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Questa tassonomia è stata rifiutata dalla storica bulgara Maria Todorova, per
cui nei confronti dei Balcani esiste una forma di orientalismo, ovvero una
serie di preconcetti che formano una mappa mentale.
Oggi la lettura fondata sui criteri della teoria postcoloniale e degli studi sulla
subalternità (Guha, Spivak, Chakrabarty) hanno investito anche l’area della
balcanistica.
Ovviamente vi è anche il gruppo degli scienziati politiche, in cui si è distinto
George Schopflin.
Nei Balcani si sono alternati diversi domini imperiali estranei all’area (Roma,
Bisanzio, Ottomani, Asburgo), quindi si sono susseguite anche forme
straniere di esclusione dal potere, gestite da amministrazioni arbitrarie, che
si proiettavano al di là del contesto locale.
L’urbanizzazione è stato in area balcanica un processo molto lento, né vi fu
una radicale secolarizzazione paragonabile a quella dell’Occidente; in
sostanza dobbiamo concludere che la modernità nei Balcani fu introdotta
dall’alto (dallo Stato).
Il miglior risultato a cui è giunta oggi la ricerca parte dallo studio del Balcani
a partire da una prospettiva transnazionale, seguendo lo schema della
Entangled History (in questo caso Entangled histories of the Balkans, promossa
da diversi studiosi come Diana Mishkova, Roumen Daskalov e Tchavdar
Marinov).
II) TERRE BALCANICHE
1) Negoziato nei confronti degli altri, che noi oggi guardiamo sotto la lente
della tolleranza.
2) Capacità di sfruttare le debolezze altrui.
3) Tendenza all’espansione.
4) Capacità di aggregazione.
Ancora oggi si discute molto sulla natura della conquista turca dei Balcani:
se essa sia stata una semplice conquista, oppure l’integrazione di compagini
in crisi (probabilmente fu entrambe le cose).
La religione e la filosofia politica furono la base ideologica della dinastia
ottomana, formulatrice del mito del ‘’gazi’’, il combattente per la fede
islamica.
Accanto a questo concetto vi era però la grande capacità di adattamento alle
situazioni politiche dell’Asia bizantina prima, e al mondo balcanico nel XIV
secolo.
Il passaggio da Gallipoli ad Adrianopoli si rivelò decisivo: i Balcani
divennero infatti la terra della conquista e dell’espansione, condotta da
Osman, da Orkhan (1324-1362) e Murad I (1362-1389).
L’avanzata turca fu graduale e costante, tra l’occupazione della Bulgaria e la
presa della Macedonia e della Serbia passarono circa vent’anni.
Gli Ottomani seppero sfruttare abilmente la frammentazione delle società
balcaniche, che furono in grado di imporsi come egemoni politicamente, ma
allo stesso tempo impararono anche a convivere e trattare coi cristiani
(un’arte imparata dai Bizantini).
L’organizzazione territoriale dei Balcani fu avviata dal 1360-1370, quando le
terre occupate vennero definite ‘’beilerbelik’’, ovvero province di Rumelia.
Inizialmente quest’area riguardava i territori dei Traci e dei Macedoni, dove
la sovranità del sultano era diretta; erano esclusi dalla Rumelia gli Stati che
erano vassalli, come la Bulgaria (occupata direttamente solo nel 1396).
All’inizio del Cinquecento la sovranità ottomana andava dunque dal Regno
d’Ungheria e dalla Dalmazia veneta sino ad Istanbul e alle foci del Danubio;
la Rumelia fino alla presa dell’Ungheria non si spinse a Nord del Danubio.
Dal secondo Quattrocento la Rumelia cominciò a corrispondere agli odierni
Stati di Grecia, Albania, Turchia, Serbia, Kosovo, Montenegro, Bulgari e
Bosnia-Erzegovina: tutti i Balcani.
Con la conquista di Ungheria/Egitto/coste africane/Mesopotamia/Mar Rosso,
si rese necessaria una riforma amministrativa.
Dal beylerbelik di Rumelia nacquero nuovi ‘’elayet’’, ovvero province, dette
anche pascialati, posti sotto l’autorità di pascià per l’appunto (i governatori).
Il primo elayet fu quello dell’Arcipelago, affidato all’abile ammiraglio-corsaro
Hayreddin Barbarossa (1478-1546) e comprendente: la Morea, l’Ellade
(Grecia classica), Cicladi, Sporadi, Dardanelli e Bitinia.
Al ‘’bey’’ del mare venne affidato il potere sui sangiaccati (distretti) litoranei
e marittimi, in primo luogo dalla parte orientale del Mar di Marmara, dal
sangiaccato di Kocaeli (Nicomedia), quello di Smirne, di Miltilene e di
Mystra.
Questo elayet rispondeva ad alcuni themata bizantini, ma soprattutto andava a
contrapporsi allo Stato da Mar veneziano, in primo luogo a Candia.
A Rodi, presa nel 1522 dopo che vennero sconfitti i Cavalieri di San Giovanni,
venne costituito un nuovo sangiaccato, ma già nel 1546 esso venne aggiunto
all’Arcipelago.
Cipro fu un elayet a parte dopo la conquista (1573), ma in seguito finì anche
essa nell’Arcipelago (tra il 1672 e il 1703); l’isola venne poi separata e riunita
definitivamente all’Arcipelago nel 1784.
