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LA DISPONIBILITÀ AD APPRENDERE (Blandino-Granieri)

CAPITOLO 1
DIMENSIONI EMOTIVE NELL’APPRENDIMENTO E FUNZIONE DELL’INSEGNANTE:
INQUADRAMENTO

In questo manuale, l’apprendimento viene osservato da un punto di vista (vertice)


psicoanalitico.
L'adozione di un punto di vista psicoanalitico consegue a due ordini di fattori:
1. fattore di tipo personale
2. fattore di tipo oggettivo → direttamente collegato al mondo della scuola.
Psicoanalisi → scienza delle relazioni e delle emozioni dotata di metodi utili alla comprensione
del processo educativo. Può persino essere considerata una teoria dell’apprendimento
congruente all’insegnamento e alla scuola.
Pedagogia scientifica → sorta di scienza dell’educazione che si fonda su dati precisi
provenienti dalla ricerca scientifica. Si tratta di una pedagogia che si fonda sui risultati delle
scienze che si occupano di crescita e sviluppo della mente, e quindi dell’apprendimento e delle
modalità per promuovere l’insegnamento.

Vertice psicoanalitico (Bion)


Il concetto di vertice rimanda all’esperienza concreta. Se si assume un vertice psicoanalitico
per analizzare e descrivere il ruolo dell’incidenza dei fattori emotivo-affettivi che caratterizzano
il processo di apprendimento bisogna considerare alcuni principi di base:
1. Primato del mondo interno → il mondo interno del soggetto è di primaria importanza.
Secondo Bion la coscienza di una realtà esterna è secondaria alla coscienza di una realtà
psichica interna. Questa realtà interna, che nasce in seguito alle primissime relazioni
dell’individuo, è fatta di fantasie, affetti, sentimento e meccanismi di difesa.
Secondo Meltzer:
a) l’esperienza del mondo esterno dipende da come sono organizzati nella mente i rapporti tra
oggetti e figure interiorizzate. Quindi la percezioni del mondo esterno dipende
dall'organizzazione del mondo interno. Secondo Jacques l’io maturo sa distinguere tra ciò che
è reale nel mondo esterno e ciò che è proiettato nel mondo interno
b) l’equilibrio interno tra sentimenti cattivi e percezioni cattive e tra sentimenti buoni e fiducia si
migliora solo se si realizza un’integrazione di aspetti di sé scissi dalla propria mente.
2. Il mondo interno influenza il modo in cui percepiamo, interpretiamo e ci comportiamo → la
percezione degli altri e degli oggetti del mondo esterno, il modo in cui decodifichiamo quello
che ci succede e il nostro modo di reagire e comunicare dipendono dal nostro mondo interno.
Comprendere e analizzare le fantasie inconsce è indispensabile perché esse costituiscono il
motore primo dell’azione e del pensiero. Quindi qualunque attività finalizzata alla crescita delle
persone ottiene dei risultati quando è organizzata in modo da promuovere l’integrazione delle
varie parti e soprattutto di quelle problematiche che nella scuola vengono espunte.
3. La crescita e lo sviluppo della mente e della personalità sono possibili solo all’interno di una
relazione → il processo educativo è interazione tra due menti che si influenzano
reciprocamente. non è paradossale chiedersi se è l’insegnante che educa l’allievo o viceversa.
in effetti l’insegnamento appare significativo solo quando nell’insegnare si è imparato
qualcosa.
Funzione del docente → mediare la realtà esterna e la realtà interna di chi apprende quando il
lavoro d’aula si fonda su dati concreti esperienziali. Non si mente, così l’allievo
può imparare da quello che gli si dice e dal modo in cui ci si pone nei suoi confronti.
Seneca → La via per imparare è lunga se si procede per regole, breve ed efficace se si
procede per esempi. Processo di apprendimento → incontro tra menti.
Attività educativa → crescita dell’allievo e crescita dell’insegnante. Sia attività di
apprendimento sia attività di insegnamento si devono confrontare con il nuovo e lo sconosciuto
→ sono quindi attività ansiogene e frustranti specialmente se promuovono l’apprendimento
attraverso l’esperienza. Si insegna quando l’insegnante è disposto a compiere insieme
all’allievo un percorso verso qualcosa che non si conosce → insegnamento e apprendimento
coincidono.
4. Il bisogno di relazione è fondamentale e primario come i bisogni biologici → nello sviluppo
del bambino vi sono due ordini di bisogni: 1) biologici 2) relazionali.
Nel rapporto primario con la madre il bambino ha dei bisogni fisiologici primari, che la mamma
ha il compito di soddisfare (per esempio nutrirlo), ma ha anche bisogni relazionali, quindi di
essere toccato, accudito, pulito, coccolato, deve sentire l’odore della pelle della mamma, il
tocco delle sue mani, il calore, ecc. Se questi bisogni non vengono soddisfatti, si produce un
arresto dello sviluppo affettivo e cognitivo.
Winnicott → funzione di nutrimento della madre non solo alimentare ma anche intellettuale. La
capacità di apprendere dipende dalla capacità della madre di soddisfare il bisogno di relazione
del bambino.
Bisogni di relazione e bisogni fisiologici → devono essere realizzati contemporaneamente.
Allievo a scuola elementare impara a scrivere, leggere e contare ma il vero apprendimento
avviene laddove l’insegnante presti attenzione a come lui vive rapporti e fattori concomitanti
all’apprendimento:
1) processo di apprendimento
2) il contenuto di ciò che si fa, la relazione con il docente, con i compagni e con
l’organizzazione della scuola. Quindi, quando si insegna a leggere e scrivere bisogna
occuparsi anche di aspetti relazionali.
Relazione con gli allievi → fatto cognitivo ed emozionale che rimanda a elementi primari, a
stadi infantili della mente. Funzione del docente → lavorare sugli aspetti cognitivi e ascoltare,
riconoscere, accogliere e raccogliere elementi emozionali in modo da renderli visibili →
obiettivo: apprendere qualcosa e apprendere riguardo al proprio modo di apprendere.
Come può un insegnante espletare questa funzione? → deve saper gestire le dimensioni
emozionali al fine di trasformarle da ostacoli a fattori di promozione dell’apprendimento. In
sede educativa il lavoro deve essere più orientato a rimuovere gli ostacoli all’apprendimento
che a spingere ed esortare chi apprende.
Freud → distingue tra
1) Il bronzo della psicoterapia → simile alla pittura, procede “per via di porre”
2) l’oro della psicoanalisi → simile alla scultura e procede “per via di levare”. Se l’insegnante
vuole far crescere l’allievo dovrebbe procedere per via di levare, quindi dovrebbe preoccuparsi
di rimuovere gli ostacoli interni al recepimento dei contenuti prima ancora di trasmetterli.
5. Le relazioni adulte significative sono influenzate dal modo in cui sono vissute le relazioni
primarie infantili → il modo di comportarsi nelle relazioni scolastiche, lavorative, con i propri
superiori, ecc dipende dal modo in cui si sono vissute le relazioni nell’infanzia. Di
conseguenza, le problematiche emotive neonatali si rifletteranno sulle problematiche
relazionali allievo-insegnante o nella relazione capo-collaboratore.
Apprendimento → si origina dalle precoci esperienze, in primis il rapporto con la madre.
Processo di apprendimento → legato alle fantasie che il soggetto fa nei confronti del proprio
corpo e del corpo del primo oggetto d'amore: il seno materno.
Eckstein → seno materno = primo programma di apprendimento del lattante. Per comprendere
il comportamento di un allievo → bisogna prestare attenzione al modo in cui si relaziona con
gli altri perché questo ci dice molto sulle relazioni primarie che ha avuto con la madre.
L’insegnante deve essere disponibile a osservare, ascoltare e a riflettere su che cosa l’allievo
sente.
6. Le funzioni cognitive superiori dipendono dalle funzioni emotivo-affettive (connesse alle
prime esperienze corporee) → pensiero, apprendimento e conoscenza sono funzioni cognitive
superiori e sono correlate a funzioni affettive.
La capacità di pensare dipende dal sentire e capire quello che ci succede dentro → possiamo
pensare solo se siamo davvero in contatto con le nostre emozioni, diversamente il pensiero
diventa un finto pensiero.
Lo sviluppo dell’emotività e dell’affettività permette di pensare e apprendere.
Per far apprendere bisogna comprendere i sentimenti e le emozioni di chi apprende perché i
sentimenti sono una guida. Aiutare gli allievi a verbalizzare i propri sentimenti, soprattutto quelli
negativi (frustrazione, rabbia, inadeguatezza, perdita, invidia, gelosia) può contribuire a
renderli meno sconosciuti.
Sperimentare che l’ansia può essere espressa, compresa e condivisa è un enorme sollievo per
l’allievo e rappresenta fattore di cambiamento e di voglia di imparare.
L’insegnante deve andare a trovare l’altro là dov’è emotivamente → aiuta sviluppo del
pensiero, crescita emotiva e intellettuale.
7. La psicoanalisi è una teoria dello sviluppo e della crescita → la psicoanalisi è una teoria
evolutiva per definizione perché si occupa di sviluppo della mente. Nella psicanalisi ci si
focalizza sugli aspetti che ostacolano la crescita e quindi l’apprendimento.
Indagini della scuola torinese → il 30/40% degli allievi hanno difficoltà di apprendimento.
8. La psicoanalisi è una teoria della mente, del pensiero e della conoscenza → psicoanalisi =
teoria della conoscenza del pensiero, della mente e quindi dei fattori di ordine affettivo ed
emotivo. Sistemi costruiti dagli psicanalisti:
- Freud: sistema esplicativo quasi neuro-fisico;
- Klein: sistema teologico in cui gli oggetti interni hanno valore di divinità; Bion) sistema
filosofico
9. La psicoanalisi è una teoria psicosociale → si occupa della relazione in generale e
soprattutto della relazione madre-bambino. La psicoanalisi è quindi una psicologia sociale.
Freud → “Psicologia delle masse e dell’Io” → la psicoanalisi è una psicologia sociale perché
nella vita psichica del singolo, l’altro è presente come modello, oggetto, soccorritore, nemico
quindi la psicologia individuale è anche psicologia sociale.
10. La sofferenza e il dolore mentale sono al centro dell’apprendimento
Bion, Meltzer e Harris → capacità di pensare e lavorare oltre che di conoscere dipende dalla
possibilità/capacità di modulare il dolore mentale.
Freud → il bambino impara che il fuoco è pericoloso perché scotta → frustrazione è intrinseca
a ogni processo di apprendimento/conoscitivo. Apprendimento significativo → non evita il
dolore mentale. Sofferenza mentale → insieme di frustrazioni, problemi e ansie → negazione
di questa sofferenza è l’antitesi della possibilità di apprendere e crescere.
Fornari → il piacere è ingannevole.
Alvarez → altro potente fattore per l'apprendimento è la novità, sperimentare situazioni nuove.
Si impara quando si ha la possibilità di elaborare la fatica emotiva che è concomitante
all’imparare e quando si crea un ambiente fisico e relazionale per cui nella nostra mente si
crea qualcosa di nuovo, allora si parla di ambiente facilitante (Winnicott).
11. L’apprendimento autentico è un apprendimento fondato sull’esperienza → la capacità di
apprendere dall’esperienza costituisce il fondamento del vero apprendimento. Bisogna avere
consapevolezza esperienziale oltre a quella intellettuale.
Apprendimento dall’esperienza → comporta la soluzione di un problema → permette di
imparare le modalità utilizzate per risolverlo.
Apprendimento dall’esperienza → importante dal punto di vista psicologico e dal punto di vista
filosofico → secondo l’empirismo inglese la conoscenza è il risultato dell'esperienza (primo
principio) e dei sensi (secondo principio). Sul primo principio sono sempre stati tutti concordi,
sul secondo non tanto → dipende dalle varie correnti filosofiche.
Apprendimento dall’esperienza → bisogna resistere alla tentazione di buttare fuori gli aspetti
dolorosi dell'esperienza → per l’allievo ciò è possibile solo se il docente ne crea le condizioni
tollerando per primo la sofferenza emotiva implica nel processo di conoscenza.
Apprendimento dall’esperienza → apprendimento emancipativo orientato al cambiamento → fa
evolvere l’allievo sul piano dell’indipendenza emotiva verso l’individuazione fino a raggiungere
l’autonomia → capacità critiche.
Nietzsche → “ripaga male il maestro chi resta sempre suo discepolo”
12. Scissione tra cultura emozionale e cultura intellettuale → istruzione scolastica privilegia la
conoscenza come fatto intellettuale/cognitivo e trascura la dimensione emozionale e
relazionale concomitante al lavoro scolastico. La scuola, privilegiando gli aspetti intellettuali si
occupa dell'allievo “dal collo in su”, come se fosse una testa vagante. Scissione
emozioni/intelletto → si perpetua perché
1) gli insegnanti non sono consapevoli della sua incidenza nel favorire l’apprendimento e
nell’ostacolarlo;
2) gli insegnanti non sono preparati a gestire questi aspetti e nessuno glielo insegna. La
formazione degli insegnanti dovrebbe muoversi in questa direzione e non in corsi di
aggiornamento che riproducono la scissione nel privilegiare un apprendimento solo
intellettuale.
Scissione emozioni/intelletto → equivale a una madre che svolge il suo compito dando solo da
mangiare al bambino senza preoccuparsi della sua relazione e di lui come persona.
13. Conoscenza “di” qualcosa e “da” qualcosa → distinzione tra acquisizione di conoscenza e
dominio di una conoscenza.
a. Acquisizione di conoscenza → esterna. Volta al controllo del mondo esterno. Coinvolge solo
esteriormente sul piano cognitivo e non promuove modificazione.
b. Dominio di una conoscenza → collegata all’esperienza e volta al cambiamento. Volta alla
comprensione del mondo esterno. Fa crescere.
Conoscenza “da” qualcosa (b) → risultato della modulazione del dolore.
Conoscenza “di” qualcosa (a) → nasce per evitare l’esperienza del dolore.
Apprendere non è solo acquisire i contenuti culturali ma conoscere il mondo e mantenere il
contatto con le risonanze emotive conseguenti.
Processo di apprendimento → NON è importante aumentare la quantità di informazioni ma la
disponibilità ad apprendere, cioè lo spazio mentale disponibile a ricevere nuovi dati e nuove
esperienze.
Apprendimento riuscito → quando è aumentata la capacità di ricevere nuove conoscenze.
NON fatto quantitativo ma qualitativo.
Apprendimento autentico → comporta un cambiamento mentale nel modo di essere.
Teoria psicanalitica dell’apprendimento → finalizzata a far progredire il livello di maturità e di
salute psichica dell'intera popolazione.

