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Diritto amministrativo, parte speciale.

Argomenti di diritto amministrativo, A. Contieri


Buonasera ragazzi, siamo venuti a conoscenza (da voi) che il nostro lavoro è stato reso pubblico
SENZA CONSENSO.
Ci teniamo a dirvi che noi non abbiamo venduto assolutamente nulla a nessuno e il lavoro ci è stato
RUBATO.
Non abbiamo divulgato il lavoro poiché NESSUNO di noi l'ha testata, ci sono diversi errori all'interno
e non sappiamo nemmeno quanto possa essere valido ai fini dell’esame, in quanto va affiancato ad un
libro. Avevamo deciso di tenerla tra di noi proprio per tutte queste motivazioni.
Non è stata divulgato semplicemente perché si tratta di un lavoro aleatorio. A questo punto ecco il
lavoro, ci è stato rubato e non ci abbiamo MAI guadagnato nulla.
I CAPITOLO= considerazioni sull’attività amministrativa consensuale
nell’ordinamento italiano. di Alfredo Contieri. Riassunto di Ruotolo

1. La pubblica amministrazione come titolare di un potere imperativo che si esprime


attraverso il provvedimento amministrativo. Teoria bipolare o del doppio grado.
Subordinazione del contratto che regola i rapporti economici al provvedimento che è la
forma del potere autoritativo

Il tema dell’amministrazione consensuale è solo apparentemente nuovo, anzi è forse uno dei
temi più antichi del diritto amministrativo. Quindi è stato oggetto di tantissimi studi da parte
della dottrina che dibatteva circa l’ammissibilità di questo tipo di amministrazione, cioè sulla
possibilità che il soggetto pubblico desse vita ad un accordo con il privato per perseguire un
pubblico interesse.

Originariamente, i rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino si sviluppavano come


rapporti di tipo contrattuale nelle forme del diritto privato. In realtà, il sistema del diritto
amministrativo odierno si forma nella seconda metà dell’Ottocento in base alla sistemazione
di Otto Mayer in Germania e ad una serie di interventi in Italia che trovano la loro
configurazione nel trattato di Vittorio Emanuele Orlando.

In base a ciò, la pubblica amministrazione esercita un potere autoritativo nei confronti del
cittadino in quanto portatrice del pubblico interesse, che deve prevalere su quello privato.
Questo sistema si fonda sul potere d’imperio dell’amministrazione che dà origine a delle
garanzie a vantaggio del cittadino.
La prima garanzia è la solenne affermazione del principio di legalità in base al quale
l’amministrazione può agire solo in base alla legge.
Il cardine di questo principio è la tipicità dei provvedimenti amministrativi che hanno la forza
particolare di modificare le situazioni giuridiche destinatarie.
Si pensi, ad esempio, alle concessioni che pur avendo un contenuto economico e natura
patrimoniale, hanno assunto la configurazione del provvedimento amministrativo.
Un altro esempio è riconducibile al pubblico impiego: si è discusso se l’atto di nomina del
pubblico dipendente avesse o meno natura contrattuale, come si sarebbe portati a pensare (c’è
scambio retribuzione/prestazione). Invece l’atto di nomina fu costruito come provvedimento
autoritativo.

Questo sistema ha convissuto sempre in quanto è l’amministrazione che ha bisogno del


privato per realizzare un rapporto che possa portare ad una soddisfazione del pubblico
interesse—-> es. per la costruzione delle prime reti ferroviarie, c’era la necessità da parte
della PA di ricorrere ai privati.

In dottrina, è stata individuata la categoria dei rapporti a collaborazione necessaria cioè


rapporti nei quali l’interesse pubblico viene realizzato attraverso l’attività dei privati.

La seconda coordinata da considerare è la tutela giurisdizionale. L’ordinamento italiano alla


fine dell’Ottocento vede la coesistenza di due giudici: il giudice ordinario e il giudice
amministrativo. Questa diversità ha influito sulla configurazione che hanno assunto una serie
di provvedimenti privi di carattere autoritativo ma qualificati ugualmente con provvedimenti
amministrativi.
Ad esempio, posizione del terzo leso da questi provvedimenti come chi non ha ottenuto la
concessione o la sovvenzione.

Il terzo elemento da considerare è la convivenza tra il momento unilaterale e autoritativo del


provvedimento e il momento consensuale del contratto cioè alla teoria dei contratti accessibili
a concessioni in Italia e alla teoria del doppio grado in Germania. Queste due teorie vedono
una duplicazione degli atti, nel senso che il provvedimento amministrativo è seguito dal
contratto ma è il provvedimento a dare origine al contratto stesso quindi si fa salvo il
principio del carattere unilaterale e autoritativo del potere amministrativo. Ciò favorisce la
tutela giurisdizionale e consente di separare gli aspetti autoritativi dell’atto dai suoi contenuti
patrimoniali.
Oltre a quello delle concessioni e delle sovvenzioni, abbiamo il settore delle convenzioni
urbanistiche dove abbiamo un atto unilaterale di approvazione del piano urbanistico che
precede la stipula di convenzioni in cui c’è un rapporto di scambio.

Ora perché l’ordinamento ha seguito queste coordinate?


Anziché far assumere a questi rapporti la veste di rapporti di tipo contrattuale, si è preferito
andare nella direzione della necessità dell’atto autoritativo.
1. Una prima spiegazione della scelta del sistema bipolare va individuata nell’esistenza
di due giudici e diverse tutele.
2. La seconda ragione è che bisogna considerare la necessità della pubblica
amministrazione di perseguire e soddisfare l’interesse pubblico
Le principali obiezioni alla configurabilità di questi rapporti come tipo contrattuale derivano
dal fatto che il contratto obbliga le parti ma l’ amministrazione ha il dovere di soddisfare
l’interesse pubblico. L’esistenza del provvedimento e la sua prevalenza sull’atto consensuale
accessorio, consentiva tale adeguamento attraverso la revoca del primo. Se invece si fosse
seguita la via del contratto, sarebbe stato un contratto diverso rispetto a quello di diritto
privato definito contratto di diritto pubblico. Quest’ultimo ha un oggetto consistente
nell’esercizio della funzione amministrativa e riconosce ad una delle parti la possibilità di
recedere unilateralmente.

3. Ostacoli teorici all’ammissibilità del contratto di diritto pubblico; impossibilità


dell’incontro tra poteri di natura diversa: discrezionalità amministrativa,
autonomia privata

Le obiezioni sollevate in ordine all’ammissibilità sul piano teorico del contratto di diritto
pubblico erano principalmente due.
1) Il potere non è negoziabile e non può essere oggetto di scambio -> perché
l’amministrazione è destinata a soddisfare un interesse generale.
C’è il timore che se si accedesse ad una figura di tipo contrattuale si potrebbe violare
il principio di imparzialità, favorendo qualcuno a danno di altri.
In realtà, attraverso il provvedimento imperativo, la possibilità di favorire qualcuno è
identica ma l’idea che si possa creare un rapporto di scambio sul piano formale tra
amministrazione e cittadini è stata messa da parte.
2) Difficoltà ad immaginare la confluenza in un unico atto di due tipi di volontà e di
potere—> ciò perché l’autonomia privata è libera, mentre la discrezionalità
amministrativa è un potere vincolato nel fine.
Sono manifestazioni di volontà inconciliabili. In realtà, il momento del potere
amministrativo autoritativo è garantito dall’esistenza di un provvedimento.
Si ritiene il contratto successivo un vero e proprio contratto di diritto privato, la cui
sorte è subordinata al provvedimento. Per cui l’annullamento o la revoca del
provvedimento amministrativo fa venir meno un presupposto del concetto stesso.
Allo stesso tempo, però, si cominciò a parlare della nuova figura del contratto di diritto
pubblico. Secondo questa impostazione avremo un tertium genus tra provvedimento e
contratto di diritto privato.
È un contratto che ha ad oggetto l’esercizio del potere amministrativo ma ha delle sue regole
proprie esorbitanti, secondo la dottrina francese, dai poteri di cui dispone normalmente uno
dei contraenti (come la possibilità di recesso da parte dell’amministrazione).
Quindi ha delle sue regole proprie e non corrisponde al contratto codicistico ex articolo 1321
del Codice Civile.
Ci sono state diverse discussioni in dottrina secondo l'ammissibilità di quest’ultimo. In
Germania il dibattito si è chiuso con l’emanazione della legge sul procedimento
amministrativo del 1976 che ha stabilito l’esistenza del contratto di diritto pubblico,
tracciando una serie di regole molto analitiche.
4. La legge n 241 del 1990 in Italia. L’articolo 11: gli accordi tra amministrazione e
privati. Gli accordi integrativi e sostitutivi. Utilità degli accordi: stabilità del
rapporto e impossibilità per il privato che ha prestato il consenso di opporsi

In Italia il tema dell’ammissibilità del contratto di diritto pubblico è stato nuovamente


affrontato negli anni 80’. Tra le tappe fondamentali ritroviamo uno studio sulle concessioni
che ha dimostrato la possibilità che il provvedimento che precede la stipula del contratto
successivo è un atto non autoritativo.
In pratica, l’amministrazione esercita tutto il suo potere di scelta e di valutazione
discrezionale in quell’atto che non ha alcun carattere autoritativo, ma è una manifestazione di
volontà che dà luogo alla stipula di un accordo consensuale di tipo paritario.

Negli anni 80’ in Italia cambia il clima culturale e politico e si vanno a creare le condizioni
che portarono poi alla legge 241 del 1990.
L’ammissibilità del rapporto consensuale passa attraverso una trasformazione del Paese e
soprattutto del mutato ruolo che ha l’amministrazione, infatti si passa da un’amministrazione
di tipo autoritativo ad un’amministrazione di prestazioni.
Questo mutato ruolo va a sottolineare l’esistenza di un rapporto di scambio tra cittadino e
amministrazione.
È questo il contesto che favorì l’approvazione della legge n 241 del 1990, che risulta essere il
risultato di diverse modifiche apportate al testo originario redatto dalla commissione Nigro.
Infatti erano previsti, oltre alla solenne affermazione del principio di consensualità, anche
una serie di accordi ma è rimasto nel testo di legge soltanto l’articolo 11 che prevede due
figure di accordi: integrativi e sostitutivi.
Tuttavia, la legge 241 non ha posto fine al dibattito sull’ammissibilità del contratto di diritto
pubblico perché c’è chi sostiene che gli accordi in oggetto siano contratti di diritto privato,
mentre la maggioranza ritiene che siano figure diverse.

L’articolo 11 ha carattere di norma generale e secondo la maggior parte della dottrina non si
riferisce solo ai due tipi di accordi da esso previsti (integrativi e sostitutivi) ma viene
interpretata come una norma che disciplina tutti i rapporti consensuali tra soggetti privati e
pubblica amministrazione.
Ma non nell’esercizio di attività di diritto privato dell’amministrazione.
La norma ipotizza l’esistenza di questi accordi come continuazione o conclusione della
partecipazione.
Che questo contratto abbia un oggetto pubblico (cioè l’esercizio di una funzione
amministrativa) lo si ricava, non solo dalla topografia della norma all’interno della legge, ma
anche dal dato testuale allorché si prevede che gli accordi procedimentali hanno ad oggetto il
contenuto discrezionale del provvedimento. Quindi oggetto dell’accordo è il contenuto del
provvedimento e ciò indica che l’accordo è una conclusione possibile del procedimento ed è
un’alternativa possibile al provvedimento.

Inoltre, l’articolo 11 prevede che sono applicabili i principi desumibili dalle norme del codice
civile in materia di obbligazioni e contratti, ove compatibili.
Sicché, i fautori della natura privatistica dell’accordo fanno leva su questo riferimento ma in
realtà si tratta di principi desumibili dalle norme solo ove compatibili.
Si deve sottolineare l’ambiguità della disposizione che carica sull’amministrazione ma anche
sul giudice la responsabilità dell’applicazione.
La circostanza che sia stata devoluta alla giurisdizione esclusiva ogni questione circa
l’accordo è un elemento che ha fatto propendere per la natura pubblicistica di questi accordi.
I fautori dell’unilateralità della funzione amministrativa hanno tentato di sminuire il
significato degli accordi procedimentali, in base alla considerazione che comunque è
necessario il provvedimento poiché gli effetti diretti nei confronti dei terzi discendono dal
quest’ultimo. Ma un’attenta lettura della norma porta a conclusioni completamente diverse
perché il momento nel quale viene adottata la decisione è quello dell’accordo.
A questo punto il provvedimento risulta essere un veicolo in quanto serve a portare quei
contenuti all’esterno del procedimento ma il momento della decisione è quello dell’accordo.
Infatti, l’amministrazione non può rifiutarsi di emanare il provvedimento ma può recedere
dall’accordo.

Perché allora la legge considera ancora necessario il provvedimento in questo tipo di


accordo?
Perché si è deciso di seguire la tradizionale configurazione bipolare di questo tipo di
rapporti, ritenendo che l’esistenza del provvedimento fosse più coerente e che favorisse la
tutela dei terzi, dando luogo ad un atto impugnabile.
Tuttavia, si può pensare ad un accordo che sia direttamente impugnabile dai terzi, come
avviene nel caso dell’accordo di programma che prevede ci sia un atto unilaterale del
Presidente della regione, del sindaco o del Presidente della provincia che faccia propri i
contenuti dell’accordo. È anche vero che l’accordo sostitutivo è proprio la dimostrazione
della non necessità del provvedimento.

Uno dei principali vantaggi dell’accordo è la maggiore adattabilità della struttura contrattuale
rispetto al provvedimento, cioè strumento più idoneo a soddisfare il principio di adeguatezza.
Inoltre, la potenziale maggiore ricchezza di contenuti può portare l’amministrazione a
introdurre nell’accordo clausole e condizioni che non potrebbero essere inserite nel
provvedimento, ancora imprigionato nel principio di tipicità.
Questa considerazione andrebbe riferita anche all’accordo integrativo.
L’accordo ha poi il vantaggio che gli deriva dal possedere la forza e l’effettività di una
decisione condivisa e stabile. Effettività deriva dal vincolo e la discrezionalità si è consumata
nell’accordo.
Altra caratteristica è la sua stabilità: l’adesione all’accordo determina acquiescenza del
privato che non potrà più impugnare quella decisione o provvedimento, però ha garanzia di
sapere che quell’assetto di interessi può essere rimosso o modificato per nuove ragioni di
pubblico interesse.
Si accompagna a ciò il diritto all’indennizzo e l’amministrazione deve comportarsi secondo
buona fede per cui è tenuta a fare un tentativo di rinegoziazione dell’accordo prima di
esercitare il recesso.
L’intervento del legislatore con la legge 15 del 2005 ha comportato due importanti
innovazioni per quanto riguarda l’articolo 11:
- Caduta della barriera che limitava l’applicabilità degli accordi sostitutivi solo i casi
previsti dalla legge. Da allora l’accordo sostitutivo è diventato un modulo
assolutamente alternativo rispetto al provvedimento, ripristinando la previsione del
testo della commissione Nigro.
- Introduzione di una nuova disposizione dell’articolo 11 perché al comma 4- bis si
prevede che la stipula dell’accordo è preceduta da una determinazione dell’organo che
sarebbe competente all’adozione del provvedimento per garantire imparzialità e buon
andamento dell’azione amministrativa.

Quindi, da un lato, abbiamo la liberalizzazione dell’accordo sostitutivo da figura tipica ad


atipica. È un modulo autosufficiente che non deve essere seguito da un provvedimento
(accordo sostitutivo produce tutti gli effetti ed è atto impugnabile).
Dall’altro lato, però è previsto un atto preliminare all’accordo: il soggetto titolare della
competenza ad emanare il provvedimento adotta un atto nel quale esterna le motivazioni per
le quali ritiene che sia più opportuna la stipula dell’accordo anziché l’emanazione del
provvedimento unilaterale. Quindi, avendo un atto preliminare all’accordo, si assiste a una
rivisitazione del modulo bipolare.
In effetti, si è introdotta una riedizione della bipolarizzazione dei due versanti: unilaterale e
consensuale, la cui motivazione va individuata nel rafforzamento della tutela dei terzi.
Si è delineata una sequenza opposta a quella dell’accordo integrativo o preliminare: abbiamo
prima il provvedimento e poi la stipula dell’accordo sostitutivo.
Se pensiamo che questa sequenza vale anche per l’accordo preliminare dovremmo ipotizzare
che l’iter sia provvedimento-accordo-provvedimento, con la presenza di due momenti
unilaterali ed uno centrale dell’accordo.
L’accordo sostitutivo risulta essere un modulo maggiormente conforme al principio di
semplificazione, per cui dovrebbe forse divenire l’unica figura di accordo praticata nella
prassi delle amministrazioni.
Si può anche osservare che l’introduzione dell’atto unilaterale preliminare all’accordo può
anche essere interpretata come il riapparire di quell’antica diffidenza nei confronti degli
accordi tra amministrazioni e privati. A questa logica appartiene anche la legge n190 del
2012 di contrasto alla corruzione che prevede, non solo che l’atto preliminare debba essere
motivato, ma anche l’accordo—> ciò ha comportato un ulteriore appesantimento della
fattispecie poiché si richiede una duplicazione della motivazione.

Bisogna poi domandarsi se l’amministrazione possa ottenere attraverso l’accordo un


vantaggio maggiore rispetto a quello derivante dall’emanazione del provvedimento.
Il confine è di difficile individuazione anche tenendo presente che le varianti aggiuntive
dell’accordo rispetto al provvedimento sono infinite.
È chiaro che, anche nei confronti dell’accordo, dovrebbe ritenersi soddisfatto il principio di
legalità ma qui confliggono il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi e quello
di atipicità dei contratti.
5. Accordi tra pubbliche amministrazioni. Diversa origine e funzione

Il tema degli accordi tra le pubbliche amministrazioni ha radici antichissime.


La sua affermazione non ha incontrato gli stessi ostacoli degli accordi con i privati poiché
abbiamo oggetti tendenzialmente paritari ed ha trovato la sua codificazione molto prima. Già
negli anni 70’ parliamo di convenzioni tra enti pubblici e in particolare tra enti territoriali.
Anche la dottrina tedesca del 900 parlava di accordi organizzatori in cui le parti adottavano
una disciplina comune.
La funzione degli accordi tra amministrazioni è quella di strumento di coordinamento: serve a
coordinare l’attività di più amministrazioni in un sistema caratterizzato da una pluralità di
soggetti pubblici.
Gli accordi tra pubbliche amministrazioni non avrebbero il carattere di accordi sinallagmatici
ma quello di accordi di tipo associativo o di contratti con comunanza di scopo: le singole
prestazioni non sono previste nell’interesse della controparte ma tendono a soddisfare un
interesse comune a tutti i contraenti.
Esempio tipico sono gli accordi di programma che vedono coinvolti Comuni, Regioni,
Province, Stato ed altri soggetti pubblici.
L’articolo 15 della legge 241 del 1990 rinvia all’articolo 11 per quanto riguarda la disciplina
degli accordi tra amministrazioni, tranne che per il recesso, che non è previsto per questi
ultimi.
L’accordo è un modo di ricostruire l’unità dell’amministrazione in una frammentazione che si
è verificata con l’aumento del pluralismo istituzionale e del principio autonomistico—>
rappresenta un modello contrattuale per superare le diversità in una società complessa e
democratica.

5. L’accordo di programma. Articolo 34 del T.U. dell’ordinamento degli enti locali


Mediante l’accordo di programma ci si obbliga a compiere una certa attività comune. Ha una
funzione organizzativa e programmatica in quanto disciplina le condotte future ma ha anche
un carattere più politico che giuridico perché, sebbene rappresenti un reticolo di obblighi che
le parti assumono, è difficile immaginare una tutela del singolo contraente nell’ipotesi di
inadempimento da parte dell’altro soggetto proprio perché ciò che li lega è un vincolo di tipo
politico.
Per quanto riguarda la sua valenza normativa, l’accordo predetermina i rispettivi
comportamenti futuri ai quali le parti si impegnano attraverso il vincolo contrattuale. Mentre
sul piano organizzativo, individua le forme di mezzi per il perseguimento dell’interesse
comune.
Si realizza un passaggio da un’organizzazione per figure soggettive ad un organizzazione per
strutture-compito nelle quali regole della competenza cedono a quelle del compito.
Sono previste l’istituzione di un organo collegiale con compiti di vigilanza sulla sua
esecuzione, la previsione degli interventi surrogatori di eventuali inadempienze e
procedimenti di arbitrato e l’inconfigurabilità del recesso—> tutti elementi che indicano una
forte tensione verso il risultato.
La forza dell’accordo risiede nella sua idoneità alla produzione di norme derogatorie,
organizzative e procedimentali che si tramutano in obblighi tra le parti.
La disciplina contrattuale mira, non a tutelare l’interesse patrimoniale delle parti, bensì ad
acquistare quelle misure che attraverso una sorta di esecuzione in forma specifica assicurino
il raggiungimento dello scopo (come l’intervento sostitutivo). Ciò spiega il fatto che non si
tratta di contratti di scambio ma con comunione di scopo.

6. Altre forme di convenzioni tra enti locali. L’accordo ad adesione obbligatoria ed a


contenuto già definito. Contratto senza consenso e senza autonomia negoziale
Va segnalata la presenza nel nostro ordinamento di disposizioni settoriali che non si limitano
a prevedere la possibilità che i soggetti pubblici stipulino un accordo, ma addirittura lo
impongono.
Le origini di questo modello erano già rinvenibili nella legge 142 del 1990 e sono oggi
presenti nell’articolo 30 del testo unico dell’ordinamento degli enti locali, ove al 3 comma è
previsto che “Per la gestione a tempo determinato di uno specifico servizio o per la
realizzazione di un’opera, lo Stato e la regione possono prevedere forme di convenzione
obbligatoria fra enti locali, previa statuizione di un disciplinare tipo.”
Sono modelli contrattuali obbligati privi dell’elemento della volontarietà, infatti si tratta
perlopiù di casi di contratti associativi.
Gli accordi obbligatori costituiscono un'ulteriore conferma della diversità degli accordi
pubblicistici dal contratto di diritto privato.
In queste nuove figure di accordi si afferma un fenomeno paradossale di contrattualità senza
consenso. Sono moduli che hanno l’autoritarietà del provvedimento e la vincolatività del
contratto.
Si tratta di fattispecie attraverso le quali l’amministrazione di risultato rischia di cancellare
l’amministrazione consensuale, oltre che una reale ed effettiva collaborazione tra enti. Siamo
quindi di fronte ad una nuova forma di coordinamento che ha strumentalizzato il modulo
contrattuale traendone il suo valore più qualificante.

7. I commi 1-bis e 2-bis dell’art 1 della legge 241 del 1990. Ricorso al diritto privato per
l’esercizio di poteri non autoritativi, buona fede e affidamento
Il tema della consensualità si è reso ancora più complesso a causa dell’articolo 1-bis della
legge 241 secondo cui “La pubblica amministrazione nell’adozione di atti di natura non
autoritativa agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga
diversamente”
Bisogna cercare di capire se ci troviamo di fronte a una figura diversa dall’articolo 11 che si
applica a moduli pubblicistici.
La previsione del ricorso al diritto privato da parte dell’amministrazione come si colloca
rispetto all’articolo 11?
Si deve tener presente che l'art 1 bis è il risultato di un sofferto iter parlamentare. Infatti, nella
sua originaria configurazione sembrava che la norma dicesse che l’amministrazione agisce
normalmente attraverso norme di diritto privato.
La versione attuale parla di atti di natura non autoritativa salvo che la legge disponga
diversamente: l’amministrazione nei casi previsti dalla legge continua ad agire secondo le
norme di diritto pubblico.
Quindi sembra che in qualche modo sia prevista una riserva di procedimento pubblicistico.
Avendo solo una clausola generale di preferenza del diritto privato, a condizione che la legge
non disponga diversamente, possiamo fare due ipotesi:
● caso in cui l’amministrazione utilizzi il diritto privato in assenza di una previsione
legislativa che attribuisca questo potere—> Dovremmo considerare un’attività
amministrativa che si ponga al di fuori del principio di legalità; ma l’amministrazione
per definizione agisce in base a tale principio.

● caso in cui l’amministrazione agisca sulla base di una norma di legge—> dovremmo
concludere che abbiamo solo una previsione di carattere programmatico, un mero
invito alle legislatore; quindi bisognerebbe immaginare una norma che tipizzi il
ricorso al diritto privato altrimenti questa disposizione non avrebbe senso,se non come
opzione ideologica.

Quella prefigurata dall’arti 1 bis è un’attività che dovrebbe sostituire l’attività amministrativa
vera e propria per cui il ricorso alle norme del diritto privato dovrebbe essere qualcosa di
diverso dall’accordo previsto dall’articolo 11.
Il problema è che anche questo tipo di attività l’amministrazione rimane legata al rispetto dei
principi di imparzialità e vincolata al perseguimento di un pubblico interesse pur avendo
un’attività di diritto privato.
Si può allora ipotizzare che in realtà il ricorso al diritto privato comunque nasca dal
procedimento e si formi nel procedimento. Cioè l’articolo 1 bis potrebbe anche far intendere
che il procedimento rimanga uguale ma cambia l’atto finale, per cui la produzione degli
effetti potrebbe derivare da un contratto anziché da un provvedimento.
Però il procedimento rimarrebbe il luogo di formazione della decisione perché consente di
assicurare un’adeguata tutela e presa in considerazione di tutte le posizioni.

Questa norma potrebbe essere l’occasione per meditare sulla necessità di considerare
provvedimenti amministrativi quegli atti che hanno un bassissimo tasso di autoritatività.
Inoltre, la norma parla di atto non autoritativo e bisogna capire cosa significhi:
-se atto autoritativo significa esercizio di poteri—>quindi riguarda tutto il panorama della
pubblica amministrazione
- o se come non autoritativo si può identificare tutto un settore di atti amministrativi che per
situazioni contingenti nel nostro ordinamento sono stati considerati provvedimenti (ad
esempio: atti di aggiudicazione delle gare pubbliche, atti ampliativi della sfera giuridica dei
destinatari come le concezioni e le sovvenzioni)

Infine, è stato aggiunto il comma 2-bis dell’articolo 1 della legge n 241, riprendendo
l’articolo 12 comma 1 della legge n120 del 2020 secondo cui” I rapporti tra il cittadino e la
pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona
fede”.
Questa previsione può considerarsi la codificazione di un orientamento delle Sezioni Unite
della Cassazione affermatosi a partire dal 2020.
Si è posto un problema in giurisprudenza circa il caso di annullamento giurisdizionale del
provvedimento favorevole, sulla cui legittimità il privato aveva confidato in ragione del
rapporto di fiducia tra cittadino e amministrazione.
La conseguente lesione di un legittimo affidamento dà luogo, secondo la Cassazione, al
risarcimento del danno da richiedersi dinanzi al giudice ordinario, trattandosi di lesione di un
diritto soggettivo.
Al contrario, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in due pronunce n 19 e 20 del
2021, non solo ha rivendicato la giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di
posizione di interesse legittimo, ma ha affermato che non è tutelabile la posizione nascente
dall’affidamento derivante da un atto illegittimo.
Anche l’Adunanza plenaria dà rilievo all’affidamento come interesse legittimo, diversamente
da quanto ritenuto dalle Sezioni Unite per cui l’affidamento costituirebbe sempre un diritto
soggettivo.

L’Adunanza plenaria si è soffermata anche sull’identificazione del danno causato dalla


lesione dell’affidamento del privato. Ha precisato che il danno risarcito non può essere
parametrato al bene della vita perso bensì a ristorare il convincimento ragionevole ed
incolpevole maturato dal beneficiario.
Inoltre, per essere risarcito l’affidamento tutelato deve essere ragionevole e incolpevole
ovvero fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione in cui il
privato abbia confidato senza colpa.
Quindi l’affidamento incolpevole del privato va escluso, non solo nel caso in cui quest’ultimo
ha indotto dolosamente l’amministrazione ad emanare il provvedimento illegittimo, ma anche
quando l’illegittimità del provvedimento era evidente e avrebbe potuto essere facilmente
riconosciuta. Se il provvedimento favorevole viene impugnato in un arco temporale di 60
giorni, l’annullamento dello stesso diviene un’evenienza non imprevedibile.

CAPITOLO 2 Il riesame del provvedimento amministrativo: annullamento e


revoca dopo la legge n. 124/2015 (cosiddetta legge Madia) – di Alfredo Contieri.
Riassunto di Pascale

1. L'attuale configurazione dei provvedimenti di secondo grado.


La legge n. 124/2015, la legge Madia, è un ambizioso progetto di riorganizzazione delle pubbliche
amministrazioni attraverso l'introduzione di norme volte a migliorare e potenziare la semplificazione
amministrativa, la trasparenza, la prevenzione della corruzione e a introdurre modifiche
sull'organizzazione degli uffici statali, sulla dirigenza e sul rapporto di lavoro.
La legge n. 124/2015 è una legge delega, destinata a produrre effetti attraverso successivi decreti
delegati ma contiene anche norme che sono entrate immediatamente in vigore, basti pensare
all'articolo 3 che ha introdotto nella legge 241/1990 la disposizione di cui all'articolo 17-bis in tema di
"silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni e
servizi pubblici" e l'articolo 6 "autotutela amministrativa" che ridisegna il potere di riesame e la
SCIA.
Il termine autotutela potrebbe ritenersi non più necessario, poiché questi poteri potrebbero rientrare
nei procedimenti di secondo grado o di riesame; il termine autotutela non viene utilizzato solo nella
legislazione ma anche nella giurisprudenza.
Nell'Adunanza Plenaria n. 14 del 2014 possiamo ricordare due figure diverse di autotutela: in tema di
recesso dai contratti e di potere dell'amministrazione di intervenire con provvedimenti autoritativi
come revoca e annullamento sull'aggiudicazione. La sentenza introduce la nozione di autotutela
privatistica, ossia di recesso, una volta stipulato il contratto di appalto e richiama gli art. 134 e 135 del
codice dei contratti pubblici, nonché l'art. 21-septies della legge 241/1990 che riconosce il potere di
recesso dai contratti se previsto dalla legge
La stessa sentenza n. 14/2014 parla di autotutela autoritativa, vale a dire un'altra forma di intervento
dell'amministrazione sui contratti di appalto, in applicazione delle norme antimafia; mentre, abbiamo
poi, le ipotesi di annullamento e aggiudicazione che rientrano nella tradizionale ipotesi di autotutela
decisoria.
All'interno dell'art. 6 della legge Madia possiamo notare un paradossale riferimento alla SCIA proprio
nel momento in cui sono stati eliminati quei poteri di autotutela (art. 21-quinquies e 21-nonies). La
disposizione si limita a stabilire che l'amministrazione può intervenire se ricorrono le condizioni ex
art. 21-nonies, sopprimendo il potere di revoca e limitando il potere di intervento successivo solo
entro 12 mesi e per motivi di interesse pubblico.
Attraverso l'art.6 (l. 124/2015), all'interno della disciplina del potere di annullamento contenuta
nell'art. 21-nonies (l. 241/1990) si aggiunge all'espressione "entro un termine ragionevole" quella
"non superiore a 18 mesi (successivamente ridotto a 12) dal momento dell'adozione di provvedimenti
di autorizzazione e di attribuzione di vantaggi economici incluso i casi in cui il provvedimento si sia
formato ai sensi dell'art. 20" (nei casi di silenzio assenso).
Il termine dei 18 mesi, come sancito dal comma 2-bis, prevede che lo spirare dei 18 mesi non
costituisca un limite all'annullamento nelle ipotesi in cui vi siano state false dichiarazioni sostitutive di
certificazioni o atti di notorietà o false rappresentazioni della realtà.
Importante è a proposito dell'autotutela o di riesame parlare della legge n. 164/2014, la legge "Sblocca
Italia". Questa legge ha avuto particolare rilevanza in materia di revoca: ha abolito la revoca ius
poenitendi (revoca pentimento o ripensamento).
La legge n. 164/2014 si è previsto che in tema di annullamento che il dirigente è responsabile per i
danni causati dall'annullamento o anche del mancato annullamento del provvedimento.
Bisogna chiedersi se tutto ciò sia il risultato di un disegno consapevole o meno, poiché vi sono
interventi frammentari, episodici; ma, in realtà può dirsi che almeno in questa riforma del riesame
esiste un chiaro motivo ispiratore. Difatti questa riforma va inserita nel processo di trasformazione
dell'amministrazione rivolto alla semplificazione delle procedure e liberalizzazione delle attività
economiche; semplificazione e liberalizzazione che sono concetti in contrasto con l'autotutela, che è
un potere dell'amministrazione estremamente autoritativo, un potere in grado di prevalere sulle
situazioni favorevoli sorte dal provvedimento di primo grado.
La riduzione dell'autoritatività è da ricondurre alla riduzione del ruolo del provvedimento e dello
stesso procedimento, basti pensare all'introduzione degli accordi, del silenzio assenso e della SCIA.
Il potere di riesame ha subito forti limitazioni; la legge Madia ha come scopo quello di favorire e
rafforzare l'esigenza di certezza e stabilità dei rapporti giuridici a discapito della legittimità dell'azione
amministrativa. I principi ai quali sembra ispirarsi questa norma sono quello dell'affidamento e in
misura minore il principio di proporzionalità, per la particolare rilevanza che assumono le posizioni
favorevoli; ma, guardando all'evoluzione storica del potere del riesame, possiamo notare che i due
principali istituti, revoca e annullamento, sono sempre stati fortemente condizionati dall'esigenza della
considerazione delle posizioni favorevoli. Questi istituiti hanno matrice giurisprudenziale, nascono
nella prospettiva del giudice, l'annullamento nasce quindi come istituto nel quale devono convivere
l'interesse pubblico alla legalità e quelli privati alla conservazione dei benefici acquisiti dal
provvedimento illegittimo.
La natura discrezionale del potere, l'obbligo di una motivazione congrua e adeguata, l'esistenza di un
interesse pubblico rispetto a quello del mero ripristino della legalità sono le coordinate
giurisprudenziali che hanno sempre condizionato e limitato il potere sin dall'inizio, il ripristino della
legalità è sempre stato sempre secondario rispetto all'interesse pubblico all'annullamento e alla dovuta
considerazione degli interessi favorevoli.
Anche la revoca ha destato per molto tempo forti perplessità e resistenze anche nella stessa
giurisprudenza, la stessa sussistenza di questi istituti (annullamento e revoca) nel concetto di
autotutela è sembrato un modo per renderli compatibili con lo stato di diritto, pur non essendo previsti
dalla legge.
Autotutela intesa come sovranità, di forza del potere pubblico, privilegio della pubblica
amministrazione, come diritto potestativo di tornare sui propri atti autoritativamente e unilateralmente
anche se al di fuori della legge, è sempre stato difficile inquadrare questi poteri all'interno
dell'autotutela, è arduo immaginare un potere che non fosse previsto dalla legge ma che avesse
l'obiettivo di assicurare la legalità dell'azione amministrativa.
Secondo alcuni era più agevole giustificare la presenza di questi istituti con l'idea che fossero forme di
riesercizio del potere (Corso).

2. La codificazione dell'annullamento e della revoca nella legge n. 15/2005.


La legge 15/2005 ha codificato gli istituti del riesame, trasformandoli in ordinarie forme di gestione
dell'interesse pubblico, quest'ultimo viene inteso come risultato del confronto di tutti gli interessi
coinvolti, emarginando la tutela della mera legalità.
La legge 15/2005 ha recepito nel diritto positivo principi dottrinali e giurisprudenziali e li ha fatti
diventare procedimenti tipizzati, questi diventato diritto positivo, non è necessario ricorre
all'autotutela per giustificare la loro esistenza.
La trasposizione dei principi normativi è stata abbastanza fedele tranne per quel che riguarda il
"termine ragionevole" e dell'indennizzo per la revoca; addirittura è stato mantenuto il concetto così
tanto discusso della revoca pentimento.
La novità della legge 15/2005 consiste in ciò che le norme non dicono: alla retroattività degli effetti
dell'annullamento e della convalida, infatti all'interno dell'art. 21-nonies non vi è nulla di tutto ciò,
probabilmente perché il legislatore ha associato alla nozione dell'annullamento il fatto che essa venga
collegata alla retroattività degli effetti.
L'effetto retroattivo è collegato indissolubilmente all'annullamento d'ufficio perché quest'ultimo ha
nella tradizione uno stretto rapporto di analogie con l'annullamento giurisdizionale, ma tutte le altre
forme di annullamento hanno natura vincolata; il carattere discrezionale dell'annullamento d'ufficio lo
rende del tutto diverso dagli altri istituti.
La discrezionalità del potere di annullare potrebbe indurre all'amministrazione a graduare la misura
demolitoria nei suoi effetti temporali, al fine di non sacrificare le posizioni consolidate meritevoli di
tutela; del resto, l'effetto retroattivo sembra assicurare l'effetto ripristinatorio.
L'ordinamento conosce casi nei quali per ragioni giuridiche il ripristino non viene assicurato, ad
esempio la conservazione degli atti adottati dal funzionario di fatto o al mancato recupero degli
emolumenti non dovuti percepiti in buona fede dal dipendente; quando l'effetto ripristinatorio collide
con interessi meritevoli di tutela ne può essere attenuato l'ambito temporale.
L'amministrazione potrebbe ritenere che l'interesse pubblico al quale tende l'esercizio del potere di
annullamento possa essere più adeguatamente curato tramite un provvedimento demolitorio che limiti
effetti retroattivi (Barone), questa soluzione sembra più conforme al principio di proporzionalità.
Proprio il principio di proporzionalità impone all’amministrazione di limitare gli effetti sfavorevoli al
destinatario dell'atto nella misura necessaria alla soddisfazione dell'interesse pubblico, lo stesso
ordinamento comunitario sul tema dell'autotutela conosce e applica l'annullamento con efficacia non
retroattiva proprio per limitare gli effetti negativi.
L'omissione di qualunque riferimento alla retroattività degli effetti, voluta o non, potrebbe essere
produttiva di significativi cambiamenti, consentendo un dosaggio più elastico della decorrenza degli
effetti dell'annullamento d'ufficio.
Questa situazione sembra volta a tutelare i titolari di situazioni favorevoli sorte dall'atto annullato, ma
anche assicurare una maggiore efficacia dell'azione amministrativa, poiché quest'ultima potrebbe
sentirsi più libera di intervenire su un rapporto non conforme all'interesse pubblico; durante il
procedimento di annullamento, amministrazione e privato potrebbero stipulare un accordo (ex art. 11
l. 241/1990), con il quale disciplinare la decorrenza degli effetti dell'annullamento: il privato limita gli
effetti sfavorevoli, l'amministrazione si garantisce che il provvedimento non potrà essere impugnato.
Questo principio ha iniziato ad essere accolto anche in giurisprudenza, in una sentenza del Consiglio
di Stato del 2011 si parla di possibilità di graduazione degli effetti temporali dell'annullamento anche
per le sentenze del giudice amministrativo.