Creta invece divenne un elayet nel 1670, dopo la lunghissima guerra di
Candia (1645-1669); l’isola sarebbe rimasta in mano ai Turchi sino alla
conquista greca (1897).
Il governatore dell’Arcipelago era il kapudan pascià, il grande ammiraglio
della flotta ottomana, detto anche ‘’derya bey’’, ovvero bey del mare.
Le sedi dell’ammiragliato erano a Gallipoli e a Galata (qui risiedeva per la
maggior parte del tempo il kapudan pascià).
Fu il successo militare del Barbarossa che portò alla creazione dell’Arcipelago
(nel 1535 posto sotto il controllo del kapudan pascià), che venne equiparato alla
Rumelia e all’Anatolia.
Con questo passaggio il grande ammiraglio venne elevato al rango dei visir,
potendo dunque partecipare alle riunioni del divan, il consiglio di Stato.
Tra il 1703-1784 l’Arcipelago fu sotto il diretto controllo del sultano; dopo l’
indipendenza greca (1829-1830) questo rimase però di fatto privato della
Morea e dell’Ellade.
L’Arcipelago fu dunque una compagine amministrativa a se’, una Grecia
nello Stato ottomano.
Un incarico molto importante era quello di ‘’dragomanno della flotta’’, creato
nel 1701 e ricoperto forse da Greci provenienti da un greco fanariota, ovvero
residente dal quartiere del Fanar.
Il dragomanno era in primo luogo un interprete, un conoscitore di lingue,
soprattutto dell’italiano, lingua diplomatica per eccellenza nell’Impero.
Con la conquista dell’Ungheria (1552) venne costituito l’elayet di Buda, il cui
territorio riguardava quasi tutta la pianura pannonica; da questo nuovo elayet
venne separato poi l’elayet di Timisoara.
Nel 1600 venne costituito l’elayet di Kanisza, al confine con l’Ungheria degli
Asburgo.
I domini ungheresi rimasero in vita sino al 1686, quando avvenne la
conquista asburgica, scaturita dopo il fallimentare assedio di Vienna (1683);
differente la vicenda del sangiaccato di Belgrado, scomparso dopo la presa
asburgica della Serbia (1718-1739).
La Bosnia venne separata dalla Rumelia ed elevata ad elayet nel 1580, nel 1600
nacque invece l’elayet di Silistra, odierna Dobrugia, (residenza del pascià sul
Danubio) in Bulgaria.
Questo elayet divenne una zona di confine, in primo luogo rispetto al Khanato
di Crimea, ma in seguito sarebbe stato allargato anche alla costa bulgara e al
basso corso del Danubio.
All’anno 1600 il 90% dei Balcani era in mano ottomana, suddivisi negli elayet
di Bosnia, di Rumelia e dell’Arcipelago; il sangiaccato di Smederevo rientrava
invece nell’elayet di Buda.
Venezia possedeva le coste e le isole dalmate, compresa Cattaro, le isole Ionie
(eccetto Leucade) e l’avamposto di Butrinto di fronte a Corfù.
Si considera veneziana anche la Repubblica di Ragusa, che formalmente era
però tributaria degli Ottomani.
Questa geografia rimase immutata sino al Settecento: l’Ungheria ottomana
sparì tra il 1686 e il 1699, mentre la Bosnia rimase in piedi.
Nella Rumelia del Quattro-Cinquecento, come in Anatolia, si assistette al
consolidamento dello Stato ottomano, che era fondato su due pilastri
giuridici: la sharia, la legge coranica ispiratrice prima dello Stato, e
l’adattamento ottomano ai diritti consuetudinari (fiscali, penali ecc..) locali.
Fiorirono nei Balcani le scuole coraniche, da cui si originava il ceto preposto
allo studio e all’interpretazione, gli ‘’ulema’’, che pur avendo la preminenza
su molte questioni non rispondeva a tutte le esigenze.
Sotto Maometto II avvenne la compilazione del ‘’kanuname’’, l’insieme d
leggi dedicate al diritto penale, al regime fiscale, doganale, ai mercati, ai porti
e allo status dei sudditi.
Il sultano, in quanto sceicco dell’Islam, aveva il diritto di interpretare a
seconda delle esigenze il diritto coranico.
I sudditi dello Stato ottomano erano di due categorie: i musulmani (a cui
andava il privilegio di accedere ai ruoli di governo) e i non-musulmani, che
riconoscevano entrambi la volontà divina che muoveva il sultano.
Il vertice della società ottomana era rappresentato dalla classe dirigente,
rappresentata da: ufficiali preposti alle varie unità amministrative (elayet,
sangiaccati e nahiye); militari o ‘’askeri’’; membri dell’ulema, teologi e
giureconsulti.
Questa terza categoria era composta da: ‘’mufti’’, teologi, e predicatori
preposti a moschee e monasteri; ‘’muderris’’, responsabili delle istituzioni
scolastiche (‘’madrase’’); ‘’kadi’’, i giudici, che sotto di se’ avevano un ‘’kadilik’’,
un distretto giudiziario.
Al di sotto di questo ceto dirigente vi era la ‘’raya’’, la popolazione comune,
che doveva reggere tutto questo sistema pagando i tributi allo Stato.