La mente dell’insegnante come strumento di lavoro


Rapporto docente-allievo → alunno impara a pensare → sviluppa una mente capace di
riflettere anche sugli aspetti più confusi e difficili della propria esperienza.
Kant → “da me non imparerete a ripetere pensieri, ma a pensare”. Valenza terapeutica della
relazione docente-allievo → offrire un luogo dove l’alunno possa accettare le esperienze
emotive dell’apprendimento.
Relazioni che aiutano il bambino a bonificare il rapporto con il sapere → creano nuove
possibilità di apprendimento e di successo scolastico.
Cosa c’è in gioco → capacità tecnico-professionali dell’insegnante e le capacità intellettuali
dell’allievo + la mente dell’insegnante e la mente dell’allievo → insieme di fattori cognitivi e
affettivi. La mente di chi insegna → principale strumento di lavoro → dev’essere il più possibile
funzionante → non si parla di fattori inerenti all’intelligenza e alla preparazione ma all’interiorità
della mente.
Capacità tecnico-professionali dell’insegnante → non più sufficienti. Occorrono anche le
capacità relazionali → devono essere considerate capacità obbligatorie e necessarie a tutti
coloro che hanno a che fare con persone e hanno responsabilità sociali.
Capacità relazionali → sono da sviluppare e approfondire → obiettivo: promuovere lo sviluppo
della mente dell’insegnante → crescita e consapevolezza dei sentimenti, degli affetti nel lavoro
e nella relazione con i singoli allievi, con il gruppo classe, con i colleghi, con l’autorità
istituzionale e con l’istituzione scolastica. Come raggiungere quest’obiettivo → bisogna
sviluppare la funzione psicoanalitica della mente.

Funzione psicoanalitica della mente


Mente → funzione di ascolto, di pensiero e di consapevolezza di quel che prova l’altro e di quel
che proviamo noi nel rapporto con l’altro → potenzialità della nostra mente già presente ma da
sviluppare.
Psicoanalisi → modalità di pensiero -- modo di entrare in una relazione mentale con l’alto e
con se stessi.
Funzione psicoanalitica della mente → capacità di pensare, riflettere osservare, ragionare e
ascoltare → adeguata a un lavoro educativo → deve quindi essere propria dell'insegnante e
non ne si può fare a meno.
Apprendimento promosso dall’attivazione della funzione psicoanalitica della mente è autentico
e originale e non è imitazione di modelli proposti dall’altro.
Hautmann → attivazione di questo tipo di pensiero è possibile solo nella situazione del
seminario di formazione, in cui si lavora sui casi concreti.
Adozione di una sensibilità psicoanalitica → avere un atteggiamento conoscitivo e
professionale umile e improntato alla ricerca → sforzo continuo di comprensione e riflessione
su quello che si sente.
Cosa dovrebbe fare l’insegnante → predisporre uno spazio mentale nel quale gli allievi
possono accettare e digerire le esperienze emotive connesse all’apprendimento. L’insegnante
deve fare l’insegnante ma deve anche sviluppare una certa funzione psicologica → si tratta di
un dovere etico.

