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PREMESSA

Jovan Cvijic (1865-1927) fu il primo ‘’balcanologo’’, o ‘’balcanista’’, termine


con il quale indichiamo colui che si dedica a capire e a conoscere i Balcani, a
definirli secondo i parametri scientifici e culturali della propria epoca.
Nella casa-museo dedicata a Cvijic a Belgrado è presente, nella sala da
pranzo, una grande mappa geografica dell’area balcanica, dove sono annotati
gli anni dei viaggi che lo studioso serbo compì nell’area tra il 1888 e il 1925.
Il senso della carta, corredata con fotografie e immagini, secondo l’autore è
quello di voler ribadire l’importanza del viaggio, del contatto diretto con la
popolazione locale, per studiare i Balcani.
Questi ‘’presumono qualcosa di più della freddezza analitica dello scienziato’’; si
pensi agli studi dell’esperto di Islam nei Balcani Sasa Popovich, secondo cui
era indispensabile parlare con gli anziani seduti nelle piazze dei villaggi.
Studiare i Balcani significa insomma ricercare dei frammenti di un mondo
che sta scomparendo.
I Balcani sono diventati tali attraverso la sovrapposizione della civiltà
ottomana a quella bizantina, contrapponendosi dal Medioevo al Novecento
con l’Europa cattolico-occidentale.
Volendo offrire una periodizzazione, possiamo indicare quattro fasi della
storia balcanica:

1) L’Antichità nel segno omologatore e unificatore di Roma (I-V secolo d.C.).


2) Il Medioevo e le interazioni tra i regni balcanici (Serbia e Bulgaria) con la
realtà dell’Impero Bizantino (476 d.C.-1453).
3) L’età ottomana, avviatasi con la conquista di Costantinopoli e terminata
con la vicenda delle due guerre balcaniche (1453-1912).
4) Il Novecento, caratterizzato dalla sperimentazione delle diverse modernità
(1912-1989).
5) La fase attuale.
I Balcani vengono considerati un’espressione specifica dell’Europa
meridionale, in quanto sarebbero uno dei tre ‘’meridioni europei’’; non sono
dunque, come vogliono cliché statunitensi e francesi, ‘’Europa orientale’’ o
‘’Sud-Est dell’Europa centrale’’.
Essi sono di fatto inseriti all’interno dell’orizzonte mediterraneo, che ha
lasciato molte tracce nel mondo balcanico (si pensi all’influenza esercitata da
Bisanzio e dagli Ottomani).
I Balcani e il Mediterraneo condividono molti aspetti simili: in entrambi si
confrontano fedi diverse per esempio; questo aspetto di compresenza di
civiltà era sottolineato già da Traian Stoianovich.
I Balcani ancora oggi risentono molto dell’essere stati zona liminale
dell’imperialismo euroasiatico (tedesco, austriaco, russo e ottomano).
Tuttavia oggi i Balcani sono coinvolti come parte europea all’emergere di una
nuova centralità dell’area che dalla Cina arriva all’Egitto, e che comprende
Russia, Afghanistan, Iran, Siria e Giordania.
A vent’anni dai bombardamenti della NATO su Belgrado i Balcani possono
apparire come una delle tante periferie sconfitte dall’Occidente, tuttavia
ancora oggi essi rimangono un crocevia di interessi e di calcoli geopolitici.
Di ciò sono coscienti i ceti dirigenti dell’opinione pubblica locale, che
insistono oggi sulla varietà e differenza culturale balcanica, non sentendosi
dunque frustrati dall’essere stati esclusi da quella che l’autore definisce
‘’l’Europa che conta’’ (riferendosi al periodo compreso tra il Rinascimento e la
stagione dell’Illuminismo).
I) IL TERZO MERIDIONE

L’Europa ha tre meridioni, e le tre declinazioni che compongono quest’ampio


Sud sono: la penisola iberica, l’Italia e i Balcani
Si tratta di regioni molto differenti l’una dall’altra dal punto di vista
geografico, ma soprattutto dal punto di vista storico, anche se è innegabile
che abbiano avuto delle connessioni (il Regno di Aragona per il Meridione
italiano, Venezia per la costa dalmata).
Durante l’antichità queste erano state omologate e accomunate dalla matrice
romana, che venne meno con il Medioevo, durante il quale in Spagna si
impose il dominio arabo, in Italia si formarono molteplici centri potere e nei
Balcani si sviluppò soprattutto l’influenza bizantina.
Un caso a parte è il Sud della Francia, la cui storia è relativa alle vicende del
paese e non a quelle del continente.
Dal Cinquecento al Settecento Italia e Spagna furono accomunate dalla fede e
dalla cultura della Controriforma cattolica, che resero i due paesi molto
simili, mentre i Balcani rimasero una realtà a se’ stante, caratterizzata dal
lungo dominio ottomano.
Se infatti l’Islam infatti venne ‘’cacciato’’ dalla penisola iberica, esso riuscì
invece ad avanzare nei Balcani.
I regni iberici si concentrarono in seguito sulla conquista dell’America Latina,
mentre l’Italia rimase uno dei cuori del Mediterraneo.
I Balcani erano invece una zona scura e minacciosa, il centro di partenza delle
invasioni turche, e questo almeno sino al primo Settecento.
Con il XIX secolo la situazione cambiò del tutto: l’Europa che contava era
quella da Londra a Berlino, mentre i tre meridioni erano divenuti il simbolo
dell’arretratezza e allo stesso tempo luogi affascinanti.
Il mondo orientale era quello in cui era possibile ammirare le meraviglie del
passato classico, che tanto affascinarono la ‘’generazione romantica’’; lo
stesso Orson Wells subiva questo luogo comune indicando l’Italia come il
paese della vita, pensando allo splendore di Firenze, e la Spagna come quello
della morte, avendo in mente la corrida.
I Balcani richiamavano invece per la complessità di popoli e paesaggi, per il
folklore, l’epica orale; si trattava di un’area ancora sconosciuta, in cui si
generò una ‘’forma peculiare di orientalismo’’ per luoghi non mediorientali,
ma nemmeno europei.
I tre meridioni differirono anche nei destini: quello iberico si giocò infatti
nell’Atlantico.
I Balcani invece, da periferia bizantina, divennero la terra di congiunzione tra
l’Oriente e il cuore dell’Europa (ossia l’Europa centrale), divenendo una
regione composita nel corso dei secoli XVI-XIX.
I tre sud europei riassumono una storia europea che non è quella delle
potenze di fine Ottocento, rispetto alla quale oggi siamo sicuramente più
consapevoli (si pensi agli studi sullo scontro spagnolo-ottomano lungo il
Canale di Otranto).
I Balcani, con i loro numerosissimi confini interni, costituiscono in realtà a
loro volta il limite e il nesso tra mondi differenti.
L’Est è infatti il vero confine, culturale e politico, rispetto alla quale l’Europa
intesa come ‘’Cristianità’’ latina si percepiva differente, e così fin dai tempi di
Carlo Magno.
L’Est era stato Bisanzio con il suo Impero, poi gli Ottomani, poi la Russia, poi
la Russia e i Turchi assieme; spesso dunque coincise con l’Europa ortodossa,
quindi con l’eredità religiosa bizantina.
I Balcani furono da sempre il luogo in cui confine meridionale, quello
orientale e il Mediterraneo si saldavano: per questo si parla di Europa Sud-
Orientale.
Hispania e Italia furono fin da subito nella storia dei concetti territoriali precisi,
cosa che si può dire però per i Balcani: al di là dell’Adriatico vi erano infatti
Pannonia (Ungheria), Illirico (costa dalmata, Bosnia, Montenegro), Moesia
(Serbia settentrionale e Bulgaria), Epiro, Macedonia e Tracia.
Queste erano province di frontiera, ma percepite come molto vicine a Roma:
gli imperatori illirici del III secolo d.C. (Claudio il Gotico, Aureliano e
Diocleziano) contribuirono in maniera determinante al rilancio dell’Impero.
La situazione cambiò nel corso con il 395 d.C., anno in cui, alla morte
dell’imperatore Teodosio I, l’Impero venne diviso in due entità distinte, che
avevano proprio nell’area balcanica il loro confine.
I Balcani sono dunque un risultato della storia recente; si pensi al fatto che
nel Settecento essi erano indicati come ‘’Turchia in Europa’’ (questo anche il
titolo che il geologo austriaco Ami Boué diede nel 1840 alla sua opera Le
Turquie d’Europe’’).
Il termine ‘’Balcani’’ venne coniato invece dal geografo tedesco August Zeune
(1778-1853) nel 1808; egli riteneva che il Balkan (‘’montagna’’ in turco), la
catena che si trova in Bulgaria fosse un tutt’uno con la catena dei monti
Dinarici, che arrivavano fino a Trieste e Gorizia.
Questo errore divenne regola sino dal 1880 in poi, quando subentrarono i
concetti di ‘’Balcani’’ ed ‘’Europa sud-orientale’’, prova di ciò è il fatto che esso
venne accettato anche dal geografo serbo Jovan Cvijic, che parlò di ‘’penisola
balcanica’’.
Questa improbabile espressione (il territorio sarebbe infatti più largo che
lungo) ha forse avuto successo poiché anche gli altri due meridioni, Italia e
Spagna, sono penisole; oggi il termine ha assunto però numerosi significati
storici e culturali.
Chiamiamo Balcani un’area che nel Medioevo era frammentata tra aree slave
e aree bizantine, che venne unito amministrativamente solo dagli Ottomani.
Nacque così la ‘’Rumelia’’, la terra dei ‘’Rum’’, dei Romani/cristiani, che nel
Settecento sarebbe stata chiamata per l’appunto ‘’Turchia in Europa’’.
I Turchi ripristinarono le strade romane, urbanizzarono le valli deserte,
ricomponendo così una terra, su cui venne imposta la centralità di Istanbul
(‘’A Stambol’’, letteralmente ‘’sul Bosforo’’) come capitale politica e religiosa e
di cui omogeneizzarono i ceti dirigenti e le economie.
I Balcani vennero così proiettati verso l’Ungheria e Vienna, divenendo così un
avamposto di attacco e di difesa in cui l’eredità bizantina si unì ai secoli della
civiltà ottomana.
I tre meridioni d’Europa sono dunque complessi, ma allo stesso tempo
indefiniti; relazionarsi ad essi significa andare oltre l’apparenza e arrivare ad
un terzo livello di comprensione, quello della verità, ed infine ad un quarto,
quello della disillusione.
Se in Spagna e in Italia questi furono coperti dall’omologazione cattolica e
nazionale, questo non si può dire per i Balcani, dove il permanere delle
contrapposizioni religiose, dell’importanza attribuita ai clan e il ruolo del
familismo continuarono (e per certi versi continuano) ad avere grande
importanza.
Il Mediterraneo (quello dell’Atlante e della Calabria) di fatto continua dentro
i Balcani, che di fatto rispetto ad Italia e Spagna restano ancora oggi più
isolati e defilati.
I Balcani non sono presenti nei manuali canonici sulla storia moderna
d’Europa, quelli che trattano dunque del periodo compreso tra il 1500-1850.
L’interesse è per le scoperte geografiche, il rapporto Europa-mondo, le lotte e
le dispute religiose, la nascita dello Stato, la Rivoluzione Industriale e la
nascita dello Stato moderno.
In questi manuali i Balcani sono solo accennati, soprattutto perché gli
Ottomani non contribuirono all’emergere della Modernità; solo
l’islamizzazione dei Balcani sembra oggi degna di menzione nei testi più
aggiornati, soprattutto in parallelo alla de-islamizzazione della Spagna.
Il destino di ciò che è al confine di qualcosa è dunque proprio quello di non
essere qualcosa; anche la prospettiva prodotta dall’ottomanistica non appare
poi tanto piacevole, in quanto anche essa condanna i Balcani ad essere solo
l’Oriente d’Europa.
I Balcani, che hanno un loro percorso storico, divennero tali solo durante la
lunga dominazione ottomana, tra il fatidico 1453 e il biennio 1912-1913.
Nei Balcani occidentali, tra Adriatico e Danubio, si incontrarono in maniera
assolutamente originile la cristianità cattolica, quella ortodossa e l’Islam:
Venezia, Asburgo e Ottomani si affrontarono ripetutamente lungo questo
complesso limes.
Fu in quest’area che Europa e Oriente tracciarono i loro confini, e fu proprio
in risposta a questa relegazione a periferia che nacque carica di volontà
egemonica la Jugoslavia (‘’Slavia meridionale’’).
I termini ‘’Balcani’’ e ‘’Europa Sud-orientale’’ non sono intercambiabili, né sono
sinonimi.
Il termine Europa Sud-orientale nasce in riferimento alla Mitteleuropa,
l’Europa centrale di stampo culturale tedesco (o almeno così era al tempo in
cui questa espressione fu coniata, intorno al 1840-1850) in cui sono
raggruppate popolazioni e regioni poste a Sud-Est dello spazio storico e
culturale tedesco (ovvero a Sud-Est del Sacro Romano Impero prima e della
Confederazione Germanica del 1815-1866 poi).
La Mitteleuropa comprende dunque anche le odierne Ungheria, Slovacchia,
Slovenia e Repubblica Ceca; l’Europa Sud-orientale arriva oggi a
comprendere anche la Moldavia e la Romania, ma a volte è ascritta ad essa
anche la Slovenia.
A differenza della Spagna e dell’Italia i Balcani non hanno un preciso confine
settentrionale, infatti non ci sono rilievi che demarcano la regione.
Quando nel 1918 i costituì la Jugoslavia, la Slovenia, il paese più a Nord,
divenne il confine dei Balcani, tuttavia i Balcani propriamente detti sono
situati tra i corsi fluviali Danubio-Sava-Kupa e sono delimitati dai mari Ionio,
Adriatico, Egeo, di Marmara e Nero.
Questo spazio ha una superficie di 474.351 km 2 e una popolazione di circa 41
milioni di abitanti (contando anche la parte europea di Istanbul), numeri che
sono inferiori in entrambi i casi a quelli della sola Spagna.
Qui vi sono addirittura dieci Stati: Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia
del Nord, Croazia, Montenegro, Serbia, Turchia, Albania, Grecia, Bulgaria,
Kosovo e Romania.
Le lingue sono molte (croato/rumeno/serbo/turco/albanese ecc…), mentre sul
piano confessionale l’Islam prevale in Albania, Kosovo, Bosnia ed Erzegovina
e Turchia; il resto della popolazione segue la fede cristiano-ortodossa, divisa
tra la Chiesa bulgara, greca, serba e rumena.
Oggi si assiste anche alla formazione di una Chiesa macedone e di una
montenegrina; tutte queste chiese autocefale ortodosse riconoscono l’autorità
morale del patriarca di Costantinopoli.
Si tratta evidentemente della regione più frammentata e complessa d’Europa
e del mondo, che ha ricevuto innumerevoli interpretazioni.
Una situazione che in Italia, nonostante le secolari divisioni, non si è mai
verificata, e lo stesso vale per la Spagna, nonostante la crisi di identità del
1898, che portò alla riflessione ‘’sull’essere Spagna in Europa’’ portata avanti da
José Ortega y Gasset e Miguel de Unamuno.
Per i Balcani negli ultimi centocinquanta anni i punti di vista esterni si sono
sommati a quelli interni.
Gli studi sui Balcani nacquero nell’Ottocento, inizialmente commissionati da
istituzioni esterne all’area, si pensi al lavoro di Ami Boué, La Turquie d’Europe
(1840), considerato il lavoro iniziale per il filone balcanistico.
Il nome Turchia venne meno come detto tra il 1870-1880, sostituito da Balcani
o Europa Sud-orientale.
I primi studiosi si occuparono soprattutto della dimensione linguistica e
filologica; nel 1849 sorgeva presso l’Università di Vienna la cattedra di
filologia slava.
Il filone positivista investì anche il mondo degli studi balcanici, e così nacque
presso l’Accademia austriaca delle Scienze a Vienna una Balkan
Kommission, che aveva lo scopo, nemmeno troppo velato, di raccogliere
informazioni su una regione di grande interesse geopolitico per l’Impero
asburgico.
Il voler conoscere i Balcani divenne una costante del mondo di lingua
tedesca, ancora oggi i migliori esperti dell’area provengono proprio dal
mondo tedesco.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento venne così elaborata l’idea per cui la
scienza sarebbe riuscita a sottomettere quella terra oscura.
Una prima autorevole risposta a questa tendenza fu quella elaborata dal
Jovan Cvijic, che si era formato a Vienna e che considerava i Balcani come una
regione d’Europa a se’, una cornice in cui nei secoli avevano trovato spazio
diverse civiltà (bizantina, veneziana, centroeuropea), che si erano confrontate
però con civiltà locale di tipo montano-patriarcale dell’area dinarica.
Per Cvijic la dimensione montano-patriarcale era la più pura espressione di
un substrato etnico autentico.
La stessa scelta del nome ‘’Balcani’’ serviva a sottolineare una specificità e
non la semplice subordinazione a ‘’Sud-Est’’ dell’Europa che conta; negli
stessi anni in cui scrive Cvijic, lo storico bulgaro Ivan Sismanov (1862-1928)
vedeva nei Balcani uno spazio di originaria comunanza tra i vari popoli.
Il grande storico rumeno Nicolae Iorga (1871-1940) considerava l’Europa
Sud-orientale come un luogo di ‘’eredità condivise’’, in primo luogo i retaggi
bizantino e ottomano.
Negli anni Trenta del Novecento Petar Skok e Milan Budimir evidenziarono il
substrato comune delle lingue balcaniche, sostenendo l’esistenza di una
‘’Balkansprachbund’’, un’unione linguistica balcanica.
Per Fritz Valjavec, fondatore della ricerche sul Sud-Est europeo, i Balcani
avevano una loro unità storico-culturale.
L’età della modernità per i Balcani comincia proprio nel Novecento, quando
questa ‘’Europa minore’’ conobbe una fase di grandi trasformazioni.
Tra le due guerre sorsero numerosi istituti di studi balcanici a Belgrado e a
Bucarest, vennero create riviste specialistiche; questa tendenza sarebbe stata
ripresa solo negli anni Sessanta, quando il passaggio al comunismo era già
avvenuto.
Nel 1963 a Bucarest nacque l’Associazione per gli studi del Sud-Est europeo,
vennero parallelamente rilanciati gli studi balcanistici a Belgrado/Sarajevo/
Salonicco (i centri più importanti fuori dall’Europa sono Vienna, Monaco e
Graz).
Con la dissoluzione della Jugoslavia i Balcani tornarono a suscitare
interesse, soprattutto rispetto a temi come l’odio/la violenza/il nazionalismo.
Gli storici d’altro canto hanno continuata a guardare ai punti in comune: si
devono citare i lavori di Edgar Hosch e soprattutto quello di Pachalis
Kitromilides, secondo cui i Balcani erano un ‘’Commonwealth ortodosso’’.
A livello culturale è stata ribadita dagli studiosi la prevalenza del patriarcato,
evidenziata recentemente (2008) anche da Karl Kaser.
Kaser ha proposto una tesi secondo cui Balcani, Anatolia e Siria compongono
un’area a se’ stante, battezzata come ‘’Eurasia Minor’’, che aveva delle
peculiarità proprie a livello antropologico/culturale e che aveva radici comuni
nell’Impero Bizantino e in quello ottomano.
Una tesi più tradizionale è quella di Holm Sundhaussen, che ha indicato i
tratti distintivi dei Balcani:

- Complessità e numerosità etnica in un’area circoscritta.

- Senso di perdita di continuità con l’antichità.

- Eredità bizantino-ortodossa e ottomano-islamica.

- Ritardo economico nella Modernità.

- Il processo di Nation Building su base etnica.

Questa tassonomia è stata rifiutata dalla storica bulgara Maria Todorova, per
cui nei confronti dei Balcani esiste una forma di orientalismo, ovvero una
serie di preconcetti che formano una mappa mentale.
Oggi la lettura fondata sui criteri della teoria postcoloniale e degli studi sulla
subalternità (Guha, Spivak, Chakrabarty) hanno investito anche l’area della
balcanistica.
Ovviamente vi è anche il gruppo degli scienziati politiche, in cui si è distinto
George Schopflin.
Nei Balcani si sono alternati diversi domini imperiali estranei all’area (Roma,
Bisanzio, Ottomani, Asburgo), quindi si sono susseguite anche forme
straniere di esclusione dal potere, gestite da amministrazioni arbitrarie, che
si proiettavano al di là del contesto locale.
L’urbanizzazione è stato in area balcanica un processo molto lento, né vi fu
una radicale secolarizzazione paragonabile a quella dell’Occidente; in
sostanza dobbiamo concludere che la modernità nei Balcani fu introdotta
dall’alto (dallo Stato).
Il miglior risultato a cui è giunta oggi la ricerca parte dallo studio del Balcani
a partire da una prospettiva transnazionale, seguendo lo schema della
Entangled History (in questo caso Entangled histories of the Balkans, promossa
da diversi studiosi come Diana Mishkova, Roumen Daskalov e Tchavdar
Marinov).
II) TERRE BALCANICHE