Per riassumere: non c’è autorità sovrana senza militari; non ci sono militari
senza benessere; la raya produce il benessere; il sultano è garante della raya
grazie alla giustizia che emana; la giustizia richiede armonia; il mondo è un
giardino le cui mura sono lo Stato; il proposito dello Stato è il diritto religioso;
il diritto religioso è l’autorità sovrana, ovvero il sultano.
Sotto Maometto II Istanbul divenne la capitale di un impero grande come
quello di Basilio II, il cui cuore era il palazzo imperiale, il Topkapi, situato
all’ingresso del Bosforo.
Al suo interno risiedeva il microcosmo dei funzionari, cavalieri (‘’sipahi’’),
eunuchi, custodi dell’harem, emissari, corpo dei giannizzeri.
Da qui il sultano governava il suo Stato, il cui massimo organo esecutivo era
il consiglio di Stato, il ‘’divan’’, a cui partecipavano, oltre al sultano e al gran
visir, altri quattro visir: due ‘’defterdar’’, economi (uno per la Rumelia e uno
per l’Anatolia) e due ‘’kadi asker’’, i capi della giustizia a cui erano sottoposti
i kadi.
Vi era poi il nisanci, il capo dell’amministrazione e interprete normativo, che
sovrintendeva al rilascio dei vari atti.
A quest’ultimo era subordinato il capo della cancelleria, il ‘’reis-ul-kuttab’’,
che era il preposto agli affari esteri.
Il sultano teneva molto in considerazione il parere dei mufti e degli ulema in
materia religiosa e del diritto coranico; l’ultimo sultano a presiedere il divan
fu Maometto II.
Solo dal 1535 al divan ebbero accesso anche il kapudan pascià, il grande
ammiraglio, e l’aga, il capo dei giannizzeri
Il consiglio emanava decreti (‘’firman’’), nomine (‘’berat’’) e accordi
(‘’ahdname’’), tipi di documenti che scandiscono la storia dell’Impero.
Fino alla conquista dell’Egitto nel 1517 vi erano due parti amministrative
nello Stato, la Rumelia e l’Anatolia, denominate beylerbelik poiché ciascuna di
esse era governata da un ‘’beylerbey’’, un governatore.
Ogni elayet aveva i suoi sangiaccati, a capo dei quali vi erano i capi militari, i
sancak bey, che si occupavano anche delle attività economiche e
dell’amministrazione delle città.
Al di sotto dei sancak bey vi erano i ‘’subasi’’, responsabili dei distretti.
Nel corso del Cinquecento le istituzioni giudiziarie si organizzarono a partire
dalla rete dei kadilik, le circoscrizioni di competenza dei giudici (i kadi), e delle
nahiye.
Il potere amministrativo ottomano si fermava proprio al livello di nahiya, cosa
che dunque lasciava margine al governo locale.
La terra era invece suddivisa in tre categorie: il ‘’miri’’, la proprietà dello
Stato (quindi del sultano); il ‘’mulk’’, la proprietà privata; i vafq o vakif/vakuf,
le proprietà delle fondazioni pie.
La moneta ufficiale era l’akce, l’aspro d’argento, anche se circolavano molto
anche le monete non ufficiali, come quelle veneziane e ungheresi in oro e
argento.
Le crescenti spese dello Stato imponevano un sistema fiscale, molto efficiente
se paragonato ai corrispettivi europei.
I non-musulmani dovevano pagare un’imposta personale, la ‘’cizya’’, o
‘’kharac’’, per ottenere la protezione del sultano; si tratta di un tributo riscosso
con puntualità e quindi molto documentato.
I defterdar, che redigevano i rendiconti delle kharac, hanno lasciato numerose
descrizioni analitiche sulla situazione demografica e tributaria; si tratta della
fonte più frequente per il mondo ottomano.
In generale le fonti ottomane eccellono per la quantità, un’eccellenza che ha
come contrappeso la povertà di fonti narrative, cosa che ha costretto ad
utilizzare le relazioni veneziane.
Il sistema tributario si basava sull’opera dell’appaltatore delle imposte, che
doveva presentarsi con dei garanti della sua solvibilità; la regolarità delle
entrate era di somma importanza, perché con i tributi si pagavano le spese di
guerra.
Questo possente sistema amministrativo era seguito da un forte esercito, che,
rispetto alle caotiche cavallerie europee composte da nobili e alle loro masse
di assoldati, era organizzato in corpi militari con ruoli e funzioni ben definite.
La cavalleria rappresentava l’élite: essa era formata dai sipahi (‘’cavalieri’’),
che venivano ricompensati con un ‘’timar’’, un feudo non ereditario attribuito
dal miri, per il loro valore.
Le rendite del timar permettevano ai sipahi di garantirsi armatura, cavalli e
servi.
Questa cavalleria contava ben 40.000 uomini, a cui si dovevano aggiungere i
10.000 cavalieri, quelli che componevano il reparto degli ‘’akinci’’, un reparto
originariamente turcomanno, ma poi esteso anche ai Circassi e ai Tartari.
Gli akinci erano responsabili, nei periodi di tregua, di incursioni in profondità
negli Stati nemici.