Etica e insegnamento
Apprendimento e conoscenza volti alla comprensione → mira a conoscere l’oggetto di ricerca,
rispettandolo e conservandolo integro → viene prodotto sapere autentico e si inducono
mutamenti nel soggetto che apprende e nel soggetto che insegna → chi apprende è obbligato
a mettersi a confronto con l’altro.
Apprendimento e conoscenza volti al controllo→ strumentalizza l’oggetto di ricerca, non
produce né cambiamenti né apprendimento ma solo una sottomissione dell’oggetto posto al
servizio di qualcuno. NON è possibile conoscere senza amore → solo amore e attenzione nei
confronti del soggetto permettono di conoscerlo → ricerca scientifica è tale quando lo
scienziato prova realmente amore per l’oggetto del proprio studio.
Essenza dell’etica → Apprendimento dall’esperienza che coinvolge le dimensioni emotivo-
affettive → ha come risultato una dimensione etica.
Atteggiamento etico → atteggiamento di moralità interiore → nasce dall’adesione a norme che
nascono all’interno della mente → connesse direttamente al problema della responsabilità.
Condotta etica → determinata da norme interne che si generano della mente a partire
dall’esperienza.
Levinas → non è l’etica che dipende dalla religione ma la religione dall’etica → non si ha un
atteggiamento etico per via della religione (legge trascendente) ma avere un atteggiamento
etico porta come conseguenza il mettersi di fronte al mondo con un atteggiamento religioso.
Atteggiamento etico → si acquisisce solo quando i conflitti interni sono risolti → bisogna
sapere però che in tutti gli uomini ci sono dei lati cattivi, malati, crudeli e bugiardi → queste
parti non vanno scisse ma riconosciute e pensate.
Scuola → luogo deputato ad apprendere → insegnamento è un servizio svolto nei confronti di
chi apprende (allievo) → l’insegnante è invitato a porgersi nei confronti dell’allievo con un
atteggiamento etico → modo di lavorare volto a cercare di capire le risonanze emotive presenti
nell’allievo, come egli vive e sente ciò che impara e a come vive la sua partecipazione a un
gruppo di lavoro (classe).
Atteggiamento etico dell’insegnante → modo di lavorare volto NON a manipolare/modificare
l'alunno ma a rispettarlo per quello che è, per come apprende, pensa e sente.
Mancanza di disciplina → maggiore fonte di ansia nelle classi → allievi sentono che le forze
distruttive non sono contenute e ne sono spaventati, quindi diventano più aggressivi. Es.
negativo è “L’attimo fuggente” perché il docente vuole plasmare l’allievo (l’insegnate non deve
adattare a se l’allievo ma adattare se all’allievo).
O un insegnante è etico o NON è un insegnante.

Annotazioni conclusive
Necessario formare gli insegnanti: attuali modalità di formazione → obsolete e insoddisfacenti.
Freud → credeva ci fossero 3 operazioni impossibili da svolgere:
1) educare
2)governare
3)psicoanalizzare → parallelismo tra funzione clinica, la funzione educativa e la funzione di
comando → le indicazioni alla pratica educativa possono arrivare al lavoro clinico e l’attività
educativa ha qualcosa di simile a quella di comando. Attività di governo/ educative se ben
espletate implicano valenze terapeutiche → sviluppano e accrescono le parti sane della
mente.
Nell’educare si sbaglia sempre → non esiste l’insegnante perfetto. L’insegnante quasi buono
sbaglia ma è in grado di imparare dai propri errori e correggersi.
Funzione dell’insegnante → NON trasmettere, modificare o immettere qualcosa
(atteggiamento manipolatorio e aggressivo) ma accompagnare l’allievo al sapere →
predisporre le condizioni in cui si realizzi un apprendimento.
Ruolo educativo → aiuto, assistenza, accompagnamento simile al ruolo di medico, infermiere e
psicoterapeuta.
Plotino → “L'insegnamento giunge solo a indicare la via e il viaggio; ma la visione sarà di colui
che avrà voluto vedere”.
Gibran → “Nessuno può insegnarvi nulla, se non ciò che in dormiveglia giace nell'alba della
vostra coscienza. Il maestro che cammina all'ombra del tempio, tra discepoli, non dà la sua
scienza, ma il suo amore e la sua fede. E se egli è saggio non vi invita ad entrare nella casa
della sua scienza, ma vi conduce alla soglia della vostra mente”
CAPITOLO 2
IL RAPPORTO MADRE-BAMBINO COME PRIMA ESPERIENZA DI APPRENDIMENTO

L’apprendimento nella scuola


APPRENDIMENTO: normalmente riferito ad acquisizione di conoscente sul piano intellettuale
(come un fatto razionale e consapevole con accento sugli aspetti metodologici e strategici
esterni).
La scuola segue 2 approcci:
TEORIA COMPORTAMENTISTA: uno stimolo sensoriale modulato correttamente produce
automaticamente nuova conoscenza (visione meccanicistica)
TEORIA COGNITIVISTA: allievo ha modello interno di conoscenza, cioè insieme di funzioni
cognitive che elaborano le informazioni e le trasformano in concetti e nozioni. (Migliore del
precedente perché qui soggetto è attivo e co-costruttore delle proprie conoscenze]. Tuttavia,
continua a mancare aspetto affettivo – emotivo, spesso inconsapevole implicato nel processo
di apprendimento.
A causa della difficoltà di confrontarsi con l’individualità di ogni allievo, che comporta desideri,
fantasie, idee, paure, vissuti emotivamente carichi e poco controllabili (quindi ansiogeni), nella
maggior parte dei casi scuola considera solo aspetti razionali e logici, maggiormente
consapevoli e prevedibili, per cui LA MENTE è DEPURATA DALLA DIMENSIONE
AFFETTIVA. La scuola «spesso non riesce ad assicurare che le informazioni vengano
assimilate e utilizzate per risolvere i problemi di relazione con la realtà»
Difficoltà di instaurare relazione reciproca docente-allievo a causa di personalità problematiche
e vissuti di ansia, rabbia, dolore; impossibilità a progredire nello studio → conseguenze
concrete come fallimento scolastico o casi disadattamento scolastico: fattori emotivi sono
ostacolo a funzioni cognitive.
TEORIA PSICOANALITICA (KLEIN): apprendimento è processo sia intellettuale e neuronale,
sia emozionale, esperienze d’incontro tra realtà esterna e interna che supera/accantona
concezione esclusivamente intellettualistica.
La psicoanalisi ci aiuta a capire quali sono gli aspetti che ostacolano la crescita e
l’apprendimento. La teoria di occupa delle interazioni e delle relazioni umane.
Nell’apprendimento non vi è separazione/netto confine tra sentimenti,
rappresentazioni/astrazione ed emozioni/sentimenti
L’ oggetto reale è sempre diverso da oggetto appreso: obiettività è concetto solo ideale. Il
passaggio da elementi-stimoli sensoriali a rappresentazioni mentali NON è atto MECCANICO
MA DINAMICO: mente non è apparecchio fotoriproduttore (Imbasciati,1991).
La rappresentazione di oggetto esterno = emozioni x info sensoriali x precedenti
rappresentazioni mentali = realtà psichica rispecchia mondo interno di ciascuno.
Klein studia i disegni dei bambini in cui emergono immagini terrifiche e paurose molto lontane
dalla realtà ma che influenzavano il rapporto soggetto-realtà esterna (9iangoscia, attività
bloccate, no apprendimento, no esplorazione ambiente). L’originalità della lettura kleniana sta
nell’ accettare immagini (non ricercarne la veridicità) e significati. Ella definisce queste
immagini oggetti Interni: percezione di realtà organizzata in immagini mnestiche interne, ma
differenti da oggetti reali. Bambino proietta (identificazione proiettiva) su oggetto esterno
emozioni e sentimenti, lo modifica e lo introietta modificato (id. introiettiva): gli oggetti interni
hanno natura sia affettiva sia cognitiva.
Mente = struttura globale complessa (il Sé) di processi non esclusivamente consapevoli,
attraverso cui il soggetto si relaziona con la realtà e che si sviluppa «articolando le […]
modalità di adattamento alla realtà».
I docenti abituati a leggere aspetti consapevoli e razionali dell’allievo, a discapito di vissuti più
profondi. Manca formazione / lettura diversa per comprendere la mente dello studente.
L’apprendimento come esperienza emotiva
APPRENDIMENTO COME ESPERIENZA EMOTIVA: la sofferenza e il dolore sono al centro
dell’apprendimento.
Bion → La capacità di pensare e conoscere dipende dalla possibilità/capacità di modulare il
dolore mentale. L’apprendimento per essere davvero significativo non deve evitare questo
dolore mentale.

