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STORIA PER IL TURISMO

LE PUGLIE NEL MEDIOEVO


di Vito Bianchi

Più che parlare di “Puglia” converrebbe orientarsi sul termine “Puglie”, al plurale.
L’identità regionale è in effetti apparsa in più momenti frastagliata, segmentata,
parcellizzata da particolari condizioni etno-politiche e socio-economiche. Per cui, alla
ripartizione pre-romana in Daunia (a nord), Peucezia (al centro) e Messapia (a sud della
regione, e senza dire della presenza sullo Ionio di Taranto, metropoli della Magna Grecia
fondata dagli Spartani), nel basso Medioevo e fino all’età moderna potrà corrispondere,
approssimativamente, la distinzione in Capitanata (il Foggiano), Terra di Bari (il Barese) e
Terra d’Otranto (il Salento). Con la romanizzazione, e in particolare con l’organizzazione
territoriale conferita da Augusto all’Italia, la regio secunda era apparsa invece bipartita in
Apulia et Calabria, con una parte centro-settentrionale che giungeva a inglobare fasce del
Molise, della Campania e della Basilicata, e una parte meridionale corrispondente
grossomodo al Brindisino, al Leccese e al Tarantino (il toponimo Calabria, infatti, in
origine designava esclusivamente il promontorio salentino, e solamente in seguito verrà
esteso alla terra che ne ha conservato tuttora il nome: l’odierna Calabria, in antico, si
chiamava difatti Bruzio). La riforma operata da Diocleziano, che alla fine del III secolo
provvide a istituire province amministrate da governatori, non fece in buona sostanza che
confermare per il distretto pugliese l’assetto augusteo, tenendo evidentemente conto delle
specificità ambientali e delle articolazioni culturali insite nelle due porzioni in cui la Puglia
era stata scompartita. Gli eventi d’epoca tardo-antica e alto-medievale, in qualche misura,
contribuiranno poi a confermare gli indirizzi seguiti dall’amministrazione imperiale di
Roma: sicché, a un certo punto, il territorio delle Puglie, pur nel fluttuare dei confini, sarà
appannaggio dei Longobardi nella porzione mediana e superiore, e si manterrà bizantino
in quella inferiore.
LE BASILICHE PALEOCRISTIANE
La caduta dell’impero romano d’Occidente del 476 e l’avvento degli Ostrogoti di Teodorico
non dovettero provocare dei contraccolpi troppo deleteri, per una regione in cui un fattore
di stabilità era costituito dalle istituzioni vescovili: nello scompiglio cagionato dal
disfacimento delle strutture amministrative della romanità, la salda presenza di diocesi
garantì difatti un riferimento di natura non soltanto religiosa, giacché i vescovi
esercitavano spesso, nelle relative circoscrizioni, anche importanti funzioni di pubblica
amministrazione. In un frangente segnato da profonda ruralizzazione, l’istituto episcopale
ineriva tanto le realtà urbane quanto gli ambienti pagano-vicanici: non è perciò raro il caso
di diocesi rurali, di cui è emblema il sito di San Giusto, nei pressi di Lucera, scavato dagli
archeologi pochi anni or sono. Del resto, grazie a un apparato portuale tradizionalmente
propenso ad assorbire le sollecitazioni promananti dal Mediterraneo orientale, dal III-IV
secolo il Cristianesimo appare diffuso abbastanza capillarmente nelle Puglie, soprattutto
per il tramite di antichi assi viari, come la via Traiana (e, parzialmente, la via Appia), che
innervavano longitudinalmente il territorio e continuavano a espletare una piena efficienza
anche dopo il tracollo dell’Urbe. Le scoperte archeologiche comunicano concretamente il
rigoglio conosciuto fra V e VI secolo da città che, come Egnazia, Siponto o Canosa, erano
sedi episcopali, e in cui si promuovevano imponenti programmi edilizi, culminanti sovente
nell’erezione di monumentali basiliche pavimentate a mosaico. Fu in quel periodo che
cominciò ad attrarre pellegrinaggi il santuario garganico di Monte Sant’Angelo, dedicato a
quell’arcangelo Michele il cui culto, una volta di più, era approdato sulle sponde apule dalle
aree mediorientali. Da sempre rivolta a Levante, la Puglia non poteva d’altronde che
accoglierne le suggestioni artistiche tardo-antiche, riassunte nelle decorazioni musive della
chiesetta di Santa Croce a Casaranello.