3. Le ragioni della riforma Madia ed i tanti problemi ancora aperti.


Negli anni che ci separano dalla legge 15/2005 ci sono stati diversi cambiamenti: la crisi economica,
l'influenza del diritto europeo (in maniera particolare del principio di proporzionalità), la centralità
assunta dall'iniziativa economica privata e il nuovo ruolo sociale dell'impresa. Questi sono i fattori
che hanno indirizzato il cambiamento verso maggiore semplificazione dei procedimenti e
liberalizzazione delle attività economiche; si ha avuto l'esigenza di certezza delle situazioni
giuridiche, di stabilità delle attività economiche e di coerenza.
Sintetizzando tutto questo, si può dire che la tutela dell'affidamento è il valore cardine che si pone
sull'altro piatto della bilancia rispetto al dovere dell'amministrazione di perseguire l'interesse pubblico.
Il passaggio successivo - leggi 164/2014 e 124/2015 - è stato quello di limitare l'esercizio del riesame
a 18 mesi, e poi successivamente a 12 mesi.
Alcuni fra i primi commentatori della legge Madia hanno individuato nella previsione del termine 18
mesi il venir meno dell'immanenza e dell'imperatività del potere della pubblica amministrazione.
L'inesauribilità era già venuta meno con la legge n. 15, cioè dalla previsione del termine
"ragionevole".
Nel corso del tempo si è avuto un processo di normalizzazione della funzione del riesame e di
trasformazione di un potere straordinario e non codificato in un potere ordinario procedimentalizzato.
Dalla tutela della mera legalità (funzione dell'annullamento) si è passati alla cura dell'interesse
pubblico per poi giungere alla situazione attuale, in cui l'interesse pubblico tende a coincidere con la
stabilità delle situazioni favorevoli. La stabilità è strumentale all'interesse pubblico allo sviluppo
economico; stabilità e certezza delle situazioni giuridiche sono interesse pubblico primario e
prevalente.
Importante è il parere del Consiglio di Stato del 30 marzo 2016 sul decreto attuativo della legge n.
124/2015 in materia di SCIA in cui si parla di una "nuova regola generale" che ispira il rapporto tra
potere pubblico e privati al valore della certezza, cosa applicabile anche in materia di riesame.
Il legislatore fa prevalere in partenza l'interesse dell'impresa, fra gli interessi da perseguire viene
considerato prioritario l'interesse dell'impresa, senza più alcuna delega all'amministrazione e alla
dinamica del procedimento per l'individuazione in concreto dell'interesse pubblico primario.
Una volta trascorsi i 12 mesi senza che l'amministrazione abbia disposto l'annullamento, le posizioni
favorevoli sorte dall'atto illegittimo sono destinate a prevalere, per un'esigenza di incertezza.
Vi è prevalenza del principio dell'affidamento ma solo in presenza di un privato che sia in buona fede
e a condizione che non sia avvantaggiato con false dichiarazioni, solo a queste condizioni può valere
il limite dei 18 mesi o l'inconfigurabilità della revoca-ripensamento nei confronti di situazioni sorte da
atti di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici.
La tutela viene meno quando ci riserva di false dichiarazioni, certificazioni da cui siano conseguiti
vantaggi sebbene sia necessaria una sentenza passata in giudicato, la medesima ratio si individua
nell'art. 21-sexies che prevede sanzioni nell'ipotesi di dichiarazioni mendaci.
Esistono una serie di limiti legati alla buona fede di chi può avvantaggiarsi del provvedimento del
riesame.
Il giudice amministrativo ha cercato di estendere il limite temporale dell'annullamento al fine di
recuperare il potere dell'amministrazione di intervenire a ripristinare la legalità a fronte di situazioni
che non meritavano di essere considerati intangibili; all'interno di un'Adunanza Plenaria del 2017, in
materia di annullamento di un permesso di costruire in sanatoria, ha stabilito che l'annullamento deve
sempre essere motivato, ma ha anche sancito che in caso di dichiarazione falsa del privato - che ha
indotto in errore la pubblica amministrazione e gli ha consentito di ottenere il provvedimento
favorevole - il termine entro il quale può essere esercitato decorre solo dal momento in cui la pubblica
amministrazione abbia appreso della non veridicità della dichiarazione.
Il Consiglio di Stato si è posto un altro problema in ordine all'interpretazione dell'art. 21-nonies
comma 2-bis, se cioè sarebbe possibile superare il limite temporale per l'annullamento, nel caso di
provvedimenti che attribuiscono vantaggi economici, a prescindere dal passaggio in giudicato della
sentenza penale di condanna nei confronti di colui che ha ottenuto il beneficio dichiarando il falso. La
risposta è che la decadenza dal beneficio ingiustamente acquisito può avvenire attraverso
l'annullamento d'ufficio, senza che possa avere rilevanza un mero elemento di fatto quale il trascorre
del termine di 18 mesi.
Solo nell'ipotesi in cui è stato già avviato nei confronti del dichiarante un procedimento penale, è
impedito all'amministrazione di annullare il provvedimento amministrativo, nel caso contrario
l'amministrazione ha il "dovere" di annullare il provvedimento amministrativo adottato
illegittimamente.
Ecco che il limite temporale dei 18 mesi (nb oggi 12) è fortemente ridimensionato attraverso
un'interpretazione creativa dell'art. 21-nonies da parte del giudice amministrativo, anche se restano
diversi interrogativi, come: il limite temporale si applica anche a situazioni diverse da autorizzazioni o
attribuzione di vantaggi economici, ma pur sempre favorevoli per i privati? La risposta sembrerebbe
essere positiva.
Il tema della derogabilità del provvedimento del termine per annullamento si va ad intrecciare con
quello della natura esclusivamente discrezionale o meno dell'annullamento stesso e cioè se
sopravvivano all'art. 21-nonies nella sua attuale configurazione figure di annullamento doveroso.
Viene in rilievo il problema dell'annullamento per violazione del diritto comunitario, la Corte di
Giustizia riconosce che va rispettata l'autonomia procedurale di ogni Stato, ma è noto che la
discrezionalità del nostro annullamento d'ufficio confligge con gli obblighi derivanti dall'appartenenza
all'UE. L'introduzione del termine rigido di 12 mesi per l'annullamento rende il conflitto tra
ordinamenti ancora più grave; l'obbligo di ritiro, da parte dell'amministrazione dello Stato nazionale
dell'atto contrastante con il diritto comunitario è stato più volte ribadito dalla Corte di Giustizia
europea. L'annullamento non solo dovrebbe essere doveroso e non discrezionale, ma non può essere
sottoposto ad un limite temporale.
Un'altra ipotesi di annullamento doveroso poteva individuarsi nell'art. 211 del Codice dei Contratti
pubblici, che prevedeva che l'Anac, individuato un vizio di legittimità invitasse con raccomandazione
vincolante la stazione appaltante a rimuoverne entro 60 gg gli eventuali effetti illegittimi. Tale norma
è stata abrogata nel 2017, che ha previsto che l'Anac possa direttamente impugnare dinanzi al giudice
il provvedimento illegittimo.
Sempre il Codice dei contratti pubblici prevede altre due ipotesi che richiamano l'art. 21-nonies (art.
108 e 176 dl n. 50/2016) e in entrambi i casi è stato stabilito che a tali interventi non si applicano i
termini previsti dall'art. 21-nonies; in entrambe le disposizioni deve ritenersi che si tratta di un potere
discrezionale e non vincolato.
In dottrina si è posto anche il problema della compatibilità dell'annullamento regionale dei permessi di
costruire, che può essere esercitato nei dieci anni dalla emanazione del titolo abilitativo ed il limite dei
18 mesi: in proposito dovrebbe ritenersi prevalente la norma speciale, di cui all'art. 39 T.U.
dell'Edilizia. Stesso problema si pone per la compatibilità del termine dei 12 mesi con l'annullamento
governativo che può essere sempre esercitato, il carattere straordinario attribuito al governo fa
prevalere tali disposizioni.
Un altro tema da affrontare è quello dell'esistenza o meno dell'obbligo di provvedere sull'istanza di
riesame, poiché nella legge 164 c'è poca chiarezza: se c'è un'istanza di riesame il dirigente non ha
l'obbligo di provvedere, ma allo stesso tempo è responsabile dell'adozione del provvedimento nonché
del suo mancato annullamento. Dunque, esiste un obbligo di provvedere perché diversamente si è
responsabili, ma nello stesso tempo non esiste una giurisprudenza consolidata. Potrebbe configurarsi
oggi un obbligo di procedere, al fine di evitare che l'amministrazione e il funzionario siano tenuti a
risarcire il danno, qualche timido segnale lo si ha avuto dalla giurisprudenza che riconosce l'obbligo di
procedere quando non è ancora spirato il termine per impugnare l'atto di cui si richiede
l'annullamento.
La dottrina richiama analogie con l'ordinamento finanziario, all'interno del quale si riconosce la
doverosità dell'annullamento in caso di errore su istanza del contribuente per non incorrere in arbitrio,
la doverosità del riesame ha funzione riparatoria e non ripristinatoria.
Attualmente si attende una risposta innovativa del giudice amministrativo.

CAPITOLO 3: La segnalazione certificata di inizio attività., di Fiorenzo Liguori.


Riassunto di Piscopo

1. Il diritto di intraprendere e il potere di autorizzare

La legittimazione per lo svolgimento di alcune attività private deriva da un provvedimento


permissivo la cui funzione è verificare la compatibilità dell’attività con l’interesse pubblico.
Se manca l'autorizzazione l’attività è illecita. Il modello autorizzatorio è utilizzato sia per
permettere un controllo sull’attività, ma anche per conformare l’attività privata ponendo degli
obblighi di condotta.
Il privato che chiede autorizzazione per svolgere attività è titolare non di un diritto ma di un
interesse legittimo pretensivo.

2. Dal controllo ex ante al controllo ex post

In un'ottica di liberalizzazione (impulso U.E.) si attraversa un processo di superamento


dell’atto di consenso preventivo. Nel 1990 viene istituita l’Autorità antitrust posta a guida di
tale processo: raccomandando soluzioni più rispettose per la libertà economica e
contemplando l’atto preventivo di assenso solo in presenza di interessi fondamentali. Inoltre
le valutazioni prima discrezionali, di compatibilità con l’interesse pubblico, diventano ora
tecniche con requisiti standardizzati.
Si passa da un regime concessorio ad un regime autorizzatorio non discrezionale.
Nascono le autorizzazioni generali che comportano il solo onere per il privato di comunicare
la volontà di operare in quel settore.
Ricordiamo anche il D.Lgs. n.59 del 2010 che incide su numerosi regimi autorizzatori: si ha
liberalizzazione di qualunque attività economica con alcune esclusioni (artt. 2 e ss.) e regimi
speciali (art. 9).
Non si applica alle attività connesse all’esercizio dei pubblici poteri, ad alcuni servizi sociali,
ai servizi economici d’interesse generale resi alla collettività in regime di esclusiva e a quelli
non economici.
Accesso ed esercizio delle attività costituiscono espressione della libertà d’iniziativa
economica e non possono essere sottoposti a limitazioni non giustificate o discriminatorie.
Legittimano il regime autorizzatorio le ragioni di pubblico interesse: ordine pubblico,
mantenimento equilibrio finanziario, tutela consumatori, tutela ambiente. I titoli autorizzatori
possono essere limitati solo per ragioni correlate alla scarsità delle risorse o delle capacità
tecniche. In tali casi le autorità applicano una procedura di selezione assicurando imparzialità.
Si applica comunque un controllo ex ante quando l’interesse pubblico non possa essere
tutelato da un controllo che risulterebbe tardivo.
Criterio guida nella scelta del controllo è il principio di proporzionalità.

3. Semplificare e liberalizzare

Si ha liberalizzazione quando un’attività il cui svolgimento risultava subordinato ad un previo


consenso dell’amministrazione diviene accessibile a chiunque sia in possesso dei requisiti
richiesti. Distinguiamo le liberalizzazioni piene dalle semplificazioni ad effetto liberalizzante.
Nelle liberalizzazioni piene rientrano:
sia i casi in cui lo svolgimento delle attività è libero e sottoposto solo alle regole del diritto
comune,
sia i casi in cui lo svolgimento delle attività rimane soggetto a regole di tipo amm. ed una
vigilanza da parte dell’autorità amm. Tra le liberalizzazioni piene rientrano delle attività che
prevedono un obbligo di comunicazione preventiva al loro inizio, che comporta l’apertura di
un procedimento di controllo.
Parliamo invece di semplificazioni ad effetto liberalizzante quando l'alleggerimento della
disciplina amm. permette al privato di avviare l’attività senza dover attendere il rilascio di un
titolo da parte dell’amministrazione.
Il controllo ex ante diventa ex post.
L’attività rimane comunque regolata da norme di tipo amm.
Abbiamo l’effetto liberalizzante dunque: quando il potere di consentire diviene potere di
vietare e si configura quindi in capo all’interessato una posizione giuridica oppositiva e non
più pretensiva.

4. Le attività libere

Le attività soggette a liberalizzazione piena presuppongono l’assenza di interessi pubblici


potenzialmente esposti a subire un pregiudizio.
Le attività libere lo sono sempre nei limiti imposti dalla legge.
In questi casi la valutazione del pregiudizio per l’interesse pubblico non è assente, ma
effettuata preventivamente dal legislatore.

Nel caso di servizi di interesse generale, alcune attività (servizio postale), sono libere nel
senso che non è necessario un contatto con l’autorità amministrativa ma sono comunque
soggette a regole di tipo amministrativo.

5. La segnalazione certificata di inizio attività.


Il modello a controllo successivo è contraddistinto da una marcata instabilità normativa che
ha dato vita ad una disciplina a strati.
Per quanto riguarda la natura giuridica della s.c.i.a. essa è stata dapprima qualificata come
provvedimento amministrativo a formazione tacita e successivamente come atto del privato
con il quale si realizzava il processo di liberalizzazione.
La qualificazione della s.c.i.a. come provvedimento amministrativo a formazione tacita era
giustificata da 3 fattori: Il potere dell’amministrazione di esercitare l’autotutela (artt. 21
quinquies e 21 nonies della legge n.241/1990);
Dall’equiparabilità della s.c.i.a. al silenzio assenso (art. 21, comma 2-bis legge n.241/1990);
Dall’esigenza di garantire la tutela del terzo.

L'adunanza plenaria del consiglio di stato (pronuncia n.15 del 2011) ha ritenuto la
ricostruzione pubblicistica debole perché: Elide ogni differenza sostanziale tra s.c.i.a. e
silenzio-assenso: l’attività soggetta a s.c.i.a. può essere intrapresa senza il consenso
dell’amministrazione che é surrogato da un’assunzione di responsabilità del privato.
La qualificazione dell’istituto come provvedimento tacito di assenso non appare giustificata
nemmeno dal richiamo ai poteri di autotutela: (artt. 21 quinquies e 21 nonies della legge
n.241/1990) ad avviso dell’ adunanza con tale prescrizione il legislatore ha solo chiarito che
il termine per l’esercizio del potere inibitorio è perentorio e che successivamente la pubblica
amministrazione conserva solo potere di autotutela.

L’adunanza qualifica la s.c.i.a. come atto di natura privatistica e qualifica l’inerzia


dell’amministrazione, in relazione all’esercizio dei poteri inibitori, come silenzio-diniego
circa l’emanazione del provvedimento inibitorio, data la mancanza di presupposti;
Riaffermando che la tutela del terzo può aversi, alla scadenza del termine per l’esercizio dei
poteri inibitori, con domanda di annullamento del provvedimento tacito di diniego.
L’adunanza, in questo modo, inquadra la scadenza del termine come atto anziché come fatto.

Successivo apporto di diritto sostanziale qualifica la s.c.i.a. come atto con valenza
comunicativa, non sostitutiva del provvedimento di assenso.
Chiarisce la natura di diritto soggettivo della posizione del segnalante.
Mette in risalto la consustanzialità tra l’originarietà del diritto soggettivo tuttavia sottoposto a
regime amministrativo.
Ulteriore apporto legislativo, il D.L. n.138 del 2011, stabilisce la natura non provvedimentale
della s.c.i.a dichiarando che non si tratta di un titolo tacito.
Ma prevede che la tutela del terzo si sostanzi nell’azione avverso il silenzio inadempimento.

Il decreto legge del 2011 ribadisce anche la doverosità del controllo prevedendo che: Le
verifiche possono essere sollecitate dagli interessati;
L’omissione delle verifiche integra un inadempimento giustiziabile con l’azione avverso il
silenzio inadempimento.
La doverosità del controllo non va confuso con un dovere dell’amministrazione di
pronunciarsi.
Doveroso è anche l’esercizio dei poteri inibitori e ripristinatori che devono essere esercitati
ogni qual volta l’attività oggetto della s.c.i.a. risulti non consentita.
L’eventuale provvedimento presuppone un procedimento che viene avviato attraverso la
presentazione della s.c.i.a. che impone all’amministrazione di procedere ma non le impone di
provvedere.
Il controllo che si chiude in modo sfavorevole non produce rigetto ma inibizione. Si avvalora
così la natura di atto privato su cui però si innesta una fase autoritativa eventuale.

6. Le trasformazioni del modello tra diritto privato e diritto amministrativo.

Stabilito che la s.c.i.a. non ha natura provvedimentale e che la legittimazione di intraprendere


l’attività derivi direttamente dalla legge, sarebbe logico che il rapporto con il terzo segua le
logiche del diritto soggettivo.
In tale ottica il diritto di svolgere l’attività potrebbe essere messo in discussione solo da chi
contrapponesse il proprio diritto soggettivo (proprietà, concorrenza).
Nonostante l’assetto di interessi è definito dalla norma il legislatore ha finito col dare alla
giustizia amministrativa un ruolo centrale, nonostante l’attività dell’amministrazione non
riguarda la ricerca dell’equilibrio dei diversi centri di interesse (caso in cui non puó
rinunciarsi al diritto amministrativo).
Il legislatore riduce la portata liberalizzatrice e sceglie di valorizzare la tutela del terzo,
consentendo loro di intervenire nel procedimento e nel processo, riconoscendogli quindi un
interesse legittimo pretensivo.

La tutela civile tuttavia non può essere soppiantata da quella di tipo amministrativo,
quest’ultima può giudicare solo i rapporti tra cittadini e amministrazione e non anche i
rapporti tra privati.
Il giudice amministrativo, anche nelle materie di sua competenza, non ha titolo per impartire
ordini al privato, potendo solamente intimare all’amministrazione di assumere le
determinazioni consequenziali all’accertamento della mancanza dei presupposti legittimanti
l’attività.
Il terzo pertanto può solo chiedere tutela contro l’inosservanza delle regole dettate per l’avvio
della e lo svolgimento dell’attività, cioè pretendere l’applicazione del diritto obiettivo.
Trattandosi di diritto obiettivo, l’iniziativa dei terzi può rapportarsi solamente a poteri che
dalla legge sono sottoposti a termini perentori, per assicurare un equilibrio tra l’affidamento
di chi intraprende l’attività e l’effettività della regolazione.

7. Poteri amministrativi e tutele dei terzi

Con la legge n.124/2015, legge Madia, il potere di controllo dell’amministrazione assume


una struttura bifasica:
Un controllo doveroso e vincolato per verificare la sussistenza dei requisiti per lo
svolgimento dell’attività, che può culminare in un provvedimento inibitorio.
La possibilità di adottare provvedimenti inibitori in presenza delle condizioni previste
dall’art.21-nonies della legge 241/1990, cioè ragioni di interesse pubblico.

La legge Madia espande il ruolo dell’intervento successivo rispetto all’esercizio del potere
inibitorio esperibile nel limite di 60 giorni dal provvedimento.
Il termine ragionevole entro cui è ammesso l’intervento, sulla scorta del D.L. n.76/2020, è di
12 mesi dall’adozione del provvedimento, e non più 18 come individuato dall’art 21 -nonies
della legge 241/1990.
Il potere esercitabile dall’amministrazione decorsi i primi 60 giorni è sempre un potere di
controllo e di inibizione-conformazione, condizionato però in questa fase dall’esigenza di
tutela dell’affidamento. Potere che diviene quindi discrezionale e non più vincolato come
durante i primi 60 giorni.

Il D.L. n.76/2020 rende l’affidamento ancora più centrale disponendo che i provvedimenti di
divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti sono inefficaci quando
adottati decorso il termine di 60 giorni.
Obiettivo della legge Madia e del D.L. n.76/2020 è quello di aumentare il tasso di certezza e
di affidamento: realizzandolo con la limitazione del tempo per l’inibitoria; e con la
cancellazione del potere di intervenire in ogni tempo in caso di dichiarazioni false e mendaci.
Sempre la legge Madia, con la normalizzazione dell’art 19 comma 6-ter e la modifica dell’art
4 della legge 241/1990, chiarisce che il rimedio attivabile dal terzo va riferito al potere
dell’amministrazione di controllo e di inibizione-conformazione. Il rimedio quindi sarebbe
esperibile soltanto fino a che questo potere esiste (60 giorni + 12 mesi).
Il sollecito del terzo senza che l’amministrazione si attivi permette l’impugnazione del
silenzio-inadempimento.
La cassazione nella pronuncia n.45 del 2019 ribadisce che la locuzione “verifiche spettanti
all’amministrazione’’ contenuta nel comma 6-ter dell’art 19 ricomprende oltre che il potere
inibitorio anche quello di autotutela, sempre da esercitarsi nel termine di 12 mesi.

8. L’intervento della Corte Costituzionale

Per il Tar Toscana l’art 19 comma 6-ter della legge 240/1990 andava interpretanto nel senso
che il terzo resta sempre libero di presentare l’istanza sollecitatoria dei poteri amministrativi
inibitori.

Investita dalla questione è interventuta la Corte Costituzionale affermando: che la scia è un


istituto volto alla liberalizzazione e che il legislatore ha inteso inequivocabilmente escluderla
dall’area amministrativa tradizionale.
Decorsi i termini la situazione soggettiva del segnalante si consolida lasciando
l’amministrazione, e quindi il terzo, privi di poteri.
Il terzo difatti è titolare di un interesse legittimo pretensivo a che l’amministrazione eserciti il
controllo; venuto meno il potere dell’amministrazione, anche l’interesse del terzo si estingue.
CAPITOLO 4 IL SILENZIO ASSENSO TRA LE AMMINISTRAZIONI
SECONDO L’ART.17-BIS DELLA LEGGE N.241/90: LA RESISTIBILE
ASCESA DELLA SEMPLIFICAZIONE MERAMENTE TEMPORALE., di
Alfredo Contieri. Riassunto di Tagliaferri

1.Introduzione.
Il silenzio assenso tra le amministrazioni è stato introdotto dalla 1.n.124 del 2015, la
cosiddetta legge Madia, che ha inserito l’art.17-bis nel testo della legge n.241. L’istituto del
silenzio assenso viene inserito in un rapporto tra più amministrazioni, assumendo una
funzione differente rispetto alla tradizionale figura disciplinata dell’art.20 della stessa legge.
La norma viene applicata sia ai procedimenti amministrativi e a quelli normativi, dove
l’autorità precedente debba richiedere un atto di assenso, o nulla osta all’alta amministrazione
o a un gestore di beni e servizi pubblici che deve essere pronunciato su uno schema di
provvedimento finale entro 30 giorni dall’aver ricevuto questo schema con la propria
documentazione. Il termine può essere sospeso, ma trascorsi i 30 giorni senza comunicare
l’assenso, il concerto o nulla osta, l’assenso è comunque acquisito. L’aspetto che viene messo
più in discussione riguarda la probabilità che il silenzio assenso si formi anche nel caso in cui
gli atti di assenso, concerto o nulla osta, devono essere emessi da autorità che si occupano di
tutela ambientale, dei beni culturali e della salute dei cittadini che non si siano pronunciate
dopo i 90 giorni, a meno che la legge non preveda un termine diverso. L’art 17-bis non
introduce soltanto il nuovo istituto del silenzio assenso tra le amministrazioni, ma anche alle
autorità che curano gli interessi sensibili, ponendosi secondo molti commentatori, in
contrasto con principi e valori di rilievo costituzionale, come la tutela ambientale, del
paesaggio e della salute. Per gli interessi sensibili si riserva una tutela differente, che consiste
in un termine più lungo, scaduto il quale, l’accelerazione dei tempi per procedimento prevale
secondo una gerarchia di valori imposta dal legislatore del 2015, su quelle relazionata ad
un’adeguata valutazione degli interessi coinvolti e un’attenta decisione. L’istituto è stato
oggetto di molti contributi da parte di studiosi di diritto amministrativo, sia per la sua
innovazione che per i problemi cha sollevato, sia per quanto riguarda i principi che regolano
l’attività amministrativa, sia per quanto riguarda le relazioni e le differenze con istituti
all’apparenza simili, come il silenzio assenso disciplinato dall’art.20 della stessa legge, la
conferenza di servizi oppure il ritardo di pareri obbligatori o ancora valutazioni tecniche,
incluse negli art.14,16 e 17. Il tema più delicato riguarda gli interessi sensibili, ai quali
l’art.17-bis riserva un trattamento inferiore rispetto a quello riconosciuto dalle norme già
citate, in quanto rispetto agli altri interessi pubblici l’unica differenza è la durata maggiore
del periodo oltre il quale, in caso di inattività, c’è il silenzio assenso, in quanto il termine di
30 giorni diventa di 90 giorni. Fino all’emanazione dell’art.17-bis,gli interessi sensibili
sembravano essere un fattore importante, infatti essi, impediscono ai sensi del 4° comma
dell’art.20 il silenzio assenso previsto come istituto di carattere generale, mentre secondo
l’art.16 non consentono all’autorità precedente di prendere la decisione, anche in assenza di
parere obbligatorio, inoltre ai sensi dell’art.17 le valutazione tecniche che spettano alle
autorità che tutelano l’ambiente e della salute dei cittadini non possono essere affidate ad altri
organi dell’amministrazione pubblica. Tuttavia, questo privilegio degli interessi sensibili era
stato limitato dalla probabilità che queste autorità possano proporre l’opposizione a
condizione che abbiano espresso il proprio motivato dissenso prima della fine della
conferenza. Già nel regime precedente con la legge Madia, nel 2010 fu estesa la previsione
secondo la quale si prende in considerazione acquisito l’assenso dell’amministrazione cui
rappresentante all’esito dei lavori della conferenza non abbia già espresso la volontà
dell’amministrazione (fatta eccezione dei provvedimenti di VIA, VAS e AIA). Quella che è
stata definita come ‘’la guerra di logoramento’’ degli interessi sensibili era già iniziata da
tempo, ma è improbabile che l’art.17-bis evidenzi un cambio da parte del legislatore.
2.La nuova figura introdotta dal decreto semplificazione
Il decreto-legge n.76/2020, convertito nella legge 120/2020 è intervenuto sull’art.17-bis,
apportando modifiche sulla rubrica e introducendo una nuova figura di silenzio assenso. Il
testo sulla rubrica è ‘’Effetti del silenzio e dell’inerzia nei rapporti tra amministrazioni
pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni e servizi pubblici’’. La nuova
figura riguarda la codecisione tra le amministrazioni, a cui non sarebbe stata applicata la
disposizione nella versione originaria. È una nuova misura di semplificazione da applicare
nel caso in cui un’autorità fosse inattiva, dalla quale deve pervenire una proposta, la cui
mancanza significherebbe mancato provvedimento da parte dell’amministrazione. Se un
provvedimento deve essere preceduto da una proposta da una diversa autorità rispetto a
quella titolare del potere di provvedere dopo 30 giorni dalla richiesta, quest’ultima può
comunque procedere. In tal caso lo schema di provvedimento, corredato dalla relativa
documentazione, è trasmesso all’amministrazione che avrebbe dovuto formulare la proposta
per acquisirne l’assenso ai sensi del presente articolo. La proposta invece di precedere il
provvedimento, in caso di inerzia del proponente viene sostituita da un atto successivo di
assenso. Il decisore finale prende un provvedimento e lo sottopone all’organo che avrebbe
dovuto formulare la proposta. In caso di silenzio alla fine dei 30 giorni l'assenso si intende
acquisito. Non
vengono in rilievo gli interessi sensibili, poiché la norma non è applicabile alle
amministrazioni preposte alla tutela esclusi i casi di cui al comma 3 da disposizione. Secondo
il legislatore in un procedimento in cui l'interesse sensibile deve essere oggetto di una
proposta, esso deve avere più rilevanza rispetto all’ipotesi in cui l'autorità che lo tutela debba
esprimere un nulla osta oppure un parere, ma si tratta di un'ipotesi che richiede altri
approfondimenti.

3.Silenzio assenso e semplificazioni


I principi, le finalità e i valori di cui è espressione il nuovo istituto del silenzio assenso tra le
amministrazioni sono illustrati nel parere n.1640 del 2016 della Commissione Speciale del
Consiglio di Stato appositamente istituita che ha affiancato la fase di attuazione della legge
Madia emettendo giudizi sui vari decreti delegati. In questo caso, la Commissione si è
pronunciata su richiesta dell'Ufficio Legislativo del Ministero per la semplificazione che
aveva posto una serie di quesiti in seguito a dubbi e problemi sorti in sede di applicazione. Il
parere costituisce un importante punto di riferimento per l'interpretazione dell'art. 17-bis, sia
per l'autorevolezza della fonte e sia per l’innovazione che il Consiglio di Stato attribuisce al
silenzio assenso tra amministrazioni, espressione di una nuova amministrazione.
Come affermato nel parere del 30 marzo del 2016,in materia di SCIA e autotutela, a
proposito dell'introduzione di un nuovo paradigma nei rapporti tra cittadino e
amministrazione e anche per rapporti tra amministrazioni, si può parlare di nuovo paradigma
introdotto dall'art.17-bis: “In tutti i casi in cui il procedimento amministrativo è destinato a
concludersi con una decisione pluristrutturata ( Nel senso che la decisione finale da parte
dell'Amministrazione precedente richiede per legge la senso vincolante di un'altra
amministrazione),il silenzio dell'Amministrazione interpellata che rimanga inerte non
esternando alcuna volontà, non ha più l'effetto di precludere l'adozione del provvedimento
finale ma è al contrario equiparato ope legis ha un atto di assenso e consente
all'amministrazione precedente l'adozione del provvedimento conclusivo”.

Secondo la costituzione si tratta di un'evoluzione normativa che deve eliminare gli effetti
negativi del silenzio amministrativo, non solo nei rapporti coi privati ma anche tra pubbliche
amministrazioni, definiti rapporti verticali (tra amministrazione e cittadino) e orizzontali (con
un’altra amministrazione codecidente). Nell'evidenziare la negatività del silenzio
amministrativo il Consiglio di Stato evidenzia la contrarietà del legislatore nei confronti
dell'inerzia amministrativa che viene stigmatizzata al punto da ricollegare al silenzio
dell'amministrazione interpellata la più grave delle sanzioni o il più efficace dei rimedi, che si
traduce, attraverso l'equiparazione del silenzio all’assenso, nella perdita del potere di
dissentire e di impedire la conclusione del procedimento’’. Il fondamento del silenzio-assenso
come strumento di semplificazione risiede nel principio di buon andamento di cui all'articolo
97 Cost., “in un'ottica moderna” che tiene conto dell'esigenza di assicurare il primato di diritti
della persona, dell’impresa e dell'operatore economico rispetto a qualsiasi forma di dirigismo
burocratico.

Anche nei rapporti orizzontali la previsione di effetti preclusivi dell'inerzia ha l'obiettivo di


favorire la conclusione del procedimento, ciò in quanto l'attività amministrativa, secondo una
commissione ma ormai vista come ‘’ prestazione diretta a soddisfare diritti civili e sociali
(art.17, secondo comma lettera m) Cost) il cui livello essenziale può essere unitariamente
predeterminato dallo Stato mediante la previsione di adeguati meccanismi di
semplificazione’’. Considerando ciò la commissione conclude affermando che la
semplificazione non va vista come una forma di sacrificio di interesse pubblico, ma come uno
strumento che deve assicurare una cura efficace dello stesso. Sul piano sistematico l'istituto di
cui all'art.17-bis è funzionale al principio di trasparenza che si realizza quando
l'amministrazione assume decisioni espresse, mentre all’opposto il silenzio “è antinomico alla
trasparenza perché rappresenta un comportamento opaco e non ostensibile”. Il Consiglio di
Stato descrive con entusiasmo la modernità del silenzio assenso tra le amministrazioni, come
espressione di una “nuova amministrazione”, dunque si assiste ad una forma di celebrazione
della semplificazione come valore primario dell'ordinamento che deve orientare l'attività
amministrativa. L'intenzione del legislatore secondo la lettura dell'art.17-bis che ne ha dato il
Consiglio di Stato, è stata quella di fare una scelta precisa, facendo prevalere nella gerarchia
dei valori l'interesse alla semplificazione su ogni interesse pubblico. Inoltre, la
semplificazione sembra essere diventata un valore importante che è destinato ad imporsi nelle
attività di prestazione, del primato di diritti della persona, dell’impresa dell'operatore
economico “rispetto a qualsiasi forma di mero dirigismo burocratico”. Il problema è che
confrontando gli interessi, la semplificazione non si contrappone solo al dirigismo
burocratico, ma a tutti gli altri interessi pubblici compresi quelli sensibili, la cui cura è
affidata dalla legge all'amministrazione.

Lo sviluppo economico, la tutela del lavoro e dell'occupazione sono interessi pubblici


primari, soprattutto in periodi di crisi economica, tuttavia come gli altri interessi anche quelli
che sono dotati nel carattere della primarietà, secondo l'insegnamento della Corte
Costituzionale, non dovrebbero prevalere ex lege piccola ma aggregarsi con gli altri interessi
nel procedimento che è il luogo in cui secondo il legislatore si governa la complessità.
Il legislatore ha, per tabulas, previsto la vittoria a tavolino della semplificazione persino
rispetto agli interessi sensibili. Il silenzio assenso rientra nella semplificazione intesa come
“riduzione del risultato” come rinuncia l'amministrazione tout court vista l'incapacità di
riformarla.
Il procedimento viene visto come un ostacolo per l’espansione dell'economia, per gli
investimenti stranieri e per l’energia delle imprese, ciò è condiviso da chi ha osservato che la
“semplificazione è una tecnica che documenta […] una crisi, piuttosto che la sua soluzione,
soprattutto dimostra l'incapacità di ricorrere agli strumenti ordinari che dovrebbero assicurare
il buon andamento degli apparati pubblici”.
Tecnica che, oltre a basarsi sulla sull'accelerazione delle procedure, abolisce il momento della
decisione, rinunciando a fronteggiare la complessità degli interessi; semplificazione come
sottrazione e diventa decisivo proporre un'interpretazione dell'articolo 17-bis che ne limiti
l'impatto per la cura degli interessi sensibili, supposto che a differenza delle altre figure della
semplificazione, come quelle regolate degli art.16,17 e 20 della legge n.241 potrebbero essere
sacrificati questi interessi, che comunque vengono salvaguardati, non integralmente anche in
sede di conferenza di servizi.
4.Il silenzio assenso tra amministrazioni e gli altri istituti di semplificazione.
La fattispecie disegnata dall'articolo 17-bis va inquadrata tra le decisioni più ristrutturate, nel
caso in cui l’amministrazione. Metta un atto endoprocedimentale, come ad esempio un parere
vincolante su richiesta di quella che dovrà emanare il provvedimento finale, si prevede che
l'autorità procedente sottoponga all'autorità concertata un provvedimento o anche un atto
normativo. È un'ipotesi di codecisione come nel concerto o nell’intesa e il silenzio assenso si
forma nel caso di inerzia nel termine di legge (normalmente 30 giorni) da parte dell'autorità
che dovrebbe emettere l'atto endoprocedimentale e non il provvedimento finale.
Secondo la terminologia utilizzata dal Consiglio di Stato il silenzio ex art.17 bis ha carattere
endoprocedimentale nell'ambito di un rapporto orizzontale e quindi si differenzia dal silenzio
ex art. 20 che presenta una natura provvedimentale in un rapporto verticale.
Un'altra differenza importante è che in quest'ultimo caso il silenzio si forma in seguito a
un'istanza di un privato volta ad ottenere un provvedimento, rimasta senza esito dopo il
decorso del tempo previsto per l'adozione di quel tipo di atto, in questo caso il rimedio
dell'ordinamento all'inerzia, e alla mancata cura dell'interesse pubblico, prevede che il
silenzio equivale ad accoglimento dell'istanza conto di stazioni dell'interesse privato al bene
della vita.
Il Consiglio di Stato ha anche chiarito che nel caso di sportello unico, sebbene la richiesta di
parere provenga da un'altra amministrazione l'art.17-bis è inapplicabile perché il
procedimento riguarda l’istanza di un privato. La differenza è che rispetto al silenzio di cui
all’art.20 è che l’art.17-bis si applica ad atti endoprocedimentali e non a provvedimenti finali
in cui l’interesse sensibile sia quello primario e prevalente. È naturale chiedersi se ci sia
logica nel prevedere nel silenzio assenso provvedimentale come ostacolo alla sua formazione
alcuni interessi pubblici ritenuti meritevoli più di altri (tutela del paesaggio, patrimonio
storico artistico, ambiente, salute e pubblica incolumità ecc.) e invece in quello
endoprocedimentale tra amministrazioni lasciare che alcuni di quegli interessi possano non
essere curati. È difficile ammettere che un’amministrazione preposta alla cura di un interesse
sensibile si pieghi al silenzio assenso quando deve esprimersi in un procedimento di
competenza di un’altra amministrazione su richiesta di quest’ultima e invece non lo farebbe
in un procedimento iniziato su istanza di un privato in cui essa ha il potere di emanare il
provvedimento finale. A tutto ciò, si è cercato di dare una spiegazione individuando
differenze tra le due figure e di porre rimedio limitando il raggio dell’azione dell’art.17-bis. È
stato precisato dal Consiglio dello Stato (nel parere n.1640 del 2016) che il silenzio assenso
procedimentale si forma nella fase decisoria.
A tale conclusione, si attesta che l’autorità procedente invii uno “schema di provvedimento”
il che presuppone che la fase istruttoria sia esaurita e che anche l’interesse sensibile sia stato
valutato, “non potendo la decisione finale essere assunta senza che tali interessi siano stati
ritualmente acquisiti al procedimento”. Dell’interesse sensibile si dovrà occupare l’autorità
procedente che dovrà assumere la decisione finale dopo averlo valutato, comparato e
bilanciato. Questa conclusione può essere condivisa perché attenua l’impatto “eversivo’’
della norma e limita il sacrificio dell’interesse sensibile. Tuttavia, l’art.17-bis non è del tutto
funzionale al coordinamento infrastrutturale, poiché non coordina due autorità, facendo
ricadere la decisione soltanto sull’autorità concertante. La tesi con maggiori consensi è quella
che limita l’applicabilità della norma all’ipotesi in cui deve essere richiesto il parere di una
sola autorità e in ciò consiste la differenza della conferenza decisoria di servizi di cui agli
articoli 14 e ss. della 1.n.241,meccanismo a cui si ricorre se la decisione pluristrutturata
debba essere assunta da più amministrazioni e debbano essere acquisiti più atti di assenso,
consenso, parere, nulla osta.
Il Consiglio di Stato estende l’applicazione del 17 bis anche all'ipotesi in cui siano coinvolte
più amministrazioni, in questo caso la conferenza verrebbe convocata solo nell'ipotesi di
dissensi, non in quella in cui le amministrazioni rimangano silenti, con formazione del
silenzio assenso. Questa interpretazione è in contrasto con il dettato letterale dell’art.14 bis
per cui sembra preferibile in assenza del decreto attuativo di coordinamento previsto dall'art.3
della legge 124/2015 la soluzione del limite quantitativo.
5.Compatibilità del silenzio assenso fra amministrazioni in materia di interessi sensibili
con i principi costituzionali e con il diritto euro unitario.
Secondo il Consiglio di Stato, la giurisprudenza costituzionale non avrebbe espresso alcun
principio di insuperabilità tra il silenzio assenso e gli interessi sensibili, poiché la Corte si è
limitata a sanzionare leggi regionali che avevano introdotto un regime di silenzio assenso in
materia ambientale in opposizione alla legislazione statale. La corte ribadì l’incompatibilità
del silenzio assenso con la tutela della salute e dell'ambiente affermando che “sono
indispensabili per il rilascio dell'autorizzazione accurate indagini ed accertamenti tecnici
nonché controlli specifici”, in un'altra sentenza la corte ha dichiarato incostituzionale una
legge della Regione Campania sulla disciplina degli scarichi in fognatura che prevedeva un
termine di 60 giorni per l'autorizzazione, che una volta scaduto quest'ultima si intendeva
tacitamente concessa per 60 giorni salvo revoca. Nella giurisprudenza costituzionale si può
vedere un orientamento costante che va oltre l’istituto del silenzio assenso, infatti la corte ha
fatto riferimento ai valori “primari” e alla tutela “di valori essenziali come il paesaggio e
l’equilibrato sviluppo del territorio” tenendo in considerazione che la primarietà, sebbene in
passato sia stata interpretata come “insuscettibilità di subordinazione ad ogni altro valore
costituzionale tutelato ivi compresi quelli compresi” “non legittima un primato assoluto in
una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali”. Tuttavia, la primarietà implica
“l’esigenza di una compiuta ed esplicita rappresentazione di tali interessi nei processi
decisionali all’interno dei quali si esprime la discrezionalità delle scelte politiche e
amministrative”. L’interesse primario deve essere considerato, valutato, bilanciato in
un equilibrio di valori, sia dalle scelte politiche, sia dalla discrezionalità amministrativa.
Importante è in questo senso la celebre sentenza sull'ILVA di Taranto, sul tema del rapporto
di equilibrio tra tutela dell'ambiente, della salute e tutela dell'occupazione.
La Corte parla di bilanciamento tra diritti fondamentali precisando che non si rinvengono in
costituzione diritti ed interessi che prevalgono sugli altri, neanche quei valori definiti
“primari”, non esistendo una rigida gerarchia, altrimenti in caso di illimitata espansione di
uno di essi, lo stesso diverrebbe tiranno nei confronti di altri diritti.
Gli interessi sensibili sebbene non siano destinati a prevalere incondizionatamente, non
possono pregiudizialmente soccombere nella comparazione con altri valori, ma richiedono di
essere necessariamente considerati, valutati e bilanciati.
Perciò un’interpretazione dell'art.17-bis costituzionalmente orientata non può tollerare il
sacrificio dell'interesse sensibile a vantaggio della semplificazione come applicazione
automatica di una scelta legislativa, ma richiede una valutazione e ponderazione dell'interesse
primario. Per quanto riguarda il diritto dell'Unione Europea si è detto che l'art.17-bis esclude
il formarsi del silenzio assenso nei casi in cui è richiesto un provvedimento espresso e quindi
sono esclusi i casi di VIA, AIA, VAS. Il diritto euro unitario conosce il silenzio assenso,
tant’è che nella direttiva servizi n.200671223 la famosa Bolkestein riconosce la possibilità di
autorizzare le attività in forma tacita, anche se questa scelta sembra adottata più in
applicazione del principio di proporzionalità che per sanzionare l'inerzia
dell'amministrazione. Tuttavia, l'esclusione del silenzio assenso in materia ambientale
costituisce un principio generale per la necessità di istruttoria che prevale il diritto
ambientale.
In realtà non bisogna guardare solo le norme europee, ma l'intero ordinamento comunitario,
che comprende i principi e le sentenze della Corte di Giustizia e quindi rinvio contenuto
nell'art 17 bis va riferito a tutti i casi in cui dinanzi l'esigenza di valutare interessi ambientali è
richiesto un provvedimento, con il quale si deve dare conto dell'istruttoria svolta e dei vari
interessi ponderati e del percorso seguito. Il diritto ambientale però non è incompatibile con
la semplificazione; infatti, sebbene rivolta a dare applicazione al principio di precauzione la
Direttiva 2014752/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 aprile 2014, in materia
di VIA riesce ad assicurare una significativa semplificazione della procedura.
La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul D.lgs. n.104 del 2018 di attuazione della
direttiva ha riconosciuto che la nuova normativa ispirata al principio di semplificazione nei
procedimenti attraverso la previsione di un'autorizzazione integrata ambientale “strumento
necessario per garantire una tutela unitaria e non frazionata del bene ambiente” è “incentrata,
anzitutto sull'obiettivo di migliorare la qualità della procedura di valutazione dell'impatto
ambientale, allineandola ai principi della regolazione intelligente e cioè della regolazione
diretta a semplificare le procedure e a ridurre gli oneri amministrativi implicati nella
realizzazione dell'opera”.
6.Brevi considerazioni conclusive.
Alla luce di quanto detto, si può prospettare, nel rispetto delle norme vigenti e
dell'ordinamento nel suo complesso e dei principi che lo compongono, una soluzione che
limiti l'applicazione dell'art.17-bis non solo sul piano quantitativo alle ipotesi in cui debba
pronunciarsi una sola autorità codecidente, oltre a quella che adotterà l'atto amministrativo o
normativo finale, ma anche sul piano qualitativo nel restringere l'operatività della norma per
quanto riguarda gli interessi sensibili e ambientali, alle ipotesi di adozione di provvedimenti
vincolati o caratterizzati da un basso tasso di discrezionalità e non conformativi.
Questa soluzione sembra essere concorde con la Corte costituzionale che ha affermato che
l'istituto del silenzio assenso non è applicabile nei procedimenti ad elevata discrezionalità
come nel caso della pianificazione territoriale o urbanistica.
Inoltre, questa interpretazione sembra aver ispirato l'Adunanza Plenaria nu.17 del 2016 che al
termine di un lungo percorso giurisprudenziale, ha posto fine alla controversa questione
dell’intervenuta o meno abrogazione del silenzio assenso previsto dall'art.13 L. n. 394/1991
in materia di nulla osta dell'ente parco, a seguito dell'entrata in vigore del nuovo testo dell'art.
20 L. n.241 che ha escluso che il silenzio assenso possa essere applicato in materia
ambientale.
L’A.P. ha concluso per la non abrogazione: in questo caso il silenzio assenso non
sacrificherebbe l'interesse sensibile poiché la norma si applica ad un procedimento di verifica
di conformità dell'intervento che si vuole realizzare con il piano del parco e dunque si tratta di
una valutazione caratterizzata da un basso tasso di discrezionalità tecnica, quando le scelte
discrezionali sono state fatte nella fase di pianificazione si può intendere la formazione di
silenzio assenso nella fase a te a tua ti va anche in materia della tutela del paesaggio.
Un'altra soluzione potrebbe individuarsi nella necessità che, nello schema dell'art. 17 -bis
l'amministrazione procedente, in seguito all’inerzia dell'amministrazione, valuti tutti gli
interessi coinvolti, questa soluzione può prendere spunto dall'articolo 146 del T.U. sui beni
culturali n.42/2004 che prevede che qualora la Sovrintendenza non adotti il parere vincolante
nel termine previsto di 45 giorni, l’autorità richiedente, la regione o ente da questo delegato si
pronunci facendosi carico della tutela dell'interesse sensibile. In questo caso si tratta di un
silenzio devolutivo e non di un silenzio assenso, ma lo schema potrebbe applicarsi anche la
fattispecie dell'art.17-bis.