Partendo da una citazione del celebre romanzo di Agatha Christie ‘’Assassinio


sull’Orient Express’’ è possibile recuperare quello che l’autore evidenzia come
un motivo di confusione relativo ai Balcani: cosa geograficamente essi sono.
Storici, geografi, illustratori e letterati ‘’hanno visto i Balcani ovunque’’, e questo
perché bastava andare al di là del confine austriaco/italiano.
L’indeterminatezza geografica dei Balcani rivela molto anche delle difficoltà
che si hanno nel conoscere culturalmente e storicamente la regione; a riprova
di ciò il fatto che essa sia stata definita ‘’area culturale’’ e non ‘’regione storica’’
(e geografica), cosa che dovrebbero essere.
L’idea di area culturale, prodotta nell’alveo degli area studies, emerse in quanto
si era evidenziato il fatto che esistesse una ‘’mentalità balcanica’’ comune a
tutte le popolazioni che abitano la zona.
Si tratta però di una generalizzazione che asseconda le generalizzazioni un
pubblico che non conosce, e in questo modo non può conoscere, la storia e la
geografia di quest’area.
Spesso si tende a considerare balcanica anche la Romania, anche se di fatto
l’unica sua regione ascrivibile alla cornice dei Balcani è la Dobrugia (il resto
del paese è certamente mitteleuropeo).
Ad onor del vero si deve osservare che non è facile definire dove inizino i
Balcani, anche se di certo non possiamo sostenere l’affermazione di
Metternich, secondo cui essi avevano inizio nella Landstrasse (un celebre
quartiere viennese).
Il limite di Nord-Ovest è quello più problematico, e questo perché è posto al
confine Sud-Est dell’Europa centrale, che senza dubbio è il cuore del
continente (si tratta dell’area che va dal Reno all’asse Odessa-Danzica).
Il confine settentrionale corrisponde ancora quello proposto dal geografo
tedesco Theobald Fischer alla fine del XIX secolo: dalle foci del Danubio sul
Mar Nero sino a Belgrado, poi verso le sorgenti di un affluente, il Kupa, poste
in Croazia ; da qui si traccia una linea immaginaria che arriva sino al golfo di
Fiume.
La linea Fiume-Karlovac-Belgrado-foci del Danubio delimita i Balcani a
Nord; sul Danubio e il Sava, anticamente frontiere romano-bizantine, vi sono
in realtà diversi dibattiti.
Il tratto Nord-occidentale è stato molto discusso per la presenza delle Alpi
Dinariche, che arrivano sino all’Istria e al Carso triestino; è indiscutibilmente
un paesaggio dinarico ance quello della conca di Lubiana.
Unita a questa massa calcarea è anche l’Istria, che geograficamente sarebbe
una penisola, ma che oggi viene definita come un’isola adriatica.
Il Carso, tra Gorizia/Trieste/Fiume, rievoca in effetti i Balcani, tuttavia la sua
non è una storia balcanica.
Un confine storico è quello collocato tra Fiume e Karlovac, dove è situata la
cosiddetta ‘’soglia croata’’.
Qui si trova il fiume Kupa, che però fu soprattutto un confine antico, che
nell’843 d.C. separava la Croazia dal Sacro Romano Impero, poi questo
dall’Ungheria e sino al 1918 le terre austriache da quelle magiare.
Questo è stato un confine politico molto sentito: il Kupa fu infatti il limite
Sud-orientale del Sacro Romano Impero e fu poi l’antico limes austriaco.
Per quanto riguarda la storia della Juguslavia (1918-1991), questa è
ovviamente una storia balcanica, visto che il 71% del suo territorio era
balcanico.
Molto importante guardare anche alla definizione che la geografia italiana
del XIX secolo diede dei confini nazionali, che nelle narrazioni tardo-
ottocentesche combaciavano con le Alpi Giulie, avendo dunque a Fiume il
limite ultimo dell’Italia, che dunque avrebbe confinato coi Balcani.
Oggi però prevale un altro tipo di visuale, secondo cui il confine naturale
non esiste più; una posizione che però non ci permette di capire dove finisca
effettivamente l’Italia ad oriente.
Per quanto invece riguarda l’Istria, oggi non la si considera più come italiana,
ma si guarda ad essa come ad un’isola adriatica a se’ stante in cui convivono
un’anima adriatico-mediterranea e una balcanica (Fiume abbiamo visto è il
confine estremo dei Balcani).
Oggi la Slovenia e la Croazia ribadiscono la loro appartenenza culturale
all’Europa centrale, rifiutando la definizione balcanica.
I Balcani sono dunque sospinti alla frontiera tra Croazia e Bosnia-Erzegovina,
anche se dobbiamo considerare la Dalmazia come un’area mediterranea, nelle
cui aree carsiche, contesto chiaramente balcanico, tra 1699 e 1718 vi era il
confine veneto-ottomano.
Si potrebbe comunque guardare al Mediterraneo come intera chiave di lettura
dei Balcani meridionali ed occidentali, dalla costa montenegrina-albanese fino
all’intera Grecia (l’autore parla di ‘’Mediterraneo nei Balcani’’).
A ridosso dei fiumi Danubio-Sava-Kupa vi è la fascia di transizione verso
l’Europa centrale, una fascia di migrazioni/colonizzazioni/spopolamenti.
A Karlovac,Sisak e anche nel Banato si può cogliere l’antica essenza della
Pannonia, un’area che è circoscritta dai Carpazi; a Zagabria invece si può
sentire un’atmosfera propria delle città polacche.
La Pannonia ebbe sempre un rapporto diretto coi Balcani, in primo luogo
grazie al Danubio, un fiume con ‘’tre anime’’: una tedesca meridionale (sino a
Vienna), una pannonica (sino a Belgrado), una valacca (sino alle sponde del
Mar Nero).
La natura curiosa del corso del Danubio definisce il confine Nord-orientale
dei Balcani, quello che era stato anche il limes romano-bizantino (provincia
della Scytia Minor), poi abitato a lungo da popolazioni tartare.
Oggi è la regione rumena della Dobrugia, oggetto di contesa tra Bulgaria e
Romania tra il 1878 e il 1945.
Si tratta di un’area in cui si percepisce la presenza di un confine tra mondi,
rievocato molto nella letteratura croata/tedesca e anche nei romanzi di
Claudio Magris.
La forma dei Balcani appare come una specie di τ (tau) con tre corni: uno
verso Fiume, uno verso il Peloponneso e uno verso le foci del Danubio.
La linea Fiume-Belgrado-basso Danubio-Mar Nero misura ben 1200km,
mentre il tratto balcanico più breve è quello dall’Adriatico al Mar Nero, di
650km.
La distanza tra Valona e Istanbul, che passa per Salonicco, misura 800km: si
tratta dell’antica Via Egnatia, che da Durazzo arrivava a Costantinopoli
passando per Tessalonica.
Per quanto si voglia guardare ai Balcani come ad un nesso tra Occidente e
Medio Oriente, di fatto essi sono una regione isolata, circumnavigata dal
Danubio.
I Balcani hanno due connotazioni storiche fondamentali (che però non
valgono per Croazia del Nord, Romania, Moldavia e Vojvodina, Serbia): la
prima è la vicenda bizantina, che ha esercitato una sovranità diretta nel VI e
nel XI-XII secolo.
La seconda connotazione storica è rappresentata dall’Impero Ottomano, che
ha qui dominato per quasi cinquecento anni, introducendo l’Islam e il diritto
coranico (sharia), motivo per cui oggi esistono intere nazioni musulmane.
I Balcani dunque rientrano nell’Europa Sud-orientale, ma possiedono delle
connotazioni proprie che li rendono una regione storica d’Europa.
Per mille anni essi sono stati connessi con le vicende culturali/storiche/
religiose del mondo bizantino, la cui eredità sopravvive nei monasteri e nelle
Chiese ortodosse, oltre che espliciti richiami estetici ed artistici.
Dal XV al XX secolo la storia dei Balcani è storia dell’Impero Ottomano, la
cui eredità è evidente sul piano culturale/religioso/nazionale; nella fascia
settentrionale però i Balcani sono definiti più dalla riconquista austriaca
(cattolica) avvenuta tra il 1684 e il 1718.
Nel Settecento si costituì qui un limes europeo con grandi significati politici e
culturali, mentre a Nord la Russia avanzava e arrivava ad occupare la foce
del Danubio nel 1878.
A livello etnico i Balcani conobbero, dopo la romanizzazione di Traci e Illiri,
la penetrazione slava nel VI secolo d.C.
Un tipo di invasione paragonabile a quella dei Longobardi non è più ritenuta
plausibile dalla storiografia, infatti è impossibile pensare che un così grande
numero di individui abbia deciso di abbandonare le più fertili pianure
sarmatiche.
L’elemento esterno non avrebbe riguardato più del 20% della popolazione;
molto interessanti gli studi recenti dello storico rumeno-statunitense Florin
Curta, secondo cui lungo il confine danubiano eretto da Giustiniano si
sarebbero accumulate popolazioni che usavano lo slavo come lingua di koiné.
Le migrazioni non furono dunque riducibili ad un’unica grande spinta, ma
furono piuttosto ripetute e di entità medio-bassa, verificandosi con una
costanza ed un’imprevidibilità che rendevano impossibile per i Bizantini
difendersi.
Le incursioni slave arrivarono sino all’Attica e al Peloponneso, mentre non
toccarono l’Albania.
La slavizzazione dei Balcani, considerata da Paul Lemerle come il più
importante avvenimento del VII secolo d.C. nell’Europa Orientale, coinvolse
anche i Bulgari (una popolazione di origine turcomanna), che nel 681 d.C.
avrebbero fondato un Regno riconosciuto anche dai Bizantini.
A restare ellenizzati furono i litorali, dove comunque la lingua più parlata era
lo slavo.
Dal XV secolo, con la conquista ottomana, le popolazioni greche/bulgare/
albanesi hanno sviluppato identità e tratti culturali/nazionali propri.
I Balcani andrebbero divisi in tre parti: occidentali, orientali, meridionali.
Le prime due parti rientrano in quelle che Cvijic chiamò ‘’blocco continentale’’
e formano una specie di trapezio i cui vertici sono la linea Fiume-Belgrado-
foce del Danubio (1200km) a Nord e la linea Valona-Salonicco-Istanbul (800
km) a Sud.
La ‘’sezione continentale’’ di queste due aree comprende invece Dalmazia,
Lika, Gorski Kotar, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Bulgaria, Dobrugia,
Albania, Kosovo, Epiro, Macedonia e Tracia.
La parte occidentale del trapezio è quella dei cosiddetti ‘’Belli occidentali’’,
termine usato dalla burocrazia dell’UE per indicare l’area della ex-Jugoslavia,
esclusa la Slovenia, ma compresa l’Albania.
Si tratta di una definizione non gradita agli Stati interessati, tuttavia non si è
trovato un termine migliore, il che rende evidente il vuoto concettuale
lasciato dalla Jugoslavia.
A livello locale si parla di ‘’regija’’ (‘’regione’’) per indicare l’area ex-jugoslava.
I Balcani occidentali, rispetto al resto, furono le periferie di Istanbul, Venezia
e Vienna: ciò spinge a chiedersi se abbia senso o meno parlare di queste terre
come qualcosa a se’.
Le storiografie della Jugoslavia, dagli anni Trenta ai Sessanta, faticarono a
raccordare le ‘’storie dei popoli jugoslavi’’, una categorizzazione a cui furono
ascritte la storia delle terre slovene, di Gorizia, della Carinzia, della Stiria con
quelle della Croazia, della Macedonia, della Serbia, della Bosnia, dei domini
veneziani e dell’indipendente Ragusa.
Queste narrazioni non facevano altro che constatare che le dominazioni
straniere avevano solamente diviso gli Slavi meridionali, che ora però erano
riuniti nella Jugoslavia.
I Balcani orientali coincidono invece con la Bulgaria, la Tracia turca e la
rumena Dobrugia.
Gli storici e intellettuali bulgari, e così quelli serbi, guardano ai Balcani come
ad un involucro rispetto al quale il loro paese si posiziona il loro paese
rispetto all’Europa e all’Est europeo.
Nei Balcani orientali molta attenzione viene data al popolo dei Traci, sui cui a
lungo hanno discusso le storiografie bulgara, greca e rumena
Lo storico rumeno Iorga ha sostenuto che anche l’area carpatica risenta
dell’eredità bizantina, e ancora prima di quella bulgaro-romana.
Nonostante ciò solo la Dobrugia può essere considerata parte dei Balcani,
anche se in Occidente si tende ad assimilare a questi anche la Romania.
I Balcani meridionali coincidono con con la Grecia.
Gli storici greci tendono ormai in maniera unanime a considerare la
Macedonia greca , e a guardare all’Epiro e alla Tracia come a regioni storiche
balcaniche.
La Grecia è senza dubbio un paese mediterraneo e balcanico, anche se
secondo Cvijic solo la Grecia continentale (dai promontori del Peloponneso
alla Calcidica) sono ascrivibili ai Balcani.
Una questione che ha tormentato molto storici riguarda la grandezza della
componente mediterranea nei Balcani.
Grandi storici del Mediterraneo come Braudel, Horden e Purcell alla fine
hanno collocato i Balcani nel ‘’mondo mediterraneo’’, e in effetti secondo
l’autore si potrebbe considerarli una sorta ti ‘’entroterra mediterraneo’’.
Nei Balcani è presente anche un pezzo di Turchia, che guarda all’area come
ad una sua parte storica.
Istanbul/Costantinopoli è stata la capitale dei Balcani per secoli, dal IV secolo
d.C. sino all’inizio del Novecento.
Al promontorio del Bosforo si contrappone l’altra capitale dei Balcani,
Belgrado, fortezza situata sulla giuntura tra i fiumi Danubio e Sava; nel testo
si parla di una contrapposizione tra Santa Sofia (Istanbul) e i Kalemegdan (la
fortezza di Belgrado).
I Balcani evocano in qualche modo le montagne: un ambiente in cui si è
conservato sino ad oggi un diritto antico e consuetudinario, come quello che
sopravvive tutt’oggi nell’Albania settentrionale (il Dukadjin).
Per secoli vi fu poi la letteratura popolare, tramandata oralmente tramite aedi
e cantori locali.
L’Adriatico orientale è contraddistinto da una sorta di muraglia: prima vi è il
Carso, poi i 140km del Velebit (che delimitano la Dalmazia, su cui soffia la
bora) e infine la dorsale centrale dei Dinaridi, che connota il Montenegro.
I monti si perdono poi sul versante albanese, per ritornare poi più ‘’oscuri’’
nell’Epiro.
Monti abitati da popoli antichi, che immediatamente rievocano in noi le
pagine del poema nazionale montenegrino, Il serto della montagna (1847),
scritto da Petar Petrovìc Njegos (1813-1851).
Nell’incipit dell’opera immediatamente si descrive una scena in cui i clan
montenegrini sono riuniti attorno ai fuochi del monte sacro Lovcén: tutti
dormono tranne il ‘’vladika’’, il vescovo-conte Danilio, che riflette sulla sorte
del suo popolo soggiogato dai Turchi.
Le parole di Njegos riescono a rievocare in noi tutta la forza di alcuni concetti
come la famiglia, l’εθνος, la fede ortodossa, l’orgoglio, il coraggio, la virilità.
Questi valori si contrappongono ad un’immagine di Venezia come realtà
falsa e opposta alla purezza degli uomini della montagna.
È innegabile in effetti che tra le città veneziane della costa, come Cattaro, e le
realtà di villaggio dell’entroterra vi era una differenza enorme, nonostante vi
fossero solo pochi km di distanza.
Alla montagna vengono spesso contrapposte le valli, specialmente quelle
situate lungo il corso dei fiumi, dove si svilupparono i ‘’Balcani ottomani’’.
Le pianure sono spesso nella regione i raccordi con i mondi esterni: una sorge
a ridosso del Sava e del Danubio, una nel cuore della Bulgaria, un’altra è
posta verso il Bosforo.
La Tessaglia e la Tracia sono per lo più pianeggianti, mentre il Kosovo è un
altopiano circondato dai monti da cui nascono i fiumi diretti verso l’Adriatico
e l’Egeo.
Nell’estremo sud vivono i Gorani, una popolazione musulmana di lingua
serba che vive tra gli Albanesi; i Gorani furono protagonisti, negli anni
Sessanta del secolo scorso, di un documentario in cui sembravano realmente
‘’usciti dai tempi arcaici’’.
La percezione di qualcosa di arcaico emerge anche in Dalmazia, nelle doline
carsiche dell’Erzegovina e nel Montenegro, soprattutto nel Santuario di San
Basilio di Ostrog a Sveti Vasilije Ostrozki.
Il vero cuore spirituale dei Balcani è però il Monte Athos, uno Stato
monastico autonomo che sorge sul braccio più orientale della Calcidica.
L’Antichità emerge un po' ovunque (ma soprattutto in Grecia), mentre il
retaggio bizantino si avverte soprattutto nei monasteri ortodossi, presenti in
tutta l’area balcanica (dalla Croazia alla Bulgaria, anche se in Serbia ve ne è un
numero impressionante).
Le città balcaniche rievocano invece l’età ottomana: Sarajevo, Mostar, Prizren,
Novi Pazar, Kastoria, Adrianopoli.
Costantinopoli/Istanbul presenta invece entrambe le anime: Bisanzio nel
corpo, Istanbul nei minareti.
III) IL TEMPO BIZANTINO