Il corpo più famoso della fanteria era ovviamente quello dei ‘’giannizzeri’’,
composto da giovani cristiani prelevati dalle famiglie tramite il cosiddetto
sistema del ‘’devsirme’’ (il ‘’dazio di sangue’’), che venivano poi addestrati nella
capitale.
Il corpo era composto da 6000 uomini; i più capaci potevano anche fare
carriera, e infatti alcuni giannizzeri nel corso della storia divennero anche
gran visir.
La struttura della fanteria vera e propria dipendeva invece dall’elayet di
riferimento: nella Rumelia, diversamente che in Anatolia, la fanteria reclutava
i ‘’martolosi’’ (o ‘’armatoles’’), i fanti cristiani (di solito di origine morlacca), e
i ‘’vojnuci’’, i notabili cristiani.
Un altro punto di forza era il corpo del ‘’topci’’, l’artiglieria, perfezionatasi
proprio al tempo dell’assedio di Costantinopoli.
L’esercito trovava un altro punto di incredibile modernità nel sistema di
vettovagliamento.
L’alimentazione in particolar modo era un aspetto curatissimo e pieno di
ritualità.
Si pensi che il capo di ogni unità giannizzera (‘’orta’’) era detto ‘’corbaci’’,
termine con cui si indica colui che distribuisce con il mestolo la zuppa
(‘’corba’’) ogni sera ad ogni giannizzero; la ritualità del mangiare assieme
andava a rafforzare lo spirito di coesione della truppa.
Per quanto vi fossero delle evidenti differenze fra sipahi e fanti, tra cristiani e
musulmani, fino al fatale 1683 la forza ottomana rimase coesa ed efficace.
Per riassumere:
La pax ottomana nei Balcani non fu un mito: fatta eccezione per la rivolta
scoppiata in Montenegro nel 1597, il dominio turco fu assolutamente saldo.
Fino al periodo compreso tra il 1684 e il 1699 l’Impero attuò una politica di
continua aggressione alle terre ungheresi; tuttavia la pace balcanica non fu
realizzata solo una continua mobilitazione di guerra.
Decisiva fu infatti la capacità dell’Impero di coinvolgere tutte le sue diverse
componenti: élite musulmane, Morlacchi ortodossi.
Le continue guerre turche portarono di fatto alla fine di ciò che restava del
Regno d’Ungheria, ma allo stesso tempo esse diedero prestigio simbolico
alla famiglia Asburgo.
Nel 1526 l’obiettivo di Solimano il Magnifico era quello di costituire un regno
vassallo in Ungheria, non di occupare direttamente il territorio magiaro,
furono i successivi contrasti tra Zàpolya e Ferdinando d’Asburgo che
spinsero il sultano a cambiare i suoi piani.
Nel 1527 Ferdinando prese Buda, spingendo Zàpolya a chiedere l’aiuto dei
Turchi, che inviarono un contingente di 100.000 uomini; l’esercito ottomano e
quello di Zàpolya riuscirono in seguito a rioccupare Buda e a prendere
Presburgo (oggi Bratislava).
Mentre Ferdinando si spostava in Boemia, i Turchi si muovevano alla volta di
Vienna, le cui fortificazioni erano state però rafforzate nei mesi precedenti.
La città si rivelò dunque imprendibile, e così, dopo un assedio durato due
mesi, l’esercito ottomano si ritirò.
Ferdinando cercò più volte di riprendersi l’Ungheria tra il 1529 e il 1552,
mentre Solimano rispose organizzando una seconda spedizione, che però non
andò oltre la piccola fortezza di Koszeg, dove il nobile croato Nikola Jurisic
riuscì a resistere eroicamente per venti giorni con soli 800 uomini.
Nel 1533 Solimano stipulò la pace con gli Asburgo per potersi concentrare
sul fronte orientale, dove la pressione dei Safavidi (Persiani) era aumentata.
L’accordo prevedeva la rinuncia di Ferdinando all’intera Ungheria: rimaneva
solo in possesso della parte occidentale del Regno, dalla Croazia sino a
Presburgo.
Nel 1537 Ferdinando però attaccò la Slavonia, costringendo Zàpolya a
trattare: si arrivò così al trattato di Nagyvàrad, con cui l’Asburgo riconosceva
Zàpolya come sovrano di Ungheria (incoronato da Giovanni I), e secondo cui
quest’ultimo avrebbe nominato Ferdinando suo erede.
Nel 1540 però, poco prima di morire, Zàpolya ebbe un erede, Giovanni
Sigismondo (1540-1559), eletto re Giovanni II dalla nobiltà magiara e
riconosciuto da Solimano come suo vassallo.
Gli Ottomani giunsero a Buda nel 1540 occupandola velocemente, tuttavia già
nel 1541 Ferdinando e Carlo V riavviarono il conflitto: fu a questo punto che
Solimano creò l’elayet di Buda e lasciò la Transilvania a Giovanni II.
Il conflitto perdurò sino al 1547, quando fu sottoscritto l’armistizio di
Adrianopoli.
Dal 1555 entrambe le potenze cercarono di portare avviare un dialogo
diplomatico, che tuttavia si sarebbe spento nel corso degli anni successivi.
Nel 1566, a settantadue anni e dopo quarantasei anni di regno, Solimano
organizzò una nuova spedizione verso l’Ungheria (l’anno precedente aveva
tentato invano di conquistare Malto).
