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Il Mediterraneo in età contemporanea

Oggi il Mediterraneo è un confine (il più pericoloso; torna centralità: confronto tra ex-
imperi? (Russia/Turchia)
Geopolitica (interpretazione topografica trova qui i suoi principali materiali).
Mediterraneo “cuore geopolitico del mondo”.
Mediterraneo è una “regione”? (vedi King su Mar Nero – regione definita da trama di
relazioni marittime incrociate, cooperazioni, conflitti, movimento di merci, idee e
persone). Su questo mondo irrompe lo Stato-nazione mentre le affiliazioni erano diverse:
religiose, professionali, geografiche.
Geografia: serie di bacini cui corrisponde suddivisione terre. Canale di Sicilia segna
frontiera Occ/Or. Italia è asse mediano. Montagne a picco sul mare sulla riva Nord,
deserto a sud. Dato unitario è clima. Nei mesi più caldi domina aria calda del Sahara,
nel resto dell’anno l’influsso atlantico. Terra dura, difficile, da conquistare; pianure
malsane conquistate nel’900. Si viveva sulle alture (terrazzamenti); transumanza/
nomadismo; le città sono centri, snodi, accumulo di ricchezza ma eccezione;
Con la navigazione a vapore il M. si è accorciato e ristretto. Non è mare particolarmente
pescoso, parco di plancton; il mare è stato soprattutto “superficie di trasporto”. Per
molto tempo è stato ostacolo più che legame x difficoltà a navigare in mare aperto.
Viaggi brevi; pericoli tempeste (ex-voto); nel ‘500 aumenta navigazione in mare aperto
ma resta rara; si naviga solo nella bella stagione;
Mediterraneo è anche rete di strade; è “spazio-movimento”: le strade allargano lo
spazio delle città-porto alle regioni interne. Tale circolazione si sposta sempre più nello
spazio atlantico, ciò segna la perdita di centralità del Mediterraneo
Storia: Le popolazioni sono diverse, non hanno passato condiviso. Tracciare una storia di
questo mare è difficile, è frammentata in temi, storie regionali e poi nazionali; solo in
età contemporanea il Mediterraneo acquista unità geopolitica fondamentale per gli Stati
nazionali che vi si affacciano.
Bisogna guardare il Mediterraneo come una “regione storica” (Geschichtsregion), spazio
inferiore a continente ma superiore al singolo Stato, caratterizzato da una serie di
strutture sociali, economiche, culturali diverse ma convergenti, in contatto. E’ un mare-
regione; è una regione culturale con tratti in comune. Questa nozione permette un
approccio transnazionale allo studio di tale contesto.

1
Concentrarsi sul mare permette di superare le categorie dello Stato e della nazione: il
determinismo delle storie politiche e l’ideologia di quelle nazionali. Partire da una
categoria geografica (il mare come spazio, luogo, inteso come un tutto) rende il mare un
oggetto storico, formato dalla diversità che richiede confronti.
Nel’700 (vedi Gibbon) il Mediterraneo viene studiato come culla delle grandi civiltà. La
“storia” lo caratterizza.
Dal punto di vista storico ci sono 4 possibili approcci alla storia del Mediterraneo:
1. Med come etichetta per storie particolari
2. Med come scenario, sfondo per storie generali (Abulafia)
3. Med dove storia dell’ambiente e geografia s’intrecciano (Braudel; Purcell)
4. Med come oggetto di studio “postmoderno”: area culturale ibrida

La storia del M. è estremamente ricca e complessa, frutto dello stratificarsi nel tempo di
tanti elementi. Tre civiltà lo segnano nel lungo periodo: la romanità latino-cattolica;
greca-ortodossa; Islam. Tali civiltà attraversano il tempo, trionfano nella “lunga
durata”, sembrano quasi “immobili” nello spazio e nel tempo. Una civiltà non è solo la
religione ma anche costumi, sensibilità. Le civiltà sono realtà di lunghissima durata,
ancorate al loro spazio, ma ciò non impedisce sovrapposizioni e ibridazioni (civiltà
ellenistica; moresca; ottomana;…). Conflitti tra civiltà ma anche scambi e influenze.
Oltre le civiltà ha contato l’economia degli scambi attraverso il mare. Fondamentale è
dominare il mare per dominare ricchezze. Svolta segnata dallo spostamento
sull’atlantico dei grandi commerci. Però grazie all’argento spagnolo che giunge a
Genova, il commercio di pepe e spezie non si interrompe. A partire dal’600 olandesi e
inglesi conquistano gradualmente egemonia nel Mediterraneo, anche con la pirateria;
pepe e spezie seguono sempre più la rotta atlantica. Il Mediterraneo non è più centro
del mondo. Nel’700 s’impone egemonia inglese (conquista Gibilterra). Nel Levante ruolo
della Francia e si affaccia la Russia (1774). Cresce importanza dell’India per gli inglesi e
di conseguenza necessità di controllare Levante ---spedizione Napoleone in Egitto
(1898), conquista inglese di Malta (1800); tale linea completata con Cipro (1878) ed
Egitto (1882). Il canale di Suez è opera francese ma ne beneficia di più Londra. Con Suez
il Mediterraneo diventa un tratto di rotta più lunga che collega l’Europa all’Asia.

2
La Grande Guerra in Oriente

La sconfitta subita in Libia accrebbe l’instabilità politica ottomana, ma furono


soprattutto le successive guerre balcaniche ad innescare una catena di conflitti destinati
a protrarsi per un intero decennio. In Oriente, infatti, la guerra cominciò ben prima che
in Europa e si concluse quattro anni più tardi. Occorre, pertanto, considerare nel suo
insieme questa “guerra dei dieci anni” (1912-1922) per comprendere le vicende che
portarono alla definitiva dissoluzione dell’Impero ottomano.1 Nell’ottobre del 1912,
Grecia, Serbia e Bulgaria diedero vita ad una sorprendente alleanza per spartirsi le
province macedoni ottomane. La guerra colse del tutto impreparata la Sublime Porta
che capitolò in breve tempo. Le diplomazie europee si affrettarono a intervenire per
salvaguardare gli equilibri balcanici, ma le difficoltà a trovare un accordo tra Russia e
Austria, favorirono la decisione di Serbia, Grecia e Romania di riaprire le ostilità, questa
volta contro la Bulgaria accusata di un eccessivo ingrandimento territoriale. Al conflitto,
scoppiato nel giugno 1913, partecipò anche l’Impero ottomano, il cui governo era stato
preso saldamente in mano dal CUP con un colpo di Stato in gennaio. Il nuovo trattato di
pace sancì un nuovo mutamento della geografia balcanica: oltre all’indipendenza
dell’Albania fu prevista la cessione delle province macedoni – spartite tra greci, serbi e
bulgari - da parte dell’Impero ottomano che mantenne soltanto la città di Edirne con la
Tracia orientale. Era la fine della presenza ottomana nei Balcani dopo più di cinque
secoli. Salonicco fu annessa alla Grecia, mentre migliaia di musulmani emigrarono verso
l’Anatolia. Molti dei membri del CUP - Taalat, Enver e lo stesso Mustafa Kemal, futuro
fondatore della repubblica di Turchia - originari della Mecedonia, dovettero abbandonare
le terre natali, rifugiandosi da profughi a Istanbul. Tale esperienza accrebbe il
risentimento non solo verso le popolazioni cristiane balcaniche, ma anche nei confronti
di quelle – armeni e greci – presenti in Anatolia, divenuta agli occhi degli unionisti la
“nuova” patria da difendere ad ogni costo.2
I due conflitti segnarono un ulteriore passo verso il consolidamento dei giovani Stati
balcanici, anche se il carattere di “guerre civili etniche”- le prime a carattere
“demografico”- tese ad alimentare la spirale di violenza tra le popolazioni, secondo una

1R. GINGERAS, Sorrowful Shores: Violence, Ethnicity and the End of the Ottoman Empire, 1912-1923, Oxford, Oxford
University Press, 2009.

2 Su i due conflitti balcanici si veda l’efficace sintesi di E. IVETIC, Le guerre balcaniche, Bologna, Il Mulino, 2006.
3
dinamica destinata a riproproporsi su altri scenari orientali. La definitiva perdita dei
Balcani rappresentò un ulteriore trauma per la dirigenza ottomana che da questo
momento concentrò tutti gli sforzi a difesa del territorio anatolico. Nel CUP si fece
strada, pertanto, la convinzione della necessità di ridurre, in quest’area, la presenza dei
cristiani ritenuti ormai non più affidabili. Dal 1914 fu avviata la campagna di esproprio
delle proprietà e delle attività degli imprenditori cristiani, espulsi dalla Tracia, dall’Asia
Minore e dalle coste del Mar Nero. In quell’anno, tuttavia, a imporsi furono i venti di
guerra che dalla Bosnia investirono in breve tempo l’intero continente europeo.
L’attentato di Sarajevo sembrò preludere ad una “terza” guerra balcanica, ma il
coinvolgimento dell’Impero austro-ungarico comportò esiti di più ampia portata.
L’innesco prodotto dalla “polveriera balcanica” dimostrava, tuttavia, quanto la
“questione d’Oriente” costituisse una posta rilevante della politica internazionale e uno
dei fattori che resero “mondiale” il conflitto scoppiato nel giugno 1914.
Il governo ottomano, stanti le difficoltà con la Russia e una certa freddezza verso
l’imperialismo franco-britannico, optò per un’alleanza con gli Imperi centrali, alla luce
sia delle buone relazioni economiche con la Germania sia dell’ammirazione che i giovani
turchi provavano nei confronti del militarismo tedesco. La dirigenza giovane turca spinse
per la guerra nella speranza di riprendere molti dei territori perduti, anche se l’Impero
vi giunse piuttosto impreparato, ovviando a molte sue carenze grazie al supporto diretto
– di mezzi e uomini – fornito da Berlino. La mobilitazione dell’esercito ottomano fu
notevole (2,6 milioni di uomini) e i suoi reparti riuscirono a contrastare efficacemente le
offesive nemiche sui diversi fronti (Caucaso, Mesopotamia, Palestina e stretto dei
Dardanelli).3 Uno dei punti più critici era il fronte dell’Anatolia orientale: sul territorio a
cavallo tra Impero ottomano e quello zarista insistevano, infatti, le rivendicazioni
nazionali degli armeni e dei curdi, due popolazioni che sperimentavano una difficile
coabitazione. I russi facevano leva soprattutto sui nazionalisti armeni per guadagnare
terreno in queste province, esponendo le popolazioni cristiane alle rappresaglie
ottomane. La disfatta ottomana su tale fronte, agli inizi del 1915, aprì la strada alla
controffenziva russa, creando le premesse per la decisione da parte della dirigenza
ottomana di procedere alla deportazione sistematica della popolazione armena dalla
regione. Si colloca in questo contesto la drammatica e controversa questione “armena”
culminata nel primo genocidio pianificato del XX secolo. Le deportazioni – con l’annessa

3E. ROGAN, La grande guerra nel Medio Oriente. La caduta degli ottomani 1914-1920, Milano, Bompiani, 2016, pp.
85-119.
4
confisca dei beni degli armeni – furono avviate tra aprile e maggio del 1915 e
progressivamente interessarono l’intera Anatolia. Alle pratiche di “pulizia etnica” si
affiancarono razzie, violenze sulle donne e massacri ad opera di bande para-militari che
agirono con il tacito assenso delle autorità politiche e militari ottomane. I convogli di
deportati, formati da anziani, donne e bambini (gli uomini arruolati nell’esercito
vennero in massima parte fucilati al fronte) furono fatti marciare verso il deserto
siriano. Pochi sopravvisero, la maggioranza perì per fame e stenti lungo il cammino. Si
stima che le vittime siano state circa un milione.4 La logica “patriottica” – salvare
l’Impero dalle minacce interne – spinse i Giovani Turchi a “de-cristianizzare” l’Anatolia
in termini simili a quanto era avvenuto nei decenni precedenti con la “de-
ottomanizzazione” dei Balcani, “ripuliti” dalla presenza dei musulmani. Motivazioni
prettamente politiche ispirarono, perciò, le pratiche genocidiarie, anche se fu utilizzato
pure il richiamo all’Islam per istigare la popolazione ottomana all’odio anti-cristiano. Le
violenze, infatti, finirono per travolgere tutti i cristiani dell’Anatolia (armeni, siriaci,
caldei e assiri) ponendo fine alla secolare presenza di tali comunità.5
Le potenze dell’Intesa, intanto, fallito il tentativo di forzare lo stretto dei Dardanelli,
riorganizzarono le forze nelle province arabe. Sulla base degli accordi Sykes-Picot,
stipulati agli inizi del 1916, Parigi e Londra si accordarono per ridisegnare i futuri assetti
orientali, assegnando alla Russia il controllo della regione caucasica, mentre alla Francia
sarebbero spettati il Libano e la Siria fino a Mossul e alla Gran Bretagna la Palestina con
la Mesopotamia. L’accordo servì agli inglesi per convincere la Francia a impegnarsi
maggiormente in Oriente in un comune sforzo che, secondo i disegni di Londra, doveva
coinvolgere anche le popolazioni arabe ottomane. Il governo britannico, pur di garantirsi
il sostegno arabo, si spinse a prometter la nascita di uno stato arabo indipendente, una
prospettiva difficilmente compatibile, però, con gli assetti concordati con gli alleati. La
cosiddetta “rivolta araba”, capeggiata dallo sceicco della Mecca, Hussein Ibn Ali, ebbe
effetti molto limitati, soprattutto perché gran parte degli arabi restarono fedeli
all’Impero ottomano durante il conflitto.6 Ciò nonostante, sul finire del 1917 le truppe
dell’Intesa riuscirono ad avanzare sia in Mesopotamia che in Palestina. L’Intesa cercò di

4 T. AKÇAM, Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall’Impero ottomano alla Repubblica, Milano, Guerini e
Associati, 2005, pp. 117-181.

5 A. RICCARDI, La strage dei cristiani. Mardin, gli armeni e la fine di un mondo, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 11-54.

6 ROGAN, La grande guerra nel Medio Oriente, op. cit., pp. 423-474.
5
intensificare le offensive per colmare il vuoto lasciato dall’uscita di scena della Russia,
avendo la meglio sull’esercito ottomano sempre più indebolito dal lungo conflitto e dal
venir meno del sostegno degli Imperi centrali. L’approssimarsi della cessazione delle
ostilità in Europa, spinse alla fine anche il governo ottomano a firmare l’armistizio a
Mudros il 31 ottobre 1918.
Le condizioni imposte agli ottomani furono piuttosto dure, a cominciare
dall’occupazione degli stretti e di Istanbul da parte degli eserciti dell’Intesa. Per
l’Impero si aprì una complessa fase di transizione: mentre i dirigenti del CUP che
avevano condotto l’Impero in guerra fuggirono in esilio, il potere tornò in mano ai vecchi
ambienti della corte e al nuovo sultano, Mehmet VI. Il movimento dei giovani turchi
rimase, tuttavia, in vita, forte soprattutto del prestigio che godeva nell’esercito. Fu in
questa fase che cominciò ad emergere il carisma di Mustafa Kemal che si era distinto
nella battaglia di Gallipoli sui Dardanelli. Sotto la sua leadership, gli unionisti
organizzarono da subito la resistenza “nazionale”, a partire dalla rete di gruppi
clandestini e arsenali creati in Anatolia orientale già sul finire della guerra.
Contestualmente, attraverso la “Società per la Difesa dei Diritti Nazionali”, fu avviata
tra la popolazione un’ampia campagna di propaganda in difesa degli interessi ottomani,
di fronte soprattutto ai progetti di spartizione che si stavano profilando al tavolo delle
trattative di pace.7 A Sèvres, presso Parigi, si era infatti aperta la Conferenza di pace
incaricata di dare soluzione alla “questione d’Oriente”. La crisi della coabitazione e
l’irrompere del principio di autodeterminazione dei popoli, spinse comunità ed etnie a
rivendicare un proprio spazio “nazionale”. Dagli armeni ai curdi, dai maroniti del Libano
agli ebrei – per i quali il ministro inglese Balfour nel 1917 aveva prospettato la creazione
di una national home in Palestina – furono molti i popoli che intravidero nello Stato-
nazione il proprio futuro. Le potenze vincitrici si mostrarono disponibili ad accogliere
tali proposte, ben sapendo che la fragilità intrinseca delle nuove nazioni avrebbe
favorito un loro ruolo di supporto nella regione. I nuovi Stati ipotizzati – Armenia,
Kurdistan, Siria, Iraq e Arabia – sarebbero, infatti, sorti privi di adeguate strutture
statuali e senza una chiara identità. Con il procedere delle trattative prese forma il
“nuovo” Medio Oriente: sulla base di un “mandato” della neonata Società delle Nazioni,
la Francia ottenne il controllo del “Grande Libano” insieme alla Siria, mentre la Gran
Bretagna si vide assegnare la Palestina, il nuovo regno di Transgiordania e l’Iraq, formato

7E.J. ZÜRCHER, Storia della Turchia. Dalla fine dell’Impero ottomano ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 2007, pp.
163-180.
6
dall’unione delle province di Bassora, Baghdad e Mossul. Le rivendicazioni di curdi e
assiri furono accantonate, così come non vide la luce uno Stato nazionale arabo unitario
– avversato dai francesi – mentre gli inglesi favorirono l’unificazione politica dei
principati della penisola araba in un regno affidato alla dinastia saudita. Gli assetti del
Medio Oriente arabo delineati a Parigi rischiavano, però, di prospettare “una pace senza
pace”, sia a causa dei mandati percepiti dalle popolazioni come una forma di
colonialismo, sia per la debolezza intrinseca dei nuovi Stati.8
Restava poi il nodo dell’Anatolia di cui si prevedeva la spartizione: l’Asia Minore con
Smirne assegnata ai greci, la regione di Antalya all’Italia e la Cilicia alla Francia. Contro
tale eventualità, agli inizi del 1920, si mobilitò il movimento nazionale di Mustafa
Kemal, attraverso la promozione di un “Patto nazionale” che prevedeva la difesa
dell’integrità territoriale dell’Impero ottomano entro i confini fissati dall’armistizio del
1918. Secondo tale documento, lo spazio “nazionale” era considerato quello abitato
dalla “maggioranza musulmana ottomana”, facendo valere l’elemento religioso come
criterio identitario rispetto a quello più strettamente etnico. A dominare era ancora una
prospettiva “ottomana” che contemplava una simbiosi tra le diverse componenti
musulmane, specie turchi e curdi, mentre gli arabi, in considerazione dei deboli legami
culturali e politici, ma anche in seguito alle vicende degli ultimi anni, furono considerati
“fratelli correligionari” non appartenenti, però, al corpo nazionale. Tale visione,
peraltro, non escludeva, in via di principio, neppure le minoranze non-musulmane
purchè avessero accettato la supremazia “storica” della maggioranza. Tutto ciò
evidenzia come nel 1920 l’obiettivo politico dei nazionalisti di Mustafa Kemal fosse la
preservazione dell’Impero ottomano e dimostra, inoltre, che il nazionalismo
propriamente “turco” fu una prospettiva che maturò più avanti, una volta dissolta la
compagine imperiale ottomana.9
Il trattato di Sèvres, firmato il 10 agosto 1920, sancì quanto era stato definito in sede di
trattative: la spartizione dell’Anatolia, la nascita di uno Stato armeno, la formazione di
nuovi stati “arabi”. L’Impero ottomano sopravviveva nominalmente, ma il suo territorio
era ormai ridotto ad un’enclave attorno a Istanbul. Per il movimento nazionale si
trattava di condizioni assolutamente inacettabili soprattutto perché mettevano in
discussione l’integrità dell’Anatolia. Furono queste le premesse per un nuovo conflitto

8D. FROMKIN, Una pace senza pace. La caduta dell’Impero ottomano e la nascita del Medio Oriente moderno, Milano,
Rizzoli, 2002², pp. 442-468.