BIZANTINI, LONGOBARDI E SARACENI
Le difficoltà sopraggiunsero con la Guerra Greco-gotica (535-553), che produsse carestie
ed epidemie nefaste. Per quasi un ventennio, le contrade pugliesi furono il teatro di una
durissima lotta fra i Goti di Totila e i Bizantini di Giustiniano. L’imperatore di Bisanzio,
che aveva in animo di riportare all’unità l’impero romano, risulterà alfine vittorioso. Ma il
suo progetto riunificatore avrà respiro corto: la calata dei Longobardi, che nel 590
fondarono il ducato di Benevento, immetterà sul suolo apulo dei nuovi interlocutori
politici, capaci di contrapporsi tenacemente all’espansionismo bizantino. La spedizione di
Costante II, che nel 663 attraversò la Puglia con l’esercito imperiale, andandosi ad
attestare in Sicilia per bloccare le minacce portate dai musulmani del Maghreb, si chiuse
con l’assassinio del sovrano costantinopolitano a Siracusa, nel 668. Scampato il pericolo, i
duchi beneventani ripresero possesso di parecchie località, ampliando ulteriormente i
propri domini, e obbligando i Bizantini alla realizzazione di un vallo chiamato “Limitone
dei Greci”, a protezione degli estremi possedimenti salentini. L’egemonia longobarda si
sostanziò dell’ingerenza sul sacrario micaelico del Gargano, e si tradusse nell’VIII secolo in
una gestione territoriale basata sull’ufficio dei gastaldi, che avevano il compito di
governare e presidiare militarmente i principali centri urbani. Consuetudini e costumi
della Langobardia Minor improntarono da allora le norme concernenti il diritto personale
e familiare, mentre formulazioni architettoniche e schemi pittorici elaborati in ambito
beneventano presero a essere reiterati negli edifici pugliesi: il tempietto di Seppannibale,
in agro di Fasano, con la sua forma e le sue pitture, è in proposito paradigmatico. Nella
inesausta contesa fra Longobardi e Bizantini si intromise dal IX secolo la componente
islamica. Risalendo dalla Sicilia o dal Nord-Africa, i Saraceni espugnarono Brindisi
nell’838 e, dall’840 all’880, fecero di Taranto una base cruciale per il commercio degli
schiavi. Bari, a sua volta, conquistata da masnade musulmane nell’847, diverrà addirittura
un emirato che, ufficialmente riconosciuto dal califfo di Baghdad, fino all’871 estenderà la
propria supremazia su molte delle città e delle campagne pugliesi: e va ricordato che già
allora si potevano intercettare nel contado non soltanto casali sub-divo, ma anche
insediamenti rupestri, con le loro abitazioni e le loro chiese ritagliate nella roccia e
traboccanti di affreschi. Solo la decisa reazione delle armate e delle flotte bizantine,
coadiuvate in talune circostanze dalle schiere dell’imperatore romano-germanico Ludovico
II, consentirà di mettere un po’ d’ordine nella confusa vicenda meridionale.