Quando seppe che i Croati avevano ottenuto alcuni successi, Solimano volle
attaccare la fortezza di Szigeth, difesa da un veterano dell’assedio di Vienna,
il conte e bano di Croazia Nikola Subic Zrinski, che con soli 2000 uomini
fronteggiò 100.000 Turchi.
Gli Ottomani riuscirono a conquistare la fortezza, ma il prezzo fu altissimo:
20.000 morti, tra cui lo stesso sultano, che morì il giorno prima dell’assalto
finale.
Nel 1568 il nuovo sultano Selim II e l’imperatore Massimiliano II (1564-
1576) si accordarono stipulando una pace capace di prolungarsi fino al 1593.
In questi venticinque anni di tregua tanto i Turchi quanto gli Austriaci si
concentrarono sul rafforzamento del confine: i secondi costruirono la città-
fortezza di Carlstad/Karlovac, mentre i Turchi rafforzarono Bihac, presa nel
1592.
Bihac venne conquistata dal pascià di Bosnia Hasan Predojevic, che cercò di
conquistare anche la fortezza di Sisak in Croazia: qui si verificò un grande
scontro (1593), in cui le forze cristiane ebbero la meglio.
La battaglia di Sisak rappresentò una svolta per la storia dei conflitti austro-
turchi.
La ‘’lunga guerra’’ (1593-1606) scoppiò proprio a seguito dello scontro a Sisak,
e vide coinvolti l’imperatore Rodolfo II (1576-1612) e il sultano Murad III.
All’attacco ottomano in Croazia seguì però un’insurrezione tra i Serbi
dell’elayet di Timisoara (1594), guidata dal vescovo ortodosso Toedoro
Nestorovic (fu l’unica grande insurrezione prima di quella del 1804).
La rivolta dei Serbi fu un prova di insurrezione e di consapevolezza
nazionale: i rivoltosi combatterono con l’immagine di San Sava, fondatore
della Chiesa serba nel 1219.
Sbaragliati i ribelli, l’Impero si trovò di fronte ad una coalizione
antiottomana formata da papa Clemente VIII, che inviò emissari in Spagna,
Venezia e dai principi danubiani per convincerli a partecipare alla crociata.
La Lega Santa venne fondata a Praga nel 1595, in essa confluirono: Rodolfo II,
il vojvoda di Moldavia Aron Tiranul, Sigismondo Bàthory di Transilvania e
Michele il ‘’Coraggioso’’ (1593-1601), vojvoda di Valacchia.
Michele si rese protagonista di una campagna militare epica; nel 1595 attaccò
le città ottomane sul Danubio e in seguito arrivò anche ad Adrianopoli, la
città con le tombe dei sultani, luogo raggiunto solo dai Russi (nel 1828 e nel
1877) e dai Bulgari (nel 1912).
Michele in seguito si ritirò in Valacchia, dove si scontrò con gli Ottomani nella
battaglia di Calugareni (1595), dove i Rumeni ottennero una straordinaria
vittoria.
Michele venne in seguito raggiunto dai rinforzi transilvani e asburgici, grazie
ai quali vennero riconquistate Bucarest e Targoviste; nel 1595 gli Asburgo
riuscirono anche a conquistare Esztergom.
L’azione di Michele il Coraggioso istigò la grande rivolta bulgara del 1596, che
venne repressa brutalmente e che spinse il sultano Maometto III a lanciare
una nuova campagna in Ungheria.
L’esercito asburgico, guidato dall’arciduca d’Austria e gran maestro
dell’ordine teutonico Massimiliano III (1558-1618), venne sconfitto dagli
Ottomani nella battaglia di Keresztes (1596).
Michele il Coraggioso continuò a combattere sino al 1599, quando decise di
recarsi in Transilvania, dove era scoppiata una crisi dinastica.
Nel 1600 Michele attaccò la Moldavia e sconfisse il voivoda locale, che era un
vassallo dei Turchi; in seguito il Coraggioso si proclamò voivoda di Moldavia,
Valacchia e Transilvania.
La nobiltà ungherese in Transilvania si mosse però contro Michele, che nel
1600 venne sconfitto nella battaglia di Miraslau, dopo la quale Sigismondo
Bàthory tornò sul trono di Transilvania (a cui aveva abdicato, per ben due
volte e senza motivazioni comprensibili, in precedenza).
Michele il Coraggioso venne invece ucciso dai boiari (nobili) polacchi, di cui
aveva in precedenza cercato l’alleanza.
Rodolfo II cercò di colmare il vuoto di potere creatosi alla morte del
coraggioso ordinando l’occupazione della Transilvania, regione dotata di
molte anime religiose (vi erano cattolici, ortodossi, luterani e anche una
minoranza tartara, quella degli Ungheresi ‘’szekleri’’) in cui venne introdotta
la Controriforma cattolica.
La nobiltà transilvana reagì al tentativo d Rodolfo II (1603), ma venne
sconfitta dalle truppe imperiali in battaglia; in questo contesto si colloca il
capo locale Istvan Bocskai, che nel 1605 riuscì a sconfiggere per due volte gli
imperiali.
Con la pace di Zsitvatorok, firmata dall’arciduca d’Austria Mattia e il sultano
Ahmed, si chiuse la lunga guerra nel 1606.