9 Il testo del Patto Nazionale è riportato da F.L. GRASSI, Atatürk, Roma, Salerno Editrice, 2008, pp. 185-186.
7
tra il movimento nazionalista di Mustafa Kemal, divenuto ormai un soggetto politico
influente, e l’esercito greco che, dopo aver occupato l’Asia Minore, era stato incaricato
dalle potenze di sovraintendere al rispetto delle clausole fissate a Sèvres. La resistenza
ottomana, all’inizio, procedette a prendere il controllo della Cilicia e successivamente
delle province dell’Anatolia orientale, attuando politiche di “pulizia etnica” nei
confronti degli armeni che ancora vi risiedevano. La frontiera caucasica fu stabilizzata
solo agli inizi del 1921 grazie al sostegno dell’URSS che fornì ai nazionalisti aiuti
economici e materiali in cambio del porto di Batum e di un coinvolgimento sovietico sul
futuro degli stretti. I successi ottenuti sul campo dai nazionalisti spinsero Francia e Italia
a trattare con Mustafa Kemal per la cessione dei territori anatolici da loro occupati in
cambio di accordi commerciali. Le diplomazie occidentali dovettero, infatti, prendere
atto che il movimento nazionale rappresentava ormai un interlocutore le cui
rivendicazioni non potevano essere ignorate. Dopo aver respinto un’offensiva dei greci
vicino ad Ankara nell’estate del 1921, i nazionalisti passarono un anno a preparare la
controffensiva e ad accreditarsi nelle cancellerie europee. Nell’agosto del 1922 le
truppe di Mustafa Kemal ripresero l’avanzata verso Smirne. L’esercito ellenico fu
costretto a ritirarsi – lasciandosi dietro una scia di distruzioni e violenze nei confronti
della popolazione musulmana – seguito dalla massa di greci che cercarono di fuggire via
mare per sottrarsi alle ritorsioni dei nazionalisti. Il tragico epilogo fu il saccheggio e
l’incendio di Smirne che bruciò per quattro giorni, con la distruzione totale dei suoi
quartieri cristiani. L’esodo dei greci dall’Asia Minore segnò la fine del sogno del
nazionalismo ellenico di dominare sulle due sponde dell’Egeo (la Megali Idea), ma
comportò anche la cancellazione definitiva della presenza cristiana nella regione.10
Dopo che i nazionalisti avevano acquistato il pieno controllo del territorio anatolico, fu
necessario riaprire il processo negoziale per rivedere il trattato del 1920. La Conferenza
di Losanna, convocata nel novembre del 1922, avviò i lavori mentre il quadro politico
ottomano aveva subito una profonda svolta: a Istanbul il governo ufficiale si era dimesso
e la dinastia ottomana era stato costretta all’esilio. A dare una parvenza di continuità
con il vecchio regime ottomano rimaneva l’erede al trono Abdülmecit, ma solo con la
carica di califfo. Gli interessi ottomani a Losanna furono difesi dai delegati del
movimento nazionalista decisi a riottenere la sovranità sui territori perduti due anni
prima. Uno dei principali atti della Conferenza fu l’accordo greco-ottomano per lo

10ZÜRCHER, Storia della Turchia, cit., pp. 175-190. Sulla distruzione di Smirne si veda H. GEORGELIN, La fin de
Smyrne. Du cosmopolitisme aux nationalismes, Paris, CNRS Éditions, 2005
8
scambio di popolazioni: per impedire ulteriori “pulizie etniche”, per la prima volta nella
storia, ci si accordò per un trasferimento concordato che portò 1,2 milioni di musulmani
a trasferirsi nell’Impero ottomano e circa 350 mila greco-ortodossi a spostarsi dall’Asia
Minore alla Grecia. Il trattato di Losanna, firmato il 24 luglio 1923, pur non venendo
totalmente incontro alle aspirazioni della delegazione ottomana, riconobbe la piena
sovranità ottomana sull’intera Anatolia e la Tracia, il territorio su cui prese forma
nell’ottobre di quell’anno la Repubblica di Turchia.11

Il “nuovo” Medio Oriente

La Turchia, riconosciuta a livello internazionale a Losanna, dal punto di vista territoriale


corrispondeva all’area controllata dagli ottomani al momento dell’armistizio del 1918,
con l’eccezione di Mossul e di Alessandretta (Iskenderun), assegnate agli Stati
confinanti. All’interno dei suoi confini, insieme ai turchi, abitavano curdi, arabi e altri
gruppi etnici minoritari. Si trattava, infatti, di ciò che restava della vasta compagine
ottomana, di cui la Turchia ereditava anche il pluralismo etnico. L’unica grande
differenza rispetto al periodo precedente la guerra era la pressoché totale cancellazione
delle comunità cristiane: ad eccezione dei greci di Istanbul – esclusi dallo scambio di
popolazioni del 1923 – e a poche migliaia di armeni, la Turchia era ormai un paese
completamente musulmano. La drammatica dissoluzione dell’Impero, dopo cinque secoli
di dominio su tre continenti, i traumi connessi alla catena di espulsioni forzate e
massacri, l’umiliazione subita a Sèvres, lo stravolgimento demografico e sociale
prodotto dalla guerra, contribuirono a spingere la dirigenza turca a voltare pagina
rispetto al passato. Per Mustafa Kemal (il quale in seguito prese il nome di Atatürk,
“padre” dei turchi) occorreva edificare uno “Stato nuovo”, a cominciare dalla capitale
Ankara, preferita a Istanbul, considerata troppo cosmopolita e identificata con il
califfato. Nella visione kemalista, infatti, la Turchia doveva essere repubblicana, laica e
nazionalista, in aperta rottura con il pluralismo imperiale governato dalla dinastia
islamica ottomana. La rimozione del passato ottomano era funzionale alla “rivoluzione”
kemalista tesa a realizzare una palingenesi politica, sociale e antropologica, finalizzata
a forgiare anche un “nuovo uomo turco”. Il regime kemalista, monopartitico, costruito

11Sullo scambio di popolazioni greco-turco si veda R. HIRSCHON (ed.), Crossing the Aegean. An Appraisal of the 1923
Compulsory Population Exchange between Greece and Turkey, New York, Berghahn, 2003.
9
attorno al Partito Repubblicano del Popolo (CHP), conobbe un’evoluzione autoritaria,
tesa ad inquadrare il più possibile le masse nel perimetro dello Stato nazionale.
Indebolito sul piano territoriale, lo Stato repubblicano aveva, infatti, di fronte la sfida di
costruire una più salda coesione interna attraverso un processo di nazionalizzazione dei
suoi abitanti. La “turchizzazione” del paese prese avvio a partire dal 1923, imponendo
lingua e identità turca all’insieme della popolazione, compresi quanti – come i curdi –
non vi si riconoscevano. Le comunità cristiane rimaste – le uniche riconosciute come
“minoranza” insieme agli ebrei – rimasero sospese tra l’assimilazione e l’essere
considerate “nemici interni”. L’ossessione per le possibili minacce esterne e la fobia per
le componenti non-turche all’interno, costituiscono un aspetto rilevante per
comprendere lo sviluppo del nazionalismo turco kemalista.12 In questo quadro si pone
anche la politica di laicizzazione dello Stato: pur riconoscendo il carattere islamico del
paese, Mustafa Kemal procedette a sopprimere le fondazioni pie musulmane, le
confraterinite sufi, le scuole coraniche. Oltre a introdurre una discontinuità con il
passato, in nome di un modello più “moderno” di società, tali misure intendevano
impedire che le organizzazioni islamiche potessero diventare un contropotere del
kemalismo. La laicità turca si è configurata, perciò, non tanto come separazione tra
politica e religione, ma piuttosto come una forma di rigido controllo politico sulle
molteplici espressioni religiose musulmane per creare un Islam “di Stato”.13 L’apice di
questa azione fu, nel 1924, l’abolizione del califfato che eliminò il principale punto di
riferimento del mondo musulmano. Il venir meno di un centro e di un orizzonte
universale comune, spinse la galassia islamica a frammentarsi secondo logiche nazionali
ma produsse, per contro, anche movimenti trasnazionali (come i “Fratelli musulmani”
nati in Egitto negli anni ’20) che, a partire da un “ritorno” alle autentiche fonti
dell’Islam, hanno cominciato a coltivare il sogno di una nuova unità islamica, mettendo
in pratica i dettami di un’inedita ideologia politico-religiosa destinata a esercitare una
profonda influenza sulle masse musulmane nel corso del Novecento e oltre. Per questa
ragione il 1924 rappresenta una data chiave per comprendere le vicende dell’Islam
contemporaneo.14

12 H. BOZARSLAN, La Turchia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 35-49.

13Sulla laicità turca si veda R. BOTTONI, Il principio di laicità in Turchia. Profili storico-giuridici, Milano, Vita e
Pensiero, 2012, pp. 73-97.

14 G. KEPEL, Jihad ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Roma, Carocci, 2001, pp. 27-33.
10
Dopo la prima guerra mondiale si aprì una nuova stagione anche per le popolazioni
arabe. Nella fase finale dell’Impero, durante il regno di Abdul-Hamid II, il governo
ottomano aveva fortemente rinsaldato i legami con le sue province arabe in una
prospettiva pan-islamica, con interventi tesi a modernizzare tali regioni e coinvolgendo
maggiormente le élites locali nell’amministrazione. L’avanzamento della
centralizzazione statale, specie durante il governo del CUP, aveva suscitato tra molti
notabili arabi tendenze autonomiste che, però, tenevano insieme ottomanismo ed
arabismo, senza progetti espliciti volti all’indipendenza nazionale. Fino alla fine della
prima guerra mondiale gran parte degli arabi ottomani rimasero fedeli all’Impero.15
Questo non significa che nei decenni precedenti non si fosse sviluppato, nel contesto
arabo-ottomano, un discorso “nazionale”, per quanto esso abbia avuto un’elaborazione
complessa e a tratti incompiuta. Nel corso del XIX secolo, infatti, le province arabe
ottomane erano state interessate da diverse correnti di rinnovamento: l’influenza, da
una parte, dell’Egitto “francesizzato” dopo la spedizione napoleonica del 1798, e i
crescenti scambi tra i porti del Levante e i centri europei, dall’altra, produssero nuovi
fermenti che si saldarono ai cambiamenti introdotti dalle riforme ottomane. Mutamenti
sociali, crescita economica e scambi sempre più intensi produssero tra gli arabi ottomani
una corrente di rinascita culturale (Nahda) che costituì una stagione particolarmente
feconda, con la fondazione di nuovi giornali, riviste, istituzioni culturali tese a rilanciare
la lingua araba, come veicolo di nuovi saperi, ma anche come fattore identitario per
popolazioni eredi di una delle grandi civiltà mediorientali.16 Nell’area compresa tra la
regione siro-libanese e l’Egitto, prese forma una nuova consapevolezza dell’ “essere
arabi” facendo emergere, per la prima volta, un’identità capace di trascendere le
appartenenze religiose. I cristiani arabi, in particolare, furono tra i principali
protagonisti della Nahda, sia perchè maggiormente in contatto con l’Europa, sia in
ragione della loro condizione “minoritaria” che li sollecitò a cercare nuove forme di
identità collettive in grado di superare le differenze, e le conflittualità, religiose con la
maggioranza musulmana.17 Anche diversi intellettuali musulmani sostennero il
rinnovamento culturale arabo, sebbene il notabilato più implicato nelle istituzioni

15 Sulle origini del nazionalismo arabo si veda R. KHALIDI, L. ANDERSON, M. MUSLIH, R.S. SIMON (eds.), The Origins
of Arab Nationalism, New York, Columbia University Press, 1991, pp. 3-49.

16 I. CAMERA D’AFFLITTO, Letteratura araba contemporanea, Roma, Carocci, 2002, pp. 19-33.

17 G. DEL ZANNA, I cristiani e il Medio Oriente, op. cit., pp. 211-212.


11
imperiali si mostrava in genere più sensibile al pan-islamismo califfale che alla
prospettiva “nazionale”. Emigrazione e circolazione delle idee favorirono il dibattito
sull’ “arabità” all’interno delle province arabe ottomane che presentavano, tuttavia, un
elevato pluralismo religioso e differenze di interessi tali da rendere complicata
l’elaborazione di un’identità comune spendibile anche a livello politico. La dissoluzione
dell’Impero ottomano cambiò ulteriormente lo scenario.
La diplomazia britannica aveva previsto la nascita di uno Stato arabo indipendente, ma
quando fu il momento di ridisegnare gli assetti mediorientali vennero meno molte
considerazioni sui diritti “nazionali” dei diversi popoli, prevalendo le logiche degli
equilibri geopolitici tra le potenze vincitrici. La divisione territoriale delle province
arabe favorì pertanto la frammentazione del movimento nazionalista. Nel 1920, l’avvio
del mandato francese sulla regione siro-libanese segnò il tramonto del progetto di Faysal
Ibn al-Hussein – figlio dello sceicco della Mecca – di guidare un regno indipendente nella
“grande Siria”. I francesi intesero il mandato come un prolungamento della loro
“missione civilizzatrice”, comportandosi da dominatori sull’unica regione che possedeva
una propria identità anche in epoca ottomana. Il governo francese suddivise il territorio
in quattro “stati” (Siria, Libano, regione dei drusi e quella degli alawiti), favorendo un
modello “comunitarista” per contrastare l’affermazione di un comune progetto
nazionale siriano. Durante gli anni Venti, l’opposizione siriana – formata da musulmani e
cristiani (soprattutto i greco-ortodossi diffidenti verso la Francia “cattolica”) – cercò di
combattere i disegni francesi, senza alcun esito. Ciò nonostante, la comune lotta delle
diverse componenti religiose favorì la crescente laicizzazione del movimento
nazionalista. Le borghesie urbane siriane si organizzarono in un primo movimento
politico (Blocco Nazionale) che, adottando una linea più conciliante, cercò di allargare
gli spazi della propria azione politica, un disegno che si dovette, però, scontrare con la
rigida subordinazione alle direttive francesi, mentre le divisioni territoriali, soprattutto
quella con il Libano, danneggiavano sempre più il commercio e l’industria locale. Il
movimento nazionale siriano, perciò, si riorganizzò unificando le sue diverse anime e
negoziò con la Francia un accordo per l’indipendenza, firmato nel 1936, anche se
l’avvicinarsi del secondo conflitto mondiale ne procrastinò l’attuazione. La decisione
della Francia, nel 1939, di cedere il distretto di Alessandretta (Iskenderun) – regione
mista abitata da turchi e arabi – alla Turchia, in violazione del mandato, riaccese gli

12
animi dei nazionalisti siriani convincendoli della necessità di creare un fronte pan-arabo
per contrastare il colonialismo occidentale.18
Nel Libano mandatario, che negli anni immediatamente successivi alla guerra era
diventato rifugio di molti cristiani orientali (armeni e siro-ortodossi) scampati ai
massacri, il sistema ruotava attorno alla centralità della comunità cattolica maronita
che nel 1919 a Parigi aveva avanzato la richiesta dell’indipendenza. Nel “grande Libano”
creato dai francesi, nel quale erano compresi sunniti, sciiti e la minoranza drusa, i
cristiani rappresentavano però solo la metà della popolazione. Con il mandato si
formarono le istituzioni e l’amministrazione del futuro Stato indipendente, ma prese
avvio anche il processo di confessionalizzazione della politica: con la Costituzione del
1926, infatti, fu introdotta – in via provvisoria – la ripartizione delle cariche politiche
secondo il peso demografico delle comunità religiose, nell’intento di preservare il
pluralismo della società libanese. Tale sistema, tuttavia, tese a consolidarsi sul lungo
periodo, introducendo una logica “settaria” nella politica libanese.19 Il Libano non si
configurava più come lo Stato dei maroniti e durante gli anni Trenta, sia i mutamenti
demografici più favorevoli ai musulmani, sia la scelta dei sunniti di abbandonare la linea
pan-araba, permise la progressiva convergenza tra le due principali comunità, premessa
all’indipendenza nazionale definitivamente raggiunta nel 1943.20
Pur di scongiurare la formazione di uno stato arabo nella grande Siria, i francesi fecero
ampie concessioni agli inglesi sulla Palestina e in Mesopotamia, rinunciando a Mossul. Per
la prima volta la Palestina acquisì una configurazione territoriale più definita e con
l’amministrazione britannica si sviluppò la modernizzazione della regione, anche se il
contrasto tra la popolazione locale e il movimento sionista rendeva complessa la
gestione del paese. L’acquisto di terre agricole da parte dei coloni e la creazione di
nuovi insediamenti ebraici introdusse rilevanti cambiamenti socio-economici, tra cui
anche l’inurbamento di una parte della popolazion palestinese. Esisteva, tuttavia, una
marcata interdipendenza economica tra le due comunità, benchè le élites da ambo le
parti spingessero per la separazione. Nella società palestinese restavano profonde
differenze tra le campagne, rette ancora da un regime agrario tradizionale fondato sul

18 L.TROMBETTA, Siria. Dagli ottomani agli Assad. E oltre, Milano, Mondadori, 2013, pp. 53-73.

19Le radici storiche del “settarismo” nel sistema politico libanese sono indagate da U. MAKDISSI, The Culture of
Sectarianism. Community, History, and Violence in Ninetheenth-Century Ottoman Lebanon, Berkeley, University of
California Press, 2000.