Bisanzio non ha un Medioevo, quella che noi chiamiamo ‘’storia bizantina’’ è


in realtà storia dei Romani d’Oriente, che si conclude solo con il 1453, anno
della conquista turca.
Lo storico Georg Ostrogorsky (1902-1976) ha spiegato come gli elementi che
caratterizzavano l’Impero erano lo Stato romano (quella che noi chiamiamo
‘’Romanità’’), la Fede Cristiana e la cultura greca.
Dal VII secolo d.C. prevalse però la lingua greca, tuttavia la ‘’grecità’’ non
ebbe mai a che fare con l’Impero d’Oriente.
Di fatto fintanto che vi fu una Costantinopoli il dominio romano e la romanità
aleggiarono sui Balcani.
Non si può pensare a Bisanzio come ad un momento a parte rispetto alla
storia di Roma, tuttavia a lungo è stato così, almeno a partire dal XVI secolo:
lo storico luterano Hieronimus Wolf (1516-1580) nel 1555 parlava di
‘’Byzantium’’ per riferirsi all’Impero d’Oriente.
Una Bisanzio bizantina era però la formula migliore per il mondo occidentale,
che voleva differenziarsi dalla civiltà bizantina per presentare se’ stessa,
anche se si dovrebbe riferire questo atteggiamento in primo luogo alla Chiesa
cattolica, come diretta erede di Roma.
Questa differenza fu alimentata anche dalla contrapposizione tra Bisanzio e il
Sacro Romano Impero: una dicotomia che ha aiutato a costruire l’idea di un
Occidente europeo e un Oriente slavo e ortodosso di derivazione bizantina,
in cui sono incluse anche la Russia e la Romania.
Per le popolazioni slave, specie nel X e nell’XI secolo, ‘’Vizantija’’ (Bisanzio) è
stata fondamentale per l’elaborazione di una particolare declinazione slavo-
ortodossa/bizantina di Cristianità, priva di legami con l’antichità classica e il
passato romano.
Il patriarcato di Costantinopoli dopo il 1453, sotto il dominio ottomano,
divenne un patriarcato greco, portatore di un’identità greca e referente per
quei pochi Greci rimati a Costantinopoli e radunati nel quartiere del Fanar.
Per i Balcani la storia di Bisanzio è però soprattutto la storia dei rapporti tra
Romani e non-Romani (VI-XV secolo).
I non-Romani erano gli Slavi, Bulgari e Serbi in primo luogo, che cercarono di
costruire degli Stati capaci di emulare Bisanzio; in questo senso il dominio
diretto e indiretto di Bisanzio sull’area balcanica fu decisivo.
Bisanzio ha lasciato un segno forte anche oltre il Danubio, dove nel XIV-XV
secolo sarebbero sorti i Principati di Valacchia e Moldavia, e anche oltre il
Mar Nero, si guardi alle vicende della Rus’ di Kiev e di quella di Novgorod.
L’Impero perse il controllo della Siria già nel VII secolo d.C., alla metà dell’XI
secolo perse l’Anatolia centrale occupata dai Turchi, ma conservò il dominio
sul mare sino alla fine dell’XI secolo.
I veri mari di Bisanzio furono l’Egeo e l’Adriatico (non dunque il Mar Nero):
a Corfù vi era una base importante, in quanto snodo verso Napoli/il Salento/
la Calabria/le Venezie/l’Istria.
Grazie al mare il dominio di Bisanzio sulla Dalmazia durò sino al 1185, anno
in cui decadde la dinastia dei Comneni (‘’Κομνηνοι‘’); ad ereditare l’egemonia
marittima bizantina fu Venezia.
Nel 530 d.C. i Romani dominavano i Balcani fino al Danubio e al fiume Drina,
che oggi fa parte della Bosnia e che nel 395 d.C. divenne il limes tra la Pars
Occidentis e la Pars Orientis.
Giustiniano I (527-565 d.C.), con la campagna di conquista della Dalmazia
del 535 d.C. riuscì ad estendere i domini bizantini sino alle Alpi Giulie, ma fu
costretto a trattare con i Gepidi stanziati in Pannonia.
Il dominio bizantino arrivava sino a Sigidunum (Belgrado): qui, alle foci del
Danubio, Giustiniano fece costruire una serie di fortificazioni per impedire
gli attacchi degli Slavi, dei Gepidi, degli Unni.
Il sistema difensivo però non funzionò mai a dovere; le fortificazioni erano di
continuo aggirate molto facilmente, e questo perché l’esercito bizantino non
poteva gestire contemporaneamente un così alto numero di piccole scorrerie.
Al tempo di Giustiniano però il limes sulla Sava, seppur fragile, venne
comunque mantenuto.
La zona era abbastanza spopolata: le città erano poche, su di esse prevalevano
i vici, termine con cui si indicano i villaggi murati e le fortezze.
Dopo un secolo e mezzo di scorrerie l’organizzazione territoriale era ormai in
frantumi, una situazione che non avvenne né nella Spagna visigotica e poi
araba, né nella devastata Italia.
Il risultato di ciò fu la scomparsa di un idioma latino/neo-latino, cosa che
non avvenne in Spagna e Italia , dove i conquistatori furono costretti a fare i
conti con l’idioma locale di origine latina.
Nei Balcani il latino si conservò tra le comunità dei Valacchi, i ‘’Romani
balcanici’’, trasformatisi in allevatori di bestiame.
La montagna che domina Sarajevo si chiama ‘’Romanija’’ e significa proprio
‘’il luogo dei Romani’’, cosa che ci testimonia la sopravvivenza dell’idioma
latino.
Quest’ultimo rimase dominante nelle città fortificate della costa adriatica e
sulle isole , mentre il greco dominava sulle coste dell’odierna Grecia.
L’Impero possedeva un esercito notevole, tuttavia incapace di affrontare uno
sciame di incursioni su vasta scala.
Gli Slavi si insediarono allora nei territori della pianura valacca sul basso
Danubio e per un secolo continuarono ad attaccare le terre bizantine assieme
ad altri popoli (Gepidi, Eruli, Avari).
Arrivarono anche ad assediare Costantinopoli (626 d.C.), anche se l’impresa
si tramutò in un’enorme disfatta.
Oggi non siamo più sicuri di poter parlare di ‘’invasione slava’’, mentre siamo
più convinti di poter sostenere che la frequenza e la capillarità degli
spostamenti portò all’inserimento degli Slavi nella regione.
La componente slava fu comunque minoritaria, cosa confermata anche dai
più recenti studi genetici, ma riuscì a controllare le principali vie di
comunicazione e ad imporsi localmente grazie al prestigio militare.
Quello che ancora oggi è poco chiaro è come una componente umana così
piccola sia riuscita ad uniformare linguisticamente tutta l’area balcanica.
Gli ‘’sklaveni’’, così chiamati dai Bizantini, parlavano un idioma che
permetteva loro di riconoscersi e comprendersi anche a grande distanza.
Difficile valutare il rapporto tra questi Slavi danubiani, quelli insediatisi nelle
Alpi orientali e quelli insediatisi in Pannonia.
Per il VII secolo d.C. abbiamo alcune indicazioni attendibili di presenza slava
presso Trieste, alle pendici del Carso.
Le migrazioni portarono alla caduta delle città romane dei Balcani: Salona nel
635 d.C., Sigidunum, Viminacium, Naissus (Nis) e Serdica; Bisanzio riuscì a
mantenere il controllo sulle città marittime.
La popolazione latina si ritirò dunque sul litorale adriatico, dove vennero
fortificate le città o ne vennero costruite delle nuove, come Ragusa; a lungo
una maggioranza romana si mantenne nell’Albania e nell’area danubiana.
Nel VII secolo d.C. l’Impero Bizantino fu costretto a difendersi dall’avanzata
araba per terra e mare, che arrivò a minacciare la stessa Costantinopoli.
Il potere in Italia fu ridimensionato dall’avanzata longobarda , nei Balcani vi
fu un tracollo, mentre nelle coste il potere romano rimase solido.
A Nord dei Balcani si formò il Khanato degli Avari, distrutto poi da Carlo
Magno, mentre sull’Illirico e della Dalmazia non abbiamo certezze per il VI e
il VII secolo d.C.
Un’ulteriore novità fu l’arrivo dei Bulgari, una popolazione di origine
turcomanna che si fuse con l’elemento slavo che nel 681 d.C. costituì uno
Stato tra i monti Balcani e il Mar Nero che venne riconosciuto dall’imperatore
Costantino IV (668-685 d.C.) nel 681 d.C.
Il cosiddetto Primo Impero Bulgaro durò fino al 1018, anno in cui il potere
bulgaro venne distrutto dall’imperatore Basilio II (976-1025); in precedenza i
Bulgari, convertitisi al Cristianesimo nell’865-866 d.C. sotto Boris I, erano
riusciti anche ad occupare anche l’area della Macedonia.
La conversione dei Bulgari fu lo straordinario risultato raggiunto da uno dei
discepoli dei Santi Cirillo e Metodio (827-869 d.C. e 825-885 d.C.), San
Clemente, che sviluppò ad Ocrida la liturgia slava ortodossa che ebbe
fortuna in tutti i Balcani e si estese fino alla Russia di Kiev.
Ad Ovest si stanziarono le popolazioni serbe, riconosciute come tali nell’VIII
e nel IX secolo d.C.
Queste erano stanziate presso l’Adriatico, dai fiumi Cetina e Narenta; i centri
principali erano Pagania, Zahumlje, Travunia e Rascia (il cuore storico della
Serbia).
Da ciò che rimaneva della Dalmazia romana si costituì la Croazia, vassalla dei
Franchi.
Le prime notizie certe sui Croati risalgono all’XI secolo; essi, per quanto
accettarono la scrittura glagolitica e la liturgia cirillica, furono da sempre più
vicini alla Chiesa di Roma.
I Serbi invece, anche se più tardi, accettarono l’ortodossia: la chiesa di San
Paolo a Ras (odierna Novi Pazar), della metà del X secolo d.C., testimonia
questo passaggio.
Lo Stato bulgaro fu il centro di una prima cultura slavo-bizantina: l’apogeo
politico fu raggiunto al tempo degli zar Boris I (852-889 d.C.) e soprattutto
Simeone I detto il ‘’Grande’’ (893-927 d.C.).
Al tempo di Simeone I lo Stato bulgaro raggiunse anche le coste adriatiche.
La liturgia slavo-bizantina, elaborata da Cirillo e Metodio, si diffuse in tutto
l’Impero e arrivò sino alla Russia di Kiev.
Al tempo dello zar Samuele (987-1014) il centro del potere bulgaro si spostò
verso la Macedonia, tuttavia in seguito alle campagne di Basilio II, detto il
‘’Bulgaroctono’’ la Bulgaria venne annessa al dominio bizantino.
Sotto Basilio II l’Impero raggiunse la sua massima estensione medievale: esso
andava dall’Eufrate al Danubio, dall’Armenia all’Adriatico.
Gli Slavi prevalsero in tutti i Balcani, persino nel Peloponneso, dove rimasero
la maggioranza sino all’VIII secolo d.C.; Bisanzio recuperò a se’ solo le regioni
marittime.
Con l’introduzione dei θεματα (‘’themata’’) si avviò però la riorganizzazione
militare e amministrativa dell’Impero; se nel VII secolo d.C., a parte
Tessalonica (Salonicco), Bisanzio possedeva solo due themata nei Balcani: la
Tracia e l’Ellade (Grecia classica).
Questa situazione restò immutata sino alla fine dell’VIII secolo d.C., quando
si aggiunsero il thema di Macedonia e quello del Peloponneso; nel corso del IX
secolo d.C. sarebbero sorti anche il thema di Nicopoli (Epiro), uquello di
Durazzo (Albania meridionale), di Cefalonia (Isole Ionie), di Dalmazia (città e
isole).
Il mare era l’unica via di comunicazione e, dopo la caduta dell’esarcato di
Ravenna (751 d.C.), le Venezie divennero il punto estremo del dominio
bizantino.
Nei litorali bizantini vi fu un recupero della grecità, come lingua e cultura
sociale: nel X secolo d.C., tra Costantinopoli e Durazzo, prevaleva il greco.
La slavizzazione della Dalmazia bizantina fu un processo molto lungo, che
andò da meridione a settentrione.
L’Adriatico fu dunque un mare bizantino e latino, solo le comunità dei
Narentani (Serbi) e dei Croati si contrapposero a Venezia, che intorno all’830-
840 d.C. era subentrata come forza navale sussidiaria dell’Impero nell’area.
Alla morte di Basilio II nel 1025 l’Impero aveva raggiunto come detto il
proprio apogeo medievale, potendo infatti contare sull’egemonia nei Balcani e
in Asia Minore.
In più c’erano la Crimea, la Puglia e la Calabria e tutto l’arcipelago delle isole
adriatiche/egee assieme a Cipro.
All’inizio dell’XI secolo sorgevano il thema di Paraistrion, l’antico limes
danubiano fortificato da Giustiniano, e il thema di Bulgaria, che corrispondeva
invece alla Macedonia settentrionale.
Sulla Croazia il controllo fu invece sporadico tra il XI e il XII secolo, solo dal
1102 l’area, antico confine del mondo carolingio, smise di essere una realtà
autonoma.
L’estremità occidentale bizantina fu dunque adriatica e marittima, compresa
tra la Venezia e la Dalmazia.
Questa regione Nord-occidentale dei Balcani fu dunque uno dei confini del
mondo carolingio: con il trattato di Verdun (843 d.C.) essa divenne il confine
Sud-orientale del dominio di Ludovico il Germanico, uno dei figli di
Ludovico il Pio.
Nella zona della Carniola e della Stiria trovavano il loro limite anche due
grandi centri della cristianità latina: Aquileia e Salisburgo, due centri di
irradiamento del Cattolicesimo.
La Croazia era dunque rimasta una realtà indipendente tra l’820 d.C. e il
1102; rimase a lungo una realtà cuscinetto tra il Sacro Romano Impero e
l’Impero Bizantino.
Il centro principale era Nona, luogo da cui partì il processo di conversione al
Cattolicesimo.
La Bosnia comincia a comparire nelle fonti dal X secolo d.C., e lo stesso vale
per ‘’Arbanon’’ (l’Albania).
La Bosnia divenne vassalla di Costantinopoli (1014), in seguito passò sotto il
controllo del bulgaro Costantino Bodin alla fine dell’XI secolo, signore di
Dioclea o Zeta, e in seguito raggiunse una piena autonomia.
La Croazia fu resa vassalla di Bisanzio al tempo di Basilio II, divenendo regno
nel 1056 sotto il patronato del pontefice romano.
Nel 1102 la corona croata passò nelle mani della dinastia ungherese degli
Árpàd: gli Ungheresi riuscirono in breve tempo a conquistare Traù, Spalato e
Zara (1105-1107), e in seguito raggiunsero anche la Bosnia (1136).
Bisanzio ottenne la propria rivincita sugli Ungheresi tra il 1167-1180, quando
ottenne nuovamente il controllo sulla Bosnia e la Dalmazia.
Questo secondo dominio bizantino fu però effimero; già nel 1181-1183 gli
Ungheresi, sostenuti dal capo bosniaco Kulin, riuscirono a riprendersi l’area.
In Serbia invece venne nominato ‘’zupan’’ (‘’signore’’) Stefano Nemanja
(1117-1199), che riuscì ad approfittare del progressivo ritiro di Bisanzio
dall’area.
Manuele I Comneno (1143-1180) fu l’ultimo imperatore bizantino a
dominare sull’interna area balcanica.
Per le compagini politiche balcaniche, oltre all’Ungheria, anche Venezia
rappresentò un ostacolo molto duro, tanto per Bisanzio prima, quanto per la
Serbia poi.
Il Regno d’Ungheria si consolidò prima occupando la Slavonia (la parte slava
dell’Ungheria) e poi la Croazia: fu così che la corona magiara divenne il
limite politico dei Balcani.
Nell’area però è rimasto poco del segno ungherese, se non l’evoluzione di
Zagabria , sorta nel 1094 e divenuta città reale nel 1242 con una funzione di
presidio.
Nel 1180-1185 la stagione degli ultimi sovrani Comneni, Alessio II (1180-
1183) e Andronico I (1183-1185), e il regno del primo degli Angeli, Isacco II
(1185-1195), rappresentarono la fase di tracollo del potere imperiale nei
Balcani.
Dopo aver perso Bosnia e Dalmazia, nel 1186 insorse la Bulgaria, dove si
scatenò una rivolta guidata dalla famiglia valacca degli Asen, che avrebbe
costituito il Secondo Impero Bulgaro, destinato a finire solo nel 1396.
I Valacchi, una popolazione romanza sparsa un po’ ovunque nei Balcani,
fecero la loro comparsa intorno all’anno Mille, venendo ricordati soprattutto
per essere allevatori e pastori.
I Valacchi, slavizzati nei nomi e parzialmente nell’uso della lingua, erano di
fatto bilingui: il valacco-latino era usato in casa, mentre in pubblico era usato
lo slavo.
Dai Valacchi del basso Danubio provengono i Romeni; i Valacchi si sono
conservati però anche nell’Epiro.
Dopo l’anno Mille la situazione etnica dei Balcani si fece dunque non poco
complessa: la caduta di Bisanzio nel 1204 portò ad uno stravolgimento degli
equilibri.
La Bulgaria si consolidò, nacque con il riconoscimento papale il Regno di
Serbia nel 1217, dopo l’incoronazione di Stefano Nemanja Primo Coronato
(1217-1228), il cui fratello Sava avrebbe poi fondato nel 1219 una Chiesa
ortodosso-slava autonoma.
La Serbia divenne così la terza componente del mondo politico balcanico,
oltre che il secondo grande Stato slavo-bizantino dopo la Bulgaria.
L’Impero sopravvisse soprattutto nell’Impero di Nicea, che sarebbe riuscito a
riconquistare la capitale (1261) al tempo di Michele VIII Paleologo (1261-
1282).
Anche se venne meno l’Impero Latino d’Oriente, gli Occidentali rimasero
nell’area all’interno dei possedimenti di Morea e Acaia, ma soprattutto nei
domini veneziani (Creta, isole egee).
La Serbia crebbe al tempo di Stefano Uros II Milutin (1282-1321) e di suo
figlio Stefano Uros III Decani (1321-1331); fu in questo cinquantennio che
fiorì l’arte serbo-bizantina nell’architettura e nei monasteri (che dall’altopiano
kosovaro si spingono fino alla Macedonia).
Con Stefano IV Dusan (1331-1355) nacque l’Impero dei Serbi e dei Romani,
sorto dopo l’incoronazione di Stefano IV nel 1345; nel 1346 sorse anche un
patriarcato serbo.
I disegni imperiali serbi collassarono rapidamente alla morte di Stefano IV
nel 1355, mentre Bisanzio sembrava ormai al collasso, schiacciata dai Turchi e
dai Genovesi.
Addirittura l’ambasciatore veneziano a Costantinopoli arrivò a sostenere che
la sottomissione a Venezia sarebbe stata l’unica modalità che l’Impero aveva
per sopravvivere.
In realtà la ‘’seconda Roma’’ sopravvisse altri cento anni, arrendendosi solo al
crescente potere turco.
Gli Ottomani, dopo aver occupato la penisola di Gallipoli e aver stabilito la
loro capitale ad Adrianopoli, riuscirono ad annichilire la potenza serba: nel
1371 vinsero questi ultimi nella battaglia del fiume Marizza.
Nel frattempo anche l’Ungheria si ingrandiva: Luigi I d’Angiò (1342-1382)
riuscì ad imporsi sui Veneziani attraverso il trattato di Zara (1358), grazie al
quale ottenne la Dalmazia.
La conquista di quest’ultima fu però effimera, cosa che non permise
all’Ungheria di imporsi come potenza marittima.
In Bosnia il bano (sovrano del Banato di Bosnia) Tvrtko I (1377-1391), della
dinastia dei Kotromanic, proclamò il paese Regno, rivendicò per se anche la
corona di Serbia e per qualche anno (1385-1390) riuscì a governare Slavonia,
Croazia e Dalmazia.
Morto Tvrtko I solo la Bosnia possedeva ancora lo status di Regno, che
avrebbe mantenuto sino al 1463, quando l’ultimo sovrano Stefano Tomasevic,
rifiutatosi di pagare il tributo e di divenire vassallo degli Ottomani, venne
ucciso dal sultano Maometto II (1451-1481).
Dopo la faticosa guerra di Chioggia (1379-1381) combattuta contro Genova,
Venezia si concentrò sul rafforzamento dello Stato da Mar, che dal XV secolo
divenne il volto marittimo dei Balcani.
I Veneziani ottennero in successione: Corfù/Paxo/Butrinto nel 1386, Nauplion
in Morea nel 1389, Durazzo nel 1392, Alessio nel 1395, Scutari e Drivasto nel
1396, Parga nel 1401, Lepanto nel 1407 ed infine Navarino nel 1420.
La Repubblica ottenne anche Tessalonica nel 1423, ma questa venne occupata
già nel 1430 dai Turchi.
Le guerre veneziano-ottomane del 1463-1479 e del 1499-1501 causarono alla
Serenissima ulteriori perdite, anche se l’acquisizione di Cipro (1489) e il
possesso di Candia/Creta facevano sì che Venezia rimanesse una grande
potenza navale anche in area egea (mentre Genova batteva ormai in ritirata).
Nell’arco di due generazioni i Balcani (1356-1402) i Balcani vennero occupati
dai Turchi, che ottennero dapprima in Bulgaria/Tracia/Macedonia/Tessaglia.
Dopo la leggendaria battaglia del Campo dei Merli (1389), nota anche come
battaglia del Kosovo, la Serbia fu ridotta ad un semplice principato vassallo
degli Ottomani, anche se la battaglia non conobbe di per se’ un vero vincitore
(sia il principe serbo Lazzaro che il sultano Murad I morirono nello scontro).
Nel 1396 la Bulgaria venne annessa direttamente ai domini ottomani, mentre
il principe serbo Stefano Lazarevic fu costretto a seguire il sultano Bayezid I
(1389-1402) nella sua campagna contro i Tartari di Tamerlano (1336-1405).
La sconfitta e la cattura di Bayezid I aprirono una stagione di crisi per il
potere ottomano, una situazione di crisi di cui né i Bizantini né i Serbi
seppero approfittare.
La nomina di Stefano Lazarevic a ‘’despota’’, massimo titolo al di sotto di
quello imperiale, risultò ormai nulla più che una mera formalità; l’Impero era
ormai ridotto alla capitale e alla Morea, dove ancora si conservano tracce
dell’architettura bizantina quattrocentesca.
L’imperatore Giovanni V Paleologo (fasi alterne tra 1341-1391) fu costretto a
convertirsi al Cattolicesimo nel 1389 nella speranza di aiuti dall’Occidente,
mentre suo nipote Manuele II (1391-1425) fu addirittura costretto a seguire il
sultano nella sua campagna contro la città bizantina di Filadelfia in Asia
Minore.
Costantinopoli venne conquistata il 29 Maggio 1453, la Serbia cadde nel 1459
e nel 1460-1461 anche il Despotato di Morea e l’Impero di Trebisonda,
l’ultima sopravvivenza bizantina, cadde in mano ottomana.
Il titolo di ‘’despota di Serbia’’ rimase un titolo formale che si avocarono i re
d’Ungheria, che così potevano giustificare campagne militari e ambizioni
politiche.
La Bosnia venne conquistata nel 1463, l’Erzegovina nel 1481; in questo modo
gli Ottomani consolidarono il loro dominio sui Balcani centrali.
La Zeta, un residuo del Regno di Serbia nelle mani dei Crnojevic, cadde
invece nel 1499, venendo associata al sangiaccato di Scutari (parte di questo
territorio venne definito dai Veneziani ‘’Montenegro’’).
La ‘’Sublime Porta’’ impose il vassallaggio anche al Principati di Valacchia e
al Khanato di Crimea nel 1474; il confine con l’Ungheria era presso la Bosnia
centrale, mentre quelli con Venezia in Dalmazia, nell’Egeo e in Albania.
La caduta di Bisanzio fu un evento traumatico per i Balcani, soprattutto a
livello simbolico: la fine dell’Impero rappresentava anche la fine dei conflitti
tra Slavi e Romani, che avevano comunque portato ad una simbiosi culturale
tra i due elementi.
Persa Costantinopoli , rimaneva ancora ciò che essa aveva creato , quello che
Ostrogorsky definì il ‘’Commonwealth bizantino’’: una Res Publica spirituale,
religiosa e culturale che raggiunse anche la Russia.
Bisanzio rimane ancora oggi il grande modello per tutto l’Oriente europeo.
Lo scontro romano-slavo si concluse con la comune sconfitta subita ad opera
dei Turchi, quindi si può parlare di una parità.
Gli Slavi infatti riuscirono a creare un sottosuolo comune in tutti i Balcani, un
substrato slavo comune, ma allo stesso tempo la Romanità ha lasciato tracce
durature nella concezione artistica e religiosa, oltre che nel modo di
guardare il mondo.
I Bulgari prima, e i Serbi poi, avrebbero provato a costruire un impero capace
di sostituire quello bizantino.
Ma la simbiosi bizantino-slava lasciò tracce anche al di là dei Balcani, oltre il
limes danubiano.
Rispetto all’incostante dominio bizantino, il controllo ottomano sui Balcani fu
fin da subito deciso e saldo: l’area divenne il granaio della capitale, ma anche
la base di espansione verso l’Europa e l’Italia (presa di Otranto nel 1480).
Si parla di ‘’Impero Ottomano’’, anche se sarebbe meglio parlare di ‘’Devlet-i-
Osamaniye’’, ovvero di ‘’Stato ottomano’’.
Esso non solo intervenne per fondare nuove città, ma riuscì alla fine del XVI
secolo, con la presa di Bihac (1592) a completare la conquista dei Balcani: fu
così che nacque la ‘’Rumelia’’.
IV) LA RUMELIA

La ‘’Rumelia’’ fu una terra cristiana dominata dai musulmani, una terra


abitata da cristiani nei possedimenti del sultano.
Siamo lontani dal concetto di ‘’Turchia in Europa’’ che sarebbe emerso nel
corso del Seicento.
In realtà molti cristiani erano presenti anche in Anatolia: tutta la costa Ovest
era abitata dai Greci, mentre quella interna/orientale era abitata da Armeni;
tuttavia questa terra era percepita dagli Ottomani come qualcosa di proprio,
un ‘’Heimat’’, differente dalla Rumelia.
La Rumelia fu una costruzione ottomana, divenuta alla morte di Solimano il
‘’Magnifico‘’(1520-1566) una parte integrante del ‘’Devlet-i-Osamaniye’’, lo
Stato ottomano, detto anche ‘’Sublime Porta’’ dagli Europei.
Nel 1453, anno della presa di Costantinopoli, erano già quasi secoli che i
Turchi Selgiuchidi avevano occupato l’Anatolia centrale (dalla battaglia di
Mantzikert del 1071).
La prima turchizzazione dell’Anatolia avvenne dunque grazie ai Selgiuchidi,
ma rispetto a questi ultimi gli Ottomani furono qualcosa di differente.
Secondo alcune fonti furono i Bizantini ad incoraggiare i Turcomanni al
seguito dell’Orda d’Oro a stabilirsi alle frontiere del Sultanato turco di Iconio,
e questo alla metà del Duecento.
Nel Trecento sarebbe emerso poi il ‘’beylik’’ di Osman (1299-1326), il nucleo
fondatore dello Stato ottomano.
Simili ai Selgiuchidi, ma diversi nella lingua, inizialmente gli Ottomani
dialogarono con questi grazie alla mediazione dei Selgiuchidi cristianizzati,
prosperando invece grazie alla pastorizia.
Al tempo di Osman gli Ottomani riuscirono ad imporsi sui loro avversari
portando dalla loro sia parte dei Selgiuchidi che dei cristiani desiderosi di
fare bottino.
Di vittoria in vittoria si costituì una comunità alla quale si aggregarono
uomini di lettere e di fede; fu così che nacque il popolo ottomano.
Il concetto di ‘’turco’’ dunque, sin dalle origini, ha avuto dentro di se’ una
formula integrativa, che si sarebbe poi trasformata in un’identità specifica a
seguito dei ripetuti scontri coi Bizantini.
L’essere Ottomani cominciò a somigliare molto all’essere Romani: soprattutto
tra i soldati l’identificazione con l’Impero, ad un’istanza superiore alle singole
identità locali.
Nel 1302 Osman sconfisse i Bizantini nella battaglia di Bafeo, vicino a Izmit
(allora Nicomedia); fu il momento in cui nacque il Devlet-i-Osamaniye, lo Stato
ottomano, che fin da subito avrebbe avuto quattro specificità:

1) Negoziato nei confronti degli altri, che noi oggi guardiamo sotto la lente
della tolleranza.
2) Capacità di sfruttare le debolezze altrui.
3) Tendenza all’espansione.
4) Capacità di aggregazione.

Ancora oggi si discute molto sulla natura della conquista turca dei Balcani:
se essa sia stata una semplice conquista, oppure l’integrazione di compagini
in crisi (probabilmente fu entrambe le cose).
La religione e la filosofia politica furono la base ideologica della dinastia
ottomana, formulatrice del mito del ‘’gazi’’, il combattente per la fede
islamica.
Accanto a questo concetto vi era però la grande capacità di adattamento alle
situazioni politiche dell’Asia bizantina prima, e al mondo balcanico nel XIV
secolo.
Il passaggio da Gallipoli ad Adrianopoli si rivelò decisivo: i Balcani
divennero infatti la terra della conquista e dell’espansione, condotta da
Osman, da Orkhan (1324-1362) e Murad I (1362-1389).
L’avanzata turca fu graduale e costante, tra l’occupazione della Bulgaria e la
presa della Macedonia e della Serbia passarono circa vent’anni.
Gli Ottomani seppero sfruttare abilmente la frammentazione delle società
balcaniche, che furono in grado di imporsi come egemoni politicamente, ma
allo stesso tempo impararono anche a convivere e trattare coi cristiani
(un’arte imparata dai Bizantini).
L’organizzazione territoriale dei Balcani fu avviata dal 1360-1370, quando le
terre occupate vennero definite ‘’beilerbelik’’, ovvero province di Rumelia.
Inizialmente quest’area riguardava i territori dei Traci e dei Macedoni, dove
la sovranità del sultano era diretta; erano esclusi dalla Rumelia gli Stati che
erano vassalli, come la Bulgaria (occupata direttamente solo nel 1396).
All’inizio del Cinquecento la sovranità ottomana andava dunque dal Regno
d’Ungheria e dalla Dalmazia veneta sino ad Istanbul e alle foci del Danubio;
la Rumelia fino alla presa dell’Ungheria non si spinse a Nord del Danubio.
Dal secondo Quattrocento la Rumelia cominciò a corrispondere agli odierni
Stati di Grecia, Albania, Turchia, Serbia, Kosovo, Montenegro, Bulgari e
Bosnia-Erzegovina: tutti i Balcani.
Con la conquista di Ungheria/Egitto/coste africane/Mesopotamia/Mar Rosso,
si rese necessaria una riforma amministrativa.
Dal beylerbelik di Rumelia nacquero nuovi ‘’elayet’’, ovvero province, dette
anche pascialati, posti sotto l’autorità di pascià per l’appunto (i governatori).
Il primo elayet fu quello dell’Arcipelago, affidato all’abile ammiraglio-corsaro
Hayreddin Barbarossa (1478-1546) e comprendente: la Morea, l’Ellade
(Grecia classica), Cicladi, Sporadi, Dardanelli e Bitinia.
Al ‘’bey’’ del mare venne affidato il potere sui sangiaccati (distretti) litoranei
e marittimi, in primo luogo dalla parte orientale del Mar di Marmara, dal
sangiaccato di Kocaeli (Nicomedia), quello di Smirne, di Miltilene e di
Mystra.
Questo elayet rispondeva ad alcuni themata bizantini, ma soprattutto andava a
contrapporsi allo Stato da Mar veneziano, in primo luogo a Candia.
A Rodi, presa nel 1522 dopo che vennero sconfitti i Cavalieri di San Giovanni,
venne costituito un nuovo sangiaccato, ma già nel 1546 esso venne aggiunto
all’Arcipelago.
Cipro fu un elayet a parte dopo la conquista (1573), ma in seguito finì anche
essa nell’Arcipelago (tra il 1672 e il 1703); l’isola venne poi separata e riunita
definitivamente all’Arcipelago nel 1784.
Creta invece divenne un elayet nel 1670, dopo la lunghissima guerra di
Candia (1645-1669); l’isola sarebbe rimasta in mano ai Turchi sino alla
conquista greca (1897).
Il governatore dell’Arcipelago era il kapudan pascià, il grande ammiraglio
della flotta ottomana, detto anche ‘’derya bey’’, ovvero bey del mare.
Le sedi dell’ammiragliato erano a Gallipoli e a Galata (qui risiedeva per la
maggior parte del tempo il kapudan pascià).
Fu il successo militare del Barbarossa che portò alla creazione dell’Arcipelago
(nel 1535 posto sotto il controllo del kapudan pascià), che venne equiparato alla
Rumelia e all’Anatolia.
Con questo passaggio il grande ammiraglio venne elevato al rango dei visir,
potendo dunque partecipare alle riunioni del divan, il consiglio di Stato.
Tra il 1703-1784 l’Arcipelago fu sotto il diretto controllo del sultano; dopo l’
indipendenza greca (1829-1830) questo rimase però di fatto privato della
Morea e dell’Ellade.
L’Arcipelago fu dunque una compagine amministrativa a se’, una Grecia
nello Stato ottomano.
Un incarico molto importante era quello di ‘’dragomanno della flotta’’, creato
nel 1701 e ricoperto forse da Greci provenienti da un greco fanariota, ovvero
residente dal quartiere del Fanar.
Il dragomanno era in primo luogo un interprete, un conoscitore di lingue,
soprattutto dell’italiano, lingua diplomatica per eccellenza nell’Impero.
Con la conquista dell’Ungheria (1552) venne costituito l’elayet di Buda, il cui
territorio riguardava quasi tutta la pianura pannonica; da questo nuovo elayet
venne separato poi l’elayet di Timisoara.
Nel 1600 venne costituito l’elayet di Kanisza, al confine con l’Ungheria degli
Asburgo.
I domini ungheresi rimasero in vita sino al 1686, quando avvenne la
conquista asburgica, scaturita dopo il fallimentare assedio di Vienna (1683);
differente la vicenda del sangiaccato di Belgrado, scomparso dopo la presa
asburgica della Serbia (1718-1739).
La Bosnia venne separata dalla Rumelia ed elevata ad elayet nel 1580, nel 1600
nacque invece l’elayet di Silistra, odierna Dobrugia, (residenza del pascià sul
Danubio) in Bulgaria.
Questo elayet divenne una zona di confine, in primo luogo rispetto al Khanato
di Crimea, ma in seguito sarebbe stato allargato anche alla costa bulgara e al
basso corso del Danubio.
All’anno 1600 il 90% dei Balcani era in mano ottomana, suddivisi negli elayet
di Bosnia, di Rumelia e dell’Arcipelago; il sangiaccato di Smederevo rientrava
invece nell’elayet di Buda.
Venezia possedeva le coste e le isole dalmate, compresa Cattaro, le isole Ionie
(eccetto Leucade) e l’avamposto di Butrinto di fronte a Corfù.
Si considera veneziana anche la Repubblica di Ragusa, che formalmente era
però tributaria degli Ottomani.
Questa geografia rimase immutata sino al Settecento: l’Ungheria ottomana
sparì tra il 1686 e il 1699, mentre la Bosnia rimase in piedi.
Nella Rumelia del Quattro-Cinquecento, come in Anatolia, si assistette al
consolidamento dello Stato ottomano, che era fondato su due pilastri
giuridici: la sharia, la legge coranica ispiratrice prima dello Stato, e
l’adattamento ottomano ai diritti consuetudinari (fiscali, penali ecc..) locali.
Fiorirono nei Balcani le scuole coraniche, da cui si originava il ceto preposto
allo studio e all’interpretazione, gli ‘’ulema’’, che pur avendo la preminenza
su molte questioni non rispondeva a tutte le esigenze.
Sotto Maometto II avvenne la compilazione del ‘’kanuname’’, l’insieme d
leggi dedicate al diritto penale, al regime fiscale, doganale, ai mercati, ai porti
e allo status dei sudditi.
Il sultano, in quanto sceicco dell’Islam, aveva il diritto di interpretare a
seconda delle esigenze il diritto coranico.
I sudditi dello Stato ottomano erano di due categorie: i musulmani (a cui
andava il privilegio di accedere ai ruoli di governo) e i non-musulmani, che
riconoscevano entrambi la volontà divina che muoveva il sultano.
Il vertice della società ottomana era rappresentato dalla classe dirigente,
rappresentata da: ufficiali preposti alle varie unità amministrative (elayet,
sangiaccati e nahiye); militari o ‘’askeri’’; membri dell’ulema, teologi e
giureconsulti.
Questa terza categoria era composta da: ‘’mufti’’, teologi, e predicatori
preposti a moschee e monasteri; ‘’muderris’’, responsabili delle istituzioni
scolastiche (‘’madrase’’); ‘’kadi’’, i giudici, che sotto di se’ avevano un ‘’kadilik’’,
un distretto giudiziario.
Al di sotto di questo ceto dirigente vi era la ‘’raya’’, la popolazione comune,
che doveva reggere tutto questo sistema pagando i tributi allo Stato.
Per riassumere: non c’è autorità sovrana senza militari; non ci sono militari
senza benessere; la raya produce il benessere; il sultano è garante della raya
grazie alla giustizia che emana; la giustizia richiede armonia; il mondo è un
giardino le cui mura sono lo Stato; il proposito dello Stato è il diritto religioso;
il diritto religioso è l’autorità sovrana, ovvero il sultano.
Sotto Maometto II Istanbul divenne la capitale di un impero grande come
quello di Basilio II, il cui cuore era il palazzo imperiale, il Topkapi, situato
all’ingresso del Bosforo.
Al suo interno risiedeva il microcosmo dei funzionari, cavalieri (‘’sipahi’’),
eunuchi, custodi dell’harem, emissari, corpo dei giannizzeri.
Da qui il sultano governava il suo Stato, il cui massimo organo esecutivo era
il consiglio di Stato, il ‘’divan’’, a cui partecipavano, oltre al sultano e al gran
visir, altri quattro visir: due ‘’defterdar’’, economi (uno per la Rumelia e uno
per l’Anatolia) e due ‘’kadi asker’’, i capi della giustizia a cui erano sottoposti
i kadi.
Vi era poi il nisanci, il capo dell’amministrazione e interprete normativo, che
sovrintendeva al rilascio dei vari atti.
A quest’ultimo era subordinato il capo della cancelleria, il ‘’reis-ul-kuttab’’,
che era il preposto agli affari esteri.
Il sultano teneva molto in considerazione il parere dei mufti e degli ulema in
materia religiosa e del diritto coranico; l’ultimo sultano a presiedere il divan
fu Maometto II.
Solo dal 1535 al divan ebbero accesso anche il kapudan pascià, il grande
ammiraglio, e l’aga, il capo dei giannizzeri
Il consiglio emanava decreti (‘’firman’’), nomine (‘’berat’’) e accordi
(‘’ahdname’’), tipi di documenti che scandiscono la storia dell’Impero.
Fino alla conquista dell’Egitto nel 1517 vi erano due parti amministrative
nello Stato, la Rumelia e l’Anatolia, denominate beylerbelik poiché ciascuna di
esse era governata da un ‘’beylerbey’’, un governatore.
Ogni elayet aveva i suoi sangiaccati, a capo dei quali vi erano i capi militari, i
sancak bey, che si occupavano anche delle attività economiche e
dell’amministrazione delle città.
Al di sotto dei sancak bey vi erano i ‘’subasi’’, responsabili dei distretti.
Nel corso del Cinquecento le istituzioni giudiziarie si organizzarono a partire
dalla rete dei kadilik, le circoscrizioni di competenza dei giudici (i kadi), e delle
nahiye.
Il potere amministrativo ottomano si fermava proprio al livello di nahiya, cosa
che dunque lasciava margine al governo locale.
La terra era invece suddivisa in tre categorie: il ‘’miri’’, la proprietà dello
Stato (quindi del sultano); il ‘’mulk’’, la proprietà privata; i vafq o vakif/vakuf,
le proprietà delle fondazioni pie.
La moneta ufficiale era l’akce, l’aspro d’argento, anche se circolavano molto
anche le monete non ufficiali, come quelle veneziane e ungheresi in oro e
argento.
Le crescenti spese dello Stato imponevano un sistema fiscale, molto efficiente
se paragonato ai corrispettivi europei.
I non-musulmani dovevano pagare un’imposta personale, la ‘’cizya’’, o
‘’kharac’’, per ottenere la protezione del sultano; si tratta di un tributo riscosso
con puntualità e quindi molto documentato.
I defterdar, che redigevano i rendiconti delle kharac, hanno lasciato numerose
descrizioni analitiche sulla situazione demografica e tributaria; si tratta della
fonte più frequente per il mondo ottomano.
In generale le fonti ottomane eccellono per la quantità, un’eccellenza che ha
come contrappeso la povertà di fonti narrative, cosa che ha costretto ad
utilizzare le relazioni veneziane.
Il sistema tributario si basava sull’opera dell’appaltatore delle imposte, che
doveva presentarsi con dei garanti della sua solvibilità; la regolarità delle
entrate era di somma importanza, perché con i tributi si pagavano le spese di
guerra.
Questo possente sistema amministrativo era seguito da un forte esercito, che,
rispetto alle caotiche cavallerie europee composte da nobili e alle loro masse
di assoldati, era organizzato in corpi militari con ruoli e funzioni ben definite.
La cavalleria rappresentava l’élite: essa era formata dai sipahi (‘’cavalieri’’),
che venivano ricompensati con un ‘’timar’’, un feudo non ereditario attribuito
dal miri, per il loro valore.
Le rendite del timar permettevano ai sipahi di garantirsi armatura, cavalli e
servi.
Questa cavalleria contava ben 40.000 uomini, a cui si dovevano aggiungere i
10.000 cavalieri, quelli che componevano il reparto degli ‘’akinci’’, un reparto
originariamente turcomanno, ma poi esteso anche ai Circassi e ai Tartari.
Gli akinci erano responsabili, nei periodi di tregua, di incursioni in profondità
negli Stati nemici.
Il corpo più famoso della fanteria era ovviamente quello dei ‘’giannizzeri’’,
composto da giovani cristiani prelevati dalle famiglie tramite il cosiddetto
sistema del ‘’devsirme’’ (il ‘’dazio di sangue’’), che venivano poi addestrati nella
capitale.
Il corpo era composto da 6000 uomini; i più capaci potevano anche fare
carriera, e infatti alcuni giannizzeri nel corso della storia divennero anche
gran visir.
La struttura della fanteria vera e propria dipendeva invece dall’elayet di
riferimento: nella Rumelia, diversamente che in Anatolia, la fanteria reclutava
i ‘’martolosi’’ (o ‘’armatoles’’), i fanti cristiani (di solito di origine morlacca), e
i ‘’vojnuci’’, i notabili cristiani.
Un altro punto di forza era il corpo del ‘’topci’’, l’artiglieria, perfezionatasi
proprio al tempo dell’assedio di Costantinopoli.
L’esercito trovava un altro punto di incredibile modernità nel sistema di
vettovagliamento.
L’alimentazione in particolar modo era un aspetto curatissimo e pieno di
ritualità.
Si pensi che il capo di ogni unità giannizzera (‘’orta’’) era detto ‘’corbaci’’,
termine con cui si indica colui che distribuisce con il mestolo la zuppa
(‘’corba’’) ogni sera ad ogni giannizzero; la ritualità del mangiare assieme
andava a rafforzare lo spirito di coesione della truppa.
Per quanto vi fossero delle evidenti differenze fra sipahi e fanti, tra cristiani e
musulmani, fino al fatale 1683 la forza ottomana rimase coesa ed efficace.
Per riassumere:

