutto,
alla capacità di mobilitare i capitali per un commercio su ampio raggio e di creare con lo
strumento dell’assicurazione marittima i mezzi per affrontare rischi finanziari e tecnici.
Nello stesso tempo, sul Mediterraneo medievale, sia il mercante ebreo della Geniza sia le
ricche famiglie musulmane di Siviglia, proprietarie di grandi tenute agricole, erano esempi
della capacità di condurre affari prosperi, addirittura avventurosi.
Effettivamente, il Mediterraneo e i suoi territori musulmani che gli scritti di numerosi autori
restituiscono non sono spazi riconfigurati da una memoria nostalgica, bensì un territorio
dell’Islam da riconquistare sotto l’impulso di nuove forze.
Ibn Khaldūn assegna la mare il suolo di frontiera, controllata dai poteri più forti dell’Islam,
califfi o sultani, non come fine a sé stesso, bensì come preludio alle nuove conquiste sotto la
guida dei principi più virtuosi e di forze tribali conquistatrici, animate dal soffio dell’islam.
Come altri intellettuali musulmani, egli non cercava un luogo particolare dell’Islam da dove
sarebbe partita la riconquista, bensì un esercito e la sua guida, in grado di rianimare lo spirito
conquistatore degli antenati arabi. Il Mediterraneo perduto non era più il luogo di vane
nostalgie, ma uno spazio da riprendere ai cristiani grazie al soffio dell’islam.
Paradossalmente, una mare “tranquillo” come l’Oceano Indiano – mare degli Arabi -, ossia
senza nemici dell’Islam, non poteva diventare il mare del califfo. Bisognerà attendere un’altra
epoca, quella del dominio del califfato e dei sultani egiziani, o quella dei sultani rasulidi di
Aden perché il commercio marittimo diventi uno strumento della dimostrazione del dominio
dei sultani dei mari arabi. Sotto l’autorità dei califfi di Baghdad, soltanto il mare dei Romani,
ossia il mare nemico, poteva essere lo scenario della rappresentazione del jihād califfale,
integrando ogni forma di espazione, religiosa, militare o commerciale, sebbene né i califfi
della conquista né gli Abbasidi né gli Umayyadi né, tantomeno, i Fatimidi a gli almohadi
avessero mai “cavalcato” il mare dei califfi, se non attraversare lo stretto di Gibilterra.