Il rapporto madre-bambino
RELAZIONE MADRE-BAMBINO: costituisce la prima esperienza relazionale e prototipo del
modo di conoscere e rappresentare il mondo che il soggetto userà nella vita: è un legame
fisico e psichico che determina aspetti cognitivi e affettivi.
Klein (1935): il neonato, attraverso l’esperienza dell’alimentazione, vive esperienze che
elicitano fantasie inconsce connotate emotivamente. Questa è un’occasione primaria di dare
un significato psichico all’interazione con la realtà esterna (avendo la md come primo
referente). Il contenuto emotivo e di queste prime rappresentazioni inconsce è connesso ai
sentimenti di rabbia e invidia relati alla dipendenza (d)al seno come primo oggetto (non
sempre disponibile e presente), la reazione del bambinno è quella di proiettare sulla madre
(cioè fuori di sé) fantasie e sentimenti distruttivi.
Bion (1962): ipotizza l’esistenza di un apparato inizialmente deputato a registrare le
impressioni sensoriali derivanti dall’apparato digerente che poi evolverebbe nelle fasi di
sviluppo in un apparato per pensare. Il latte come nutrimento (sperimentare benessere se
presente o malessere se assente) → buona esperienza di allattamento implica esperienza di
benessere non solo fisico ma anche psichico [in questa esperienza alimentare-relazionale
primaria possono essere coinvolti anche processi emotivi (rabbia, paura) connessi a pulsioni
distruttive innate]
IL PRIMO ABBOZZO DEL SISTEMA PSICHICO è CONCEPIBILE NEI TERMINI DI UN
SISTEMA ALIMENTARE CONNOTATO DALLA SITUAZIONE EMOTIVA DELLA MADRE E
DEL BAMBINO.
Digerire-metabolizzare fatti, avere idee disgustose, assorbire conoscenza, tutte metafore
connesse a processo di alimentazione, sperimentato fin dalla nascita.
Una madre BUONA fornisce al bambino il nutrimento e soddisfa i bisogni materiali ma anche i
bisogni affettivi (la capacità di apprendere dipende dalla capacità della md di soddisfare il
bisogno di relazione), accetta i sentimenti intollerabili del bambino riconoscendogli una forma
di soggettività, diventa contenitore di significati e vissuti (anche dolorosi) dell’altro, contiene
l’angoscia del bambino e funge da supporto mentale, fornendogli una risposta bonificata
dell’angoscia degli eventi esterni (holding) (Winnicot). Soprattutto non proietta sul bambino i
propri vissuti d’inadeguatezza (Bion). Offre al bambino una mente capace di contenere
esigenze e fornire sostegno → Bambino interiorizza una mente capace di contenere e
affrontare con il pensiero eventuali crisi.
Relazione madre-bambino simile a successiva relazione insegnate-alunno: un soggetto
fornisce latte (conoscenza), l’altro non ne ha, ma ne necessita con la differenza che impegno
materno è avvertito come compito-ruolo che non colmerà mai richieste del figlio, il quale è in
condizione di completa dipendenza.
Il buon insegnante allora insegna a leggere, scrivere, contare facendo anche attenzione al
modo in cui l’allievo vive i rapporti e al suo mondo relazionale (attenzione al processo e non
solo al contenuto d apprendimento).

Lo sviluppo cognitivo come crescita emotiva


SVILUPPO COGNITIVO del bambino dipende quindi dalla qualità dell’incontro tra le emozioni
sue con quelle della madre. Mentre l’adulto vive sentimenti di pena che sfociano in angoscia
se non si vedono soluzioni, per bambino sono talmente catastrofici da essere vissuti come
mortiferi, poiché la sua mente non possiede ancora la «categoria» tempo (2 minuti = eternità).
La sua mente primitiva non si relaziona con benessere e/o malessere di altri; vorrebbe-vuole
avere subito tutto per sé. Tuttavia, egli sperimenta che da solo non può evitare stato di bisogno
o fuggire sensazione di mancanza o dipendenza di altro da sé → sorgono invidia, rabbia, odio
mirati a distruggere ciò che non lo soddisfa istantaneamente.
INVIDIA: forte angoscia distruttiva verso oggetto materno (seno), che causa pena.
Identificazione proiettiva (Klein): Bambino espelle parti brutte e negative del sé su oggetto
buono, che diventa nella mente oggetto invidioso, attaccante e attaccabile. E’ una reazione
primitiva distruttiva per non essere onnipotente e autonomo: quando oggetto può aiutare, ma
non è momentaneamente accessibile, nasce istinto di depredarlo di tutte le cose buone (es.
seno materno fonte di vita e gratificante, ma non appartiene a bambino, bensì a mondo
esterno). Il bambino oscilla tra due poli di esperienze (distruzione-sofferenza vs accudimento-
appagamento) che si legano a dati sensoriali e tracce mnestiche. Seno buono → bisogno
tollerato, esperienza positiva; seno cattivo → prevalgono attacchi distruttivi e invidiosi.
Questo rappresenta il primo dilemma per il bambino che deve distinguere, nella stessa
configurazione mentale o aggregato di ricordi, tra buono e cattivo (Imbasciati,1991) → inizia a
costruire il suo Sé. Egli non è in grado di distinguere tra realtà e immaginazione, tra vero e
falso e necessita dell’accompagnamento della madre. → molte perversioni da adulti derivano
proprio da una difficoltà primordiale di distinguere il bene dal male.
Primo tentativo --> mente bambino attribuisce buono a sé e cattivo a esterno = tentativo
inconscio di proteggere e tutelare il Sé (Klein, 1935), ma non è operazione mentale perché non
discrimina vero-falso. Il vantaggio è che il bambino evacua parti cattive su mamma per
proteggere quelle buone e fragili → riappropriazione è successiva, attraverso identificazione
introiettiva di parti bonificate e contenute nella mamma. Operazioni durano tutta la vita. Lo
svantaggio invece è che se l’evacuazione di parti cattive verso oggetto è troppo massiccia,
identificazione proiettiva diventa processo mentale destrutturante → provare angosce
persecutorie legate a paura di essere attaccati da parti odiate e scisse del Sé, incorporate
nell’oggetto.
Se la madre è una BUONA madre, il bambino avrà maggior fiducia in aspetti interni buoni →
accetterà nella mente coesistenza oggetti buoni-cattivi = elementi appartenenti-costitutivi il Sé.
Tollererà aspetti negativi del Sé = avrà meno timore → minor ricorso a identificazione
proiettiva. Progressivamente → capire che attributi dell’oggetto esterno sono in realtà propri
atteggiamenti e che esperienze buone sono create nel rapporto con madre (sentimenti = ruolo
fondamentale).

Il caso di Angela
FASI DEL BAMBINO:
- Schizoparanoide: vivere angosce persecutorie, oggetto è vendicativo e attaccante.
- Depressiva: bambino riconosce propria distruttività < senso di colpa per danni a oggetto
amato; paura di avere rappresentazioni interne rovinate e generare pensieri malevoli. Segue
una fase psichica conflittuale di elaborazione del senso di colpa e nasce aspetto riparativo
(proteggere oggetto verso cui si prova distruttività)
- Riparazione: tollerare che oggetto amato = oggetto odiato → costruire esperienza
relazionale. Premessa per formare immagine integrata e significativa → Struttura più matura,
doppia valenza, affettiva e cognitiva (es.rabbia segnala aspetto insoddisfacente, ma non
etichetterà madre come persecutrice).