- Gli elayet erano l’organizzazione territoriale più grande dello Stato.

- Ogni elayet era organizzato in sangiaccati, a loro volta suddivisi in nahiye e


capitanati (questi ultimi situati lungo il confine).

- La struttura giudiziaria era organizzata attraverso la rete del kadilik.

- Alla struttura fiscale era preposto il defterdar.

- La struttura militare poggiava in primo luogo su sipahi e giannizzeri.

Il sistema ottomano si basava su una rigida osservanza di gerarchie e


compiti, per cui l’insubordinazione era punita molto severamente (tramite
impalazione pubblica, secondo un rito cruento e pubblio).
Lo Stato ottomano possedeva in conclusione un’amministrazione e un
esercito molto ben strutturato, risultati di un livello di centralizzazione ed
efficienza che gli Stati europei (in primo luogo la Francia di Luigi XIV)
avrebbero raggiunto solo molto più tardi.
V) IL SISTEMA OTTOMANO

La crescita urbana dei Balcani dimostra che il sistema ottomano funzionava.


L’amministrazione turca distingueva i centri abitati a seconda di grandezza e
funzione in: città (sehir), cittadine o borghi (kasaba), mercati (bazar) e villaggi
(karye).
Nel Duecento/Trecento in Serbia non si parlava di città, ma solo di castelli,
monasteri, villaggi e borghi; questo ci testimonia come la civiltà balcanica
fosse ridotta all’essenziale; solo le strade verso l’Adriatico mantennero una
certa rilevanza, mentre le comunicazioni trasversali, tra Rascia e Bulgaria per
esempio, erano molto ridotte.
Gli Ottomani restaurarono la viabilità romana, si pensi alla cosiddetta
‘’strada imperiale’’ Istanbul-Adrianopoli-Plovdiv-Sofia-Nis-Belgrado, ma anche
all’importanza assunta dall’asse Belgrado-Salonicco.
Anche il fiume Sava assunse un’importanza che in precedenza non aveva, ora
invece era divenuto raccordo tra gli elayet di Kanisza, Buda e Bosnia.
Gli Ottomani costruirono anche nuove città, come Sarajevo, o ne
potenziarono altre già esistenti, come Belgrado, Skopje e Adrianopoli.
Dopo Istanbul, che all’inizio del Seicento raggiunse i 500.000 abitanti, la più
grande città dei Balcani era Salonicco.
La città ottomana era un insieme di comunità, mahale, distinte in senso
religioso e sociale (vi erano le mahale dei musulmani, dei Greci, dei Serbi ecc.).
La città, con le sue vie intricate (carsi), era il centro delle attività artigianali
organizzate in corporazioni (esnaf), ognuna con il proprio spazio.
Nel cuore della città non vi erano piazze come in Occidente, bensì edifici
come moschee, alberghi per commercianti e scuole coraniche.
In ambito architettonico è ancora oggi aperta la questione sul quanto
l’edilizia balcanica sia ottomana o post-bizantina.
Il modello era quello del cortile chiuso, con cucine e servizi esterni, e le stanze
dell’appartamento al piano superiore.
I più ricchi avevano anche stanze per gli ospiti , un piano verande , un’ampia
ùstanza principale e la parte per le donne (l’harem).
La città balcanica, ottomana in tutta la sua forma, è molto simile alla città
anatolica, e così rimase fino alla fine dell’Ottocento.
Di grande impatto fu sicuramente l’immigrazione di comunità di Ebrei
sefarditi dalla Spagna a partire dal 1492: a Salonicco, la più grande città
balcanica oltre ad Istanbul, vi era una maggioranza ebraica.
La pace ottomana favorì il consolidamento di una rete di relazioni tra grandi
mercanti ebrei risedenti ad Istanbul, Alessandria, Ragusa, Venezia, Ancona;
fu la comunità ebraica in Bosnia a favorire l’arrivo in Italia di prodotti locali.
Favorendo gli scambi commerciali, gli Ottomani riuscirono anche a favorire
l’integrazione nei Balcani.
L’integrazione fra campagna e città nei Balcani non raggiunse mai però i
risultati a cui si era arrivati in Spagna e Italia: la città era tutta artigianato/
istituzioni/scuole/ moschee, mentre i villaggi restarono ‘’sospesi fra le
montagne’’ e vincolati all’allevamento e della pastorizia.
Nelle campagne il grosso delle terre (80%) era in mano allo Stato, che le
assegnava attraverso il sistema del timar, che nel XVII secolo avrebbe
conosciuto una feudalizzazione.
Nel corso del Quattrocento e del Cinquecento il numero dei sipahi meritevoli
aumentò, rendendo impossibile garantire a tutti delle terre, motivo per cui si
cominciarono a ricompensare i meritevoli anche tramite titoli e privilegi.
Al timar subentrò così il ‘’ciftlik’’, il sistema grazie al quale le terre divennero
ereditarie (inizialmente sono in Bosnia, nella zona di Salonicco e nella piana
bulgara tra Sofia e il mare), motivo per il quale vediamo alcuni cognomi
ancora all’Ottocento.
Un ruolo molto importante va anche attribuito alle vafq, le fondazioni pie
ottomane, che avevano pochi obblighi tributari e in cui si poteva investire per
ottenere ricavi dai beni terrieri che queste possiedevano; le ‘’hass’’ erano
invece ciò da cui il sovrano riscuoteva direttamente le entrate.
I Balcani furono organizzati soprattutto sulla rete dei sangiaccati: la nuova
topografia amministrativa che si venne a creare in epoca ottomana andò di
fatto a cancellare il ricordo del passato.
Molta rilevanza venne assunta dalla Bosnia, un elayet di confine che al suo
interno, oltre ai sangiaccati, aveva anche dei capitanati e alcune istituzioni
militari preposte proprio alla difesa del confine (i primi capitanati vennero
indirizzati proprio verso la Croazia e la Dalmazia).
Tutti i capoluoghi ottomani avrebbero assunto una notevole importanza
anche nelle geografie successiva alla Sublime Porta.
Anche la Rumelia aveva numerosi sangiacccati, che riuscirono a costituire un
sistema amministrativo e sociale in grado di adattarsi molto velocemente alla
situazione nei Balcani.
Numerose e continue furono le migrazioni, che portarono ad una situazione
di rimescolamento etnico: gli Ottomani incoraggiarono per esempio lo
stanziamento dei Tartari lungo il litorale pontico, la colonizzazione dei
Turcomanni juruk nei vari sangiaccati macedoni.
In tutta la Rumelia vi fu poi una notevole mobilità di popolazioni rom, e a
loro volta le popolazioni delle montagne bosniache si spostarono a ridosso
della Dalmazia, nella Croazia abbandonata dopo il 1540.
Dalla Croazia, tra il 1520 e il 1670, vi fu un continuo flusso migratorio prima
verso la Dalmazia veneta e poi verso l’Istria veneta e oltre (per quest’ultima si
è parlato di una colonizzazione voluta da Venezia, che voleva risolvere il
problema dello spopolamento dell’area).
Dalla Serbia vi fu invece, tra il 1460-1520, un notevole spostamento verso il
Sirmio.
Le migrazioni seguirono in sostanza il percorso verso Occidente, e poi anche
da Meridione verso Settentrione; lo stesso concetto di Croazia migrò verso
Nord, estendendosi così anche verso Zagabria.
Questi spostamenti comportarono continue ridefinizioni sul territorio: in
Bosnia per esempio si arrivò alla compresenza di Valacchi epirioti e di
contadini Serbi.
Non abbiamo notizie su possibili rivolte contadine causate da questi
spostamenti.
Ogni territorio era strutturato tra ciftlik, la terra ereditaria, vafq, un’autorità
quasi pubblica, e hass, i beni diretti del sultano/del sancak bey/del capitano.
In tutti i Balcani vi erano poi i villaggi dei derbenci, comunità preposte alla
cura delle strade, che rispondevano direttamente al sancak bey e che in caso di
guerra partecipavano alle spedizioni.
Lungo il corso del Danubio e del Sava venne eretto un sistema di difesa a cui
erano preposti i martolosi e anche la milizia valacca/morlacca retribuita.
Attorno ai forti si sviluppò poi una rete di servizi, dall’approvvigionamento
all’artigianato, inoltre i Turchi incoraggiarono la nascita di comunità fluviali,
tra la Sava e il Danubio, in quanto utili per la difesa e le comunicazioni.
La flotta fluviale aveva sede proprio a Belgrado, ed era costituita da sajkasi e
da sajka, lunghe imbarcazioni a remi con un albero e una bombarda.
A parte vi era poi il mondo dei contadini, pressoché liberi, e degli allevatori,
nomadi o quasi situati nei vasti territori montuosi come Epiro e Rodopi.
La combinazione tra l’inquadramento della terra lavorata, dei luoghi dello
Stato, il resto del territorio e il mondo della montagna costituirono i
paradigmi sociali dei Balcani ottomani, percorsi da città/borghi/percorsi/forti/
terre di bey ed ‘’efendi’’ (‘’rispettabili’’)/piccoli proprietari cristiani/terre degli
arconti delle montagne (knez, koca-basi, khozda-basi).
Molto discusso è anche il tema dell’islamizzazione dei Balcani.
Si ormai preso atto del fatto che la conversione non fu forzata, ma volontaria,
e questo fu dovuto soprattutto al modello stesso di ‘’turco-ottomano’’, basato
sull’inclusione (lo stesso Osman radunò attorno a se’ uomini non-turchi che
avevano i suoi stessi scopi).
L’Islam ottomano si basa dunque su un grande senso di appartenenza allo
Stato.
Il processo di islamizzazione e l’assenza di strappi radicali non devono far
credere che la conquista ottomana non sia stata cruenta, anzi, essa fu scandita
da un costante clima di terrore.
La tattica ottomana era basata sul logoramento dell’avversario, che veniva
annichilito lentamente; nel caso delle élites balcaniche, queste videro svuotati
di senso i loro valori nobiliari.
Dopo un primo momento di tolleranza verso i nobili cristiani, i sipahi (la
componente musulmana), nella seconda metà del XVI secolo, arrivarono a
prevalere.
Le città, dove erano presenti i vafq, e le confraternite dei ‘’dervisci’’ (delle sorte
di asceti) si rivelarono ambiti che favorirono di molto la conversione alla fede
islamica; per l’Albania si deve ricordare il fondamentale ruolo dell’ordine
sunnita dei ‘’bektasi’’, che guardava al mondo tramite una sorta di visione
panteista.
Ci furono poi regioni dove l’Islam ebbe maggiore presa, come la Macedonia,
la terra in cui un tempo aveva imperversato l’eresia dei bogomili.
Fu però l’urbanizzazione il motore più veloce del modello ottomano: a
Skopjie nel 1515-1519 vi erano già 623 case ottomane contro 300 cristiane, a
Belgrado nel 1660 aveva 38 mahale musulmane e solo tre serbe.
Nelle città bosniache si sono conservate moschee storiche, e ulteriori ne sono
sorte negli ultimi tre decenni (la più rilevante è senza dubbio quella di
Husrev-beg di Sarajevo, del 1531).
Queste terre hanno prodotto anche importanti letterati, come Suzi Celebi,
originario di Prizren, autore del poema intitolato ‘’Gazavatnama’’ (‘’Il libro
delle battaglie’’), o come Fevzi, importante esponente della poesia in persiano.
Il mondo ottomano era effettivamente caratterizzato da una situazione di
triglossia: il turco era la lingua dell’amministrazione, il persiano quella della
poesia e l’arabo la lingua coranica; questo trilinguismo era un fatto normale
anche nella classe dirigente balcanica.
L’integrazione raggiunse un livello tale di efficienza che si arrivarono ad
avere gran visir slavi, come pascià Hirvati, croato di origine e sposo della
figlia di Solimano il Magnifico.
Lo Stato ottomano fu dunque la compagine ideale dopo la scomparsa di
Bisanzio per la comunità cristiana di rito ortodosso.
Maometto II riconobbe fin da subito l’autorità del patriarca di Costantinopoli,
mentre altre Chiese autocefale (come quella bulgara o quella serba) erano
sparite.
Scomparso l’Impero rimasero le chiese, i monasteri e il clero, che al suo
vertice aveva un capo risiedente nella capitale ottomana, quindi vicini al
sultano.
Al pope Maometto II riconobbe fin da subito la funzione giudiziaria in materia
civile nelle dispute fra cristiani.
Se a litigare erano invece due musulmani, allora interveniva il kadi, mentre se
a disputare erano un musulmano e un cristiano, allora pope e kadi si
confrontavano sul da farsi.
In poche parole la vita economica, civile e religiosa dei cristiani era garantita
dal potere centrale.
Gli ortodossi preferivano di gran lunga avere un sultano che il pontefice
romano, nonostante si fosse arrivati all’unione delle due chiese con il
concilio di Ferrara-Firenze, che però era osteggiatissima dagli ortodossi.
Vivere nell’Impero Ottomano rappresentava per questi ultimi una prospettiva
molto migliore che vivere nei domini veneziani, dove erano mal sopportati;
una situazione a cui andavano aggiunti i rancori per quanto successo nel
1204.
In assenza di alternative la cristianità ortodossa vedeva nel sultano il suo
garante, e la situazione rimase così almeno sino alle date cruciali del 1709
(battaglia di Poltava) e del 1721 (nascita dell’Impero Russo), grazie alle quali
Pietro I di Russia detto il ‘’Grande’’ (1682-1725) riuscì a scalzare gli Svedesi
dalla loro posizione di egemonia nel Baltico.
Il patriarcato di Costantinopoli puntò in primo luogo sull’ellenizzazione
dell’intera chiesa ortodossa nei Balcani come in Anatolia.
Per i Greci l’Impero Ottomano divenne una grande opportunità per arrivare a
traguardi impensabili per il frammentato potere bizantino.
L’ascesa e l’espansione del clero greco generò però insofferenza tra le
popolazioni serbo-bulgare, nonostante la creazione di un autonomo esarcato
di Ocrida.
Al tempo del trentacinquesimo visir, pascià Sokollu (in serbo Sokolovic,
1506-1579), si arrivò alla ricostituzione del patriarcato serbo (1556).
Il patriarcato di Péc ebbe un vastissimo territorio, che comprendeva tutta la
Serbia, tutta la Bosnia-Erzegovina, l’Ungheria e la Croazia: uno spazio
impensabile per l’antica Chiesa serba.
Il creatore del patriarcato, il gran visir Sokolovic, era di nobile origine serba,
portato da bambino via da casa ed educato come giannizzero.
Dopo essere divenuto comandante della guardia imperiale, poi terzo,
secondo ed infine gran visir.
Sokolovic guidò lo Stato ottomano alla morte di Solimano il Magnifico, ma
operò molto anche nella sua terra natale, mettendo a capo del patriarcato di
Péc un suo parente; ormai alla fine del Cinquecento la nobiltà serba era
perfettamente inserita nel sistema ottomano.
Fu un pascià serbo, Hasan pascià Predojevic, che conquistò nel 1592 l’ultima
roccaforte asburgica, Bihac.
La posizione della Chiesa cattolica era invece molto differente, in quanto
essa, che aveva al proprio vertice un sovrano straniero, il pontefice, non
poteva essere riconosciuta.
Il sultano fu però costretto a prendere atto di alcune situazioni locali, come
nella Bosnia, dove vi era una radicata presenza francescana: Maometto II
rilasciò nel 1464, all’indomani della conquista, una capitolazione con cui si
permetteva ai francescani di predicare.
Nel 1517 si costituì anche la provincia francescana di ‘’Bosnia Argentina’’, la
sola istituzione cattolica tollerata nell’Impero, dotata tra l’altro di una
notevole estensione territoriale.
Qui i cattolici non ebbero comunque vita facile, visto che non c’erano clero e
parrocchie e soprattutto era proibita la predicazione, pena la morte.
La Bosnia ottomana risulta in effetti essere uno dei casi più straordinari di
convivenza religiosa di sempre, divisa tra la provincia francescana, i
monasteri ortodossi e l’Islam.
In nessuna area del Mediterraneo si poté constatare un tale grado di
compresenza tra cattolici, musulmani e ortodossi (si deve poi aggiungere la
componente ebraico-sefardita).
L’unico altro precedente fu forse l’Andalusia medievale, che però non
conobbe la longevità della situazione bosniaca, perpetuatasi sino al tardo
Novecento grazie al suo inserimento in realtà multinazionali (prima l’Impero
Ottomano, quello asburgico poi ed infine la Jugoslavia).
Oggi la Bosnia ha perso questo tratto della sua storia, eppure fu, e rimane nel
ricordo, la più ottomana di tutti gli elayet.
Esistevano comunque fenomeni di resistenza al modello ottomano, come il
brigantaggio dei leggendari ‘’hajduk’’ serbi e dei ‘’klephti’’ greci, un
fenomeno che toccò il proprio apice tra il 1670 e il 1750 (era nato invece nel
Cinquecento).
I briganti agivano in ‘’cete’’, compagnie, che si riunivano dalle montagne
nelle valli spostandosi per i boschi.
La cattura di questi briganti era di fatto impossibile, sia per la conformazione
dei Balcani, sia per il nutrito numero di informatori di cui si servivano i
briganti.
La violenza dell’hajduk era tutt’altro che eroica, e fu quasi sempre utilizzata
nelle rivalità e nelle faide tra clan musulmani e cristiani.
Più che ribellione, la ‘’hajducijia’’ (‘’brigantaggio’’) fu un aspetto di fatto
complementare del sistema ottomano, che avveniva tra l’altro con cadenza
regolare: gli hajduk si riunivano nel giorno di San Giorgio, ‘’Djurdjevdan’’, (6
Maggio del calendario gregoriano, il 23 Aprile di quello giuliano) e agivano
fino al giorno di San Demetrio, ‘’Mitrovdan’’ (26 Ottobre giuliano).
Dunque dopo aver passato gli inverni nelle case, i briganti, spesso contadini
che volevano arrotondare le entrate normali, agivano tra la primavera e
l’inizio dell’autunno.
Il fenomeno è in realtà osservabile anche in altri contesti del Mediterraneo,
dalla Calabria fino alla Sardegna e alla Corsica; si tratta dunque di un
elemento endemico e proprio di società conservatrici, sempre sulla difensiva
e convinte dei propri valori.
Il brigantaggio era dunque tollerabile, e oltre ad esso non vi furono mai reali
tentativi di affrancarsi dal dominio ottomano, fatta eccezione per le rivolte
bulgare di Tarnovo del 1598 e del 1686.
Al contrario per tutto il Cinquecento croato fu caratterizzato da continue
rivolte contadine (la più grande quella del 1573).
Nei suoi secoli iniziali lo Stato ottomano possedeva dunque una compattezza
amministrativa e una forza militare capaci di portare avanti un’esperienza in
progressione, un modello che per complessità fu secondo solo a quello
romano.
VI) L’ANTEMURALE