IL CATEPANATO D’ITALIA
Con la “seconda colonizzazione bizantina”, la Puglia tornò in prevalenza nell’orbita greco-
orientale, e il suo territorio, insieme a un cospicuo pezzo della Lucania, divenne il théma di
Longobardia, giurisdizione avente a capo uno stratego investito di autorità militare e
civile. Capoluogo del dipartimento fu Bari, elevata sullo scorcio del X secolo al rango,
eminente, di residenza del catapano d’Italia. La bizantinocrazia sarebbe durata un paio di
secoli, favorendo i rapporti fra la Puglia e Costantinopoli, incentivando la fioritura di
comunità ebraiche (peraltro già esistenti a Oria o Venosa), e promuovendo l’immigrazione
di gruppi allogeni. Le terre pugliesi continuarono insomma ad essere un crogiuolo in
fermento di molteplici culture, di religioni ed esperienze d’arte che, pure, non è semplice
rintracciare nei troppo sporadici monumenti (si guardi alle chiese di San Lorenzo a
Mesagne, di Santa Maria di Crepacore vicino a Oria, di Sant’Eufemia a Specchia o di
Sant’Apollinare nei pressi di Rutigliano) sopravvissuti all’alto Medioevo. Con la
centralizzazione del potere e una rigorosa burocrazia, i Bizantini ritennero comunque di
poter trovare un equilibrio fra le popolazioni di lingua greca, le genti di origine longobarda,
il clero di rito latino e quello di rito greco. Nel campo del diritto si tenne conto delle
differenti estrazioni, per cui il codice bizantino fu applicato nel Salento, mentre altrove
restarono in vigore le leggi longobarde. Lo sviluppo impresso all’agricoltura condusse a
una graduale espansione demografica ed economica, benché la fiscalità bizantina apparisse
talora opprimente per le aristocrazie cittadine e la borghesia mercantile, vogliose di
ritagliarsi spazi crescenti di autonomia per alimentare un personale circuito commerciale.
E se le fratture coi principati longobardi non giunsero mai a ricomporsi del tutto, neanche
le scorrerie saracene smisero di perturbare il litorale e l’entroterra: ancora nel 1002-1003,
Bari veniva assediata da milizie islamiche, scacciate per il sopraggiungere delle navi di
Pietro Orseolo II, doge di Venezia. Di lì a poco un raccolto disastroso, il malcontento
popolare e le ambizioni di alcuni maggiorenti d’ascendenza longobarda innescarono contro
l’autorità bizantina l’ennesima ribellione, capeggiata dal barese Melo. Per più di un
decennio, fra alterne sorti, l’insurrezione si propagò soprattutto alla Puglia del Centro e del
Nord, coinvolgendo nella lotta ai Bizantini elementi musulmani, principi longobardi e
finanche le forze di Enrico II, sovrano del Sacro romano impero germanico. Dal conflitto
scaturirà la catena di formidabili centri fortificati (Dragonara, Fiorentino, Troia e altri) che
il catapano Basilio Boioannes porrà a presidio di una zona fondamentale per
l’approvvigionamento dei cereali: ed è in questa occorrenza che l’area del Tavoliere
prenderà a essere chiamata “Capitanata”, “luogo del catapano”.
L’AVVENTO DEI NORMANNI
Del caos seppero abilmente approfittare i Normanni che, intervenuti inizialmente al fianco
dei rivoltosi, proseguirono l’azione da soli. Nel 1043 Guglielmo d’Altavilla assunse il titolo
di conte di Puglia, e nel 1047 l’imperatore Enrico III riconobbe i primi domini normanni.
Dapprima ostile ai conquistatori d’Oltralpe, il papato sarà costretto ad accordarsi coi nuovi
arrivati all’indomani della disfatta nella battaglia di Civitate, nel 1053, con conseguente
prigionia di papa Leone IX: così, nel 1059, a Melfi, papa Niccolò II investiva Roberto il
Guiscardo del titolo di duca di Puglia e Calabria. Non passerà molto, e con la caduta di Bari
nel 1071, seguita dalla presa di Brindisi, la regione sarà definitivamente sottratta ai
Bizantini. A fronte di una momentanea paralisi della crescita economica, dovuta ai
tumultuosi mutamenti, l’XI secolo sarà invece foriero di fermenti e personalità artistiche:
Acceptus, David, Romualdus sono i nomi degli scultori che firmarono splendidi pulpiti e
magnifici troni vescovili a Siponto, Monte Sant’Angelo o Canosa. Nel marmo dei loro
capolavori si rifletterebbe - stando alla critica - la memoria di tutta una produzione di
tessuti e oggetti (oggi perduti) in metallo, avorio, legno e stucco che, alla matrice
microasiatica, sapevano associare una sintassi più europea, di probabile origine carolingio-
ottoniana, filtrata dalla Longobardia campana. In architettura, la svolta fu data
dall’edificazione della basilica barese di San Nicola. Con la scomparsa del Guiscardo nel
1085 e le rinnovate spinte dei ceti medi si era infatti riavviato lo sviluppo delle città
pugliesi, capaci di intrattenere relazioni commerciali con Amalfi, Ragusa, Venezia e in
genere con le coste adriatiche ed egee. La rinascita si manifestò nell’elevazione di chiese
grandiose che, improntate sul modello nicolaiano di Bari, composero la grande stagione
del “romanico pugliese”, maturata appieno nel XII secolo. La realizzazione di cattedrali e
basiliche varie era altresì funzionale al programma di latinizzazione di una regione ancora
fortemente grecizzata, come stavano a dimostrare le tante chiesette che, sparse nelle
campagne, con la loro struttura “a croce contratta” replicavano moduli mediterraneo-
orientali. Il rinnovamento dell’edilizia ecclesiastica poteva dunque servire a esprimere il
cambio di rotta, rendendo manifesto l’avvento di dominato diversi, che nulla avevano da
spartire coi Bizantini. E per legittimare un’autorità generata nella violenza e corroborata
dalla proliferazione di castelli, i Normanni si dimostrarono prodighi con diocesi e
monasteri (essenzialmente benedettini), che ebbero la possibilità di incrementare le
proprie pertinenze e divulgare per borghi e campagne il credo di Santa Romana Chiesa.