CAPITOLO 5: IL LUNGO CAMMINO DELLA TRASPARENZA


TRA ACCESSO E ACCESSO CIVICO., di Alfredo Contieri. Riassunto di Paolillo

1. LA NUOVA DIMENSIONE DELLA TRASPARENZA

Negli ultimi anni, il nostro ordinamento ha dato un nuovo significato al concetto di


TRASPARENZA e ciò ha comportato un nuovo modo di concepire il rapporto CITTADINO-
AMMINISTRAZIONE

il d.lgs 33/2013 cd. CODICE della TRASPARENZA segna una svolta perché:
mantiene una continuità rispetto al d.lgs 150/2009 e la l.190/2012
MA rappresenta il punto di arrivo della trasformazione del concetto di trasparenza
(che vedremo nelle prossime pagine)

INFATTI il concetto di TRASPARENZA:


prima (ex art.1 l.241) era considerato un principio a cui si doveva ispirare l’azione
amministrativa
ora, con il d.lgs 33/2013 viene considerato:
- un diritto del cittadino
- un valore fondamentale dell’ordinamento
QUINDI ad oggi la trasparenza non è semplicemente e solamente un concetto:
▪ che garantisce la tutela giurisdizionale del cittadino
▪ che valuta la perfomance dei dirigenti (come nella l.Brunetta)
non ha solo una funzione strumentale al raggiungimento di interessi tutelati dall’ordinamento

MA la trasparenza è anche e soprattutto :


- un valore di tipo finalistico
- espressione di democrazia politica e amministrativa
- elemento che caratterizza gli ordinamenti democratici
consentendo controllo dei poteri istituzionali da parte dei cittadini,
rendendo visibili e comprensibili i servizi e le decisioni adottate dall’amministrazione

QUINDI la TRASPARENZA è divenuta:


▪ un valore strettamente connesso ai valori cost. di imparzialità, buon andamento
▪ uno strumento che assicura la legalità

facendo ora riferimento al DIRITTO DI ACCESSO possiamo dire che:

negli ultimi tempi ha preso corpo una concezione della trasparenza


non più relegata nella dimensione limitata del diritto di accesso
MA viene vista come forma di riconoscimento del diritto all’informazione

il diritto all’informazione presuppone:


l’interesse pubblico (dei cittadini) ad accedere alle informazioni pubbliche.

a tal proposito possiamo parlare del:

FOIA (Freedom of Information act)


atto emanato per la 1° volta negli USA durante la presidenza Johnson (1966)

a questo atto si sono ispirate le legislazioni della maggior parte dei paesi democratici
e, pur se con notevole ritardo, anche l’ordinamento italiano con il d.lgs. 33/2013

su cosa si basa il FOIA?


sul riconoscimento del diritto di tutti i cittadini ad accedere alle info in possesso delle PA
grazie alla messa a disposizione, alla pubblicazione e alla diffusione delle informazioni/dati

qui il diritto all’informazione viene considerato :


▪ un elemento INDISPENSABILE per il corretto funzionamento di un ord democratico
▪ un diritto fondamentale da garantire a chiunque

nb: sempre però con il limite però di non fare accedere i cittadini a informazioni sensibili
riguardanti ad esempio: difesa, affari militari, sicurezza, ordine pubblico e dati personali

il FOIA ha rappresentato uno degli aspetti più interessanti dell’evoluzione dei diritti di 4°gen
e inoltre per tale via dovrebbe realizzarsi un passaggio importante cioè:
▪ dal potere invisibile della Pubblica Amministrazione
▪ alla concezione della Pubblica Amministrazione come casa di vetro
Recentemente (durante l’amministrazione Obama)
i principi del FOIA sono stati integrati e rafforzati da 2 nuovi concetti:

1. OPEN GOVERNAMENT -> finalizzato alla partecipazione attiva dei cittadini alle
scelte amministrative; ratio 🡪 garantire amministrazione aperta e info fruibili alla
collettività

2. OPEN DATA -> possibilità che le info prodotte dalle amm siano raccolte in banche
dati
ratio 🡪 garantire trasparenza tra istituzione e cittadino

nb: a questo modello si è ispirato per certi aspetti anche il legislatore italiano

per effetto di tutto ciò:


il diritto all’informazione non è limitato all’area del procedimento amministrativo
ed è uno strumento essenziale di uno stato democratico per controllare l’esercizio del potere
pubblico.

il diritto all’informazione:
● garantisce un controllo diffuso sull’operato del governo e dell’ amministrazione
anche ai fini di prevenzione della corruzione (ACCUNTABILITY);

● assicura una più consapevole partecipazione dei cittadini alle decisioni


(PARTECIPATION);

● rafforza la legittimazione delle amministrazioni


che operano al servizio della collettività (LEGITIMACY);

2.EVOLUZIONE DELL’ORDINAMENTO NAZIONALE (riguardo il diritto di accesso)

questa evoluzione la vediamo attraverso tre tappe fondamentali:


▪ l.241/1990
▪ d.lgs 150/2009
▪ l.190/2012

background:
storicamente l’amministrazione italiana si è fondata sul SEGRETO e NON PUBBLICITA’
degli atti
INFATTI dobbiamo aspettare la l.241/1990 per parlare di DIRITTO DI ACCESSO

ora andiamo a trattare delle 3 leggi nello specifico

▪ l.241/1990 (legge sulla trasparenza) :


fu definita ‘legge sulla trasparenza’
anche se la parola ‘’trasparenza’’ fu inserita nella legge (all’art.1) solo nel 2005

la TRASPARENZA è il valore giuridico a cui sono rivolti istituti operanti nei singoli proced
come:
obbligo di motivazione, responsabile del procedimento, partecipazione, diritto di accesso
nella prospettiva della l.241/1990 l’accesso era:
▪ un diritto di natura individuale
▪ esercitabile su domanda che doveva essere motivata
▪ esercitabile per tutelare una posizione giuridica riconosciuta dall’ordinamento
▪ riferibile solo ai documenti già formati e non alle informazioni
nb: la motivazione era richiesta anche se si voleva accedere a un atto pubblico

QUINDI nella l.241/1990 si parla di:


ACCESSO FINALIZZATO alla GARANZIA (alla tutela di una posizione individuale)
e non di accesso finalizzato alla conoscenza e all’informazione

poi il progresso tecnologico e le influenze degli altri ordinamenti hanno ribaltato la


prospettiva:
non si parlerà più di accesso individuale a domanda motivata
MA obbligo generalizzato di pubblicazione sui siti istituzionali di tutti gli atti
(infatti solo così si può realizzare un reale trasparenza)

QUINDI l’istituto cardine sarà la PUBBLICAZIONE:


che consentirà l’accesso immediato ( e non più individuale, su domanda motivata)

questa nuova prospettiva del diritto di accesso la vediamo nel c. digitale 2005 e nella
l.150/2009

▪ l.150/2009 (ricordata anche come Riforma Brunetta sulla PA)

ha determinato una svolta fondamentale per una concezione più moderna


art.11: La trasparenza è intesa come accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della
pubblicazione sui siti istituzionali delle amministrazioni pubbliche, delle informazioni
concernenti ogni aspetto dell'organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e
all'utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell'attività di
misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di
controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità.
vediamo come fanno ingresso nel nostro ordinamento 2 concetti innovativi:
▪ ACCESSIBILITA’ TOTALE delle info (TOTAL DISCLOSURE)
▪ CONTROLLO DIFFUSO
così si afferma nel nostro ordinamento una nuova concezione/forma di trasparenza
(ben lontana dall’accesso individuale e motivato)
fondata sulla pubblicità e condivisione delle informazioni
allo scopo di favorire il controllo diffuso (di tutti i cittadini su tutti i documenti)

ed è qui che c’è il passaggio:


dal diritto di accesso come diritto degli individui di accedere ai documenti che li riguardano
all’obbligo delle amministrazioni di rendere note a tutti i cittadini (senza previa richiesta)
tutte le informazioni e i documenti.

in questa l.150/2009 la PUBBLICITA’ viene vista come strumentale ad assicurare


il controllo dei cittadini sugli aspetti gestionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche da parte della PA

▪ l.190/2012 (legge anticorruzione)


art.1 co 15: la trasparenza dell'attività amministrativa, che costituisce livello essenziale
delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili ai sensi dell'articolo 117, secondo comma,
lettera m), della Costituzione, secondo quanto previsto all'articolo 11 del decreto legislativo
27 ottobre 2009, n.150, è assicurata mediante la pubblicazione, nei siti web istituzionali
delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni relative ai procedimenti
amministrativi, secondo criteri di facile accessibilità, completezza e semplicità di
consultazione, nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto
d'ufficio e di protezione dei dati personali.

art.1 co.29: ogni amministrazione pubblica rende noto, tramite il proprio sito web
istituzionale, almeno un indirizzo di posta elettronica certificata cui il cittadino possa
rivolgersi per trasmettere istanze

art.1 co.30: le amministrazioni hanno l'obbligo di rendere accessibili in ogni momento


agli interessati le informazioni relative ai provvedimenti e ai procedimenti
amministrativi che li riguardano, ivi comprese quelle relative allo stato della procedura,
ai relativi tempi e allo specifico ufficio competente in ogni singola fase

qui la TRASPARENZA viene vista come:


strumento di controllo dell’azione amministrativa
in funzione di prevenzione dei fenomeni di illegalità e corruzione
infatti l’obiettivo è -> evitare fenomeno di maladministration grazie al controllo diffuso

nb: la logica è -> se i comportamenti dei pubblici funzionari sono resi pubblici,consultabili
è più difficile che questi mettano in atto forme di corruzione
QUINDI mettere in campo la trasparenza per combattere la corruzione
infatti si può dire che la trasparenza è un mezzo fondamentale di prevenzione della
corruzione
tant’è che ogni amministrazione deve avere un piano anticorruzione e un piano per la
trasparenza

art.1 co 35 : prevede una delega al Governo relativa a profili come:


▪ riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità
▪ previsione di forme di pubblicità in ordine all’uso delle risorse pubbliche
▪ pubblicità dei dati relativi ai titolari di incarichi politici di tipo elettivo
▪ individuazione delle sanzioni per il mancato, inesatto adempimento degli obbl di
pubbl

▪ dlgs 33/2013 (Codice della trasparenza)

qui la trasparenza viene definita come:


diritto per tutti i cittadini di avere accesso diretto
all’intero patrimonio informativo delle pubbliche amministrazioni

ciò in ragione del fatto che la trasparenza è uno strumento fondamentale:


- per alimentare il rapporto di fiducia tra cittadini e PA
- per promuovere il principio di legalità e di prevenzione della corruzione

quindi si deve intendere la trasparenza come:


accessibilità totale alle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle PA
al fine di favorire forme di diffusione di controllo delle istituzioni e dell’utilizzo delle risorse
pubbl

la trasparenza:
si realizza attraverso la pubblicazione nei siti delle PA
di documenti e info concernenti l’organizzazione e l’attività delle PA
e tutti hanno il diritto di accedere ai siti direttamente e immediatamente
(quindi senza una autentificazione o identificazione)

tutto ciò
- concorre alla realizzazione di un’amministrazione aperta e al servizio del cittadino
- attua i principi cost. di uguaglianza, imparzialità, buon andamento, efficienza della
PA

il dlgs 33/2013 individua una serie di atti e informazioni che devono essere pubblicati
obbligatoriamente, ad esempio:
- provvedimenti finali di procedimenti
- affidamenti di appalti
- concorsi e prove selettive
- accordi stipulati con privati
- rendiconti dei gruppi consiliari
- atti di conferimento di incarichi dirigenziali
- atti riguardanti settori speciali come opere pubbliche, servizio sanitario nazionale

PERO’ allo stesso tempo bisogna stare attenti a non creare ‘forme di opacità per confusione’
cioè bisogna evitare che la massa di dati resi pubblici sia talmente ingente da renderne
difficile
se non impossibile la consultazione

per evitare che questo accada devono essere individuate forme di pubblicazione idonee a
mettere in evidenza le informazioni rilevanti.

un altro aspetto molto importante da trattare è la QUALITA’ DELLE INFORMAZIONI


infatti trasparenza è insieme conoscenza e comprensione

le PA devono assicurare:
- qualità
- integrità
- completezza
- semplicità di consultazione
- comprensibilità
- costante aggiornamento
- tempestività
- conformità all’originale
delle info che pubblicano nella sezione apposita denominata ‘amministrazione trasparente’

CONTENUTI ESSENZIALI del DLGS 33/2013

A. in questo dlgs è sancito un obbligo di pubblicazione di atti individuati dalla legge,


con la possibilità di renderli anonimi se sono presenti dati sensibili
inoltre le PA possono decidere di pubblicare anche altri atti (di cui non è obbligatoria la
pubbl)

sulla base della filosofia dell’OPEN DATA:


i dati, le informazioni, i documenti devono essere pubblicati in formato ‘di tipo aperto’
affinché siano riutilizzabili senza restrizioni ( a parte citare la fonte e rispettarne l’integrità)

però questa riutilizzabilità dei dati da parte di chiunque potrebbe comportare un problema:
cioè potrebbe accadere che info e documenti che non hanno più valore
continuino ad essere disponibili e consultabili anche dopo molti anni
in questi casi ci sono 2 diritti che vanno a scontrarsi: diritto all’oblio e diritto
all’informazione
ovviamente prevarrà il diritto all’oblio rispetto al diritto all’informazione
(proprio perché queste informazioni non sono più attuali e di pubblico interesse)

sempre facendo riferimento al diritto all’oblio l’Autorità garante dei dati personali
ha pubblicato delle linee guida in materia di trattamento dei dati personali
proprio perché il perseguimento del valore della trasparenza
potrebbe travolgere la dignità dell’individuo
infatti è stato introdotto:
- obbligo di cancellazione dei dati non più rilevanti
- prevalenza del diritto all’oblio e alla riservatezza

B. in questo dlgs sono stabilite le sanzioni per il funzionario inadempiente


sono misure punitive non presenti nella disciplina precedente (l.190/2012)
e che quindi ne favorivano l’inapplicazione (della l.190/2012)

quindi il responsabile della trasparenza sarà responsabile in caso di inadempienza


però avrà la possibilità di dimostrare di avere adempiuto ai propri doveri
e che quindi la mancata pubblicazione di determinati dati e documenti non dipende da lui

A fronte dell’obbligo di pubbl sul sito -> vediamo un nuovo diritto = DIRITTO DI
ACCESSO CIVICO
è un diritto funzionale ad assicurare un corretto adempimento degli obblighi di pubblicazione
infatti in virtù di questo diritto :
tutti hanno diritto a richiedere la pubblicazione
nel caso in cui l’amministrazione non abbia rispettato l’obbligo di pubblicazione
la richiesta non deve essere motivata, è gratuita e va presentata al responsabile della
trasparenza
in caso di diniego è ammesso il ricorso al giudice amministrativo
e il ricorrente può stare in giudizio personalmente senza l’ assistenza del difensore

c’è una totale estensione soggettiva infatti:


il diritto all’info si radica direttamente in capo al soggetto
a prescindere se questo sia coinvolto o meno nel procedimento amministrativo

C’è da dire però che al di là di tutti questi progressi comunque la riforma ha dei limiti:
la nuova disciplina non è del tutto riconducibile al modello di riferimento FOIA
proprio perché non c’è accesso a qualsiasi informazione detenuta dalle PA
a differenza di quanto avviene negli ordinamenti anglosassoni dove
le informazioni detenute dagli uffici pubblici sono di proprietà della collettività (dei cittadini)

secondo Savino l’idea centrale dell’accesso generalizzato alle informazioni pubblico (tutto a
tutti)
è quella per le cui le amministrazioni pubbliche detengono le informazioni nell’interesse
pubblico
quindi le PA sono custodi dell’interesse generale.

MODELLO ITALIANO INIZIALE

Nel 1° testo del Codice della Trasparenza (dlgs.33/2013)


la pubblicità opera come una regola di stretto diritto positivo
cioè implica il disconoscimento dell’accesso alle info come diritto fondamentale
QUINDI c’è un’inversione logica:
il rapporto tra il mezzo (obbligo di pubblicazione) e il fine (diritto di accedere alle info)
è invertito: l’esercizio del diritto diviene strumentale all’adempimento dell’obbligo
cioè il diritto veniva riconosciuto solo per essere adempienti rispetto all’obbligo

ciò comporta la conseguenza che: un’area di info in possesso delle PA


che dato che non rientrano tra quelle che devono essere obbligatoriamente pubblicate
possono essere conosciute solo attraverso un accesso individuale (rispettando determinate
condizioni)

inizialmente abbiamo questo modello in Italia ( distaccato e diverso da quello internazionale)


perché non si vuole portare subito a compimento questo processo di democratizzazione che
sembrava inarrestabile.
quindi ci saranno delle aree in cui la pubblicità sarà assicurata solo attraverso un accesso
individuale e di conseguenza verrà riconosciuta alle PA la facoltà di valutare caso per caso
l’accesso e quindi la possibilità di depennare determinate categorie di atti dall’obbligo di
pubblicazione.

QUINDI da questo modello italiano iniziale possiamo concludere che l’obiettivo prioritario
del legislatore italiano non era quello di riconoscere un diritto a favore dei cittadini

▪ Dlgs 97/2016
il decreto legislativo 97/2016, attuativo della l.Madia, ha innovato il dlgs 33/2013
con questa nuova versione del dlgs 33/2013 si può parlare a pieno titolo di un FOIA italiano

art.5 comma 2 -> chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenute dalle PA
questo comma fa un riferimento ai dati e documenti generico quasi omnicomprensivo
infatti si può parlare di TOTAL DISCLOSURE (amplissima estensione dell’accesso civico)

questo art.5 conferma:


- l’obbligo per le PA di pubblicare documenti, info e dati
- il diritto di chiunque di richiederne la pubblicazione nel caso in cui questa sia stata
omessa
il nostro ordinamento si è allineato al diritto UE infatti:

art.15 TFUE -> al fine di promuovere il buon governo le istituzioni dell’Unione operano nel
modo più trasparente possibile, e qualsiasi persona fisica o giuridica residente all’interno
dell’UE ha il diritto di accedere ai documenti delle istituzioni, organi dell’UE

art.42 Carta di Nizza -> rubricato ‘diritto di accesso ai documenti’-> Ogni cittadino
dell'Unione nonché ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno
Stato membro ha il diritto di accedere ai documenti delle istituzioni, organi e organismi
dell'Unione, a prescindere dal loro supporto.

il dlgs 97/2016 introduce 2 figure di accesso civico (che si affiancano all’accesso


documentale) :

1. ACCESSO CIVICO SEMPLICE

è stato introdotto in attuazione della legge anticorruzione al fine di:


favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali
e sull’utilizzo delle risorse pubbliche

l’accesso civico semplice garantisce la libertà di chiunque di accedere ai dati, oggetto di


pubblicazione, in possesso delle PA
quindi senza che il soggetto interessato debba presentare un’istanza
infatti l’istanza sarà necessaria solo nel caso in cui la PA rimanga inerte, non pubblicando i
dati,doc

allo stesso tempo però bisogna tutelare il diritto alla riservatezza dei titolari delle info e dei
dati

2. ACCESSO CIVICO GENERALIZZATO

consente a chiunque di accedere ai dati e ai doc non oggetto di obbligo di pubblicazione


ad eccezione di quei casi dove la pubblicazione dei dati comporterebbe un pregiudizio
concreto a interessi pubblici rilevanti ( sicurezza pubblica) o interessi privati (protezione dati
personali)
in questi casi il legislatore non ha individuato dei divieti assoluti
ma ha rimesso alla PA il potere di valutare la richiesta di accesso con un provvedimento
motivato

nb: ovviamente per dati si intendono quelli di cui la PA è in possesso


ne consegue che la PA non è tenuta a procurarsi info che non siano già in suo possesso

QUINDI l’accesso civico generalizzato incontra maggiori limitazioni rispetto quello semplice
e quello documentale .

altro tipo di accesso:


ACCESSO CIVICO DIFENSIVO -> accesso indispensabile per curare o difendere proprie
situazioni giuridicamente tutelate
in conclusione si può parlare di unico diritto di accesso che si manifesta in diverse forme a
seconda delle funzioni alle quali l’accesso è rivolto.

Adunanza Plenaria 10/2020 in materia di accesso ai contratti pubblici


questa è di grande interesse perché pone il problema:
si può/si deve convertire, da parte della PA,
un’ istanza di accesso documentale priva di requisiti in un accesso civico generalizzato
quindi sussiste l’obbligo per la PA di accogliere la domanda?

secondo l’Adunanza Plenaria la PA che:


- riceve un’istanza di accesso formulata in modo generico
(per generico si intende senza riferimento all’accesso documentale o civico
generalizzato)
ha il potere-dovere di esaminarla nella sua interezza
e quindi anche con rif. alla disciplina dell’accesso civico generalizzato;

- riceve un’istanza che faccio riferimento all’accesso della l.241/1990


allora dovrà esaminarla alla luce di quella disciplina
e non anche di quella dell’accesso civico generalizzato

CENNI CONCLUSIVI

l’ampiezza, quantità degli atti accessibili garantiscono un controllo sociale


ma allo stesso tempo si richiede una comunità di cittadini responsabile, vigile e consapevole
del suo ruolo.

INFATTI la trasparenza come strumento di democrazia


presuppone una cittadinanza attiva, protagonista
solo avendo questo tipo di mentalità la riforma avrà un senso.

Da una parte si instaura, grazie alla trasparenza, un nuovo modello di relazione tra cittadino e
PA
dall’altra i titolari delle funzioni pubbliche devono mettersi al servizio dei cittadini e favorire
la massima apertura alla conoscenza.

quindi vediamo riproporsi il fenomeno della FUNZIONALIZZAZIONE dell’esercizio dei


pubblici poteri alla garanzia dei diritti sociali
cioè, in altre parole, il fondamento di tali obblighi (pubblicazione,trasparenza) sta nella
soddisfazione del diritto di informazione dei cittadini e nella conoscenza della cosa pubblica.

CAPITOLO 6 - LA CONFERENZA DI SERVIZI., di Giovanni Cocozza. Riassunto di


Trerotola

1. La conferenza dei servizi tra semplificazione e coordinamento dell’azione


amministrativa:
La conferenza dei servizi è un istituto, la cui finalità è il coordinamento e la semplificazione
dell’azione amministrativa, favorendo un più efficace confronto dialettico tra i poteri pubblici
coinvolti e proponendosi come forma ordinaria di attività decisionale.
Da un lato, ha incontrato il favore della dottrina quando l’istituto è stato collocato per la prima volta
nella legge n.241 del 1991, ma dall’altro ha avuto evidenti ostacoli nel suo funzionamento concreto.
Gli ostacoli che hanno impedito l’assestamento dell’istituto sono due: le esigenze sottostanti e
l’avvicendarsi di riforme legislative.
Nonostante ciò, il Consiglio di Stato l’ha riconosciuto come il principale istituto di semplificazione
procedimentale e il cardine per autorizzare l’avvio di attività, in cui confluiscono diversi interessi
pubblici.

2. L’esigenza di una previsione normativa generale:


La conferenza dei servizi è coerente con la richiesta per cui, alla distribuzione delle competenze su più
centri decisionali, corrisponda un coinvolgimento degli stessi, con un assetto coordinato, per
perseguire il risultato migliore per l’interesse pubblico.
Quindi la semplificazione non è sinonimo di riduzione o compressione procedimentale, ma serve a
rendere più efficiente il procedimento, quando concorrono più interessi pubblici.
Sicuramente quest’obbiettivo precede la legge n. 241 del 1991, infatti quest’ultima è frutto di una
progressione normativa graduale, fino a giungere ad una previsione generale della conferenza dei
servizi.
In merito, si può ricordare la legge 6 dicembre 1962 n. 1643, che contempla per la prima volta delle
periodiche conferenze a scopo consultivo o ancora, il decreto-legge n.121 del 1989 che introduce una
nuova formula che prevede che l’approvazione assunta dalla conferenza all’unanimità sostituisce ad
ogni effetto gli atti di intesa, i pareri, le autorizzazioni, ecc. previsti dalle leggi regionali o statali.
La ratio di questa previsione qual è? Creare un modulo procedimentale che possa rispecchiare il
nuovo contesto, in cui concorrono diversi soggetti in una posizione di coordinamento ed equi
ordinazione, senza gerarchie.
Se esistono soggetti portatori di interessi pubblici, posti sullo stesso piano fra loro, sarà necessario
individuare un interesse pubblico concreto tramite un’opera di confronto, in un luogo di valutazione
contestuale degli interessi coinvolti.
Tutto ciò serve anche ad eliminare il frazionamento delle competenze, che causa l’inefficienza della
pubblica amministrazione.

3. L’evoluzione normativa. Gli interventi correttivi negli anni 1990-1999:


Come è stato anticipato, uno dei maggiori ostacoli all’evoluzione della conferenza dei servizi, è stato
il susseguirsi di modifiche alla disciplina, che hanno trasformato in modo radicale l’istituto, così tanto
che la formulazione originaria e quella attuale sembrerebbero riguardare istituti diversi fra loro:
- Nella sua forma originaria, spicca l’elemento della valutazione contestuale dei vari interessi
pubblici. La ratio è di semplificazione e di coordinamento procedimentale dell’azione,
attraverso una riduzione delle fasi ed un confronto, per giungere ad una conclusione più
rapida. Tutto ciò, per superare l’inerzia dell’amministrazione.
C’è rispetto delle amministrazioni dissenzienti partecipanti all’adozione il provvedimento,
rispetto agli interessi pubblici di cui sono portatrici, anche se tale rispetto, ha come riscontro
negativo il fatto che sia un limite all’operatività concreta dell’istituto, per l’impossibilità di
superare questi dissensi. Anche se può essere valutato come un aspetto negativo, in ogni caso
è sintomatico di un’equiparazione delle amministrazioni.
Inizialmente ci sono stati solo degli interventi correttivi, senza delle vere e proprie modificazioni
strutturali, che hanno caratterizzato il primo decennio dell’istituto:
1) sicuramente risultò essere necessario attuare un temperamento al principio di unanimità,
attraverso una tecnica additiva, inserendo il comma 2-bis all’art 14 con la legge n.537 del
1993, secondo cui per superare il dissenso in conferenza, fosse necessario un intervento
sostitutivo del Presidente del Consiglio dei ministri con i medesimi effetti dell’approvazione
all’unanimità, precisando inoltre che non tutte le ipotesi di conferenza, avessero bisogno
dell’unanimità. Si crea uno squilibrio fra coordinamento e semplificazione, preferendo la
seconda e alterando questo schema “puro”.
2) Utilizzando la medesima tecnica additiva il decreto-legge n. 163/1995, inserendo il comma 2-
ter, viene disciplinata l’ipotesi degli atti di consenso rilasciati da amministrazioni diverse, a
cui è subordinata all’attività del privato, a cui si applicano sempre le previsioni dei commi 2 e
2-bis. Compare così la figura del privato (la cui attività sia subordinata ad atti di consenso),
conferendogli la possibilità di convocare la conferenza, arricchendo la tipologia.
3) Una disciplina piuttosto decisa in materia, con una tecnica modificativa stavolta, si attua solo
nel 1997 con l’introduzione dei commi 3-bis e 4-bis all’art 14, ma anche degli articoli 14 bis,
14 ter, 14 quater. Diventa rilevante il tempo, stabilendo un termine entro cui si deve pervenire
ad una decisione, il cui inutile decorrere causa un implicito rinvio alla disciplina per il
superamento dei dissensi.
È stata modificata anche la disciplina sui dissensi in conferenza, a conferma di un tentativo
acceleratorio, che non prevede più una sostituzione, ma una comunicazione al Presidente del
Consiglio dei ministri.
Un ulteriore arricchimento è la possibilità di adoperare il modulo della conferenza in un unico
procedimento, anche per l ‘esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti
amministrativi riguardanti la medesima attività.

4. Le modificazioni strutturali del modello negli anni 2000-2009:


Tutto ciò ha posto le basi per le successive modifiche strutturali, infatti con la legge n.340 del 2000, si
è avuta una vera e propria ristrutturazione dell’impianto normativo precedente perché non bastavano
più dei semplici interventi additivi, così come emerge dalle nuove formulazioni degli art. 14-bis, 14-
ter e 14-quater.
Una prima differenza è la previsione del modulo conferenza per superare l’inerzia delle
amministrazioni partecipanti in caso non abbiano rilasciato le intese o assensi di loro competenza
entro 15 giorni dall’inizio del procedimento. Tutto ciò sicuramente serve a superare l’inattività delle
amministrazioni e la conferenza diventa un modulo generale di esercizio della funzione
amministrativa e obbligatorio per supplire al mancato rilascio dei provvedimenti da parte delle altre
amministrazioni.
L’elemento che caratterizza maggiormente l’intervento strutturale è la risistemazione complessiva
dell’istituto con nuove modalità di lavori e decisioni, oltre che con l’aggiunta di un altro modello di
conferenza, quella preliminare, nelle ipotesi più complesse.
Naturalmente continuano ad esistere punti nevralgici da risolvere nella disciplina, come la possibilità
di un dissenso postumo da parte dell’amministrazione che vuole impugnare la determinazione
definitiva della conferenza entro 30 giorni dalla ricezione, oppure il fatto che il provvedimento finale
espressamente previsto a seguito di quest’ultimo intervento (guarda l’ultimo paragrafo), debba essere
conforme alla determinazione conclusiva della conferenza.
Sia la questione del dissenso postumo, in quanto permette che ci possa essere una revisione al di
fuori eludendo la valutazione contestuale, sia la necessità della maggioranza per l’adozione della
decisione finale, visto che non tutela le competenze delle amministrazioni coinvolte, creano delle forti
incertezze nel sistema.
La riforma più significativa è avvenuta del 2016, ma c’è stato un susseguirsi di modifiche nel 2005,
2009, 2010 e 2012.
Partendo dalla prima, venne fatta una distinzione fra conferenza di servizi e quella preliminare, fu
ridisegnata la disciplina dei dissensi, fu prevista l’obbligatorietà dell’indizione della conferenza in
caso di mancato rilascio degli atti richiesti e in caso di dissenso delle amministrazioni e venne
scansionato il tempo per la prima riunione della conferenza con un termine di quindici giorni, fino ad
un massimo di trenta.
Il passaggio decisivo è però la sostituzione della regola della maggioranza della legge del 2000
con quella della prevalenza delle posizioni espresse in conferenza. Questa modifica permane
ancora oggi.
Ci si occupa anche del dissenso espresso, soprattutto delle Regioni, la cui esigenza è data dalla, vicina
nel tempo, modifica del Titolo V della Costituzione.
Nel 2009 non sussistono grandi modifiche, ci si sofferma sulla partecipazione dei privati e
concessionari dei pubblici servizi coinvolti in modo diretto o meno nel procedimento amministrativo,
a cui viene data la possibilità di partecipazione alla conferenza, se interessati al progetto dedotto in
conferenza, senza diritto di voto.

5. Gli ulteriori interventi legislativi precedenti alla riforma “Madia”:


Nel 2010, si è cercato di intervenire sull’inoperatività dell’istituto, con il decreto-legge 31 maggio n.
78.
La prima modifica apportata è di tipo testuale, perché c’è stata apportata una modifica alla locuzione
previgente di “indire di regola” la conferenza, con “si può indire”, in merito alla sua obbligatorietà.
Però l’obbligatorietà di quest’ultima, resta ancora in vigore in alcuni casi, come per il mancato rilascio
da parte delle amministrazioni partecipanti degli atti di loro competenza o in caso di dissenso. È
possibile l’indizione della conferenza, come precisato in un inciso, nei casi in cui è consentito
all’amministrazione procedente di provvedere direttamente in assenza delle determinazioni delle
amministrazioni competenti.
Viene ripresa, per quanto riguarda i meccanismi decisionali alla conclusione della conferenza, la
regola della prevalenza delle posizioni espresse in conferenza, con la possibilità di adire il Consiglio
dei ministri direttamente in materia di VIA statale.
La mancata partecipazione alla conferenza o di mancata/ritardata adozione della determinazione
motivata di conclusione del procedimento ha come causa consequenziale la previsione di una
responsabilità dirigenziale o disciplinare e amministrativa. Inoltre, per superare l’inerzia
dell’amministrazione, in caso di mancata espressione di volontà da parte del rappresentante
dell’amministrazione, esclusi i provvedimenti in materia di VIA, VAS e AIA, si considera acquisito
l’assenzo.
L’ultima modifica, che ha abrogato il comma 9 dell’art 14-ter che disciplinava il provvedimento
finale, riguarda il rapporto tra la determinazione conclusiva e provvedimento finale, per cui non è
necessario che il provvedimento finale sia identico alla determinazione conclusiva.

6. Le principali novità del decreto legislativo n. 127 del 2016 attuativo della legge n.
124/2015 (riforma Madia) e gli interventi più recenti:
Una tappa fondamentale nell’evoluzione della conferenza è quella avvenuta con la riforma Madia, con
il decreto legislativo 30 giugno 2016, n. 127, sulla base della delega contenuta nella legge 7 agosto
2015, n.124: è una ristrutturazione integrale dell’istituto, avvertita come necessaria, visto che gli viene
ancora riconosciuto un ruolo fondamentale in caso di decisioni plurali e che viene concepito come un
luogo di sintesi fra interessi pubblici e tentativo di semplificazione.
I punti su cui si è cercato di intervenire sono differenti: definire e ridurre i casi in cui la conferenza è
obbligatoria, determinare i diversi tipi di conferenza (introducendo anche modelli di istruttoria
pubblica per garantire la partecipazione agli interessati, anche in via telematica), ridurre i termini del
procedimento, dare una durata certa ad ogni conferenza, semplificare il modello decisionale e dei
lavori in generale, infine precisare i poteri dell’amministrazione procedente.

-Innanzitutto, sono stati ripresi tre diversi modelli di conferenza: istruttoria, decisoria e preliminare.
Per quanto riguarda la prima, è utilizzabile nella fase istruttoria di un procedimento o in più
procedimenti connessi fra loro, quando è necessario esaminare gli interessi coinvolti
La seconda è obbligatoria nel caso in cui sia necessario acquisire più pareri o atti, prima che ci sia la
conclusione positiva del procedimento.
Quella preliminare, è una possibilità collegata a delle circostanze, al fine di indicare al richiedente,
prima della presentazione di un progetto definitivo, le condizioni per ottenere i necessari pareri,
intese, autorizzazioni, ecc.

-In secondo luogo, soffermandosi sui meccanismi di funzionamento della conferenza, sono state
previste due modalità, quella “semplificata, asincronica” e l’altra “simultanea, sincronica”:
La prima (disciplinata dall’art 14-bis), è quella generalmente usata e che prevede, per l’autorità
procedente, la possibilità di una scelta di una scansione temporale in funzione acceleratoria e di
semplificazione nella fase conclusiva. Le amministrazioni devono consegnare le proprie
determinazioni entro un termine perentorio non superiore a 45 giorni, o 90 giorni in caso di
amministrazioni che si occupano di interessi sensibili. La mancata comunicazione della
determinazione equivale all’assenso senza condizioni e in tal caso, l’amministrazione procedente si
occupa di adottare entro cinque giorni la determinazione motivata, che conclude in modo positivo la
conferenza. In caso di dissensi insuperabili, si conclude invece in modo negativo.
Quella simultanea è il meccanismo tradizionale, disciplinato dall’art 14-ter, e presenta tre aspetti del
tutto nuovi.
Il primo è dato dalla partecipazione alla conferenza di un unico rappresentante, per tutte le
amministrazioni statali convocate, nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri o dal Prefetto,
che esprima una posizione vincolante per tutti.
Il secondo riguarda la gestione dei dissensi: le amministrazioni preposte alla tutela
ambientale/paesaggistica/ecc. possono proporre opposizione alla determinazione conclusiva della
conferenza (entro dieci giorni dalla comunicazione di quest’ultima) al Presidente del Consiglio, nel
caso in cui abbiano espresso in modo inequivoco il proprio dissenso motivato prima della conclusione
dei lavori. Ciò vale anche per le amministrazioni delle regioni o province autonome di Trento e
Bolzano, nel caso in cui il loro rappresentante abbia manifestato dissenso in conferenza. In caso di
opposizione, naturalmente, la determinazione di conclusione della conferenza perde efficacia ed entro
quindici giorni, il Presidente del Consiglio dei ministri indice una riunione con le amministrazioni per
individuare una conclusione.
Se necessario, può susseguirsi entro i successivi quindici giorni, un’atra riunione e in caso di esito
positivo, l’amministrazione procedente adotta una nuova determinazione di conclusione della
conferenza.
Se non si raggiunge un accordo, interviene il Consiglio dei ministri, che può non accogliere
l’opposizione o accoglierla solo parzialmente, nel primo caso l’atto conclusivo diventa definitivo, nel
secondo viene modificato.
Il terzo aspetto innovativo riguarda l’esercizio del potere di autotutela, art 14-quater comma 2,
prevede infatti che le amministrazioni i cui atti sono sostituiti dalla determinazione motivata di
conclusione della conferenza, possono sollecitare con congrua motivazione l’amministrazione
procedente ad assumere, previa indizione di una nuova conferenza, determinazioni in via di autotutela,
purché abbiano partecipato.
In ultima analisi, c’è una delle maggiori problematiche, quella delle decisioni sulla base di posizioni
prevalenti, che è un modo per il legislatore per dare pari valorizzazione alle posizioni espresse in
conferenza con l’assunzione di una determinazione che sia una sintesi di quanto emerso.
Pur non essendoci una specificazione normativa, è chiaramente differente dallo schema decisionale
basato sulla maggioranza. Non è da intendersi nemmeno come una dimensione quantitativa, perché
sarebbe impossibile conciliarla con la novità per cui possa esserci un rappresentante unico per le
amministrazioni statali, che si troverebbero in una posizione di soggezione. Quindi la spiegazione va
ricercata nel procedimento, nel quale il confronto tra interessi propone la prevalenza da cogliere e
trasferire in idonea motivazione.
Infine, è stata apportata un’ultima modifica alla materia nel 2020 con il decreto-legge del 16 luglio
n.76, in cui il legislatore ha adottato l’inefficacia per i provvedimenti intervenuti dopo la scadenza dei
termini e ha introdotto anche una conferenza super accelerata, a causa del periodo di emergenza
Covid.

7. Provvedimento finale e determinazione conclusiva della conferenza:


Un’ultima questione da analizzare riguarda il rapporto tra la determinazione conclusiva della
conferenza e il provvedimento finale, in particolar modo il dibattito si è aperto proprio con la prima
riforma del 2000.
Nel primo decennio ci si è interrogati sulla necessità di un provvedimento finale unilaterale
dell’amministrazione procedente e l’eventuale rapporto che sarebbe dovuto intercorrere con le
determinazioni concordate, per la produzione degli effetti giuridici. Un’ulteriore difficoltà è data
dall’assegnare al verbale della conferenza un effetto sostitutivo all’atto finale. La riforma del 2000 ha
espressamente previsto questo provvedimento e ci si è chiesti se avesse portata costitutiva o
dichiarativa. Inoltre, era previsto che fosse conforme alla determinazione conclusiva, per cui la
dottrina si è interrogata sul suo carattere ricognitivo (e quindi dichiarativo) inizialmente, sulla base di
quanto avvenuto in conferenza.
Nel 2005, viene abrogata la norma che permette dissensi postumi e di impugnare la determinazione
conclusiva, con il tentativo di stabilizzare l’assetto con una determinazione non modificabile
successivamente. Quindi, visto che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quanto
assunto in conferenza, se ne riconosceva la natura dichiarativa. Differentemente, la giurisprudenza ne
trae un’altra conclusione, ponendo l’accento sull’abrogazione della possibilità di impugnare e
dell’immediata esecutività della stessa, riconoscendone carattere costitutivo.
Questa problematica sulla natura costitutiva e dichiarativa, non è rilevante solo ai fini di una
ricostruzione dogmatica, ma anche per i suoi aspetti processuali, perché una delle due scelte implica
un momento diverso per impugnare in sede giurisdizionale gli atti della conferenza.
La giurisprudenza nella sua indagine è partita proprio da quest’ultimo punto per ricercare il momento
in cui si concretizza la lesione del privato e individuare il provvedimento lesivo oggetto di
impugnativa. In un primo momento si è ammessa l’impugnativa del verbale conclusivo sulla base del
suo carattere dichiarativo e decisorio, ma c’è stata una graduale modificazione fino a riconoscerne un
carattere costitutivo. Nel 2008 si perviene ad una conclusione, riconoscendo alla conferenza una
struttura dicotomica, sulla base delle innovazioni introdotte con la legge 11 febbraio 2005 n.15,
perché non è solo un momento dichiarativo e riepilogativo delle determinazioni, ma un momento
costitutivo delle determinazioni conclusive del procedimento.
Nel 2010 si può evincere l’abrogazione della prescrizione del provvedimento finale e la sua
conformità alla determinazione conclusiva della conferenza.
L’ultima riforma del 2016 non è intervenuta in materia, restando ferma sulla disciplina previgente;
infatti, l’espressione “provvedimento finale” non è rinvenibile nella disciplina normativa, piuttosto si
parla di “determinazione motivata di conclusione del procedimento”.
Non esiste ancora un assetto stabile, la giurisprudenza costituzionale si è espressa a favore di un
modello a struttura unitaria e il giudice amministrativo riprende la precedente configurazione
dicotomica.
In definitiva, il panorama è ancora incerto, ma l’impianto legislativo più recente ha contemplato una
chiusura della conferenza con la determinazione finale senza la necessità di un ulteriore
provvedimento, valorizzando al massimo il ruolo della motivazione della determinazione finale, così
come ha affermato lo stesso Consiglio di Stato.