Venezia e l’Ungheria furono a lungo gli antemurali della Cristianità, le ultime


linee difensive e i confini con il mondo turco; più a Est invece il potere
ottomano trovava i suoi confini nei principati vassalli di Moldavia e
Valacchia.
A limitare il potere turco furono quasi tre secoli di sforzi diplomatici e
militari (1420-1683), al termine dei quali si sarebbe verificata un’inversione di
tendenza.
I Balcani nel corso di questo lungo periodo furono soprattutto il luogo da cui
partivano le campagne militare turche, la base a cui l’antemurale cristiano (la
linea Malta-Puglia-Dalmazia, Croazia, Presburgo, Vienna) si poneva come
antitetico.
Fu in questi secoli che l’Europa, per volontà di differenziazione rispetto al
mondo balcanico-ottomano, cominciò a costruire il proprio immaginario e la
propria specifica identità culturale.
Nel corso della fine del XIV secolo e dell’inizio del XV erano falliti i tentativi
di frenare il potere turco: la crociata di Nicopoli (1396) e la crociata di Varna
(1444), nate per portare supporto all’Impero Bizantino, si tradussero in delle
clamorose disfatte.
A riscattare parzialmente l’onore occidentale fu l’assedio di Belgrado (1456),
durante il quale il reggente ungherese Janos Hunyadi (1407-1456) riuscì a
respingere le forze ottomane.
Il despotato serbo, eccetto Belgrado, cadde comunque nel 1459, cosa che
spinse papa Pio II (1458-1564,al secolo l’umanista Enea Silvio Piccolomini) a
bandire un’ultima crociata nel 1464, un progetto fallito proprio alla morte del
pontefice nello stesso anno.
Del suo intento restano, oltre all’affresco di Pinturicchio nella Libreria
Piccolomini presso il duomo di Siena, restano i testi, all’interno dei quali egli
utilizza, tra i primi, il termine ‘’europaeus’’ per indicare la differenza rispetto
ad un popolo non cristiano.
Al posto della crociata si verificò il primo scontro tra Veneziani e Turchi
(1463-1479), durante il quale la Serenissima difese strenuamente la città di
Durazzo in Albania, che cadde infine, assieme a Scutari e Alessio, nelle mani
di Maometto II.
La pace del 1479 impose ai Veneziani il pagamento di un tributo e la perdita
dell’Albania (che sarebbe rimasta agli Ottomani sino al 1912), ma la guerra
confermava che ormai la Repubblica era l’unica forza navale in grado di
opporsi alla Sublime Porta.
Maometto II riuscì in seguito anche a conquistare Otranto (1480), cosa che
provocò il panico in Italia e spinse papa Sisto IV ad indire una nuova crociata,
che sfumò solo grazie alla morte del sultano (1481).
Parallela all’ascesa di Maometto II si erano verificate anche le imprese del
condottiero albanese Giorgio Castriota Scanderbeg (1405-1468), un nobile
che aveva fatto carriera nell’esercito ottomano e che però si convertì in seguito
al Cristianesimo.
Scanderbeg, che stabilì a Croia (vicino Durazzo) il centro della lega di signori
che aveva costituito, riuscì a sconfiggere ripetutamente gli Ottomani,
arrivando anche ad ottenere il supporto di Ferdinando d’Aragona nel 1459.
Nominato ‘’atlheta Cristi’’ da papa Callisto III nel 1458, Scanderbeg ottenne da
Maometto II il riconoscimento della propria autonomia nel 1461 e in seguito
rispose all’appello di Pio II per una crociata contro i Turchi.
In seguito però il condottiero albanese si trovò a combattere i Turchi da solo,
senza potere contare nemmeno sull’appoggio di Venezia, che nei suoi
confronti si comportò sempre in modo ambiguo a causa dei proprio interessi
sull’Albania (i cui signori aveva nominato il Castriota ‘’capitano generale’’).
Gli scarsi aiuti ricevuti dal mondo cristiano costrinsero Scanderbeg, dopo una
lotta durata per due decenni (durante i quali aveva mantenuto un esercito di
migliaia di uomini), a recarsi in Italia per chiedere aiuto.
Solo Venezia rispose al suo appello inviando 13.000 uomini e un cospicuo
numero di navi.
Scanderbeg inflisse agli Ottomani una nuova sconfitta nella battaglia di Croia
(1467), che porto alla riconquista della città, che in seguito venne assediata da
Maometto II, che però ancora una volta fu vinto dal condottiero albanese.
Scanderbeg morì infine ad Alessio nel 1468, dopo aver abbandonato Croia,
che era diventata ormai indifendibile; la sua fine dimostrava che ormai non vi
era più spazio nei Balcani per realtà autonome dal dominio turco.
La costa in mano a Venezia era divenuto dunque alla fine del Quattrocento
l’unico limite all’Impero Ottomano, che pur essendo una realtà mediterranea,
ebbe forse il limite di non essere un Impero marittimo.
Venezia al 1480 controllava ancora diverse posizioni degli antichi domini
marittimi di Bisanzio, che sopravviveva in qualche modo ancora nei possessi
veneziani.
Nel 1490 la Serenissima era padrona dell’Adriatico: possedeva l’Istria e
Ravenna, la Dalmazia con Cherso/Ossero/le isole di Veglia (possedimento dei
conti Frangipani fino al 1480)/Zara/Sebenico e le isole/Spalato/Lissa/Curzola/
Cattaro.
Nello Ionio aveva invece Corfù e Paxo dal 1386, Zante dal 1482, Cefalonia e
Zante dal 1500 e Leucade (Santa Maura) dal 1684; seguivano poi i domini in
Morea, il castello di Butrinto, Malvasia e Napoli di Romania, Nasso, Delo e
Mykonos, Egina, l’Eubea e Cipro.
L’insieme di questi domini costituiva lo ‘’Stato da Mar’’, un mondo, sorto nel
1204 e scomparso nel con l’occupazione napoleonica nel 1797, che permise ai
Veneziani di frenare l’espansionismo ottomano.
Nonostante i numerosi conflitti infatti, numerose posizioni non caddero mai
nelle mani dei Turchi, le città dalmate, snodi cruciali per la navigazione verso
il Levante, vennero controllate dalla Repubblica fino alla fine.
Le relazioni commerciali lungo i litorali non decaddero a causa dei conflitti, i
porti continuarono ad essere i tradizionali luoghi di interscambio culturale e
commerciale.
Alla perdita di Cipro (possesso veneziano dal 1474/1489 al 1573) seguirono
ben settant’anni di pace, in cui la Serenissima fu l’unico Stato europeo ad
avere più confini coi Turchi.
Per Venezia tre erano le figure Fondamentali per il rapporto con il mondo
turco: il ‘’capitano del Golfo’’ (il Mar Adriatico), il ‘’provveditore da Mar’’
(che aveva base a Corfù) e l’ambasciatore ad Istanbul.
Il più lungo conflitto tra le due potenze, l’infinita guerra di Candia (1645-
1669), che si concluse con la conquista turca di Creta/Candia rappresentò per
lo Stato veneziano un momento durissimo (numerosissimi avevano infatti
perso la vita durante gli scontri).
Nella fase successiva si aprì però una fase di riconquista cattolica, guidata
dalla ‘’Lega Santa’’, di cui Venezia era componente, che riuscì a sconfiggere
gli Ottomani.
Quello veneziano era dunque il limes marittimo, che aveva come
corrispondente continentale l’Ungheria.
Nel Regno d’Ungheria fu re Mattia Corvino (1458-1490) a rafforzare le
fortezze e a costituire una linea di difesa anti-ottomana; il regno di Mattia fu
anche quello in cui si verificò la grande stagione dell’umanesimo ungherese.
Nonostante gli sforzi però, non si trovò rimedio alle incursioni ottomane, che
terminarono in un primo momento solo con la pace del 1483, siglata dopo
vent’anni di assalti che avevano totalmente spopolato la Slavonia.
Alla morte di Corvino (membro della famiglia degli Hunyadi) la dieta dei
nobili ungheresi elesse Ladislao II Jagellone (1490-1516), membro della
famiglia reale polacca, che deteneva anche la corona boema grazie ad un
accordo siglato nel 1479 con Mattia Corvino.
L’elezione di Ladislao II portò ad una divisione della nobiltà ungherese, dei
contrasti che degenerarono in dei conflitti interni perdurati sino al 1494.
La crisi portò ad un indebolimento militare, dimostrato dalla disastrosa
sconfitta subita dalla nobiltà croata nella battaglia del Krbava (1493).
Le conseguenze non furono mai irreparabili, almeno fino a quando ressero il
banato di Jajce, nella Bosnia centrale, e la fortezza di Belgrado.
Nel 1516 salì al trono Luigi II Jagellone (1516-1526), incoronato a soli dieci
anni; l’età del sovrano spinse gli Jagelloni ad allearsi con gli Asburgo: Anna
Jagellone, figlia di Ladislao II e sorella di Luigi II, sposò Ferdinando
d’Asburgo (1503-1564), fratello di Carlo V e in seguito suo erede come
sovrano del Sacro Romano Impero.
Luigi II si trovò in breve tempo sul piede di guerra con Solimano il
Magnifico, che nel 1516-1517 aveva conquistato l’Egitto sconfiggendo il regno
mamelucco.
Nel 1521 Solimano conquistò Belgrado, aprendosi così la strada per la
pianura ungherese, per delle terre che nemmeno Giustiniano e Basilio II
erano riusciti a raggiungere.
Nella battaglia di Mohàcs (1526) l’esercito ungherese venne fatto a pezzi dai
Turchi, che erano riusciti ad accerchiare i nemici dando via ad un vero e
proprio massacro, nel quale trovò la morte anche il re Luigi II.
La perdita di 15.000 uomini e l’estinzione della dinastia degli Jagelloni spinse
la dieta ungherese e quella boema ad offrire la corona a Ferdinando
d’Asburgo.
Nel 1526 Ferdinando venne acclamato a Praga, in Boemia; in Ungheria la
questione fu invece più complicata.
Parte della nobiltà ungherese infatti andò a sostenere Giovanni Zàpolya,
‘’vojvoda’’ (‘’principe’’) di Transilvania, una provincia a se’.
Alla fine fu Ferdinando a spuntarla, venendo proclamato sovrano a
Presburgo (odierna Bratislava) dai nobili magiari, divenendo così il primo
difensore del mondo cristiano.
Con l’elezione a imperatore del Sacro Romano Impero nel 1526, Ferdiando
riuscì a costituire in un certo senso l’Europa centrale, andando ad avvicinare
culturalmente il Regno di Boemia (che includeva anche Moravia e Slesia) a
ciò che restava dei Regni di Croazia e Ungheria.
Nasceva così l’antemurale Christianitas, di cui la casa d’Asburgo diveniva la
custode.
I Turchi negli anni successivi riuscirono ad impossessarsi di altri avamposti,
trasformando province della Croazia storica in nuovi sangiaccati, come quelli
di Clissa e Lika.
Il territorio denominato ‘’Croazia’’ si spostò come detto più a Nord, arrivando
a Zagabria, una città della Slavonia; questo è solo uno dei molti esempi di
ridefinizione geografica causata dall’avanzata ottomana.
Il biennio 1526-1527 rappresenta dunque un momento cruciale nella storia
dell’Europa centrale, una storia che è incentrata soprattutto sul conflitto
ottomano-asburgico, che diede vita a ben dieci conflitti passati alla storia
come ‘’guerre austro-turche’’ (1529-1791).
Il primo di questi conflitti si svolse nel periodo tra il 1529 e il 1593, e fu
caratterizzato dall’avanzata turca, che conobbe una prima sosta proprio nel
1593, anno della battaglia di Sisak (in Croazia), in cui l’esercito asburgico
riuscì a fermare il nemico.
Il secondo conflitto tra le due potenze, la cosiddetta ‘’lunga guerra’’ del 1593-
1606, coinvolse i principati di Valacchia, Moldavia e Transilvania e anche la
Polonia; si concluse con un ritorno allo status quo antecedente all’inizio delle
ostilità.
Seguì una fase di tregua: gli Asburgo erano infatti impegnati nella Guerra dei
Trent’anni (1618-1648), mentre gli Ottomani nell’estenuante guerra di Candia
(1645-1669).
Lo scontro si riaprì nel 1663-1664, e si concluse con la vittoria asburgica nella
battaglia del San Gottardo in Ungheria.
Vi fu poi l’assedio di Vienna del 1683, conclusosi con la travolgente vittoria
austro-polacca nella battaglia del Kahlenberg (1683), svoltasi proprio sotto le
mura di Vienna.
Questa vittoria aprì alla fase di riconquista cattolica: dapprima venne ripresa
l’Ungheria tramite due guerre, quella del 1684-1699 e quella del 1716-1718 e
due trattati di pace, il primo quello di Carlowitz (1699) e il secondo quello di
Passarowitz (1718); in questi conflitti si distinse il comandante in capo delle
forze asburgiche, il principe Eugenio di Savoia (1663-1736).
Con Belgrado e Serbia in mano gli Asburgo si trovarono nella posizione di
attacco e non più di difesa.
L’ultima fase di conflitto, quella del 1718-1791, fu caratterizzata dalla
resistenza ottomana: con le due guerre del 1737-1739 e del 1787-1791 vennero
ribaditi i confini tra gli Asburgo e i Turchi, che riuscirono quantomeno a
riavere Belgrado; questo equilibrio si mantenne fino al 1878.
Il Cinquecento era stato segnato però anche dal conflitto tra Venezia e gli
Asburgo, causato dagli Uscocchi, i profughi provenienti dai domini ottomani
concentratesi a Segna e ostacolare la navigazione e i commerci veneziani.
Le tensioni si elevarono a partire dal 1580 e proseguirono nel primo decennio
del Seicento.
Le scorrerie uscocche colpirono a ripetizione le città istriane, mettendo in crisi
l’interno sistema dell’area a seguito degli assalti del 1609/1614/1619.
A quel punto la tensione degenerò nel conflitto aperto, la guerra di Gradisca
(1615-1617), che si concluse con la pace di Madrid, con la quale veniva
riconosciuta l’egemonia veneziana sull’Adriatica e con cui soprattutto
vennero eliminati gli Uscocchi.
Nel 1684 Asburgo e Veneziani si sarebbero poi trovati alleati nella Lega Santa
formatasi all’indomani dell’assedio di Vienna.
La Dalmazia veneta era ormai ridotta a Zara, Sebenico, Traù, Spalato, Cattaro
e le isole: grosso modo quelle dominata secoli prima da Bisanzio.
Venezia e gli Ottomani vissero un periodo di relativa stabilità nei rapporti nel
periodo compreso tra il 1540 e il 1645, nonostante la guerra di Cipro (1570-
1573) e la vittoria cristiana nella battaglia di Lepanto (1571).
Il periodo di tranquillità si interruppe bruscamente con lo scoppio della
guerra di Candia, a cui seguirono la guerra di Morea (1684-1699), un episodio
che si colloca nel più ampio conflitto tra Ottomani e Lega Santa, e la ‘’piccola
guerra’’ (1714-1718), che per la Serenissima comportò l’acquisizione di tutto il
litorale dalmata, ma la perdita della Morea.
Il litorale dalmatico era anche la linea ultima del cattolicesimo, cosa che
rendeva gli antichi vescovati dalmati (l’arcidiocesi di Zara era sorta già nel
1154) i baluardi della Chiesa di Roma, che trovavano nel mare uno scudo
molto efficace.
I capisaldi cattolici vissero appieno la riorganizzazione seguita al Concilio di
Trento, aiutati dagli ordini religiosi attivi in Dalmazia, quindi dai domenicani
e dai francescani.
Loreto, situata nelle odierne Marche (allora Stato della Chiesa) e dunque di
fronte alla Dalmazia, divenne il centro di formazione del clero illirico.
Negli anni del conflitto di Candia (1645-1669), Venezia attuò una strategia che
puntava al contenimento dell’offensiva in Dalmazia e alla concentrazione
delle forze nei possedimenti egei; nel periodo compreso tra il 1516-1684 vi fu
la tendenza ad arroccarsi lungo il litorale.
Nei secoli XIV e XV la città di San Marco era riuscita a condizionare i vari
poteri croati/bosniaci/serbi/albanesi, mentre a partire dal Cinquecento essa
preferì ricercare il buon vicinato con gli Ottomani, combattendoli solo
quando questi mettevano in discussione l’egemonia marittima della
Repubblica.
La tendenza cambiò ulteriormente dopo la guerra di Candia e la guerra come
membro della Lega Santa, dopo le quali Venezia puntò all’espansione verso
l’entroterra, sia in Dalmazia che in Attica e Morea, andando a difendere tutte
le aree conquistate.
In conclusione possiamo affermare che la storia dell’antemurale fu soprattutto
la storia del contenimento di un impero, quello ottomano, che era in fase di
espansione, ma che in primo luogo non era europeo.
L’antemurale ogni tanto torna nelle discussioni per essere indicato come un
tratto significativo per la storia d’Europa, il luogo di incontro-scontro tra il
Cristianesimo e l’Islam; posizione che sorvola il fatto che nell’esercito
ottomano combattevano cristiani, o che esso era appoggiato da Stati cristiani,
come la Valacchia e la Moldavia.
Lo scontro con gli Ottomani generò un tratto specifico della monarchia
asburgica: la narrativa militare austriaca, rappresentata al Museo di Storia
Militare di Vienna (lo Heeresgeschichtlisches), che guarda all’Austria come al
primo difensore contro l’Oriente, e in seguito (nel Settecento) come al potere
in grado di proiettarsi nei Balcani.
I 140 anni di dominio ottomano aprono però una questione: quella sul come
integrare un dominio musulmano con il baricentro nel Mediterraneo nella
storia d’Europa.
Il confine tra mondo ottomano e asburgico fu senza dubbio caratterizzato dal
conflitto militare, tuttavia esso rappresentò anche un punto di incontro e
scontro tra Cattolicesimo, Ortodossia e Islam ottomano.
Gli Asburgo, così come i Turchi e i Veneziani, costituirono lungo i confini dei
corpi militari che avevano il compito di frenare le frequentissime incursioni.
Quindi i tratti di somiglianza vanno ricercati proprio nella stessa condizione
di guerra permanente, che ha spinto le potenze ad adottare soluzioni simili:
tutte le città erano murate, il territorio era perennemente attraversato da
soldati e la vita delle comunità di confine si adattava alle razzie/rappresaglie/
migrazioni.
VII) GUERRE TURCHE

La pax ottomana nei Balcani non fu un mito: fatta eccezione per la rivolta
scoppiata in Montenegro nel 1597, il dominio turco fu assolutamente saldo.
Fino al periodo compreso tra il 1684 e il 1699 l’Impero attuò una politica di
continua aggressione alle terre ungheresi; tuttavia la pace balcanica non fu
realizzata solo una continua mobilitazione di guerra.
Decisiva fu infatti la capacità dell’Impero di coinvolgere tutte le sue diverse
componenti: élite musulmane, Morlacchi ortodossi.
Le continue guerre turche portarono di fatto alla fine di ciò che restava del
Regno d’Ungheria, ma allo stesso tempo esse diedero prestigio simbolico
alla famiglia Asburgo.
Nel 1526 l’obiettivo di Solimano il Magnifico era quello di costituire un regno
vassallo in Ungheria, non di occupare direttamente il territorio magiaro,
furono i successivi contrasti tra Zàpolya e Ferdinando d’Asburgo che
spinsero il sultano a cambiare i suoi piani.
Nel 1527 Ferdinando prese Buda, spingendo Zàpolya a chiedere l’aiuto dei
Turchi, che inviarono un contingente di 100.000 uomini; l’esercito ottomano e
quello di Zàpolya riuscirono in seguito a rioccupare Buda e a prendere
Presburgo (oggi Bratislava).
Mentre Ferdinando si spostava in Boemia, i Turchi si muovevano alla volta di
Vienna, le cui fortificazioni erano state però rafforzate nei mesi precedenti.
La città si rivelò dunque imprendibile, e così, dopo un assedio durato due
mesi, l’esercito ottomano si ritirò.
Ferdinando cercò più volte di riprendersi l’Ungheria tra il 1529 e il 1552,
mentre Solimano rispose organizzando una seconda spedizione, che però non
andò oltre la piccola fortezza di Koszeg, dove il nobile croato Nikola Jurisic
riuscì a resistere eroicamente per venti giorni con soli 800 uomini.
Nel 1533 Solimano stipulò la pace con gli Asburgo per potersi concentrare
sul fronte orientale, dove la pressione dei Safavidi (Persiani) era aumentata.
L’accordo prevedeva la rinuncia di Ferdinando all’intera Ungheria: rimaneva
solo in possesso della parte occidentale del Regno, dalla Croazia sino a
Presburgo.
Nel 1537 Ferdinando però attaccò la Slavonia, costringendo Zàpolya a
trattare: si arrivò così al trattato di Nagyvàrad, con cui l’Asburgo riconosceva
Zàpolya come sovrano di Ungheria (incoronato da Giovanni I), e secondo cui
quest’ultimo avrebbe nominato Ferdinando suo erede.
Nel 1540 però, poco prima di morire, Zàpolya ebbe un erede, Giovanni
Sigismondo (1540-1559), eletto re Giovanni II dalla nobiltà magiara e
riconosciuto da Solimano come suo vassallo.
Gli Ottomani giunsero a Buda nel 1540 occupandola velocemente, tuttavia già
nel 1541 Ferdinando e Carlo V riavviarono il conflitto: fu a questo punto che
Solimano creò l’elayet di Buda e lasciò la Transilvania a Giovanni II.
Il conflitto perdurò sino al 1547, quando fu sottoscritto l’armistizio di
Adrianopoli.
Dal 1555 entrambe le potenze cercarono di portare avviare un dialogo
diplomatico, che tuttavia si sarebbe spento nel corso degli anni successivi.
Nel 1566, a settantadue anni e dopo quarantasei anni di regno, Solimano
organizzò una nuova spedizione verso l’Ungheria (l’anno precedente aveva
tentato invano di conquistare Malto).
Quando seppe che i Croati avevano ottenuto alcuni successi, Solimano volle
attaccare la fortezza di Szigeth, difesa da un veterano dell’assedio di Vienna,
il conte e bano di Croazia Nikola Subic Zrinski, che con soli 2000 uomini
fronteggiò 100.000 Turchi.
Gli Ottomani riuscirono a conquistare la fortezza, ma il prezzo fu altissimo:
20.000 morti, tra cui lo stesso sultano, che morì il giorno prima dell’assalto
finale.
Nel 1568 il nuovo sultano Selim II e l’imperatore Massimiliano II (1564-
1576) si accordarono stipulando una pace capace di prolungarsi fino al 1593.
In questi venticinque anni di tregua tanto i Turchi quanto gli Austriaci si
concentrarono sul rafforzamento del confine: i secondi costruirono la città-
fortezza di Carlstad/Karlovac, mentre i Turchi rafforzarono Bihac, presa nel
1592.
Bihac venne conquistata dal pascià di Bosnia Hasan Predojevic, che cercò di
conquistare anche la fortezza di Sisak in Croazia: qui si verificò un grande
scontro (1593), in cui le forze cristiane ebbero la meglio.
La battaglia di Sisak rappresentò una svolta per la storia dei conflitti austro-
turchi.
La ‘’lunga guerra’’ (1593-1606) scoppiò proprio a seguito dello scontro a Sisak,
e vide coinvolti l’imperatore Rodolfo II (1576-1612) e il sultano Murad III.
All’attacco ottomano in Croazia seguì però un’insurrezione tra i Serbi
dell’elayet di Timisoara (1594), guidata dal vescovo ortodosso Toedoro
Nestorovic (fu l’unica grande insurrezione prima di quella del 1804).
La rivolta dei Serbi fu un prova di insurrezione e di consapevolezza
nazionale: i rivoltosi combatterono con l’immagine di San Sava, fondatore
della Chiesa serba nel 1219.
Sbaragliati i ribelli, l’Impero si trovò di fronte ad una coalizione
antiottomana formata da papa Clemente VIII, che inviò emissari in Spagna,
Venezia e dai principi danubiani per convincerli a partecipare alla crociata.
La Lega Santa venne fondata a Praga nel 1595, in essa confluirono: Rodolfo II,
il vojvoda di Moldavia Aron Tiranul, Sigismondo Bàthory di Transilvania e
Michele il ‘’Coraggioso’’ (1593-1601), vojvoda di Valacchia.
Michele si rese protagonista di una campagna militare epica; nel 1595 attaccò
le città ottomane sul Danubio e in seguito arrivò anche ad Adrianopoli, la
città con le tombe dei sultani, luogo raggiunto solo dai Russi (nel 1828 e nel
1877) e dai Bulgari (nel 1912).
Michele in seguito si ritirò in Valacchia, dove si scontrò con gli Ottomani nella
battaglia di Calugareni (1595), dove i Rumeni ottennero una straordinaria
vittoria.
Michele venne in seguito raggiunto dai rinforzi transilvani e asburgici, grazie
ai quali vennero riconquistate Bucarest e Targoviste; nel 1595 gli Asburgo
riuscirono anche a conquistare Esztergom.
L’azione di Michele il Coraggioso istigò la grande rivolta bulgara del 1596, che
venne repressa brutalmente e che spinse il sultano Maometto III a lanciare
una nuova campagna in Ungheria.
L’esercito asburgico, guidato dall’arciduca d’Austria e gran maestro
dell’ordine teutonico Massimiliano III (1558-1618), venne sconfitto dagli
Ottomani nella battaglia di Keresztes (1596).
Michele il Coraggioso continuò a combattere sino al 1599, quando decise di
recarsi in Transilvania, dove era scoppiata una crisi dinastica.
Nel 1600 Michele attaccò la Moldavia e sconfisse il voivoda locale, che era un
vassallo dei Turchi; in seguito il Coraggioso si proclamò voivoda di Moldavia,
Valacchia e Transilvania.
La nobiltà ungherese in Transilvania si mosse però contro Michele, che nel
1600 venne sconfitto nella battaglia di Miraslau, dopo la quale Sigismondo
Bàthory tornò sul trono di Transilvania (a cui aveva abdicato, per ben due
volte e senza motivazioni comprensibili, in precedenza).
Michele il Coraggioso venne invece ucciso dai boiari (nobili) polacchi, di cui
aveva in precedenza cercato l’alleanza.
Rodolfo II cercò di colmare il vuoto di potere creatosi alla morte del
coraggioso ordinando l’occupazione della Transilvania, regione dotata di
molte anime religiose (vi erano cattolici, ortodossi, luterani e anche una
minoranza tartara, quella degli Ungheresi ‘’szekleri’’) in cui venne introdotta
la Controriforma cattolica.
La nobiltà transilvana reagì al tentativo d Rodolfo II (1603), ma venne
sconfitta dalle truppe imperiali in battaglia; in questo contesto si colloca il
capo locale Istvan Bocskai, che nel 1605 riuscì a sconfiggere per due volte gli
imperiali.
Con la pace di Zsitvatorok, firmata dall’arciduca d’Austria Mattia e il sultano
Ahmed, si chiuse la lunga guerra nel 1606.
Seguì poi un lungo periodo di pace (1606-1663), durante il quale rimase
comunque aperto il problema della Transilvania, contesa tra i due imperi.
Un momento di tensione emerse all’inizio della Guerra dei Trent’Anni (1618-
1648), quando il principe di Transilvania, il nobile calvinista Gabriele Bethlen,
attaccò l’Ungheria asburgica, riuscendo ad occupare Presburgo e a farsi
nominare re dalla nobiltà magiara di fede calvinista (1620-1621).
L’imperatore Ferdinando II (1619-1637) riuscì, dopo la vittoria sui boemi
nella battaglia della Montagna Bianca (1620), a rioccupare Presburgo.
La situazione cambiò molto soprattutto dopo che ad Istanbul prese il potere
la famiglia albanese dei Koprulu, che riaccese le ambizioni ottomane di
espansione nell’Europa centrale.
Il pretesto per attaccare fu ancora una volta la Transilvania: il principe
Giorgio Rakoczy II aveva infatti invaso la Polonia senza il permesso
ottomano, dando così modo alla Sublime Porta di agire contro di lui.
L’imperatore Leopoldo I (1658-1705) inviò contro il gran visir ottomano
Mehmed pascià Koprulu il suo miglior generale, l’italiano Raimondo
Montecuccoli (1609-1680).
L’esercito di Montecuccoli (composto da un contingente imperiale, uno croato
e uno francese inviato da Luigi XIV) incontrò l’enorme armata ottomana, ben
100.000 uomini, presso San Gottardo (Sud-Est dell’Austria).
La battaglia del San Gottardo (1664) fu un trionfo per le forze cristiane, che
annientarono l’esercito ottomano, travolto dalla tattica del fuoco continuo
(sperimentata con successo nel conflitto dei Trent’Anni).
La pace di Vasvar (1664) stabilì una tregua di vent’anni e confermò lo status
della Transilvania come realtà vassalla degli Ottomani.
L’accordo non venne accettato da tutti, dei nobili croati arrivarono ad ordire
una congiura, nota anche come la congiura dei conti Frankopan e Zrinski,
che, assieme al conte ungherese Ferenc Wesselenyi, tentarono un colpo di
Stato antiasburgico.
Leopoldo venne informato paradossalmente dalla Sublime Porta, ma decise
di restare in attesa sino al 1671, quando i congiurati, dopo tre anni (1667-1670)
di clima da complotto, vennero giustiziati.
La poca reattività di Leopoldo va attribuita soprattutto alla sua volontà di
frenare le ambizioni di Luigi XIV (l’imperatore temeva soprattutto la
possibilità, che si sarebbe verificata comunque anni dopo, di una guerra di
successione in Spagna).
La volontà di tenere stabile il confine ottomano rese però debole agli occhi
della Porta il potere asburgico, che nel 1678 fronteggiò la rivolta dei ‘’Kuruc’’
(nome assegnato ai ribelli anti-Asburgo), guidati dal nobile Imre Thokoly, che
voleva vendicarsi degli Asburgo, che avevano ucciso il padre in quanto
coinvolto nella congiura contro Leopoldo.
I ribelli ottennero l’appoggio degli Ottomani e dei Transilvani, cosa che
obbligò Leopoldo I a chiedere un armistizio nel 1681.
Gli Ottomani riconobbero Thokoly come re dell’Ungheria settentrionale,
tuttavia questo riconoscimento non bastò a far cessare le ostilità tra costui e
gli imperiali.
Lo sconfinamento delle truppe asburgiche in territorio ottomano fu il pretesto
usato dalla Sublime Porta per lanciare una nuova spedizione.
Fu l’occasione che il gran visir Kara Mustafa (1634/35-1683) aspettava per
convincere il sultano Maometto IV a dichiarare guerra agli Asburgo.
VIII) LA RICONQUISTA