L’ETA’ DELLE CROCIATE
Nel frattempo, per la sua vocazione geografica ad attingere il Levante, la Puglia diveniva
con le Crociate l’anticamera della Terrasanta, in un via-vai di guerrieri, fedeli e
rifornimenti che salpavano dai porti col supporto logistico degli ordini monastico-
cavallereschi dei Templari, dei Teutonici e dei Gerosolomitani. I traffici sostenuti
accentuarono la prosperità e la vitalità urbana, e quando Ruggero II, nel 1130, creò il
Regnum Siciliae, imponendo al Meridione un unico scettro, la Puglia venne ad essere
inserita a pieno titolo nei circuiti di uno Stato fortemente informato dai dettami artistici
arabo-siculi. In più, specialmente negli ultimi anni della monarchia ruggeriana, si poterono
sfruttare commercialmente gli orizzonti aperti sull’Africa e sull’Asia Minore. Nondimeno, il
rigido accentramento monarchico cozzava col desiderio di indipendenza e libertà delle città
pugliesi, pronte a ribellarsi alla minima occasione. La risposta dei regnanti normanni alle
insurrezioni fu il più delle volte spietata: Guglielmo I “il Malo”, nel 1156, rase quasi
completamente al suolo Bari. Stesso destino dovette toccare ad altre località. Le repressioni
e le distruzioni provocavano talora la sospensione delle intraprese edilizie, e l’emigrazione
delle maestranze, private del lavoro, nei cantieri di Sicilia, Palestina, nord Italia o Francia.
Al ritorno nelle Puglie, costruttori, lapicidi e scultori divenivano latori di canoni e stili che,
appresi altrove, si miscelavano con la tradizione locale e generavano un linguaggio
originale, fatto di echi nordici, influssi mediorientali e atmosfere islamiche. Un clima più
conciliante venne d’altro canto instaurato dal 1166 con l’ascesa al trono di Guglielmo II “il
Buono”, che concesse esenzioni fiscali, assentì a una serie di consuetudini comunali,
agevolò le associazioni di mercanti e marinai, disciplinò i funzionari regi e stipulò trattati
commerciali coi Veneziani. La seconda metà del XII secolo vide così un rifiorire
dell’architettura, della scultura e del mosaico applicato alle chiese: a Bari si ricostruì il
duomo e si adornò ulteriormente San Nicola; a Lecce si eseguirono decorazioni plastiche
per i SS. Niccolò e Cataldo; a Trani si scolpì per l’Ognissanti, e Baresano fuse nel bronzo lo
stupendo portone del San Nicola Pellegrino; a Otranto e a Brindisi si dispiegarono
meravigliose pavimentazioni musive nelle cattedrali. Il rigoglio artistico si arrestò soltanto
con la crisi dinastica subentrata alla morte di Tancredi, ultimo re normanno. La potestà di
Enrico VI di Svevia, che aveva acquisito il Regno di Sicilia in virtù delle nozze con Costanza
d’Altavilla, si rivelerà effimera, e non impedirà al Sud di precipitare nell’anarchia.