L’apprendimento dall’esperienza
L’ottica psicoanalitica ha scoperto quindi che:
- APPRENDIMENTO → Fattori emotivi + conoscenza → non negare sentimenti negativi, ma
accettarli e riconoscerli: operazioni mentali intrecciate a vissuti personali.
- APPRENDIMENTO DALL’ESPERIENZA è significativo perché comporta la soluzione di un
problema, ma permette anche di imparare come tale problema è stato risolto. Vuol dire che la
conoscenza è il risultato di un travaglio interiore in cui è presente un oggetto buono che
permette di mettere ordine nei dati oggettivi che derivano dall’esperienza stessa. Questo
oggetto buono, che è l’apparato mentale, è in grado di contenere la confusione e il sentimento
di persecuzione che ne deriva» → Resistere alla tentazione di buttare fuori dalla propria mente
(evacuare) gli aspetti dolorosi dell’esperienza < Docente che crea le condizioni affinché ciò
non avvenga (insegnante che per primo dimostra di poter tollerare la sofferenza emotiva
implicita nel processo di apprendimento) → APPRENDIMENTO EMANCIPATIVO (autonomia
separazione/individuazione).
Bion: posso imparare dall’esperienza ma non apprendere → elaborazione personale e
soggettiva di info sensoriali ed emotive verso l’oggetto. La mente non è macchina fotografica,
non riproduce esattamente realtà: Gli input esperienziali non sono utilizzabili direttamente:
devono essere integrati ed elaborati da attività mentale per divenire significati mentalizzabili e
quindi pensabili. Questo processo non è così semplice perché è difficoltoso accettare nella
nostra mente qualcosa di ignoto con la sua incertezza.
Wittenberg: Soggetto non ha sicurezza che proprie risorse siano sufficienti: separarsi da
vecchie certezze implica sofferenza psichica di incertezza e come la mente affronta questo
dolore influenza capacità soggetto di fronteggiare spazi e luoghi nuovi-ignoti-diversi → arrivare
a contesti più adeguati richiede sofferenza-disagio: spesso vissuto terrorizzante. L’
apprendimento richiede anche una riorganizzazione dell’ assetto mentale per assimilare il
nuovo sapere → occorre tempo X di sperimentazione e riconfigurazione personale per
tollerare frustrazione (conoscenza-esperienza precedenti vengono modificate).
La scuola può lavorare in questo senso?
- Si → emerge cultura (emozionale) che favorisce cambiamento realtà interna verso nuove
modalità di pensiero e vicinanza a sfera affettiva-esperienziale intima.
- No → emerge cultura (intellettuale) che assicura pezzi sganciati di sapere predeterminato e
arricchimento nozionistico; bocca piena, ma mente non sazia.
Bion: sapere nozionistico è scisso dal Sé < la paura inconscia di provare sentimenti distruttivi
(invidia, odio, rabbia), così angosciosi inibisce nuove esperienze di conoscenza, vissute come
situazione cattive di inadeguatezza e mancanza < cancellazione coinvolgimento emotivo e
quindi della curiosità, tendenza al sapere e speranza di cambiare.
Scissione tra elementi cognitivi e affettivi (Richardson,1967) → perdere contatto con il Sé e
con gli altri < emergere di una mente anestetizzata in cui il compromesso è un assetto
finalizzato a buoni-ottimi risultati scolastici, evitare complicanze emotive e ottenere
gratificazioni narcisistiche (NON c’è un VERO APPRENDIMENTO).
AVIDITA’ (Bion): conseguenza che evade-elude sofferenza psichica, sostituendovi
soddisfacimento materiale → avidità incontrollata (allievo che dimentica tutto dopo un esame o
guarda sempre gli appunti perché non si fida del suo sapere).
Conoscenza realmente trasformativa = soggetto mantiene sentimenti ed emozioni che
connotano ogni incontro con realtà non ancora esplorata.
Competenza = sia patrimonio di strategie, nozioni e concetti che alunno usa per risolvere
problemi e cercare soluzioni, sia allenamento a dialogare con se stessi (attività mentali,
processi di apprendimento, elaborazione di esperienze, …); garanzia di avvicinarsi a oggetto
senza snaturarlo per non separarsi da altro da me.
CAPITOLO 3
I PROCESSI DI APPRENDIMENTO-INSEGNAMENTO

La relazione docente-allievo
Ogni atto di pensiero e conoscenza → mantiene una dimensione relazionale. Processo di
crescita cognitiva → incrementato dalla relazione con una persona attenta a cogliere le
emozioni implicate nei processi di apprendimento → tra queste emozioni vi è anche il disagio
psichico.
Questa persona con funzione di accompagnatore della crescita cognitiva → in grado di fare
distinzioni tra sentimenti e vissuti e che sa dare loro un nome → nome = significato pensabile.
Rapporto madre-bambino → rapporto di apprendimento-insegnamento per eccellenza → il
soggetto piccolo impara a interagire con la realtà → la madre deve tollerare le richieste e i
sentimenti distruttivi del bambino per poter svolgere là sia funzione genitoriale di cura fisica e
psichica.
Funzione docente → evoca la funzione genitoriale di contenimento e mentalizzazione degli
aspetti difficili dell’esperienza di apprendimento. Funzione docente → funzione di pensiero →
ha a che fare con competenze disciplinari e didattiche + deve saper cogliere le emozioni i
vissuti e i sentimenti di chi apprende → è necessario conoscere l’allievo per realizzare
esperienze di apprendimento.
Vertice psicoanalitico → conoscenza riguarda dati relativi al mondo interno dell’allievo →
l’insegnante può conoscerlo attraverso i sentimenti e le emozioni → è richiesta all’insegnante
una professionalità più completa → deve saper gestire le dinamiche relazionali
dell'apprendimento.
Insegnante → deve tollerare come propri i vissuti che l'allievo evoca dentro di lui quando
agisce sotto forma di comportamenti aggressivi e di rifiuto al compito o di ribellione alle regole
o ancora con atteggiamenti di ritiro in se stesso.
Insegnanti → corsi di formazione per comprendere che la relazione con gli allievi non è solo
intellettuale ma anche emozionale → vi sono stati infantili nella mente che hanno a che fare
con la sofferenza psichica connessa a ogni incontro con un oggetto diverso da sé → elementi
psichici primari che vengono raccolti e pensati anche dalla mente adulta.
Rapporto madre-bambino → può aiutare gli insegnanti → bisogna dare attenzioni all’allievo e
ai suoi bisogni nella realizzazione di un progetto culturale che lo lega all'insegnante e ai suoi
compagni → legame che va elaborato tenendo in conto la sofferenza psichica che lega l’allievo
al possesso di nuove conoscenze → paura di sbagliare, di non essere adeguato, là rabbia
verso situazioni disagevoli, la frustrazione dopo l'insuccesso.
L'insegnante → si trova a sperimentare se stesso come inadeguato al compito o incerto e
confuso sul da farsi.
Contenuti mentali bonificati → ripresi dalla mente dell'allievo e utilizzati come pensieri nuovi e
strumenti di consapevolezza delle proprie azioni → si traducono in un migliore adattamento al
mondo esterno → l’allievo acquisisce abilità per la risoluzione dei problemi e apprende
qualcosa sulle modalità di pensiero utilizzate per risolverli.
Crescita = poter contare sulle proprie risorse di fronte alle incognite che presenta un nuovo
problema → il compito di nutrice culturale dell’insegnante testimonia che vi è la possibilità di
occuparsi di qualcosa anche se ci è ignoto e ci spaventa.
Mente del docente → può aiutare l’allievo a riconoscere un percorso di apprendimento →
allievo può accettare la sofferenza di non essere onnipotenti e onniscienti.
Manifestazioni emotive → gli insegnanti sostengono che è spesso necessario prescindere da
esse per poter assicurare condizioni che proteggano l'impegno dell’apprendimento da
comportamenti indisciplinati e aggressivi → che rischiano di rallentare il lavoro della classe.
Atteggiamenti censori → 1) rispondono alla difficoltà dell’insegnante di contenere il proprio
disagio emotivo; 2) condannano l’allievo a una logica circolare dell’insuccesso.
→ Gli Insegnanti devono essere fermi ma comprensivi.
Poter identificarsi con insegnante quale essere che comprende le fantasie e le ansie implicate
in una relazione di apprendimento → sostiene gli aspetti della personalità dell’allievo aperti al
nuovo e interessati all’apprendimento di cose nuove.
Rapporto docente-allievo → ambito in cui l’alunno impara a pensare e riflettere sugli aspetti più
confusi e difficili della propria esperienza. Rapporto docente-allievo → valenza terapeutica →
aiuto per bonificare il rapporto dell’allievo con il sapere → nuove possibilità di apprendimento
→ dimensione più autentica del lavoro dell’insegnante → incoraggiare i processi di
conoscenza ponendosi come persona che aiuta l’allievo a modulare il disagio cognitivo →
secondo la teoria psicoanalitica.

La difficoltà ad apprendere
Secondo la teoria psicoanalitica: la difficoltà ad apprendere è legata a fattori razionali → non
solo a situazioni di handicap da patologie organiche ma riguarda anche bambini emotivamente
disturbati → riversano nella scuola il loro disagio → di chiudono in loro stessi o assumono
comportamenti aggressivi che mettono gli insegnanti nell'impossibilità di svolgere il suo
compito pedagogico-didattico.
Gli insegnanti pensano di non essere in grado di aiutare questi allievi → comportamenti
aggressivi e gli atteggiamenti di chiusura rendono il docente ansioso.
Fantasie e vissuti inconsci che si organizzano nella realtà interna del soggetti a partire dalle
prime relazioni con figure genitoriali → influiscono sulla struttura dell’Io e sulle possibilità di
apprendere dall’esperienza.
Klein: se nel bambino piccolo prevalgono vissuti di invidia odio e intolleranza alla frustrazione
→ non c’è possibilità di vedere emergere sentimenti di amore e riconoscenza per la figura
materna → percepita in modo distorto.
Difficoltà per il bambino a tenere dentro di sé sentimenti opposti nella percezione dell’altro→
ostacolano la possibilità di cogliere un’immagine realistica della madre.
Sviluppo di un patrimonio cognitivo: dipende da quanto il soggetto riesce a integrare gli aspetti
opposti della sua personalità → bilanciare sentimenti e percezioni negative della realtà con
vissuti di fiducia e speranza nelle risorse esterne e interne:
- se va a buon fine questa operazione → l’apparato mentale mitigherà e conterrà i vissuti di
invidia aggressività e onnipotenza.
- se tale operazione ha cattivo esito → i vissuti di invidia aggressività e onnipotenza
soffocheranno la speranza di trovare dentro di sé uno spazio per poter apprendere
dall’esperienza. I vissuti di invidia, odio e rivalità → quando raggiungono una certa violenza
nel mondo interno → evocano distruttività e depressione → ostacoli ai processi di pensiero e di
apprendimento vengono potenziati perché si cerca di allontanare la sofferenza fisica collegata
al nuovo sapere.
Difficoltà di apprendimento: incrementate dal prevalere di stati mentali primari → caratterizzati
da difficoltà a tollerare il disagio legato alla conoscenza.
Quando sono preponderanti gli aspetti psichici infantili → si produrrà ansia persecutoria,
disperazione e odio.
Nella mente più disposta a tollerare la sofferenza psichica → i sentimenti negativi NON
dominano le parti più adulte e costruttive della persona → ma possono generare amore e
speranza.
Mente che funziona in modo molto proiettivo → indebolisce le potenzialità cognitive e crea un
disturbo relazionale → spazio relazionale dell’allievo è come invaso da sentimenti distruttivi →
egli non è consapevole di averli generati.
Difficoltà di apprendimento → uso di sentimenti distruttivi che la mente non è in grado di
metabolizzare → mente è troppo impegnata a proteggersi da un pericolo esterno ed interno
autoprodotto → riduce la propria disponibilità ad apprendere.
Disturbo relazionale → docente che richiama l’allievo non considera che la mente di questi è
già occupata a fronteggiare la propria sofferenza da non avere spazio per altro → quindi
l’allievo risponde negativamente → l'insegnante si sente rifiutato.
Attitudini del soggetto → prigioniere di vissuti invidiosi e distruttivi → non possono migliorare
attraverso la relazione costruttiva con gli insegnanti → legame che separa l’allievo dal
maestro/sapere viene vissuto come immodificabile → grande sfiducia → il maestro è vissuto
come colui che umilia l’allievo e lo condanna a una situazione di disagio e inadeguatezza → ne
risente il rendimento scolastico anche se si è in presenza di buone capacità intellettuali → gli
insegnanti dichiarano di non essere in grado di agire e interagire con queste difficoltà di
apprendimento.