Nell’Agosto del 1682 gli Ottomani lanciarono la spedizione contro l’Impero,


ma solo nel 1683 la Sublime Porta diede effettivamente inizio alla campagna;
nel frattempo gli Asburgo, la Polonia e lo Stato Pontificio si riunirono nella
Lega Santa.
L’esercito ottomano contava 100.000 uomini, a cui si aggiungevano i 40.000
tartari del Khanato di Crimea.
Quando l’esercito ottomano giunse alle porte di Vienna l’imperatore
Leopoldo I si era già ritirato a Passau, mentre il duca Carlo di Lorena aveva
radunato a Linz una forza di 20.000 uomini.
A Vienna rimase il conte Ernst Rudiger von Starhemberg, che guidava il
presidio di 15.000 uomini, che però riuscì a resistere eroicamente dal Luglio al
12 Settembre del 1683, quando giunsero i rinforzi polacchi guidati dal re Jan
III Sobieski (1674-1696), che giunse proprio quando gli Ottomani avevano
fatto breccia nelle mura.
Il visir Kara Mustafa, che nella confusione non si era preoccupato di allestire
una linea difensiva, vide il suo esercito messo in fuga dalle truppe cattoliche e
in seguito fu giustiziato a Belgrado.
La battaglia di Vienna del 1683 è considerata tutt’oggi un momento decisivo
nella storia dell’Europa, mentre dalla prospettiva di Istanbul viene vista come
la più grande sconfitta della storia ottomana.
Nel 1684 la guerra della Lega Santa era divenuta da difensiva ad offensiva,
cosa che spinse la Moscovia ad aderire alla fazione anti-ottomana.
Leopoldo I, che per concentrare le truppe in Ungheria stipulò una tregua di
venti anni con Luigi XIV, guidava la spedizione che si mosse sul fronte
terrestre, mentre Venezia agì sul fronte marittimo.
Gli obiettivi dei Veneziani erano la Morea, Negroponte (Eubea) e l’Attica, che
nei progetti iniziali avrebbero dovuto compensare la perdita di Candia.
A dirigere le operazioni in Grecia fu Francesco Morosini (1619-1694), che era
il capitano generale da Mar , mentre a guidare le operazioni in Dalmazia era il
provveditore generale Antonio Zeno (1628-1697).
La campagna veneziana iniziò nel 1685, con gli sbarchi a Santa Maura
(Leucade) e in Morea, dove le azioni ebbero successo.
Morosini riuscì a conquistare il Peloponneso, puntando poi verso l’Attica,
dove venne assediata Atene (evento purtroppo molto infausto in quando
portò alla devastazione dell’Acropoli).
Nel 1688 Morosini, che ottenne il titolo di ‘’Peloponnesiaco’’, venne nominato
doge (governò tra il 1688-1694) e ordinò di proseguire la campagna per
conquistare Negroponte (quest’ultima operazione si rivelò però un fiasco).
In Dalmazia le cose andarono ancora meglio: gruppi di Morlacchi erano
giunti sino alla Bosnia.
Gli Ottomani cercarono l’appoggio del capo del clan Mani, Limberakis
Gerakaris, per organizzare una resistenza anti-veneziana in Morea; la
Serenissima cercò invece l’appoggio dei clan albanesi per combattere i
Turchi.
Nel 1687 venne conquistata Castelnuovo, cosa che rese Venezia sovrana sulle
Bocche di Cattaro; nel 1690 venne conquistata anche Mostar, un successo
compensato in negativo dalla morte del Morosini nel 1694.
Nel 1684 cominciò anche la campagna ungherese, condotta da Carlo di
Lorena, che prese subito Esztergom con un esercito di 80.000 uomini e in
seguito attaccò Pest e assediò Buda (anche se gli Austriaci in seguito
desistettero).
Nel 1686 vi fu il secondo assedio di Buda, che stavolta cadde in mano alle
truppe della Lega: in città si assistette a massacri e violenze di ogni sorta
contro la popolazione musulmana ed ebraica.
Nella seconda battaglia di Mohàcs (1687) Carlo di Lorena colse una grande
vittoria su Sari Suleyman pascià, gran visir ottomano, che per la sua disfatta
venne punito con la morte.
In breve tempo furono recuperate alla Cristianità la Slavonia e il Sirmio,
mentre la Transilvania si dichiarò vassalla degli Asburgo.
Ad Istanbul si verificò una crisi interna senza precedenti: il sultano Maometto
IV venne spodestato da una rivolta dei giannizzeri (1687), che proclamarono
sovrano il fratello Solimano II.
Gli imperiali nel frattempo presero Belgrado (1688), ottenendo il supporto
anche della popolazione e della chiesa serba: in breve tempo gli asburgici
furono a Skopjie.
Ma proprio quando sembrava possibile arrivare ad Istanbul, Luigi XIV, per
paura che il tracollo ottomano rafforzasse troppo gli Asburgo, decise di
dichiarare guerra all’Impero, costringendo Leopoldo I ad organizzare la
difesa sul Reno.
Ciò diede ad Istanbul il tempo necessario per riorganizzarsi: il nuovo gran
visir Mustafa Koprulu (1637-1691), che riuscì a riprendere Skopje e sconfisse
gli Austriaci nella battaglia di Prizren (1690).
La popolazione serba si trovò abbandonata alla riconquista ottomana, cosa
che costrinse 30.000 individui a migrare dal Kosovo, una vicenda cruciale per
la storia successiva (ed odierna).
Gli imperiali, messi in difficoltà dai problemi logistici e da un’epidemia di
peste, subirono la controffensiva ottomana.
Alla fine del 1690 Mustafa Koprulu guidò un esercito di 120.000 uomini da
Adrianopoli verso Nord, recuperando velocemente anche Belgrado.
Quando anche in Bosnia le cose volsero a favore dei Turchi, gli imperiali
decisero di puntare ad una battaglia decisiva, affidando questo compito a
Luigi Guglielmo margravio di Baden Baden (1655-1707).
Il 19 Agosto 1690 si giunse allo scontro: nella battaglia di Slankamen gli
imperiali colsero un altro successo decisivo, reso ancora più grande dalla
morte di Koprulu sul campo.
Nel periodo successivo alla battaglia, tra il 1690 e il 1694, si mantenne una
situazione di stallo sul confine, con i due contendenti impegnati su altri fronti
(contro Luigi XIV l’Impero, la crisi interna per gli Ottomani).
Nel 1695-1696 gli Ottomani ripresero le iniziative: il sultano Mustafa II
condusse una spedizione di successo nel Banato, cosa che costrinse gli
imperiali ad intervenire nuovamente.
Fu così che si arrivò alla battaglia di Zenta (1697), oggi Vojvodina in Serbia,
dove le truppe asburgiche, comandate dal principe Eugenio di Savoia (1663-
1736), colsero una nuova grandissima vittoria nonostante la netta inferiorità
numerica.
Per le truppe ottomane, sorprese mentre tentavano di attraversare il fiume
Tibisco (Tisa), si parla di centinaia di migliaia di morti, compreso il gran visir
Mehmed Elmas.
Il principe Eugenio portò avanti una trionfale spedizione in Bosnia: Sarajevo
stessa venne presa e bruciata nel 1697.
La vittoria a Zenta portò ad una ridefinizione dei confini tra Europa e Turchia
in Europa, ora la prima era arrivata sino al basso Danubio.
La guerra della Lega Santa si concluse con la pace di Carlowitz (1699), siglata
da Asburgo, Veneziani e Ottomani.
Gli Asburgo ottennero tutta l’Ungheria, la Croazia , la Slavonia, la sovranità
sulla Transilvania e sulla Moldavia; Venezia ottenne invece la Morea e
l’interno dalmata; la Moscovia si accordò separatamente con la Porta, con cui
siglò il trattato di Istanbul (1700).
Nel 1714 scoppiò la seconda guerra di Morea (1714-1718), che degenerò in un
nuovo grande conflitto austro-turco quando la Serenissima, messa in
difficoltà dagli Ottomani, ricercò l’alleanza degli Asburgo.
Ancora una volta l’esercito imperiale venne affidato al principe Eugenio, che
ottenne un nuovo immenso successo nella battaglia di Petrovaradino (1716),
dopo la quale vennero conquistati il Banato e Timisoara.
Nel 1717 Eugenio cominciò anche l’assedio di Belgrado (1717) con un’armata
di 100.000 uomini, che riuscì a prendere la città proprio prima che il
contingente di soccorso ottomano di 120.000 uomini arrivasse sul campo.
La guerra si concluse con la pace di Passarowitz (1718), con cui Venezia
riconobbe il dominio turco in Morea in cambio di un’ulteriore espansione in
Dalmazia, mentre agli Asburgo andarono il Banato/Belgrado/la Serbia/un
pezzo della Valacchia minore.
Si formò dunque la nuova provincia asburgica di Serbia, in cui vennero
introdotte norme amministrative-fiscali poco apprezzate dalla popolazione.
Venne istituita anche una milizia serba per la difesa dei confini, ma non si
fece nessuna politica in favore del Cattolicesimo, essendo questa una terra
fortemente ortodossa.
Nel ventennio di dominazione austriaca si assistette comunque ad un
incremento demografico (la popolazione raddoppiò, arrivando ai 400.000
abitanti).
Le cose cambiarono negli anni Trenta del Settecento: nel 1736 morì il principe
Eugenio, e proprio l’anno prima i Turchi avevano ricominciato a spingere,
questa volta però contro i Russi.
Nel 1737 questi erano giunti in Crimea, ed essendo alleati degli Asburgo nella
guerra di successione polacca (1733-1738), ottennero che questi ultimi
portassero avanti una spedizione in Bosnia, dove però gli imperiali vennero
battuti nella battaglia di Banja Luka (1737).
Le truppe austriache ripiegarono in Serbia, ma anche qui vennero sconfitte
nella battaglia di Grocka (1739), dopo la quale i Turchi arrivarono ad
assediare Belgrado (1739).
Alla fine il reggente di Serbia, il conte Wallis, fu costretto ad arrendersi: si
arrivò così al trattato di Belgrado (1739), con cui gli Asburgo furono costretti
a rinunciare a tutta la Serbia, compresa Belgrado; questi risultati spinsero i
Russi a ricercare la pace con la Porta.
Alla ricostituzione del pascialato di Belgrado e alla reintroduzione in città dei
musulmani fece da controparte l’esodo serbo del 1739.
Dopo questi avvenimenti seguì un secolo e mezzo di stabilità e pace lungo il
confine.
L’Austria fu impegnata nella guerra di successione (1740-1748) e nella guerra
dei sette anni (1756-1763), mentre sul fronte interno questi anni furono quelli
delle riforme di Maria Teresa (1740-1780) e di Giuseppe II (1780-1790).
L’ultimo conflitto austro-turco (1788-1791) era nell’aria già da diversi anni:
nel 1772 Austria e Russia avevano cominciato a discutere della possibilità di
conquistare la Turchia in Europa.
Giuseppe II fu senza dubbio il primo sovrano asburgico ad avere idee chiare
riguardo la conquista dei Balcani, tuttavia la guerra condotta a fianco dei
Russi si rivelò tutt’altro che semplice.
Gli Austriaci si servirono di un corpo di 5000 volontari serbi, i ‘’Freikorps’’,
che inizialmente agirono da sole, per poi cominciare ad essere supportate
dalle truppe regolari asburgiche dal 1789.
Gli insorti serbi presero il potere in una vasta area, la cosiddetta ‘’krajina’’ di
Koca, dal nome del leader dell’insurrezione Koca Andjelkovic (1755-1788).
Nella battaglia di Focsani (Moldavia) del 1789 gli alleati riuscirono ad avere
la meglio sugli Ottomani; al comando dei Russi vi era il generale Aleksandr
Suvurov (1730-1800), che sarebbe poi divenuto famoso durante le campagne
napoleoniche.
Altri successi portarono all’occupazione asburgica della Valacchia e alla
riconquista di Belgrado.
Si trattò dell’ultima grande campagna di successo austriaca, dopo questa si
fermò la guerra nei Balcani, mentre in Crimea i Russi continuavano ad
avanzare.
L’imperatore Leopoldo II (1790-1792) firmò infine la pace con gli Ottomani
nel 1791 (pace di Svistova, oggi Svistov in Bulgaria) per timore di un
intervento prussiano e preoccupato dai fatti in Francia (era appena scoppiata
la Rivoluzione).
Nonostante i successi gli Austriaci rinunciarono a tutte le conquiste, comprese
la Serbia e Belgrado: una debacle diplomatica che rifletteva il reale timore per
i fatti di Francia.
IX) LA TURCHIA IN EUROPA

Il tracollo ottomano in Ungheria fu militare e morale, e trasformò i Balcani da


retrovia a limes.
La Bosnia si era rivelata l’unico punto di tenuta sicura, dove anche la
popolazione balcanica, ancora fedele all’ideale imperiale ottomano, si era
opposta all’impeto dell’Europa cristiana; si pensi al caso della Morea, dove i
locali preferirono gli Ottomani ai Veneziani.
Il Settecento fu un secolo di passaggio nella storia ottomana, da un’epoca di
potere e di ‘’persistenza all’apogeo’’ ad una di ‘’indiscutibile decadenza’’,
come sarà l’Ottocento.
Tracce di decadimento cominciarono ad essere visibili con la formazione di
realtà subregionali e regionali interne all’Impero Ottomano, che, come i
Bizantini prima, si trovò a fare i conti con quella pluralità balcanica di cui
aveva saputo approfittare nel XIV-XV secolo per porre su di essi un dominio
capace di unificare l’area come solo Roma aveva saputo fare.
Il Settecento balcanico viene oggi considerato una fase di premessa ai vari
risorgimenti nazionali.
Persa la spinta espansionistica, l’Impero Ottomano perse la propria ragion
d’essere, e questo anche perché smise di essere visto dalle popolazioni
balcaniche come il modello di riferimento.
L’Europa prese il suo posto: prima l’Austria e Venezia, poi la Russia, che
avrebbe giocato un ruolo fondamentale nel processo di dissoluzione del
potere ottomano nei Balcani.
L’Europa laica e secolarizzata, quella delle scienze, quella degli illuministi,
che era ammirata dalla periferia balcanica, a cui a sua volta questa guardava
come ad un Oriente di fatto.
L’Impero cercò di perdere la sua aurea provinciale inviando missioni
diplomatiche nelle grandi capitali europee (Vienna, Parigi, Mosca, Varsavia).
Questa decadenza non caratterizzò però la costa ionica, la Dalmazia e le isole
veneziane, che conobbero invece una fase di espansione economica ma anche
culturale successivamente a Passarowitz (1718).
Vennero costruite le strade che portavano da Karlovac a Fiume, che divenne
un prospero porto franco, in cui vennero anche costituiti stabilimenti
industriali (produzione dello zucchero).
In generale possiamo affermare che tutto il litorale croato conobbe una
prosperità senza precedenti.
Anche i centri del litorale albanese, come Antivari/Scutari/Dulcignolo/Valona/
Durazzo, si svilupparono; Ragusa conobbe invece una fase di ricostruzione,
dopo il terribile terremoto del 6 Aprile 1667, che la distrusse completamente.
La fine del Settecento significò anche la fine della Serenissima, che collassò a
seguito del trattato di Campoformio (1797) tra Napoleone e gli Austriaci,
dopo il quale si impose una prima fase di dominio asburgico sull’Adriatico
(1797-1806).
Tra il 1806 e il 1809 vi fu invece la dominazione napoleonica (la Dalmazia fu
inclusa nelle Province Illiriche, una parte della Francia Metropolitana); nel
1808, sempre ad opera di Napoleone, avvenne lo smantellamento della
Repubblica di Ragusa.
Con il Congresso di Vienna (1814-1815) venne riconosciuto all’Austria il
dominio sulle terre tra Fiume e le Bocche di Cattaro, mentre alla Turchia
rimasero la costa albanese, la Morea e l’Epiro.
Nel 1816 l’Austria costituì il ‘’Regno di Dalmazia’’, confermando la propria
egemonia militare, che ricevette un notevole smacco durante la Rivoluzione
continentale del 1848-1849, durante la quale gli Asburgo furono costretti a
combattere in Italia e Ungheria.
Alla vittoria del 1849 seguì la fase del cosiddetto ‘’neoassolutismo’’, durante
il quale si verificò una nuova fase di modernizzazione: sviluppo di viabilità e
porti soprattutto.
La Terza Guerra d’Indipendenza Italiana (1866) segnò la fine dell’egemonia
asburgica sull’Adriatico e anche la nascita della doppia monarchia di
Austria-Ungheria.
Il ‘’lungo Ottocento’’ fu caratterizzato, nelle città della costa adriatica (Fiume,
Zara, Spalato), dallo sviluppo amministrativo e dalla modernità nella
maniera austriaca.
La realtà imperiale permise la convivenza tra cattolici e ortodossi, tra Croati e
Serbi e Italiani, almeno fino al 1878.
Il confine militare croato rimase intatto fino al 1881, e non agì solo come
argine difensivo, ma anche come cordone sanitario, capace di impedire la
diffusione di quelle epidemie di peste che colpirono la Bosnia nel Settecento.
La Croazia divenne un’immensa caserma da cui reclutare i soldati utilizzati
in guerra contro i Prussiani, contro Napoleone e gli insorti milanesi del 1848.
Si creò così una nuova realtà sociale, quella degli ‘’Grenzer’’ o ‘’Granicari’’,
gli uomini della frontiera (cattolici e ortodossi), di cui si parlava già nel 1630,
all’interno degli Statuta Valachorum di Ferdinando II.
Si costituì un intero sistema militare, quello della ‘’Militargrenze’’, retto da
contingenti militari ripartiti sul territorio e retti da colonnelli.
La nuova stabilità ai confini ebbe un effetto anche nel commercio con il
mondo turco: la costituzione di un asse diretto tra Timisoara e Fiume fece sì
che anche l’estremità balcanica venisse a contatto con l’Occidente europeo.
Nel Settecento, nelle regioni riconquistate (Sirmio, Baranjia, Banato, Slavonia)
si verificò un forte aumento demografico, dovuto alla colonizzazione
organizzata di comunità serbe/tedesche (quelle degli ‘’Svevi’’)/croate.
Crebbero anche le cittadine poste sui fiumi, che cominciarono ad assumere
una struttura simile l’una con l’altra: palazzi neoclassici e barocchi, campanili
a cipolla ecc…
Sorgeva dunque una nuova Europa, che spazzava via l’idea di un Oriente
immutabile.
Parlando di Balcani invece, per il Settecento è necessario distinguere tra
Istanbul e il resto della regione.
L’alterità turca cominciò ad esercitare una fascinazione sempre più grande
sugli Europei, che smisero di temere il mondo turco, cominciando invece ad
appassionarsi ad esso in quanto realtà esotica.
Nel cosiddetto ‘’periodo dei tulipani’’ (1718-1730) Istanbul cercò di sviluppare
un proprio illuminismo, che però conobbe vita breve: con la rivolta dei
giannizzeri di Patrona Khalil del 1730 il processo di avvicinamento all’Europa
cominciato dal sultano Ahmed III (1703-1730) fu bruscamente interrotto.
I suoi successori, Mahmud I (1730-1754) e Osman III (1754-1757), non
condivisero lo slancio trasformatore del loro predecessore; si deve comunque
ricordare che proprio in quegli anni ad Istanbul cominciò a sorgere un
quartiere occidentale.
Selim III (1789-1807) tentò di riformare le forze armate, ponendo le premesse
per la successiva epoca del ‘’Tanzimat’’ (1839-1878), cominciata con la
proclamazione del ‘’khatt-i serif’’ nel 1839, una carta imperiale che
riguardava la materia giudiziaria.
I successori di Selim III, Abdul Mecid I (1839-1861)/Abdul Aziz (1861-1876)/
Murad V (1876)/ Abdul Hamid II (1876-1909).
La crisi del 1876 portò alla promulgazione di una costituzione ottomana , che
però ebbe vita breve, in quanto con il Congresso di Berlino (1878) si arrivò
alla drammatica fine dell’epoca del Tanzimat.
La capitale rimase una realtà a parte e straordinariamente moderna rispetto al
resto della periferia balcanica, eccetto Salonicco, che conobbe anch’essa un
notevole sviluppo commerciale, raggiungendo a fine Settecento anche 80.000
abitanti.
Negli elayet balcanici, accanto ai funzionari imperiali, esistevano anche gli
‘’ayan’’, un ceto di notabili musulmani che di fatto deteneva il potere e
godeva del massimo prestigio sociale.
La mancanza di un ordine ben definito di potere diede però molto slancio alle
mire dei giannizzeri, che nel corso del tempo si erano trasformati in una
casta.
La situazione era divenuta particolarmente confusa e tendente all’anarchia,
un terreno in cui si verificarono tre differenti situazioni, paradigmatiche
ognuna per vari motivi:

1) La rinascita della Serbia e la vicenda del Montenegro.