20 R. DI PERI, Il Libano contemporaneo, Roma, Carocci, 2009, pp. 24-31.


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potere dei notabili, e le città dove una nuova classe urbana – cristiana e musulmana – si
mostrava sensibile al verbo nazionalista pur essendo priva di una dirigenza politica
riconosciuta, ruolo che progressivamente fu assunto dalle autorità religiose, in primis il
gran muftì di Gerusalemme. La nascita della Palestina mandataria segnò la sconfitta del
progetto della “Grande Siria” sostenuto dalle élites arabe locali, venendo maggiormente
incontro agli interessi sionisti sostenuti dalla dichiarazione Balfour. A partire dal 1920,
sotto l’amministrazione civile del commissario di origini ebraiche Herbert Samuel, il
governo inglese favorì la graduale assunzione dei progetti sionisti nella politica
britannica, pur cercando di salvaguardare gli equilibri nel campo arabo. Fu tale
preoccupazione a spingere il governo inglese a non annettere la Transgiordania alla
Palestina, come invece auspicavano i sionisti, per farne un regno arabo autonomo
affidato ad Abdallah ibn Hussein, uno dei fratelli di Feysal. Successivamente, gli accordi
anglo-giordani del 1923 posero le basi per il consolidamento del potere hashemita nella
regione.
Sotto il mandato britannico, la comunità sionista si consolidò secondo una visione
propriamente “nazionale”. Dotati di una classe dirigente autorevole e di proprie
istituzioni amministrative, sociali e culturali per la gestione interna della comunità, i
sionisti riuscirono a far coincidere progressivamente lo Yishuv, cioè lo Stato parallelo
creato dai coloni ebrei sin dalla fine del XIX secolo, con quello mandatario. Le tensioni
tra sionisti e palestinesi si accrebbero, sfociando nella rivolta del 1929, frutto in gran
parte del disagio dei contadini arabi. La violenza irrigidì le posizioni tra le due comunità,
rendendo difficile qualsiasi collaborazione nel governo mandatario. I sionisti reagirono
rafforzando i loro apparati paramilitari di difesa, e procedettero, lungo gli anni Trenta, a
rafforzare l’autonomia politica ed economica dell’ “enclave sionista”. Ciò ebbe
importanti ricadute sui rapporti agrari e sulle relazioni commerciali con la comunità
araba. Le campagne palestinesi s’impoverirono, spingendo molti contadini verso le città,
il cui sviluppo richiamava nuova manodopera. Cambiamenti sociali e disagio economico
furono all’origine, nel 1936, di una nuova rivolta nelle campagne che, priva di guida
politica e di legami organici con il movimento nazionalista, fu facilmente repressa dagli
inglesi. Alla vigilia della guerra mondiale, le divisioni interne alla società palestinese ne
indebolivano le iniziative politiche, mentre nella comunità sionista si faceva strada
sempre più l’idea di una soluzione militare al problema palestinese.21

21 I. PAPPE, Storia della Palestina moderna, Torino, Einaudi, 2005, pp. 90-133.
14
Più complessa risultò la definizione degli assetti dell’Iraq, altro nuovo Stato che prese
forma per addizione di territori che dovevano formare una fascia a difesa delle province
meridionali attorno a Bassora. Costruito lungo l’asse Bassora-Baghdad-Mossul, il regno
iracheno ha unito territori disomogenei sul piano economico, sociale e demografico. Il
pluralismo etnico e confessionale del paese, inoltre, ha reso difficoltosa la sua unità
nazionale. Tra i musulmani, erano forti i contrasti tra la maggioranza sciita e i sunniti,
storicamente detentori del potere nella regione. L’indipendenza nazionale era stata,
perciò, avanzata soprattutto dagli sciiti i quali, maggiormente legati alla Persia per
ragioni religiose e culturali, risultavano perciò meno sensibili all’arabismo. A rendere
debole l’identità araba in Iraq contribuivano, inoltre, le popolazioni cristiane (caldei ed
assiri) e la componente curda, radicate nel nord-est del paese. Una volta venuto meno
l’Impero ottomano, il mosaico iracheno si mostrò da subito di difficile gestione per le
autorità britanniche che preferirono affidarsi ai quadri dirigenti sunniti, ritenuti più
affidabili, escludendo dal potere gli sciiti. Allo stesso modo, per garantirsi il controllo sui
giacimenti petroliferi del nord, gli inglesi inclusero i curdi nello Stato iracheno,
ignorando le loro aspirazioni nazionali riconosciute a Sèvres.22 Tensioni e contrasti
etnico-religiosi furono all’origine dei disordini che scoppiarono all’avvio del mandato
britannico, spingendo gli inglesi a dare al paese un governo autonomo che fosse il più
possibile riconosciuto dalla popolazione araba, affidato a Feysal Ibn Hussein. L’identità
nazionale irachena nel tempo ha permesso di cementare i rapporti tra le diverse
comunità anche se il nuovo regno iracheno, unificato attorno ad istituzioni moderne,
portava in sé divisioni pronte a riemergere nei momenti più acuti di crisi.23
Già regno autonomo sotto l’Impero ottomano e dal 1882 “protettorato” britannico,
l’Egitto vantava un profilo del tutto particolare, presentandosi come l’unico paese del
Medio Oriente arabo dotato di una moderna struttura statuale e di un’identità
“nazionale”, le cui radici affondavano non tanto nella civiltà araba, quanto piuttosto nel
proprio passato egizio-copto. Tra il XIX e il XX secolo, in reazione al dominio britannico,
si era sviluppata nel paese una crescente convergenza di interessi tra musulmani e
cristiani (la Chiesa copta egiziana è ancora oggi la più numerosa comunità cristiana

22 M. GALLETTI, Storia dei curdi, Roma, Jouvence, 2004, pp. 191-199.

23 P-J. LUIZARD, La questione irachena, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 13-45.


15
orientale) all’origine del movimento nazionale24. Il suo leader, Said Zaghlul, si presentò
nel 1918 alle autorità britanniche con una delegazione (Wafd) per chiedere
l’indipendenza dell’Egitto. Londra, tuttavia, non intendeva rinunciare al controllo di
un’area cruciale soprattutto per la presenza del canale di Suez, punto strategico nelle
relazioni euro-asiatiche. A seguito della rivolta del 1919, gli inglesi con una dichiarazione
unilaterale concedettero l’indipendenza nel 1922, anche se la nuova monarchia
egiziana, guidata da re Fuad, rimase un paese a sovranità limitata nel quale gli inglesi
mantenevano saldamente il controllo di molti settori della politica e dell’economia. La
dialettica politica dell’Egitto, che nel 1923 si diede una nuova Costituzione, tese a
incentrarsi sui rapporti tra gli inglesi, il re e il Wafd il quale, pur essendo una
formazione politica interconfessionale rappresentativa del pluralismo egiziano, era una
realtà troppo elitaria, incapace di incidere a fondo sulla società. Nel corso degli anni
Venti la politica egiziana fu caratterizzata da una forte instabilità dovuta ai tentativi del
monarca di governare fuori dai limiti costituzionali, con l’appoggio di notabili fedeli alla
corona, ingaggiando un continuo duello con il Wafd, il principale partito nel parlamento.
La svolta autoritaria culminò nel 1930 con l’introduzione di una nuova costituzione
molto più restrittiva. Sotto la spinta inglese, tuttavia, si avviò un processo per ristabilire
assetti più equilibrati: gli effetti della crisi economica mondiale, l’espansionismo
italiano nel corno d’Africa, e la necessità di salvaguardare al meglio gli interessi
britannici nel paese, indussero a reintrodurre la precedente Costituzione, premessa
all’accordo del 1936 che sancì una più forte autonomia dell’Egitto, pur ipotecandone la
politica estera che rimase asservita alle direttive di Londra.25

L’Italia nel Mediterraneo

La formazione dello Stato italiano, nella seconda metà del XIX secolo, rappresentò
l’affermazione di un nuovo attore statuale all’interno del sistema europeo, ma anche un
evento tra i più significativi nella storia del Mediterraneo contemporaneo. Per il nuovo
Regno d’Italia, l’inserzione nelle dinamiche europee fu funzionale al consolidamento
interno e al rafforzamento del processo di nation building, ma – come è noto – tutto ciò
fu accompagnato anche da un deciso rilancio della proiezione mediterranea dell’Italia.

24P. PIZZO, L’Egitto agli egiziani! Cristiani, musulmani e l’idea nazionale (1882-1936), Torino, Zamorani, 2002, pp.
59-182.

25 M.CAMPANINI, Storia dell’Egitto contemporaneo, Roma, Edizioni Lavoro, 2005, pp. 62-95.
16
Europa e Mediterraneo costituirono due poli in relazione ai quali il nuovo Stato nazionale
italiano cercò la sua legittimazione. Mentre, però, il confronto con le altre potenze
europee evidenziava debolezze e ritardi del regno appena costituito, il contesto
mediterraneo offriva maggiore spazio all’affermazione delle ambizioni italiane.
Nella prima metà dell’Ottocento, il mondo ottomano, a partire dalla vicenda ellenica,
rappresentò una scuola a cui si ispirarono molti dei ´nazionalismi romantici` europei,
affascinati dai progetti insurrezionali balcanici che univano i principi illuministi al potere
evocativo e mobilitante della fede religiosa, in una miscela in cui il nazionalismo
tendeva ad assumere accenti mistici26. L’Oriente attirò intellettuali e agitatori, pronti ad
imitare i modelli cospirativi di logge massoniche e gruppi segreti che agivano tra le
pieghe del grande impero. Specie dopo il 1848, anche dall’Italia giunsero esuli e
rivoluzionari, mischiati alla crescente massa di operai e manovali attratti dalle
possibilità offerte dallo Stato ottomano che stava vivendo proprio allora una profonda
fase di modernizzazione27.
Con l’avvento dello Stato unitario, l’Italia s’inserì nello scacchiere di Levante alla
ricerca di un proprio spazio nel complesso gioco delle ´questioni d’Oriente`, sia pure
come ´l’ultima tra le grandi potenze`. Sin dall’inizio le dirigenze italiane rivolsero al
Mediterraneo un’attenzione particolare nella convinzione che essa fosse un’area di
espansione privilegiata, quasi la geografia, la cultura e la storia dell’Italia avessero
inscritto nella penisola una sua specifica ´vocazione mediterranea`28 . Una visione che si
legittimò attingendo ai trascorsi storici di Venezia e Roma, da poco annesse al Regno
d’Italia, così da saldare il processo risorgimentale all’aspirazione ad una rinnovata
proiezione italiana nell’area mediterranea29. Il mito del Mediterraneo come Mare
Nostrum accomunò settori diversi della politica e della società italiana, dai liberali ai
cattolici i quali non disdegnavano la prospettiva di veder tornare al cristianesimo terre

26 J. PLUMYÈNE, Le nazioni romantiche. Storia del nazionalismo nel XIX secolo, Firenze 1982, pp. 189-206.

27 S. LA SALVIA, La comunità italiana di Costantinopoli tra politica e società, in Gli italiani di Istanbul. Figure,
comunità e istituzioni dalle riforme alla Repubblica 1839-1922, a cura di A. DE GASPERIS - R. FERRAZZA, Torino 2007,
p. 30. Sulle diaspore nel Mediterraneo si veda anche M. ISABELLA – K. ZANOU, Mediterranean diasporas. Politics and
Ideas in the Long 19th Century, London 2016.

28 Su questi aspetti si rimanda a V.IANARI, Lo stivale nel mare, Milano 2006, pp. 19-43.

29 Si veda F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1997, pp. 295-305.
17
da secoli dominate dall’Islam30 . Ultima arrivata tra le potenze, l’Italia individuò
nell’area mediterranea e balcanica un ambito economico strategico per lo sviluppo
dell’industria nazionale. Acquisire una posizione a livello internazionale era necessario a
garantire la sicurezza della penisola ma anche a impedire di restar fuori dalla grande
partita apertasi sui diversi scenari extraeuropei che rischiava di essere monopolizzato
dalle altre potenze coloniali. Una linea su cui si attestò anche la successiva avventura
libica. Coerentemente all’idea di un passato glorioso, il nuovo Stato italiano puntò a
contare come moderno paese industrializzato, capace di una propria proiezione
internazionale che doveva necessariamente passare dallo sviluppo di una adeguata
marina mercantile e di una moderna flotta militare31 . Progressivamente la posizione
italiana nei confronti dell’Oriente tese così a mutare: esaurita la fascinazione per
l’Oriente ´culla della civiltà` e rifugio per gli esuli in cui coltivare progetti patriottici, si
fece largo la prospettiva della ´missione civilizzatrice` della nazione italiana: «L’Oriente
– scrive Petich nel 1863 - è dell’Italia […] la Turchia non è che un vecchio e incongruente
colosso»32. L’´arretratezza` ottomana sembrava creare le condizioni ideali allo sviluppo
dell’influenza italiana. Rispetto alle altre potenze – Francia, Austria-Ungheria, Gran
Bretagna e Russia – in vantaggio quanto a penetrazione nelle contrade ottomane, l’Italia
partiva indubbiamente da una condizione di debolezza, anche se poteva contare
sull’atout costituito dall’insediamento secolare di comunità italiane nei porti e nelle
principali città ottomane, una presenza che sin dal Medioevo aveva creato vivaci colonie
rafforzate nel tempo dalle reti delle istituzioni missionarie cattoliche.33 Questi antichi
insediamenti italiani conobbero, tra il XIX e il XX secolo, nuovo slancio, grazie
all’immigrazione dall’Italia e alla crescente protezione esercitata dal governo di Roma.
L’Italia era l’ultima arrivata in Oriente, ma c’erano italiani che vi risiedevano da
generazioni. Nella seconda metà del XIX secolo, l’Italia nel Mediterraneo orientale era
soprattutto una rete di presenze prima ancora che una politica strutturata. Il caso di
Costantinopoli era emblematico: gli italiani costituivano la prima comunità straniera,
con esponenti inseriti in ruoli di rilievo nell’amministrazione imperiale e in campo

30 O. TAMBURINI, «La via romana sepolta dal mare»: mito del Mare Nostrum e ricerca di un’identità nazionale, in
Mare Nostrum. Percezione ottomana e mito mediterraneo in Italia all’alba del ‘900, a cura di S. TRINCHESE, Milano
2005, pp. 41-95.

31 D.J. GRANGE, L’Italie et la Méditerranée (1896-1911), 2 voll., Roma 1994, pp.

32 LA SALVIA, La comunità italiana di Costantinopoli, cit., p. 36.

33 IANARI, Lo stivale nel mare, cit., pp. 52-61.


18
culturale. La comunità italiana stambuliota superava le altre per dimensioni e per il
numero di istituzioni culturali, associative e ricreative34.
Con l’affacciarsi dell’Italia nel Mediterraneo orientale, mutò il ruolo delle ´colonie`
italiane - così cominciarono ad essere chiamate – presenti nel mondo ottomano: agli
occhi della dirigenza italiana esse costituivano un importante mercato di sbocco, una
posta da difendere di fronte alle altre potenze europee e una preziosa ´avanguardia`
nella sua politica di penetrazione nel mondo ottomano. La politica italiana si pose,
pertanto, in continuità con quella sabauda che, nei decenni precedenti, aveva cercato in
maniera più compiuta rispetto a tutti gli altri Stati italiani, di porsi a ´tutela` delle
comunità italiane sparse nei diversi centri dell’Impero. Non si trattava, però, di un
rapporto immediato né scontato. L’italianità nel Levante, infatti, era vissuta in modo
diverso da quella ´nazionale` di recente formazione. Le comunità di italiani erano realtà
composite la cui diffusione lungo la riva meridionale del Mediterraneo rappresentava un
caso unico. Italiani vivevano non solo a Istanbul, ma anche in altre città dell’Impero
come Durazzo, Valona, Salonicco, Smirne, Bursa, Edirne, Aleppo, Damasco, Tripoli in
Libano, Beiruth, Alessandria d’Egitto. Abitanti italiani erano registrati anche a
Iskenderun e a Trebisonda, sul Mar Nero, oltre che in diverse isole mediterranee come
Rodi, Mitilene, Chio35. Ma cosa significava essere italiani ottomani? Per molti voleva dire
discendere da famiglie di oriundi veneziani, genovesi e pisani. Contava poi la lingua: nei
quartieri europei di Istanbul non si parlava l’ottomano, ma l’italiano, insieme al greco e
al francese. Il fatto che l’importante trattato russo-ottomano di Kuçuk Kaynarcı del
1774, che sancì il dominio zarista sulle sponde settentrionali del Mar Nero, fosse stato
redatto in italiano ne testimonia il rilievo. Nel XIX secolo, l’italiano era ancora molto
diffuso soprattutto nelle città portuali, anche se nei ceti più colti e modernizzati tese ad
essere soppiantato dal francese. Tra i cosiddetti ´levantini` – sudditi ottomani di origine
europea – l’italiano era lingua veicolare, specie nelle classi medie, identificando un
milieu socio-culturale più che una vera e propria appartenenza nazionale. Capitava così
che molti non italiani parlassero italiano, mentre Giuseppe Garibaldi, incontrando un
gruppo di ´compatrioti` durante un suo soggiorno stambuliota, dovette constatare con
sorpresa che questi si esprimevano abitualmente in greco. La parlata dei levantini

34 Agli inizi del XX secolo gli italiani a Costantinopoli erano circa 14.000 (circa l’1 % della popolazione della capitale).
47 le imprese italiane operative in diversi settori, mentre all’interno della corte e dell’amministrazione imperiale diversi
erano gli italiani con ruoli di vertice. GRANGE, L’Italie et la Méditerranée, cit., vol.1, pp. 484-491.

35 I. ORTALY, Gli Italiani di Istanbul, in Gli italiani di Istanbul, cit., p. 45.


19
mescolava, infatti, parole italiane e greche36. Era un’identità composita che sommava
costumi, tradizioni e sensibilità diverse. A cementare il tutto era la fede cattolica. In
questo senso, la presenza di molti ordini religiosi e di missionari cattolici italiani,
rappresentò un importante vincolo con la penisola e un’iniezione - più culturale che
politica - di italianità tra i levantini37 . Il governo italiano avrebbe potuto far leva su
questo se non lo frenasse l’anticlericalismo delle sue dirigenze che fino a tutta l’età
crispina cercò di affermare il ruolo dell’Italia in Oriente mettendosi in molti casi in
concorrenza con le istituzioni missionarie, specie quelle scolastiche38. L’immigrazione
dall’Italia, soprattutto di operai e capomastri, andò a infoltire le fila della colonia
italiana ottomana che beneficiò anche del trasferimento di diverse famiglie di ebrei
´livornesi`, sefarditi italianizzati che intrattenevano una fitta rete di relazioni
commerciali tra le sponde del Mediterraneo. A tutto questo occorre aggiungere i sudditi
ottomani che scelsero di naturalizzarsi italiani per godere dei regimi di protezione
garantiti dalle Capitolazioni. In questa prospettiva, perciò, è opportuno parlare di una
´levantinità italiana` verso cui lo Stato cercò di esercitare una crescente tutela. La
classe politica italiana era consapevole dei vantaggi costituiti da questa presenza e dalle
posizioni ricoperte dagli italiani d’Oriente, agendo in modo da rafforzare il più possibile
la coesione di tali colonie. Ma si trattava di una realtà del tutto particolare: agli inizi del
Novecento, la studiosa dell’emigrazione italiana, Amy Bernardy, nel suo La via
dell’Oriente (1915), scrive in proposito: «Le nostre colonie, che, di regionali divenute
italiane, sono qualche cosa di meno e qualche cosa di più di quelle transoceaniche
perché c’erano prima che l’Italia ufficialmente ci fosse»39 . Per i levantini ´italiani` il
passaggio all’identità collettiva nazionale avvenne attraverso il travaglio di due guerre:
quella libica del 1911 – che per la prima volta li rese nemici dell’Impero e,
provvisoriamente, esuli; e poi la Prima Guerra Mondiale che frammentò la comunità

36R. MARMARA, Lessico etimologico delle parole greche mutuate dall’italiano. Gli italiani di Costantinopoli nel
periodo dell’apogeo e la loro influenza linguistica sul greco levantino, Istanbul 2008.

37 Agli inizi del XX secolo, il Vicariato apostolico di Costantinopoli contava 25 congregazioni religiose, 820 religiosi e
60 opere tra scuole, ospedali, dispensari e case di riposo. Gran parte dei religiosi e delle suore erano italiani. S. VAILHÉ,
Eglise de Constantinople, in Dictionnaire de Théologie Catholique, vol. III, Paris 1938, pp. 1509-1515. Si veda anche
R. MARMARA, İstanbul Latin Cemaati ve Kilisesi. Bizans İmparatorluğu’ndan Günümüze, Istanbul 2006, pp. 139-176.

38 Su questi aspetti si veda S. DE NARDIS, La patria insegnata in Oriente. Politiche e istituzioni scolastiche italiane
oltreadriatico 1880-1945, in Adriatico contemporaneo. Rotte e percezioni del mare comune tra Ottocento e Novecento,
a cura di S. TRINCHESE, Milano 2008, pp. 167-178.