Alcuni esempi
Andrea: otto anni, non accettava correzioni dell’insegnante → le cancellava con il bianchetto
→ se l’insegnante gli faceva notare il suo comportamento scorretto egli iniziava a cantare o
faceva gestacci → non voleva farsi sottomettere → arriva a minacciare compagni e maestri
che suo padre avrebbe creduto a lui → reattività del tutto ingiustificata → le insegnanti iniziano
a sospettare che i genitori di Andrea realmente condividessero con Andrea opinioni
squalificanti nei loro confronti.
Andrea spiega alla direttrice che non voleva che sul suo quaderno ci fossero correzioni perché
lui voleva fare tutto giusto → si nota che Andrea mostrava comportamenti disturbati quando
faceva esercizi che non gli riuscivano bene → viversi insicuro lo faceva sentire sopraffatto
dall’insegnante → insegnante vissuto come essere autoritario che voleva umiliarlo → disagio
di apprendimento divenne per Andrea qualcosa da buttar fuori con comportamenti che
ponevano gli insegnanti in difficoltà.
Situazione familiare di Andrea → mamma in ospedale per sospetto male incurabile e papà con
problemi di alcolismo e poca attenzione per la vita scolastica del figlio → figure genitoriali non
affidabili → ricovero della mamma poneva in crisi tutto il mondo interno del bambino → non
c’era più nessuno che potesse arginare i suoi aspetti fragili e infantili → problema esterno
sembra concretizzare il dubbio interno → assenza dentro di sé parti solide e costruttive in
grado di dare fiducia nei momenti di difficoltà.
Come mai il problema diventa cognitivo → il bambino non poteva contare su figure esterne o
interne negava ogni situazione di apprendimento per non confrontarsi con le sue parti più
piccole e fragili. Andrea chiedeva spesso chi comandava → drammatizzazione di un bisogno
interno → paura che nessun adulto fosse realmente forte. Una volta compresa la natura dei
problemi di Andrea, è stato possibile aiutarlo.
Alcuni allievi si rifugiano in uno spazio mentale intimo e segreto dove dominano modalità
onnipotenti → si presentano disciplinati e ordinati ma distanti e isolati. Docente → percepito
come figura interna persecutrice. Sperimentare in modo vivo l'apprendimento → genera
disagio → ci si deve confrontare con figure → l’allievo sceglie inconsciamente di cancellare
conoscenza e avere dei sentimenti → questo può sopprimere scambio spontaneo e affettivo
con l’insegnante e con il sapere stesso.
Difficoltà di apprendimento → hanno a che fare con il prevalere di percezioni negative →
potenziano aspetti di difesa e chiusura verso il nuovo → vissuto come ignoto e minaccioso.
Visione troppo persecutoria della realtà → rende rigidi i confini tra mondo esterno ed interno.
Difficoltà degli insegnanti → rimanere vicino a vissuti d'ansia e ad atteggiamenti di aggressività
→ senso di rifiuto che fa sentire gli insegnanti pieni di sfiducia nelle proprie capacità e di rabbia
per l'allievo → situazione molto lontana dal modello di insegnante.
Maestra → dovrebbe pensare la rabbia dell’allievo e restituirgliela in forma narrativa →
ponendo ordine tra i vissuti collegati → così la mente dell’allievo riparte a pensare → l’allievo
può acquistare fiducia.
Intervento dell'insegnante rispetto alle difficoltà conoscitive dell'allievo → insegnante come
madre del bambino → deve poter riconoscere stato d'animo e i bisogni dell’allievo ritrovandoli
nei comportamenti messi in atto nelle attività scolastiche → se si comprendono le dinamiche
emotive come inadeguatezza, rabbia, perdita e intolleranza alla frustrazione → le fantasie
persecutorie implicate nell’apprendimento sono meno complesse e opprimenti.
Comportamenti aggressivi, incapacità di concentrarsi, tentativi di evadere dal compito →
vanno pensati dalla mente dell’insegnante → così da poter condurre a comprendere che le
difficoltà di apprendimento dell’alunno sono difficoltà di relazione → esprimono vissuti di
inadeguatezza.
Relazione docente-allievo → diversa esperienza di funzione genitoriale → mediata dal compito
pedagogico-didattico. Insegnante → può aiutare l'alunno a pensare e differenziare le ansie→
delineando un percorso di apprendimenti più fecondo e personale.
L'alunno non va definito pigro o demotivato → bisogna riflettere sulle modalità con cui si
relaziona alle attività scolastiche → apparire svogliato e chiuso in sé stesso o aggressivo →
sono tutti diversi personali tentativi per risolvere il proprio disagio scolastico → tentativi
improduttivi.
NON basta essere un insegnante capace se nella relazione con l’allievo non sono presenti
capacità di accoglimento e risposta che possano trasformare in attività e pensiero le emozioni
più vive → bisogna fare attenzione agli aspetti fragili → l’espressione di questi aspetti aiuta
l’allievo a riprendere dentro di sé fantasie e vissuti negativi migliorati dal pensiero del docente
→ si pongono le basi per un apprendimento creativo perché è più attento al nuovo.
Questo tipo di ascolto da parte del docente sugli aspetti più primitivi delle sue relazioni di
apprendimento → faticoso per l'insegnante. Se le difficoltà di apprendimento sono lette come
disagio relazionale → vengono chiamati in causa l’insegnante e il suo approccio relazionale.
A volte gli insegnanti sembrano non avere fiducia nelle possibilità della propria mente di
reggere l’ansia dell’alunno per poterla pensare e restituirgliela resa meno pesante dalla propria
comprensione.
CAPITOLO 5
L’ALLIEVO

Il concetto del “Sè”