Nuovamente, le Puglie patiranno una diaspora di artigiani e artisti (che gli studiosi
presumono emigrati principalmente in Sicilia).
GLI SVEVI FRA ORIENTE E OCCIDENTE
Bisognerà attendere l’assunzione effettiva del potere da parte di Federico II, nel 1220, e il
nuovo assetto statale imposto dall’Hohenstaufen, per veder ripartire le costruzioni di città,
chiese e castelli. Aggiornando la rete castellare normanna e riattando dei vecchi fortilizi,
l’imperatore svevo predispose un’accurata maglia di castra e domus che dovevano
consentirgli sia un migliore controllo del territorio, sia dei soggiorni di piacere nei
prediletti loca solaciorum. La corte imperiale era il fulcro di una regalità e di un regno che,
centrato fra Mediterraneo ed Europa, condensava Oriente e Occidente. Modelli
oltremontani e dettami musulmani, innovazioni gotiche ed eredità romaniche, scienza
araba e maestria cistercense confluirono pertanto nelle soluzioni architettoniche e
plastiche delle fabbriche federiciane. Spiccò l’operato di magistri del calibro di Alfano da
Termoli, Melo da Stigliano o Bartolomeo da Foggia. Si levò la maestà di un Castel del
Monte o dello scomparso palatium di Foggia. E a Lucera e dintorni, la deportazione di
saraceni dalla Sicilia trapiantò l’artigianato di sopraffini ceramisti, ideatori di tecniche
decorative inusitate, e artefici di prodotti ricercatissimi. Il Duecento, così ricco di spunti
culturali e artistici, aveva insomma fecondato un regno che, peraltro, Federico II non si
fece scrupoli nel governare con una buona dose di durezza: colpì aspramente chi
parteggiava per il pontefice, appesantì le imposte e, sebbene istituisse delle fiere, agì in
regime di monopolio nella compravendita di determinate merci, finendo per danneggiare i
delicati equilibri dell’economia pugliese. Specie nell’ultima fase del principato federiciano,
le guerre condotte contro il papato e i Comuni aumentarono notevolmente il carico fiscale,
gettando il regno in una crisi di lunga durata. Il successore, Manfredi, che pure provò a
favorire gli scambi marittimi, si vide costretto a reprimere le sollevazioni di molte
cittadine, prima di soccombere nel 1266 di fronte a Carlo I d’Angiò, fratello del re di
Francia, chiamato da papa Urbano IV a eliminare gli Svevi.
IL PERIODO ANGIOINO
Gli Angioini rimpiazzarono l’antica feudalità del Sud con gli esponenti fidati
dell’aristocrazia d’Oltralpe. Confiscarono, smembrarono le fortezze regie e infeudarono
largamente a favore dei barones ultramontani. La “francesizzazione” coinvolse i quadri
amministrativi, e franco-provenzali furono pure gli architetti regnicoli. Su tutti, il
protomagister operum curie Pierre d’Angicourt di Beauvais, ma anche il lorenese Jean de
Toul e il piccardo Pierre de Chaule, che insieme a Baucelin de Linais, a Charles de Chapot o
Stefano d’Orléans contribuirono a diffondere castelli muniti di torri cilindriche, caditoie,
merli e bertesche. Di marca ultramontana era poi la muratura in laterizio, semisconosciuta
in terre che prediligevano piuttosto la squadratura di massi litici: le chiese e le
fortificazioni di Lucera furono perciò dotate di pareti in mattoni. Gli apporti architettonici
gotico-angioini dovettero tuttavia penetrare scarsamente in una regione dove, sempre più,
la popolazione veniva sottoposta alle angherie di una nobiltà feudale sguazzante a proprio
piacimento fra le maglie larghe di una monarchia meno vigile e meno forte di quelle
normanna e sveva. La depressione fu acuita nel 1282 dai Vespri Siciliani, che innescarono
una belligeranza estenuante con gli Aragonesi. Le incombenze belliche obbligarono la
Corona angioina a rivolgersi a finanziatori fiorentini, genovesi e veneziani. Per estinguere i
debiti, gli Angiò concessero loro immunità e franchigie, cosicché i flussi commerciali
finirono per essere controllati dagli imprenditori stranieri. Grano, olio e lana pugliesi
divennero monopolio di capitalisti forestieri. Le rivalità feudali, le contese dinastiche e le
guerre esterne fecero il resto, depauperando enormemente il sistema economico regionale.