39La citazione di Amy Bernardy è riportata nel saggio di M. TIRABASSI, Nazionalismo e colonie italiane d’Oriente:
Amy Bernardy a Istanbul, in Gli Italiani di Istanbul, cit., p. 257.
20
levantina secondo più marcate appartenenze nazionali, benché la scelta per l’una o
l’altra bandiera sia avvenuta talvolta più per necessità che per convinzione40 .
L’Impero ottomano era tutt’altro che uno scenario periferico per la politica europea
affaccendata attorno alle sorti della traballante compagine imperiale, incerta tra
mantenerne l’integrità o dare corso alla sua spartizione, mentre Costantinopoli, per
dimensioni e rilievo geo-politico, rappresentava una delle grandi metropoli dell’epoca. A
cavallo tra XIX e XX secolo, la capitale ottomana era una piazza in cui si giocavano e
decidevano molti dei destini europei. Lo si comprende anche dall’itinerario di un grande
diplomatico italiano come Carlo Sforza, chiamato alla sede di Costantinopoli con
differenti incarichi nel 1901 e nel 1908 per poi essere nominato Commissario per gestire
la delicata fase seguita all’armistizio di Mudros del 1918. In Oriente, la diplomazia
italiana si doveva muovere su un terreno impervio che andava a toccare la sovranità
dello Stato ottomano o i diritti acquisiti da altre potenze, con la necessità di usare tutte
le accortezze per destreggiarsi in modo tale da salvaguardare, organizzare e rafforzare
l’italianità delle comunità senza suscitare diffidenze o – peggio ancora – compromettere
le proprie alleanze41 . Va notato, per inciso, che nonostante rilevanti interessi e un forte
coinvolgimento dell’Italia nello scenario ottomano, manchi ancora una ricostruzione
storica complessiva della politica italiana nell’Impero ottomano dall’Unità alla prima
guerra mondiale.
La guerra in Libia rappresentò una forte incrinatura nei rapporti italo-ottomani, fino a
quel momento favorevoli, riverberandosi sulle comunità italiane che subirono, a seguito
dell’occupazione del Dodecanneso, l’espulsione. Decine di migliaia di italiani furono
costretti a lasciare l’Impero ottomano e solo una parte vi fece ritorno dopo la pace del
1912.42 Il controllo dell’arcipelago egeo da parte dell’Italia non fu dettato
semplicemente da ragioni militari legate al conflitto in Tripolitania ma rispondeva ad un
preciso disegno geopolitico di rafforzamento dell’influenza italiana nel Mediterraneo
Orientale, di cui era parte anche la penetrazione economica in Asia Minore avviata già

40 A. PANNUTI, Levantinità e mitologia, in Gli Italiani di Istanbul, cit., p. 76.

41 GRANGE, L’Italie et la Méditerranée, cit., p. 1524.

42Sull’espulsione degli italiani dall’Impero ottomano nel 1912 si veda il recente studio di D. DE LORENTIIS, Italiani
espulsi dall’Impero Ottomano. Il fondo “Contenzioso” del Ministero degli Affari Esteri (1911-1913), in Puglia e
Grande Guerra, a cura di F. ALTAMURA, Nardò 2017, pp. 44-63.
21
sul finire del XIX secolo43. Solo tenendo conto di questo fondamentale dispositivo geo-
strategico che dalla Tripolitania si prolungava fino a Rodi per terminare in Asia Minore,
nel quadrante compreso tra Smirne e Antalya, si può comprendere la condotta italiana
nei confronti dell’Impero ottomano durante gli anni del primo conflitto mondiale, a
cominciare dalla riluttanza di Roma a dichiarare guerra alla Sublime Porta una volta rotti
gli indugi e scelta l’alleanza con l’Intesa. Solo mantenendo le posizioni acquisite, l’Italia
poteva aspirare ad avere voce in capitolo nei futuri assetti post-ottomani, sia nel caso
del mantenimento dell’Impero sia in un’eventuale sua spartizione.
Allo scoppio del conflitto mondiale, Italia e Impero ottomano si ritrovarono accomunate
dallo stato di neutralità. Una volta, però, entrato in guerra a fianco degli Imperi
centrali, nell’ottobre del 1914, il governo ottomano cercò di stringere i rapporti con
l’Italia in quanto membro della Triplice Alleanza proponendo un’intesa che venne, però,
rifiutata da parte italiana con la motivazione di non compromettere la propria
neutralità44 . In realtà a Roma si valutava negativamente l’appello alla jihad proclamato
dal Sultano-Califfo, Mehmet V, che mirava a sollevare le masse islamiche nelle colonie
occidentali, un atto considerato ostile dagli italiani per i possibili riflessi tra le
popolazioni musulmane libiche45. Il governo italiano, inoltre, stava avviando le trattative
in seguito sfociate nel patto di Londra: nell’accordo, nella parte relativa ai compensi
territoriali in caso di vittoria, si faceva riferimento all’eventuale spartizione dell’Impero
Ottomano, con l’assegnazione all’Italia di una parte della regione di Adalia, su cui
vantava già dei diritti che sarebbero stati riconosciuti anche in caso di mantenimento
dell’integrità dell’Impero46. Pur di scongiurare l’intervento italiano a fianco dell’Intesa,
la diplomazia ottomana – sul finire del ’14 – cercò invano un accordo con Roma,
mostrandosi disponibile a cedere Rodi, la regione di Adalia, la città di Sollum sul confine

43 Sulla penetrazione economica italiana nell’Impero ottomano si veda M. PETRICIOLI, L’Italia in Asia Minore.
Equilibrio mediterraneo e ambizioni imperialiste alla vigilia della prima guerra mondiale, Firenze 1983; si veda anche
il recente studio di G. CONTE, Il tesoro del sultano. L’Italia, le grandi potenze e le finanze ottomane 1881-1914,
L’Aquila 2018. Occorre osservare, invece, come manchi ancora uno studio completo sul dominio italiano nel
Dodecaneso ottomano, tema su cui offre alcuni validi spunti e osservazioni storiografiche il saggio di N. DOUMANIS,
Una faccia, una razza. Le colonie italiane nell’Egeo, Bologna 2003, pp. 18-21.

44 L’ambasciatore a Costantinopoli Garroni al Ministro degli esteri Sonnino, 16 novembre 1914, Documenti
Diplomatici Italiani (d’ora in poi DDI), a cura del MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI, serie V, vol. II, Roma 1984, p. 178.

45Si veda la comunicazione del Ministro degli Esteri, Sonnino, al Ministro delle Colonie, Martini, e all’ambasciatore a
Costantinopoli, Garroni, 18 novembre 1914, DDI, serie V, vol. II, pp. 192-193. Sull’appello alla jihad proclamata
dall’Impero ottomano si rimanda a Jihad and Islam in World War I, a cura di E.J. ZÜRCHER, Leiden 2016. Si veda anche
G. DEL ZANNA, Islam e mobilitazione alla guerra nell’Impero ottomano, «Annali di scienze religiose», 8, 2015, pp.
201-218.

46 Si veda l’art. 9 dell’Accordo di Londra del 26 aprile 1915, DDI, serie V, vol. III, p. 372.
22
libico-egiziano, fino a riconoscere come italiani i libici al momento presenti sul territorio
ottomano47 .
L’ingresso in guerra dell’Italia contro l’Austria scatenò una dura campagna della stampa
ottomana contro il governo di Roma e il re. Da questo momento la posizione delle
comunità italiane nell’Impero - specie le due principali di Costantinopoli e Smirne - si
fece sempre più critica. A preoccupare la diplomazia italiana era anche il fatto che
l’abolizione delle Capitolazioni, decretata il 1 ottobre ’14, ponendo fine al regime di
privilegio e protezione goduta dai cittadini stranieri, metteva a rischio i beni e la
sopravvivenza stessa delle colonie italiane48 . Nei mesi che seguirono, l’Italia cercò di
mettere in sicurezza gli interessi italiani affidandoli - in caso di totale rottura delle
relazioni con l’Impero ottomano – agli Stati Uniti e, al tempo stesso, organizzò
l’evacuazione dei connazionali via mare. La necessità di non compromettere la delicata
situazioni degli italiani in Oriente, spinse l’Italia a rimandare il più possibile la
dichiarazione di guerra contro l’Impero ottomano - presentata il 21 agosto del ’15 -
nonostante le forti pressioni degli alleati, in difficoltà nella campagna dei Dardanelli. La
riluttanza italiana contribuì a rafforzare la diffidenza di Parigi e Londra nei confronti di
Roma che, di fatto, fu emarginata dai piani relativi ai futuri assetti del Medio Oriente.49
La necessità di tutelare la presenza italiana in Oriente e i tagli imposti da Cadorna, il
quale riteneva di scarso rilievo i teatri di guerra secondari, fecero sì che anche
l’impegno bellico italiano si attestasse ai margini dello scenario ottomano,
concentrandosi esclusivamente sulla difesa e il consolidamento dei presidi costieri in
Libia e del Dodecaneso50 .
La mancanza di un impegno diretto dell’Italia sui fronti ottomani limitò enormemente i
margini di manovra del governo italiano al tavolo della pace. Già nell’estate del ’17
quando emissari ottomani avanzarono proposte per una pace separate all’Intesa, nelle
trattative gli interlocutori furono inglesi e francesi, mentre gli italiani furono relegati in

47
Il Ministro degli Esteri Sonnino agli ambasciatori a Berlino, Bollati, e a Costantinopoli, Garroni, 24 novembre 1914,
DDI, serie V, vol. II, pp. 232-233.

48Sull’abolizione delle Capitolazioni da parte del governo ottomano si veda S.J. SHAW, The Ottoman Empire in World
War I, I, Ankara 2006, pp. 238-285.

49L. RICCARDI, Alleati non amici: le relazioni politiche tra l’Italia e l’Intesa durante la prima guerra mondiale,
Brescia 1992, pp. 305-320.

50 N. LABANCA, La guerra italiana per la Libia 1911-1931, Bologna 2012, pp. 134-135. Il 26 aprile 1917 il governo
italianò stipulò un modus vivendi con il nuovo capo dei Senussi libici, Mohammed Idris, che, pur non risolvendo diversi
nodi rimasti aperti dalla conquista italiana nel 1911, permise di pacificare la colonia fino al termine della guerra.
23
secondo piano. A indebolire ulteriormente la posizione italiana fu la decisione della
Grecia di entrare in guerra a fianco dell’Intesa. Dopo aver vinto le resistenze della
monarchia ellenica animata da sentimenti filo-germanici, Venizelos poté far pesare il
prezioso apporto delle truppe greche, rafforzando le aspirazioni di Atene in Asia Minore.
Agli occhi di Gran Bretagna e Francia, la Grecia, oltre ad offrire forze fresche utili
soprattutto a gestire la fase post-bellica, rappresentava un alleato ideale per
contrastare le aspirazioni italiane nei Balcani e nel Mediterraneo. Vinta la guerra, per
Parigi e Londra si poneva il problema di venire incontro alle necessità dell’Italia,
cercando però, al tempo stesso, di limitare un’eccessiva influenza italiana nell’area
balcanico-mediterranea dove Roma poteva giocare un ruolo concorrenziale
indubbiamente maggiore di qualsiasi altro paese presente nell’area. Il crollo dell’Impero
asburgico e la sconfitta ottomana, infatti, avevano creato un vuoto in cui poteva
inserirsi l’Italia la quale, pur disponendo di mezzi limitati, poteva contare sulla
contiguità geografica e la lunga presenza storica in tali regioni51. A differenza delle due
potenze alleate, inoltre, l’Italia era molto più implicata nei futuri assetti mediterranei
dai quali dipendeva il completamento dell’unificazione territoriale e una parte
considerevole della sua politica di sicurezza. Già dalla fine del XIX secolo, infatti, la
dirigenza italiana ebbe chiaro che la questione delle terre irredente era collegata a
quella d’Oriente. L’integrità dell’Impero ottomano, e quindi la stabilità nel
Mediterraneo, apparivano funzionali a garantire un periodo di stabilità per permettere
all’Italia di consolidarsi. La linea era stata, perciò, quella di rimandare più in là possibile
qualsiasi ipotesi di successione al vasto impero osmanli52 . Ciò spiega perché, terminata
la guerra, di fronte alla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico e alla più che probabile
spartizione della vasta compagine ottomana, la politica italiana trattasse la questione
adriatica in connessione con quella egea, con la seconda sostanzialmente subordinata
alla prima. Per l’Italia lo scopo del suo ingresso in guerra era stato principalmente quello
di «tutelare ed assicurare in modo permanente gli interessi nazionali supremi e vitali nel
Mediterraneo non meno che nell’Adriatico»53. Le due questioni, affrontate solitamente

51Si vedano le note introduttive a La vittoria senza pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande
Guerra, a cura di R. PUPO, Roma-Bari 2014, pp. IX-XI.

52G. FERRAIOLI, La visione dell’Adriatico dalla fine dell’Ottocento agli esordi del fascismo, in Adriatico
contemporaneo, cit., pp. 16-24.

53L’ambasciatore a Londra, Tittoni, al Ministro degli Esteri, Sonnino, 8 settembre 1916, cit. in L. RICCARDI, Alleati non
amici, cit., pp. 345-346.
24
sul piano storiografico separatamente, spiegano così anche alcune incertezze e
incongruenze dell’azione diplomatica italiana nelle trattative relative all’Anatolia.
Finito il conflitto, l’Italia si attestò sulla linea “Patto di Londra più Fiume”, convinta
che nel clima euforico della vittoria, tutto si sarebbe sistemato in base agli accordi presi
in precedenza. Ma tale valutazione non teneva conto di diverse variabili, tra cui
l’intervento in guerra della Grecia che aveva cambiato la situazione sul campo54. Che
Londra puntasse sempre più sulla Grecia fu chiaro quando, a guerra finita, gli inglesi
dichiararono decaduti gli accordi di Saint-Jean de Maurienne – firmati nell’aprile ‘17 ma
privi della ratifica da parte della Russia - con cui Francia e Gran Bretagna avevano
riconosciuto i diritti dell’Italia in Asia Minore su un’area che comprendeva Smirne,
Konya, Antalya e Mersin. La blanda reazione italiana si spiega non tanto con la debolezza
di Sonnino, quanto con la consapevolezza italiana di dover fare i conti con la Grecia,
concorrente in Asia Minore ma possibile alleata nei Balcani in funzione anti-jugoslava.
Nella definizione delle sue frontiere orientali, infatti, l’Italia si trovava a rivendicare
territori non ad un paese sconfitto e fortemente screditato, ma doveva fare i conti con il
nuovo regno jugoslavo che ambiva a porsi al tavolo della pace ´accanto` ai vincitori,
avanzando diritti sul controllo della costa adriatica abitata in prevalenza da popolazione
slava55. In questo quadro rientrava anche il disegno di Roma di avere il controllo
sull’Albania, o quantomeno sulla regione di Valona, ´porta dell’Adriatico`, anche se una
crescente penetrazione italiana nei Balcani, e in prospettiva verso il Medio Oriente, non
era affatto gradita alla Francia che puntava a consolidare la sua presenza in un’area
lasciata sguarnita dal crollo degli Imperi di Vienna e San Pietroburgo56 . In questa prima
fase, prioritario per l’Italia era consolidare il dispositivo di sicurezza in Adriatico in
modo tale da garantirsi la superiorità marittima, senza però mettersi contro le
popolazioni slave confinanti né rinunciare a mantenere una testa di ponte in Anatolia.
Ciò spiega la disponibilità di Sonnino a rinunciare a Smirne, reclamata dai greci in nome
del principio nazionale. Venizelos puntava a realizzare il sogno a lungo coltivato della

54F. GRASSI, L’Italia e la questione turca (1919-1923), Torino 1996, pp. 26-27. Sul ´problema greco` rispetto alle
ambizioni italiane nel Mediterraneo si veda anche L. RICCARDI, Alleati non amici, cit., pp. 359-364.

55 M. CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, Bologna 2007, p. 122.

56 Ibid., p. 123.
25
Megali idea tanto caro ai nazionalisti ellenici che non facevano mistero di ambire anche
al Dodecaneso e a Costantinopoli57.
A rendere distanti le posizioni tra le parti non era, però, soltanto la concorrenza sul
controllo di alcune regioni ottomane, ma una divergenza di vedute più profonda:
mentre, infatti, Francia, Gran Bretagna e Grecia puntavano – secondo interessi differenti
- alla spartizione dell’Impero, l’Italia, consapevole del carattere diasporico della
presenza italiana e dei limitati mezzi a disposizione, era più propensa al mantenimento
dell’Impero sotto una forma di tutela internazionale, cercando di porre le basi per una
maggior penetrazione commerciale e lo sfruttamento delle risorse locali. Roma aveva
tutto da perdere dalla divisione ottomana in realtà statuali che avrebbero
inevitabilmente avvantaggiato le altre potenze e ridotto il ruolo delle comunità
´levantine` italiane le quali, prive di protezione e senza più il tessuto dell’ecumene
imperiale che ne aveva favorito la prosperità, erano destinate ad esaurirsi. Soprattutto
non sfuggiva a Roma il fatto che le proprie ambizioni in Anatolia avrebbero faticato ad
imporsi senza truppe sul campo, a differenza di inglesi e francesi, con il rischio di
vedere l’Italia relegata a ´terzo incomodo` di una partita giocata da altri. Da qui prese
avvio la politica filo-ottomana, e in seguito filo-turca, dell’Italia, con l’invio a
Costantinopoli, nel novembre ’18, di Carlo Sforza come alto commissario. Accettata
l’eventuale rinuncia – piuttosto gravosa – di Smirne, la linea era quella di ottenere valide
contropartite in Anatolia intrecciando più strette relazioni con le dirigenze ottomane58.
Benché il governo di Roma avesse poco da offrire alla controparte, godeva però di
maggior credibilità rispetto agli alleati. Anche i sentimenti fortemente anti-elleni dei
politici ottomani giocavano a favore degli italiani. Nei primi mesi di trattative a Parigi,
mentre gli alleati erano decisi alla spartizione dell’Impero ottomano, in ottemperanza
ad una linea ´punitiva` che facesse giustizia dei massacri subiti dalle popolazioni
cristiane ottomane durante la guerra, l’Italia tenne un profilo più cauto, testimoniato
anche da una certa tiepidezza nei confronti della ´questione armena`. Nel breve
periodo, la linea filo-ottomana giocò a favore dell’Italia, considerata dal governo
imperiale un freno alle ambizioni greche. Alla lunga, però, erano destinate ad emergere
tutte le contraddizioni di un atteggiamento da parte dell’Italia che cercava l’alleanza

57 M.L. SMITH, Ionian Vision. Greece in Asia Minor, 1919-1922, London 1998, pp. 71-72.

58 Si veda il telegramma di Sforza a Sonnino, 28 aprile 1919, citato in F. GRASSI, L’Italia e la questione turca, cit. p. 43.
26
degli ottomani in cambio di contropartite territoriali o economiche nell’Impero, secondo
una visione che non si discostava del tutto da quella delle altre potenze vincitrici.
Per rafforzare la propria posizione e trattare alla pari con gli alleati, nel marzo del 1919,
l’Italia fece sbarcare un contingente militare nella città costiera di Antalya, attraversata
da crescenti tensioni tra la componente cristiana - in prevalenza greca - e quella
musulmana, giustificandolo con la necessità di mettere in sicurezza gli istituti scolastici
italiani59 . Si trattava di un modo di forzare la mano agli alleati, in un momento di stallo
alla Conferenza di pace nella complessa sistemazione della questione adriatica, a
dimostrazione del nesso stretto tra vicende adriatiche e quelle in Asia Minore60. La
mossa italiana non era in contraddizione con la linea filo-ottomana, visto che gli italiani,
in un primo momento, furono accolti come ´liberatori` dalla popolazione musulmana
timorosa del possibile dominio greco sulla regione. In realtà, proprio la forzatura
impressa dall’Italia aprì la strada all’occupazione greca di Smirne con la sua scia di
violenze nei confronti della popolazione musulmana. I rapporti italo-greci si fecero
sempre più tesi, riverberandosi anche in campo religioso: Roma, infatti, pur di
contrastare l’influenza greca puntò a sostenere le missioni e le istituzioni cattoliche
italiane presenti in Oriente, cercando una sponda nella Santa Sede preoccupata che
l’alleanza anglo-ellenica si traducesse in un’eccessiva influenza di protestanti e
ortodossi. Dalla nomina del nuovo arcivescovo latino di Smirne – solitamente un religioso
italiano – alle rivendicazioni cattoliche sulla basilica di Santa Sofia, il governo di Roma si
trovò così allineato alla politica del Vaticano, con cui condivideva un sostanziale filo-
ottomanismo.
Dopo la crisi che spinse Orlando e Sonnino ad abbandonare la Conferenza di Parigi, in
disaccordo con le posizioni del presidente Wilson relative alla sistemazione del confine
orientale italiano, l’Italia si trovò ancor più isolata sul piano diplomatico. Lasciato da
parte l’oltranzismo sostenuto dalle più accese correnti nazionaliste, toccò al nuovo
governo Nitti cercare uno sbocco, attraverso un riavvicinamento ad Atene. L’accordo
Tittoni-Venizelos rappresentò un tentativo di associare la Grecia alle richieste italiane
nel settore adriatico. Il patto, infatti, a fronte di concessioni nell’Egeo e in Epiro da
parte dell’Italia, rafforzava il ruolo di quest’ultima in Albania, anche se la costringeva

59La vicenda della spedizione militare per l’occupazione di Antalya è ricostruita, sulla base della documentazione
dell’esercito italiano, da G. CECINI, Il corpo di spedizione italiano in Anatolia (1919-1922), Roma 2010, pp. 44-52.