WINNICOTT afferma che il bambino non esiste al di fuori del rapporto con la madre; in
generale, al di fuori delle relazioni non esiste il Sé.
SÉ:
1) atteggiamento che ognuno ha nei confronti di se stesso;
2) insieme di processi psicologici che regolano la condotta e le modalità di adattamento di
ciascuno.
In generale, il termine indica l’individuo che si auto percepisce come nucleo permanente nel
corso di vari cambiamenti somatici e psichici. È un concetto fondamentale della ricerca
psicanalitica e indica il soggetto che fa esperienza di se stesso.
Psicanalisti principali che hanno usato il termine:
• KLEIN: Sé = personalità totale (Io + Es);
• REICH: il Sé si identifica con il carattere;
• HARTMANN: Sé = polo di investimento narcisistico;
• KOHUT: dice che il fine della psicanalisi è far acquisire nuove strutture del Sé;
• GEDO e GOLDBERG: “modello epigenetico di organizzazione del Sé”, che descrive le 5 fasi
in cui esso si sviluppa;
• GADDINI: Sé = prima espressione della vita psichica  processi mentali primitivi che
precedono il funzionamento dell’Io.
• WINNICOTT: il Sé non si sviluppa senza interazioni con l’ambiente e con la madre; se queste
mancano, si sviluppa un “falso Sé”, incapace di autonomia, che può essere fonte di gravi
disturbi della personalità. Ciò succede quando i bisogni del bambino non vengono soddisfatti
adeguatamente nel passaggio dal legame con la madre indifferenziato a quello differenziato.
Per costruire il vero Sé è necessario il distacco.
Il vero Sé è indispensabile per sviluppare una struttura psichica capace di meccanismi di
difesa; se è presente il falso Sé, si avrà un modo di difendersi malato.
Il falso Sé può caratterizzare anche una persona ben inserita nella società e di successo, ma
dominata da sentimenti di inadeguatezza, a volte così disperati da portare al suicidio.
Spesso, come afferma STERN, lo sviluppo di un falso Sé dipende da mancanza di empatia da
parte della madre.
Punto su cui tutti concordano: quando ci sono problemi nello sviluppo del Sé, insorgono
malattie mentali gravi, e succede quando il bambino è troppo stimolato e il Sé non è presente
di fronte a questa eccessiva stimolazione.
Compito educativo: trasmettere conoscenze, ma anche soddisfare tempestivamente i bisogni
degli allievi. L’insegnante svolge funzioni emotive di contenimento, cioè deve essere in grado
di elaborare e far elaborare le diverse emozioni, proprie e degli alunni; questo li aiuta a
solidificarsi nella propria identità e favorisce l’apprendimento.
Nel rapporto insegnante-‐allievi sono importanti i processi di identificazione, proiezione e
differenziazione. Identificazione e proiezione entrano in gioco anche nel rapporto lettore- ‐libro
o spettatore‐film; quindi anche letture, film, spettacoli ecc. sono importanti nel processo di
formazione del Sé.
Il Sé si sviluppa bene se la relazione educativa costituisce uno stimolo alla separazione e
all’autonomia  non bisogna proporre semplice imitazione o ripetizione.
Film a forte valenza psicologica: “Zelig” di Woody Allen, esempio di individuo totalmente privo
di identità propria, quindi di un falso Sé (il protagonista non sa fare altro che imitare gli altri per
sopravvivere).
Il falso Sé implica anche incapacità di fare tesoro delle esperienze per imparare qualcosa.
Nelle elementari
Processo di socializzazione = modo/luogo di elaborazione della presenza degli altri e della loro
cultura e quotidianità. Si realizza attraverso 3 fasi:
1) relazione diadica = esperienza del bambino con la madre, che gli garantisce la
sopravvivenza. Le sue gratificazioni sono alla base della sicurezza affettiva. Se in questa fase
non c’è fiducia, il bambino non può accettare il distacco dalla madre.
2) relazione triadica = rapportocon la figura paterna, oggetto di ntoconfroe competizione. Il
padre impone regole e limita l’onnipotenza del bambino. A questo livello nascono i sensi di
colpa.
3) relazione di gruppo = inizia con rapporti fraterni e continua con quelli ludici e scolastici. È
caratterizzata da competitività.
Quindi ,la socializzazione è l’interazione del bambino con l’ambiente; se è buona, tutti e due i
partner si educano a vicenda (es.: bambino e genitore, allievo e insegnante).
È fondamentale l’aiuto dei genitori per lo sviluppo corretto del bambino, il quale deve saper
affrontare qualcosa che prima non poteva affrontare da solo. Per lo sviluppo, poi, è necessaria
la disponibilità, prima dei genitori e successivamente degli insegnanti.
Il genitore deve avere capacità di accoglienza, fino a saper accogliere le parti cattive del
bambino e restituirle bonificate. Es.: per il neonato, la mamma che lo pulisce e lo cambia
svolge una funzione mentale‐relazionale, prima ancora che igienica, perché elimina i prodotti
di scarto del bambino, per il quale essi rappresentano il primo mezzo con cui tenta di liberare
corpo e mente da stimoli dolorosi.
Secondo lo studioso FOGLIA-BONDA, nello sviluppo del bambino ci sono:
1) fattori predisponenti (biologici, ambientali ecc.)
2) fattori precipitanti (= esperienze affettive positive o negative)
3) fattori di rinforzo (= esperienze di accettazione e rifiuto).
Dal modo in cui il bambino ha vissuto il rapporto con i genitori, dipende quello in cui vivrà il
rapporto con la scuola.
All’asilo nido e scuola materna, la maestra sostituisce la figura della madre (ecco perché
spesso, con un lapsus, i bambini la chiamano “mamma”), ma ha molti bambini da accudire, e
da questo derivano gelosia e rivalità.
La scuola elementare rappresenta un test su come il bambino è in grado di relazionarsi con gli
altri. Può provocare stati d’ansia, che non sono necessariamente negativi (come non è detto
che un bambino sempre ubbidiente e apparentemente ben inserito lo sia davvero; può aver
avuto un falso adattamento).
- Fino a 5 anni: il bambino patisce restrizioni e norme morali.
‐ A 5/6 anni: le restrizioni e le norme vengono introiettate; i conflitti non sono più esterni ma
interni, cioè tra sé e i bisogni che il bambino stesso si proibisce.
WINNICOTT dice che per un buono sviluppo del senso morale, i genitori devono lasciare che
si sviluppi da solo, perché la moralità vera nasce all’interno della mente, non viene imposta
dall’esterno. Inoltre il bambino seguirà le norme se c’è un buon rapporto con i genitori, non per
imposizioni autoritarie.
‐ A 7 anni: del mondo degli adulti, al bambino interessano il lavoro e il sesso. Per quanto
riguarda il lavoro, quello che si immagina per il suo futuro è limitato a ciò che conosce delle
persone a cui è legato, oppure deriva dal desiderio di autorità e potenza. Eventuali idee
sbagliate sul lavoro si possono correggere, invece quelle sul sesso possono durare tutta la
vita. Del sesso, i bambini vogliono sapere soprattutto come sono nati; il loro modo di vedere il
sesso dipenderà molto dall’atteggiamento dei genitori in questa fase. Per un bambino di
quest’età, è importante che il padre giochi o faccia sport con lui, così avrà l’idea di essere parte
del mondo degli adulti. In generale, i bambini a quest’età sono interessati ad attività di gruppo
e alla competizione, quindi è importante la compagnia di altri. Eventuali capricci vanno presi
seriamente, perché possono nascondere ansie o problemi.
- A 8 anni: bambino capace di autonomia e spesso desideroso di essere il più bravo a scuola
(per competizione). Spesso sa raggiungere obiettivi, ma non sa ancora capire quando ha
bisogno di aiuto. L’educatore deve modulare la relazione di aiuto, in modo da consentirgli di
trovare la soluzione da solo. Il bambino ha bisogno che genitori e insegnanti capiscano i suoi
sentimenti, ma non bisogna permettergli di inserirsi troppo nella vita dei genitori e fratelli, per
evitargli spinte intrusive e sensi di colpa. A quest’età, il bambino sa differenziare le varie
sensazioni fisiche. La sessualità è meno presente che nell’infanzia: maschi e femmine si
evitano per proteggersi da una spinta sessuale che la loro mente non sa ancora
affrontare. Il fatto di evitarsi favorisce anche lo sviluppo dell’identità sessuale mediante
identificazione con i compagni dello stesso sesso. A quest’età, ci sono molti casi di bambini
che si masturbano a scuola; gli insegnanti non devono reprimere questo comportamento, ma
capire quale ne sia la motivazione. Causa più frequente: gelosia per i piaceri proibiti di cui
godono gli adulti (e da cui i bambini si sentono esclusi) e conseguente senso di colpa per
questa gelosia.
- A 9 anni: il bambino pensa di saper già badare a se stesso, e questo può essere in parte
vero, ma il suo grado di autonomia dipende dal livello di introiezione della figura genitoriale (
se c’è un “genitore interno” che fa da guida, si può lasciare un po’ di libertà, se no il bambino
va ancora seguito attentamente). Impegno emotivo: essere presi in considerazione dai
genitori, e poi dagli insegnanti (a quest’età, il bambino sa distinguere le diverse funzioni degli
adulti).
- A 10 anni: il bambino non è più piccolo, attende di diventare grande e pone domande
impegnative, soprattutto sul sesso. La domanda “Da dove veniamo?” può essere anche solo
un modo per avere informazioni personali sui genitori, ma questo non deve essere permesso,
perché gli impulsi sessuali invadenti possono generare angoscia e sensi di colpa. Educazione
sessuale non va imposta, e alle domande sul sesso bisogna rispondere quando si presentano,
non “a comando”.
- A 11 anni: diminuzione della curiosità sessuale, perché a questo punto i bambini hanno già
conoscenza. La curiosità, però, si sposta sui ragazzi più grandi, soprattutto fratelli.