Capitolo 7: la decisione amministrativa algoritmica, di Margherita Interlandi e


Lorenza Tomassi. Riassunto di Paolo

1. Premessa: la decisione amministrativa nella rivoluzione tecnologica 4.0


Negli ultimi anni l’esigenza di ricorrere al supporto tecnologico, non solo per accelerare i
tempi di risposta ma anche per incrementare l’efficienza dei servizi ai cittadini, è resa ancora
più evidente dall’attuale emergenza sanitaria.
L’impatto della pandemia ha evidenziato l’urgenza di velocizzare la macchina
amministrativa, individuando nella rivoluzione digitale un’opportunità per migliorare la
qualità della funzione e dei servizi ai cittadini.
Fino a poco tempo fa le tecnologie dell’informazione e della comunicazione erano previste al
solo fine di affiancarsi agli applicativi analogici e tradizionali. In altri termini, vi era sempre
un onere di redazione documentale e provvedimentale cartaceo. Oggi, invece, il ricorso agli
strumenti ICT (information and communication technology) si estende anche alla formazione
della decisione amministrativa e, dunque, alle fasi procedimentali preordinate all’adozione
del provvedimento. Si pone il problema di verificare se, e in che misura, gli algoritmi
informatici siano compatibili con lo statuto costituzionale dell’attività amministrativa, ed in
particolare, con le garanzie sostanziali, volte a contrastare l’uso distorto del potere pubblico.

2. L’applicazione dello strumento algoritmico nella prospettiva del giudice


amministrativo
È opportuno avviare le nostre considerazioni dall’esame delle prime pronunce
giurisprudenziali.
In tutti i corsi i giudici hanno riconosciuto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, non
tanto in quanto adottati tramite sistemi automatizzati ma, piuttosto Perché ehm applicati in
contrasto con i tradizionali principi sul procedimento amministrativo. Le principali
controversie esaminate riguardavano la procedura di assunzione a tempo indeterminato di
personale docente. Nell'espletamento dell'iter procedurale, l'amministrazione, in questo caso
il Miur, si era avvalsa del supporto informatico per determinare la graduatoria finale.
Senonché la graduatoria generata dall’algoritmico non aveva tenuto conto, come previsto dal
bando, delle indicazioni espresse dai candidati in sede di compilazione della domanda,
collocando, quindi, il personale docente in provincie diverse rispetto a quelle dove sarebbero
stati collocati se si fosse tenuto conto di suddette indicazioni. Il Tar Lazio, ha annullato i
provvedimenti impugnati. Ciò in quanto “le procedure informatiche, finanche ove
pervengano al loro maggior grado di precisione[…] non possano mai soppiantare l'attività
cognitiva che solo un'istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di
svolgere”. Inoltre i giudici hanno altresì contestato l'assenza di una motivazione.
Il Consiglio di Stato, pur confermando l'esito del giudizio di primo grado, assunto un
approccio più aperto sull'utilizzo dell' algoritmico. In particolare il Consiglio di Stato ha
sottolineato l'importanza delle potenzialità della cosiddetta rivoluzione digitale. Il virtuosismo
dei dispositivi algoritmici risiederebbe, soprattutto, nella capacità di giungere ad una
determinazione, in sostituzione dell'uomo, attraverso un ragionamento che non può essere
inficiato da condizionamenti esterni. Sotto altro profilo, nella prospettiva seguita dal
Consiglio di Stato, le scelte cui l'algoritmo perverrebbe non sarebbero mai neutre ma i giudizi
sarebbero sempre risultato di precise scelte derivanti da modelli predittivi basati su dati
raccolti, selezionati e sistematizzati.
Alla luce di queste prime indicazioni giurisprudenziali è possibile sottolineare, quale chiave
di lettura, per indagare i profili più controversi del tema, quella della funzionalizzazione dello
strumento tecnologico all'uomo secondo cui la decisione della pubblica amministrazione non
può essere raggiunta solo attraverso il calcolo automatizzato dei dati ma deve essere il frutto
di scelte imputabili alla persona fisica preposta all'adozione del provvedimento finale, di cui è
responsabile. Scelte che riguardano sia la costruzione del meccanismo algoritmico sia la
formulazione di un giudizio fondato sull'esito della valutazione informatizzata.

2.1. Segue. Il contesto normativo


L'intervento giurisprudenziale si colloca, invero, in un quadro normativo molto lacunoso. Ciò
ha spinto la giurisprudenza amministrativa a trarre indicazioni normative dal regolamento
europeo sulla protezione dei dati, il 679/2016.
Quest'ultimo pur se riferito alla materia del trattamento dei dati personali, contiene alcune
disposizioni sull'utilizzo dell'algoritmo nelle valutazioni che riguardano la gestione dei dati,
evidenziando, in particolare, che, nel contesto attuale, non si può prescindere dal loro utilizzo.
Il regolamento europeo all'articolo 22 dispone che “l'interessato ha il diritto di non essere
sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato che produca
effetti giuridici che lo riguardano…”. Ciò ha indotto il Consiglio di Stato a ribadire il
principio in base al quale la procedura informatizzata costituisce un elemento funzionale e
strumentale all'attività insostituibile dell'uomo. Alla luce di tali considerazioni, la
giurisprudenza amministrativa ha individuato, ai fini della legittimità dell'utilizzo degli
strumenti informatici tre principi fondamentali.
Il primo è quello della conoscibilità, secondo cui ogni interessato ha il diritto di conoscere
l’esistenza di processi decisionali automatizzati che lo riguardino. Il principio evocherebbe
l’art.41 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali relativo al “diritto ad una buona
amministrazione” in base al quale le amministrazioni pubbliche nell’adottare una decisione
che possa incidere sulla sfera giuridica di una persona, hanno l’obbligo di sentirle prima di
consentire l’accesso ai loro archivi e di chiarire le ragioni della propria decisione. Il principio
di conoscibilità deve essere correlato al principio della comprensibilità secondo il quale è
consentito all’interessato ricevere “informazioni significative sulla logica utilizzata”.
A questi si aggiunge il principio di non esclusività della decisione algoritmica, e quindi la
imprescindibilità del contributo umano al fine di poter controllare, validare ovvero smentire
la decisione automatica. Infine, altrettanto rilevante è il principio di non discriminazione

2.2. Segue. La proposta di Regolamento europeo per l’Intelligenza artificiale


La proposta di Regolamento per l’intelligenza artificiale (c.d. Artificial Intelligence Act),
presentata nel 2021, cerca di bilanciare una disciplina eccessivamente precauzionale e
limitativa che può ostacolare l’innovazione digitale e una regolazione flessibile che può, al
contrario, compromettere la garanzia dei diritti fondamentali. In questa prospettiva, la
proposta di regolamento si prefigge di seguire un approccio basato sul rischio, individuando
sistemi di IA a rischio basso, alto e inaccettabile, questi ultimi del tutto vietati dal
regolamento alla luce degli eccessivi rischi che potrebbero derivare dal loro uso. Il rischio
derivante da questi sistemi vietati è declinato in termini di manipolazione delle persone,
attraverso tecniche definite “subliminali”, senza che le persone ne siano effettivamente
consapevoli.
Il nucleo centrale del regolamento è relativo ai sistemi di IA ad alto rischio, di cui però il
regolamento non dà una definizione. È comunque apprezzabile la previsione di un
aggiornamento costante di questi sistemi attraverso l’espletamento di prove prima della loro
immissione sul mercato e, successivamente, per verificare che i sistemi siano coerenti con le
finalità per le quali sono stati previsti.
Il regolamento si preoccupa anche di disciplinare il fenomeno della qualità dei dati inseriti nei
sistemi di IA ad alto rischio, nel tentativo di ridurre i rischi di bias (distorsioni) e, quindi, di
errore, discriminazione e pregiudizio. Il regolamento impone che i dati siano testati e validati
in ordine alle finalità che il sistema deve conseguire; tale attività dovrebbe consentire, a chi
ne fa uso, di ricavare informazioni circa l’origine di tali dati, le loro caratteristiche e le
modalità con cui sono stati ottenuti.
Inoltre, il regolamento impone che i sistemi ad alto rischio siano “sufficientemente
trasparenti”, così “da consentire agli utenti di interpretare l’output del sistema e utilizzarlo
adeguatamente”. Ne discende che i sistemi di IA ad alto rischio devono essere accompagnati
da istruzioni per l’uso comprensibili per gli utenti.
A parere di chi scrive un tale grado di trasparenza, così come descritto dal regolamento, non è
realizzabile nella pratica. Difatti, il legislatore non sembra tenere conto degli ostacoli che
vengono a manifestarsi qualora la decisione sia adottata da Machine e Deep Learning. Questi
ultimi, infatti, non sono in grado di garantire la spiegabilità dei loro processi interni e
compromettono e minimizzano l’attività di sorveglianza umana prevista dal regolamento in
quanto il funzionario dovrebbe acquisire per attuarla quelle competenze tecniche di cui solo
un programmatore è investito. Quello che in concreto è auspicabile è lo sviluppo di un senso
critico del funzionario, che non si attenga passivamente alle determinazioni della macchina.
3. La natura giuridica dell’algoritmo e l’astratta compatibilità con i principi
fondamentali del procedimento amministrativo.
Affinché i sistemi informatici possano trovare concreta applicazione all’interno di contesti
giuridici è necessario che la “formula tecnica”, che caratterizza l’algoritmo, sia tradotta in
“regola giuridica”, al duplice fine di accertare la sua conformità ai principi che regolano il
procedimento amministrativo e, inoltre, per consentire la sindacabilità della determinazione
cui è pervenuto.
Per fare ciò è necessario qualificare la natura giuridica dell’algoritmo. Alcuni ritengono che il
software sia uno strumento organizzativo, con valore di atto interno o atto strumentale.
Secondo altri, invece, il software che gestisce l’algoritmo avrebbe natura provvedimentale.
Anche la giurisprudenza ha espresso posizioni diverse; in alcune decisioni l’algoritmo è stato
ascritto nell’ambito dell’atto amministrativo informatico (art22 lett. d, l. n.241/1990) che
concretizza la volontà finale dell’amministrazione. In altre pronunce, invece, l’algoritmo è
stato qualificato come uno strumento procedimentale, come tale assoggettabile alle verifiche
tipiche di ogni procedimento amministrativo. In tal modo, l’algoritmo non avrebbe carattere
definitorio dell’azione amministrativa, ma sarebbe in posizione servente rispetto all’attività
decisoria svolta dal funzionario “umano”.
In una pronuncia più recente, il Consiglio di Stato distingue tra algoritmi comuni, algoritmi
tecnologicamente avanzati e intelligenza artificiale. I primi sono una sequenza di istruzioni,
ben definite e non ambigue, cosi da poter essere eseguite meccanicamente, i secondi si
distinguono dai primi per un maggior grado di automazione. In linea generale tali sistemi
sarebbero “idonei a ridurre l’intervento umano” dal loro processo decisionale. Infine, nei casi
di Intelligenza Artificiale si crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole
software ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri e assume decisioni efficienti
sulla base di tali elaborazioni.
A parere di chi scrive la decisione amministrativa su base algoritmica deve necessariamente
essere imputata alla persona fisica e deve costituire, perciò, un modello compatibile con i
principi tradizionali dell’azione amministrativa quali il buon andamento e l’imparzialità.
L’attività della p.a., svolta con il supporto di un sistema informatico risulta innanzitutto
conforme ai canoni di efficienza e imparzialità considerata la capacità di elaborare un ingente
numero di domande in un ridotto lasso di tempo.
Per quanto riguarda il principio di imparzialità si potrebbe ritenere che l’assenza di
“emotività umana” favorisce una riduzione del margine di errore nella interpretazione della
disposizione normativa o dell’adeguato bilanciamento di interessi coinvolti ma,
contestualmente, aumenterebbe la possibilità di prevenire i comportamenti dolosi del
funzionario, contrastando così così i fenomeni corruttivi.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarita che la garanzia dell’imparzialità può essere
assicurata solo se ricorrono alcune condizioni tra cui quella della piena conoscibilità del
modulo utilizzato e dei criteri applicati.
Tuttavia, non può essere sottaciuto che, in assenza di una disciplina adeguata, la compatibilità
della decisione robotica con le garanzie procedimentali disciplinate dalla l. 241/90 esige da
parte della p.a. specifiche competenze e capacità, per adattare le regole dell’azione
amministrativa allo svolgimento automatizzato.
Ciò è quanto emerge ad esempio con riferimento al principio di trasparenza. In un primo
momento, le pubbliche amministrazioni ritenevano sufficiente rendere conoscibile ai soggetti
interessati la mera descrizione del software. La prevalenza della riservatezza rispetto
all’accessibilità del sistema si fondava sulla qualificazione del software come opera di
ingegno, evocando come limite al diritto d’accesso la tutela della proprietà intellettuale.
Sul punto è intervenuto il TAR Lazio chiarendo che colui che esercita l’accesso
“documentale” non ha interesse ad acquisire la proprietà intellettuale del software ma,
piuttosto, ha interesse a esercitare un diritto di difesa e di controllo nei confronti della p.a. che
ha adottato un provvedimento.
Sulla base di tali argomentazioni, i giudici hanno riconosciuto all’interessato il diritto di
accesso al codice sorgente. Seguendo tale indirizzo, dunque, il ricorso alla decisione
algoritmica è stato ricondotto al paradigma della trasparenza.

4. Spunti problematici e riflessioni aperte


4.1. Algoritmico e attività discrezionale
Permangono, tuttavia, molte incertezze sul ricorso allo strumento algoritmico nell’attività
amministrativa.
La prima riguarda l’ambito di applicazione della decisione algoritimica e in particolare la
possibilità di estenderla anche all’attività discrezionale. Quest’ultima, come è noto, fonda la
sua legittimità sulla ponderazione degli interessi in gioco, secondo il canone della
ragionevolezza e della proporzionalità, oltre che dei principi di imparzialità e buon
andamento.
L convinzione che l’attività valutativa debba scaturire dal lavoro interpretativo del
funzionario ha spinto inizialmente la giurisprudenza ad attestarsi su posizioni restrittive.
Sicché, in un primo momento si è affermata la tesi secondo cui l’atto informatico sarebbe
giuridicamente ammissibile e legittimo solo nell’ambito dell’attività vincolata.
Successivamente, il Consiglio di Stato ha esteso l’applicazione della decisione algoritmica
anche all’attività discrezionale, ritenendo che la regola tecnica che governa ciascun algoritmo
resta costruita dall’uomo e non dalla macchina. Ne discende, perciò, la piena legittimità
dell’utilizzo di algoritmi di apprendimento progressivo (o machine learning), con l’unico
caveat di perfezionarne l’uso.
Sulla base di tali principi si è così affermato che le finalità di pubblico interesse possono
essere perseguite attraverso l’algoritmico anche in relazione all’attività discrezionale. In tal
caso, però, assumono specifico rilievo due aspetti: la piena conoscibilità del meccanismo
attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata e l’imputabilità della decisione
all’organo titolare del potere, che deve poter svolgere la necessaria verifica di logicità e
legittimità della scelta.
Si potrebbe allora, ipotizzare, come suggerisce parte della dottrina, che l’IA operi nella fase
della valutazione dei presupposti attraverso l’elaborazione delle “migliori pregresse prassi di
quell’amministrazione”.
Sì che, una volta definita la migliore soluzione, dovrebbe spettare poi al responsabile del
procedimento attuare tale soluzione adottando il provvedimento.
Tuttavia, non è ancora ben chiaro se le migliori prassi, una volta individuate, vincolino il
funzionario. In linea teorica bisognerebbe ritenere che il funzionario potrebbe discostarsi
dalla soluzione prodotta dal software purché dia adeguatamente conto nella motivazione delle
ragioni. Senonché, nella pratica, sembra difficile immaginare che il funzionario sia
effettivamente in grado di “contestare” il processo algoritmico. Inoltre, il timore di incorrere
nella responsabilità derivante da eventuali danni lo spingerebbe inevitabilmente ad affidarsi
alla decisione “neutrale” determinata dalla macchina.
Sotto altro profilo, la possibilità di applicare il modello dell’analisi predittiva alle valutazioni
discrezionali potrebbe costituire un utile supporto all’amministrazione nella definizione di
quei presupposti normativi non compiutamente definiti dal legislatore. Si pensi, ad esempio,
alle interdittive antimafia. In questi casi, l’analisi delle interpretazioni giurisprudenziali può
generare, attraverso il processo automatizzato, parametri più definiti, riducendo così i
possibili arbìtri che si annidano in una discrezionalità eccessivamente ampia.
4.2.La gestione dei dati personali
L’acquisizione dei cosiddetti Big Data pone per la p.a., come per l’operatore privato, il
problema della gestione, del loro trattamento, della loro conservazione, della tutela in termini
di cyber security.
La relazione che intercorre tra utilizzo dell’algoritmo e tutela dei dati personali è stata
evidenziata anche dalla giurisprudenza amministrativa che ha fatto riferimento alle
indicazioni del Regolamento europeo del 2016. Sulla base di tali considerazioni si potrebbe
ritenere che le garanzie procedimentali di cui alla l. 241/90 si rafforzano sulla base delle
disposizioni nazionali e sovranazionali sul trattamento dei dati personali. Questo potrebbe
significare che, per soddisfare il principio di trasparenza, ad esempio, non sarà più sufficiente
che l’amministrazione renda conoscibile ai soggetti interessati la mera descrizione del
software, ma occorrerà garantire l’accesso al codice sorgente.
Il quadro normativo è ancora molto carente rispetto ala sfida tecnologica e ai rischi che essa
pone. Tra questi, invero, non bisogna trascurare quello dei cd. Baiers, ovvero dei pregiudizi
che possono consolidarsi attraverso il processo automatizzato del software, profilando i dati
sulla base di alcuni elementi identificativi come sesso, razza, religione, ecc.
Si pensi al caso deciso dal Tribunale di Bologna nel 2020, che ha accolto il ricorso presentato
dai sindacati dei lavoratori contro Deliveroo, il cui oggetto di contestazione era l’algoritmo
utilizzato dalla piattaforma per organizzare le prestazioni di lavoro dei propri dipendenti.
L'algoritmo discriminava e penalizzava il lavoratore che rifiutava di svolgere la prestazione in
quanto, non essendo in grado di accertare le motivazioni del rifiuto, finiva per sanzionare
indifferentemente anche comportamenti adottati nell'esercizio dei suoi diritti costituzionali,
quali il diritto di sciopero.
Al riguardo il Regolamento europeo si limitava solo ad affermare la regola della non
esclusività della decisione algoritmica, invitando il Titolare del trattamento dei dati a
utilizzare procedure che scongiurino il rischio che si producano effetti discriminatori.

5. Alcune considerazioni conclusive: la rilevanza dell'intelligenza umana e le


competenze necessarie per una corretta (e legittima) applicazione della decisione
algoritmica nell'attività amministrativa
Le riflessioni sin qui svolte sono paradigmatiche di un processo evolutivo che, pur avendo
assunto il carattere della irreversibilità, si muove in un contesto normativo e amministrativo
che fatica a delinearsi.
Ciò in quanto, la definizione e l'applicazione di regole giuridiche ai modelli decisionali
algoritmici presuppone una matura conoscenza del funzionamento dei sistemi informatici che
allo stato non può dirsi ancora raggiunta in quanto richiede figure professionali che possano
essere in grado di definire le logiche adottate dall'algoritmo punto
Difatti spetta all'amministrazione procedente l'onere di individuare i presupposti su cui
programmare l'algoritmo.
Inoltre, l'apporto umano incide significativamente sulla capacità dell'algoritmo di regolare il
caso concreto, dal momento che l'evoluzione del contesto normativo o della rilevanza degli
interessi coinvolti richiede di adattare nel tempo la regola del giudizio elaborata dal sistema
informatico.
Tutto ciò porta a ritenere che uno dei principali problemi da affrontare, per garantire un uso
legittimo dello strumento algoritmico, è quello di attrezzare la pubblica amministrazione delle
competenze e delle capacità necessarie per sfruttare nuove tecnologie.
Sicché l'effettività dei principi individuati dalla giurisprudenza più recente, quali la
conoscibilità, imputabilità e non discriminazione algoritmica rischia di essere compromessa
dalla mancanza di un contributo umano capace di controllare ovvero smentire la decisione
automatica.
In questa prospettiva, l'assenza di competenze e di conoscenze adeguate rischia di relegare
l'algoritmo ad un utilizzo minimale.

CAPITOLO 8: Il procedimento espropriativo per pubblica utilità: questioni


tradizionali e problemi attuali., di Vinicio Brigante. Riassunto di Vigilia
1. Indici legislativi, cenni storici e disciplina vigente.
L’espropriazione, ossia la privazione del diritto di proprietà, integra le ipotesi nelle quali sia
necessario sottrarre coattivamente, mediante un atto autoritativo, tale diritto reale per ragioni di
interesse generale.
I rapporti tra proprietà privata e il potere pubblico costituiscono il punto di incontro più drammatico
per qualunque ordinamento democratico, soprattutto nei sistemi legislativi, come quello italiano, nei
quali il diritto di proprietà privata è riconosciuto e tutelato espressamente dalla Costituzione. (art 42.2)
L’intera disciplina in tema di espropriazione rappresenta il punto di sintesi tra il soddisfacimento di
interessi pubblici e limitazioni al diritto di proprietà.
L’art 42 Cost., nel disporre la possibilità di espropriare la proprietà privata, prevede una riserva di
legge relativa, in quanto il trasferimento coattivo può essere disposto dalla legge o conferito da un atto
amministrativo.
La disciplina pubblicistica del diritto di proprietà è integrata anche dalla normativa europea, costituita
da due testi distinti:
● Art.1 del primo protocollo addizionale alla Convenzione EDU: “Nessuno può essere privato
della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e
dai principi generali del diritto internazionale.”
● Art.17 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE: abbiamo un’attenzione per le facoltà del
soggetto-proprietario, operando riferimento ai motivi di interesse generale e vincola la
legittimità dell’espropriazione ad una giusta indennità.
La visuale europea del regime pubblicistico del diritto di proprietà si rende necessaria per garantire e
preservare la coesione territoriale e urbanistica a livello europeo e nel conseguente coordinamento tra
Stato e autonomie locali.
La coesione urbanistica rinviene nel momento espropriativo una fase che comporta la sottrazione del
diritto di proprietà, ma si pone quale potenziale fattore di aggregazione e veicola il bene espropriato in
favore dello sviluppo collettivo.
L’espropriazione per pubblica utilità è espressione di un potere di ablazione reale di tipo autoritativo
che deve svolgersi in forma procedimentalizzata.
Tra i provvedimenti a carattere ablatorio reale, l’espropriazione è l’unico ad avere ad oggetto
contestualmente l’estinzione di un diritto in capo al privato e l’acquisizione dello stesso diritto da
parte dell’autorità.
Cenni storici sull’istitituto: L.25 giugno 1865 n 2359 “Sulle espropiazioni per pubblica utilità”
disciplinava i procedimenti ablatori reali unicamente diretti all’esecuzione di opere pubbliche, erano
esclusi i procedimenti che limitavano la proprietà per altre ragioni.
La condizione essenziale era integrata dal carattere di assoluta necessità del sacrificio imposto al
privato, ossia la privazione del diritto, nel senso che l’opera progettata nel pubblico interesse non
poteva essere eseguita senza la cessione forzata di quel determinato fondo.
Questa condizione richiama la cd formula romagnosiana del diritto amministrativo: se per un verso i
diritti dei singoli dovevano indietreggiare dinanzi ai diritti della collettività, per altro verso bisognava
far prevalere l’interesse pubblico con il minor sacrificio possibile dei diritti dei privati.
Tale legge escludeva dall’ambito dell’espropriazione le cose mobili, la cui cessione forzata non
poteva mai considerarsi necessaria.
L’art. 22 inglobava nell’espropriazione non solo i beni indispensabili all’esecuzione dell’opera
pubblica, ma anche quelli attigui in una determinata zona, l’occupazione dei quali
potesse risultare diretta allo scopo principale dell’opera predetta.
L’espropriazione che operava nei confronti di questi beni attigui, doveva però indicare le ragioni che
giustificavano il sacrificio dei suddetti beni.
Il requisito della necessità poteva difettare nelle ipotesi in cui alle esigenze pubbliche poteva
provvedersi con un procedimento che non imponesse la privazione integrale della proprietà privata,
quando l’espropriazione non rispondesse ad un interesse attuale o quando lo stesso non fosse
sufficientemente concreto.
La pubblica utilità dell’opera era dichiarata dall’autorità competente e l’istanza poteva essere
presentata dallo Stato e dagli enti territoriali, sempre nel perseguimento dell’interesse pubblico.
La legge citata prevedeva un’indennità dovuta all’espropriato e prevedeva diverse ipotesi di
occupazione d’urgenza.
L’impianto normativo era interpretato da una parte della dottrina in termini di impostazione
contrattual-privatistica, ciò consentiva di equiparare il modello espropriativo allo schema contrattuale
della compravendita.
Una diversa impostazione riteneva, invece, che nella fattispecie espropriativa fosse carente il requisito
della volontà del privato, che impediva di richiamare lo schema della compravendita.
In merito al tema della gestione amministrativa della pandemia bisogna riportare due sentenze.
Nella prima, il Consiglio di Stato osservava che per motivi di salute pubblica, l’urgenza e la necessità
per l’occupazione temporanea di immobile fosse in re ipsa e per tale ragione non occorreva l’attualità
di una malattia infettiva epidemica, ma era sufficiente il mero pericolo.
Il pericolo concreto di una malattia epidemica consentiva all’amministrazione di derogare al termine
massimo di durata dell’occupazione d’urgenza, in questo caso vi era un ampio margine discrezionale
nella valutazione del parametro dell’urgenza.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione di Roma avevano statuito che l’autorità pubblica potesse
sospendere l’esercizio del diritto di proprietà privata per impedire il diffondersi di malattie contagiose
e la stessa autorità era legittimata ad ordinare lo sgombro o la recinzione di un fondo adiacente ad un
luogo di isolamento per malattie contagiose.
Tali limitazioni temporanee del diritto di proprietà erano imposte per ragioni di pubblico interesse e
non conferivano titolo per risarcimento dei danni contro la pubblica amministrazione, questo perché
non vi era comportamento illecito da parte di quest’ultima.
È stato poi emanato il dpR 8 giugno 2001 n327: t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di espropriazione per pubblica utilità.
I tratti peculiari dell’istituto dell’espropiazione consistono nella sottrazione di un diritto ad un
soggetto (fase privativa) e nel contemporaneo acquisto di esso da parte dell’amministrazione (fase
appropriativa), nella corresponsione di un indennizzo in favore del privato e la costante presenza
dell’interesse pubblico, che deve presiedere l’intero procedimento.
Ai fini del riconoscimento del sussistere del pubblico interesse hanno carattere decisivo solo gli
elementi oggettivi.
Il procedimento si articola in diverse fasi, tra le quali è possibile individuare i quattro momenti
procedimentali fondamentali:
1. Inserimento dell’opera che si intende realizzare all’esito dell’espropriazione nello strumento
urbanistico generale. (cd apposizione del vincolo)
2. Accertamento della pubblica utilità dell’opera.
3. Determinazione dell’indennità.
4. Ablazione vera e propria, attraverso l’emanazione del decreto d’esproprio.
Il t.u., rispetto la legislazione previgente, prevede una prima fase che riguarda una scelta di
programmazione dell’utilizzo del territorio, invertendo le posizioni dello strumento urbanistico e di
quello ablatorio, poiché si passa dalla centralità del momento espropriativo alla priorità logica
giuridica del momento urbanistico- programmatorio.
Inoltre, esso è caratterizzato dal profilo dell’accessorietà e della concentrazione, in virtù dei quali il
soggetto competente alla realizzazione dell’opera dichiarata di pubblica utilità è anche il titolare del
potere di procedere alle espropriazioni necessarie alla sua realizzazione e ne cura lo svolgimento.
Infine, alla giurisprudenza si deve la nozione stessa di espropriazione, che non può essere ristretta al
concetto di trasferimento, né l’obbligo della indennizzabilità può essere ricondotto esclusivamente a
tale concetto, che conferma il diverso istituto dell’espropriazione non traslativa.

2. L’apposizione del vincolo e la ritrovata centralità del momento urbanistico.


La cd. fase di apposizione del vincolo è la fase preliminare del procedimento di espropriazione, ed è
regolata dagli art. 9-11 del t.u.
Sussiste una relazione diretta tra strumento di pianificazione urbanistica e procedimento di
espropriazione, poiché l’opera pubblica, che rende necessario il procedimento, deve essere prevista
nello strumento urbanistico generale o in un atto equivalente ad una sua variante.
Un bene si intende sottoposto a vincolo qualora diventi efficace l’atto di approvazione del piano
urbanistico che contiene la previsione della realizzazione dell’opera.
L’approvazione del piano è espressione di un potere che si concretizza nelle scelte urbanistiche,
idoneo a disporre della proprietà privata, che è opportuno da qualificare.
In tal senso.
Sussiste in capo all’amministrazione un’ampia estensione dei poteri discrezionali, poiché l’autorità
deve bilanciare tutti gli interessi implicati nello svolgimento di una funzione così ampia.
La qualificazione delle scelte urbanistiche in termini di discrezionalità tecnica trova la sua fonte in
una sentenza della Corte Costituzionale, secondo la quale le amministrazioni dovevano operare nel
rispetto di presupposti obiettivi e universalmente validi, idonei a delimitare la libertà di
apprezzamento degli interessi, questi presupposti escludevano la contestuale cura del pubblico
interesse, il cd. momento amministrativo della scelta. L’attività conoscitiva di tipo urbanistico-
espropriativo si palesava come processo di approssimazione della verità storica ma comportava
l’assunzione di una scelta consapevole solo nel caso specifico.
Per altra impostazione, la valenza dello strumento urbanistico avrebbe implicato valutazioni di
indirizzo politico e criteri di opportunità amministrativa.
La terza tesi è incline ad interpretare l’esercizio di questi poteri in termini di discrezionalità mista,
sintesi della contemporanea presenza di valutazioni tecniche e scelte amministrative
volte al perseguimento dell’interesse pubblico mediante una comparazione di diversi interessi
coinvolti.
In ogni caso, traspare un collegamento tra l’urbanistica e l’attività espropriativa, con l’obiettivo di
conferire un assetto più ordinato allo sviluppo comunale.
La normativa che disciplina i vincoli ablatori gravanti sulla proprietà privata si inerisce nel quadro
dell’attività di pianificazione, che determina le diverse destinazioni d’uso del territorio.
La Corte Costituzionale affermava il principio secondo il quale il vincolo dovesse avere una durata
determinata e delineava due tipi di vincoli: i vincoli di inedificabilità assoluta e i vincoli preordinati
all’esproprio, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata.
Si tratta di un rapporto di incompatibilità assoluta, in quanto comportano uno svuotamento decisivo
del diritto di proprietà, hanno durata definita ed entro tale termine può essere emanato il
provvedimento che comporta la dichiarazione di pubblica utilità.
Tale vincolo può essere reiterato, la reiterazione si perfeziona con una variante agli strumenti
urbanistici che impone all’amministrazione di motivare la persistenza delle ragioni di pubblico
interesse, ma non l’impone una motivazione specifica, tale reiterazione deve prevedere espressamente
un indennizzo in favore del privato.
La reiterazione del vincolo urbanistico avrebbe carattere sostanzialmente espropriativo perché
determinerebbe una compressione decisiva del diritto di proprietà.
La Corte stabilisce il principio dell’impossibilità di reiterazione senza previa corresponsione
dell’indennizzo, il quale dovrebbe essere distinto dal successivo indennizzo dovuto al proprietario per
l’espropriazione del bene medesimo.
L’alternatività tra la temporaneità del vincolo e indennizzo del sacrificio imposto al proprietario è
giustificata solo nel periodo di franchigia.
Nell’ipotesi in cui l’amministrazione resti inerte dopo la scadenza del vincolo, si assiste ad una
situazione di vuoto urbanistico e il proprietario del bene può promuovere gli interventi sostitutivi della
regione e può attivare una procedura di messa in mora per far accertare l’illegittimità del silenzio
dell’amministrazione stessa.
Diversamente, i vincoli conformativi, pur consentendo la conservazione della titolarità del bene, sono
destinati ad operare una definitiva incisione sulla facoltà di utilizzabilità sussistenti al momento
dell’imposizione.
La Corte ha affermato che sono estranei alle connesse garanzie costituzionali, in quanto tali interessi
possono essere imposti senza limiti di durata e non implicano la corresponsione di indennizzi.
Tali vincoli sono ricognitivi di valori intrinseci.
L’art. 11 del t.u. assicura la partecipazione degli interessati sin dalla fase preliminare alla posizione
del vincolo, al fine di configurare un giusto procedimento espropriativo.
Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che, al fine di garantire la tutela del
diritto di difesa procedimentale, i destinatari delle decisioni dei pubblici poteri devono essere messi
nelle condizioni di rappresentare tempestivamente le proprie posizioni e quindi palesare il proprio
punto di vista su tutti gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento delle decisioni medesime.
A tal fine, l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento con riferimento alla fase di
apposizione del vincolo è legittimato dalla consapevolezza che il potere ablatorio esercita già con il
vincolo preordinato all’esproprio.
La modalità di comunicazione può essere personale o eseguita mediante pubblico avviso, in ogni caso
deve essere idonea a raggiungere lo scopo dell’effettiva conoscibilità, affinché sia garantita
l’eventuale partecipazione difensiva del proprietario.
Le due modalità di comunicazione, individuale e collettiva, sono in posizione alternativa tra loro, ma
sono equipollenti quanto al contenuto, alla componente quantitativa e qualitativa della comunicazione
stessa.
La comunicazione di avvio deve contenere l’indicazione delle particelle catastali dei beni espropriandi
e i nominativi dei proprietari.
Nelle ipotesi di comunicazione collettiva, l’amministrazione non deve motivare tale scelta di carattere
organizzativo, in quanto si presume l’eccessiva onerosità delle comunicazioni individuali multiple.

3. L’accertamento della pubblica utilità del bene: identità di significato e difformità di


interpretazioni.
La pubblica utilità, ossia il pubblico interesse sotteso al procedimento espropriativo, rappresenta il
presupposto sostanziale del trasferimento coattivo della proprietà privata; si assiste ad una sostanziale
identità di significato tra utilità e interesse che integra un’ipotesi di concetto giuridico indeterminato.
La fase della dichiarazione di pubblica utilità è caratterizzata da due profili:
● L’obbligo in capo al soggetto espropriante di fornire ragioni concrete e fondate relativamente
al rapporto funzionale tra interesse pubblico e bene privato.
● L’obbligo di pubblicità di tale subprocedimento.
La dichiarazione di pubblica utilità può essere disposta con atto implicito o esplicito, entro il termine
di decadenza del vincolo preordinato all’esproprio, la precisazione dei tempi dei procedimenti
espropriativi risponde alla necessità di limitare il potere discrezionale dell’amministrazione e tutelare
il pubblico interesse, affinché l’opera sia eseguita in un arco di tempo congruo.
La dichiarazione di pubblica utilità disposta con un atto implicito corrisponde a quelle ipotesi in cui la
normativa vigente si sostituisce al provvedimento in questione, le ipotesi di dichiarazione di pubblica
utilità ex lege.
La dichiarazione di pubblica utilità per legge elimina il subprocedimento e comporta un’accelerazione
della procedura espropriativa, ma allo stesso tempo un giudizio operato in via generale e aprioristica
comporta un’analisi più generica e meno prossima alle esigenze territoriali.
La distinzione tra le ipotesi di dichiarazione di pubblica utilità implicita ex lege o esplicitata in un
provvedimento amministrativo comporta varie conseguenze, anche di carattere processuale.
Se la dichiarazione di pubblica utilità è implicita nell’approvazione del progetto definitivo, la
successiva fase amministrativa, ossia la progettazione esecutiva diretta l’espropriazione, è accessoria e
irrilevante ai fini della lesività della posizione del privato che è già perfezionata, poiché il decreto di
esproprio può già essere emesso, quindi non si può pretendere un onere di impugnativa anche del
progetto esecutivo.
La dichiarazione di pubblica utilità espressa con atto amministrativo è rappresentativa di un ampio
margine di discrezionalità di natura mista, che si giustifica in ragione della natura del potere
urbanistico e nell’indeterminatezza dell’interesse pubblico.
I provvedimenti urbanistici suscettibili di comportare la dichiarazione di pubblica utilità sono i piani
urbanistici attuativi, ossia piani diretti a dare attuazione alle previsioni dello strumento generale.
I piani urbanistici attuativi d’ufficio possono essere necessari o non necessari.
Tra i primi possiamo inserire i piani per insediamenti produttivi (pip) e i piani per l’edilizia
economica e popolare (peep), questi ultimi sono espressione del rapporto tra espropriazione e
funzione sociale della proprietà, in quanto sono rivolti a soddisfare l’esigenza abitativa delle fasce più
deboli della popolazione.
In tale ambito si rileva l’esistenza di un ampio potere dell’amministrazione, condizionato però da
condizioni fattuali di carattere tecnico; si tratta di un potere diretto a soddisfare esigenze eterogenee
tra loro.
Nell’adozione del peep, l’amministrazione deve soddisfare esigenze di carattere sociale e ambientale e
deve bilanciare aspetti economici senza violare i diritti della persona, con l’obiettivo di garantire
alloggi adeguati e dignitosi.
La nozione di pubblica utilità ha subito una notevole evoluzione, radicata nell’interpretazione in base
alla quale la pubblica utilità poteva essere emessa solo se gli interessi pubblici fossero prevalenti o
equivalenti agli interessi privati.
Si obiettava che mancava la necessaria omogeneità tra i valori da comprare e che l’interesse privato
poteva risultare prevalente rispetto l’interesse pubblico.
Così, l’interesse privato poteva essere valutato in maniera agevole, mentre l’interesse pubblico non
era suscettibile di una qualificazione immediata.
Esempio concreto riferito alla legislazione alberghiera previgente: si ammetteva la possibilità di
perfezionare la dichiarazione di pubblica utilità per le opere necessarie per la costruzione di nuovi
alberghi e l’ampliamento di quelli esistenti nei comuni di particolare interesse turistico.
La giurisprudenza amministrativa favoriva la preminenza dell’interesse privato dell’albergatore, un
interesse immediato, che avrebbe dovuto subire condizionamenti in base alle determinazioni
dell’autorità.
Vi è però una variazione interpretativa da parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato, in quanto
si passa dalla preclusione assoluta e aprioristica della pubblica utilità in determinate ipotesi, alla
necessità che l’autorità espropriante dovesse accertare l’esistenza e il rilievo del pubblico interesse.
Anche il provvedimento che dichiara la pubblica utilità delle opere deve essere preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento, tale provvedimento può essere emanato entro il termine di
decadenza del vincolo preordinato all’esproprio e l’autorità che ha dichiarato la pubblica utilità
dell’opera può disporre la proroga, disciplinata dall’art. 13.5 del t.u, la quale può essere applicata solo
in presenza di ragioni eccezionali.
Qualora la dichiarazione di pubblica utilità abbia ad oggetto un’intera zona e non una singola opera
pubblica, la valutazione della conformità dei lavori eseguiti, al fine stabilito nella dichiarazione, non
deve essere limitata alla corrispondenza delle singole opere ma deve essere effettuata con riguardo
alla finalità complessiva.