60 G. CACCAMO, Esserci ad ogni costo: Albania, Mediterraneo orientale e spedizioni minori, in La vittoria senza pace,
cit., pp. 186-187.
27
ad un difficile equilibrio per tenere insieme l’accordo con i greci e la linea filo-
ottomana: alleata di tutti, l’Italia rischiava di esserlo di nessuno, vedendo ulteriormente
indebolirsi le proprie posizioni in Oriente. A complicare il quadro intervennero, inoltre,
le complesse dinamiche interne alla politica ottomana, a seguito dell’avvento del
movimento kemalista destinato a logorare la posizione dell’Italia, costretta su una linea
incerta e attendista, per non inimicarsi né il governo ottomano in carica, né i
nazionalisti capeggiati da Mustafa Kemal sempre più in ascesa.
L’Italia sapeva di avere le mani legate in Oriente fino a quando non avesse sciolto il nodo
di Fiume e la questione adriatica61 . Per questo il governo italiano presentò il Patto
Tripartito – firmato nel febbraio del 1920 - una convenzione tra Italia, Francia e Gran
Bretagna che fissava confini e termini delle rispettive influenze nei territori ottomani,
come un successo, anche se Roma poteva vantare soltanto generici privilegi economici in
Anatolia, a fronte dei mandati ottenuti da Londra e Parigi su gran parte dei territori
arabi. I termini del patto furono, in buona sostanza, la base del trattato di Sèvres che
sancì la divisione dell’Impero ottomano, creando le premesse per il successivo conflitto
greco-turco. Il Trattato firmato dal governo ottomano nell’agosto del ’20 fu ´una pace
senza pace` dal momento che avviò lo smembramento dell’Impero, imponendo
soprattutto la spartizione dell’Anatolia, fulcro della civiltà ottomana e luogo fondante
della mitologia nazionale kemalista62.
La fase successiva a Sèvres fu segnata dall’azione decisa portata avanti da Sforza, come
nuovo Ministro degli Esteri italiano. Sotto la sua guida, si svilupparono in modo più
regolare e concreto le relazioni con il movimento kemalista, la cui legittimità restava
però limitata dalla mancanza del riconoscimento internazionale. L’attivismo di Sforza si
fondava sulla convinzione che gli interessi della Turchia coincidessero con quelli
dell’Italia e che Roma – per le posizioni assunte in precedenza - fosse l’unico valido
interlocutore del movimento nazionalista. Quando poi il consolidamento dei kemalisti in
Anatolia orientale mise in evidenza la necessità di avviare una revisione del trattato di
Sèvres, fu grazie alle insistenze italiane se i nazionalisti turchi poterono sedersi al tavolo
delle trattative. La gratitudine dei turchi e le buone relazioni con gli italiani furono
suggellati dall’accordo economico, firmato nel marzo ’21, che assegnava all’Italia
concessioni esclusive in alcuni distretti anatolici, rafforzando nella diplomazia italiana

61 Lettera di De Martino a Scialoja, 20 dicembre 1919, in F. Grassi, L’Italia e la questione turca, cit, p. 86

62Sul trattato di Sèvres e le sue conseguenze nell’Impero ottomano si rimanda a E. Zürcher, Porta d’Oriente. Storia
della Turchia dal Settecento a oggi, Roma 2016², pp. 177-178.
28
l’idea che Mustafa Kemal avrebbe accettato anche i termini del patto Tripartito. Si
trattava però di un’illusione. Man mano, infatti, che i kemalisti assunsero il controllo di
ampie porzioni dell’Anatolia centrale, respingendo efficacemente le offensive greche,
divenne sempre più chiaro come il loro disegno fosse incompatibile con qualsiasi
progetto di controllo straniero sul territorio turco. L’ambasciatore Garroni, da
Costantinopoli, scrive nell’aprile 1921:

“Le simpatie verso l’Italia, che furono e sono individualmente vive, non hanno mai
influito sul giudizio che i patrioti turchi si fanno dei fini e delle ragioni della nostra
politica […] i dirigenti di Angora [Ankara] si preparano certamente a contrastarci con
molta ostinazione ogni concessione, ogni favore, che ne rappresenti pur soltanto il
corrispettivo dovuto. […] un conseguente maggiore rafforzarsi dello Stato Turco, mi
sembra piuttosto nocivo che favorevole ai nostri interessi”63

Il crescente deteriorarsi delle relazioni italo-turche segnò la messa in discussione della


strategia dispiegata fino a quel momento da Sforza che da lì a poco avrebbe lasciato il
suo incarico ministeriale, mentre anche le truppe italiane abbandonavano Antalya. Nel
vuoto lasciato dagli italiani s’inserirono i greci, sebbene ancora per poco. La grande
offensiva turca dell’estate del 1922, culminata nella presa di Smirne, con il drammatico
incendio della città e la fuga della popolazione cristiana via mare, segnò infatti anche la
fine della presenza greca in Asia Minore. La vittoria kemalista decretò anche il tramonto
delle aspirazioni italiane in Anatolia. Come affermò Hamid Bey, rappresentante del
governo di Ankara a Costantinopoli:

“L’Italia è una grande potenza. Noi l’amiamo molto. […] L’Italia venga da noi. E sarà la
benvenuta. Ma vi venga commercialmente e industrialmente. Non politicamente! […]
L’Italia non deve avere aspirazioni in Asia Minore, perché sia inglese, francese, greco o
italiano, un giogo è sempre un giogo!”64

La definitiva crisi del pluralismo ottomano – con l’emigrazione forzata dei greci –
travolse anche le colonie italiane. Era la fine di un mondo e delle comunità levantine,

63Il comunicato dell’ambasciatore a Costantinopoli, Garroni, è citato in F. GRASSI, L’Italia e la questione turca, cit., p.
143.

64 Ibid., p. 177.
29
frutto dell’originale osmosi tra culture che aveva plasmato l’Oriente ottomano. In
Anatolia tutto ciò che ricordava la sudditanza agli europei fu smantellato e le istituzioni
italiane non furono risparmiate. Andò in frantumi tutta una politica che aveva il suo
fulcro nell’originale presenza degli italiani nelle città orientali e nella vocazione
mediterranea del giovane regno. Da qui l’oscillazione di una classe dirigente che non
volle vedere l’equivoco di una politica che intendeva difendere l’Impero ottomano senza
rinunciare a coltivare aspirazioni imperiali. La Turchia di Mustafa Kemal si impose -
decretando nei fatti la sconfitta dei vincitori - con l’affermazione di un nuovo Stato,
repubblicano, laico e nazionalista, mentre in Italia scoccava l’ora di Mussolini.

Il Fascismo e il “Mare nostrum”

La politica italiana aveva sperato di poter portare avanti una politica della “presenza”,
trasformando le comunità italiane sparse nel Mediterraneo in possedimenti coloniali.
L’attenzione alle comunità, la diffusione della lingua italiana, le spedizioni
archeologiche, la penetrazione finanziaria e commerciale, lo sviluppo delle linee di
navigazione, l’attenzione ai missionari cattolici italiani, l’inizio di un interesse di studio
dell’Islam - alle origini della scuola orientalista italiana con la nascita dell’Istituto per
l’Oriente e l’importante rivista “Oriente Moderno”- si collocavano in questa idea di
“penetrazione pacifica”, dettata anche dal fatto che l’Italia non aveva né dimensioni né
mezzi tali per competere con le altre potenze europee. Ci si rendeva conto, però, che
le comunità italiane, per quanto numerose, erano però povere e poco influenti. Anche in
Libia le mire italiane si erano concentrate nel cercare di giungere al pieno controllo del
territorio senza ricorrere allo scontro armato. Con la guerra del 1911 la politica italiana
fece un salto da una politica della “presenza” a una politica di “potenza” senza però
risolvere le contraddizioni presenti al suo interno.
L’affermazione dell’Italia come “potenza mediterranea” fu uno degli aspetti
caratterizzanti la politica estera fascista che si mosse lungo tre direttrici principali:
penetrazione nei Balcani, consolidamento in Nord Africa, influenza in Medio Oriente. Era
convinzione di Mussolini che tra tutte le grandi potenze occidentali l’Italia fosse la più
vicina all’Africa e all’Asia. Non si trattava tanto – per Mussolini – di mirare a conquiste
territoriali bensì a sviluppare forme di cooperazione con le popolazioni di queste regioni.
Il maggior coinvolgimento, anche a livello di propaganda, e un’azione più diretta italiana
nell’area mediterranea avviene a partire dai primi anni ’30.
30
Nei Balcani un posto particolare nella politica italiana è occupato dall’Albania, paese
chiave per il controllo dell’intero Adriatico. L’interesse italiano per le province albanesi
ottomane risale già alla seconda metà del XIX secolo. Il regime fascista riprende molti
temi tradizionali della pubblicistica italiana sull’Albania, vista come l’”Oriente sotto
casa”, ma vuole offrire anche un’immagine nuova dell’Albania, descritta come paese
con una forte apertura alla presenza e influenza italiana, quasi a giustificarne la
crescente penetrazione italiana. Soprattutto il regime fascista vuole dare un’immagine e
un’impronta unitaria a un paese percepito come frammentato, plurale e turbolento,
abitato da una popolazione descritta come fiera e bellicosa. L’idea che c’è dietro la
visione italiana dell’epoca è che l’Italia è chiamata a fare di questa regione una
moderna e coesa nazione. Nei primi anni del’900 l’opinione pubblica democratica
sostiene la libertà e l’indipendenza dell’Albania dall’Impero ottomano. A partire dagli
anni Venti si afferma l’idea che l’Italia è la via alla modernizzazione dell’Albania. Si
mette in dubbio la capacità del paese di reggersi da solo, ipotizzando un “mandato”
italiano. Nel 1921 nasce l’Istituto per l’Europa Orientale con la rivista “Europa
Orientale”. Tra gli anni Venti e Trenta aumenta anche il numero di italiani che vivono e
operano in Albania. La pubblicistica fascista con una certa enfasi esalta il ruolo
dell’Italia nella modernizzazione dell’agricoltura e delle infrastrutture albanesi. Il
rapporto di protezione dell’Italia nei confronti dell’Albania esalta la ricerca dell’Italia di
una collocazione originale, una sorta di “terza via” tra mondo anglo-sassone e quello
sovietico. La “romanità” e le comuni radici storiche sono la base su cui si legittima tale
legame che vuole offrire un modello diverso da quello coloniale tradizionale o quello dei
mandati anglo-francesi in Medio Oriente.
Per avere il controllo della Libia gli italiani impiegarono vent’anni, dal 1911 al 1931. Il
conflitto divenne irregolare, fatto di guerriglia e controguerriglia; da guerra all’esercito
turco divenne lotta contro la resistenza anticoloniale libica e contro i civili di
Tripolitania e Cirenaica. L’Italia fascista finì per organizzare una serie di campi di
concentramento, in cui rinchiuse metà della popolazione della Libia orientale, una
vicenda che l’Italia ha preferito dimenticare: conoscerla aiuta a capire anche la storia
della Libia contemporanea. La necessità di pacificare la Libia spinse il governatore della
colonia, Italo Balbo, a sviluppare anche una politica filo-islamica che ebbe riflessi
positivi sulla percezione dell’Italia da parte delle popolazioni arabe. Ciò fu la premessa
alla politica italiana di sostegno del nazionalismo arabo in Palestina.

31
In Palestina l’Italia cercò di sviluppare la politica di penetrazione culturale tra la
popolazione araba in funzione anti-britannica: da una parte presentandosi come
protettrice dei cristiani arabi, facendo leva soprattutto sulle istituzioni cattoliche
(Patriarcato Latino di Gerusalemme e Custodia di Terra Santa) guidate da sacerdoti
italiani. Dall’altra il governo fascista cercò di accreditarsi anche come “protettore”
dell’Islam, coltivando le relazioni con il Gran Muftì di Gerusalemme, Husseyni, leader
del movimento arabo nella regione.
Principale strumento di penetrazione culturale dell’Italia fu “Radio Bari” (1934-43), la
prima stazione europea a trasmettere in arabo. Le trasmissioni culturali (conversazioni,
canzoni, pièce teatrali) furono apprezzate dal pubblico arabo, mentre quelle politiche (i
notiziari) non ebbero successo perché scontavano una contraddizione insuperabile della
propaganda e, più in generale, della politica estera fascista: Roma corteggiava i
nazionalismi arabi e attaccava Londra e Parigi con l’obiettivo di sostituirvisi come
potenza egemone nel Mediterraneo e in Medio Oriente, senza considerare che quei
nazionalismi si sarebbero opposti con uguale forza al dominio coloniale italiano. Radio
Bari e la sua “guerra delle onde” con Radio Londra, Radio Paris Mondial e Radio Berlino,
evidenzia come la politica araba dell’Italia fascista fosse, nonostante le ambizioni
imperiali, destinata al fallimento.

Gli ebrei nei Balcani e nel Mediterraneo

Occupazione tedesca s'accompagna a politica di terrore e di persecuzione razziale di cui


furono principali vittime gli ebrei.
Europa centrale-balcanica è tra XV e XX sec. il cuore del mondo ebraico. Ebrei
costituiscono minoranza organizzata. In quest'area convivono due realtà ebraiche
autonome: mondo sefardita e ashkenazita. Sefarditi, espulsi dalla Spagna, si rifugiano
nell'impero ottomano dove costituiscono minoranza più colta, ma risentono della
decadenza del mondo ottomano.
Ashkenaziti presenti in modo consistente tre area tedesca e polacca. (Emigrazione verso
est per persecuzioni durante crociate). Inseriti nei ghetti, caratterizzati dalla lingua
yiddish.
Dominate dalla necessità di sopravvivere e di darsi org. interna a partire da '700 le
comunità impegnate in ricerca identitaria, di fronte alle altre minoranze e ai nascenti
nazionalismi, e nella propria modernizzazione. In centro-europa si ha rinascita culturale
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e intellettuale (Haskalah, il termine indica l'Illuminismo del mondo ebraico europeo), si
sposano idee di libertà politica e di progresso, soprattutto tra germanofoni. Uscita dal
ghetto e assimilazione, favorita da decreti di emancipazione nei territori tedeschi e
asburgici. Qui gli ebrei, sostenuti dai partiti liberali, partecipano attivamente ai
movimenti nazionali. Ebrei divengono presto vittime del nuovo etno-nazionalismo.
Rapporto conflittuale tra ebrei e nuove nazioni alla base del antisemitismo moderno e
dell'elaborazione di una coscienza nazionale ebraica. Difficile rapporto con altre
minoranze causa doppia identità culturale-nazionale.
In Russia comunità consistenti dopo spartizione della Polonia (1 milione circa di ebrei).
Politica zarista non mira a integrazione, ma a negazione identità ebraica. Ebrei costretti
entro "zona di residenza" (La regione più Occidentale dell'impero zarista, più o meno le
attuali Polonia-Ucraina-Bielorussia) e sottomessi a dure condizioni di vita. Le comunità si
chiudono in se stesse a difesa dei valori tradizionali, in Polonia nasce movimento mistico
hassidico. Le aperture di Alessandro II creano condizione per nascita di élite ebraica
russificata.
Nei paesi di lingua tedesca si ha assimilazione culturale e sociale. Processo sostenuto
dalle trasformazioni economiche del sistema capitalista entro cui gli ebrei s’inseriscono
bene. Gli ebrei s’integrano completamente, sono protagonisti della cultura liberale e
moderna (Einstein, Freud), si secolarizzano rapidamente. Vienna è il centro della
creatività ebraica moderna, nel 1900 conta 170.000 ebrei. Simile situazione in Ungheria
punto di arrivo dell’emigrazione da Oriente dove ebrei si magiarizzano per ottenere
emancipazione. In Galizia (la provincia polacca dell'Impero Asburgico), realtà soprattutto
rurale, gli ebrei si organizzano in comunità proprie, mantengono yiddish, bastione del
mov. Hassidico, custode ortodossia religiosa. Gli ebrei galiziani vengono
progressivamente polonizzati.
In reazione all’emancipazione, e in nome dell’idea nazionale si sviluppano correnti anti-
semite. La giudeofobia si organizza in vera ideologia. I movimenti nazionalisti si
riconoscono nel comune anti-semitismo. Solo i Balcani ottomani sono immuni. Nella
Russia di Alessandro III si scatenano violenti pogrom nel 1881: un terzo degli ebrei
emigra verso America e Palestina (1/3 eliminato, 1/3 convertito).
La svolta del secolo segna inizio era di organizzazione politica degli ebrei:
dall’assimilazione all’autonomia. Varie correnti politiche: nazionalista (Sionismo:
messianesimo laico, si scontra con giudaismo assimilato e con ortodossia religiosa),

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social-rivoluzionaria (Bundismo: reazione a politica russa), autonomista (folkismo:
diaspora sempre esistita, occorre preservare identità ebraica, ostile ad assimilazione).
All’inizio del XX secolo gli ebrei vivono stato di precarietà e confusione, tra
assimilazione, antisemitismo e emigrazione. Nel trattato di Versailles le organizzazione
Ebraiche ottengono patto per le minoranze che garantiva agli ebrei protezione dei loro
diritti, autonomia e rappresentanza. Tale patto non è applicato pienamente. Crisi del
’29 e ascesa del nazismo rafforzano movimenti politici antisemiti. Con promulgazione
delle Leggi di Norimberga nel ’35 tutti gli Stati dell’Europa centrale (Cecoslovacchia,
Ungheria, Romania) seguono modello tedesco teso a eliminare tutti gli ebrei, partendo
dall’identificare e segregare la popolazione ebraica. La questione ebraica si pone in
termini nuovi con invasione della Polonia nel ’39. Dal gennaio ’42 ha inizio Soluzione
Finale.
Nell'Europa orientale gli ebrei erano popolo a sé, unica minoranza senza "patria" di
riferimento, cui non è riconosciuta cittadinanza – apolidi – facilita l'eliminazione e
deportazione. Assimilazione limitata a strette élite, spesso appartenenti a classe
dominante.
In Croazia sono emanate leggi antiebraiche da subito e gli Ustascia (milizie filo-fasciste
di Ante Pavelic) provvedono alla deportazione. Entro l'autunno '43 deportati 3000 ebrei.
Si salvano i pochi assimilati, vicini ai dirigenti del governo.
In Serbia la questione fu risolta sul posto. Col pretesto della lotta contro i partigiani
furono giustiziati gli ebrei. Si salvarono solo quelli (5000) che si unirono ai partigiani.
La Bulgaria, nonostante promesse d'ingrandimenti territoriali da parte dei nazisti, non
applicò politica antiebraica. I bulgari non capivano il problema ebraico. Re, parlamento
e popolo continuarono, nonostante pressioni tedesche, ad appoggiare ebrei. In Bulgaria
nessun ebreo è stato deportato.
La Romania era il paese più antisemita d'Europa. Gli ebrei non avevano cittadinanza. Con
appoggio nazista il governo rumeno denuncia accordi sulle minoranze nel '38. Nel '40
Antonescu dichiara apolidi tutti gli ebrei e vara le leggi antiebraiche più severe
d'Europa. Entrata in guerra nel '41, le truppe rumene procedono a massacri su vasta
scala. A metà del '42 i rumeni avevano sterminato metà della comunità ebraica
(300.000), firmando accordo coi nazisti per deportazione dei restanti. All'ultimo la
Romania si oppone: funzionari e popolazione scopre vantaggio economico di far
espatriare ebrei. Romania diviene principale base di emigrazione verso Palestina. Su
850.000 ebrei solo metà scampano, in gran numero emigrati in Israele.
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In Grecia: 6 aprile 1941 tedeschi attaccano la Grecia da nord e occupano Salonicco. A
fine mese il re e il governo abbandonarono Atene, gli inglesi ripiegano su Creta e si crea
governo fantoccio collaborazionista. Paese diviso: Peloponneso Attica e isole sotto
controllo italiano, i bulgari controllano la Macedonia orientale, Salonicco e la sua
regione sono sotto controllo tedesco. Nel ’41 Salonicco risentiva ancora della crisi
economica degli anni ’30, con una forte disoccupazione, migliaia di profughi dalla
Bulgaria, molte case distrutte dai bombardamenti italiani. Principale problema è la
fame. Molti vedevano le proprie cose per procurarsi del cibo nelle campagne ma ebrei e
profughi non avevano contatti di parentela nella provincia. Nella primavera del ’42
ancora migliaia di persone morivano di fame nelle strade di Salonicco (circa 5000
persone morirono di stenti).
Con l’occupazione emergono i primi segnali di ostilità verso gli ebrei, con la requisizione
di alcune case per assegnarle alla popolazione tedesca residente a Salonicco, ma
soprattutto Alfred Rosenberg, che guidava centro di studi su ebraismo a Francoforte,
fece portare via da sinagoghe, circoli, biblioteche di Salonicco, libri e oggetti, convinto
dell’importanza della città come centro ebraico. Il peso della comunità in città era
ancora notevole, ma in Grecia, nonostante tensioni tra greci ed ebrei negli anni ’30, non
c’era una vera e propria “questione ebraica”. Nonostante Himmler ritenesse gli ebrei di
Salonicco una minaccia a sicurezza della Germania, non furono applicate come altrove
le leggi di Norimberga.
Nel luglio ’42, tuttavia, il comandante tedesco di Salonicco ordinò che tutti i maschi
ebrei si registrassero, per essere utilizzati come manodopera. I tedeschi avevano bisogno
di forza-lavoro e su suggerimento delle autorità greche locali si procedette alla
registrazione. Le migliaia di ebrei subirono umiliazioni e violenze, mentre i giornali
collaborazionisti parlavano delle sofferenze subite dai greci per mano degli ebrei.
Successivamente, i tedeschi procedettero al graduale trasferimento delle proprietà
ebraiche per darle ai greci. Nel dicembre ’42 venne segnale che le autorità municipali
erano impossibilitate ad opporsi alla situazione sempre più difficile degli ebrei: era in
corso trattativa per la vasta area occupata dal cimitero ebraico fuori le mura orientali
per espandere città. Nel ’37 un accordo su creazione di nuovi cimiteri e trasformazione
parziale dell’antico, ma nel ’42 le autorità municipali, con sostegno tedesco, pensarono
di risolvere la questione: a dicembre comincia demolizione del cimitero, uno dei più
vasti e antichi d’Europa, contro la volontà della Comunità ebraica.