Nella precarietà che attanagliava la popolazione pugliese, le arti visive sembrano porsi in
continuità col passato, alimentate da una committenza artistica che dipenderà parecchio
dalla casa reale e dalle famiglie nobili. In un simile contesto, l’evidente connessione con la
pittura latina di Terrasanta è stata spiegata con l’apporto di artisti venuti dal Vicino
Oriente e da Cipro. E comunque, per l’intero XIII secolo e ancora nel XIV, gli affreschi
saranno distesi a colmare non solo cripte rupestri, ma anche chiese sub-divali, in cui
tramandare quegli stilemi bizantineggianti che sono percepibili fino in Santa Maria del
Casale, a Brindisi. Gusti, suggestioni e iconografie che guardano alla capitale, a Napoli, si
riscoprono nei cicli pittorici dell’abbazia di San Leone a Bitonto. Più avanti, a Trecento
inoltrato, sarà in prevalenza il patriziato pugliese a incoraggiare un’arte legata tanto al
francescanesimo, protetto in età angioina, quanto al desiderio di glorificare la stirpe: gli
Orsini, membri di un casato potentissimo, sovvenzioneranno così lo scrigno variopinto di
Santa Caterina d’Alessandria in Galatina.
UN’ARTE D’IMPORTAZIONE
La potenza crescente dei feudatari, spesso in contrasto fra loro o addirittura con i regnanti,
avrà il suo apice nel Principato di Taranto, che con Antonio del Balzo Orsini, alla metà del
XV secolo, occuperà buona parte della Puglia e della Basilicata, sfidando la monarchia. Dal
1442, sul trono napoletano si erano insediati gli Aragona. Per ridimensionare le ambizioni
orsiniane, dietro le quali si celavano i revanscismi angioini e le manovre della Serenissima,
Ferdinando I (1458-1494) dovette allearsi sia con l’eroe d’Albania, Giorgio Castriota
Skanderbeg, sia con gli Sforza di Milano: all’uno andranno in compenso i feudi garganici di
San Giovanni Rotondo e Monte Sant’Angelo, agli altri il ducato di Bari. Per le Puglie, il
Quattrocento fu il secolo di Otranto in mano turca (nel 1480) e del terrore ottomano, che
farà moltiplicare i castelli. Fu l’epoca dei Veneziani che s’impadronivano di porti strategici,
degli Aragonesi che cedevano città per sdebitarsi coi creditori, dei Francesi che accampava
pretese sul Mezzogiorno. L’istituzione del viceregno spagnolo, nel 1503, non fece che
cristallizzare una società che sopravviveva fra feudi e povertà, fra contadini tiranneggiati e
corti signorili. Decremento demografico, impoverimento dei terreni virati dall’agricoltura
alla pastorizia, impaludamento delle coste, inasprimento delle tassazioni, pessima
amministrazione della giustizia, brigantaggio: era lo scenario che contornava i lustrini
delle dimore aristocratiche. La committenza nobiliare o ecclesiastica permetterà ancora il
germoglio delle sculture rinascimentali di Stefano da Putignano o di Nuzzo Barba da
Galatina. Col tempo, però, per le dinastie più prestigiose i contributi d’arte deriveranno
dall’ingaggio di artisti extra-regionali, come Costantino da Forlì o Francesco Laurana, o
dall’importazione di quadri che proverranno principalmente da Venezia e da Napoli.
Orbita, tutto sommato ridotta, per una Puglia che era stata al centro dell’ecumene, del
Mediterraneo, e che adesso rappresentava per i vicerè spagnoli una risorsa periferica, da
mungere per quanto possibile e da munire di torri costiere, per esorcizzare la pirateria
turco-barbaresca. Il baricentro del mondo, con la scoperta dell’America e l’impero di Carlo
V, si era spostato più in là.

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