4. La determinazione dell’indennità: i risolutivi orientamenti della Corte EDU.


La legittimità del procedimento espropriativo richiede che sia determinata l’indennità provvisoria di
espropriazione, oggetto di dibattiti tra Corte Costituzionale e Corte EDU.
La previsione di una reintegrazione economica ha contribuito a determinare la teoria della
responsabilità della pubblica amministrazione per atti legittimi.
Si è reso così necessario l’obbligo di un riequilibrio patrimoniale.
Si sosteneva che l’esigenza dell’indennizzo non dovesse considerarsi tassativa e assoluta, in quanto il
legislatore avrebbe potuto pervenire al mutamento del regime di appartenenza dei beni, senza la
previsione di indennizzo.
Originariamente, l’indennizzo non corrispondeva all’integrale ristoro economico in base al valore
dell’immobile, ma rappresentava il massimo di contributo di ripartizione che la pubblica
amministrazione potesse garantire all’interesse privato.
Tale orientamento era confermato dalla riflessione in base alla quale l’indennizzo non potesse essere
qualificato alla stregua del prezzo di mercato, in quanto la natura unilaterale e imperativa del
procedimento e la diversità della causa, comportava che l’indennizzo non potesse essere considerato
elemento essenziale di un rapporto sinallagmatico, ma dovesse essere considerato come semplice
condizione di legittimità della procedura.
Il criterio di commisurazione dell’indennizzo e il limite minimo per considerarlo non simbolico erano
affidati a formule generiche.
In seguito, la Corte Costituzionale sosteneva il principio per cui l’indennizzo dovesse essere pari ad
una somma superiore della metà del valore venale del bene.
La giurisprudenza della Consulta sosteneva che l’indennizzo dovesse costituire un serio ristoro,
commisurato al valore venale del bene, e che il ristoro economico doveva sempre tener conto delle
caratteristiche proprie del bene.
La Corte Costituzionale intraprendere un percorso per far conciliare la propria giurisprudenza con le
decisioni della Corte EDU.
La Corte EDU, con una sentenza del 2006, ha affermato il principio secondo il quale debba sussistere
un legame ragionevole dell’indennità di espropriazione con il valore venale del bene, cui deve essere
sommato il risarcimento del danno per l’ipotesi di occupazione usurpative.
Quindi, l’indennizzo deve essere integrale, cioè pari al valore del mercato del bene, inoltre, deve
essere consentito ai legislatori nazionali di introdurre delle deroghe al principio generale in ipotesi di
particolare interesse sociale, nelle quali è ammesso un indennizzo inferiore, purché equo.
Il percorso di convergenza delle due Corti culmina nelle sentenze del 24 ottobre 2007 n348-349.
La Corte Costituzionale, discostandosi dal suo precedente orientamento, ha affermato che l’indennità,
per essere congrua, seria e adeguata, non possa adottare il valore di mercato del bene come punto di
partenza per calcoli successivi, inoltre, si afferma che l’indennizzo non possa corrispondere
pienamente al valore di mercato del bene espropriato.
Il t.u. pone regole generali che presiedono alla quantificazione dell’indennità, disponendo che la stessa
debba essere quantificata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell’emanazione del
decreto di esproprio.
L’indennità deve essere idonea, adeguata e connaturata al bilanciamento tra il sacrificio del privato e
il beneficio della collettività.
La fase di determinazione dell’indennità prevede la partecipazione del privato espropriato.
Ove l’amministrazione lo ritenga opportuno, al proprietario è consentito precisare quale sia il valore
da attribuire all’area, il cui importo finale è stabilito in via autoritativa: determinazione concordata.
Anche dopo l’accettazione da parte del privato, l’amministrazione conserva il potere discrezionale di
procedere o meno all’acquisizione del bene e di porre nel nulla il procedimento e l’accordo
sull’indennità, quindi, l’accettazione del privato non comporta l’esaurimento del potere discrezionale.
L’art. 37 del t.u. prevede un meccanismo di aumento dell’indennità nei confronti
dell’amministrazione per l’ingiustificata attesa imposta al proprietario, per l’ipotesi in cui
l’espropriazione sia finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale.
Qualora, invece, l’amministrazione proceda al perfezionamento del procedimento espropriativo con
un atto autoritativo, senza ricorrere alla cessione volontaria, è obbligata a determinare l’indennità
nella misura offerta e accettata dal privato.

5. Il decreto di esproprio.
Il decreto di esproprio definisce il procedimento, poiché dispone in favore dell’amministrazione il
passaggio del diritto di proprietà del privato, perfeziona, quindi, l’esercizio del potere autoritativo di
tipo ablatorio.
La legittimità di tale provvedimento è subordinata alla perdurante efficacia della dichiarazione di
pubblica utilità e della validità di tutte le fasi subprocedimentali che lo hanno preceduto.
Anche in tale fase è garantita la partecipazione del privato.
Tali adempimenti sono rilevanti in quanto sia la redazione del verbale, sia l’immissione in possesso
non sono surrogabili con prove testimoniali, con conseguente presunzione legale che
l’amministrazione sia effettivamente entrata in possesso del bene.

6. Occupazioni sine titulo: brevi cenni critici.


L’ipotesi di utilizzo di un bene immobile privato da parte dell’amministrazione, per scopi di interesse
generale, in assenza di valido ed efficace procedimento espropriativo, integrano gli istituti delle
occupazioni sine titulo, ovvero l’occupazione acquisitiva e l’occupazione usurpativa.
Nel 1960, la Cassazione elaborava il principio secondo il quale la mancanza della preventiva
dichiarazione di pubblica utilità comportasse il difetto di potere dell’amministrazione nel procedere
all’espropriazione.
Così, l’occupazione o l’espropriazione del bene in assenza di una preventiva esternazione
amministrativa integrava un comportamento illecito.
L’occupazione e l’espropriazione sono rappresentativi di una situazione nella quale il bene immobile
del privato sia oggetto di un procedimento ablatorio illegittimo e in base al quale è stato trasformato
(occupazione usurpativa) o sottratto in presenza di un’attività materiale di occupazione (occupazione
acquisitiva).
L’occupazione acquisitiva si configura qualora la trasformazione irreversibile della proprietà si
perfezioni nelle ipotesi di periodo di occupazione scaduto o di provvedimento assente.
Tale comportamento amministrativo comporta l’estinzione del diritto di proprietà del privato, la
contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà in capo all’amministrazione e l’obbligo di
corrispondere un risarcimento al privato.
Nelle ipotesi in cui la dichiarazione di pubblica utilità manchi, si configura l’occupazione usurpativa,
poiché il comportamento difetta del momento di collegamento fra l’astratta configurazione legislativa
del potere ablatorio e la concreta possibilità del suo nascere.
L’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato non fa venir
meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso,
trattandosi di un mero fatto, inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà.
La Corte EDU, con una sentenza del 2007, ha affermato come non possa rilevare la differenza tra
occupazione appropriativa ed usurpativa, poiché l’illegittimità dell’espropriazione sine titulo, in ogni
caso espone i privati ad un risultato imprevedibile ed arbitrario.
La Corte di Strasburgo ha indicato la necessità che gli Stati evitino occupazioni in assenza di un
procedimento espropriativo perfezionato e la relativa copertura finanziaria, con l’obiettivo di
dissuadere le amministrazione dal porre in essere pratiche non conformi.
Il legislatore italiano, con l’art. 42 bis del t.u., ha introdotto la disciplina dell’”Utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse pubblico.”
Il presupposto operativo della norma è rappresentato dall’utilizzo di un bene immobile per scopi di
interesse pubblico.
Il provvedimento emesso dall’amministrazione, la cd acquisizione sanante, deve recare l’indicazione
delle circostanze che hanno condotto all’indebita utilizzazione dell’area e motivare in riferimento alle
attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione.
L’acquisizione sanante, seppur generi da un comportamento di indebita utilizzazione dell’area da
parte dell’amministrazione, rappresenta espressione di un potere attribuito alla pubblica
amministrazione.
L’art. 42 bis delinea una procedura espropriativa e per tale ragione, l’amministrazione è obbligata
all’adozione di un provvedimento motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di
interesse pubblica che ne giustificano l’emanazione.
La scelta di procedere all’ottenimento dell’immobile tramite l’acquisizione sanante è consentita solo
quando tale opzione risulti l’extrema ratio per il perseguimento di interessi pubblici.
L’acquisizione sanante si rivela essere extrema ratio anche a seguito dell’interpretazione fornita dal
Consiglio di Stato, per il quale l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica sul fondo
illegittimamente occupato non fa venir meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il
bene illegittimamente appreso, trattandosi di un mero fatto, inidoneo a determinare il trasferimento
della proprietà.
In conclusione, il tema dell’espropriazione palesa la necessità che l’amministrazione agisca in
maniera consapevole e che si renda necessario uno sforzo di comprensione dell’intero fenomeno
amministrativo limitativo del diritto di proprietà.

CAPITOLO 9: LE AUTORITA’ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI, di Francesco


Zammartino. Riassunto di Romano

1. Le Autorità amministrative indipendenti: l'inesistenza di un modello generale


Il modello amministrativo fondato sul legame diretto o indiretto dell'amministrazione statale con i
ministri, responsabili di fronte al Parlamento (art. 95 Cost.), ha subito negli ultimi decenni una
profonda trasformazione con l'istituzione delle Autorità amministrative indipendenti:
-sono una serie di organismi istituzionalizzati contraddistinti:
1. Da un grado di indipendenza dal potere politico;
2. dallo svolgimento di funzioni "arbitrali" in diversi settori dell’ordinamento;
2. da un notevole grado di competenze tecniche, per assicurare il rispetto delle regole di concorrenza
e dei diritti di libertà;
- a queste sono state attribuite specifiche funzioni amministrative di particolare complessità, volte a
garantire il funzionamento delle regole del mercato.
- nonostante la continua espansione della categoria, tra queste possono essere comprese: la Banca d'Italia, la
Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), l'Autorità garante della concorrenza e del mercato
(AGCM), il Garante per la radiodiffusione e l'editoria a cui poi è subentrato l'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP), l'Autorità per l'energia elettrica ed il
gas e il sistema idrico (AEEGSI), per il servizio idrico e per i rifiuti il Garante per la protezione dei dati
personali, il Garante per la sorveglianza dei prezzi, l'Autorità di regolazione dei trasporti, l'Agenzia per l'Italia
Digitale, l'Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni(ISVASS), l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici poi
"assorbita" nell'ANAC.
-Dal punto di vista organizzativo, spicca l'eterogeneità della categoria in quanto:
*
sono dotate di responsabilità amministrative molto differenziate,
*e in alcuni casi si presentano come organi monocratici o collegiali, in altri come enti pubblici.
Sono Figure a cui è difficile dare un'unitaria definizione, considerando che all'eccessiva proliferazione
di tali organismi, il legislatore non ha accompagnato una disciplina omogenea, e neanche una
sistematizzazione attraverso una disciplina minima comune sia al livello costituzionale che a livello di
disciplina primaria delle c.d. Authorities=autorità amm. Indipendenti=>ciò ha dato vita ad
organizzazioni diverse le une dalle altre, alcune con poteri di regolazione, altre di mera esecuzioni
di leggi, altre ancora di garanzia o vigilanza, (pur considerando, la presenza di importanti autorità a
competenza "trasversale").
Ciò non significa che si vogliono minimizzare le questioni legate alla distinzione fra autorità di settore e
autorità trasversali che hanno dato luogo nel tempo a dubbi di interferenze e sovrapposizioni. In materia di
pratiche commerciali scorrette, per esempio, il giudice amministrativo si è dovuto confrontare con problemi
legati alla delimitazione di competenza. Si pensi alle modifiche al Codice del consumo ad opera del D. Lgs. n.
146/2007 (di attuazione della Direttiva 2005/29/CE) che hanno individuato l'AGCM quale autorità competente
all'applicazione della nuova disciplina, provocando incertezze nei rapporti fra Codice del Consumo e discipline
del settore. Sul punto si cfr. Consiglio di Stato, sez. 1, 3 dicembre 2008, n. 3999; id, sez. VI, 22 giugno 2011, n.
3763 e Ad. Plen., 11 maggio 2012, n. 14.
Ma il settore nel quale si rilevano i maggiori problemi interpretativi è quello delle comunicazioni elettroniche
ove l'esistenza di una disposizione normativa speciale, qual é il D. Lgs. n. 259/2003, che conferisce all'AGCOM
poteri di natura sanzionatoria, ha suscitato la problematica se siffatte competenze s'impongono su quelle
generali assegnate al Codice del consumo all'AGCM. In un primo momento, il Consiglio di Stato, in Ad. Plen.
dell'11 maggio del 2012, nn. 11,13,15,16, ha attribuito la competenza all'AGCOM a emettere provvedimenti
sanzionatori a tutela dei consumatori danneggiati da pratiche commerciali scorrette. Ma tale orientamento
giurisprudenziale è stato sconfessato dai fatti perché ha provocato un restringimento di tutela degli utenti nel
settore delle comunicazioni elettroniche, atteso che l'AGCOM non è fornita di tutte le competenze e gli
strumenti di cui possiede invece L'AGCM. Ma con l'entrata in vigore del D. Lgs. n. 21/2014, art. 27, comma 1
bis, che assegna all'AGCM la competenza esclusiva in tema di pratiche commerciali scorrette, la diatriba è
tornata nuovamente all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, il quale con le decisioni del 9 febbraio 2016,
nn. 3 e 4, ha modificato parzialmente il precedente orientamento stabilendo che, nell'ipotesi di violazione del
Codice delle comunicazioni elettriche, l'interesse non
va indirizzato sulla specificità della disciplina di settore, bensì sulla circostanza che la violazione degli
obblighi informativi comminati da quest'ultima abbia prodotto nel caso specifico la rappresentazione di una
prassi commerciale scorretta, con questo facendo divenire speciale l'illecito sanzionato dal
Codice del consumo e di conseguenza la competenza dell'AGCM.

Lo stesso aggettivo "indipendente", considerato suscettivo di graduazioni, ha un significato


"stipulativo", in quanto l'indipendenza di alcuni di questi organismi risulta discutibile:
- sia riguardo alla loro composizione (collegiali e monocratiche),
- sia riguardo alle modalità di selezione (nomine parlamentari o governative) che vivono in una
pluralità di soluzioni fissate nell'ordinamento,
- sia riguardo al numero e alla durata del mandato dei componenti (cariche rinnovabili e non),
- sia riguardo ai requisiti soggettivi di professionalità e alle condizioni di incompatibilità con altri
incarichi dai componenti ricoperti.
Secondo B. CARAVITA, tali le Autorità non devono rispondere «a requisiti, caratteristiche, procedure
totalmente omogenee; al di là di alcuni tratti necessariamente comuni, ogni Autorità si raccorda con proprie
caratteristiche ai settori riguardati (proprio quello di una spinta omogeneizzazione e uniformazione è l'errore
di fondo compiuto da quasi tutti i recenti progetti di riforma delle Autorità). Tuttavia, occorre riflettere sul fatto
che autonomia, indipendenza ed equilibrio sono requisiti necessari delle Autorità, come organo collegiale».
A titolo esemplificativo, si pensi che l'Agcom è descritta come autorità amm. indipendente, in quanto
opera con autonomia e indipendenza in ossequio al principio di trasparenza, mentre suscita
perplessità tra i commentatori che la stessa definizione possa attribuirsi all'ANAC in quanto la
nomina dei suoi vertici è di natura governativa ed è difficile che possano effettivamente mantenersi
indipendenti dal potere politico.
Il disorientamento aumenta nel caso della Banca d'Italia. Il Consiglio di Stato nella sent. N.
4521/2005 l’ha definita Autorità amministrativa indipendente in ragione:
-della sua INDIPENDENZA STRUTTURALE=posizione istituzionale sganciata dalla struttura
organizzativa del Governo
-della sua INDIPENDENZA FUNZIONALE= che ha esplicito riconoscimento nei Trattati europei.
Nonostante ciò, nel 2010 l'allora Direttore Generale Fabrizio Saccomanni, durante un'audizione
sulle Autorità amministrative indipendenti, ha precisato che pur svolgendo attività di controllo
analoghe a quelle delle Autorità indipendenti, e avendo caratteristiche che ad esse la accomunano, la
Banca d'Italia se ne differenzia: per la sua più remota origine, per la molteplicità e complessità delle
sue funzioni, per le particolari garanzie che rafforzano la sua indipendenza e per la sua completa
autonomia finanziaria, che le consente di operare senza oneri per il bilancio dello Stato e per i soggetti
vigilati. Si diceva che la Banca d'Italia rappresentasse un unicum rispetto ai tradizionali modelli
di soggetti pubblici.
Per dare una precisa definizione di Autorità indipendente è opportuno servirsi di una sent. del Tar
Campania (Napoli, sez. I, 31 gennaio 2003, n.511) in cui si afferma che le Autorità amministrative
indipendenti sono
«organismi collegiali dotati di specifici apparati organizzatori autonomi posti da leggi speciali di
settore a sovrintendere a ordinamenti settoriali sensibili o di particolare rilievo sociale in funzione di
regolazione e controllo a tutela di interessi costituzionalmente rilevanti».
L'eterogeneità di tali soggetti si rileva anche nell'analisi del loro profilo strutturale, da cui si
desumono 3 tipologie di figure giuridiche:
1° è rappresentata da quegli organismi, come la Banca d'Italia o la Consob, che sono a tutti gli effetti
persone giuridiche, e sono proprio le leggi istitutive a definirle in tal senso.
2° categoria è raffigurata da quelle Autorità che, pur non essendo espressamente attribuite di
personalità giuridica da un'apposita legge, si qualificano implicitamente in tal guisa sulla base di
alcune peculiarità che caratterizzano la struttura organizzativa, come l'autonomia patrimoniale di cui
dispongono. Fanno parte della tipologia di cui sopra l'ANAC o l'Autorità per l'energia elettrica ed il
gas.
3° categoria è composta da quelle Autorità (Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi)
prive di personalità giuridica e che vanno ricondotte nell'ambito dell'organizzazione dello Stato-ente.
2. La natura giuridica delle Autorità amm indipendenti nella logica della separazione fra politica e
amministrazione. L’interesse per il fenomeno delle Autorità amm. indipendenti deriva soprattutto
dalla loro posizione di rottura con il tradizionale sistema istituzionale.
Per G. AMATO, le autorità, più che un istituto, rappresentano un fenomeno giuridico, istituzioni create sulla
spinta di un bisogno di imparzialità.
Tali organismi svolgono funzioni amministrative e normative in ambiti definiti sensibili o di alto
contenuto tecnico per assicurare una massima imparzialità riguardo agli interessi coinvolti (sulla
natura di questi interessi quali interessi pubblici e non interessi diffusi CUNIBERTI, osserva che nel momento
in cui si costituisce un organo pubblico per la tutela di un determinato interesse, questo è assunto come
meritevole di tutela da parte dell'organizzazione pubblica, dissolvendosi nell'interesse "pubblico" da questa
perseguito), pur rimanendo estranei al potere esecutivo.
In taluni ipotesi, ad esse sono attribuite funzioni giustiziali volte a operare un 1° tentativo di
riconciliazione tra le parti, di risoluzione della controversia. Ciò ha suscitato in dottrina numerosi
dibattiti circa la loro legittimazione, poiché, non essendo previsti in Costituzione, è stato ritenuto che
essi rappresenterebbero un’“anomalia" rispetto al modello di pubblica amministrazione delineato dal
nostro ordinamento.
In realtà, l'attribuzione di funzioni normative o di risoluzione di controversie ad organi amministrativi
è un fenomeno già previsto nel nostro sistema! Infatti, pensare di delineare tutta l'amministrazione
correlandola all'art. 95 Cost. nella parte in cui recita che il Presidente del Consiglio dei ministri
«mantiene l'unità dell'indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei
ministri», equivale a ignorare che il termine “amministrazione” oggi apre una prospettiva amplissima
che conduce a una «realtà amministrativa avente una propria forza di autolegittimazione e un proprio
statuto giuridico indipendente», capace di svolgere una funzione (amministrativa) che, se prima era
intesa quale mezzo attraverso cui lo Stato agiva, ora è finalizzata al benessere sociale attraverso
l'erogazione di pubblici servizi.
Seguendo tale impostazione, emergono su un piano costituzionale, più modelli di amministrazione, a cui
non è possibile attribuire una valutazione formale (nel senso di mero apparato servente dell'organo
governo), in quanto alcuni di questi operano valutazioni e scelte in modo discrezionale, sempre nel
rispetto del dettato costituzionale, dal quale si desumono le regole che presiedono all'esercizio del
potere stesso. Ci riferiamo al modello di amministrazione quale struttura a sé, regolata dalla legge
(art. 97 e 98 Cost.) e al modello delineato dall'art. 5 e dall'intero titolo V della Costituzione, in senso
autonomistico. Quindi, nonostante non sia facile la ricerca di un compiuto disegno di organizzazione
dell'amministrazione nella Cost. repubblicana, l'elasticità che connota il sistema amministrativo è
sintomo dell'esistenza di uno spazio costituzionale entro cui la discrezionalità del legislatore può
spingersi alla creazione di modelli organizzativi che godono di una certa indipendenza dall'indirizzo
politico del governo, o quantomeno la loro subordinazione al governo si definisce con contorni più
sfumati. Questo spazio costituzionale si condensa attraverso una lettura «unitaria» (nel senso che
ciascuno di essi presuppone ed implica l'esistenza dell'altro) degli art. 97 e 98, dai quali si evincono i
principi fondamentali dell'amministrazione, l'imparzialità e il buon andamento, nonché una
riserva di legge relativa. Si tratta di principi che pervadono l'intera azione dell'amm. pubblica,
affermano il pluralismo delle funzioni amministrative, per garantire, l'attuazione concreta di nuovi
interessi.
Per imparzialità si intende, grazie al contributo dato dalle giurisprudenze cost. e amm, la soddisfazione
dell'interesse pubblico in maniera corretta e ragionevole, quale vincolo proprio all'attività
amministrativa, e la necessità di far valutare tutti i cittadini sullo stesso piano dinnanzi
all'amministrazione;
Per buon andamento, nella sua declinazione più dinamica è il principio che tende alla effettiva
realizzazione delle esigenze che la collettività esprime;
Infatti, come afferma CERULLI IRELLI «L'azione amministrativa, da qualunque organizzazione di governo o
pubblico potere, sia posta in essere non può esercitarsi in modo arbitrario; è sempre finalizzata al
raggiungimento di determinati scopi secondo un procedimento decisionale ragionevole e trasparente, in misura
più o mano articolata predeterminato dalla normativa».
l'art. 98 Cost, in quanto norma di chiusura, stabilisce che «i pubblici impiegati sono al servizio
esclusivo della nazione», ciò significa che i pubblici impiegati, nell'esercizio delle loro attività,
dovranno curare con diligenza e nel miglior modo l'interesse dell'amministrazione per il
pubblico bene".
Da tali affermazioni si desume che, una volta precisate dal Governo le linee politico-amministrative,
collegate alle direttive di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza,
all'amministrazione spetta il compito della gestione finanziaria, amministrativa e tecnica, e l'adozione
di tutti gli atti che la obbligano verso l'esterno, mediante quella autonomia organizzativa che si
concreta nei poteri di spesa e nella gestione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Ecco che il
problema della separazione dell'amministrazione dall'ingerenza dell'esecutivo -che affonda le proprie
origini già nei primi anni dell'unificazione, quando si ritenne necessaria l'individuazione di rimedi al fine di
scongiurare i pericoli di interferenze della politica nell'amm- si presenta nella sua complessità. Discorso
diverso va fatto per gli ordinamenti in cui vige l'elezione diretta del capo dell'esecutivo (USA). In
effetti, l'investitura dal basso rende il capo dell'esecutivo politicamente responsabile solo nei
confronti dell'elettorato, anche dell'operato di tutto l'apparato amministrativo, e quindi i rischi di
un'influenza della politica governativa sull'amministrazione si azzerano del tutto. Giova ricordare che
soprattutto negli ultimi anni, i rapporti fra politica e amministrazione hanno risentito di un clima
politico non favorevole, dominato dal ruolo ingombrante dei partiti i quali, «appropriandosi» della
funzione legislativa (con il conseguente spostamento del baricentro della funzione legislativa dal
Parlamento al Governo), e di quella amministrativa, hanno rimodellato la stessa forma di governo
parlamentare, imperniata sul binomio Parlamento-Governo. Ne è scaturito un sistema in cui l'intreccio
tra politica e amministrazione ha determinato una crisi dello Stato e della sua legittimità, orientato a
definire i rapporti tra politica e amm. unicamente sotto il «riflettore» dell'art. 95 COST, con l'unico
obiettivo di avere ‘’un'amministrazione dei partiti’’ quando invece il carattere innovativo del
disposto normativo di cui agli art. 97 e 98 rileva la predisposizione di separare l'amministrazione
dalla politica mediante la scelta di attribuire le funzioni di indirizzo e di controllo ai vertici politici di
governo, mentre quelle relative alla gestione ai funzionari amministrativi professionali, nella logica di
una separazione che non investe solo le competenze, ma va ad istituire organizzazioni parallele al
governo, che sono soggette solo alla legge. In questa prospettiva si coglie il significato autentico del
principio di separazione tra politica e amministrazione, quale declinazione dell'imparzialità e del
buon andamento, che è non solo funzionale ma riguarda anche la separazione strutturale (si pensi
alla separazione tra la componente organizzativa che affianca il ministro e l'apparato, cui è attribuito il
compito della gestione amministrativa), nonché la responsabilità, considerando che
l'amministrazione, come struttura separata e autonoma dalla politica, e munita di propri poteri, è
responsabile per la violazione di regole, e per i risultati conseguiti. Tale costruzione teorica induce a
ritenere che il principio di separazione tra politica e amministrazione, in quanto diretta esplicazione
dei principi di imparzialità e buon andamento, assuma valore costituzionale. Se si tirano le fila
dell'analisi compiuta, appare corretto che nel nostro ordinamento, ad una maggiore affermazione a
livello costituzionale del principio di separazione dell'amministrazione dalla politica corrisponda
una maggiore legittimazione delle autorità amministrative indipendenti, in quanto espressione della
necessità di assicurare, in un sistema democratico in cui si avvicendano diversi modelli di
amministrazione della cosa pubblica, un'amministrazione «obiettivizzata». In tale quadro, la
tendenza a separare un potere governativo in senso stretto dalla funzione puramente amministrativa
porta a ritenere che le Autorità in esame siano compatibili con il quadro costituzionale, grazie
anche alle funzioni di garanzia da queste svolte in domaines sensibles, ad alto tasso di tecnicità.
Compatibilità che trova riscontro in numerose disposizioni cost., da cui emergono valori che
promuovano l'istituzione di nuovi centri di regolazione in specifici settori di rilevanza tecnico-
economica. Il combinato disposto di cui agli artt.97 e 98 COST predispone «uno spazio per
amministrazioni in posizione di relativa indipendenza rispetto all'autorità politica, sottratte in
particolare all'indirizzo governativo», assicurando alle Autorità amministrative indipendenti un
regime derogatorio rispetto a quello applicabile alla pubblica amministrazione; inoltre non è uno
sforzo interpretativo notevole cogliere, seppur implicitamente, nella Cost ulteriori istanze portatrici di
valori costituzionali da tutelare, quali libertà, pluralismo, eguaglianza e diritti del cittadino dagli abusi
derivanti sia dal potere esecutivo, sia dal mercato, che confermano l'esigenza di predisporre
nell'ordinamento strutture che si pongono tra politica e amm., tra politica e mercato:
⁃ nell'art. 2 della Cost, quando si assicura al singolo la sua posizione di persona anche nell'ambito
delle formazioni sociali ove svolge la propria attività;
⁃ nel valore costituzionale della partecipazione procedimentale dei privati all'esercizio delle funzioni
amm di cui all'art. 3, comma 2° Cost, in cui si rileva in maniera più netta che la nostra Cost predilige
le organizzazioni intermedie come strumenti che integrano l'attuazione di quei fini statali per
implementare la garanzia delle situazioni soggettive individuali;
⁃ nel processo di decentramento amministrativo di cui all'art. 5 Cost. che, come regola generale, ha
previsto il trasferimento di funzioni dal centro alla periferia, ma, per rendere effettiva l'attuazione dei
valori fondamentali, ha riservato, che certe funzioni strategiche restassero ad organi centrali;
⁃ nell'art. 21 quando si garantisce il pluralismo dei mezzi d'informazione;
⁃ nell'art. 24 ove si afferma un'evoluzione degli interessi da tutelare consequenziale alla complessità
della società tecnologica;
⁃ nell'art. 47 in tema di tutela del risparmio;
⁃ nel pur «tormentato» art. 117, c. 2 e 3, che attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la
tutela della concorrenza.
Dunque, si può trarre il convincimento che il problema della legittimazione delle Autorità
amministrative indipendenti nel sistema istituzionale possa risolversi nella considerazione che esse,
pur svolgendo una funzione di regolazione e di garanzia che è attività di esecuzione delle decisioni
degli organi politicamente rappresentativi e, al contempo, valutazione di garanzia delle posizioni
giuridiche soggettive dei cittadini, restino incardinate nell'organizzazione amministrativa statale come
apparati amministrativi di "nuova genesi", nonostante si distinguano, dal classico modello di esercizio
delle funzioni amministrative, contraddistinto dalla ponderazione imparziale dell'interesse pubblico di
riferimento.

3. Il potere normativo delle Autorità indipendenti quale espressione del sistema pluralistico
dell'ordinamento
L'inquadramento delle Autorità amministrative indipendenti nel quadro istituzionale ha contribuito a
inserire il ruolo delle stesse nell'ambito dell'organizzazione pubblica, ispirata al pluralismo
istituzionale del nostro ordinamento. Tale ruolo si concreta attraverso una funzione regolatoria,
connotata da peculiari caratteri atipici, complessa ed eterogenea, in quanto sia giurisprudenza
amministrativa che legislatore hanno mostrato una tendenza a riconoscere alle Autorità
amministrative un ampio potere normativo.
Il «punto di non ritorno» si ebbe quando il Supremo Giudice degli interessi, in una ormai nota sentenza del
2002, dichiarò che le Autorità amministrative indipendenti risultavano titolari di poteri normativi, anche
indipendentemente da una espressa disposizione legislativa. In particolare, il Consiglio di Stato, con la sentenza
n. 2987, sancì la legittimità della direttiva data dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas in riferimento al
vincolo per le società distributrici di mettere fine alle fuoriuscite di gas avvertite su impianti a valle del punto di
consegna. Nonostante tale vincolo non avesse nessun fondamento legislativo, il Supremo Giudice non ritenne
questo un deficit sul piano del rispetto assoluto del principio di legalità e, salvaguardando il principio di
efficienza, motivò la sua scelta con la necessità di salvare la vita delle persone minacciate dalle dispersioni di
gas.
Il potere normativo si concreta attraverso atti normativi tra loro diversi per denominazione, varietà
di forma e contenuti, anche se poi essi hanno in comune:
-sia la fonte= che ha origine nel principio costituzionale che delinea la separazione fra politica e amm,
-sia la fase della formazione del procedimento dell'atto nella disposizione di legge istitutiva
dell'Amministrazione indipendente, che prevede gli aspetti procedimentali e regola il settore
attribuitole.
I poteri, il cui esercizio sfocia nell'adozione di tali atti, si fondano sull'ampia discrezionalità che la
legge conferisce alle Autorità indipendenti di scegliere lo strumento formale mediante cui arrivare
all’emanazione dell'atto normativo. Ma l'esistenza di plurime ed eterogenee tipologie di poteri ha
comportato:
-da un lato, attività regolative i cui atti sono formalmente espressione di diritto obiettivo, e della cui
efficacia costitutiva nell'ordinamento giuridico complessivamente inteso non sembrano suscitare
dubbi (in questo caso si è dinnanzi a veri e propri regolamenti che soddisfano i requisiti classici del
tipo), -dall'altro, poteri che si esplicano mediante una serie di
atti riconducibili alla categoria di atti amministrativi fonte del diritto obiettivo, per effetto
dell’utilizzazione di criteri sostanziali.
A tal proposito, vanno considerati gli atti di regolazione connessi con atti negoziali di natura
privatistica, autorizzazioni, segnalazioni, atti di indirizzo, a cui si aggiunge l'implicazione di una
sequenza di attività non decisionali che rilevano per la specificazione del contributo degli organismi
in esame alla formazione della disciplina normativa di un settore di competenza. Rientrano nel loro
potere normativo: -atti che regolano attività
di comunicazione e di proposta agli indirizzi del Governo e del Parlamento, - atti
che si innestano in procedimenti volti a produrre diritto oggettivo non riconducibile direttamente alle
Autorità in esame che hanno partecipato al relativo procedimento,
-quei provvedimenti emanati precedentemente al verificarsi di un fatto o di una serie di
comportamenti, imponendo regole la cui violazione comporta, talvolta, l'irrogazione di sanzioni.
Questi atti, che non assumono la veste tipica del regolamento, ma quella provvedimentale, sono a
contenuto generale ed esercitano funzioni diverse, anche di natura decisoria, producendo diritto
oggettivo anche in chiave di funzione interpretativa del disposto legislativo. Altra espressione del
potere normativo delle Autorità in esame è riscontrabile in quegli atti che le Autorità emettono sulla
scorta della loro moral suasion= complesso di attività (di persuasione morale) che portano alla
produzione di atti espressione di poteri para normativi o collaborativi. Tali atti (risoluzioni, istruzioni
ecc...), pur formalmente sforniti di forza coercitiva, perverrebbero al dispiegamento di effetti
consustanziali a quelli cogenti, contribuendo a garantire l'applicazione omogenea delle regole, ovvero
il principio di trasparenza nel settore di riferimento.
Alla luce di queste considerazioni, l'aver presentato il potere regolatorio delle autorità amm.
indipendenti in termini cosi ampi, porta a ritenere che la legge non ricopra più il ruolo di fonte
«suprema», venendosi a porre nell'ambito di un modello eterogeneo e variegato non assimilabile ad un
principio di unità gerarchicamente ordinato, ma piuttosto che riordinandola secondo una logica di tipo
pluralistico, ove rilievo va assegnato al principio di competenza come criterio che regola i rapporti tra
le fonti nell'ordinamento.
La soluzione indicata porta rilevanti implicazioni in quanto, se è lecito dubitare della considerazione
che il valore della posizione istituzionale di un organo possa costituire effettivamente il fondamento
del relativo potere normativo (regolamentare o di normazione secondaria in generale), maggiori
certezze affiorano quando si attribuisce al suo «peso istituzionale» la capacità di ingenerare tra la
legge e il potere regolamentare un diverso rapporto. Ciò vale soprattutto per le Autorità indipendenti
per le quali l'intervento legislativo, pur sempre necessario, assume un diverso contenuto in quanto non
si prospetta quale regolatore delle differenti materie, «dovendo essa lasciare al potere regolamentare
dell'organo in questione lo spazio costituzionale spettante e conseguenzialmente il rapporto legge -
regolamento viene ad atteggiarsi in maniera differente proprio in ragione del rapporto intercorrente fra
Parlamento e soggetto dotato di potestà regolamentare».
=>La legge per far spazio alla produzione della fonte secondaria, anziché disciplinare
dettagliatamente la materia, valorizza il ruolo istituzionale dell'Autorità, proponendosi come
legge di principio.
=>Ne consegue che, quello che potrebbe, a prima vista, essere delineato quale un «naturale» rapporto
tra due tipi di fonti di grado diverso, le cui 2 rispettive funzioni normative (l'una che fissa i principi
generali della materia, l'altra che ne attua i dettagli) sono da ricondursi nel perimetro del principio
costi. di ripartizione delle competenze normative, ad un'analisi più attenta tale rapporto suscita
perplessità, atteso che la disinvolta «indeterminatezza» che connota le leggi istitutive produce, in capo
alle Autorità indipendenti, l'attribuzione di un «generico» potere normativo, il cui esercizio non è
sottoposto a limiti previsti ed entro principi e criteri predeterminati, ma alla conformità di fini
generalissimi indicati dalla legge.
E’ opportuno evidenziare che dinnanzi ad un dettato legislativo che non determina nei dettagli il relativo
contenuto, né tantomeno fissa le condizioni e i limiti di esercizio della relativa attività, il più delle volte il
giudice ha dedotto il fondamento del potere normativo dell'autorità in una lettura sistematica delle varie
normative del settore.
È il caso dell'Agem che, servendosi di un'ampia discrezionalità, adotta decisioni dirette ad essere
vincolanti nei riguardi del soggetto interessato. Trattasi di atti atipici, poiché non prefissati dalla
legge, ma riposti alla libera valutazione dell'Autorità, che ricadono soprattutto sulla libertà di
iniziativa economica privata.
Dal rapporto delineato si ingenera un fenomeno quale il carattere di atipicità degli atti emanati che
hanno reso più complessa la sistemazione degli stessi nel sistema delle fonti normative
dell'ordinamento, e rappresenta anche l'eventualità che alle Autorità vengano conferiti ulteriori ed
impliciti poteri, la cui portata normativa è, tuttora, di difficile interpretazione.
Ciò ha indotto parte della dottrina ad avvertire del rischio che siffatte leggi istitutive costituirebbero
una sorta di vere e proprie deleghe in bianco, essendo prive di specifici contenuti capaci di vincolare
le scelte che le Autorità indipendenti possono poi effettuare.
È stato sostenuto che tali deleghe in bianco, oltre a causare una deviazione rispetto al tradizionale modello delle
fonti, attribuiscono al libero convincimento di tali soggetti ogni tipo di decisione inerente agli ambiti di loro
competenza, in evidente deroga al principio di separazione dei poteri.
La questione rileva innanzitutto per gli atti regolativi «funzionali», con cui le Autorità amm.
indipendenti disciplinano autonomamente e preventivamente l'esercizio delle funzioni amministrative
conferite loro dalla legge. Tali atti producono norme a carattere generale disciplinanti i problemi di
settore ed incidenti nella normativa del c.c. e di leggi speciali privatistiche, disciplinando direttamente
posizioni giuridiche soggettive e rapporti giuridici di soggetti terzi.
L'esempio non può che ricadere, dati i suoi rilevanti poteri di regolazione (nonché di controllo,
sanzionatori e para-giurisdizionali) su alcuni atti regolativi dell'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni (Agcom) che svolge un'intensa attività normativa - principalmente in forza della
legge istitutiva n. 249 del 1997, che prevede una serie di regole flessibili - incidente sui diritti
costituzionalmente tutelati. Attività normativa che ha assunto definitivo slancio con la legge del 28
febbraio del 2000, n. 28, che ha attribuito all'Agcom (e alla Commissione parlamentare) delicati
compiti di vigilanza sui servizi televisivi. Nell'esercizio di tale potere normativo si segnalano
provvedimenti e delibere che, per il solo fatto di incidere nelle situazioni giuridiche di terzi, sollevano
questioni problematiche. Infatti Recenti delibere e disposizioni come:
*nn. 403/18/CONS, Avvio del procedimento per l'adozione di un regolamento in materia di rispetto della
dignità umana e del principio di non discriminazione e di contrasto all'hate speech e all'istigazione all'odio;
*490/18/CONS, Disposizioni per la tutela del diritto d'autore sulle reti di comunicazione elettronica per
contrastare le violazioni più gravi attraverso appositi poteri cautelari e misure contro la reiterazione delle
violazioni;
*403/18/CONS Disposizioni di attuazione della disciplina in materia di comunicazione politica e di parità di
accesso ai mezzi di informazione relative alle campagne per le lezioni del Presidente della Giunta regionale e
del Consiglio regionale delle regioni Abruzzo e Sardegna,
*94/19/CONS, Disposizioni di regolazione della disciplina in materia di comunicazione politica e di parità di
accesso ai mezzi di informazione relative alla campagna per l'elezione dei membri del Parlamento Europeo
spettanti all'Italia
- palesano come l'autonomia decisionale dei soggetti in esame sia sempre più svincolata dai
criteri orientativi fissati dalla legge.
Che il rapporto tra le leggi istitutive e i regolamenti delle Autorità indipendenti non si profili secondo
i classici canoni del criterio gerarchico è fatto comune ai molti orientamenti dottrinali. In questo
contesto, è stato sottolineato che la correlazione che lega la legge e l'atto normativo delle Autorità
dovrebbe intendersi quale rapporto di «complementarietà che ha sulla volontà del legislatore di
assegnare alla autorità amministrativa una sfera di competenza esclusiva nella tutela di determinati
interessi».
Tale ordine di idee, mostra un modello in cui le leggi istitutive operano per mero rinvio, nonostante
indichino indirizzi di massima circa le finalità da raggiungere al potere regolamentare.
Ne discende che gli atti normativi adottati dalla autorità sarebbero da ricondurre alla tipologia dei
regolamenti indipendenti o, con definizione più appropriata, ad un potere normativo «principale»,
capace di disciplinare i comportamenti degli operatori del settore di riferimento e di portare a termine
il procedimento normativo originato dalla legge con la formulazione della regola finale che regola il
caso concreto.
Recentemente a tali conclusioni sembra essere pervenuto il TAR Lazio nella decisione del 22 marzo 2018, sez.
III, n. 3259, che in riferimento all'attività regolatoria dei soggetti in argomento, ha ribadito che la legge non
definisce in via dettagliata il contenuto degli atti prodotti dalla relativa attività, poiché gli ambiti in cui operano
tali Autorità sono caratterizzati da una progressiva evoluzione tecnologica capace di generare una rapida
inattuabilità delle regole.
Il quadro delineato potrebbe essere sospettato di forzare il sistema costituzionale che prevede un
sistema chiuso di fonti a livello primario, nonché l'assenza di una riserva di amministrazione e/o di
regolamento, confermata, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che ha chiarito in più
occasioni come la Cost. non positivizzi alcuna riserva di amministrazione, precisando che «nessuna
disposizione costituzionale comporta una riserva agli organi amministrativi o esecutivi degli atti a
contenuto particolare e concreto».
Ma, il problema rimane. Le leggi istitutive contengono enunciazioni che presentano margini di
elasticità, lasciando spazio a valutazioni discrezionali, spesso a rilevanza tecnica, nel quale il
rischio che le Autorità eccedano dalle potestà loro conferite è serio, soprattutto quando
intervengono sui diritti fondamentali, per i quali la presenza di riserve di legge escludono
l'intervento di regolamenti se non di tipo esecutivo-integrativo. In questa tipologia di atti
normativi non facilmente inquadrabili in modelli tradizionali sembrano collocarsi quelle delibere della
Consob adottate prima ai sensi dell'art.24 del Regolamento di organizzazione e funzionamento
approvato con dpcm 8 ottobre del 1986 aventi ad oggetto «l'interpretazione che la Commissione
stessa ritiene di assumere nell'applicazione delle norme di legge o di norme regolamentari», e poi ai
sensi dell'art. 7 del nuovo Regolamento, adottato con dpcm del 25 novembre del 1994. La natura
ampliativa di dette delibere, che non si limita ad interpretare ed integrare le norme legislative, sembra
aver assunto un compito più delicato che è quello di ricostruire il quadro normativo di riferimento, in
forza di un minor grado di determinatezza della disposizione di legge. Se questi sono i parametri entro
i cui ragionare, allora è prioritario determinare il rapporto tra norma legislativa e normazione delle
Autorità che è punto di partenza per individuare il criterio risolutore di eventuali antinomie che
potrebbero insorgere tra le 2 fonti.