Seguì poi un lungo periodo di pace (1606-1663), durante il quale rimase
comunque aperto il problema della Transilvania, contesa tra i due imperi.
Un momento di tensione emerse all’inizio della Guerra dei Trent’Anni (1618-
1648), quando il principe di Transilvania, il nobile calvinista Gabriele Bethlen,
attaccò l’Ungheria asburgica, riuscendo ad occupare Presburgo e a farsi
nominare re dalla nobiltà magiara di fede calvinista (1620-1621).
L’imperatore Ferdinando II (1619-1637) riuscì, dopo la vittoria sui boemi
nella battaglia della Montagna Bianca (1620), a rioccupare Presburgo.
La situazione cambiò molto soprattutto dopo che ad Istanbul prese il potere
la famiglia albanese dei Koprulu, che riaccese le ambizioni ottomane di
espansione nell’Europa centrale.
Il pretesto per attaccare fu ancora una volta la Transilvania: il principe
Giorgio Rakoczy II aveva infatti invaso la Polonia senza il permesso
ottomano, dando così modo alla Sublime Porta di agire contro di lui.
L’imperatore Leopoldo I (1658-1705) inviò contro il gran visir ottomano
Mehmed pascià Koprulu il suo miglior generale, l’italiano Raimondo
Montecuccoli (1609-1680).
L’esercito di Montecuccoli (composto da un contingente imperiale, uno croato
e uno francese inviato da Luigi XIV) incontrò l’enorme armata ottomana, ben
100.000 uomini, presso San Gottardo (Sud-Est dell’Austria).
La battaglia del San Gottardo (1664) fu un trionfo per le forze cristiane, che
annientarono l’esercito ottomano, travolto dalla tattica del fuoco continuo
(sperimentata con successo nel conflitto dei Trent’Anni).
La pace di Vasvar (1664) stabilì una tregua di vent’anni e confermò lo status
della Transilvania come realtà vassalla degli Ottomani.
L’accordo non venne accettato da tutti, dei nobili croati arrivarono ad ordire
una congiura, nota anche come la congiura dei conti Frankopan e Zrinski,
che, assieme al conte ungherese Ferenc Wesselenyi, tentarono un colpo di
Stato antiasburgico.
Leopoldo venne informato paradossalmente dalla Sublime Porta, ma decise
di restare in attesa sino al 1671, quando i congiurati, dopo tre anni (1667-1670)
di clima da complotto, vennero giustiziati.
La poca reattività di Leopoldo va attribuita soprattutto alla sua volontà di
frenare le ambizioni di Luigi XIV (l’imperatore temeva soprattutto la
possibilità, che si sarebbe verificata comunque anni dopo, di una guerra di
successione in Spagna).
La volontà di tenere stabile il confine ottomano rese però debole agli occhi
della Porta il potere asburgico, che nel 1678 fronteggiò la rivolta dei ‘’Kuruc’’
(nome assegnato ai ribelli anti-Asburgo), guidati dal nobile Imre Thokoly, che
voleva vendicarsi degli Asburgo, che avevano ucciso il padre in quanto
coinvolto nella congiura contro Leopoldo.
I ribelli ottennero l’appoggio degli Ottomani e dei Transilvani, cosa che
obbligò Leopoldo I a chiedere un armistizio nel 1681.
Gli Ottomani riconobbero Thokoly come re dell’Ungheria settentrionale,
tuttavia questo riconoscimento non bastò a far cessare le ostilità tra costui e
gli imperiali.
Lo sconfinamento delle truppe asburgiche in territorio ottomano fu il pretesto
usato dalla Sublime Porta per lanciare una nuova spedizione.
Fu l’occasione che il gran visir Kara Mustafa (1634/35-1683) aspettava per
convincere il sultano Maometto IV a dichiarare guerra agli Asburgo.
VIII) LA RICONQUISTA
I Balcani furono l’ultimo atto della Belle Époque, le due guerre balcaniche
(1912-1913 e 1913) e in seguito le vicende dell’estate del 1914 portarono alla
svolta cruciale nella questione d’Oriente.
Questa volta non fu possibile trovare una soluzione diplomatica rivolta a
salvare la stabilità dell’Impero Ottomano: di fatto la fine della Turchia in
Europa ebbe come conseguenza principale la crisi austro-serba.
I due conflitti balcanici, durati complessivamente dieci mesi, sono di difficile
comprensione per diversi motivi: la nascita di una lega anti-ottomana, la
partita diplomatica segreta giocata dalla Triplice Alleanza e dalla Triplice
Intesa.
Esse furono anche l’esperienza che diede fama ai primi inviati di guerra,
come Lev Trockji (1879-1940) e Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944).
L’origine di questo conflitto è da ricercare nello ‘’status coloniale’’ assunto da
Istanbul nel corso degli ultimi decenni, durante i quali l’Impero era divenuto
un’enorme opportunità economica per le imprese private inglesi, francesi e
tedesche (numerose rendite provenivano dal commercio di tabacco e cotone).
I ceti dirigenti balcanici si adeguarono a questa situazione, quella che li
vedeva in completa subordinazione alle grandi potenze europee.
Questa condizione di pseudo-vassallaggio fu la causa che spinse i Giovani
Turchi ad attuare il colpo di Stato nel 1908, che portò alla fine del governo
fortemente autoritario del sultano Abdul Hamid II.