2) Le vicissitudini dei Greci del Fanar e la guerra d’indipendenza greca.
3) La vicenda della Bosnia.

Queste dinamiche fecero sì che lo Stato ottomani divenisse qualcosa di


importante solo per i musulmani.

1) La Serbia era stata per vent’anni un dominio austriaco, un periodi di


tempo sufficiente a lasciare un segno forte sul rinato pascialato di Belgrado.
Il passaggio di domini permise la nascita di un nuovo modello di mercante
ortodosso, capace di sviluppare reti commerciali tra Vienna e Belgrado, tra
Timisoara e Trieste (qui la comunità serba fu molto rappresentativa).
L’ampliamento della geografia commerciale generò un notevole dinamismo
socio-economico, una fioritura che strideva con la difficile situazione politica
interna al pascialato.
Una vicenda molto importante fu l’abolizione del patriarcato di Péc nel 1766,
un atto fortemente voluto dai Greci del Fanar, che ebbero un ruolo decisivo
anche nell’abolizione delle prerogative dell’arcieparchia di Ocrida (1767).
Per rimediare venne costituito un nuovo vertice della chiesa serba, l’eparchia
di Sremska Mitrovica, in territorio asburgico.
L’ascesa della Russia di Pietro I il Grande non poteva però più essere ignorata
dal mondo ortodosso , che nel 1710 fece un appello i suoi fratelli ortodossi a
sollevarsi contro il dominio turco.
La Russia ebbe un ruolo decisivo per lo sviluppo di una coscienza nazionale
tra i popoli balcanici, in primo luogo tra i clan montenegrini; il principe-
vescovo Danilo nel 1714-1715 compì anche un viaggio a San Pietroburgo.
I clan cominciarono allora ad allontanarsi dai Veneziani, che si trovarono così
tagliati fuori da un contesto che nel giro di pochi anni avrebbe dato vita ad
uno dei fatti più stravaganti del XVIII secolo: la vicenda del falso zar Scépan
Mali (?-1773), che si spacciava per il defunto zar Pietro III di Russia (1762),
che era stato disposto dalla moglie Caterina.
Mali riuscì a costituire un piccolo Stato patriarcale e a dare vita ad una
querelle internazionale, che si concluse solo con la sua morte del 1773,
quando egli venne assassinato.
Il pascialato di Belgrado era ormai in mano all’anarchia dei giannizzeri, cosa
che spinse il sultano Selim III a fare un proclama nel 1791, a cui ne fece
seguito un altro nel 1794, con cui si concedevano degli organi di
autogoverno.
I giannizzeri si ritirarono allora a Vidin (Bulgari del Nord-Ovest), presso
Pazvanoglu Osman, per rientrare poi nel 1801, quando uccisero il visir di
Belgrado, Hadzi Mustafa, che era uomo di fiducia del sultano.
Nel Gennaio 1804 i quattro più importanti ‘’dahjie’’ (l’altro nome con cui
erano chiamati i giannizzeri) ordinarono di massacrare circa 70 knez, i più
importanti nobili serbi.
Il cosiddetto ‘’Seca knezova’’ (‘’Massacro dei principi’’) rimase una vicenda
centrale per la storia della Serbia, tanto da essere raccontato dal cantore cieco
dell’insurrezione serba, l’aedo Filip Visnjic (1767-1834), nel suo poema Inizio
della rivolta contro i dahjie.
Tra coloro che sfuggirono all’eccidio vi fu Giorgio Petrovic (1762-1834), detto
‘’Karadjordje’’, che riuscì a radunare i sopravvissuti in un’assemblea presso
Orasac.
Egli dapprima ordinò una cruenta ritorsione contro i dahjie: fu la prima
grande rivolta cristiana della storia dell’Impero Ottomano, un evento che
determinò una rottura insanabile tra la popolazione musulmana e quella
cristiana.
Karadjordje, un tempo arruolato tra i freikorps austriaci, riuscì a resistere per
diversi anni, fino a quando l’assemblea non lo elesse Signore di Serbia nel
1808.
Purtroppo però egli non ricevette alcun aiuto dall’esterno, cosa che determinò
la dura sconfitta dei Serbi nella battaglia di Cegar (1809).
Scoppiò però una seconda insurrezione (1815), questa volta guidata da Milos
Obrenovic (1780-1860), che aveva combattuto con Karadjordje.
Obrenovic si decise a trattare con Istanbul, a cui venne incontro ordinando
l’omicidio di Karadjordje (1816), che era temuto dagli Ottomani in quanto
figura poco propensa alla trattativa.
Ad Obrenovic venne attribuito il diritto di governare il pascialato di Belgrado
nel 1817, questo in qualità di knez (per questo è lecito parlare di ‘’knezija’’), un
Principato, riconosciuto dalla Russia già nel 1826.
Nel 1829 gli Ottomani, a seguito dell’indipendenza della Grecia,
proclamarono la Serbia vassalla dell’Impero.
Nel 1835 venne promulgata in Serbia la prima costituzione, a cui fece seguito
una seconda nel 1838.
Milos Obrenovic si ritirò nel 1839, gli seguirono come principi Milan (1839),
Mihailo (1839-1842), Alessendro Karadjordje (1842-1858).
Nel 1858 rientrò al potere lo stesso Obrenovic, che rimase in carica fino alla
sua morte nel 1860; ancora una volta lo seguì il figlio Milan (1860-1868).
Seguì poi il principato di Milan Obrenovic (1868-1889), sotto cui la Serbia
divenne uno Stato autonomo.
Le truppe ottomane rimasero in Serbia sino l867, anno in cui la guarnigione
imperiale fu costretta ad abbandonare Belgrado inseguito ad una sommossa;
fu così che cominciò il processo di deottomanizzazione della città.

2) Quello della Grecia rimane invece un caso a se’.


Come più volte detto, la popolazione greca ha gravitato in due contesti:
l’elayet dell’Arcipelago e il quartiere del Fanar a Costantinopoli/Istanbul.
L’Arcipelago era una realtà quasi totalmente grecofona, dove vi era una netta
preminenza ortodossa e dove la popolazione musulmana era dunque in netta
minoranza.
Nel Fanar vi era invece il ceto dirigente greco, che operava soprattutto in tre
settori.
In primo luogo quello di dragomanno del mare, che era sempre un fanariota,
e che godeva di ampie libertà.
Poi in quello della politica estera: i fanarioti non erano infatti solo degli
interpreti (il compito principale dei dragomanni), ma si impossessarono sul
lungo periodo delle più importanti cariche diplomatiche.
Si pensi alla figura di Alessandro Maurocordato, laureato a Padova, che gestì
le trattative di Passarowitz.
L’altro ambito su cui i fanarioti esercitavano la propria egemonia era la chiesa
ortodossa.
Lo Stato ottomano era un enorme affare per i Greci del Fanar, che di fatto
erano quasi uno Stato nello Stato; quindi pare giusto chiedersi come si arrivò
all’insurrezione contro gli Ottomani.
Le motivazioni ideologiche di questa vanno ricercate nell’organizzazione
massonica della ‘’Filikì Eteria’’, fondata nel 1814 ad Odessa da Alexandros
Ypsalantis (1792-1828), membro di una ricca famiglia fanariota e già ussaro
dell’esercito imperiale russo.
Nel 1820 egli elaborò un primo piano di insurrezione, che doveva coinvolgere
anche Serbia e Montenegro, e che aveva come fine quello di mettere i Greci al
vertice dello Stato ottomano, non di distruggerlo.
Ypsalantis cercò di avviare la sollevazione in Valacchia, a cui fece eco quella
dei Greci del Fanar, entrambe però represse con violenza dagli Ottomani.
A questo punto però entrò in gioco un nuovo personaggio, quello di Ali
pascià di Giannina (1744-1822), che riuscì a costituire un regno semi-
indipendente tra Grecia e Albania.
Fu l’azione di quest’ultimo, più che quella dell’Eteria, ad avere un ruolo
decisivo: Alì si proclamò infatti ‘’liberatore dei Greci’’, cosa che spinse il
Peloponneso (vero cuore dell’insurrezione nazionale) a ribellarsi.
Fu così che ebbe inizio la guerra d’indipendenza greca (1821-1830), che fino
al 1825 rimase una faccenda esclusivamente ottomana, e che solo in seguito ai
massacri compiuti dagli Ottomani, cominciò ad attirare l’attenzione delle
cancellerie europee.
In realtà le atrocità erano compiute anche dagli stessi rivoltosi, che nel 1821
arrivarono a massacrare le comunità musulmane del Peloponneso; si parla di
15.000 morti tra i musulmani, una cifra a cui vanno aggiunti i morti Ebrei, che
erano percepiti come affini agli islamici.
Il numero di vittime civili causato dalle azioni dei rivoltosi arriva sino a 25.
000 unità se si sommano anche i morti della Grecia continentale.
Il patriarca ortodosso Gregorio V condannò ufficialmente le violenze, ma le
autorità ottomane decisero comunque di impiccarlo.
Seguirono poi le rappresaglie ottomane nel Peloponneso, che fecero strage tra
la popolazione; una violenza che come detto non turbò la coscienza degli
Europei.
A Chios dopo i massacri rimanevano solo 20.000 abitanti, dei 100/120.000 che
abitavano l’isola prima della repressione turca.
Le potenze europee non si mossero nemmeno quando le truppe egiziane di
Ibrahim Pascià (1789-1848) cominciarono ad agire maggiore violenza contro
i ribelli peloponnesiaci (1824).
L’atteggiamento delle potenze europee mutò a partire dal 1826, quando
Nicola I di Russia (1825-1855) cominciò ad avvicinarsi alla causa dei
rivoltosi.
La svolta avvenne solo con la battaglia navale di Navarino (1827), dopo la
quale avvenne una nuova guerra russo-ottomana (1828-1829) che si concluse
con un rapido successo russo.
Con il trattato di Adrianopoli (1829) venne riconosciuta l’indipendenza della
Grecia, che fu una repubblica sino alla morte del presidente Giovanni
Capodistria (1776-1831), assassinato nel 1831.
Le potenze europee allora imposero alla Grecia un sovrano, Ottone di
Baviera (1832-1864), con il quale cominciava una nuova era, definita dalla
riscoperta con il passato classico.
Su queste fondamenta si costituì la ‘’Μεγαλι ιδεα’’, elaborata per la prima
volta da Ionannis Kolettis (1773-1847) e basata sul sogno neobizantino.
Questo ideale venne irrobustito dall’attività dei primi storici nazionalistici e
dall’apertura dell’Accademia Nazionale e dall’Università di Atene; in questa
nuova realtà era inevitabile che il mondo ottomano fosse percepito come
obsoleto.

3) Il terzo caso paradigmatico è quello della Bosnia, in cui fu determinante la


questione agraria, ovvero la relazione tra la consistenza e la diffusione dei
ciftlik, la grande proprietà terriera, e le motivazioni dei contadini.
Da un lato dunque i bey, i grandi proprietari terrieri americani, dall’altro la
raya, composta dai contadini cristiani.
In Bosnia l’élite musulmana mal sopportava le novità occidentali, introdotte
dal tentativo di modernizzazione voluto da Istanbul e visibile per esempio
nei vestiti; a questo processo era totalmente disinteressata la massa contadina
cristiana.
Le tensioni scoppiarono nel 1831, quando il katepan Husein Gradascevic
(1808-1834), divenuto rapidamente signore di fatto della Bosnia, venne
chiamato da un altro bey ribelle, Mustafa Bushati, per marciare sul Kosovo
con 25.000 uomini.
Il progetto di Gradascevic alla fine fallì, tuttavia il suo esilio suscitò un
enorme scontento tra la raya bosniaca, i cui membri erano ormai ridotti alla
condizione di servi nella gleba.
Si entrò dunque nella stagione del Tanzimat (1839-1878) con un forte clima di
tensione , che si cercò di attenuare andando ad eliminare le differenze tra la
raya e i musulmani (nel 1856, dopo la guerra di Crimea, vennero totalmente
equiparate, mentre alcuni anni prima era stata eliminata la ciziya, la tassa
personale per i cristiani).
Nel 1849-1850 scoppiò però una nuova rivolta musulmana, che venne sedata
da Omer pascià Latas, che riuscì militarmente a ristabilire l’ordine nel 1850-
1851.
Nonostante il rinnovamento portato dal Tanzimat in Bosnia si mantenne una
situazione di ordine precario, fino a che non si arrivò nel 1875, quando
divampò l’ennesima rivolta.
Questa stavolta non avrebbe semplicemente aperto un problema locale, ma
avrebbe aperto addirittura la cosiddetta ‘’questione orientale’’.

A parte rimasero le vicende dei principati danubiani (Valacchia e Moldavia),


dove l’autogoverno romeno ebbe modo di rafforzarsi attraverso le varie tappe
delle crisi balcaniche, che offrirono di volta in volta occasione per i principati
di dialogare con Istanbul per ottenere ciò che volevano.
Fu lo stesso sultano ottomano a riconoscere l’unione personale di Moldavia
e Valacchia nel 1861; da qui si arrivò poi al riconoscimento dello Stato di
Romania nel 1878 con il Congresso di Berlino.
Il caso del Montenegro e della sua secessione è anche esso molto complesso,
in quanto è difficile dare una data precisa per la fine della dominazione
ottomana.
L’unica data certa è il 1878, anno in cui venne proclamata l’indipendenza del
Regno del Montenegro.
Prima di questa però vi era una situazione strana: da un lato la lega dei clan
montenegrini con a capo il vladika, il principe-vescovo, si considerava come
autonoma; dall’altro lo Stato ottomano guardava al Montenegro non come ad
un vassallo, ma come ad un dominio diretto.
L’appoggio della Russia fu ancora una volta determinante, in quanto la
diplomazia di San Pietroburgo introdusse il Montenegro nell’alveo della più
grande questione d’Oriente.
Vi è infine l’Albania, che si distaccò dall’Impero passivamente, come esito
della prima guerra balcanica.
I clan albanesi ottennero una grande dose di autonomia da Istanbul nel 1912,
una concessione che però ebbe vita breve, visto che la regine venne occupata
dagli eserciti dei neonati Stati balcanici.
Anche nel caso albanese dunque il modello dell’autonomia nella cornice
imperiale venne sconfitto da quello dello Stato-nazione, e ancora una volta
un territorio ottomano venne sottratto al corpo dello Stato per volontà delle
grandi potenze europee (questa volta con la conferenza di Londra del 1912-
1913).
La Turchia in Europa divenne di colpo un concetto trapassato agli occhi degli
stessi sudditi balcanici.
In questo processo il ruolo della Russia fu spesso decisivo, dapprima in
Grecia/Serbia/Montenegro, e in seguito (nel 1878) anche in Bulgaria.
Vi è però anche un’altra storia, quella dei musulmani balcanici, che si
sentivano ancora membri della Umma musulmana, non di qualche nazione.
A questi ultimi però servì a poco il filone del neottomanismo, incapace di far
dimenticare la violenza e la durezza delle guerre generate dalle secessioni.
X) LA FRAMMENTAZIONE

La forza dello Stato ottomano fu quella di aver proposto un modello


integrativo politicamente, capace di fornire una gerarchia di valori, di
garantire la giustizia e riconoscere le diverse religioni.
Gli Ottomani costituirono il sistema migliore possibile nei Balcani, un
modello basato sull’integrazione politica, a differenza di quelli costituitisi in
Italia e Spagna (gli altri due meridioni d’Europa).
I Balcani apparivano ottomani a chiunque vi entrasse da fuori, ma era solo
una facciata, l’identità profonda rimase un’altra cosa.
Lo Stato ottomano cercò di far convivere l’animo musulmano e quello
cristiano, tuttavia il modello della pluralità religiosa si rivelò alla fine un
fallimento, in quanto esso non lasciava spazio alla modernità, rappresentata
dall’omologazione nazionale.
Le nazioni balcaniche si distaccarono dall’Impero con l’ambizione di far parte
della ‘’modernità europea’’.
Lo Stato-nazione si basava su premesse diametralmente opposte a quelle di
un realtà imperiale come quella ottomana, il cui pluralismo culturale e sociale
era divenuto per le prospettive nazionalistiche un qualcosa degno di
disprezzo.
Si verificò così una prima fase di transizione dall’Oriente all’Occidente, che
si sarebbe sviluppata tra il Congresso di Berlino del 1875-1878 e il 1908-
1912/13.
Come ricordato alla fine del capitolo precedente, nel 1875 si verificò in Bosnia
una rivolta dei contadini serbi, a cui fecero eco le sommosse dei capi serbi
del Montenegro e quelle dei vilayet bulgari (questi sostenuti dai Russi).
Il Comitato centrale rivoluzionario Bulgaro, sorto nel 1869, intravide subito
le opportunità create dai fatti del 1875; allo stesso modo il Principato di Serbia
approfittò delle insurrezioni per dichiarare guerra alla Sublime Porta.
L’esercito serbo venne spazzato però via da quello ottomano, che si macchiò
in seguito di atrocità che sconvolsero il mondo occidentale come al tempo
della guerra d’indipendenza greca.
A seguito degli scontri in Bosnia si verificò un congresso tra Italia, Germania,
Gran Bretagna, Francia, Russia e Austria-Ungheria per l’autonomia della
Bosnia-Erzegovina, della Bulgaria occidentale e di quella orientale.
Il gran visir ottomano Midhat pascià rifiutò però questa proposta, spingendo
la Russia a dichiarare guerra alla Porta.
Il conflitto si rivelò particolarmente complesso per i Russi, anche se alla fine
l’esercito dello zar riuscì ad entrare nei Balcani e a spingersi a pochi km dalla
capitale ottomana.
Venne così sottoscritto il trattato di Santo Stefano (1878), con cui la Russia
impose agli Ottomani una grande Bulgaria indipendente, che si estendeva
da Ocrida al Mar Egeo.
Questo risultato non venne però accettato dalle altre grandi potenze europee,
che, su iniziativa del cancelliere tedesco Otto von Bismarck (1815-1898), si
riunirono in un congresso a Berlino.
La situazione geopolitica che emerse dal congresso si sarebbe mantenuta sino
al 1912.
Emerse dunque questa nuova geografia:

- La Serbia e il Montenegro divennero realtà indipendenti.


- La Bulgaria venne ridimensionata e divisa in tre parti: il Regno di Bulgaria;
la Macedonia, dominio diretto ottomano; la Rumelia orientale, dominio semi-
autonomo ottomano.
- Il Regno di Romania ottenne uno sbocco marittimo tramite l’acquisizione
della Dobrugia.
- L’Austria-Ungheria ottenne il diritto di occupare la Bosnia, che rimase
comunque una provincia ottomana.

Dopo aver ottenuto la Bosnia, l’Austria-Ungheria cominciò ad avviare una


politica balcanica, inizialmente andando a stringere degli accordi economici
e diplomatici con la Serbia, con cui vennero create anche delle connessioni
ferroviarie.
Nel 1881 Serbia e Austria-Ungheria sottoscrissero una convenzione segreta, e
l’anno seguente la Serbia si proclamò Regno (1882), cominciando in maniera
neanche troppo velata a rivendicare per se’ le regioni originarie dell’antica
Serbia medievale, la Macedonia e il Kosovo.
Sotto Milan Obrenovic (1869-1889) venne promulgata una costituzione più
liberale e democratica (1888) , cosa che spinse il sovrano ad abdicare nel 1889
in favore del figlio Alessandro I (1889-1903), che venne però assassinato
assieme alla sua consorte Draga nel 1903.
Il nuovo sovrano, Pietro I Karadjordjevic (1903-1918) iniziò ad avvicinarsi
alla Russia e ruppe con Vienna, con la quale si giunse addirittura ad una
guerra doganale tra il 1906-1911 (la cosiddetta ‘’guerra dei maiali’’).
La Grecia invece non ebbe nulla al Congresso di Berlino, nonostante le
sommosse indipendentiste scoppiate in Tessaglia, a Salonicco, a Creta e in
Epiro.
Le trattative con l’Epiro saltarono a causa del mancato accordo con i capi
tribù albanesi; in Tessaglia si giunse ad uno stallo di fronte alla minaccia di
una crisi bellica nel 1880, che spinse gli Ottomani, minacciati dalle potenze
europee, a cedere ai Greci la regione.
Questa piccola espansione non bastò a reggere l’incremento demografico del
paese, né a placare le insurrezioni cretesi del 1889 e del 1895-1897.
Dopo le prime Olimpiadi moderne (1896) si arrivò alla guerra di Creta
(1897) con l’Impero Ottomano, che si concluse con una grave sconfitta greca
in Tessaglia e che dimostrò che nessuno Stato balcanico da solo sarebbe stato
in grado di sconfiggere i Turchi.
Di fronte alle difficoltà sul fronte aperto, si scelse di finanziare la guerriglia
terrorista portata avanti in Macedonia dalla ‘’Etnikì Etheria’’.
La Bulgaria dipendeva dalla Russia in tutto e per tutto, e così, istigata da
questo, il principe di Bulgaria Alessandro I di Battenberg (1879-1886) riuscì a
riunificare il suo Regno alla Rumelia orientale.
A questo punto l’Austria-Ungheria spinse la Serbia ad attaccare la Bulgaria
nel 1885.
L’attacco serbo fu un disastro, e il contrattacco bulgaro si spinse addirittura
dentro il territorio serbo, cosa che spinse Vienna a farsi garante della pace.
Il conflitto rivelò ulteriormente la natura vassallatica degli Stati balcanici e
rivelò un qualcosa di inconcepibile al tempo del dominio ottomano, ovvero
l’ostilità tra protestanti.
La Bulgaria in seguito si avvicinò per qualche anno all’Austria-Ungheria e
alla Germania, per poi ritornare verso la Russia quando venne incoronato zar
Nicola II (1894-1918).
Nel 1908 il principe bulgaro Ferdinando I (1887-1918) si fece incoronare zar e
proclamò l’indipendenza del Regno di Bulgaria da Istanbul.
L’indipendenza non significò però sviluppo economico, anzi, ad essa seguì
una fase di profonda stasi, di chiusura doganale e di orientamento della
produzione cerealicola che portarono all’indebolimento del mercato interno.
I neonati Stati balcanici dovettero affrontare il problema dell’autogoverno,
della subalternità (a Russia/Istanbul/Austria-Ungheria), la difficoltà
nell’avviare il processo costituzionalista, il difficile rapporto tra sovrano ed
élites sociali.
Incoraggiati dal fallimento del Tanzimat ottomano, Serbia/Bulgaria/Grecia
scaricarono sulla società tutti i costi delle amministrazioni e della rapida
urbanizzazione che erano necessari al raggiungimento della modernità.
Questo processo fu accompagnato dall’alfabetizzazione delle masse contadine
e dallo sviluppo delle capitali, oltre che dall’irrobustimento delle strutture
militari.
Fu proprio il motore ideologizzante della ‘’guerra di liberazione dei fratelli
oppressi’’ a rendere possibile il passaggio ad una prima fase di modernità.
L’Impero Ottomano riuscì a conservare la sua parte europea, la Tessaglia e la
Rumelia orientale, fino al 1912, 35 anni dopo Berlino.
La Turchia in Europa sopravvisse per tutto il lungo regno del sultano Abdul
Hamid II (1878-1908), organizzata in sei vilayet (Adrianopoli, Salonicco,
Kosovo, Scutari, Giannina, Monastir).
I vilayet centrali corrispondevano alla Macedonia; nella penisola Calcidica vi
era invece una maggioranza greca; metà della popolazione di Salonicco era di
origine ebraica; comunità turco-tartare erano sparse un po’ ovunque.
Nel 1911 il 51% della popolazione della Turchia in Europa era di religione
islamica, questo forse grazie anche alla politica di risveglio culturale-
religioso portata avanti da Abdul Hamid II.
Questo tipo di progetto andò però a contrapporre nettamente cristiani e
musulmani all’interno dei vilayet; la presenza di questa contrapposizione fece
sì che all’interno dei quadri militari si arroccassero nel nuovo ottomanismo
proposto dal movimento dei ‘’Giovani Turchi’’.
Particolare era la situazione degli Albanesi: i capi clan avevano infatti
accettato l’iniziativa di Istanbul, tuttavia esisteva una notevole comunità
ortodossa all’interno del Peloponneso, comunità che tra l’altro non parlava la
stessa lingua degli Albanesi.
Durante la riunione di Prizen (1878) i capi albanesi chiesero il
riconoscimento di una nazione albanese, di cui potessero far parte anche le
comunità albanesi presenti anche all’interno del Kosovo, di Monastir e
Giannina.
Di fronte a quest’ultima proposta però i Serbi protestarono apertamente, cosa
che creò un clima di notevole tensione tra i Serbi e gli Albanesi.
Il problema principale dei Balcani era però la Macedonia: in ogni suo vilayet
vi erano particolari combinazioni di Slavi.
Vi era una prevalenza greca nel Meridione, una maggioranza di Slavi dalle
terre serbe sino a Salonicco e poi vi erano sparse un po’ ovunque comunità
turche, tartare e zingare; a queste partizioni si devono aggiungere quelle
interne agli ortodossi, scissi tra i fedeli al Patriarcato costantinopolitano e
fedeli all’Esarcato bulgaro.
La costituzione della Bulgaria rese il problema ancora più incalzante, in
quanto essa spaccò l’unità ortodossa definitivamente.
Nel 1894 a Sofia nacque il Comitato supremo per l’autonomia della Macedonia, che
cercava di divenire il punto di riferimento per tutte le spinte autonomiste tra i
Macedoni slavi.
Nel 1896 nacque anche l’Organizzazione rivoluzionaria bulgaro-macedone, che
dal 1905 fu nota anche come Organizzazione rivoluzionaria interna macedone
(VMRO).
Il comitato non si dissociava dalla cultura bulgara, bensì dallo Stato bulgaro;
il progetto era quello di una Macedonia indipendente inserita nell’Impero
Ottomano o, meglio, in una federazione balcanica.
Nel 1897, al tempo della guerra greco-turca, i ministri degli esteri russi e
austro-ungarici decisero di mantenere lo status quo dei Balcani.
Le due potenze chiesero pertanto ad Istanbul di introdurre delle riforme che
tutelassero i caratteri nazionali nella regione.
Nell’Agosto del 1903 si verificò la ribellione del vilayet di Monastir, una
sommossa che riuscì a raggiungere anche le masse contadine.
La repressione ottomana fu ancora più brutale rispetto alle atrocità compiute
in Grecia e Bosnia (si parla di migliaia di morti e stupri).
Seguirono allora gli attentati dinamitardi a Salonicco e i conflitti di frontiera
tra Ottomani e Bulgari.
Per impedire una guerra balcanica Russia e Austria-Ungheria definirono il
programma di Murzsteg, che portò all’ingerenza straniera nella questione
macedone.
Si costituì un comitato internazionale che limitava la sovranità ottomana in
Macedonia.
Le riforme istituzionali tentate dai funzionari stranieri nel 1905-1907 non
ebbero esito concreto, le tensioni infatti continuarono, ponendo la Macedonia
al centro dell’Europa.
Mentre l’ultima Rumelia si sgretolava piano piano dall’interno, la Bosnia-
Erzegovina conosceva, sotto l’occupazione austriaca, una transizione verso la
modernità del tutto particolare.
Ci vollero dei mesi agli Austriaci per vincere la resistenza armata degli abitati
di quello che era definito un ‘’oscuro vilayet’’.
L’Austria-Ungheria aveva di fatto accorpato una terra musulmana e cattolica,
ma soprattutto musulmana in ogni sua città.
L’attenzione per le nazionalità che fu dell’Austria-Ungheria diede alla
popolazione musulmana la possibilità di conservare la propria civiltà
ottomana.
Le autorità austriache riconobbero infatti il diritto alla sharia nel 1882, come
diritto parallelo al codice civile.
La Bosnia-Erzegovina venne ‘’traghettata nel Novecento senza traumi’’, senza la
feroce deottomanizzazione che avvenne in altre realtà staccatesi dall’Impero,
come Serbia, Bulgaria e Grecia.
Prima del 1908 la Bosnia-Erzegovina fu un esperimento di successo
dell’Austria-Ungheria.
Il governatore Benjamin Kallay (1839-1903) cercò di favorire la costituzione
di una cultura bosniaca, di una cultura letteraria, questa riassunta nella rivista
‘’Bosanka Vila’’.
Il liceo di Mostar e l’attuale biblioteca di Sarajevo rappresentano oggi dei
lucidi esempi di stile neomoresco, così come l’arsenale di Vienna, costruito
ad inizio del Novecento, richiama degli stilemi orientali.
Questo orientalismo austro-ungarico rende evidente quale fosse la direzione
in cui puntava Vienna: l’appropriazione dei Balcani.
Vienna guadagnò il consenso della popolazione musulmana della Bosnia-
Erzegovina, ma non quello della popolazione serba, che inevitabilmente
guardava alla propria madrepatria.
L’annessione della Bosnia-Erzegovina nel 1908, ovvero l’estensione della
piena sovranità sulla provincia (direttamente annessa a Vienna), portò ad una
crisi internazionale.
Crebbe la tensione con la popolazione serba e portò alla nascita dell’ipotesi
jugoslava, l’idea di uno Stato per gli Slavi del Sud.
Sorse così l’organizzazione ‘’Giovane Bosnia’’, jugoslavista e di ispirazione
mazziniana, di cui fecero parte Serbi/Croati/musulmani insofferenti alla
monarchia asburgica.
Di questa organizzazione fecero parte anche personaggi molto noti, come lo
scrittore poi vincitore del premio nobel per la letteratura del 1961 Ivo Andric
(1892-1975) e ovviamente Gavrilo Princip (1894-1918).
XI) LA POLVERIERA