4. La legge statale quale fonte sulla produzione dell'attività normativa delle Autorità indipendenti
Per capire meglio l’impatto e la pervasività nell'ambito del modello delle fonti oggettive della
normazione delle Autorità indipendenti è necessario intendere se l'interpositio legislatoris:
-debba porsi a fondamento della potestà normativa delle Autorità,
-o se debba indicare i principi e i criteri direttivi cui quest'ultima dovrà ispirarsi.
Perché, nonostante gli sforzi della dottrina di determinare precisamente la natura degli atti normativi
secondari delle Autorità, restano ancora su posizioni contrapposte:
1. coloro che includono tali fonti normative tra i regolamenti «quasi indipendenti».
Questa 1° ricostruzione concentra l'attenzione sulle lacune legislative presenti nelle leggi istitutive, da
cui scaturirebbero ambiti di autonomia normativa a vantaggio delle Amm indipendenti che
dispiegherebbero una normazione capace di derogare a disposizioni legislative.
2. coloro che sottolineano la necessità di inquadrarle tra i regolamenti di delegificazione. Questa 2°
ricostruzione parte dal presupposto che la legge istitutiva è la fonte di delegazione del potere
normativo secondario, da cui discenderebbero una serie di regolamenti di diversa natura e forza
innovativa a seconda dell'ambito di discrezionalità più o meno ampio attribuito alla fonte secondaria.
Si andrebbe a registrare un potere normativo talvolta di mera esecuzione, talaltra di integrazione volta
a colmare lacune legislative, altre volte atto a produrre veri e propri regolamenti delegificati. =>Tale
tesi è da preferire poiché:
-da una parte ha il merito di mostrarsi espansiva nel rilevare una varietà di tipologia di atti di maggior
o minor grado di creatività che connotano il fenomeno normativo delle Autorità amministrative
indipendenti, -dall'altra, accoglie il principio secondo cui l'esercizio di un potere amministrativo
trova la sua legittimazione attraverso la descrizione del valore precettivo della norma di legge che
indirizza l'attività amm verso il raggiungimento di specifici fini pubblici.
Attraverso quest'ultima teoria è più logico affermare che pur in assenza di un’espressa attribuzione
dell'esercizio del potere normativo secondario delle Autorità da parte della legge, la legittimazione
può discendere anche da un'investitura generica di quest'ultima che si limita a valorizzare gli interessi
pubblici del settore alla cui cura e regolazione i medesimi organismi sono investiti.
A titolo esemplificativo può essere preso in considerazione l'art. 1, c. 1, della legge 31 luglio 1997 n.
249*, istitutivo dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), che le attribuisce un
settore di competenza generico, dichiarando che gli ambiti affidati alla sua regolazione sono i sistemi
delle telecomunicazioni e radiotelevisivo=> La legge riserva all’AGCOM un'attribuzione generale da
cui discende un potere normativo secondario, anche in virtù del 5° comma , lett. b) n. 5* che dispone
che l'AGCOM in materia di «pubblicità sotto qualsiasi forma e di televendite, emana i regolamenti attuativi
delle disposizioni di legge e regola l'interazione organizzata tra il fornitore del prodotto o servizio o il gestore
di rete e l'utente, che comporti acquisizione di informazioni dall'utente, nonché l'utilizzazione delle informazioni
relative agli utenti».
=>Se tali considerazioni sono esatte, la possibilità che l'atto normativo secondario si ponga in
posizione integrativa, sostitutiva o derogatoria rispetto alla legge istitutiva, dipende dalla legge
stessa che autorizza la nascita di tali atti. D'altro canto, la circostanza che l'Agcom (tali
considerazioni si ritengano estensibili anche ad altre Autorità) ricorra non di rado a regolamenti
delegati al fine di regolare le materie di propria competenza non trova nessun limite nell'art. 17 della
legge n. 400 del 1988.
Nell'ampio e variegato potere normativo attribuito alle Autorità, si individuano atti normativi
secondari che:
-sostituiscono la precedente normazione in materia=regolamenti sostitutivi,
-chiamati per relationem ad aggiornare ruoli o tabelle attinenti la legge abilitante=regolamenti
modificativi,
-autorizzati a derogare, previe indicazioni precise e delimitate alla previgente disciplina=regolamenti
derogatori.
In riferimento a questi ultimi il legislatore deve attivare un articolato meccanismo, mediante tali
passaggi:
⁃ fissazione delle norme generali regolatrici della materia
⁃ autorizzazione all'esercizio della potestà regolamentare dell'Autorità
⁃ individuazione delle norme di legge da derogare (a patto che tale effetto derogatorio discenda
direttamente dalla legge stessa).
L’alterazione anche di 1 solo di questi passaggi del modello appena indicato, che segue quello
prefigurato dall'art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, può comportare il verificarsi di casi
in cui non sia la legge istitutiva ad aprire uno spazio al regolamento, ma è lo stesso regolamento che,
in base ai suoi contenuti, si apre uno spazio nella legislazione.
Anche in questa circostanza il momento degli effetti della delegificazione (rimesso al regolamento) e
il momento della sussistenza della stessa (che trova fondamento nella legge autorizzativa), rimangono
ancora distinti, di modo che questa si ripropone come la condizione indispensabile per il
dispiegamento degli effetti della norma secondaria. Del resto, l'ammissibilità di ricorrere ad una
normazione secondaria delegata da parte delle Autorità indipendenti trova conferma, nella
giurisprudenza della Corte cost. che ha più volte affermato l'insindacabilità dei profili di
determinatezza della legge di autorizzazione, e soprattutto nella giurisprudenza dello stesso
Consiglio di Stato. Quest'ultimo, inizialmente suggerì alle varie Amministrazioni di “indicare quali
fossero le norme di legge sostituite o abrogate” (indicazione che non sarebbe dovuta risultare molto
difficile per un'amministrazione che aveva inciso nella materia e che la padroneggiava con sicurezza
in tutte le sue implicazioni); successivamente negò la possibilità per le Autorità amm. indipendenti di
emanare regolamenti delegati, poiché riteneva che il legislatore fosse sprovvisto degli strumenti
necessari a sanzionare eventuali eccessi posti in essere dalle Autorità.
Recentemente invece, si è espresso in favore dell'ampiezza delle prerogative normative riguardanti le
Amm. indipendenti. In particolare ha statuito, in riferimento alla potestà normativa riconosciuta
all'Autorità per l'energia e per il Gas, che questa «nell'emanazione delle direttive che rientrano
nella sua potestà regolatrice non dovrebbe limitarsi ad imporre comportamenti già individuati dal
legislatore», premesso che, contrariamente, ciò «finirebbe per rendere evanescente anche quella
finzione di regolazione e di controllo, attribuita ad essa per il settore di competenza, che costituisce
lo scopo primario della sua istituzione».
Più recentemente, il Giudice di Palazzo Spada ha dichiarato che “l'Autorità per l’energia e per il gas
è titolare di poteri di regolazione anche nei settori liberalizzati, affinché siano salvaguardate le
dinamiche concorrenziali, a tutela dell'utenza”. Infatti, la liberalizzazione di un mercato non
comporta automaticamente il passaggio ad una situazione di concorrenza, la cui promozione rientra
tra le competenze dell'Autorità.
I poteri di regolazione per favorire la concorrenza:
-sono stati previsti dalle disposizioni fondamentali della legge n. 481 del 1995;
-consentono all'Autorità di regolare ogni segmento della filiera delle attività dei settori energetici,
-possono essere esercitati indipendentemente dal regime giuridico che caratterizza tali attività e anche
quando esse siano liberalizzate;
-non coincidono con quelli tariffari, poiché comprendono anche il potere di determinare i
comportamenti tali da consentire una effettiva concorrenza (col conseguente contenimento dei prezzi),
a tutela degli utenti e dei consumatori.
Nella fase iniziale di liberalizzazione è del tutto consono al sistema che l'Autorità vigili
sull'andamento del mercato e indichi ex ante quali siano le regole in assenza delle quali possano
verificarsi/aggravarsi effetti distorsivi. In altri termini, la voluntas legis di liberalizzare un settore
implica il potere-dovere dell'Amministrazione indipendente di disporre tutte le misure volte a
favorire l'affermarsi di un mercato caratterizzato da una effettiva concorrenza, anche nell'interesse
dell'utenza, non solo con azioni repressive ex post, ma anche imponendo comportamenti che ex
ante possano rimuovere o prevenire effetti distorsivi.
Da tali pronunce giurisprudenziali si evince il riconoscimento di un sistema di regolazione che si
concreta in varie tipologie di atti normativi secondari, le cui enunciazioni normative configurabili nel
novero dei regolamenti delegati rappresentano l'esempio più illustre, ma anche il principio che
stabilisce che la normazione anticipatamente adottata dall'Autorità potrà acquisire determinati
caratteri di stabilità solo se ad essa fa seguito una disposizione legislativa.

5. La regolazione di soft law: la potestà normativa delle Autorità indipendenti non si esaurisce con
l'analisi delle tipologie di atti indicati. In linea con un’atipicità che caratterizza l'attività normativa di
tali soggetti, si rilevano atti di regolazione che non hanno formalmente una veste regolamentare (o di
un atto tipico di normazione secondaria) e che impropriamente vengono definiti di soft law.
Quest’ultimo trova terreno fertile in sistemi di bottom up= di legittimazione dal basso, consta di
accordi che non comportano obblighi giuridici tra parti stipulanti ma solo impegni di natura politica il
cui rispetto è lasciato alle parti contraenti.
C'è da dire che la produzione di norme di soft law può essere prodotta anche dagli atti normativi tipici, ove si
manifesta la volontà di non vincolare il destinatario di obblighi vincolanti sul piano giuridico (c.d. soft
obligation).
Ma non di rado si presentano con particolarità tipiche della legge in quanto condizionano e limitano la
volontà e la libertà dei destinatari, a tal punto che si è arrivati a definirli, non senza forzatura «fonti
atipiche». Ciò ha suscitato molte critiche in quanto il "diritto morbido" rappresenterebbe una
produzione di norme provenienti da soggetti privi di quella legittimazione politica che connota il
nostro sistema costituzionale. La soft law, nonostante non sia vincolante secondo i criteri tradizionali,
sul piano giuridico produce determinati effetti. Viene alla luce un sistema multiforme, dinamico,
dove all'imposizione si sostituisce la condivisione (si parla di moral suasion). Il fatto che la norma
sia spontaneamente osservata deriva dall’autorevolezza dei soggetti promananti. Il motivo del
ricorso a tali norme va cercato nella volontà di creare una disciplina capace di adeguarsi
maggiormente al costante mutamento di certi campi della vita economica e sociale.
Tale normazione, derivante dal diritto internazionale o sovranazionale, si è diffusa anche negli
ordinamenti nazionali, concorrendo il più delle volte con le tradizionali fonti del diritto interno.
Soprattutto negli ultimi anni la diffusione del fenomeno nel contesto ordinamentale italiano ha
assunto proporzioni significative.
La c.d. soft regulation è comunemente adottata presso le Pubbliche Amministrazioni nazionali,
suscitando molte perplessità tra gli operatori del diritto, soprattutto per la loro difficile collocazione
nell'ambito del sistema delle fonti. A questi tipi di atti, informali e pervasivi, ricorrono le stesse Amm.
indipendenti che, dall'alto delle loro qualifiche tecniche, si fanno portavoce di interventi non del tutto
privi di effetti giuridici: per colmare una lacuna di un precedente atto vincolante, o perché si ricorre a
un atto efficace al fine di non ingessare le regole del mercato di riferimento, o perché alla formazione
di tali atti partecipano gli stessi destinatari dei loro effetti.
Istruzioni, comunicazioni, indirizzi interpretativi, indicazioni, rappresentano solo una parte di quegli
atti appartenenti al vasto armamentario a disposizione delle Autorità che si concreta nell'esercizio di
un efficace potere interpretativo che si svolge in modo destrutturato e, talvolta, non
procedimentalizzato.
In più gli atti sovra indicati non sono sottoposti né alla valutazione degli AIR, né all'obbligo di
determinare preventivamente ai probabili destinatari le finalità e i possibili vantaggi che si intendono
raggiungere, né sono previsti nei loro confronti criteri di valutazione successivi alla decisione.
Tuttavia, l'attività c.d. di moral suasion delle Autorità amministrative indipendenti si caratterizza
per una varietà di atti di impulso, persuasivi e collaborativi, non aventi tutti la medesima forza
cogente nel momento di impattare con i settori regolatori. Può accadere che:
-alcuni di questi atti si limitino solo a mere esortazioni prive di particolare rilevanza,
-altri, nonostante contengano indicazioni informali, diventano veri e propri moniti, volti a
specificare al Parlamento e al Governo alcune «regole di mercato» e evitare che in esso continuino
pratiche scorrette e incongrue.
In mezzo a queste 2 categorie si frappongono una serie di atti che si distinguono tra loro sia dal punto
quantitativo, sia dal punto di vista qualitativo.
1° categoria va individuata nelle COMUNICAZIONI INTERPRETATIVE= atti a contenuto
generale e talvolta astratto mediante cui le Autorità indipendenti, sulla base di quesiti che vengono
posti ad esse, indicano l'interpretazione da dare alla legge regolatrice e l'esatta applicazione della
stessa. Vi fanno parte: -le comunicazioni interpretative
dell'Ivass sui limiti di applicabilità di particolari clausole contrattuali in materia di polizza r.c. auto,
-quelle adottate dalla Consob che indicano i suoi orientamenti ufficiali sulla corretta interpretazione e
applicazione della normativa di settore, o e per rispondere ai singoli quesiti posti dagli operatori del
mercato.
Il fatto che questi atti orientino gli operatori in sede di applicazione concreta di disposizioni
normative dettate dal legislatore fa assumere loro, a tutti gli effetti, una veste normativa.
Le comunicazioni interpretative non vanno confuse con i MERI PROVVEDIMENTI
AMMINISTRATIVI che non hanno alcuna rilevanza normativa, e si limitano ad indicare indirizzi e
chiarimenti operativi, o l'entrata in vigore di norme nazionali o europee (si pensi alle comunicazioni
della Banca d'Italia).
Dubbi sulla qualificazione giuridica si pongono per i c.d. CHIARIMENTI APPLICATIVI che
alcune Autorità forniscono in ordine alla normativa di settore. La disomogeneità di contenuti induce a
considerare che si è dinanzi ad atti a carattere generale, mediante cui si forniscono mere indicazioni
(si pensi ai chiarimenti applicativi dell'Isvap in tema di vendita a distanza, pubblicati il 13 aprile 2010,
per agevolare l'interpretazione delle norme sull'attività di vendita a distanza, di cui al regolamento
Isvap n. 34 del 19 marzo 2010).
Interessanti sono quegli atti di moral suasion dell'Avep che si concretano in DETERMINAZIONI;
questi atti, poiché preceduti da una procedura di consultazione pubblica, sono stati rapportati al
modello statunitense di notice and comment. La consultazione si determina attraverso la
presentazione a monte da parte degli interessati, di memorie, sia orali che scritte, contenenti le risposte
ai quesiti talora problematici posti dall'Autorità. Al fine di rispettare il principio di trasparenza, la
documentazione depositata dagli operatori economici e dalle amministrazioni, partecipanti
all'audizione, è consultabile on line sul sito istituzionale dell'Autorità indipendente. Prima di adottare
l'atto di soft law, l'Autorità dà atto della procedura di consultazione e dell'audizione svolta nelle
premesse dell'atto, anche se poi non è obbligata a motivare il non accoglimento delle memorie
presentate. Ciò comporta l'oggettiva difficoltà di constatare la percentuale di recepimento delle
osservazioni ricevute, e di conoscere il ragionamento che ha ispirato l'Autorità.
Gli ORIENTAMENTI INTERPRETATIVI sono atti di moral suasion che senza dubbio assumono
contenuto normativo. Pur essendo connessi a questioni particolari acquistano con la pubblicazione,
che si effettua in forma autonoma, una capacità persuasiva che produce i propri effetti ben al di là del
caso singolo.
E’ il caso degli orientamenti interpretativi deliberati il 15 luglio del 2008 dal Covip in merito all'art.
14, comma 3 del D. Lgs. n. 352 del 2005 - riscatto della posizione in caso di decesso dell'iscritto -
che hanno assicurato, attraverso un unico documento interpretativo, maggiore uniformità alla
disciplina della concessione delle anticipazioni.
Il peso del potere di moral suasion è più evidente quando è usato su professionisti e operatori del
mercato con prassi atipiche e non istituzionali, che si conformino maggiormente a quei comparti
particolarmente innovativi del mercato. Di recente infatti, l'Agem ha deliberato un comunicato, con
esito positivo, riguardo al c.d. influencer marketing, considerato ultima e nuova forma di potente
pubblicità, che è un'attività promozionale compiuta da importanti persone del mondo on line (c.d.
influencer) capaci di influire sulle tendenze e sui gusti dei loro fans mediante i più usati social media,
sostenendo alcuni marchi, senza però fare pubblicità, in modo palese ai consumatori. L'Agem ha
spedito a 7 influencer e 11 società titolari di brand di grande notorietà lettere in cui li si invitava alla
massima trasparenza e chiarezza qualora questi si facessero promotori di messaggi pubblicitari. Tali
informali comunicazioni hanno avuto come risvolto l'immediata adesione da parte degli influencer e
dei titolari dei marchi coinvolti, anzi quest'ultimi hanno invitato, a loro volta, i loro testimonial per il
futuro ad avvertire con chiarezza i rispettivi followers delle finalità promozionali dei contenuti diffusi
tramite i social. Tale caso dimostra come l'Agem obbliga, in sostanza, una pluralità di soggetti con atti
atipici, poiché atipici e non formalizzati sono, oramai, anche i settori sottoposti a controllo. Alla luce
di tali considerazioni di carattere generale è chiaro che gli atti che discendono dal potere normativo
di moral suasion delle Autorità indipendenti non si limitano ad eseguire il disposto legislativo o
regolamentare, ma talvolta lo integrano e, in talune circostanze, lo ampliano. Questo "anomalo"
potere normativo, capace di orientare le istituzioni, i mercati, i loro operatori e i singoli privati
cittadini, è stato riconosciuto legittimo da certa dottrina che lo ritiene capace «in presenza di
opportune garanzie dal punto di vista procedimentale» di «produrre effetti apprezzabili
nell'ordinamento».

6. Soft law: il caso delle linee guida ANAC non vincolanti


Non sembra esatto valutare la soft law non vincolante solo perché non è una fonte del diritto in senso
formale; essa può produrre vincoli allo stesso modo della hard law, solo in maniera differente, in
quanto rappresenta la regola che si impone per la sua stessa capacità di guidare il comportamento.
In più, può vincolare la condotta e l'azione di colui che la pone senza vincolare l'azione di altri
soggetti che possono invocarla a proprio vantaggio. Non esiste un unico tipo di flessibilità della soft
law e per questo motivo non esiste un'unica categoria. Essa deve essere analizzata nel più ampio
orizzonte del c.d. regulatory process, ossia «della dinamica che abbraccia la produzione del diritto...
la sua attuazione (anche attraverso la regolazione) e applicazione in chiave di effettività
(meccanismi di enforcement)», in sostanza, come strumento di regolazione.
In un tale ragionamento, si inquadrano le "linee guida" che, nonostante siano accostate, soprattutto
dopo l'entrata in vigore del codice degli Appalti, all'ANAC, non sono uno strumento nuovo
nell'ordinamento giuridico interno. Il loro uso è noto da tempo in molti organismi pubblici e nei più
diversificati settori, quali quelli bancari, finanziari e sociali (si pensi alle linee guida in materia
sanitaria, scolastica e, ultimamente, universitaria). A differenza della c.d. concezione classica=
secondo cui le linee guida rappresenterebbero una manifestazione propria del potere di direttiva- come
si evince anche dalla rilevanza del significato del termine utilizzato per il loro nome - esse sono
formulate mediante la tecnica delle «raccomandazioni», «consigli» o delle «esortazioni» più o meno
vincolanti che forniscono criteri o istruzioni operative volte a monitorare nella fase attuativa i precetti
normativi, a coordinare, e promuovere politiche nazionali e locali, a garantire la corretta diffusione di
determinate informazioni pubblicate. Talora esse si caratterizzano per contenuti che, pur molto
variegati, hanno perfino valore imperativo.
Si pensi a quelle linee guida che racchiudono regole tecniche e d'indirizzo per l'adozione del Codice
dell'amministrazione digitale e che il Consiglio di Stato ha valutato quali atti di regolazione di natura
tecnica aventi efficacia vincolante erga omnes. Il fatto che siano continuamente usate da Agenzie
internazionali, Autorità europee, da Ministeri, Regioni ed enti locali, e dalla maggior parte delle
Autorità indipendenti, organismi profondamente diversi tra loro per qualificazione giuridica e
funzioni, ha contribuito a favorire l'inappropriatezza del richiamo al termine, divenuto alquanto
incerto e dal significato molto eterogeneo. Esse non disponendo di un proprio aspetto giuridico, sono
dotate di natura, contenuti ed effetti multiformi, che inducono l'interprete «a rifuggire da ogni
tentativo di generalizzazione e a procedere ai fini del loro inquadramento e della valutazione circa la
compatibilità con i principi che informano il sistema amministrativistico, a una disamina caso per
caso». Tale inappropriatezza si è maggiormente manifestata con le linee guida adottate dall'ANAC,
ove si riscontrano caratteristiche che inducono a ricondurre alla categoria degli atti di soft law in
senso stretto solo quelle particolari species di siffatta regolazione, ponendo problemi interpretativi la
cui risoluzione è affidata al giudizio dell'interprete nelle specifiche fattispecie concrete.
L'Autorità nazionale anticorruzione è nata, come Autorità di regolazione, con il compito di
contrastare il dilagante fenomeno della corruzione nelle amministrazioni pubbliche. Ad essa sono
state attribuite:
- le funzioni della precedente Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle
amministrazioni pubbliche (CIVIT),
-le funzioni che facevano capo alla soppressa Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori
pubblici, di servizi e forniture (AVCT) prevista dal vecchio codice dei Contratti pubblici (D. Lgs. n.
163 del 2006).
La concentrazione di ampi poteri di vigilanza, di ispezione e di sanzione, che in precedenza erano
ripartiti tra le Autorità di cui sopra, ha conferito all'Autorità nazionale anticorruzione un ruolo
centrale nella prevenzione della corruzione, mediante un'azione capace di penetrare in ogni settore
dell'ordinamento e potenzialmente rivolta a tutti i soggetti, pubblici o privati.
Tale concentrazione in ANAC di numerose funzioni è controbilanciata da strumenti di
partecipazione che le garantiscono una "legittimazione dal basso" alternativa a quella espressa dalle
tradizionali formule di "democrazia rappresentativa". Ciò si verifica per quelle funzioni di vigilanza e
sanzionatorie in materia di trasparenza, contratti pubblici e anticorruzione, che sono svolte in ossequio
ai principi della legge sul procedimento amministrativo (legge n. 241 del 1990) e quindi della leale
collaborazione, del contraddittorio e della partecipazione.
Il nuovo Codice dei contratti pubblici (D. Lgs. n. 50 del 2016, modificato dal D. Lgs. correttivo n.
56 del 2017) ha attribuito importanti e delicate funzioni normative e regolatorie. Specificamente,
l'art. 213, comma 1, recita che «La vigilanza e il controllo sui contratti pubblici e l'attività di
regolazione degli stessi (contratti pubblici) sono attribuiti, nei limiti di quanto stabilito dal presente
codice, all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC)…», che li esplica, come afferma il comma 2,
mediante «linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolazione flessibile,
comunque denominati...». Si attribuisce all'ANAC, nonostante i suoi delicati compiti, un'attività di
regolazione che si concreta attraverso atti prevalentemente di natura "flessibile", la cui efficacia risulta
vincolante soprattutto nei riguardi delle condotte degli operatori cui si indirizza. Ma il caso delle linee
guida ANAC e la loro (complessa) qualificazione giuridica suscitano perplessità in quanto, essendo
stata riservata ad esse la disciplina di importanti settori del quadro normativo delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici, pare attribuirsi non solo funzioni integrative del disposto
legislativo, ma anche importanti funzioni indicative per assicurare l'efficienza e la qualità dell'attività
delle stazioni appaltanti. Quindi indagare sulla capacità normativa delle linee guida significa:
-identificare il modello di fonte cui esse devono essere ascritte,
-esaminarne il contenuto, considerando che questo ha ad oggetto materie centrali che in precedenza
erano disciplinate dalla legge o dal regolamento di attuazione.
La questione è molto rilevante in quanto il Codice dei contratti pubblici, pur ispirato dalla necessità
di introdurre formule di attuazione più dinamiche ed informali rispetto a quelle previste per l'adozione
del regolamento governativo, prevede varie tipologie di atti e linee guida che si differenziano
quanto ai contenuti, all'Autorità emanante, e ai criteri formali previsti per la loro attuazione.
Secondo E. D'ALTERIO, “colpiscono la natura vincolante della raccomandazione (non è quasi un ossimoro?)
e la sua somiglianza a un vero e proprio ordine (il che, a sua volta, stride con la logica dell'autotutela).
Peraltro, in caso di inosservanza della raccomandazione, è prevista l'irrogazione di una sanzione pecuniaria
(oltre agli effetti reputazionali). In altri termini, questo potere di impulso dell'ANAC funziona più come un
(ulteriore) "bastone" che come un "pungolo"”
Tale eterogeneità di atti attuativi del Codice dei contratti pubblici è stata parzialmente temperata dal
Supremo Giudice degli interessi (consiglio di stato) che attraverso un’operazione ermeneutica, ha
prefigurato le seguenti categorie:
• gli atti e le linee guide approvate da decreto ministeriale, su proposta dell'ANAC;
• le linee guida adottate dall'ANAC, fornite di carattere vincolante;
=>per queste prime 2 tipologie di atti non si rilevano dubbi interpretativi circa la loro qualificazione
giuridica inquadrabile come atti regolamentari a tutti gli effetti
• le linee guida sempre adottate dall'Autorità nazionale anticorruzione, ma prive di carattere
vincolante.
(tale classificazione non rappresenta la realtà dei fatti atteso che i provvedimenti attuativi del codice (e le
procedure previste per la loro adozione) sono più numerosi, come si desume dal decreto correttivo D. Lgs., 19
aprile 2017, n. 56).
Questa ultima categoria invece pone problemi di ordine ermeneutico. L'art. 213, comma 2, del
Codice dei contratti prevedendo avverso tali linee guida il ricorso innanzi al giudice amministrativo
per lesioni degli interessi dei privati, sembra riconoscere agli atti di talune di esse la facoltà di
produrre effetti giuridici vincolanti, nonostante siano riposti sull'obbligo motivazionale che proviene
dalla speciale Autorità che ha deliberato l'atto. Che da siffatte linee guida non vincolanti sia possibile
rilevare tracce di obblighi giuridici non deve indurre ad ipotizzare per talune di esse un carattere
sostanzialmente normativo; la vincolatività di per sé non è elemento risolutivo ai fini della
collocazione di un atto nella gerarchia delle fonti, ove un atto è qualificato normativo qualora i suoi
effetti creino, modifichino e abroghino regole generali e astratte di uno specifico sistema
ordinamentale. Si è dell'avviso che a ragionare diversamente si provocherebbe una violazione del
principio di legalità in senso sostanziale che nemmeno il potenziamento di procedimenti di
formazione delle linee guide di natura partecipata potrebbe sanare. La regolazione per obiettivi, come
lo stesso Codice dei contratti pubblici fa intendere, non può avere natura regolamentare, e quindi gli
atti da essa prodotti vanno ricondotti nell'alveo degli atti di regolazione. Il Consiglio di Stato ne
afferma la natura di atti amministrativi a contenuto generale, riconducendoli alle circolari (si pensi
alla natura di indirizzo e coordinamento, conclamata dal Codice, come i bandi-tipo, i quali possono
essere derogati previa espressa motivazione), seppur attraverso un percorso ermeneutico non del tutto
lineare, che si è contraddistinto nel pronunciare differenti pareri sul D. Lgs. N 50 del 2016 e sulle
linee guida.
In riferimento alle linee guida non dotate di forza vincolante afferma espressamente poi che deve essere
scongiurato «l'ulteriore e più rilevante rischio, insito nel nuovo strumento, di trascendere rispetto alla funzione
tipica di soft law, attraverso l'irrigidimento delle regole» (punto B. 4.2.). Si cfr. anche Tar Sicilia, Catania, sez.
IV, 20 novembre 2017, n. 2704, che ha assimilato le linee guida n. 6 dell'ANAC (non vincolanti) «ad una (mera)
circolare interpretativa».
Infatti, mentre nel parere n. 855 del 2016, alla luce anche di quanto dispone la legge delega n.11 del
2016 che li riconduce agli "atti di indirizzo" (lett. t) e li qualifica come strumenti di
"regolamentazione flessibile", valuta di dover procedere alla qualificazione normativa di questi atti
almeno «per evitare inutili, anzi onerose e defatiganti incertezze applicative, in assenza di una
definizione della sua disciplina sostanziale e procedimentale» (punto II. g).3.) e ritiene che le linee
guida a carattere "non vincolante" appaiono inquadrabili come meri atti amministrativi (punto II.g.)
5.), nel parere n. 1767 del 2016, relativamente alle linee guida nn. 1, 2 e 3, il Supremo Giudice degli
interessi muta parzialmente orientamento interpretativo statuendo che l'Autorità abbia giustamente
deciso di affidare la disciplina di dettaglio, piuttosto che a regolamenti, ad «atti di regolamentazione
flessibile, anche non dotati di efficacia vincolante», così come si evince dall'art. 213, comma 2, D.
Lgs. n. 50 del 2016.
Nel medesimo solco interpretativo si colloca il successivo parere n. 2284 dello stesso anno nel quale
il Consiglio di Stato, nell'evidenziare la possibilità che le linee guida possano avere natura anche di
soft law, dichiara che anche per quest'ultima categoria è fondamentale che il procedimento di
formazione consti anche dell'AIR e della VIR, «rivelandosi esse indispensabili per il corretto
esercizio della funzione regolatoria anche quando questa si esprima in atti di soft law» (par 5.2)12. In
seguito, nel parere n. 1257 del 29 maggio 2017, pronunciatosi su determinate linee guida recanti
"Aggiornamento delle Linee guida per l'attuazione della normativa in materia di prevenzione della
corruzione e trasparenza da parte delle società e degli enti di diritto privato controllati e partecipati
dalle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici", ha dichiarato che l'amm. può anche
non osservare tali linee guida a patto che si motivino le ragioni. Il Supremo Giudice degli interessi ha
identificato le linee guida in argomento riconducendole alla categoria delle linee guida non vincolanti,
attraverso cui l'Autorità anticorruzione conferisce ai soggetti interessati direttive circa il come
adempiere correttamente agli obblighi previsti dalla normativa. I destinatari
presso ciascuna società o ente privato controllato, partecipato o vigilato da p.a., il responsabile della prevenzione
della corruzione e per la trasparenza, ed i funzionari incaricati dei diversi adempimenti; i funzionari incaricati
del controllo e della vigilanza presso le p.a. di riferimento.
possono divergere dalle linee guida attraverso atti che prevedono una congrua e specifica
motivazione, anche a fini di trasparenza, capace di dar conto delle ragioni della diversa scelta
amministrativa.
Recentemente il Consiglio di Stato, ha affermato che le Stazioni appaltanti possono divergere dalle indicazioni
dell'ANAC, operando scelte diverse da quelle indicate dalle linee guida, a condizione che venga fornita una
puntuale e adeguata motivazione che specifichi le ragioni della diversa scelta amministrativa.

Si sottolinea con coerenza che la forza delle linee guida non vincolanti sia tipica del soft law, capace
di affermarsi solo in senso persuasivo e/o interpretativo, ma flessibile da un punto di vista formale
davanti agli effetti normativi sprigionati dalle fonti positive di hard law, (a differenza di quanto capita
per le linee guida vincolanti, la cui obbligatorietà è stata riconosciuta non solo dalla giurisprudenza
amministrativa).
Al di fuori di questa circostanza sembra che il Supremo Giudice consideri l'inosservanza delle linee
guida non vincolanti in sede giurisdizionale quale “fattore sintomatico dell'eccesso di potere”, sull'
esempio dello svolgimento che si è tenuto in relazione alla violazione delle circolari o direttive
amministrative, in quanto attribuisce a tali atti un valore precettivo (interno) nei riguardi degli uffici
chiamati a renderne attuazione mediante il principio del "comply or explain".
Ciò è stato confermato anche dal TAR in ordine alla delibera di ANAC n. 241 del 8 marzo 2017,
avente ad oggetto "Linee guida recanti indicazioni sull'attuazione” dell'art. 14, del D. Lgs. 33/2013
«Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione
o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali come modificato dall'art. 13 del D. Lgs. 97/2016».
Per l'Autorità in questione «per gli ordini professionali, sia nazionali che territoriali sussiste l'obbligo
di pubblicare i dati di cui all'art.14, relativamente agli incarichi o cariche di amministrazione, di
direzione o di governo comunque denominati». Contro tale atto diversi consigli nazionali hanno
esperito istanza di ricorso per l'annullamento parziale, previa sospensione, del provvedimento.
Con la sent. 1736 del 14 febbraio 2018 il Giudice di prime cure ha sancito l'inammissibilità del
ricorso avverso le linee guida, alla luce proprio del suindicato parere della Commissione speciale n.
1257 del 29 maggio 2017. Questo percorso del Giudice di Palazzo Spada dimostra quanto sia
scivoloso il concetto di regolazione, la cui ampiezza è rappresentata da una molteplicità di atti posti in
essere dalle Autorità indipendenti per i quali, nonostante la dottrina e la giurisprudenza trovino un
nomen iuris, non si riesce a risolvere il dibattuto tema se un certo atto sia atto normativo o atto
amministrativo generale, con tutte le conseguenze giuridiche che tale distinzione comporta, sul piano
dell'impugnabilità, del procedimento di formazione, della collocazione nel sistema delle fonti e sul
piano degli effetti prodotti nei confronti dei 3°.

Si pensi al caso dei comunicati del Presidente dell'ANAC, che nonostante la loro funzione di supporto e di
collaborazione delle Stazioni appaltanti, sembrano non avere alcun fondamento né nelle funzioni di regolazione
flessibile, né in quelle riconosciute all'ANAC dagli artt. 211 e 213 del codice “per quanto a norma dell'art. 213
D. Lgs. n. 50/2016 il novero dei poteri e compiti di vigilanza affidati all'ANAC sia penetrante ed esteso, non può
ammettersi nel vigente quadro costituzionale, in tal settore, un generale vincolante potere interpretativo con
effetto erga omnes affidato ad organo monocratico di Autorità amm. indipendente, i cui comunicati ermeneutici
- per quanto autorevoli - possono essere senz'altro disattesi».

Alla luce di tali considerazioni sembra che tali atti, pur avendo rilevanza giuridica dal punto di vista
sostanziale, sono un complesso di congegni complementari usufruibili per l'interpretazione di altre
disposizioni da impiegare per determinare la regola da applicare al caso concreto e ad essi va attribuita
un'efficacia variabile a seconda della singola fattispecie regolata.
Gli indirizzi e le istruzioni generali inclusi nelle linee guida non vincolanti possono presentare il
contenuto più diverso: fornire, dare un sostegno rispetto all'interpretazione e all'applicazione di una
determinata fonte normativa "tipica" (legislativa o regolamentare), che non possono sostituire o
integrare.

In tal senso, Cons. Stato, sez. VI, 25 marzo 2015, n. 1584, ha affermato, in ordine ai criteri di valutazione delle
riviste scientifiche, che «la soft law può riguardare gli spazi di controllo della regola legale ma non può porsi
in modo esuberante come diretta fonte del diritto».

Tenuto conto di tale analisi, non sembra incongruo affermare che, poiché le linee guida non
vincolanti si limitano alla riproduzione di atti già dotati di una loro propria efficacia normativa,
esse devono essere considerate "fonte regolatrice della fattispecie", esercitando quella efficacia
persuasiva che è tipica dei precedenti.

CAPITOLO 10 “Deficit di rappresentatività delle autorità indipendenti e legalità


procedurale”, di Alfredo Contieri. Riassunto di Rispoli
1. Premessa
La materia delle autorità amministrative indipendenti è stata da sempre accompagnata dal tema del
deficit di rappresentatività o di legalità. In realtà questo argomento presenta differenti profili. Vi è un
primo aspetto che riguarda il mancato o l'attenuato collegamento tra le autorità e il circuito della
rappresentanza politica, definito spesso come deficit di legittimazione democratica. È un carattere che
rientra nell’essenza stessa di queste autorità, esse infatti, per definizione, non sono sottoposte
all'indirizzo politico del Governo, né al suo potere regolamentare, oltre che essere sottratte all'influenza
degli operatori economici, ma, al contempo sono munite di ampi poteri di regolazione, di vigilanza e
controllo, sanzionatori e paragiustiziali. Maggiori problemi si riscontrano proprio in relazione ai poteri
regolatori, poiché tale regolazione costituisce il prodotto di un'attività normativa assunta al di fuori del
normale circuito democratico popolo-governo, tale aspetto riguarda il tipo di fonte, o la stessa natura di
fonti di questi atti. Inoltre, il deficit di legalità viene in rilievo anche sotto il profilo delle leggi attributive
di tali poteri, che non ne predeterminano contenuto, modalità e spesso neanche confini, limitandosi ad
assegnare ad un'autorità il governo di un settore, nella maggior parte dei casi caratterizzato da una forte
incidenza della tecnica e di regole tecniche, che comportano l'esigenza di continuo adeguamento alle
nuove conoscenze derivanti dal progresso scientifico e anche all'evoluzione del mercato di riferimento.
È quindi impossibile per il legislatore prestabilire le misure, gli strumenti e men che mai i contenuti che
l'autorità dovrebbe adottare in sede di regolazione. La legge non può che limitarsi a indicare gli obiettivi:
l'autorità deve presidiare e vigilare un settore assicurandone e perseguendo l'interesse al buon
andamento attraverso l'attività di regolazione. Si è parlato in proposito di caduta della legalità
sostanziale e di affermazione di una legalità per obiettivi, definita anche legalità indirizzo.
2. Il modello delle amministrazioni indipendenti e la sua compatibilità con il tipo di
amministrazione disegnato dalla Costituzione
La nostra Costituzione non prevede un unico modello di amministrazione, infatti:
- Art. 95 Cost.: prevede il cosiddetto modello cavouriano, che vede al vertice
dell’amministrazione il Governo, in un rapporto di integrazione e subordinazione della prima
alla politica;
- Artt. 97-98 Cost.: prevedono un modello imparziale, efficace, efficiente, organizzato secondo
disposizioni di legge e ad esse sottoposto, corpo autonomo al servizio della Nazione,
autolegittimantesi, in rapporto di separazione dalla politica.
Nel tempo questi due modelli si sono succeduti o sono coesistiti a seconda del periodo storico; negli
ultimi 30 anni si è decisamente affermato il secondo tipo di amministrazione, in cui alla politica sono
affidati esclusivamente compiti di programmazione e di indirizzo e non di gestione diretta dell'attività
di amministrazione attiva.
Nel caso delle autorità, appartenenti al secondo modello, si assiste alla dilatazione del requisito della
separazione-autonomia, all'accentuazione del dogma dell'imparzialità, con l'affermarsi dei caratteri
della neutralità e della indipendenza e alla ricorrente previsione di un collegamento con il Parlamento
anziché con il Governo. Peraltro, il ricorso a un'autorità indipendente spesso non è stata una scelta
autonoma del legislatore italiano, ma una decisione imposta dal diritto comunitario, come nel caso della
concorrenza o del mercato azionario, e dall'adesione a convenzioni internazionali, come la convenzione
di Merida in tema di lotta alla corruzione. In questi casi è stata la fonte sovranazionale o internazionale
a imporre ai singoli Stati la costituzione di un'autorità indipendente dal governo, con conseguente
obbligo di adeguamento. Inoltre, da una consistente parte della dottrina, il requisito della legittimazione
democratica derivante dalla sovranità popolare, non è più ritenuto indispensabile, al contrario lo è
assolutamente la presenza della previa determinazione normativa delle attività dell'amministrazione nel
concetto di legalità. Ciò ha portato la dottrina amministrativistica a elaborare una nozione più ampia di
fonte del diritto, andando a modificare la relazione tra potere legislativo ed esecutivo, il primo infatti
ha perso la sua originaria prevalenza, dovendo limitarsi a stabilire regole generali e astratte, consistenti
anche in principi elaborati dalla giurisprudenza, che orientino l’attività delle pubbliche amministrazioni
per garantirne la correttezza, razionalità e imparzialità.
Infine, guardando al rapporto legge-amministrazione, esso è profondamente mutato, a prescindere dalla
presenza delle autorità indipendenti, infatti la prima non riesce più a delineare l’interesse pubblico da
perseguire, che di conseguenza viene costruito dalla seconda durante il procedimento amministrativo,
nell’ambito di una serie di interessi pubblici genericamente indicati dalla legge.
3. La partecipazione al procedimento come legittimazione del potere di regolazione delle
autorità
Nelle autorità amministrative indipendenti non ritroviamo il concetto di legalità sostanziale, la cui
nozione imporrebbe che l'esercizio del potere attribuito all'amministrazione debba essere
predeterminato dalla legge nel contenuto e nelle modalità, non essendo sufficiente che l'unico vincolo
sia la finalizzazione dell'attività alla tutela di un bene o di un valore. Ciò infatti non lo ritroviamo nelle
norme attributive del potere regolatorio, su questo la dottrina è concorde, perciò in relazione ad esse si
parla di legalità-indirizzo.
Di fronte alla cosiddetta caduta della legalità sostanziale, la giurisprudenza e parte della dottrina fanno
ricorso ad una diversa forma di legalità definita procedurale, che si sostanzia tra l’altro nella previsione
di forme più incisive di partecipazione degli interessati nel procedimento regolatorio; è difficile dire se
sia un rimedio o una valida alternativa. Storicamente, la funzione del principio di legalità non è stata
solo quella di contenere e limitare l’esercizio del potere, ma anche quella di legittimarlo. In entrambi i
tipi troviamo le due funzioni, ma espresse con forme diverse; secondo Merusi “quando la
rappresentanza non c’è, il contraddittorio dev’essere completo ed integrale” perché esso giustifica
l’esistenza stessa dell’autorità indipendente. Alla base di tale concezione vi è la considerazione che le
tecniche partecipative dei soggetti interessati dalla regolazione costituiscono uno strumento sostitutivo
della dialettica propria delle strutture rappresentative. Sono state così previste dalle autorità forme di
consultazione, audizioni dei soggetti interessati alla regolazione che in tal modo partecipano al processo
di decision making. Il rapporto così instaurato regolatore-regolato supplisce a quello della
rappresentanza e per certi versi è più diretto di quest'ultimo.
In sede di avvio del procedimento l'autorità predispone un documento di consultazione e lo rende
pubblico; su tale progetto di regolazione si richiedono le osservazioni dei soggetti interessati (procedura
di notice and comment), stabilendo un termine per la presentazione delle osservazioni. È una
partecipazione di natura collaborativa, che ha sia la funzione di arricchire la base istruttoria, sia di
evitare la cosiddetta cattura del regolatore da parte di singole grandi imprese grazie alla partecipazione
di tutti gli interessati.
La differenza con la partecipazione nel tradizionale procedimento amministrativo è che in tal caso la
partecipazione costituisce una delle condizioni di conformità a Costituzione dello stesso modello
regolatorio; pertanto la carenza o l'inefficienza della fase partecipativa rende illegittima l'attività
regolatoria, con la conseguenza che l'apertura di una fase partecipativa è requisito di legittimità
dell'attività regolatoria che si andrà a compiere. Né l'autorità potrebbe invocare l'applicazione dell'art.
21-octies della legge 241/1990, sostenendo che la mancata apertura del procedimento alla
partecipazione dovrebbe considerarsi un vizio formale, poiché il contenuto della regolazione non
sarebbe cambiato e quindi l'atto di regolazione prodotto non sarebbe annullabile. Il caso si è presentato
in giurisprudenza e il Consiglio di Stato ha escluso l'applicabilità del 21-octies in ragione della natura
sostanziale e non formale della partecipazione, a differenza di quanto può accadere nel procedimento
tradizionale.
Anche l'impugnabilità degli atti delle autorità indipendenti costituisce un elemento che rafforza il loro
inserimento nel circuito della legalità, seppure in quella procedurale, costituendo la tutela
giurisdizionale, attraverso il penetrante sindacato del giudice amministrativo, anche nei confronti della
valutazioni tecniche, un significativo elemento che tende a controbilanciare il deficit di legittimazione
democratica della fonte di regolazione.
In conclusione, è opportuno sottolineare che un'altra significativa differenza rispetto alle
amministrazioni tradizionali delle autorità amministrative indipendenti è individuabile nel maggior
rigore che la giurisprudenza impone in ordine alla motivazione, che viene considerata obbligatoria
anche nei confronti degli atti normativi o amministrativi generali, in deroga al secondo comma dell'art.
3 della legge 241. È evidente che, se si vuole rendere effettivo il ruolo della partecipazione, è necessario
imporre all'Autorità un obbligo di presa in considerazione delle osservazioni e il conseguente obbligo
di motivazione in ordine alle ragioni del loro mancato accoglimento, in caso contrario la partecipazione
non avrebbe senso. In proposito va sottolineato che l'obbligo di motivazione degli atti di regolazione
rinvia al diritto dell'Unione Europea, che prescrive appunto la motivazione degli atti aventi funzione
normativa. Anche in quel caso tale misura viene giustificata con l'esigenza di sopperire a un deficit di
legittimazione democratica, alla lontananza tra regolatori e amministrati e a conseguenti maggiori
esigenze di trasparenza.
4. Brevi riflessioni conclusive
Dalla disamina dei temi sinora affrontati emerge con evidenza una inevitabile conclusione: le autorità
amministrative indipendenti sono il punto di confluenza delle fortissime tensioni che attraversano
l'ordinamento, sia sul piano dell'organizzazione dell'amministrazione, sia su quello normativo.
Sotto il primo aspetto viene in rilievo il fenomeno della dequotazione del potere governativo, al quale
si contrappone non solo l'amministrazione delle autonomie (artt. 5 e 118 Cost.), ma amministrazioni
nazionali del tutto avulse dal potere esecutivo e dall'indirizzo politico amministrativo del Governo, che
nella maggior parte dei casi dialogano direttamente con la Commissione europea e con le autorità sorelle
degli altri Stati nazionali, o con le agenzie europee, in un modello di amministrazione a rete ormai
maturo e articolato che si affianca alle amministrazioni nazionali di tipo tradizionale.
Quanto al secondo aspetto, non è questa la sede per approfondire fenomeni altrettanto evidenti, quali la
dequotazione del potere legislativo, il declino della fonte normativa di origine parlamentare, il
proliferare di fonti estranee al circuito della rappresentanza politica, ed in particolare l'avvento del soft
law, ma non può stupire che la risposta con la quale l'ordinamento cerca di fronteggiare questi processi
innovativi si basa su rimedi antichi. Si è fatto ricorso a strumenti tradizionali propri dello stato di diritto,
e dell'affermarsi della legalità sostanziale: il procedimento come luogo di manifestazione degli interessi,
di risoluzione dei conflitti e di adozione delle decisioni, la motivazione come espressione di trasparenza,
razionalità, di conoscibilità e verificabilità del processo di formazione della decisione, e la tutela
giurisdizionale, come ultimo ma decisivo baluardo a tutela della legalità e della giustizia dello stato
democratico; quest’ultima ha visto un enorme rafforzamento proprio a seguito del declino del potere
legislativo ed esecutivo.
CAPITOLO 11 — LA DISCIPLINA DEL SERVIZIO IDRICO INTEGRATO:
QUALCHE CERTEZZA E PERSISTENTI INTERROGATIVI, di Bruno Mercurio.
Riassunto di Russo