Nell’Ottobre del 1908 l’Austria-Ungheria aveva direttamente annesso la
Bosnia, approfittando proprio della situazione di confusione creatasi nello
Stato ottomano.
Questo gesto portò alla rottura tra Asburgo e Russi, con i secondi che
cominciarono allora ad adottare una nuova politica balcanica, basata
sull’avvicinare Serbia e Bulgaria.
Lo scoppio della guerra italo-ottomana (1910-1911), scatenata dall’invasione
italiana della Libia , spinse gli Stati balcanici ad accordarsi diplomaticamente:
dapprima si accordarono la Serbia e la Bulgaria, poi la Bulgaria e la Grecia, in
seguito la Serbia e il Montenegro ed infine la Bulgaria ed il Montenegro.
Tutti questi patti bilaterali erano stati stipulati soprattutto per merito delle
trame ordite dalla Russia, che voleva intimorire l’Austria-Ungheria e allo
stesso tempo interferire nelle vicende ottomane.
La ‘’Lega Balcanica’’ si era dunque costituita per conquistare e spartirsi la
Turchia europea.
Il 1908 aveva anche innescato la problematica della questione albanese; tra
l’altro gli Albanesi erano la comunità maggiormente rappresentate in territori
decisamente contesi, come Epiro/Kosovo/Macedonia.
Il causus belli fu la rivolta albanese scoppiata nel 1911, questa causata
dall’ostilità della popolazione locale alla politica neottomana perseguita dai
Giovani Turchi.
Nel 1912 i capi albanesi ottennero da Istanbul la possibilità di divenire
autonomi, cosa che portò alla nascita dell’Albania autonoma, che andava a
compromettere non poco le ambizioni serbo-greche.
A questo punto gli alleati balcanici ruppero gli indugi: sulla scorta di re
Nicola del Montenegro (1910-1918), che per primo dichiarò guerra alla Porta,
tutti gli altri si lanciarono contro la Turchia in Europa: fu così che ebbe inizio
la prima guerra balcanica (Ottobre 1912-Maggio 1913).
L’estensione territoriale del conflitto fu qualcosa di totalmente differente
rispetto a tutte i precedenti conflitti balcanici: fu una guerra lampo in cui gli
eserciti bulgaro/greco/montenegrino/serbo riuscirono a sconfiggere quello
turco.
Nel giro di poco tempo vennero occupate l’Epiro, la Tracia, la Macedonia e il
Kosovo; rimanevano comunque alcune sacche di resistenza.
Da soli gli alleati riuscirono a replicare l’impresa russa del 1878, forzando i
Turchi a chiedere un armistizio nel 1912.
Si aprì così nel Dicembre dello stesso anno la conferenza di pace di Londra,
che però venne condizionata da novità scoppiate mesi prima: l’occupazione
serba della Macedonia e la presa greca di Salonicco, che era ambita dai
Bulgari.
Il riconoscimento di uno Stato albanese a partire da Scutari frustrò non poco
le ambizioni serbe di ottenere uno sbocco sul mare.
Nel frattempo ad Istanbul un nuovo colpo di Stato (1913) riportò al potere i
Giovani Turchi e riaccese per qualche mese il conflitto, che si spense
definitivamente dopo pochi mesi.
Le pressioni diplomatiche austro-ungheresi e russe esasperarono però le
rivalità latenti tra i membri della Lega; a Londra era intervenuta anche la
Romania, che rivendicava la Dobrugia bulgara.
Il mancato accordo per la divisione della Macedonia portò alla rottura tra
Greci e Serbi da una parte, e Bulgaria dall’altra.
Le tensioni aumentarono senza che i Bulgari facessero nulla per sedarle,
nemmeno quando si arrivò ad incidenti tra militari: fu così che il 30 Giugno
1930 scoppiò la seconda guerra balcanica (30 Giugno-30 Luglio 1913).
I Bulgari vennero pressati da tutti gli Stati confinanti, anche dai Rumeni e dai
Turchi (questi si ripresero la Tracia), venendo così forzati alla tregua.
Con il trattato di Bucarest (1913) vennero sancite le perdite territoriali bulgare
nei confronti di Romania, Serbia e Grecia; con gli Ottomani si arrivò ad una
pace separata nel medesimo anno.
Le guerre balcaniche avrebbero dovuto in teoria portare alla fine di un ciclo
evolutivo apertosi con il Congresso di Berlino (1878), ma lo scontro fratricida
dell’estate del 1913 creò delle frizioni irreparabili all’interno dei Balcani:
quella tra Bulgaria e Serbia, e soprattutto quella tra quest’ultima e l’Austria-
Ungheria.
I conflitti del 1912-1913 fecero esplodere la vera ‘’polveriera’’, l’Europa delle
grandi potenze.
A lungo è stata trascurata l’altra faccia delle guerre balcaniche: le atrocità
compiute contro la popolazione musulmana, e più in generale le enormi
sofferenze subite dalla popolazione più debole (le donne in primo luogo).
Alla fine del conflitto si verificò una feroce deottomanizzazione, che fu molto
ben documentata dagli osservatori occidentali.