I Balcani furono l’ultimo atto della Belle Époque, le due guerre balcaniche
(1912-1913 e 1913) e in seguito le vicende dell’estate del 1914 portarono alla
svolta cruciale nella questione d’Oriente.
Questa volta non fu possibile trovare una soluzione diplomatica rivolta a
salvare la stabilità dell’Impero Ottomano: di fatto la fine della Turchia in
Europa ebbe come conseguenza principale la crisi austro-serba.
I due conflitti balcanici, durati complessivamente dieci mesi, sono di difficile
comprensione per diversi motivi: la nascita di una lega anti-ottomana, la
partita diplomatica segreta giocata dalla Triplice Alleanza e dalla Triplice
Intesa.
Esse furono anche l’esperienza che diede fama ai primi inviati di guerra,
come Lev Trockji (1879-1940) e Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944).
L’origine di questo conflitto è da ricercare nello ‘’status coloniale’’ assunto da
Istanbul nel corso degli ultimi decenni, durante i quali l’Impero era divenuto
un’enorme opportunità economica per le imprese private inglesi, francesi e
tedesche (numerose rendite provenivano dal commercio di tabacco e cotone).
I ceti dirigenti balcanici si adeguarono a questa situazione, quella che li
vedeva in completa subordinazione alle grandi potenze europee.
Questa condizione di pseudo-vassallaggio fu la causa che spinse i Giovani
Turchi ad attuare il colpo di Stato nel 1908, che portò alla fine del governo
fortemente autoritario del sultano Abdul Hamid II.
Nell’Ottobre del 1908 l’Austria-Ungheria aveva direttamente annesso la
Bosnia, approfittando proprio della situazione di confusione creatasi nello
Stato ottomano.
Questo gesto portò alla rottura tra Asburgo e Russi, con i secondi che
cominciarono allora ad adottare una nuova politica balcanica, basata
sull’avvicinare Serbia e Bulgaria.
Lo scoppio della guerra italo-ottomana (1910-1911), scatenata dall’invasione
italiana della Libia , spinse gli Stati balcanici ad accordarsi diplomaticamente:
dapprima si accordarono la Serbia e la Bulgaria, poi la Bulgaria e la Grecia, in
seguito la Serbia e il Montenegro ed infine la Bulgaria ed il Montenegro.
Tutti questi patti bilaterali erano stati stipulati soprattutto per merito delle
trame ordite dalla Russia, che voleva intimorire l’Austria-Ungheria e allo
stesso tempo interferire nelle vicende ottomane.
La ‘’Lega Balcanica’’ si era dunque costituita per conquistare e spartirsi la
Turchia europea.
Il 1908 aveva anche innescato la problematica della questione albanese; tra
l’altro gli Albanesi erano la comunità maggiormente rappresentate in territori
decisamente contesi, come Epiro/Kosovo/Macedonia.
Il causus belli fu la rivolta albanese scoppiata nel 1911, questa causata
dall’ostilità della popolazione locale alla politica neottomana perseguita dai
Giovani Turchi.
Nel 1912 i capi albanesi ottennero da Istanbul la possibilità di divenire
autonomi, cosa che portò alla nascita dell’Albania autonoma, che andava a
compromettere non poco le ambizioni serbo-greche.
A questo punto gli alleati balcanici ruppero gli indugi: sulla scorta di re
Nicola del Montenegro (1910-1918), che per primo dichiarò guerra alla Porta,
tutti gli altri si lanciarono contro la Turchia in Europa: fu così che ebbe inizio
la prima guerra balcanica (Ottobre 1912-Maggio 1913).
L’estensione territoriale del conflitto fu qualcosa di totalmente differente
rispetto a tutte i precedenti conflitti balcanici: fu una guerra lampo in cui gli
eserciti bulgaro/greco/montenegrino/serbo riuscirono a sconfiggere quello
turco.
Nel giro di poco tempo vennero occupate l’Epiro, la Tracia, la Macedonia e il
Kosovo; rimanevano comunque alcune sacche di resistenza.
Da soli gli alleati riuscirono a replicare l’impresa russa del 1878, forzando i
Turchi a chiedere un armistizio nel 1912.
Si aprì così nel Dicembre dello stesso anno la conferenza di pace di Londra,
che però venne condizionata da novità scoppiate mesi prima: l’occupazione
serba della Macedonia e la presa greca di Salonicco, che era ambita dai
Bulgari.
Il riconoscimento di uno Stato albanese a partire da Scutari frustrò non poco
le ambizioni serbe di ottenere uno sbocco sul mare.
Nel frattempo ad Istanbul un nuovo colpo di Stato (1913) riportò al potere i
Giovani Turchi e riaccese per qualche mese il conflitto, che si spense
definitivamente dopo pochi mesi.
Le pressioni diplomatiche austro-ungheresi e russe esasperarono però le
rivalità latenti tra i membri della Lega; a Londra era intervenuta anche la
Romania, che rivendicava la Dobrugia bulgara.
Il mancato accordo per la divisione della Macedonia portò alla rottura tra
Greci e Serbi da una parte, e Bulgaria dall’altra.
Le tensioni aumentarono senza che i Bulgari facessero nulla per sedarle,
nemmeno quando si arrivò ad incidenti tra militari: fu così che il 30 Giugno
1930 scoppiò la seconda guerra balcanica (30 Giugno-30 Luglio 1913).
I Bulgari vennero pressati da tutti gli Stati confinanti, anche dai Rumeni e dai
Turchi (questi si ripresero la Tracia), venendo così forzati alla tregua.
Con il trattato di Bucarest (1913) vennero sancite le perdite territoriali bulgare
nei confronti di Romania, Serbia e Grecia; con gli Ottomani si arrivò ad una
pace separata nel medesimo anno.
Le guerre balcaniche avrebbero dovuto in teoria portare alla fine di un ciclo
evolutivo apertosi con il Congresso di Berlino (1878), ma lo scontro fratricida
dell’estate del 1913 creò delle frizioni irreparabili all’interno dei Balcani:
quella tra Bulgaria e Serbia, e soprattutto quella tra quest’ultima e l’Austria-
Ungheria.
I conflitti del 1912-1913 fecero esplodere la vera ‘’polveriera’’, l’Europa delle
grandi potenze.
A lungo è stata trascurata l’altra faccia delle guerre balcaniche: le atrocità
compiute contro la popolazione musulmana, e più in generale le enormi
sofferenze subite dalla popolazione più debole (le donne in primo luogo).
Alla fine del conflitto si verificò una feroce deottomanizzazione, che fu molto
ben documentata dagli osservatori occidentali.
Per quanto riguarda invece l’Impero Ottomano, il suo non fu solo un collasso
militare, ma anche civile, economico, demografico e sociale; di fatto le due
guerre segnarono il definitivo tramonto del programma multiculturale e
multiconfessionale ottomano.
Pochi dubbi restano ormai sul fatto che le due guerre furono una prova di
modernità per gli Stati balcanici, che erano considerati dalle grandi potenze
come delle semicolonie, deboli e incapaci di attuare delle strategie politiche
proprie.
A Vienna si sbeffeggiava apertamente il Montenegro, definito uno ‘’Stato da
operetta’’, e la stessa Francia intervenne solo molto tardi per fermare il
conflitto, convinta che la Lega non sarebbe mai stata in grado di sconfiggere
gli Ottomani.
Grecia, Serbia e Bulgari erano, sin dalla loro indipendenza, vissute all’ombra
delle potenze , una condizione che generò tra le élites locali una notevole
frustrazione.
Fu così che tra queste si diffuse l’idea che conquistare la Turchia europea,
ingrandendo così le proprie nazioni, sarebbe stata la soluzione per tutti i
problemi.
I progetti di espansione si ispiravano agli antichi imperi balcanici (bizantino,
bulgaro, serbo), e la guerra divenne il modo più veloce per portare a termine
questi piani, per risolvere i problemi che Berlino aveva ignorato, per
vendicarsi dell’oltraggiosa occupazione ottomana di cinquecento anni
prima.
L’aspetto catartico si univa così al pragmatismo di inizio Novecento,
creando l’occasione per un secondo momento fondativo per la storia della
Grecia, della Bulgaria, del Montenegro e della Serbia.
Sogni ed entusiasmi lasciarono però spazio alla realtà della guerra, che fu più
che altro un esame di maturità per il livello di modernizzazione, in primo
luogo militare, raggiunto dagli Stati balcanici.
Sotto questo punto di vista non si poté che notare una clamorosa crescita, che
si poteva cogliere soprattutto se si pensava alla disfatta in cui era incorso
l’esercito greco al tempo della guerra di Creta nel 1897.
La diplomazia della Romania fu in grado di porsi come grande interlocutrice
della seconda guerra balcanica, mettendo in secondo piano quella russa.
Anche i ‘’fronti interni’’ si dimostrarono molto sviluppati: capaci di essere una
nazione compatta, ma allo stesso tempo abbastanza critici per criticare le
atrocità del conflitto (si pensi alle denunce fatte dai socialisti serbi sulle
violenze compiute contro gli Albanesi del Kosovo).
Questo processo fu però oscurato dal nazionalismo, dalle atrocità, dagli eccidi
e dalla violenza che caratterizzarono le guerre balcaniche, alle quali ciascuno
stato avrebbe dato un significato differente.
Per i Greci fu il momento in cui la nazione ritornò alla sua grandezza
originaria; per i Serbi la prova che precedette la resistenza agli Austriaci nel
primo conflitto mondiale; per i Montenegrini una vicenda che dimostrava
l’eroismo dei proprio soldati; per i Turchi la prova che il sistema ottomano
era finito.
Dopo il 1945 questi furono presentati come lotta di liberazione nazionale
contro il feudalesimo ottomano.
A queste interpretazioni cominciarono però ad essere raccolte anche quelle
dei Macedoni slavi, che parteciparono alla guerra all’interno di reparti
bulgari/serbi/greci.
Le due guerre ebbero anche una grande copertura mediatica , il banco di
prova per un giornalismo libero che sarebbe venuto meno con la Prima
Guerra Mondiale, ideologicamente blindata.
La guerra come narrazione, come ‘’gioco’’, come prova dell’inefficienza
orientale e come testimonianza della superiorità del progresso (questo
emerge con chiarezza in molti reportage del 1912-1913).
L’aspetto tragico e ‘’sporco’’ del conflitto nella stampa come folklore
balcanico, quindi qualcosa di lontano dai parametri europei.
Quindi le potenze europee si illusero che, rispetto a quanto visto nei Balcani,
una guerra tra di loro sarebbe stata più rapida, più tecnica e più ‘’pulita’’.
L’impatto sociale del conflitto sulla Turchia europea e sugli Stati balcanici
evidenzia la volontà di classi dirigenti preparate, coscienti che la
modernizzazione avvenuta negli Stati balcanici fosse avvenuta a scapito del
mondo rurale.
La discrasia tra le élites e la stragrande maggioranza della popolazione (95%,
di cui l’80% analfabeta) venne superata tramite stratagemmi politici e la
nazionalizzazione delle masse.
La guerra si prestò dunque come momento di rifondazione di un patto
sociale votato alla vittoria e all’ingrandimento della nazione.
Nei Balcani di oggi i conflitti del 1912-1913 erano presentati assieme a
numerosi cliché densi di mitologie nazionali e divisioni culturali.
Così nel 2005 venne pubblicato un nuovo manuale sulle guerre balcaniche,
redatto da équipes di storici provenienti da tutti gli Stati dell’Europa Sud-
orientale, attenti ad utilizzare numerose fonti e testimonianze coeve.
La via della tolleranza è fondamentale affinché si arrivi alla riconciliazione
tra le nazioni balcaniche.
Si deve arrivare all’accettazione di una storia comune, che comprenda il
lascito degli scontri del 1912-1913.
XII) DOPO BISANZIO

Il breve Novecento balcanico fu un susseguirsi di tentativi di prove di


modernità.
I trattati con cui si concluse la Prima Guerra Mondiale portarono ad una
totale ridefinizione delle geografie imperiali e nazionali: venne creato il
Regno dei Serbi-Croati-Sloveni nel Dicembre 1918, gli Albanesi riebbero il
loro Stato, mentre la Bulgaria sconfitta subì gravi perdite territoriali.
L’Impero Ottomano venne smembrato con il trattato di Sèvres (1920), firmato
con gli alleati dall’ultimo sultano Maometto IV Vahideddin (1918-1922).
In Mesopotamia sorsero i mandati francesi e britannici, nacque uno Stato
indipendente in Arabia e uno in Armenia, la Cilicia e Adana andarono alla
Francia, Istanbul e gli stretti vennero smilitarizzati e assegnati ad
un’amministrazione internazionale.
Alcune spoglie dell’Impero finirono anche in mano alla Grecia, che però non
si accontentò della Tracia e di Smirne, ma decise di lanciare una serie di
campagne verso l’Anatolia centrale che la portarono sino a Bursa.
La guerra greco-turca (1919-1922) terminò però con la vittoria dei nazionalisti
turchi guidati da Mustafa Kemal (1881-1938), poi detto ‘’Ataturk’’ (lett.
‘’padre dei Turchi’’), il quale sarebbe riuscito a conferire alla Turchia nuova
dignità andando oltre l’ideale ottomano.
La vittoria nella guerra coi Greci non fu dunque l’ultima successo ottomano,
bensì la prima vittoria turca, con cui si sanciva l’inizio di una nuova stagione
caratterizzata dall’occidentalizzazione.
Venne introdotto l’alfabeto latino, venne abolito il diritto islamico e introdotto
un codice penale/civile, venne abolito il sultanato nel 1923 e l’anno seguente
fu abolito il califfato (1924): era cominciata una nuova epoca.
Con la fine del conflitto sorse anche una ‘’Grande Romania’’ grazie alle
annessioni di Bessarabia, parte del Banato, Dobrugia meridionale e Bukovina.
La situazione di questa nuova geopolitica era però fragile, tanto a livello
economico, quanto a sociale (i tassi di analfabetizzazione erano elevatissimi).
La Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) fu atroce soprattutto in Jugoslavia,
dove fu un insieme di guerre civili e di occupazioni a cui pose fine la presa
del potere da parte dei comunisti di Josip Broz detto ‘’Tito’’ (1892-1980).
La dittatura comunista riuscì a rilanciare il progetto jugoslavo per qualche
decennio fino alla drastica rottura serbo-croata.
In Grecia invece si verificò una durissima guerra civile (1946-1949) che arrise
alla fazione occidentale grazie al supporto britannico; la Bulgaria finì invece
sotto il controllo dell’URSS; l’Albania si legò invece alla Cina.
Bulgaria e Albania portarono avanti il modello proposto dai sovietici:
economia pianificata, urbanizzazione, industrializzazione di Stato, creazione
di una classe operaia e di tecnici.
La Jugoslavia visse il suo apogeo politico tra gli anni Sessanta e gli Ottanta,
dando la percezione che la modernità potesse davvero andare oltre quel
retaggio lasciato dal passato.
Lo Stato jugoslavo cercò sempre di presentare se stesso in modo astorico, e
questo perché quel passato di dominazione austriaca, ottomana, veneziana e
ungherese suonava troppo di marginalità.
Il futuro era invece rappresentato dal prestigio mondiale acquisito tramite la
vittoria nel secondo conflitto mondiale: Tito nel 1953 venne accolto a Londra
da Churchill e dalla regina Elisabetta II, nel 1976 fu alla Casa Bianca dal
presidente americano Jimmy Carter.
La realtà storica della Jugoslavia andava però superata attraverso con una
visione culturale capace di andare oltre le differenze.
Solo nel 1984 però Milan Kundera (1929) aprì la questione sul senso
dell’Europa centrale, sul fatto che essa fosse stata spartita tra gli alleati e i
sovietici.
Nei Balcani il folklore era stato minimizzato, e quindi superare le differenze
diveniva possibile per esempio nel progetto di Miroslav Krleza (1893-1981),
massimo intellettuale e scrittore croato del Novecento.
La simbiosi culturale jugoslava, di ciò si parla nel primo volume
dell’Enciclopedia jugoslava (1955), voleva porsi a metà strada tra Roma e
Bisanzio: essere jugoslavi significava stare nella ‘’terza via’’, quella che stava a
metà tra Occidente e Oriente.
Quest’idea ebbe un certo riscontro effettivo nell’Esposizione di arte jugoslava
del 1950 a Parigi, nelle politiche internazionali perseguite tra il 1954-1956 (di
equidistanza da URSS e USA).
Il premio Nobel per la letteratura assegnato ad Ivo Andric nel 1961 per il suo
capolavoro Il ponte sulla Drina sembrò effettivamente suggellare questo ideale.
Alla simbiosi jugoslava si prestò anche Krleza, nella cui opera però i Balcani
compaiono pochissimo, mentre è fortemente presente il Mediterraneo; tutto
nell’opera dello scrittore croato gravita intorno all’Europa centrale da lui
sempre denigrata.
Già nei pieni anni Ottanta intorno alla Jugoslavia cominciò ad emergere
un’aura di rassegnazione: il progetto di umanesimo culturale proposto
dall’AVNOJ (acronimo del consiglio comunista che nel 1943 creò la
Jugoslavia) era ormai fallito.
Ancora una volta la polifonia che avrebbe dovuto superare le differenze
causò la fine di un progetto unificatore; già nel 1974 la Jugoslavia era più una
confederazione che una federazione.
Le storiografie jugoslave ebbero il demerito di non portare mai a termine una
sintesi, nonostante avessero avviato il progetto che portasse a questa: la Storia
dei popoli jugoslavi, che si fermò al secondo volume (secoli dal XVI al XVIII, si
ferma al 1790) dei quattro previsti.
Il crollo della Jugoslavia non solo ricordò all’Europa cosa fosse un conflitto,
ma significò un apparente ritorno alla frammentazione medievale, che di
fatto si tradusse in un drastico e drammatico passaggio alla postmodernità.
La fuoriuscita della Croazia e della Slovenia dalla federazione (avvenuta su
forti pressioni tedesche) portò al loro reintegro nell’Europa centrale, a cui i
due paesi ritengono storicamente di appartenere, cosa che ha fatto molto
riflettere sul significato dei Balcani.
La narrazione dell’integrazione europea avrebbe dovuto essere un nuovo
appiglio per gli Stati balcanici per avviare un processo integrativo, tuttavia i
bombardamenti NATO a Belgrado, il mancato decollo economico bulgaro
dopo l’entrata nell’Unione nel 2007 e la dura politica finanziaria di Bruxelles
verso la Grecia dal 2010, hanno raffreddato gli animi.
I Balcani sono tornati ad essere una periferia marginale dell’Unione Europea,
una situazione che ha portato ad un rinnovato interesse per l’Impero Romano
d’Oriente.
Bizantinismo e ottomanismo sono oggi filoni di studio molto ‘’caldi’’ nelle
realtà accademiche balcaniche (Sofia, Atene, Belgrado), ma anche dei modelli
per alcuni Stati come Turchia (il rinnovato ottomanismo di Erdogan) e la
Russia (si è parlato molto di politica bizantinista russa).
Oggi è stata restituita nell’area una maggiore attenzione per la diversità
religiosa; in generale però i Balcani restano un’area particolarmente
importanti dal punto di vista geopolitica (c’è un forte interesse economico da
parte della Cina e della Turchia, una grande base NATO in Kosovo).
Oggi il discorso è incentrato sul senso storico dei Balcani, che era stato reso
perfettamente dai due massimi scrittori serbocroati del XX secolo: il già citato
Ivo Andric e Mesa (Mehmed) Selimovic (1910-1982).
Nel Ponte sulla Drina (1945) Andric ci racconta di come gli avventi della prima
guerra balcanica venissero percepiti ‘’lontani’’ dagli abitanti musulmani di
una cittadina bosniaca.
Era però la fine di un mondo e allo stesso tempo l’inizio di uno nuovo: ‘’Ed
ecco, ora sono arrivati al punto da veder defluire e indietreggiare questo potere, come
una fantastica marea….essi sono rimasti qua, alghe sulla terraferma, ingannati e
minacciati, abbandonati a se’ stessi e alla loro cattiva sorte’’.
Selimovic invece, nel suo capolavoro Il derviscio e la morte (1966), racconta del
momento apicale del potere ottomano, che però rimane qualcosa di distante
dalla realtà balcanica.
Esemplificativa è la scena in cui dei Turchi del Bosforo deridono un turco-
bosniaco, una scena che racconta il senso dei Balcani ancora prima di quello
della Bosnia: ‘’Qui, accanto a voi, non lontano da questo splendore bizantino e da
questa ricchezza, che confluisce qui da ogni parte dell’impero, i vostri fratelli vivono
come mendicanti’’.

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