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La soluzione finale, decisa alla fine del ’41, e applicata in vari paesi nel ’42, in Grecia si
scontrava con contrarietà delle autorità italiane alla determinazione tedesca di liquidare
ebrei greci. Nel gennaio ’43, due emissari di Eichmann furono inviati a Salonicco per
pianificare deportazione. Tutto andava risolto in sei-otto settimane.
Ebrei obbligati a portare stella gialla, negozi dovevano essere riconoscibili, e si doveva
vivere in un ghetto. Inolte nuove carte d’identità con la “razza”, divieto di usare tram e
telefoni, di cambiare residenza. Vennero creati, su richiesta del rabbino capo Koretz,
due ghetti non recintati, subito sovraffollati. Chi poteva trasferiva beni ad amici
cristiani, ma poi fu vietato agli ebrei di vendere le loro cose. Si ordina a tutte le
associazioni, circoli, club di espellere soci ebrei. Il 1° marzo, il quartiere vicino alla
stazione viene trasformato in campo di prigionia, recintandolo, per farne il punto di
transito per la deportazione. Ai primi di marzo ’43 gli ebrei furono confinati nei due
ghetti, senza possibilità di uscire. La vita delle città ne risentì, molte attività cessarono,
i prezzi di molti servizi, prima offerti dagli ebrei, salirono enormemente. In quei giorni il
rabbino convocò un’assemblea all’interno del quartiere della stazione per annunciare
che gli ebrei sarebbero stati deportati a Cracovia, per andare a lavorare. Reazione fu
rabbia, fischi, disperazione.
Il 15 marzo parte il primo treno con 2800 persone. Il quartiere ghetto si spopola ma
viene subito riempito da ebrei di altri quartieri. II° convoglio parte il 17. Un altro
quartiere, abitato da 15.000 ebrei è evacuato in poche ore. Il destino della comunità
ebraica si consumò in pochi giorni. Molti sapevano. Un funzionario del consolato italiano
a Salonicco scrisse nel suo diario, il 21 marzo: “Quelli fisicamente idonei vengono messi
al lavoro, mentre altri vengono eliminati. Alla fine saranno eliminati anche quelli sani”.
Tra gli ebrei non c’era consapevolezza diffusa, alcuni pensavano fosse propaganda per
costringerli a lasciare la città. Memori degli scambi di popolazione e del modo con cui
erano stati deportati i musulmani, molti ebrei credettero all’idea di essere reinsediati
altrove. Le condizioni di vita a Salonicco erano tali (anche per le vessazioni della polizia
ebraica collaborazionista) che molti preferivano partire. Abbandonare, fuggendo, la
città era molto rischioso e solo pochi ci riuscirono con l’aiuto soprattutto dei cristiani,
della resistenza comunista, delle autorità italiane. Alcuni rifiutarono la fuga per non
separarsi dalla famiglia. Il 15 luglio il consolato italiano riuscì a mandare ad Atene in
treno 320 ebrei sotto la sua protezione. Circa 1200 ebrei, l’élite, con il rabbino Koretz,
furono deportati a Bergen-Belsen ai primi di agosto con l’ultimo convoglio. In città

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rimasero meno di 800 ebrei., alcuni nascosti, altri erano sposati a cristiani, molti
bambini vennero adottati.
La popolazione di Salonicco i singoli, mostrarono solidarietà verso gli ebrei, ma le
associazioni professionali e le organizzazioni cittadine non parteciparono al loro
dramma. Yacoel, il legale della comunità ebraica, denunciò la mancanza di solidarietà
verso gli ebrei. I docenti universitari, i grandi professionisti non fecero nulla, mentre il
vescovo ortodosso si limitò a protestare in forma personale, diversamente dall’arcivesco
di Atene, Damaskinos, che condannò pubblicamente con lettere formali, la
deportazione. Le autorità cittadine non si opposero, probabilmente per favorire
nazionalizzazione della città e facilitare insediamento dei profughi. Solo il 5 % degli
ebrei di Salonicco fuggì alla deportazione, mentre la metà furono quelli di Atene. Ma
nella capitale erano meno, più integrati in una città più grande. A Salonicco i sefarditi
erano 50.000 su 250.000 abitanti, e molti parlavano solo spagnolo. Secondo i registri, ad
Auschwitz furono 45.000 gli ebrei di Salonicco uccisi, (2/3 degli ebrei greci). Dopo
caduta governo italiano, furono deportati anche circa 13.000 ebrei della Grecia
meridionale e delle isole.

Gli ebrei di Rodi

“Rodi: Terra Italiana”, “Rodi estremo lembo della patria”; Rodi, “è l’Italia che ritorna in
Oriente […] l’Italia oggi ricomincia a Rodi”. Mario Lago, governatore di Rodi dal 1923 al
1936, era profondamente convinto di queste parole. Rodi, secondo Lago, era l’inizio
della “riconquista” italiana del Mediterraneo e del Levante – una riconquista che, a suo
avviso, passava anche attraverso l’ebraismo italiano. Anche per questo Lago fu tra i più
convinti promotori e sostenitori della creazione di quel Collegio rabbinico di Rodi che,
inaugurato nel 1928, ospitò alcune tra le figure più illustri dell’ebraismo italiano
dell’epoca, da Riccardo Pacifici (che diresse il Collegio dal 1932 fino alla chiusura nel
1938) a David Prato – assertore anch’esso fra gli altri, della “grandezza” italiana (ed
ebraica) nel Mediterraneo. Quando nel 1929 il re Vittorio Emauele III si recò in visita a
Rodi, a proposito del Collegio rabbinico disse: “sono lieto di vedere quest’importante
centro di cultura ebraica in terra italiana”.
Date queste premesse, non è difficile capire l’affetto e la fedeltà che gli ebrei di Rodi
dimostrarono verso l’Italia sin dai primi anni dell’occupazione, nel 1912. Fino al 1938.
Poi con l’applicazione delle leggi antiebraiche, a Rodi come nel resto del Regno d’Italia,
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l’incantesimo si ruppe improvvisamente. E il 5 settembre 1938, il primo provvedimento
legislativo del governo italiano a Rodi, fu proprio quello di chiudere il Collegio rabbinico.
La Comunità ebraica di Rodi aveva una tradizione secolare che cominciava dal XV sec.,
dall’epoca della diaspora dei sefarditi nei territori dell’Impero ottomano – lungo i
Balcani e nel Mediterraneo. L’arrivo degli italiani, dopo secoli di dominio turco,
rappresentò per gli ebrei una cesura della loro lunga storia a Rodi: significava il
passaggio finalmente ad una nuova era, ad una nuova e moderna civiltà. La stessa
illusione che vissero gli ebrei di Libia nel 1911, quando dopo la sconfitta dei turchi,
festeggiarono l’arrivo degli italiani.
Rodi, come il resto delle isole del Dodecaneso, fu presa dall’esercito italiano nel 1912,
ultimo fuoco della guerra italo-turca del 1911. Nel 1923, in seguito al trattato di
Losanna – coda degli accordi di pace della Prima guerra mondiale – Rodi passò
formalmente sotto le insegne del Regno d’Italia che voleva farne una sorta di avamposto
per la riconquista italiana del Mediterraneo. In questo ambizioso progetto, gli ebrei e
l’ebraismo italiano ricoprivano un ruolo strategico: come nell’età moderna i mercanti
ebrei che partivano dai porti italiani alla volta dei grandi centri commerciali del
Mediterraneo e del Levante erano stati grandi esportatori di italianità, così in piena età
fascista, i rabbini usciti dal Collegio rabbinico italiano di Rodi, avrebbero di nuovo reso
grande e diffusa nel Mediterraneo, la lingua e la cultura italiane.
Nel 1938, al momento dell’introduzione delle leggi antiebraiche, a Rodi vivevano più di
duemila ebrei su una popolazione complessiva di quasi 50.000 persone.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Rodi passa sotto il dominio nazista: è l’inizio
della fine. Il 18 luglio 1944 vengono arrestati i capifamiglia della comunità; il giorno
dopo viene chiesto ai familiari di preparare i bagagli con oggetti di prima necessità.
All’alba del 23 luglio ha inizio il lungo viaggio verso Auschwitz, con alcuni barconi
destinati al trasporto animale riempiti di uomini e donne ridotti in condizioni disumane.
Dopo una sosta a Cos, l’arrivo al porto del Pireo. Il 3 agosto, ad Atene, il trasferimento
su un treno dai vagoni piombati, in un ambiente altrettanto malsano e precario. L’arrivo
ad Auschwitz, appunto, il 16 agosto 1944: una data indelebile nella mente dei pochi
sopravvissuti, 31 uomini e 120 donne.
16 agosto 1944: in questo giorno simbolicamente si può collocare la fine della comunità
ebraica di Rodi. Oltre 5 secoli di storia che avevano visto fiorire nell’isola greca una
significativa presenza ebraica venivano distrutti dalla deportazione nazista nei campi di
sterminio.
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“È una delle pagine più nere della storia – racconta il sopravvissuto ad Auschwitz Sami
Modiano a Shalom. – Il 16 agosto 1944 la comunità di Rodi conobbe di fatto la sua fine:
dopo quasi un mese di viaggio in condizioni terribili, in questo giorno, i circa 2mila ebrei
di Rodi giunsero ad Auschwitz, furono selezionati e mandati alla cosiddetta ‘rampa della
morte’. Era la fine di una storica comunità che per secoli aveva vissuto a Rodi in pace,
producendo un grande patrimonio umano e culturale. Io sono uno dei pochi sopravvissuti
di questa comunità e il mio pensiero va a queste vittime innocenti, tra cui vi è anche la
mia famiglia”.
Dopo la guerra hanno tutti conservato Rodi nel cuore, pur proseguendo nella maggior
parte dei casi la propria vita in America, Australia, Italia, Israele o altri Paesi.
Oggi resta solo una presenza ebraica a Rodi ridotta a poche decine di persone. La data
del 16 agosto rimane quindi uno spartiacque significativo nella storia di questa comunità
e di tutto l’ebraismo.

Film di Ruggero Gabbai, “Il viaggio più lungo”:


https://it.gariwo.net/multimedia/trailer/il-viaggio-piu-lungo-rodiauschwitz-8696.html

Il Mediterraneo tra Guerra Fredda e decolonizzazione

La fine della seconda guerra apre una nuova fase della storia del Mediterraneo. La piena
sovranità e indipendenza raggiunta da alcuni paesi del Medio Oriente (Libano, Siria), la
fine dei mandati della Francia e della Gran Bretagna segnala il crescente allentamento
degli imperi coloniali. Benchè uscite vincitrici dalla guerra le due potenze coloniali
erano uscite dal conflitto in pessime condizioni economiche, sempre più incapaci di
tenere in piedi i loro imperi coloniali, mentre i popoli sottomessi ambivano
all’indipendenza. Dal Medio Oriente all’India, si evidenzia la crescente perdita di
centralità dell’Europa.
I nuovi assetti internazionali incentrati su due grandi potenze “globali” (USA e URSS)
comportarono una profonda ridefinizione del ruolo e della posizione dell’Europa, al
“centro” della contesa tra le due grandi potenze e principale “frontiera” della Guerra
Fredda, ma anche sempre meno rilevante in un quadro internazionale dominato da
centri non più europei. Necessità economiche e strategiche spinsero i paesi occidentali a
gravitare nella sfera d’influenza statunistense. Questo vale anche per alcuni paesi
mediterranei come Italia, Grecia e Turchia chiamati a fare da “baluardo” contro
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eventuali espansioni sovietiche nell’area. La regione mediterranea si trovò, pertanto,
percorsa da una duplice dinamica: da una parte, la spinta verso la decolonizzazione,
destinata a “sganciare” molti paesi mediterranei dall’orbita europea, e dall’altra, le
logiche della Guerra Fredda che condizionarono molti processi, facendo della regione
uno spazio di confronto sempre più serrato tra USA e URSS. Gli USA, che
progressivamente colmarono il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-francese,
considerarono il Medio Oriente uno dei tanti scenari dello scontro “globale”, senza far
crescere relazioni positive con i diversi paesi arabi, tranne pochi – come l’Arabia Saudita
– considerati alleati strategici legati però soprattutto da vincoli economici. L’approccio
americano al Medio Oriente era molto diverso da quello degli europei: privi di una storia
coloniale alle spalle, gli USA portano avanti una visione nella quale centrale è l’idea
della “modernizzazione” intesa come trasferimento di un modello economico
considerato all’epoca vincente e capace di garantire sviluppo e stabilità. Si tratta di una
visione indubbiamente distante da quella europea, la quale benché condizionata dall’
“orientalismo” aveva, però, sviluppato una maggior attenzione ai risvolti sociali,
culturali e religiosi del mondo mediorientale, visto come un mondo “altro” ma connesso
all’Europa dal comune progetto di “civilizzazione”. Tale progetto, per quanto discutibile
dal punto di vista storico, implicava tuttavia l’idea di una più forte legame tra
Occidente e Oriente - insito anche nel progetto coloniale - mentre il “modello”
americano – individualista e tecnocratico – era molto meno interessato a dar vita a
“sintesi” di civiltà. Il tramonto della centralità europea –evidenziato dalla
decolonizzazione – ha comportato la crisi dell’idea del Mediterraneo come spazio di
“civiltà” trasformandolo in un campo di confronto geopolitico tra blocchi, accrescendo
le divisioni e le fratture al suo interno. Non è un caso che lo storico F.Braudel scriva il
suo libro su Civiltà e Imperi nel Mediterraneo proprio in questa fase, sottolineando
l’unità storica del Mediterraneo e al tempo stesso la pluralità delle civiltà, un testo che
riflette bene l’idea europea di Mediterraneo al tramonto dell’eurocentrismo.
I paesi arabi, animati da sentimenti anti-coloniali, per quanto equidistanti dai blocchi,
dovettero spesso rivolgersi all’URSS per ottenere finanziamenti e sostegno per realizzare
le loro politiche. A guidare i paesi arabi più importanti – Egitto, Siria e Iraq- sono nuove
élites: esse sono formate non più dalle vecchie dirigenze arabe ex-ottomane né dai ceti
agiati urbani che si erano formati nel quadro della cultura europea, ma da giovani
ufficiali militari provenienti dai ceti popolari, animati da sentimenti nazionalisti, anti-
occidentali, desiderosi di realizzare una maggiore giustizia sociale, sviluppo economico e
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militare. Le loro ambiziose politiche di riforma e spese militari li portarono a indebitarsi
con l’URSS. Inoltre furono politiche che portarono ad un enorme rafforzamento dello
Stato, a forme pianificate di economia e di controllo sulla società. Non poche furono le
contraddizioni di tali politiche: si appellano all’unità araba, ma il rafforzamento degli
Stati impedì una reale integrazione sovra-nazionale; denunciavano la corruzione dei
precedenti regimi, ma produssero enormi apparati burocratici improduttivi e parassitari
destinati a scoraggiare l’iniziativa e l’impresa privata; portano avanti la retorica della
democrazia popolare finendo per dar vita a regimi autoritari a partito unico, con un
controllo e una limitazione delle libertà individuali, pur ampliando il sistema
dell’istruzione e l’alfabetizzazione.
Tra il 1952 e il 1967 a dominare il mondo arabo è la figura di Gamal Abd al-Nasser che
interpretò quello che il mondo arabo voleva essere: indipendente, assertivo e impegnato
nella costruzione di una nuova società. Il “nasserismo” esprimeva bene il sentire di un
mondo arabo che voleva sfidare le potenze imperialiste e rompere con le vecchie élites
che si erano formate all’ombra dei mandati.

Nascita dello Stato di Israele

Durante la seconda GM gli inglesi cercano di mantenere stabilità in Palestina. Con


sostegno degli ebrei e dell’Haganah combattono contro mire naziste in MO. Tale
esperienza prepara la lotta ebraica contro inglesi considerati ostacolo a realizzazione di
Stato ebraico.
Tre fasi: lotta anti-britannica 1945-1947; lotta intrapalestinese tra ebrei e palestinesi
1947-48; guerra tra Israele ed eserciti arabi. La prima fase vede il terrorismo ebraico
contro gli inglesi che si opponevano a liberalizzare l’immigrazione ebraica in Palestina.
In una situazione ormai insostenibile la Gran Bretagna rimette la questione in mano
all’ONU nel febbraio 1947. L’ONU elabora progetto teso alla creazione di due Stati. Gli
ebrei accettarono proposta, ma gli arabi la rifiutarono. Il progetto venne approvato
dall’ONU nel novembre del ‘47. I palestinesi privi di leadership furono rappresentati dai
paesi della Lega Araba che assunsero posizione molto intransigente, promettendo di
difendere palestinesi in caso di attacco. L’Inghilterra, intanto, annunciò che il suo
mandato sarebbe terminato il 15 maggio’48 gettando la Palestina nel caos. Ne
approfittarono gli ebrei per guadagnare controllo sul territorio. Appena gli inglesi
lasciarono la Palestina , Ben Gurion proclamò lo Stato di Israele scatenando la reazione
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militare dei vicini Stati arabi (Egitto, Siria, Giordania, Libano e Iraq). La guerra dura fino
a dicembre del1948 risolvendosi in una disfatta araba.