1. Premessa. Dalla frammentazione alla gestione unitaria. Il servizio idrico integrato


come modello.
Nel 1994 la legge n. 36, nota come legge Galli, ha istituito il servizio idrico integrato (sii), consistente
nella gestione unitaria dei servizi pubblici locali di captazione, adduzione, distribuzione delle acque a
uso civile e di fognatura e depurazione delle acque reflue, svolte fino a quel momento in modo
frammentario sui territori. Si è trattato di una legge di grande riforma economico-sociale e di
adattamento al diritto europeo, finalizzata alla tutela dell’acqua, attraverso il miglioramento nell’uso e
nella sua gestione, per garantirne una tutela in quanto risorsa naturale limitata e quindi da preservare.
La legge è stata poi recepita dal D.Lgs. n. 152/2006 (Testo unico ambientale o anche codice
dell’ambiente), ed è rimasta sostanzialmente immutata fino ad oggi, salvo alcune modifiche che però
non ne hanno intaccato gli elementi essenziali.
Nonostante la longevità e l’apparente stabilità, sono molte le questioni aperte sul Sii che sono state e
che tutt’oggi sono al centro di un dibattito giuridico, politico e sociale, essendo questo un settore in
cui si intrecciano temi di interesse e impatto sociale molto avvertiti dalla comunità: si pensi per
esempio alla rilevanza della risorsa idrica e alla sostenibilità dei suoi modi di utilizzo e del suo
sfruttamento; all’organizzazione amministrativa dei servizi pubblici locali, rispetto al quale il servizio
idrico è stato oggetto di sperimentazione in ordine sia nella forma che al livello di governo più adatti a
garantirne il buon andamento, in base ai principi ex art. 118 Cost.; infine possiamo pensare anche alle
funzioni di regolazione e vigilanza affidata all’autorità indipendente di regolazione per energia e reti
ambientali (ARERA), la quale sovrintende ad un settore a cui sono sottesi diversi principi
fondamentali di rilievo costituzionale e in cui vivono interessi confliggenti.

2. La natura pubblica del bene oggetto di servizio.


Il SII risulta peculiare perché, oltre ad essere finalizzato a un bisogno della comunità, ha ad oggetto un
bene di pubblica utilità sottoposto al regime del demanio (insieme di tutti i beni inalienabili e
imprescrittibili che appartengono a uno Stato (beni appunto demaniali). Nel caso dei servizi idrici
infatti, nonostante una tendenza alla privatizzazione, la proprietà pubblica non solo non è mai stata
contestata, ma è anzi stata estesa a tutte le infrastrutture. In particolare, nel T.U. n. 1775/1933, all’art.
1, richiama l’art. 822 del c.c, del 1942, in cui, in materia di pubblicità delle acque, si esalta il ruolo
dello Stato che, con legge, può individuare usi di pubblico e generale interesse delle acque. Questa
funzione dirigista dello Stato, mantenuta nel tempo, ha permesso di allargare o restringere le acque
pubbliche per il cui utilizzo potesse essere riconosciuto un pubblico interesse sulla base di svariati
fattori, come per esempio una determinata situazione economica o lo sviluppo tecnologico di un
particolare momento storico. Questo fenomeno è stato definito dalla giurisprudenza come
“formazione progressiva” del demanio idrico. Con il tempo il criterio di individuazione delle acque
destinate a un interesse pubblico si è evoluto sulla base del principio di legalità.
La legge Galli del 1994 mette in evidenza come le risorse idriche abbiano assunto un nuovo profilo di
rilevanza giuridica rispetto al T.U. del 1933: la legislazione, che precedentemente aveva tutelato le
risorse idriche in maniera indiretta, evolve verso invece la necessità di una tutela diretta, qualitativa e
quantitativa dell’acqua, come risorsa naturale limitata da preservare attraverso una gestione volta a
garantirne un uso razionale, quindi dando vita al principio considerato la ratio della legge 36/94, che è
il principio di sviluppo sostenibile nella salvaguardia di un bene considerato esauribile. All’art. 1 della
legge 36 viene dichiarata la natura pubblica delle acque, e vengono individuati, nel criterio della
“solidarietà” e nella salvaguardia delle aspettative dei diritti delle generazioni future, i principi
informatori di governo e di gestione delle risorse idriche i cui sui vengono indirizzati al risparmio e al
rinnovo. Nel codice dell’ambiente (d.lgs. n. 152/2006) all’art.143 viene affermata la natura demaniale,
oltre che dell’acqua, anche di tutte le infrastrutture idriche, come acquedotti e fognature; parliamo
quindi di un demanio funzionale che estende il regime della risorsa anche alle strutture finalizzate al
suo godimento. L’art. 144 amplia il dettato della legge Galli, e dichiara pubbliche tutte le acque
superficiali e sotterranee, stabilendo anche che gli usi diversi da quello umano sono consentiti entro i
limiti nei quali le risorse idriche siano sufficienti a condizione che non ne pregiudichino la qualità. Da
qui la dottrina ha evidenziato che la demanialità delle acque non è solo la sua appartenenza a un
soggetto pubblico, ma anche nella utilizzazione di cui è suscettibile e nel godimento di cui
beneficiano i cittadini. Tutte queste caratteristiche rendono l’acqua come un bene comune.

3. Competenze legislative e attribuzione delle funzioni amministrative, tra dirigismo


centrale e governo locale.
L’affermazione della natura pubblica delle acque aveva lo scopo di affidare alla sfera pubblica le
funzioni legate alla regolazione e all’uso di questa particolare risorsa. La competenza legislativa sul
servizio idrico è statale, considerando la natura del bene e il carattere del servizio stesso, essendo
coinvolte diverse materie elencate all’art. 117.2 Cost. (per es. la tutela della concorrenza, la tutela
dell’ambiente etc). La disciplina principale del servizio idrico è contenuta appunto nel più volte
menzionato codice dell'ambiente (D.lgs. 152/06), il quale a sua volta rinvia alla normativa regionale in
materia di organizzazione del servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica per gli aspetti legati
all’affidamento del servizio. Il codice, nell’ambito della competenza statale esclusiva, ha attribuito
alle regioni il compito di individuare sia gli ambiti territoriali adeguati per l’organizzazione del Sii, sia
la forma giuridica per l’organizzazione dell’ente di governo d’ambito (EGATO). Prima del codice
dell’ambiente, già il D.lgs n. 112/98 aveva attribuito a enti territoriali, regioni ed enti locali le funzioni
amministrative relative al governo del ciclo dell’acqua.
Questo fenomeno di separazione può essere ricondotto alla categoria della “proprietà divisa”
teorizzata da Giannini, e tale separazione è stata avallata dalla Corte Costituzionale in nome del
principio di le4ale collaborazione tra i diversi livelli di governo: è legittimo, secondo la corte, ritenere
che dei diritti il cui esercizio spetterebbe allo Stato siano ridistribuiti tra gli enti territoriali, in modo
che sia possibile bilanciare l’interesse degli Stato e della collettività locale fruitrice di quei beni (sent.
31/2006), anche ai sensi dell’art. 118 Cost. Tale approccio è stato poi confermato dalla riforma del
titolo V, con cui è stato sancito il principio di sussidiarietà verticale, in base al quale le funzioni
amministrative devono essere allocate al livello di governo più vicino al cittadino, a meno che, per
ragioni di differenziazione e adeguatezza, non ci renda opportuno un esercizio di livello superiore.
In base all’art. 142 del codice restano ancora in capo allo Stato competenze che vengono esercitate
attraverso il ministero dell’ambiente, il quale svolge funzioni prettamente conoscitive e di verifica.
Invece, la gran parte delle funzioni di livello centrale, una volta del ministero dell’ambiente, sono
oggi svolte dalla ARERA, l’autorità amministrativa indipendente preposta alla regolazione e alla
vigilanza dei servizi pubblici di rilevanza ambientale, che esercita in modo neutrale i compiti che le
sono stati attribuiti dal d.l. 201/11, convertito poi nella legge 214/201. La legge specifica le funzioni
di vigilanza e regolazione della tariffa, incluse quelle di tipo sanzionatorio: queste funzioni, precisate
dal c.d. Decreto sblocca Italia (d.l n. 133/2014), si riferiscono all’individuazione dei costi di
investimento e di esercizio da riconoscere nella tariffa (c.d. metodo tariffario), o anche
all’approvazione delle specifiche tariffe proposte dagli enti di governo degli ambiti etc. L’autorità
svolge inoltre importanti funzioni relative alla tutela dei diritti degli utenti, come la valutazione di
istante o reclami, o anche il monitoraggio sugli affidamenti e la partecipazione locale degli enti locali
agli enti di governo.
Da ciò deduciamo il carattere dirigista dello Stato in questo settore, esercitato attraverso l’attività
legislativa e attraverso un’autorità indipendente sul piano amministrativo, nonostante i principi
dell’organizzazione punti a favorire l’ambito locale.

4. L’organizzazione per ambiti territoriali ottimali e il contraddittorio allontanamento


del centro decisionale dalle comunità.
L’art. 147 del dlgs. 152/2006 pone i principi dell’organizzazione del Sii, che deve essere attuato per
ambiti territoriali ottimali (ATO), determinati e perimetrati dalle regioni, in modo che siano garantiti
l’unità del bacino idrografico, l’unicità della gestione e il superamento della frammentazione verticale.
Queste prescrizioni assumono il valore di principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 Cost. All’ente di
governo dell’ambito compete la funzione di indirizzo e programmazione attraverso l’adozione di un
piano d’ambito, che è costituito dagli atti previsti dall’art. 149, quali, per esempio, un documento di
ricognizione delle infrastrutture da affidare al servizio, o anche il modello gestionale e organizzativo
che definisce la struttura operativa mediante la quale il gestore assicura il servizio all’utenza e la
realizzazione del programma degli interventi, etc.
Nel 2019 l’ARERA, nell’approvare l’ultimo metodo tariffario, ha introdotto un ulteriore strumento di
programmazione, il piano operativo strategico: in questo documento di previsione, gli EGATO sono
tenuti a evidenziare le criticità riscontrate nell’attuazione dei piani d’ambito e programmare, su base
settennale, la realizzazione di opere considerate strategiche per il raggiungimento dei livelli di servizio
fissati nei piani d’ambito. Questo piano operativo si pone in linea con la disciplina più recente
sull’attività di programmazione delle opere pubbliche, oltre a costituire un parametro per la verifica
della capacità di governo degli enti d’ambito. Spetta a questi la scelta del modello di gestione e lo
svolgimento delle procedure per l’affidamento del servizio nel rispetto delle regole della concorrenza.
Secondo l’art. 151 del codice dell’ambiente, il rapporto tra ente di governo d’ambito e il soggetto
gestore del Sii è regolato da una convenzione predisposta dall’EGATO sulla base di quelle adottate
dall’ARERA, nella quale vengono definiti gli obblighi del gestore in fase di esecuzione del servizio
ad esso affidato.
Va da sé chiarito che il trasferimento dell’esercizio delle funzioni relative al Sii in capo all’ente
d’ambito non ha comportato il trasferimento né la titolarità delle funzioni stesse né del diritto di
proprietà, rimasti quindi in capo ai comuni: la disciplina infatti, costituita dall’art. 143 del codice
dell’ambiente, dispone che la proprietà delle infrastrutture relative al servizio idrico resti in capo ai
comuni, attribuendo all’ente di governo la tutela delle stesse. E, sulla base di quanto disposto, l’art.
153 dello stesso codice prevede che i beni pubblici volti allo svolgimento del servizio idrico siano
affidati in concessione d’uso gratuita per tutta la durata della gestione.
Emerge quindi un rapporto triangolare, che coinvolge i comuni proprietari delle infrastrutture, l’ente
di governo d’ambito titolare della funzione di tutela, e i soggetti gestori a cui detti beni pubblici
vengono trasferiti in concessione d’uso per il periodo in cui svolgono il servizio direttamente dai
proprietari, appunto i comuni. Da qui deriva la necessità della partecipazione dei comuni alle scelte
del servizio, per cui essi sono obbligati ad associarsi in un consorzio, visto come livello di governo
unitario. Tali consorzi sono considerati come enti locali ai sensi dell’art. 2 del T.U degli enti locali,
dlgs 267/2000, solo nel caso in cui, in materia di servizio idrico integrato, si avvalgano di un soggetto
gestore: in base alla disciplina infatti, non sono considerati enti locali i consorzi che svolgano attività
aventi rilevanza economica ed imprenditoriale, ed essendo il Sii un’attività di questo tipo, se questi
consorzi non si avvalessero di gestori ed esercitassero l’attività in proprio non sarebbero considerati
enti locali; ciò è stato ulteriormente confermato dalla Corte Cost. (sent. 226/2012).
Le autorità d’ambito inizialmente previste dal codice dell’ambiente esercitavano le loro competenze
avvalendosi di una struttura tecnico-operativa per l’esecuzione degli indirizzi e la gestione dei rapporti
con il gestore del servizio. La partecipazione dei comuni alle scelte di questi enti veniva garantita
attraverso la presenza di rappresentanti del comune nell’organo di indirizzo politico dell’ATO
(assemblea dei sindaci). Con l’art. 186-bis della l. 191/2009, modificato dall’art. 13.2 della l. 14/2012,
queste autorità sono state abrogate.
Si è avviato in questo modo un percorso progressivo di allontanamento dal centro decisionale. Il
dibattito si è inizialmente concentrato sul trasferimento delle funzioni di governo del servizio idrico,
che erano state svolte dalle soppresse autorità, alle province o alle regioni e, inoltre, la forma e la
natura dell’autorità d’ambito non solo non sarebbe stata consortile, ma avrebbe addirittura coinciso
con quella dell’ente che ne avrebbe assunto le funzioni, venendo di conseguenza a mancare il
collegamento funzionale fra chi avrebbe agito (provincia o regione) e gli effetti titolari delle funzioni
su cui si producono gli effetti delle azioni. Con la legge 164/2014, che ha modificato l’art. 147 del
codice dell’ambiente, si è poi previsto che siano le regioni a individuare l’ente di governo dell’ambito
a cui è stato trasferito l’esercizio delle competenze spettanti ai singoli comuni in materia di risorse
idriche, ma non impone la partecipazione al detto ente di tutti i comuni consorziati, e la maggior parte
delle regioni, nel disciplinare l’ente in questione, fa quindi ricorso all’elezione di rappresentanti.
L’attribuzione delle funzioni sul Sii è stata quindi conferita ad enti di governo in cui non è garantita la
partecipazione dei rappresentanti dei singoli comuni. Questo però pone un problema di bilanciamento
tra il principio di sussidiarietà, ex art. 118 Cost., e il principio autonomistico, ex art. 5 Cost. Questo
principio impone di garantire adeguate sedi di “democrazia locale”, in cui i rappresentanti dei comuni
partecipino direttamente alle decisioni che investono interessi rilevanti nella comunità, come nel caso
del governo dell’acqua, la cui efficienza amministrativa dovrebbe comportare il minor sacrificio di
queste istanze democratiche. Tuttavia, queste istanze appaiono piuttosto limitate, senza che siano state
apportate delle soluzioni alle problematiche relative ai livelli e alle modalità di organizzazione del
servizio. Infatti, la rappresentanza indiretta dei comuni, più che rapportare questi alla forma degli enti
locali non territoriali propria dei consorzi obbligatori a cui dovrebbero essere ricondotti, ma li
riavvicina invece ai c.d enti di diritto pubblico, cioè quegli enti autarchici dotati di una propria
organizzazione funzionale ma legati alle direttive degli enti che li costituiscono.
L’ipotesi di trasferire all’ente di governo la titolarità, oltre che l’esercizio, di queste funzioni, come
era stato ipotizzato per le soppresse autorità d’ambito, non sarebbe applicabile a questi enti idrici.
Nonostante il Consiglio di Stato abbia qualificato l’ente di governo dell’ambito come esponenziale dei
singoli comuni, che hanno trasferito ad esso le proprie competenze e interessi, il difetto democratico
della composizione di questi enti riduce l’effettività di tale previsione, con ricadute in termini di buon
andamento, dimostrandosi inoltre potenzialmente contraria all’art. 5 Cost (principio autonomistico).
Si sarebbe potuto optare per una scelta netta, trasferendo la proprietà delle infrastrutture idriche alle
soppresse autorità d’ambito, che non avrebbero visto un difetto di democraticità in quanto espressione
di un consorzio rappresentativo di tutti i comuni.

5. Il servizio idrico come servizio pubblico locale di rilevanza economica. Il delicato


equilibrio tra gestione imprenditoriale e pubblicità delle acque.
Il servizio idrico ha carattere economico e richiede una gestione in forma imprenditoriale. Con la
legge Giolitti, n. 103/1903, è stato sancito che i servizi pubblici locali di natura economica inerenti
diritti fondamentali della persona e della comunità (come nel caso dell’acqua) fossero attratti nella
sfera pubblica: al mercato sono state sottratte queste particolari attività ed è stata disposta la loro
gestione da parte di enti locali attraverso aziende municipalizzate, sul presupposto che i servizi
pubblici economicamente e socialmente più rilevanti dovessero essere gestiti dalla P.A. e non dai
privati, secondo la teoria del c.d socialismo municipale.
La nozione di servizio pubblico acquisisce carattere giuridico attraverso la nazionalizzazione e la
municipalizzazione di attività che fino a quel momento erano state svolte dai privati in forma di
impresa. In seguito, l’art. 22 della legge n. 142/1990 sull’ordinamento delle autonomie locali, ha
definito i servizi pubblici come strumenti volti a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo
economico e civile delle comunità locali. Questo nuovo assetto discende dalla presa d’atto che in
alcuni casi si rendeva opportuno, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di
altri soggetti pubblici o privati, non riuscendo un solo ente a garantire l’efficienza della prestazione;
ciò è stato recepito integralmente dal dlgs. 276/2000 (TU degli enti locali) il quale, all’art. 113,
definiva servizi pubblici “la produzione di beni ed attività volte a realizzare fini sociali e a
promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”. In seguito, la legge n. 448/2001,
riformulando l’art. 113 del T.U degli enti locali, ha introdotto la distinzione tra servizi di natura
industriale e servizi di natura non industriale, che la successiva legge n. 326/2003 ha sostituito con la
bipartizione tra servizi di rilevanza economica e servizi di rilevanza non economica. In entrambi i casi
questa definizione serviva a individuare quei servizi i quali, per il loro carattere economico, dovessero
essere affidati secondo le regole della concorrenza, e quali invece in via diretta. Si passa così da un
criterio soggettivo (in base ai soggetti erogatori), ad uno oggettivo (in base alla natura del servizio) di
definizione della categoria in questione.
Un ruolo fondamentale lo ha assunto il diritto europeo che, con il trattato di Amsterdam, all’art. 16 ha
disposto l’obbligo per gli Stati membri di finanziare e organizzare i servizi di interesse generale (SIG,
servizi pubblici non economici italiani) e di interesse generale economico (SIEG, servizi pubblici
economici italiani), prevedendo la sottrazione al mercato dei servizi non economici, e ha rimesso agli
stati membri la scelta del modello gestionale per quelli economici, non escludendo per questi la
gestione interamente pubblica. Il legislatore italiano, deciso alla privatizzazione, aveva tuttavia
ristretto la possibilità di gestione diretta dei servizi pubblici di tipo economico, prevedendo all’art. 23-
bis del d.l 112/2008 l’obbligo di affidamento mediante gara di questi servizi, potendosi ricorrere alla
forma in house solo come deroga della disciplina generale e con motivate esigenze. Ma, di fronte alle
reazioni contrarie, la disciplina è stata rivisitata su spinta della Corte Costituzionale: questa infatti, pur
riconoscendo la natura economica del Sii, ha chiarito che tale natura non costituisce un limite assoluto
a forme di gestione interamente pubbliche e alternative al libero mercato, e non esclude neanche il
ricorso a forme di pubblico intervento (es. il finanziamento compensativo). È con la storica sentenza
325/2010 che la Corte ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 23-bis del d.l. 112/2008,
ribadendo che, se non vietato, è possibile adottare una disciplina interna che preveda regole di
concorrenza dall’applicazione più ampia rispetto a quelle del diritto europeo, e che allo stesso tempo i
servizi pubblici locali non perdono la loro rilevanza economica per il solo fatto di non essere parte del
mercato, purché ciò avvenga nel rispetto della tutela della concorrenza, quindi o mediante la gestione
interamente pubblica, nel caso di affidamento diretto, o mediante procedura di evidenza pubblica per
l’individuazione del socio privato nel caso di società mista pubblico-privato. L’art. 23-bis sarà poi
definitivamente abrogato con il referendum del 12-13 giugno 2011, e un tentativo di reinserire
l’esclusività della gestione privata (art. 4 d.l. 138/2011 c.d. Decreto sviluppo) è stato in seguito
dichiarato a sua volta incostituzionale.
In conclusione, la disciplina generale in materia è oggi rappresentata dalla normativa europea sulla
concorrenza e sulle procedure a evidenza pubblica per l’individuazione di soci privati.

6. Forme di gestione del servizio.


Per quanto riguarda la gestione del servizio, è importante sottolineare che la scelta delle modalità di
affidamento è prettamente politica. Le fonti della normativa in questione nel diritto interno è
contenuta nel d.lgs. 175/16 (TU in materia di società a partecipazione pubblica) e nel d.lgs. 50/16
(codice dei contratti pubblici).
La disciplina vigente generale (norme europee sugli affidamenti pubblici) e speciale (art. 149-bis
codice dell’ambiente) attribuisce, nel rispetto del principio dell’unicità di gestione, agli enti di
governo dell’ambito territoriale di competenza la decisione su quale tra le varie forme di gestione
adottare. Le forme ammesse sono varie e comprendono: l’esternalizzazione a privati mediante
procedure di evidenza pubblica, l’affidamento a società miste pubblico-private, purché
l’individuazione del socio privato avvenga attravers bandi di gara, e l’autoproduzione o gestione in
house; in particolare, la società in house non costituisce un ente terzo rispetto ai comuni che l’hanno
costituita, in quanto finalizzata a curare un interesse pubblico ricadente sull’ente locale.
Non costituisce problematica la circostanza che la società sia costituita da più enti: la giurisprudenza
europea ha ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo a una pluralità di soci, purché si
tratti di enti pubblici, e questo è stato condiviso anche dal Consiglio di Stato, e anche nel nostro diritto
interno: l’art. 1.2 lett. d) del d.lgs. 175/2016 definisce “controllo analogo congiunto” proprio la
situazione in cui l’amm. esercita su una società, congiuntamente con altre amm., un controllo analogo
a quello esercitato sui propri servizi. Il d.lgs. 50/2016 prevede la definizione di controllo analogo
congiunto, prevedendo per la sua sussistenza i seguenti requisiti ex art. 5: anzitutto, che gli organi
decisionali della persona giuridica controllata siano composti da rappresentanti di tutte le amm/enti.
aggiudicatori; tali amm/enti sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante
sugli obiettivi e sulle decisioni della persona giuridica controllata; tale persona giuridica non persegue
interessi contrari a quella degli amm/enti. Le modalità di gestione non incidono sulla natura pubblica
dei servizi finalizzati al soddisfacimento dell’interesse pubblico, e quindi sono sotto la responsabilità
della P.A.
In ambito comunitario è stato sottolineato la nozione di SIEG (società di interesse economico
generale) e quella di servizio pubblico locale di rilevanza economica hanno contenuto equivalente,
come riconosciuto dalla Corte Cost. nella sent. 272/2004. Entrambe le definizioni fanno riferimento a
un servizio reso mediante un’attività economica, in forma di impresa pubblica o privata, e che
fornisce prestazioni considerate necessarie, dirette quindi a realizzare anche fini sociali nei confronti
di una indifferenziata generalità di cittadini. In particolare, secondo quanto stabilito dalla Corte Cost,
si deve fare riferimento a una nozione oggettiva di interesse economico e non a un servizio già
esistente sul mercato, perché l’economicità non è valutabile ex post. È il metodo economico, quindi,
ciò che rileva per l’inquadramento di un servizio pubblico di rilevanza economica. Di conseguenza, il
discrimine tra attività economica generale, che permette l’autoproduzione e quindi la forma in house,
e l’attività imprenditoriale della P.A., per cui tale forma non è ammessa, sta nella natura dell’attività
svolta.
In linea con questi principi, il codice dell’ambiente (d.lgs. 152/06) all’art. 149.4 prevede per il
Servizio idrico integrato, nel rispetto dei principi di efficacia, efficienza ed economicità della gestione,
che il piano economico finanziario debba garantire il raggiungimento dell’equilibrio economico,
mentre all’art. 154 prevede che la tariffa deve coprire integralmente i costi di investimento ed
esercizio.
Un problema interpretativo si pone nel caso dell’art. 149-bis il quale, contrariamente al TU delle
società a partecipazione pubblica e al codice dei contratti pubblici, prevede l’affidamento diretto del
Sii solamente a società interamente pubbliche. Il Consiglio di Stato di conseguenza, richiamando la
disciplina europea in materia di affidamento in house, si è pronunciato nel senso che, ove sia
espressamente prescritto, è possibile derogare al criterio della composizione interamente pubblica;
pertanto, secondo il Consiglio, poiché il 149-bis ha posto espressamente il limite alla possibilità di
ricorrere alla società in house come forma di gestione per il Sii, è da escludersi, in questo caso, la
partecipazione dei privati.
7. Natura e determinazione della tariffa: da corrispettivo a parametro di valutazione
della qualità del servizio e del buon governo della risorsa.
L’art. 154.1 del codice dell’ambiente definisce la tariffa come il corrispettivo del Sii e prevede che sia
determinata secondo il principio della copertura integrale dei costi, ex art. 119 dello stesso codice, e
secondo il principio del “chi inquina paga”. L’art. prevede il c.d. principio del full cost recovery, cioè
la tariffa deve coprire tutti i costi necessari alla gestione del Sii. La corte costituzionale inoltre ha
specificato che la tariffa costituisce l’obbligazione a cui è vincolato chi riceve il servizio, e trova la
sua fonte nel rapporto sinallagmatico derivante dal contratto di utenza, e non invece in un atto
autoritativo. Di conseguenza, la natura di prestazione contrattuale della tariffa impedisce che ad essa
si applichi il regime pubblicistico dei tributi.
La tariffa è una prestazione commerciale complessa, dovendo coprire tutti i costi del Sii, pertanto è
unitaria, ma suddivisa in quote, per rispondere all’esigenza di una migliore quantificazione delle voci
che la compongono, riferite alle singole prestazioni che il gestore deve erogare. Nel dettaglio, la
tariffa si compone di: una quota indipendente dai consumi di acqua potabile, una quota variabile
proporzionale al consumo effettivo, una quota per il servizio fognario, e infine di una tariffa per la
depurazione delle acque reflue calcolate in base al consumo di acqua potabile. Determinando in tal
modo la tariffa, il legislatore ha inteso fissare livelli uniformi di tutela dell’ambiente, in base per es.
agli artt. 117.1 lett. m, per la solidarietà nei confronti delle future generazioni a godere di un integro
patrimonio ambientale, o anche 144 (tutela e uso delle risorse idriche), 145 (equilibrio del bilancio
idrico) e 146 (risparmio idrico). Il legislatore infatti, in virtù di questi principi, prevede una misura
incentivante della riduzione del canone nella l. 233/2021 in alcune ipotesi di uso sostenibile della
risorsa, come per esempio il suo riuso.
Un peso crescente nella determinazione della tariffa ha lo scopo di assicurare l’efficienza e
l’affidabilità della gestione per tutelare i consumatori e per incentivare un’efficienza attività
imprenditoriale: a tal scopo infatti il più recente piano tariffario prevede che le tariffe possono restare
invariate rispetto a quelle del ciclo precedente se vengono in evidenza eventi sintomatici di
inefficienza nella gestione.
Secondo quanto disposto dall’art. 10 comma 14 del d.l. 70/2011 (convertito con modifiche nella l.
106/2011), è l’autorità indipendente ARERA a essere predisposta alla funzione di regolazione
tariffaria del Sii e a stabilire i parametri di determinazione delle tariffe, nel rispetto di quanto stabilito
dalla normativa eurounitaria e statale. L’autorità, mediante il meccanismo del notice and comment,
prevede la partecipazione degli interessati qualificati e dei cittadini e così rende disponibile, prima
dell’approvazione, il provvedimento che intende adottare, per raccogliere in questo modo
informazioni utili a migliorarne il contenuto. Sempre all’autorità spetta la revisione periodica dei
parametri di formulazione della tariffa.
Infine, l’art. 56 del codice dell’ambiente prevede che la tariffa sia riscossa dal soggetto che gestisce il
servizio. Le controversie relative ad atti e provvedimenti dell’agenzia sono devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amm., in particolar modo al TAR del Lazio, e tali giudizi seguono il rito
abbreviato, ex art. 119 c.p.a.
In conclusione, al nuovo ente sono comunque riconosciuti poteri più penetranti rispetto al passato,
nella disciplina vi siano criticità non risolte, come per esempio le sovrapposizioni funzionali con i
regolatori locali e l’incertezza sull’oggetto della regolazione tariffaria, nonostante sia plausibile
pensare che nel tempo vi sarà un plausibile allineamento dei modelli tariffari.

8. I rapporti tra i soggetti istituzionali e con il gestore. Dalla buona amministrazione


al buon governo della risorsa.
Abbiamo quindi un complesso intreccio di rapporti tra i soggetti coinvolti nel governo e nella gestione
del servizio tra loro.
Le funzioni di regolazione, anche tariffaria, spetta all’autorità indipendente, mentre quelle di
pianificazione, determinazione della tariffa, affidamento del servizio e controllo della gestione sono in
capo all’ente di governo dell’ambito per conto dei diversi comuni, i quali partecipano al consorzio
obbligatorio, mantenendo la titolarità delle reti e delle infrastrutture.
Secondo l’art. 151 del codice dell’ambiente, il rapporto tra l’ente di governo dell’ambito e il soggetto
gestore è regolato da una convenzione predisposta dal primo sulla base delle convenzioni tipo adottate
dall’ARERA, da cui sono invece esclusi i comuni, che esercitano le loro prerogative attraverso l’ente
d’ambito. La convenzione è alla base dell’ affidamento della gestione del servizio e della
determinazione della tariffa, che si compone in base al programma d’investimento e al piano
economico.

9. Diritti e tutele del cittadino utente. Cenni.


Va infine considerata la posizione del cittadino-utente. A prescindere da chi materialmente eroghi il
servizio, la qualità di questo costituisce una forma di valutazione dell’attività dell’amministrazione.
La l. 286/1999, che disciplina i meccanismi e strumenti di monitoraggio e valutazione dell’operato
dell’amm., prevede all’art. 11 che i servizi pubblici nazionali e locali sono erogati con modalità che
assicurano la tutela dei cittadini e degli utenti e la loro partecipazione, anche associativa, alle
procedure di valutazione e definizione degli standard qualitativi. Questa forma di valutazione ha lo
scopo di fornire agli enti titolari dei servizi indicazioni e supporto alle loro scelte, comprese quella sul
modello gestionale adottato e a valutare sia la qualità dell’attività di indirizzo politico (controllo
strategico) sia quella gestionale generale dell’ente e individuale dei dirigenti (performance). Questi
strumenti per il livello locale sono contenuti nel testo unico degli enti locali (d.lgs 267/00), agli artt.
147-bis e ter, rispettivamente sul controllo strategico e quello sulle società partecipate.
Le modalità di rilevazione della valutazione e del grado di soddisfazione dei cittadini devono essere
contenute nella carta dei servizi. Questa, introdotta dall’art. 2 del d.l. 163/95, svolge l’importante
funzione di raccordo tra amm. e amministrati, sebbene sia poco utilizzata sia a causa della scarsa
partecipazione attiva dei cittadini, sia perché le amm. la considerano come un adempimento imposto,
oltre al fatto che sia comunque un atto unilaterale. Per il Sii, l’art. 151.2 lett. f, è il gestore che ha
l’obbligo di adottare la carta dei servizi, in base agli atti d’indirizzo dell’ARERA.
Nell’aspetto più strettamente contrattuale, relativo al rapporto tra erogatore del servizio e singolo
utente, che è regolato dal diritto civile, l’art. 30 della l. 69/2009 ha introdotto l’obbligo di prevedere
all’interno delle carte dei servizi dei servizi pubblici in genere, e in quello idrico in particolare, la
possibilità di ricorrere a procedure di composizione stragiudiziali delle controversie. Sotto questo
profilo, le carte dei servizi avrebbero la funzione di istituto deflattivo del contenzioso, assieme ai
rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale previsti nel codice dei contratti pubblici. Per il servizio
idrico nello specifico è previsto lo strumento del reclamo, che l’utente rivolge al gestore, il quale ha
l’obbligo di rispondere entro 30 giorni e, se non risponde entro 45 giorni, ci si può rivolgere
all’autorità di vigilanza; è possibile inoltre ricorrere al servizio di conciliazione dell’autorità alle
ulteriori procedure conciliative contenute nella carta dei servizi e, in più, alcune regioni hanno istituito
una specifica figura di garante che svolge attività di controllo e valutazione con lo scopo di tutelare gli
interessi dei cittadini.
Nell’ambito della tutela giurisdizionale, oltre che ai singoli rimedi esperibili dinanzi al giudice
ordinario, sono previste azioni di tutela collettiva, nello specifico di due tipi: la prima ricade nella
giurisdizione del giudice amm., la seconda in quella del giudice ordinario.
La prima è la c.d. class action di rilevanza pubblicistica ed è finalizzata a valorizzare l’efficienza
dell’azione amm. I presupposti di questa azione sono: la violazione di obblighi contenuti nelle carte di
servizi, la violazione di termini o la mancata emanazione di atti amm. generali obbligatori, e infine la
violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti dalle autorità preposte alla regolazione. La
seconda azione invece è la class action ammessa dinanzi al giudice ordinario, che ha lo scopo di
avanzare domanda di restituzione o di risarcimento.
La l. 31/2019 ha modificato la disciplina dell’azione di classe e ha eliminato i limiti oggettivi previsti
dall’art. 140-bis, estendendo la tutela prima prevista per i soli “rapporti di consumo” anche ai rapporti
tra aziende e nell’ambito dei rapporti extracontrattuali. La nuova class action potrà quindi trovare
applicazione in ogni ambito nel quale un’impresa o un gestore di servizi pubblici pongano in essere
comportamenti che vadano a ledere diritti omogenei di più soggetti; tuttavia, la categoria dei diritti
omogenei è ancora fortemente dibattuta, di conseguenza l’azione di classe è, almeno nell’immediato,
non pienamente efficace.

CAPITOLO 12: LA TUTELA MULTILIVELLO DEL DIRITTO ALLA SALUTE:


APPUNTI PER UNA NUOVA GOVERNANCE SANITARIA GLOBALE. , di
Mariaconcetta D’Arienzo. Riassunto di Pizzella
1.INTRODUZIONE
La tutela della salute ricade nella potestà legislativa concorrente tra stato e regioni ex art. 117 comma
3. La questione ruota intorno all’art 32 Cost. che la qualifica come “fondamentale diritto
dell’individuo e della collettività”. La Corte costituzionale ha cercato più volte di ribadire l’esigenza
di unitarietà sul piano nazionale, al fine di ridurre le disuguaglianze, stigmatizzando l’effetto
distorsivo dell’assetto regionalizzato del SSN e cercando di colmare i limiti derivanti dall’austerity
sanitaria, che ha sottratto ingenti risorse finanziarie al settore. Queste problematiche sono emerse con
maggiore intensità in occasione della diffusione dell’epidemia di Covid-19. La corte ha, inoltre,
richiamato la necessità di coordinamento, al fine della determinazione dei LEA (livelli essenziali di
assistenza) fra stato e regioni, con l’obiettivo di proiettare le scelte legislative nell’ottica del
fabbisogno concreto, ovviamente senza escludere il ruolo centralistico dello stato. Le continue frizioni
fra stato e regioni sono, inoltre, implementate dalla volontà di procedere verso un regionalismo
differenziato. Diventa, in questa circostanza, primaria l’esigenza di garantire la salute quale diritto
fondamentale, il quale può portare alla compressione dei diritti sociali, laddove sussistano i
presupposti dell’eccezionalità e della limitatezza temporale. Ciò induce ad una riflessione sulla
gestione della pandemia, in quanto i doveri statali non si attenuano di fronte allo stato di emergenza. Il
dibattito potrebbe essere rivisto anche in virtù di una modifica del ruolo dell’UE e dell’OMS.
2.ORGANIZZAZIONE E GESTIONE DELLA SANITÀ E DIFFICOLTÀ DI COORDINAMENTO
TRA I DIVERSI LIVELLI DI GOVERNO
Il dibattito istituzionale fra stato e regioni ha radici antiche, anteriori rispetto alla rifora costituzionale
del 2001. In passato lo stato si è spinto ben oltre la determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni e l’emanazione di leggi di principio, invadendo spesso la competenza legislativa delle
regioni, ricevendo anche l’avvallo della Corte costituzionale. I primi problemi si manifestarono già
all’indomani dell’entrata in vigore della legge istitutiva del SSN n.833/1978, che ha decretato il
passaggio ad un sistema di finanziamento pubblico basato sul prelievo fiscale, riservando allo stato
l’attività di pianificazione nazionale e regionale e al governo locale la gestione dell’erogazione del
servizio. Le criticità di tale riforma furono due:
● Alla riforma non fece seguito l’approvazione del piano sanitario nazionale.
● Il SSN fu tacciato di erogare prestazioni di scarsa qualità e di essere eccessivamente
burocratizzato, con conseguenze negative sull’universalità del servizio.
Questi fattori portarono ai DD. Lgs. Nn. 502/1992 e 517/1993, in parte rivisti con il D.
lgs. N.299/1999. I punti fondamentali della nuova disciplina sono:
1) Aziendalizzazione delle USL e degli ospedali più importanti, mediante la
trasformazione delle prime in ASL (aziende sanitarie locali) e dei secondi in AO
(aziende ospedaliere). Le ASL furono dotate di personalità giuridica di diritto
pubblico e di maggiore autonomia organizzativa e patrimoniale.
2) Diversificazione tra funzioni di committenza, spettanti alle ASL, e di erogazione di
prestazioni specialistiche, spettanti alle AO.
3) Diversificazione delle modalità di finanziamento, le ASL in base agli assistiti
residenti sul territorio e le AO sulla base del volume delle prestazioni effettivamente
erogate.
4) Attribuzione alle regioni di poteri di organizzazione e finanziamento dei servizi sul
territorio e di controllo sulle ASL, mediante la nomina del direttore generale.
5) Attribuzione alle ASL di ampia autonomia imprenditoriale, coordinata dal direttore
generale, mediante l’emanazione di un atto di diritto privato per definire
l’organizzazione interna.
La sperimentazione di nuove soluzioni si protrae fino ai nostri giorni, con risultati
spesso inefficaci. L’attribuzione di ampi margini di azione alle regioni è, oltretutto,
limitata dai vincoli di budget imposti a livello statale, che determinano un
innalzamento del costo dei ticket.