Per quanto riguarda invece l’Impero Ottomano, il suo non fu solo un collasso
militare, ma anche civile, economico, demografico e sociale; di fatto le due
guerre segnarono il definitivo tramonto del programma multiculturale e
multiconfessionale ottomano.
Pochi dubbi restano ormai sul fatto che le due guerre furono una prova di
modernità per gli Stati balcanici, che erano considerati dalle grandi potenze
come delle semicolonie, deboli e incapaci di attuare delle strategie politiche
proprie.
A Vienna si sbeffeggiava apertamente il Montenegro, definito uno ‘’Stato da
operetta’’, e la stessa Francia intervenne solo molto tardi per fermare il
conflitto, convinta che la Lega non sarebbe mai stata in grado di sconfiggere
gli Ottomani.
Grecia, Serbia e Bulgari erano, sin dalla loro indipendenza, vissute all’ombra
delle potenze , una condizione che generò tra le élites locali una notevole
frustrazione.
Fu così che tra queste si diffuse l’idea che conquistare la Turchia europea,
ingrandendo così le proprie nazioni, sarebbe stata la soluzione per tutti i
problemi.
I progetti di espansione si ispiravano agli antichi imperi balcanici (bizantino,
bulgaro, serbo), e la guerra divenne il modo più veloce per portare a termine
questi piani, per risolvere i problemi che Berlino aveva ignorato, per
vendicarsi dell’oltraggiosa occupazione ottomana di cinquecento anni
prima.
L’aspetto catartico si univa così al pragmatismo di inizio Novecento,
creando l’occasione per un secondo momento fondativo per la storia della
Grecia, della Bulgaria, del Montenegro e della Serbia.
Sogni ed entusiasmi lasciarono però spazio alla realtà della guerra, che fu più
che altro un esame di maturità per il livello di modernizzazione, in primo
luogo militare, raggiunto dagli Stati balcanici.
Sotto questo punto di vista non si poté che notare una clamorosa crescita, che
si poteva cogliere soprattutto se si pensava alla disfatta in cui era incorso
l’esercito greco al tempo della guerra di Creta nel 1897.
La diplomazia della Romania fu in grado di porsi come grande interlocutrice
della seconda guerra balcanica, mettendo in secondo piano quella russa.
Anche i ‘’fronti interni’’ si dimostrarono molto sviluppati: capaci di essere una
nazione compatta, ma allo stesso tempo abbastanza critici per criticare le
atrocità del conflitto (si pensi alle denunce fatte dai socialisti serbi sulle
violenze compiute contro gli Albanesi del Kosovo).
Questo processo fu però oscurato dal nazionalismo, dalle atrocità, dagli eccidi
e dalla violenza che caratterizzarono le guerre balcaniche, alle quali ciascuno
stato avrebbe dato un significato differente.
Per i Greci fu il momento in cui la nazione ritornò alla sua grandezza
originaria; per i Serbi la prova che precedette la resistenza agli Austriaci nel
primo conflitto mondiale; per i Montenegrini una vicenda che dimostrava
l’eroismo dei proprio soldati; per i Turchi la prova che il sistema ottomano
era finito.
Dopo il 1945 questi furono presentati come lotta di liberazione nazionale
contro il feudalesimo ottomano.
A queste interpretazioni cominciarono però ad essere raccolte anche quelle
dei Macedoni slavi, che parteciparono alla guerra all’interno di reparti
bulgari/serbi/greci.
Le due guerre ebbero anche una grande copertura mediatica , il banco di
prova per un giornalismo libero che sarebbe venuto meno con la Prima
Guerra Mondiale, ideologicamente blindata.
La guerra come narrazione, come ‘’gioco’’, come prova dell’inefficienza
orientale e come testimonianza della superiorità del progresso (questo
emerge con chiarezza in molti reportage del 1912-1913).
L’aspetto tragico e ‘’sporco’’ del conflitto nella stampa come folklore
balcanico, quindi qualcosa di lontano dai parametri europei.
Quindi le potenze europee si illusero che, rispetto a quanto visto nei Balcani,
una guerra tra di loro sarebbe stata più rapida, più tecnica e più ‘’pulita’’.
L’impatto sociale del conflitto sulla Turchia europea e sugli Stati balcanici
evidenzia la volontà di classi dirigenti preparate, coscienti che la
modernizzazione avvenuta negli Stati balcanici fosse avvenuta a scapito del
mondo rurale.
La discrasia tra le élites e la stragrande maggioranza della popolazione (95%,
di cui l’80% analfabeta) venne superata tramite stratagemmi politici e la
nazionalizzazione delle masse.
La guerra si prestò dunque come momento di rifondazione di un patto
sociale votato alla vittoria e all’ingrandimento della nazione.
Nei Balcani di oggi i conflitti del 1912-1913 erano presentati assieme a
numerosi cliché densi di mitologie nazionali e divisioni culturali.
Così nel 2005 venne pubblicato un nuovo manuale sulle guerre balcaniche,
redatto da équipes di storici provenienti da tutti gli Stati dell’Europa Sud-
orientale, attenti ad utilizzare numerose fonti e testimonianze coeve.
La via della tolleranza è fondamentale affinché si arrivi alla riconciliazione
tra le nazioni balcaniche.
Si deve arrivare all’accettazione di una storia comune, che comprenda il
lascito degli scontri del 1912-1913.
XII) DOPO BISANZIO