L’Egitto di Nasser

L’Egitto era segnato da una classe politica che non era riuscita a guadagnare la piena
indipendenza del paese. Anche la monarchia di re Farouk era screditata agli occhi della
popolazione sempre più ostile agli inglesi. A ciò si aggiunse la sconfitta e l’umiliazione
subita nel 1948 con Israele.
In Egitto c’era una forte sperequazione socio-economica tra una minoranza di ricchi e la
massa povera della popolazione. Il nodo era la proprietà della terra, in mano a pochi
grandi proprietari. Molti degli appartenenti all’élite politica egiziana aveva nella terra la
sua ricchezza e non era intenzionata a procedere nella riforma agraria. Allo scontento
popolare nelle campagne si univa quello nelle grandi città, cresciute enormemente e
dove cresceva il disagio di studenti e ceti popolari. In questo contesto il movimento dei
Fratelli Musulmani era cresciuto enormemente, perché il mov. univa il richiamo
all’indipendenza naz. ai valori tradizionali dell’Islam. Il mov. alla fine degli anni ’40
avviò campagna violenta contro gli stranieri e le compagnie estere, accrescendo
instabilità e disordine nel paese. Le tensioni crebbero e nel 1950 bande armate si
scontrarono con gli inglesi e colpirono le proprietà inglesi (bar, cinema, locali notturni,
negozi). La dura reazione inglese affrettò il cambio di regime che avvenne nel luglio ’52:
un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito prese il potere. Erano provenienti dai ceti
popolari – figli di impiegati statali, piccoli proprietari terrieri, commercianti- e avevano
studiato e fatto carriera nell’esercito, sentono di dover riscattare il paese dal disastro
del 1948, attribuendone le cause alla corruzione del regime di Farouk. A motivarli la
volontà di porre fine al controllo britannico e avviare programmi di riforma e di giustizia
sociale. I primi atti furono l’abolizione della monarchia e lo smantellamento del vecchio
regime (Costituzione e Parlamento). Progressivamente l’esercito prende il controllo di
tutti gli apparati dello Stato e colpisce anche i Fratelli Musulmani considerati, dopo una
prima fase di cooperazione, un pericolo per il nuovo regime. I FM vengono banditi, i capi
giustiziati e molti membri arrestati. Anche il partito comunista fu colpito.
Progressivamente Nasser consolida il suo potere, a spese della leadership di Naguib. Per
guadagnare il consenso della popolazione si procedette con le riforme: la principale fu la
riforma agraria che ridistribuì la terra, colpendo i grandi proprietari e il loro ruolo. Tale
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misura marcò fortemente una discontinuità con il passato, accrescendo la popolarità di
Nasser e dando al suo regime un’aria riformista e populista. Il “socialismo arabo”
nasseriano diventa la dottrina di riferimento, un mix di statalismo economico,
nazionalizzazione delle imprese con l’assunzione di personale soprattutto militare non
preparato, controllo sulla società e i media, populismo nazionalista che prevedeva
riforma agraria e misure per limitare i patrimoni dei ceti più ricchi.
La nuova Costituzione prometteva democrazia, indipendenza e fine dei privilegi.
Tuttavia lo Stato tese a concentrare il potere, facendosi interprete della volontà
popolare senza rispondere realmente ai suoi bisogni. I partiti politici furono banditi, il
pluralismo proclamato ma non realizzato. Con un plebiscito fu approvata nel’56 la nuova
Costituzione. Il regime però stava perdendo il suo slancio “rivoluzionario”, poté
rafforzarsi grazie ai successi in politica estera.
Centrale fu la crisi di Suez nella quale si intrecciarono il desiderio egiziano di affermare
la sua piena indipendenza, la scelta del non-allineamento rispetto alla guerra fredda e
l’irrisolta questione arabo-israeliana. Nasser rifiuta di aderire al patto di Baghdad del
’55 (Turchia, Iran, Iraq, Pakistan) voluto dagli USA per contenere l’influenza sovietica in
Medio Oriente. La scelta di Nasser suscitò grande consenso nelle masse arabe, tuttavia
l’Egitto necessitava sempre più di armi e supporto che trovò nell’URSS (attraverso la
Cecoslovacchia) in cambio di cotone, alienandosi gli Stati occidentali preoccupati
dell’accesso sovietico al Mediterraneo. La decisione degli USA di non finanziare
attraverso la Banca Mondiale la modernizzazione agricola egiziana (soprattutto la
costruzione della grande diga di Assuan) suscitò la dura reazione di Nasser che decise di
nazionalizzare il canale di Suez. Gran Bretagna, Francia e Israele risposero con un
intervento militare teso a “dare una lezione” a Nasser (ottobre 1956). USA e URSS
condannarono l’intervento e sotto pressione degli Stati Uniti si arriva a una tregua
favorita dall’ONU. La crisi ebbe profonde conseguenze: Nasser ne uscì trionfatore,
l’influenza sovietica nel mondo arabo aumentò, così come quella statunitense che prese
il posto delle due potenze coloniali ormai in declino, mentre si consolidò l’idea che
Israele fosse un avamposto occidentale. A seguito della crisi gran parte degli europei e
degli ebrei presenti in Egitto lasciarono il paese (molti anche gli italiani).
Dopo Suez Nasser accentuò il carattere “arabo” dell’Egitto per accreditare il suo
progetto pan-arabo che ebbe come passaggio importante l’unione nel 1958 con la Siria
(importante l’influenza del Partito siriano Ba’ath [Resurrezione] --- socialismo, unità
araba e rinascita nazionale intesa come indipendenza e riforma sociale) la nascita della
43
Repubblica Araba Unita, un’esperienza destinata al fallimento e chiusa nel1961.
Nonostante ciò l’Egitto rafforzò la sua leadership nel mondo arabo attraverso altri
canali: radio, cinema, musica.

La crisi di Cipro

Crisi di Cipro nel 1955. Nell’isola la popolazione è composta da 80% di greci e 20% turchi
– Cipro era dal 1878 sotto il controllo inglese. In seguito alla decisione della Gran
Bretagna di favorire l’indipendenza dell’isola, sorgono tensioni riguardo al futuro di
Cipro. Il principale problema è il movimento nazionalista ellenico che spinge per
l’annessione (Enosis) dell’isola alla Grecia. A guidare tale movimento è il vescovo
ortodosso Makarios. L’Occidente teme che l’isola, a maggioranza ortodossa, possa
diventare una pedina della politica dell’URSS nel Mediterraneo e quindi tende a
sostenere Makarios. I nazionalismi sono alimentati dalla stampa. La situazione si
infiamma quando una bomba viene fatta esplodere al consolato turco di Salonicco,
nelluogo dove sorge la casa natale di Mustafa Kemal, fondatore della Repubblica di
Turchia. A Istanbul (settembre ‘55) ci sono grandi manifestazioni di studenti, favorite dal
governo. Le manifestazioni degenerano in violenze contro i greci, con la distruzione e i
saccheggi dei negozi. Nel 1959 si trova accordo ma è fragile: nel 1960 Cipro diventa una
repubblica indipendente con Makarios presidente. La questione di Cipro pesa sulle
relazioni turco-greche. La Turchia era entrata nella NATO (l’Alleanza atlantica) nel ’52
diventando un baluardo occidentale in Medio Oriente, entrando in contrasto con il
mondo arabo guidato dal presidente egiziano Nasser che persegue una politica anti-
imperialista, ostile all’Occidente e che cerca sostegno nell’URSS. Le tensioni con la
Grecia, inoltre, indeboliscono il “patto balcanico” (tra Turchia, Grecia e Jugoslavia).

L’indipendenza dell’Algeria

https://www.raiplay.it/video/2020/02/passato-e-presente-la-guerra-di-algeria-
f45bb70e-b239-4e0d-b94e-d0154af9a0a8.html

La Guerra dei Sei giorni


44
Nel '67 si riapre conflitto arabo-israeliano. Con sostegno di Mosca Nasser porta avanti
politica pan-araba. Dopo alcuni scontri al confine siriano, Mosca accusa Israele di voler
invadere la Siria e spinge ad intervenire Nasser che cercava pretesto per azione politico-
militare. Il 14 maggio l'Egitto occupa il Sinai. Nasser punta a mettere alle strette Israele,
per dare prova di forza dell'Egitto come potenza regionale. L'Occidente si copre dietro
l'ONU impotente, Israele è isolato. Sotto la guida egiziana si schierano gli altri paesi
arabi; Israele decide di agire e il 4 giugno contrattacca: in 4 giorni sono conquistati
Sinai, Gaza, Suez. A est i giordani cedono la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Sotto la
spinta dei coloni della Galilea, Israele occupa il Golan, arrivando il 10 giugno a 60 Km da
Damasco. Lo stesso giorno, sotto richiesta ONU, si pone cessate il fuoco.
L'equilibrio delle forze in Medio Oriente sconvolto a favore di Israele. Vittoria militare e
diplomatica: asse USA-URSS del '56 è infranto. L'Occidente si schiera con la politica di
sicurezza di Israele.
La guerra del '67 ricompatta il fronte politico palestinese: i vari gruppi confluiscono tutti
nell'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Tra le varie fazioni prevale
gruppo di Arafat, presidente dal '69. Diversi orientamenti uniti da Carta Nazionale
Palestinese: nega esistenza di Stato di Israele e afferma diritto dei palestinesi a
combattere "invasione sionista". Dopo la guerra Israele conta su accordo con arabi che
però continuano a non riconoscere Israele e si oppongono a qualsiasi negoziato. La
mediazione ONU produce risoluzione (n° 242) molto ambigua: ritiro israeliano dai
territori occupati e necessità di frontiere certe e riconosciute per Israele. Per gli arabi
questione centrale è restituzione dei territori, per Israele sicurezza dei confini.
Nell'impasse la tensione resta alta: l'appoggio sovietico a Nasser e i rischi politici di un
nuovo conflitto spingono USA a cercare mediazione (1970). La svolta avviene alla morte
di Nasser (Settembre 1970). Il successore Sadat, alle prese con grave crisi interna, vuole
pace con Israele e si riavvicina agli USA. Israele però non si fida, è dominato da idea
della sicurezza nazionale e da necessità dell'occupazione (piani di colonizzazione dei
territori occupati).
OLP inizia azioni terroristiche, ma non ha sostegno popolare. Nel settembre 1970 il re di
Giordania espelle l'OLP che si sposta in Libano. Azioni terroristiche in Occidente cercano
di richiamare opinione internazionale sulla questione palestinese.
In Egitto la crisi interna si aggrava nel '72-'73. Il 6 ottobre '73, festa ebraica dello Yom
Kippur, Egitto e Siria attaccano simultaneamente Israele, penetrando rapidamente nel
45
Sinai e sul Golan. Israele si riorganizza e rovescia in breve le sorti del conflitto:
l'avanzata israeliana in Egitto spinge URSS a chiedere cessate il fuoco, imposto dall'ONU
(24 ottobre).
La guerra rivela vulnerabilità e dipendenza dagli USA di Israele. Potenza di Israele
relativa, mentre arabi ricorrono ad arma del petrolio.
La situazione di "né guerra, né pace" è superata da iniziativa personale di Sadat che
allaccia relazioni dirette con Israele a partire dal 1977, fino agli accordi di pace di Camp
David, raggiunti con il forte sostegno degli USA (1979).
Dopo Camp David Arafat si accredita sulla scena internazionale guidando il fronte
moderato dell'OLP. Resta nodo dei territori occupati: la destra israeliana punta a
progetto nazionalista della "grande Israele", i laburisti vogliono pace in cambio di
territori. L'idea della "autonomia" palestinese è inteso diversamente dai protagonisti: per
Israele ha carattere permanente, amministrativo-culturale, non territoriale, per USA ed
Egitto dev'essere transitoria e territoriale.
L'OLP intanto minaccia la Galilea dal Libano meridionale. Israele nel 1982 decide di
invadere il Libano, dilaniato da una guerra civile tra fazioni cristiane filo-israeliane, e
musulmani, sostenuti dalla Siria. Israele punta a fare del Libano un paese filo-israeliano
per ridimensionare la Siria. L'opzione militare fallisce: Israele si ritira e crea una "fascia
di sicurezza" nel sud del Libano (fino al ritiro definitivo nel 2000).

Avvento della globalizzazione e la “Revanche de Dieu”

Nella geografia della distensione, i regimi mediorientali “progressisti” e non allineati


avevano trovato ampio sostegno in Europa. Inoltre, nei primi anni Settanta, di fronte ai
limiti della potenza americana e alla constatazione che le superpotenze non erano in
grado di risolvere alcune delle crisi regionali - da Cipro alla Palestina – si consolidò la
convinzione che vi fosse uno spazio per una più decisa iniziativa politica, economica e
culturale europea nell’area mediorientale65. In questo quadro, lo shock petrolifero del
1973 rappresentò una cesura molto forte nelle relazioni tra Medio Oriente ed Europa,
costituendo unanimemente una data periodizzante. Nel dibattito storiografico su quegli
eventi l’attenzione si è progressivamente spostata dal focus sulle dinamiche
mediorientali – lo shock come rappresaglia araba al conflitto israelo-palestinese – ad uno

65E. Calandri, Il Mediterraneo nella politica estera italiana, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, pp.
366-369.
46
sguardo più attento ai processi globali, secondo due linee interpretative: una, più
sensibile alla cultura post-coloniale ha visto nella presa di posizione dei paesi arabi nel
1973 l’ultimo atto di “decolonizzazione” di governi arabi decisi a sottarsi al neo-
colonialismo delle grandi compagnie petrolifere e alle ingerenze occidentali; l’altra,
riconduce la crisi del ’73 agli effetti globali prodotti dalla fine dell’ordine economico
mondiale fissati a Bretton Woods, con l’avvio di una più forte deregulation dei mercati,
all’origine di quel nuovo “disordine mondiale” che segna l’attuale globalizzazione. La
crisi aveva tra le sue radici i mutamenti economico-finanziari prodotti dall’abbandono
da parte statunitense del gold exchange system nel ’71, ma fu vissuta dai paesi
produttori arabi aderenti all’OPEC come affermazione di una propria nuova soggettività
internazionale, quasi una reazione all’umiliazione a lungo subita da parte degli
occidentali dall’epoca dei mandati in poi.66 Tale svolta, non solo fece emergere il
protagonismo dei paesi produttori mediorientali, forti di una leva capace di condizionare
profondamente le politiche dei paesi europei, ma segnò l’avvento di un nuovo
interlocutore nel quadro di uno scenario internazionale che stava evolvendo in direzione
del superamento di un rigido bipolarismo. La crisi, inoltre, evidenziò in modo più
marcato il rilievo geopolitico della “rendita petrolifera”, spostando gradualmente gli
equilibri di potere della regione mediorientale verso l’area del Golfo, dove si
concentravano gran parte dei giacimenti. Dal ’73 alla metà degli anni Ottanta, quando
un contro-shock avrebbe drasticamente abbassato i prezzi del petrolio, i principali paesi
produttori godettero di una fase di crescita e di surplus finanziario senza precedenti.67
Tuttavia, il mix tra autoritarismo dei regimi politici, mancata ridistribuzione della
ricchezza, drastici mutamenti socio-culturali (emigrazione ed urbanizzazione) furono
all’origine delle forti tensioni che scossero i più importanti paesi dell’area nel triennio
1979-1981: l’attacco terroristico alla grande moschea della Mecca in Arabia Saudita
(1979), la rivoluzione in Iran (1979), il colpo di Stato militare in Turchia (1980) e le
violenze culminate con l’assassinio del presidente egiziano Sadat (1981). Tali crisi -
molto diverse tra loro per dinamiche ed esiti – hanno, però, in comune di aver fatto
emergere l’”alternativa islamica”, la multiforme galassia dell’islamismo politico capace

66R. Gilpin, I mutamenti economici degli anni Settanta e le loro conseguenze, in L’Italia repubblicana, cit., pp.
162-167.

67 Sul contro-shock si veda D. Basosi, G. Garavini, M. Trentin (eds.), Counter-Shock: The Oil Counter-Revolution of
the 1980s, Tauris, 2018.
47
di offrire l’unica opzione di opposizione a regimi sempre più autoritari e militarizzati.68
Dalla Fratellanza Musulmana ai movimenti “salafiti” fino alla nuova “teologia della
liberazione” elaborata da Komehini con un’innovazione profonda della tradizione
spirituale dello sciismo duodecimano, l’islamismo politico cominciò a far proseliti in
società giovani ma “bloccate”.69 In realtà in Turchia l’opzione islamica fu adottata dai
militari – in apparente rottura con il secolarismo kemalista – come fattore moralizzatore
e d’ordine nella vita pubblica, in un paese travagliato da un lacerante conflitto
ideologico tra sinistra marxista e destra nazionalista anti-comunista, che rifletteva
logiche più vicine a quelle europee. La cosiddetta “sintesi turco-islamica” (Türk islam
sintezi) adottata dallo Stato aprì, tuttavia, la strada all’avvento di movimenti islamisti
come quello capeggiato da Erbakan – referente in Turchia della fratellanza musulmana -
protagonista del panorama politico turco tra gli anni ’80 e ’90, dal cui fallimento
sarebbe poi scaturita l’esperienza dell’AKP di Erdoğan. In Arabia Saudita, intanto, la
reazione agli eventi della Mecca, portò la monarchia ad adottare la versione più puritana
e ortodossa del wahabbismo, nel tentativo di accreditare le proprie credenziali
islamiche agli occhi di popolazioni giovani sempre più critiche. Sebbene collocati in due
scenari molto diversi, si trattava di tentativi di “costituzionalizzare” l’alternativa
islamica, senza cogliere pienamente quanto la spinta islamista più che mossa da
motivazioni religiose, era prodotta soprattutto da ragioni socio-culturali legate
all’avvento di nuove generazioni più istruite e “globalizzate”. In Iran, la spinta
rivoluzionaria di una società profondamente trasformata – e in parte traumatizzata –
dalla modernizzazione spinta (la “rivoluzione bianca”) imposta dallo Scià tra gli anni ’60
e ’70, assunse un’identità islamica grazie agli Ayatollah che riuscirono a fornire una
classe dirigente alternativa, permettendo così alla rivoluzione di riuscire, ma l’Islam fu
per gran parte dei giovani iraniani la “grammatica della rivolta” di quella specie di “’68
islamico” destinato a contagiare molti loro coetanei della regione.
Se le dirigenze mediorientali, con scelte ed esiti diversi, cominciarono a fare i conti con
la forza dell’islamismo politico, gli europei faticarono molto a comprendere i
cambiamenti in atto. In un Europa segnata ancora dalla guerra fredda, le categorie
interpretative dominanti erano ancora quelle legate alle lotte di liberazione anti-
coloniali. La stampa e molti osservatori europei guardarono a quegli eventi nell’ottica

68 M. Campanini, L’alternativa islamica, Bruno Mondadori, 2012.

69Per una mappa dei gruppi e movimenti dell’Islam politico si rimanda a C. Eid, Osama e i suoi fratelli. Atlante
mondiale dell’islam politico, Pimedit, 2001, pp. 11-14.
48
della decolonizzazione, come una rivolta contro la pressione occidentale sul paese,
ispirata dai movimenti marxisti, in termini simili a quanto era avvenuto in Vietnam e
nelle ex-colonie portoghesi di Angola e Mozambico. A ispirare la rivolta contro lo Scià
c’erano anche intellettuali iraniani d’ispirazione “laica” i quali appoggiarono il
movimento di Khomeini convinti di poterlo controllare, finendo poi emarginati. Il loro
ruolo e la capacità di farsi ascoltare in Europa, specie nella prima fase della rivolta, ha
contribuito a forgiare una percezione parziale degli eventi. Tra questi va menzionato Alì
Shariati, tra gli animatori della rivoluzione, intellettuale d’ispirazione marxista che
cercava una sintesi con la tradizione sciita, traduttore in lingua farsi del famoso testo di
Franz Fanon, I dannati della terra, “bibbia” del terzomondismo europeo. Comprendere
cosa fosse la rivoluzione iraniana non era facile, ma pochi seppero coglierne le vere
novità. Tra gli osservatori più acuti, oltre al grande reporter polacco Riszard Kapuscinski,
vi fu Michel Foucault, uno dei principali intellettuali europei dell’epoca, inviato in Iran e
autore di una serie di articoli per il Corriere della Sera, il quale intuì la portata
rivoluzionaria dell’Islam:

"L'Islam rischia di costituire - scrive Foucault - una gigantesca polveriera. Da ieri ogni
stato musulmano può essere rivoluzionario dall'interno, a partire dalle sue tradizioni
secolari".70

Negli anni in cui in Europa i sociologi teorizzavano il definitivo declino della religione, la
rivoluzione in Iran portava alla ribalta l’Islam come grande “motore” del cambiamento
sociale e politico del paese, senza che in Europa se ne cogliessero pienamente le
conseguenze, alla luce anche del fatto che in gran parte dei paesi del Medio Oriente
governavano regimi “laici” espressione di ideologie – dal nazionalismo al socialismo – di
derivazione europea. In Iran, Khomeini ruppe con la tradizionale retorica anti-coloniale,
lasciando da parte il mito della modernizzazione e del progresso - presente nelle
correnti nazionaliste iraniane che si opponevano allo Scià – per elaborare, invece, una
serrata critica al modello consumistico della società occidentale, in nome degli autentici
valori persiani incarnati dalla tradizione sciita. Pur muovendosi in un orizzonte culturale
impregnato di molti riferimenti occidentali, Khomeini impose – anche mediaticamente –
una nuova retorica “islamica” la quale – senza abbandonare uno schema contrappositivo

70 M. Foucault, Taccuino persiano, Guerini, Milano, 1998.


49
– forniva concetti e parole d’ordine nuovi per contrastare l’egemonia occidentale.
L’Occidente divenne il “grande satana” che andava combattuto sul piano dei valori,
prima ancora che su quello politico. Tale discorso, oltre a spostare il dibattito iraniano
dai problemi interni alle questioni internazionali, introduceva l’idea di un conflitto
“culturale” e di “civiltà” nei confronti dell’Occidente.71
A partire dall’Iran, per ragioni diverse, gran parte dello scenario politico mediorientale
tese ad islamizzarsi, a cominciare dal linguaggio politico quando non nei veri e propri
contenuti dell’azione politica. Un primo esperimento in questo senso era stato quello
portato avanti da Gheddafi in Libia con il suo progetto di Repubblica islamo-socialista
(Jamahiriya) elaborato tra il 1975 e il 1977, rimasto però un caso isolato a causa del
ruolo marginale cui era relegato il leader libico nel mondo arabo. D’altro canto, anche
in Israele, la guerra dei “sei giorni” non solo acuì la questione palestinese con
l’occupazione della Cisgiordania, ma tale occupazione avviò un processo di
“sacralizzazione” della politica israeliana attorno al dibattito sulla “terra” occupata,
con la nascita agli inizi degli anni ’70 dei primi partiti religiosi.72 Fu una svolta
importante, oscurata dalla vicenda palestinese nella quale la leadership dell’OLP di
Arafat restava – per ragioni interne legate alla presenza nella dirigenza politica
palestinese di esponenti cristiani – ancorato a un discorso nazionalista, lontano da
riferimenti di matrice religiosa. Il carattere confessionalmente plurale del principale
movimento politico palestinese, spiega, peraltro, la crescente sfida che dovrà subire dai
movimenti concorrenti d’ispirazione islamica come Hamas. Proprio per il suo profilo e
per il carattere di movimento di liberazione, l’OLP seppe guadagnarsi crescente
appoggio in Europa, specie nei partiti e nei movimenti di sinistra che in Italia, e non
solo, tesero a modificare le loro posizioni man mano che la critica al neo-imperialismo
americano li spinse a prendere le distanze dall’originario filo-sionismo per sposare la
causa palestinese. Dopo la guerra del ’67 - a seguito di una più forte saldatura tra gli
USA e Israele - molti paesi in Europa, tra cui l’Italia, abbandonarono l’equidistanza tra i
due principali attori della crisi palestinese, scegliendo di sostenere maggiormente la
causa palestinese.73

71 B. Zarmandili, Lo specchio persiano: il “grande satana” nei media iraniani, “Limes”, 4, 1997, p. 61.

72 Si vedano le osservazioni di A. Bregman, La vittoria maledetta, Torino, Einaudi, 2017.

73L. Riccardi, Andreotti di nuovo a Palazzo Chigi: la politica estera italiana e il Medio Oriente fino alla Guerra del
Golfo (1989-1990), in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, vol. I, pp. 238-239.
50
Nel corso degli anni ‘80 l’attenzione degli europei nei confronti della regione
mediorientale fu prevalentemente concentrata, per ragioni ideologiche e culturali, sul
conflitto israelo-palestinese. Violente azioni terroristiche ad opera di cellule palestinesi
– dagli attacchi durante le Olimpiadi di Monaco nel ’72 agli attentati negli aeroporti di
Roma e Vienna nel dicembre 1985 – contribuirono a tenere viva l’attenzione europea
sulla questione palestinese. Con gli attentati i problemi del Medio Oriente arrivarono “in
casa” degli europei. La “prossimità” creata dal terrorismo e la conseguente attenzione
politica e mediatica verso la vicenda palestinese, contribuì a rafforzare in Europa l’idea
che il nodo israelo-palestinese fosse cruciale per restituire stabilità alla regione,
sostenendo gli sforzi verso la pace, concretizzatesi poi negli accordi di Oslo del 1993, cui
gli europei diedero un contributo significativo. In quegli anni, a favorire tale
orientamento contribuì anche, da una parte, l’avvio deciso, con il pontificato di
Giovanni Paolo II, del dialogo ebraico-cristiano all’interno della Chiesa cattolica
europea, e dall’altra, la riconsiderazione della centralità della Shoah nella vicenda
europea nel quadro di una rilettura della storia del Novecento sollecitata dalla caduta
del muro di Berlino. Tale riconsiderazione avvenne contestualmente al processo che
portò lo Stato di Israele ad assumere progressivamente la memoria della Shoah quale
fondamentale elemento dell’identità nazionale.74
Tramontata la stagione del panarabismo che aveva suscitato in Occidente grandi
speranze di un Medio Oriente orientato al progresso, alla modernizzazione e alla laicità,
non senza timori di un suo scivolamento nell’area di influenza sovietica, alla metà degli
anni ’80 si consolidò nella percezione europea l’idea di una regione instabile e insicura.
Nella politica europea il Mediterraneo acquistò rilievo, sempre più connesso alle
“politiche di sicurezza”. In quel periodo all’interno della CEE, nella quale il “fronte”
mediterraneo si era allargato con l’ingresso della Grecia e poi della Spagna, si portò
avanti con maggior convinzione una politica di cooperazione mediterranea, sviluppando
accordi commerciali con i paesi del Maghreb e soprattutto con la Turchia e Israele i due
paesi del Medio Oriente più stabili e con economie avanzate. Sono gli anni in cui in
Turchia, una volta tornato nel 1983 il potere ai civili, il premier Turgut Özal avvia
importanti riforme per liberalizzare e modernizzare le istituzioni e l’economia turche,
aprendo con decisione verso la prospettiva “europeista” di un’adesione del proprio

74 Come mostra Bensoussan fu soltanto dopo la guerra del ’67 che la memoria della Shoah divenne, accanto allo Stato e
alla fede ebraica, uno dei pilastri dell’identità nazionale. G. Bensoussan, Israele, un nome eterno. Lo Stato d’Israele, il
sionismo e lo sterminio degli Ebrei d’Europa, Torino, UTET, 2009.
51
paese alla CEE.75 Tutti questi elementi spinsero a considerare meno gli importanti
sviluppi prodotti dalla “prima guerra del Golfo” ossia il conflitto Iran-Iraq (1980-1988),
trascurando un elemento destinato a pesare sui futuri equilibri mediorientali, ovvero la
crescente affermazione del “fattore sciita”.76
Con la fine della guerra fredda lo scenario cambiò ulteriormente. Venuto meno l’assetto
bipolare, in un contesto internazionale che sembrava avviato verso un “nuovo disordine
mondiale”, mentre la crisi della ex-Jugoslavia sconvolgeva l’Europa mostrando la
micidiale miscela tra identità etniche e religiose, il segretario della NATO, Willy Claes,
nel 1995 rilasciò la seguente dichiarazione: “Il fondamentalismo islamico è pericoloso
per l’Occidente almeno quanto lo è stato il comunismo”.77 Si cominciò a parlare di
“pericolo verde” in un frangente in cui in Europa si percepiva, in modo sempre più
diffuso e confuso, una minaccia dal sud islamico. Tale percezione maturava mentre
l’Europa mediterranea era investita da nuovi e crescenti flussi migratori, soprattutto dal
Nord Africa. L’Italia, attraverso gli immigrati marocchini, tunisini ed egiziani, “scoprì”
l’Islam, un universo religioso estraneo di cui si ignorava quasi tutto. Lo spaesamento di
fronte a queste nuove presenze si intrecciava a rinascenti stereotipi che si consolidarono
alla luce delle vicende contemporanee: già dopo i fatti di Fiumicino, si era registrata
nella percezione collettiva italiana la tendenza ad associare i termini “immigrato/
terrorista/musulmano”, facendo emergere considerazioni che avevano sempre meno a
che fare con fattori di carattere politico-ideologico a favore di elementi più di carattere
socio-culturale. Nel 1990, un’importante personalità della Chiesa cattolica, il card.
Martini, arcivescovo di Milano e presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali
Europee (CCEE), tenne un discorso alla città significativamente intitolato “Noi e
l’Islam”, posizionando autorevolmente la Chiesa sulla linea dell’incontro e del dialogo
con i musulmani presenti in Europa, in continuità con le posizioni presenti
nell’episcopato francese e con le decise aperture compiute da Giovanni Paolo II con il
viaggio in Marocco nel ’85 e l’incontro interreligioso per la pace di Assisi nel 1986. La
“questione Islam” aprì in Europa un ampio dibattito su quale atteggiamento e strategie
adottare nei confronti dei musulmani, ma evidenziò anche la rilevanza del fattore

75Nel 1991 Özal pubblica il suo “manifesto” per l’Europa, Turkey in Europe: and Europe in Turkey, K. Rustem &
Brother, 1991.

76 V.Nasr, La rivincita sciita, EGEA, Milano, 2007. O. Roy, Iran: fra identità sciita e realpolitik, “Limes”, 1, 1997, pp.
83-85.

77 Intervista di Claes alla Süddeutsche Zaitung, 2 febbraio 1995.


52
religioso, oltre quello politico, facendo sì che istituzioni e realtà religiose acquistassero
un rilievo inedito nello spazio pubblico europeo. Un autorevole islamista francese, Gilles
Kepel nel 1991 parlò di “revanche de Dieu”, sottolineando il nuovo protagonismo delle
religioni sullo scenario globale contemporaneo.78
Nel Medio Oriente attraversato da correnti e movimenti fondamentalisti, tutto tese a
sacralizzarsi. Accenti religiosi assunse la guerra del Golfo del 1991, contro la grande
coalizione occidentale a guida USA, la cui presenza sul suolo saudita – considerata
“sacrilega” – attizzò le frange islamiste. Ma fu soprattutto la crisi algerina – per tanti
motivi avvertita come una vicenda “interna” all’Europa - ad essere percepita come una
pericolosa espressione di revanche “islamica”. L’opinione pubblica e i governi europei
sostennero il “golpe bianco” dei militari contro il Fronte Islamico di Salvezza (FIS) uscito
vincitore dalle elezioni del dicembre 1991.79 Per bloccare la deriva islamista si
avvallarono pratiche non democratiche all’origine della violentissima guerra civile che
travagliò il paese per alcuni anni. La violenza diffusa e il massacro dei monaci trappisti
di Tiberine nel 1996 rafforzarono in Europa l’idea di un conflitto tra Islam e mondo
cristiano. Il dialogo con l’Islam venne visto come un cedimento all’estremismo. Le
posizioni tesero a radicalizzarsi. La linea del dialogo si dovette misurare sempre più con
l’opzione contraria di chi auspicava risposte “muscolari” che trovavano fondamento
nelle tesi sullo “scontro delle civiltà” del politologo americano Samuel Huntington,
enunciate in un articolo di Foreign Affairs nel 1993 e successivamente ampliate in un
testo pubblicato nel 1996 destinato ad ampia circolazione a livello internazionale.80 Le
tesi di Huntington non sono particolarmente originali, ma intercettarono il sentire
diffuso di società disorientate dal venir meno di molti riferimenti abituali, fornendo una
mappa e delle chiavi di lettura chiare per interpretare il mondo dopo la guerra fredda.
Al confronto bipolare tra sistemi politico-ideologici, subentra lo scontro tra grandi
“civiltà”, cioè blocchi etnici, religiosi e culturali in cui risulterebbe diviso il mondo
multipolare del dopo ’89. Tale schema ha costituito la premessa per il ritorno all’idea di
una irriducibile alterità del mondo musulmano rispetto a quello occidentale. All’interno
di una visione pessimistica della storia, la frattura “topica” tra Islam e Occidente è stata

78G. Kepel, La Revanche de Dieu: Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, Paris, Seuil,
1991.

79Si veda M. Impagliazzo, M. Giro, Algeria in ostaggio. Tra esercito e fondamentalismo, storia di una pace difficile,
Guerini, Milano, 1997.

80 S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997.
53
riproposta in termini conflittuali, rafforzata dalla convinzione di una profonda
incompatibilità tra civiltà occidentale e “civiltà islamica. La chiave “culturalista” – e
“essenzialista” - di Huntington, oltre a non offrire strumenti efficaci per comprendere
dinamiche refrattarie a facili schematismi, assegnava all’Islam una centralità inedita
quale “fatto totale” capace di spiegare l’insieme delle vicende mediorientali, senza
cogliere il pluralismo e le faglie interne al mondo islamico. Seppure in termini negativi,
il fattore religioso tornava prepotentemente alla ribalta, con effetti paradossali se si
pensa alla fortuna di tali tesi proprio tra i fondamentalisti musulmani che in esse hanno
trovato conferma ai loro folli disegni di guerra ai “crociati” occidentali. Lo scontro tra
Islam e Occidente è alla base della retorica di Osama Bin Laden e del suo progetto
islamista “globale”.
L’attentato dell’11 settembre 2001 alle torri gemelle di New York non ha fatto che
confermare definitivamente la teoria dello “scontro delle civiltà” destinata a entrare
nel vocabolario corrente, diventando in Europa la chiave interpretativa
omnicomprensiva per spiegare sia gli eventi che interessano la regione mediorientale,
sia le comunità musulmane inserite nelle società locali. La guerra in Iraq e Afghanistan
del 2003 fu presentata come una guerra di “civiltà”, secondo la visione delle correnti
“neocon” americane. Di fronte alla dottrina del presidente Bush jr., molti paesi
mediorientali, però, guardarono all’Europa come area da cui poteva venire una linea
alternativa, anche se la politica europea scontava forti divisioni. In Europa la logica
dello “scontro” fu tra le ragioni che bloccarono il processo di adesione alla UE intrapreso
dalla Turchia, nonostante l’intenzione di Erdogan di perseguire con decisione l’obiettivo
dopo gli accordi di Copenaghen del 2005. Ma ulteriore conseguenza di questo clima è
stato il crescere dell’islamofobia nei confronti delle comunità islamiche presenti in
Europa (referendum svizzero contro i minareti, legge contro il velo in Francia,
movimenti anti-islamici in Olanda, manifestazioni contro le moschee in Italia).
Specularmente si è rafforzata in Europa l’attenzione ai cristiani d’Oriente, benché
percepiti prevalentemente come “vittime” della pressione islamica (tacendo delle
pesanti conseguenze su di essi dell’intervento occidentale in Iraq) e non come una
componente ancora decisiva per lo sviluppo del pluralismo nelle società mediorientali.81
La marginalizzazione delle comunità musulmane in Europa (di cui le rivolte delle banlieu
in Francia nel 2005 sono state un importante sintomo) ha costituito il terreno per il

81 Su questo si veda B. Heyberger, Les chrétiens au Proche-Orient : De la compassion à la compréhension, Paris, 2013.
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proliferare di movimenti e correnti estremiste, bacino di reclutamento di molti foreign
fighters impegnati nel conflitto siro-iracheno, al tempo stesso, però, è cresciuto anche
un “Islam europeo”, consapevole e integrato, globalizzato, capace di esprimere anche
quadri dirigenti.82 In questo senso, la guerra contro ISIS in Medio Oriente la si è in parte
“vinta” anche in Europa, integrando maggiormente i giovani musulmani di seconda e
terza generazione tentati dall’estremismo. Le società europee – specie in Francia, Belgio
e Germania – hanno progressivamente colto il legame tra diaspore mediorientali in
Europa e le tensioni presenti nella regione del Medio Oriente. Così anche si era
verificata una fiammata d’interesse verso i paesi arabi in occasione delle rivolte
giovanili scoppiate tra il 2010 e il 2011 in Tunisia, Egitto, Siria e Libia. La speranza in
Europa era quella di un’evoluzione democratica che avvicinasse quei paesi agli standard
occidentali, mentre i governi europei si mostravano più prudenti, presi dagli effetti della
crisi globale e preoccupati che la destabilizzazione del Medio Oriente aprisse la via al
fondamentalismo e a massicci flussi migratori. In questo senso l’entusiasmo per le
“primavere arabe” si è presto spento, senza cogliere più a fondo le cause e gli effetti di
tali rivolte destinate ad avere profondi effetti sull’Europa, a cominciare dalla crisi dei
migranti ancora aperta.83
In questo quadro, il contestuale processo di de-culturalizzazione della politica in Europa
e della religione nel mondo mediorientale, quella che Olivier Roy ha definito la “santa
ignoranza” prodotta dalla globalizzazione, ha favorito sia l’imporsi di visioni
“culturaliste” in Europa sia di atteggiamenti fondamentalisti nei paesi musulmani, con
un originale intreccio nel discorso pubblico di elementi politici e richiami religiosi, il
tutto potentemente amplificato dai media.84 Tutto ciò rivela una sorta di “strabismo”
reciproco, fatto di crescenti distanze e contrapposizioni (si pensi all’indifferenza verso il
conflitto siriano e l’ostilità di molti paesi europei verso i profughi, in gran parte
musulmani) accentuate da un crescente vuoto culturale incapace di fornire chiavi di
lettura e di interpretazione dei fenomeni, a fronte di sempre più strette relazioni tra le
popolazioni e crescenti scambi economici e culturali tra gli Stati. Medio Oriente ed
Europa mostrano in modo evidente gli effetti della globalizzazione: lungo l’area cerniera

82 S. Allievi, Musulmani d’Occidente: tendenza dell’Islam europeo, Carocci, Roma, 2002.

83
F.Rizzi, Mediterraneo in rivolta, Roma, 2011; C. Merlini, O. Roy (eds.), Arab Society in Revolt. The West’s
Mediterranean Challenge, Brookings Institution Press, Washington, 2012.

84 O. Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura, Milano, Feltrinelli, 2009.


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del Mediterraneo, sono cresciute le interrelazioni sempre più pervasive e profonde e al
tempo stesso le reazioni identitarie. A fronte di crescenti flussi migratori e in seguito
all’integrazione tra europei e popoli mediorientali si assiste all’affermazione di
nazionalismi, particolarismi e fondamentalismi sulle due sponde del Mediterraneo.
Proprio alla luce di queste interrelazioni, una nuova “profondità culturale” che permetta
l’incontro tra visioni, culture, fedi differenti resta il problema nodale per superare la
logica dello scontro, passaggio cruciale nelle attuali relazioni tra Medio Oriente ed
Europa.

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