3. IL PRECARIO EQUILIBRIO DEI POTERI E DELLE COMPETENZE IN


MATERIA DI “TUTELA DELLA SALUTE” TRA STATO E REGIONI
La progressiva frammentazione del SSN in sistemi regionali comporta significative
disuguaglianze. In linea con il dettato dell’art. 117 comma 3 Cost., si può affermare il
ruolo strategico delle regioni, d’altra parte bisogna ricordare i vari interventi della
Corte costituzionale, volti alla creazione di un sistema più duttile, capace di
intercettare le nuove esigenze di governance multilivello, di matrice europea e
sovranazionale. Il profilo organizzativo ha, ben presto, lasciato spazio al problema di
ripartizione delle competenze legislative, soprattutto in materia di determinazione dei
livelli essenziali di assistenza (LEA), erogati dalla regione e monitorati annualmente
dal Ministero della Salute, dal punto di vista dell’appropriatezza e della ripartizione
del budget. È quest’ultimo aspetto, insieme al disavanzo accumulato da alcune
regioni, a suscitare il dissenso delle regioni più performanti che vorrebbero accelerare
i tempi del federalismo fiscale. Questa situazione genera dubbi in termini di
soddisfacimento effettivo dei diritti fondamentali. Il governo ha adottato alcune
contromisure, rivelatesi inefficienti e che hanno contribuito al fenomeno migratorio
verso le regioni più efficienti.

4.SOVRANISMO STATALE E COINVOLGIMENTO DELL’UE NEI PROCESSI


DECISIONALI RIGUARDANTI LA SALUTE PUBBLICA
Recentemente si è fatta strada la possibilità di utilizzare lo strumento delle intese fra
regioni, di cui all’art, 117 comma 8 Cost, al fine della creazione di organi comuni per
la tutela della salute. Tale eventualità potrebbe, in realtà, diventare un diritto ad
appannaggio delle regioni più performanti. Il problema si amplifica se viene trasposto
in una dimensione sovranazionale. L’attuale società globale si trova a fronteggiare
situazioni nuove, che suggeriscono di adottare misure utili al perseguimento di
obiettivi comuni, investendo in sistemi sanitari sostenibili e nella salute, quale valore
in sé, strumentale alla prosperità economica. La competenza di tutela della salute
spetta ai singoli stati membri, l’UE svolge un ruolo di sostegno e coordinamento. Il
ruolo degli stati viene addirittura rafforzato dal trattato di Lisbona. La recente
situazione epidemiologica, tuttavia, spinge in una direzione diversa, in un’ottica di
valorizzazione dell’art. 168 TFUE, in base al quale Parlamento europeo e Consiglio
possono adottare misure comuni nella lotta dei flagelli che si propagano oltre
frontiera, in chiave solidaristica e sulla base del principio di leale cooperazione. La
Commissione, nella comunicazione dell’11 novembre scorso, ha proposto un
rafforzamento delle Agenzie europee esistenti in materia di tutela della salute e la
costituzione di una nuova autorità di risposta alle emergenze sanitarie (HERA).
Evidentemente la proposta troverà ostacoli e ostruzionismo da parte dei singoli stati
membri e sarà frutto di un compromesso. Al fine di attenuare tali conseguenze
negative è stato previsto un maggiore coinvolgimento della Commissione e un
rafforzamento del ruolo delle regioni, in base all’articolazione delle competenze
fissata a livello interno, al fine di aumentare la legittimazione sociale.

5.IL RUOLO DELL’OMS: CRITICITÀ E PROSPETTIVE DI RIFORMA PER


UNA MIGLIORE GESTIONE DELLA CRISI SANITARIA GLOBALE
L’OMS è un’agenzia delle Nazioni Unite specializzata in questioni sanitarie e fondata
nel 1946, alla quale aderiscono 194 paesi. L’obiettivo è quello del raggiungimento da
parte di tutti gli stati di un più alto livello di salute, fornendo standard fondamentali in
materia di scelte politiche basati su criteri scientifici, assistenza tecnica, finanziamenti
per la ricerca medica, linee guida sulle questioni globali. L’OMS agisce emanando
raccomandazioni non vincolanti, formulate dal direttore generale, che costituiscono
un quadro fondamentale per l’elaborazione delle politiche interne. I rapporti fra stati e
OMS sono improntati sul principio di buona fede e leale cooperazione. Il 30 gennaio
2020 il direttore generale dell’OMS ha dichiarato lo stato di emergenza, all’esito di
una procedura in contraddittorio con gli stati membri e il comitato d’emergenza.
Quest’ultimo è un organo scientifico, il quale ha acquisito maggiore potere rispetto al
direttore generale, organo diplomatico. Ciò ha contribuito alla delegittimazione
dell’OMS da parte dei singoli stati membri, incoraggiando una tendenza
all’autoregolamentazione. Di qui l’adozione di politiche sanitarie restrittive che hanno
sacrificato oltremodo i diritti dei cittadini e le libertà economiche. Sebbene l’OMS sia
ancora leader nella gestione della sanità internazionale, dispone di risorse insufficienti
ed è strettamente controllata dagli stati membri, al punto di non poter più imporre il
rispetto delle proprie regole. I rapporti fra stati e OMS non sembrano essere nemmeno
chiari e trasparenti, come testimoniato da un’indagine della procura di Bergamo, tesa
ad accertare il silenzio dell’OMS rispetto al mancato aggiornamento del piano
pandemico in Italia. Alcuni stati hanno sospeso i finanziamenti durante il periodo
emergenziale. Nonostante queste problematiche, è necessaria una guida forte, un
leader nella gestione dei problemi sovranazionali, e l’OMS, con alcuni correttivi,
potrebbe incarnare tale funzione.

CAPITOLO 13. Il "caso" delle concessioni demaniali balneari., di Giuliana di Fiore.


Riassunto di Riabushko
1. La linea di costa: "chi ha il dominio del mare ha il dominio di tutto"
Le spiagge e la linea di costa diventano sempre più un luogo di interazioni e conflitto, di un coacervo
di interessi, finiscono per confluire questioni differenti ed interessi non sempre conciliabili:( da quelli
ambientali alle problematiche urbanistiche;da quelle legate al turismo,alle attività commerciali,alla
sicurezza )In dottrina spesso si è parlato di un" diritto costiero",che tenga dentro le eterogeneità delle
questioni involte e integri le soluzioni legislative che spesso riscontra una complessità di livelli di
competenza e di intervento: a partire dalla dimensione internazionale, fino ad arrivare a quella
territoriale ( più vicina al cittadino come il Comune), passando per i provvedimenti legislativi
comunitari,nazionali e regionali. Tutto questo da un lato soddisfa il requisito di una multilevel
governance, dall'altro lato finisce per creare disarmonia di interventi,conflitti di competenze e vuoti di
azioni concrete.
Tradizionale regime di demanialità ex art 822 c.c. di gestione pubblica (del lido, della spiaggia, delle
rade e dei porti e gli usi collegati )è inidoneo a soddisfare tutte le aspettative della collettività, e a
soddisfare i vari interessi sia di natura pubblica che privata, restando confinato alla garanzia
dell'integrità della proprietà del bene in funzione degli usi pubblici, cui lo stesso era destinato.
Art 823 c.c. contiene il divieto di alienazione del demanio marittimo, di cui la tutela è demandata alla
P.A. senza offrire gli strumenti concreti per integrazione oggettiva e soggettiva della linea costiera.
Di conseguenza lo strumento di tutela e regolazione della concessione si rivela sempre più inadeguato
per gli interessi pubblici e privati, non essendo preordinato a determinare la scala di priorità nella
selezione di interessi e prediligendo la logica economica.

2. I beni della linea di costa come demanio marittimo


Le coste e le spiagge sono inserite nell'ambito del cd. demanio marittimo ai sensi dell'art. 822 c.c. e
degli artt. 28 e seguenti del codice della navigazione.
Tali beni sono inseriti nella categoria del cd. demanio necessario, composto dal patrimonio immobile
di proprietà dello Stato e in via eccezionale delle Regioni. Sono ricompresi in esso, tutti quei beni che
risultano collegati con gli usi pubblici del mare e della navigazione marittima, senza dimenticare
l'interazione di questi con altri differenti, interessi pubblici (militari, doganali,turistici) La dottrina
sottolinea che la nozione di "proprietà pubblica" non è definita,dalle norme del Codice civile, che si
limitano a dettare il regime giuridico dei beni appartenenti all'amministrazione pubblica.
La ricostruzione della categoria dei beni di pubblico demanio è di carattere storico e di ordine
positivo, la determinazione dipende da quella dei compiti che la P.A. assume in un dato momento e
perciò i beni che formano parte del demanio pubblico devono essere indicati tassativamente dalla
legge, in quanto funzionalizzati all'interesse pubblico.
La tematica della demanialità può essere vista alla luce dell'art 42 cost. che prevede una proprietà
pubblica in senso oggettivo, quale appartenente alla collettività e quindi orientata alla soddisfazione
degli interessi pubblici.
La dottrina individua una duplice possibilità di utilizzazione del bene pubblico:
-generale , se concessa a tutti i consociati indistintamente
-eccezionale, se attribuita in via esclusiva solo ad alcuni di essi
Lo strumento attraverso il quale avviene la gestione da parte di terzi di un bene demaniale, è
generalmente la concessione.
Per quanto attiene al demanio marittimo l'articolo 36 del codice della navigazione stabilisce che: la
concessione di occupazione ed uso esclusivo di beni demaniali per un determinato periodo di tempo,
deve essere compatibile con le esigenze dell'uso generale e non può mai essere impedito dall'uso
particolare.
L'articolo 37, si riferisce alla discrezionalità amministrativa nella scelta del concessionario, con
riferimento al richiedente che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e
risponda ad un più rilevante interesse pubblico. Al secondo comma, poi, detta una disciplina specifica
per le concessioni turistiche- ricreative per le quali al fine della tutela dell'ambiente costiero, è data
preferenza alle richieste,che importino attrezzature non fisse e completamente amovibili.Nel caso in
cui vi fossero più domande per la medesima concessione bisogna attribuire preferenza alle precedenti prevalenza
del rinnovo
concessioni, già rilasciate, in sede di rinnovo rispetto alle nuove istanze.
L'uso dei beni pubblici si basa sull'idea per cui essi servono alla immediata soddisfazione di bisogni
considerati d'importanza sociale, nel momento storico in cui ricevono la loro configurazione giuridica.
Dall'iniziale interesse alla difesa dei confini militari,interesse doganale e sanitario, ( che erano
attribuiti nei primi anni 60 al demanio marittimo) si assiste al passaggio ad un rilievo di tipo
imprenditoriale,di interessi ambientali,connessi alla salvaguardia delle risorse
naturali,culturali,turistici.
La zona costiera è andata ad assumere nel tempo, l'unitarietà del regime proprietario pubblico delle
zone costiere, categoria in crisi nella rigida formulazione originaria, a seguito di riformulazione
operata dalla Corte di Cassazione. Le Sezioni Unite hanno ritenuto appartenenti al demanio tutti quei
beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, risultino,
funzionali al perseguimento e al
soddisfacimento degli interessi della collettività.

3. Le concessioni balneari e la "scure" della Bolkestein


Le concessioni turistiche hanno subito nel tempo una profonda incisione legislativa, con l'intenzione
della dottrina di delineare un quadro ricostruttivo, di una vicenda legislativa,
giurisprudenziale ed amministrativa disorganica, frammentaria con contrasti
e diversità di orientamenti.
Il primo intervento di rilievo sul tema si ha con il D. L. n. 400/1993,che ha definito le attività delle
concessioni, ricomprendendo le concessioni balneari e turistico-ricettive. Si articolava in un sistema in
cui con concessione si derogava all'uso collettivo del bene spiaggia, con previsione di privilegi a
favore del concessionario e conseguente rottura del principio di uguaglianza.
La situazione legislativa contrastava con i principi comunitari ed infatti già nel 1998 l'AGCM
(Autorità` garante della concorrenza e del mercato) osservava che:l`utilizzo dei regimi concessori, non
viene effettuato sempre per esigenze di interesse generale, che dovrebbero essere le sole a giustificare
la presenza di un intervento pubblico, suscettibile di incidere sul sistema concorrenziale.Orientamento
esplicitato dall'AGCM, in riferimento all'assetto legislativo creato in materia di concessioni balneari,
afferma che le previsioni normative possono produrre effetti restrittivi della concorrenza, tenuto conto x AGCM
le
che, né il codice della navigazione, né il relativo regolamento di attuazione prevedono come principio concessio
ni balneari
generale, per l'assegnazione di concessioni marittime, quello: dell'utilizzo di procedure concorsuali restringolo
trasparenti, competitive e debitamente pubblicizzate né, quello della ragionevole durata delle la
concorrenz
concessioni demaniali. a
Ed infatti sulla questione interviene la Comunità europea,con la direttiva Bolkestein ( o “direttiva
servizi” che mira alla rimozione degli ostacoli che impediscono o rallentano la libera circolazione
degli servizi e la loro prestazione negli Stati membri) e successivamente apre una procedura di
infrazione nei confronti dell'Italia.
Dall'entrata in vigore della direttiva "servizi",il tema della mancata concorrenzialità nelle concessioni
turistico-ricettive si riaccende. Nel tempo si è assistito a un mutamento anche qualitativo nella
tipologia di concessionari, che sono passati, da semplici gestori del bene, a imprese con variegate e
complesse attività, esercitate sul demanio, che realizzano assetti commerciali e sociali differenti dalla
originaria visione codicistica. Ne consegue che la qualità e la quantità degli investimenti del
concessionario diventa sempre maggiore, anche se non urbanisticamente legittima, per cui il secondo
comma dell'art. 37 stabiliva che «al fine della tutela dell'ambiente costiero, per il rilascio di nuove
concessioni demaniali marittime per attività turistico ricreative è data preferenza alle richieste che
situazione odierna
importino attrezzature non fisse e completamente amovibili», mostrando un favor per insediamenti in vs con 37,2
edilizi rimovibili e non impattanti, oggi la situazione in molte zone presenta stabilimenti edificati in comma c.
navigazione
cemento dove si svolgono attività ricettive anche serali (ristoranti, discoteche).
Interviene l'Unione Europea con l'intento di armonizzare i regimi autorizzatori negli Stati. Regimi che,
si risolvono in una limitazione o in un ritardo della libera circolazione dei servizi,visti come
consentiti dal legislatore, solo in virtù di motivi di interesse generale da tutelare, che non riescano ad
essere realizzati con misure meno restrittive e limitative della libera circolazione dei servizi.
Ai sensi della dir.2006/123 ( la direttiva servizi), «la nozione di regime di autorizzazione dovrebbe
comprendere le procedure amministrative per il rilascio di autorizzazioni, licenze, approvazioni o
concessioni, ma anche l'obbligo, per poter esercitare l'attività, di essere iscritto in un albo
professionale, in un registro, ruolo o in una banca dati, di essere convenzionato con un organismo».
Direttiva si riferisce alle tradizionali classificazioni della legislazione e della dottrina italiana, in
particolare rispetto alla nominatività dei provvedimenti amministrativi, riunendo nel concetto di
autorizzazione tutti quei provvedimenti amministrativi idonei a determinare l'accesso e l'esercizio
delle attività di servizi . L'intento del legislatore europeo era: quello di rendere impossibile eludere la
disciplina dettata, in ragione di una diversa classificazione del provvedimento amministrativo.
Le concessioni demaniali marittime per uso turistico ricreativo ricadono, secondo la dottrina nella
previsione dell'articolo 12 della direttiva servizi, che costruisce una fattispecie derogatoria al principio
della eliminazione dell'intermediazione del potere amministrativo per accedere alle attività di servizio:
ciò «qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via
della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili. Nei suddetti casi sarà
necessario applicare una «procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di
imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della
procedura e del suo svolgimento e completamento».
Il comma successivo, esplicita che le autorizzazioni siano rilasciate per una durata limitata adeguata,
senza previsioni di rinnovo automatico, con il divieto di accordare altri vantaggi al prestatore o a
persone che con tale abbiano legami.
L'Unione europea in riferimento alle concessioni demaniali balneari ha considerato «il bene
privilegiandone la dimensione economica legata allo sfruttamento dello stesso quale mezzo per
l'erogazione di un servizio» e quindi si può affermare che ne abbia colto l'essenza che il servizio,
oggetto delle concessioni turistiche, ha assunto nel tempo. In senso contrario,qualche orientamento
minoritario, ha sostenuto che «il bene demaniale, non è ex se un bene produttivo. È l'azienda del
concessionario ad imprimere al bene pubblico una destinazione produttiva o, melius, a incorporare il
bene pubblico nell'azienda privata. Ma anche dopo l'incorporamento del bene demaniale nell'azienda
del concessionario, il primo continua a restare area di sedime. È l'azienda del concessionario, e non la
zona demaniale su cui tale azienda insiste, a produrre servizi.

4. Il legislatore nazionale e la tecnica delle proroghe "tampone"


Il legislatore nazionale con la l. 296/2006, cosiddetta "finanziaria 2007", modifica l'articolo 3 del D.
L. 400/1993, prevedendo la possibilità della titolarità di concessioni demaniali marittime per una
durata non inferiore a 6 anni e non superiore a 20 anni.La disciplina nazionale ( basata su proroghe
automatiche) risultava essere in contrasto con la volontà legislativa europea ed ha portato all'apertura
di una procedura di infrazione da parte della Commissione, basata sulla considerazione, che la
la commissione eu
normativa nazionale, nel prevedere il diritto di insistenza a favore del concessionario uscente, nelle apre una
procedure di affidamento di concessioni demaniali marittime, fosse in contrasto con l' art. 49 TFUE e procedura di
infrazione perche
l'art. 12 della Direttiva Bolkestein, così come il rinnovo automatico delle concessioni era contrario al ritiene
discriminatorio e
paragrafo 2 del medesimo art. 12 della direttiva. La Commissione ha, pertanto, ritenuto il regime contrastante con
discriminatorio per nuovi operatori economici, ed elusivo dell'art. 49 TFUE, il quale vieta le le norme ue il
diritto di insistenza
discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, o alla sede delle società, e anche qualsiasi a favore del
consessionario
discriminazione dissimulata che produca lo stesso effetto. uscente
Il legislatore nazionale interviene sul tema con il D. L.30 dicembre 2009, n. 1942, attraverso il quale
abroga il diritto di insistenza, tacendo sulla regola del rinnovo automatico delle concessioni demaniali
marittime turistico-ricreative. Il legislatore sceglie una soluzione "tampone" introducendo un regime
transitorio a favore dei concessionari uscenti, prorogando la durata dei titoli concessori in essere al 30
dicembre 2009, sino 31 dicembre 2015,annunciando nell`atto legislativo un prossimo procedimento di
revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni.
Successivamente viene recepita la direttiva "servizi", che all'art. 16 richiama espressamente la
possibilità di una intermediazione provvedimentale della P.A. per attività che involgano scarsità di
risorse o peculiarità tecniche, ma sempre con selezione pubblica, e per tempi limitati, nonché il
divieto di proroghe automatiche e di accordare situazioni di vantaggio all'uscente.Tale azione ha
portato alla chiusura della procedura di infrazione, ma la proroga al 2015 persisteva, ed anzi
interveniva una nuova proroga del termine con cui la scadenza delle concessioni, veniva fissata al 31
dicembre 2020.Molte Regioni hanno legiferato proroghe delle concessioni demaniali balneari in
favore dei titolari delle concessioni: tutte le leggi di quel periodo sono però state impugnate dal
Governo.( il legislatore interviene perché mancano il rispetto dei principi comunitari di bilanciamento
tra tutela dell'affidamento, libera concorrenza e parità di trattamento.L'Autore sottolinea come per le
legislazioni regionali dovrebbero valere anche per la legislazione statale introduttiva della
proroga,appare contraddittorio che lo Stato, da un lato impugni le leggi regionali, per l'incompatibilità
comunitaria della proroga, dall'altro introduca analoga proroga)
Su tali leggi si è pronunciata la Corte Costituzionale che ha ritenuto le proroghe un'ingiustificata
compressione dell'assetto concorrenziale del mercato della gestione del demanio marittimo, invadendo
una competenza spettante allo Stato, violando il principio di parità di trattamento , artt. 49 e ss. del
TFU, in tema di libertà di stabilimento, favorendo i vecchi concessionari a scapito degli nuovi .
Si arriva ad un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea operato da due Giudici: la Corte,
riunendo le due cause si pronuncia sull'atteggiamento del legislatore italiano con la sentenza 14 luglio
2016. La sentenza ravvisa un contrasto tra l'articolo 12 della direttiva Bolkestein e la normativa
nazionale che ha previsto una proroga automatica fino al 31 dicembre 2020. Il Giudice
comunitario,giudica illegittima la proroga ex lege delle concessioni, che viene ritenuta equivalente ad
un rinnovo automatico.( illegittima perché rientra in applicazione della direttiva servizi)
Il Giudice europeo, inoltre sancisce che spetterà al giudice nazionale, ai fini dell'applicabilità
dell'articolo 12, stabilire di volta in volta se le attività economiche di cui si discute possano e ssere,
oggetto di un numero limitato di autorizzazioni in ragione della scarsità delle risorse naturali, senza
precisare, le regole che le amministrazioni devono seguire per attuare la procedura di trasparenza.
Un regime di proroga secondo la Corte di giustizia sarebbe giustificato solo qualora sia finalizzato a
tutelare la buona fede, ovvero l'affidamento del concessionario, quando questi abbia ottenuto la
concessione in un periodo in cui non era ancora stato dichiarato che i contratti avrebbero potuto essere
soggetti a obbligo di trasparenza; la tutela della buona fede del contraente, quindi rimane fissata per il
periodo precedentemente alla direttiva 2006/123. In questo caso, infatti, la cessazione anticipata della
concessione deve essere preceduta da un periodo transitorio, che permetta alle parti del contratto di
sciogliere i rispettivi rapporti contrattuali a condizioni accettabili, in particolare dal punto di vista
economico.Il Giudice amministrativo ha stabilito che nel quadro normativo e giurisprudenziale «deve
escludersi la configurabilità di un legittimo affidamento della controinteressata sulla possibilità di
ottenere un rinnovo automatico della concessione in essere. Inoltre, la concessione ha avuto una
durata sufficientemente estesa (dodici anni) per consentire l 'ammortizzazione degli investimenti
iniziali. Mentre devono ritenersi irrilevanti eventuali investimenti realizzati dalla concessionaria in
tempi più recenti, atteso che la stessa non poteva più vantare un legittimo affidamento alla proroga
automatica della propria concessione. Ciò anche sulla scorta della considerazione che una «pronuncia
pregiudiziale della Corte di giustizia crea l'obbligo del giudice nazionale di uniformarsi ad essa e
l'eventuale violazione di tale obbligo vizierebbe la sentenza secondo la disciplina dell'ordinamento
interno e, al contempo, darebbe luogo a una procedura di infrazione nei confronti dello Stato di cui
quel giudice è organo».
Il legislatore italiano, con l'art. 24, comma 3-septies, D. L. 24 giugno 2016 n. 113, dispone che per
garantire certezza alle situazioni giuridiche in atto e assicurare l'interesse pubblico all'ordinata
gestione del demanio senza soluzione di continuità, conservano validità i rapporti già instaurati e
pendenti in base all'art. 1, 18° comma, D. L. 30 dicembre 2009 n. 194, e poi con la finanziaria 2019
proroga tali concessioni (che sarebbero scadute di lì a poco alla fine del 2020), di altri 13 anni fino al
2033.
La disposizione successiva alla proroga, detta delle perplessità, nella quale si afferma che al fine di
garantire la tutela e la custodia delle coste italiane affidate in concessione, e tutelare l'occupazione e il
reddito delle imprese in grave crisi per i danni subiti dai cambiamenti climatici e dai conseguenti
eventi calamitosi straordinari, le concessioni di cui al comma 682 hanno una durata, con decorrenza
dalla data di entrata in vigore della presente legge, di anni quindici.
La disciplina viene completata dai commi da 675 a 684 che dettano i criteri e i parametri per la
revisione delle concessioni balneari, da attuare attraverso un Dpcm che dovrà definire «un nuovo
modello di gestione delle imprese turistico-ricreative e ricettive che operano sul demanio marittimo
secondo schemi e forme di partenariato pubblico-privato, atto a valorizzare la tutela e la più proficua
utilizzazione del demanio marittimo, tenendo conto delle singole specificità e caratteristiche
territoriali.
L'amministrazione nell'affidare una concessione balneare puo` considerare come meglio porre il
bene al servizio della comunità amministrata, tenendo conto del contesto nel quale tale bene è inserito,
e quale impatto abbia un dato utilizzo del bene,in considerazione delle ripercussioni che tale scelta
abbia per la generalità dei consociati. In definitiva la possibilità di riassegnare ad intervalli di tempo
stabiliti la concessione, su una più ampia offerta di servizi turistici balneari su beni pubblici,
attraverso l'esercizio del potere discrezionale, può comportare vantaggi nella realizzazione dei
differenti interessi pubblici, concretamente coinvolti, e non solo quello della concorrenza e non
discriminazione degli operatori economici, includendo nei bandi anche criteri volti a garantire la tutela
di altri interessi. Un esercizio di discrezionalità nel valutare periodicamente come gli interessi possano
interagire in concreto servendosi del criterio della residenza che può assicurare che le persone che
materialmente andranno a fornire i servizi siano effettivamente legate al territorio, e siano quindi
consapevoli delle tradizioni ivi presenti e, di conseguenza, delle peculiarità culturali che lo
caratterizzano.
A sommesso avviso di chi scrive, apertura del mercato delle concessioni potrebbe portare alla
riduzione di investimenti, in quanto, imprenditore sarebbe consapevole di non avere posizioni di
privilegio alla scadenza, e preferire quelle strutture rimovibili, non estremamente onerose che
eviterebbero una cementificazione continuativa,che caratterizza attualmente una buona parte dei nostri
lidi, evitando ulteriore consumo di suolo. Sono state sottolineate in dottrina le difficoltà` che
caratterizzano il subentro di un nuovo concessionario all'uscente,che possono risolversi in
impedimenti che devono essere equamente regolati dall'amministrazione, nell'ottica del superamento,
diversamente legittimandosi barriere all'ingresso non compatibili con l'accesso equo e non
discriminatorio alle risorse demaniali suscettibili di uso produttivo
Sul punto va segnalato un orientamento dottrinario contrario per il quale:quanto disposto dall'ultimo
intervento normativo, non costituisce una proroga tout court,ma è più correttamente riconducibile ad
un periodo transitorio, atto a sviluppare una complessiva riforma della disciplina delle concessioni
demaniali marittime nella direzione di un mercato concorrenziale. La necessità di riordino ed
adeguamento della materia non appartiene alle intenzioni solo del legislatore dell'ultima proroga, ma
ha accompagnato tutti gli interventi di prolungamento della scadenza. D'altro canto, non è esplicitato
nessun parametro per cui 15 anni sarebbero un periodo di adeguamento transitorio, che invece sarebbe
meglio fosse valutato caso per caso, dall'amministrazione in sede di esercizio di discrezionalità, in
ragione degli investimenti sostenuti dal privato.
Al contrario 15 anni appaiono un tempo lungo per aprire al mercato un settore di tale rilevanza, e
soprattutto la scelta legislativa del termine quindicennale del dies ad quem, sembra indicare “ un
atteggiamento disattento e fuorviante” Da ultimo va segnalato come nella perdurante incertezza di
contrasto normativo alcune regioni si siano adeguate alla scadenza del termine protratto al 2033 con
delibere di Giunta, Circolari, o con leggi ad hoc, come nel caso della 1.r. Sicilia n. 24 del 2019.

5. L'emergenza Covid "salva" le stagioni turistiche degli ultimi due anni


Sul confuso quadro normativo, ha avuto notevole influenza la crisi sanitaria ed economica della
pandemia di Covid. In via di urgenza è intervenuto il cd. D. L. "Cura Italia" che ha stabilito: che tutti
i certificati, permessi, concessioni e atti abilitativi comunque denominati, in scadenza tra il 31 gennaio
2020 e il 31 luglio 2020, conservano la loro validità per i novanta giorni successivi alla dichiarazione
di cessazione dello stato di emergenza. Successivamente il legislatore interviene con il "Decreto
Rilancio " che: prevede misure di sostegno per il settore turistico, oltre a ribadire le proroghe, vieta
alle amministrazioni l'avvio o la prosecuzione di procedimenti per la riacquisizione delle aree oggetto
di concessioni in scadenza, rinviando il ricorso alla gara pubblica per la riassegnazione. Nel
successivo cd. "Decreto Agosto"" si ampliano le concessioni per le quali si applica la disciplina della
proroga, comprendendo anche lacuali e fluviali, quelle per la realizzazione e la gestione di strutture
dedicate alla nautica e ai rapporti aventi ad oggetto la gestione di strutture turistico ricreative in aree
ricadenti nel demanio marittimo.Sono interventi tesi a limitare le conseguenze dell'emergenza Covid,
costituiscono una nuova deroga alle norme comunitarie,che potrebbero giustificare il mancato ricorso
al mercato e la deroga all'evidenza pubblica in ragione della prioritaria esigenza di garantire la
continuità del servizio, che portano ad un nuovo intervento della Commissione Europea che si è
espressa con una lettera di messa in mora. Nella lettera la Commissione ha evidenziato che la
normativa vigente è pressoché analoga nel contenuto a disposizioni per le quali la CGUE ha già avuto
modo di affermare l'incompatibilità con il diritto UE, ma anche che essa crea instabilità per gli attuali
titolari degli stabilimenti balneari, non certi della validità del titolo. Instabilità che ovviamente
coinvolge anche gli operatori interessati ad entrare nel mercato e gli amministratori pubblici chiamati
ad adempiere a prescrizioni legislative.Tra cui i dirigenti dei Comuni e delle Regioni che hanno
delegato l'esercizio del potere di rilascio delle concessioni e sono tenuti secondo un orientamento
giurisprudenziale a non applicare la normativa interna a favore di quella comunitaria, soprattutto, se è
stato accertato dalla Corte di giustizia UE che vi sia un contrasto, e quindi costituisca un obbligo per
lo Stato membro in tutte le sue articolazioni.
Al fine di "salvare" la stagione turistica dell'estate 2021, e di evitare comportamenti non omogenei nei
diversi comuni del territorio, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha approvato
all'unanimità un "ordine del giorno" con il quale è stato chiesto al Governo l'emanazione entro e non
oltre e il 30 novembre 2020, di uno o più atti che chiariscano la vigenza del regime di proroga e di
portata applicativa della disciplina. Non essendo intervenuto alcun atto in tal senso le Regioni, tra cui
la Campania, nell'incertezza della legittimità e dell'operatività della proroga al 2033, hanno
provveduto a trovare soluzioni "tampone" (La Campania ad esempio, ha emanato due delibere di
Giunta che sulla base, solo dell'emergenza sanitaria e su quanto stabilito dal D. L. "Cura Italia", si
riservano di fornire ulteriori indirizzi applicativi, entro la scadenza del periodo di emergenza delle
determinazioni che saranno eventualmente assunte dal legislatore statale. I Comuni del territorio
campano interessati da spiagge in concessione, hanno fatto proprio l'indirizzo della Regione,salvando,
l'economia turistica per l'estate 2021).

6. L'Adunanza Plenaria ed il Legislatore risolvono il "caso" delle concessioni balneari.


Forse
Sulla moratoria fondata sull'emergenza Covid-19, prevista dal D. L.34/2020, è intervenuto il Giudice
amministrativo: se in alcuni casi il giudice di prime cure aveva "salvato" le concessioni in atto, in
appello il Consiglio di Stato ha ribaltato la situazione ritenendo "insostenibile" l'idea che la proroga
sia funzionale al contenimento delle conseguenze economiche prodotte dall'emergenza
epidemiologica , ma che anzi, al contrario, le proroghe reiterate e la situazione di incertezza,
scoraggiava gli investimenti , aggravando la crisi.
Il Consiglio di Stato,interviene con due sentenze ( che sono state definite come pronunce
additive)dove ribadisce anche l'incompatibilità con la normativa comunitaria.Si tratta delle sentenze
dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del novembre 2021. .Il Giudice
amministrativo in sede Plenaria, ha confutato la inapplicabilità del regime di evidenza pubblica alle
concessioni demaniali marittime di cui rispettivamente all'art 49 TFUE ed art.12 della direttiva
2006/123/CE, sulla scorta della mancanza dell'interesse transfrontaliero e della assenza del
presupposto necessario della cd. "scarsità della risorsa". Su entrambi le obiezioni viene richiamata la
sentenza della corte di Giustizia Promoimpresa del 2016, che aveva chiarito come l'interesse
transfrontaliero esiste laddove vi sia «un'opportunità di guadagno offerta dalla amministrazione
anche attraverso il rilascio di provvedimenti che non portano alla conclusione di un contratto di
appalto o di concessione, di attrarre gli operatori economici di altri Stati membri». La "scarsità" della
risorsa naturalistica costiera inoltre va valutata, in termini relativi e non assoluti tenendo conto non
solo della quantità, ma anche della qualità del bene, e stante la elevata occupazione delle spiagge da
stabilimenti balneari, quelle disponibili per i nuovi operatori che intendessero entrare nel mercato
sarebbe veramente molto scarsa.Ill Giudice amministrativo, inoltre, nel ribadire la natura self-
executing della Bolkestein rimarca come legislazione e giurisprudenza europea e nazionale forniscono
tutti gli elementi necessari per consentire alle amministrazioni di bandire gare per il rilascio delle
concessioni demaniali. Si evidenzia la posizione assunta dall'Adunanza Plenaria circa la obbligatorietà
da parte di tutte le pubbliche amministrazioni di disapplicare la legislazione nazionale in contrasto con
la direttiva per applicare quest'ultima. Su quest'ultimo profilo si evidenzia un netto contrasto tra la
pronuncia in esame e il giudice di primo grado. Il Tar Lecce infatti, dopo aver valorizzato la
distinzione tra le norme europee direttamente applicabili (regolamenti), e quelle che necessitano di
recepimento o di disciplina di dettaglio (direttive), aveva escluso un obbligo di disapplicazione della
norma interna, in contrasto con una direttiva, discostandosi, dall'orientamento giurisprudenziale, che
riconosce l'obbligo in capo agli organi nazionali in tutte le sue articolazioni. Il Tar ritiene, che siffatto
obbligo facesse capo soltanto al giudice in quanto costituisce il risultato dell'esercizio della funzione
interpretativa, funzione che va esercitata esclusivamente dal giudice, e non da valutazioni soggettive
ed opinabili del singolo funzionario. Di qui la statuizione del giudice di primo grado per cui «la norma
nazionale, ancorché in conflitto con quella UE, risulti vincolante per la pubblica amministrazione, e
nel caso in esame, per il dirigente comunale che sarà tenuto ad osservare la norma di legge interna e
ad adottare provvedimenti conformi e coerenti con la norma di legge nazionale».Il giudice di appello
sottolinea il paradosso che si verificherebbe qualora si ritenesse la norma interna sia disapplicabile
solo dal giudice: la PA sarebbe costretta emettere un atto illegittimo destinato ad essere oggetto di
annullamento da parte del giudice. La conclusione cui giunge la Adunanza Plenaria è che la legge
nazionale in contrasto con una norma europea dotata di efficacia diretta, non può essere applicata né
dal giudice né dalla pubblica amministrazione senza che sia necessario una questione di legittimità
costituzionale.
Il C.d.S. richiede al legislatore di approvare una normativa che possa finalmente riordinare la materia
e disciplinare in conformità con l'ordinamento comunitario il sistema di rilascio delle concessioni
demaniali.. Al contempo però lo stesso giudice, «consapevole della portata normofilattica della
decisione», al fine di metter in grado le amministrazioni di adeguarsi mettendo in moto le procedure
di gara, assegna operatività alla decisione a partire dal 31 dicembre 2023: «scaduto tale termine tutte
le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se via
sia -o meno- un soggetto subentrante nella concessione». L' invocato legislatore, però, è intervenuto,
sebbene al momento ancora parzialmente: con legge 5 agosto 2022, n. 118, è stata approvata la "legge
annuale per il mercato e la concorrenza 2021".
Segnatamente, il comma 1 lett. a) e b) indicano finalità della legge: quelle di promuovere lo sviluppo
della concorrenza, di migliorare la qualità e l'efficienza dei servizi pubblici e di potenziare lo
sviluppo degli investimenti e dell'innovazione in funzione della tutela dell'ambiente, della sicurezza e
del diritto alla salute dei cittadini, rimuovere gli ostacoli di carattere normativo e amministrativo,
all'apertura dei mercati.
L'articolo 3 poi, afferma che le concessioni balneari sono valide fino al 31 dicembre 2023, dopodiché
dovranno essere oggetto di riassegnazione tramite evidenze pubbliche. Tuttavia, se
un'amministrazione comunale dovesse dimostrare delle ragioni oggettive che impediscono la
conclusione della procedura selettiva entro il 31 dicembre 2023, connesse, a titolo esemplificativo,
alla pendenza di un contenzioso o a difficoltà oggettive legate all'espletamento della procedura stessa,
l'autorità competente, con atto motivato, può differire il termine di scadenza delle concessioni in
essere per il tempo strettamente necessario alla conclusione della procedura e, comunque, non oltre il
31 dicembre 2024.
Il successivo articolo 4 elenca una serie di principi, per la verità alquanto generici, cui il governo
dovrà ispirarsi nell'esercizio della delega: le concessioni dovranno essere affidate in base a procedure
concorsuali nel rispetto di principi di imparzialità, non discriminazione, parità di trattamento
ecc.Qualche dubbio poi, è suscitato dalla previsione di parametri volti a favorire gli attuali
concessionari che abbiano gestito le spiagge inserendo nei criteri la adeguata considerazione e
valorizzazione dell'esperienza tecnica e professionale già acquisita in relazione all'attività oggetto di
concessione, secondo criteri di proporzionalità e di adeguatezza,in maniera tale da non precludere
l'accesso al settore di nuovi operatori, nonché della posizione dei soggetti che, nei cinque anni
antecedenti l'avvio della procedura selettiva, hanno utilizzato una concessione quale prevalente fonte
di reddito per sé e per il proprio nucleo familiares. Si tratta di un passaggio piuttosto delicato, la cui
attuazione potrebbe suscitare dubbi in Commissione europea, che ha più volte dichiarato la sua
contrarietà a qualsiasi forma di vantaggio per i concessionari uscenti. Pur nella denunciata incertezza
sul futuro attuativo della delega va segnalato con ottimismo l'introduzione all'art. 4 dei criteri di
ecosostenibilità e accessibilità, si tratta in particolare di interventi indicati dall'offerente per migliorare
l'accessibilità e la fruibilità dell'area demaniale,da parte dei soggetti con disabilità, e dell'idoneità di
tali interventi ad assicurare il minimo impatto sul paesaggio, sull'ambiente e sull'ecosistema, con
preferenza per programma di interventi che preveda attrezzature non fisse e completamente amovibili.
La valorizzazione di tali indicazioni, 'adeguata tutela di una risorsa,aderendo ad un'ottica non solo
economicamente utilitaristica ,ma piuttosto di salvaguardia e tutela delle coste e degli ambienti
naturalistici.La previsione di cui all'art. 2 della legge impegna il governo entro sei mesi a costituire un
sistema informativo di rilevazione permanente delle concessioni, di uso esclusivo di beni comuni a
soggetti privati o pubblici, al fine di garantire trasparenza nei rapporti concessori e adeguata
redditività al patrimonio pubblico, ma come suggerito dalla dottrina «potrebbe consentire anche di
fotografare la disomogeneità delle situazioni, nell'ottica di una riforma che ad esempio possa
ragionevolmente tener conto delle differenze territoriali, imprenditoriali e dei sistemi socioeconomici
locali», e ci si potrebbe spingere fino ad evidenziare le zone di fragilità ed insostenibilità ambientale
di attività antropiche fortemente impattanti, così da equilibrare e bilanciare lo sfruttamento economico
di tale risorsa con la tutela dell'ambiente della biodiversità e degli ecosistemi che dal febbraio 2022
sono diventati principi costituzionali. l'apporto di Regioni e Comuni è essenziale nella ricognizione
dello stato dei luoghi, nonché nella valutazione circa le gestioni precedenti che, può costituire
ulteriore criterio nell'espletamento delle gare.

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