Nelle medie e superiori: aspetti psicologici dell’adolescenza


Adolescenza = fase transitoria tra infanzia ed età adulta; a differenza di esse, è un momento di
grandi mutamenti fisici, intellettuali e affettivi.
Prima adolescenza: abbandonati gli schemi di adattamento propri dell’infanzia, si
sperimentano nuovi modelli di comportamento per risolvere i propri problemi; questi servono a
rielaborare una nuova identità e un nuovo senso di sé. Nell’adolescenza, la persona è
orientata a conquistare uno stabile senso del Sé.
Conflitto tra stato di dipendenza e lotta per affrancarsene, quindi ci sono bisogni ancora di tipo
materno vs. scarsa sopportazione della protezione.
L’adolescente ha bisogno di essere guidato, ma nel senso che bisogna dargli consigli e
permettergli di discuterli e anche criticarli.
L’adolescente cerca al tempo stesso di entrare nel mondo adulto e di lasciare quello dei
bambini. Si muove nel mondo esterno attraverso nuove esperienze e va avanti nel suo
percorso di crescita attraverso rapporti sessuali, successi scolastici ecc., ma va anche indietro
(verso il mondo infantile) con speranze, sogni e interesse autentico per gli altri. Perciò si sente
confuso e cerca di separare il Sé adulto da quello bambino. Ciò che lo fa crescere e lo rende
emotivamente adulto ( capacità di provare sentimenti e di interessarsi agli altri) viene
percepito come una minaccia e una regressione all’infanzia, invece quello che percepisce
come positivo per diventare adulto (invidia, avidità ecc.) lo fa davvero regredire. Quindi spesso
un adolescente ha la sensazione che per crescere debba andare avanti senza pietà, invece
questo gli impedisce di diventare veramente adulto. Ecco perché spesso l’adolescente risulta
cinico: è una reazione a diverse disillusioni. Queste ultime riguardano soprattutto i genitori,
perché da bambino li ha idealizzati come onniscienti, ma ora scopre che non sono tali. Da ciò
derivano delusione e sensazione che il mondo degli adulti sia fatto di ipocriti, che hanno potere
e controllo delle cose e lo difendono a tutti i costi.
L’adolescente trova un gruppo di riferimento solo nella comunità dei pari, quindi, pur avendo
ancora bisogno degli adulti, è con i pari che affronta le sue ansie e paure.
MELTZER definisce gli adolescenti “costituzionalmente ribelli” perché, insieme ai loro pari, si
sentono isolati e in situazione di incomunicabilità sia con i bambini che con gli adulti. Per non
sentirsi isolati, gli adolescenti hanno vari modi (vestirsi tutti uguali, muoversi in gruppo ecc.);
questi sono anche modi per sottolineare il fatto che fanno parte di un gruppo specifico, che non
ha nulla a che fare né con adulti né con bambini. Un ragazzo che non fa parte di nessun
gruppo, quindi, va tenuto sotto controllo, perché non è un fatto normale.
Il tempo libero dalle attività scolastiche è importante perché è un modo per fare esperienze ed
è uno strumento di adattamento al mondo e di crescita psicofisica. Le attività scelte dagli
adolescenti per il tempo libero fanno capire molto sulla loro psicologia e sui loro bisogni. Es.:
per soddisfare il bisogno di libertà, possono scegliere di andare in motorino e praticare lo sci,
mentre gli sport di gruppo sono un modo per sfogare gli impulsi distruttivi in maniera
socialmente consentita; fare collezionismo risponde al bisogno di possesso ecc.
Le attività del tempo libero danno spesso anche modo di affrontare paure e dubbi su se stessi:
le paure principali sono quelle sulla sessualità, che si manifesta con dubbi legati a virilità e
femminilità.
La scelta dell’abbigliamento gioca un importante ruolo psicologico, perché scegliere un certo
abito vuol dire trovare un’identità, anche se solo esteriore. Passare il tempo davanti alla TV
indica un modo di evadere dalla realtà e sfuggire da essa; lo stesso vale per il tifo troppo
appassionato (l’identificazione con gli eroi del calcio, ad es., serve a evitare il confronto con la
realtà quotidiana).
Gli adolescenti, infine, possono manifestare anche interessi di ordine superiore, come musica,
lettura ecc., importanti perché realizzano un buon connubio tra fantasia e realtà, sviluppano la
creatività e sono un modo per entrare in contatto con le proprie emozioni.
Nell’adolescente cadono le certezze infantili e il soggetto si trova in condizione di relatività e
confusione; a volte questa confusione viene idealizzata e considerata positiva. Se essa viene
ratificata dagli adulti, può avere effetti disastrosi e implica una collusione da parte degli adulti
(in effetti, molti adulti sono rimasti all’età adolescenziale, e questo genera molti problemi
sociali).
PIAGET dice che nell’adolescente (tra gli 11 e i 15 anni) c’è una profonda evoluzione delle
strutture intellettive, e questo porta i ragazzi a interrogarsi sui grandi temi della vita.
L’adolescente si rende conto di saper manipolare non solo gli oggetti, ma anche le idee, e il
ragionare rappresenta sia un bisogno che un piacere.
Le difficoltà di apprendimento nascono già prima dell’adolescenza, ma spesso si manifestano
solo in questo periodo perché il ragazzo si trova ad affrontare programmi scolastici più
complessi, che richiedono facoltà intellettive più elevate. Queste difficoltà, inoltre, emergono
perché aumentano le tensioni istintuali.
La difficoltà ad accettare norme disciplinari e programmi scolastici può dipendere dal fatto che
il ragazzo li percepisce come qualcosa di non funzionale alla sua crescita, ma banale e
infantilizzante. Da ciò nasce l’atteggiamento contestativo tipico degli adolescenti, che hanno
bisogno di figure significative dal punto di vista educativo, e ne hanno bisogno per contrapporsi
a esse; fungono da termini di paragone su cui l’adolescente ragiona per esplorare le proprie
capacità di autonomia.
L’innamoramento per l’adolescente è un bisogno e serve per mettere bene in luce i tratti
maschili e femminili, oltre che come esperienza sessuale.
I mutamenti sessuali sono un trauma, perché implicano l’elaborazione di una nuova immagine
di sé. L’accendersi del desiderio sessuale fa tornare a galla le fantasie che si facevano da
bambini sui rapporti sessuali, soprattutto quelli fra genitori. Gli adolescenti sono affascinati e al
tempo stesso spaventati dalla sessualità, comunque è rassicurante farsi vedere in giro con
qualcuno dell’altro sesso, perché ciò prova:
- che si è desiderabili, quindi sessualmente adeguati,
- che si sono superate ansie e paure connesse agli approcci con gli sconosciuti.
Il vero problema dell’adolescente è separarsi dagli oggetti d’amore originari, cioè i genitori; la
scelta del partner è sempre legata alle figure genitoriali (il partner può essere come il genitore
dell’altro sesso, oppure il suo contrario, a scopo difensivo).
L’adolescenza si può riassumere come un percorso di distacco da genitori e infanzia; se
questo percorso viene ostacolato, l’amore adolescenziale può essere un modo per fondersi
con l’altra persona, piuttosto che un momento di crescita (l’altro diventa solo un modo per
sfogare il proprio bisogno di amare, non è una persona da conoscere).
L’insegnante “sufficientemente buono” deve essere autorevole, cioè dare la possibilità di
esprimere critiche, ma anche saperle contenere, perché l’adolescente contesta la disciplina ma
ne ha ancora bisogno per proteggersi da forze distruttive interne. I divieti, però, hanno senso
solo se vengono spiegati e c’è vera relazione tra adulto e adolescente.

Aspettative e fantasie
All’inizio di un anno scolastico ci sono aspettative ed emozioni di 3 tipi:
1) timore di sentirsi confusi;
2) speranze/paure nei confronti dell’autorità;
3) speranze/paure nei confronti del gruppo classe.
In generale, l’inizio del nuovo anno scolastico rappresenta per tutti (anche insegnanti e
genitori) un’esperienza nuova; se però si rivela troppo nuova (o troppo poco) può generare
delusione e rabbia.
Per l’insegnante, la difficoltà principale è trovare il modo di esprimere gli aspetti indefiniti delle
fantasie degli allievi, che influenzano tanto l’esperienza scolastica quanto più è difficile per loro
comunicarle.
Il cambiamento e l’esperienza nuova possono spaventare, ma sono anche desiderati, se
nell’infanzia non si sono vissute esperienze traumatiche; in questo caso, la paura di essere
inadeguati, di prendere brutti voti o di essere trascurati sarà più forte e riattiverà veri e propri
fantasmi, disturbando il rendimento.
All’inizio dell’anno, possono esserci paure anche legate ai nuovi compagni (ansie di perdita di
Sé) e si manifestano soprattutto in quella che viene definita “insicurezza”.
Le ansie, poi, possono riguardare anche insegnanti, programmi e strumenti didattici
(soprattutto i libri di testo). Agli insegnanti sono associati tutti i problemi tipici del rapporto con i
genitori (è una sorta di transfert); inoltre essi possono suscitare l’aspettativa di trovare in loro
tutte le risposte, e scoprire che non è così può portare delusione. Lo stesso vale per i libri.
C’è inoltre il timore della confusione che si crea di fronte a esperienze nuove. Tutte queste
ansie e paure vengono comunicate “facendole provare” all’insegnante (identificazione
proiettiva); quest’ultimo potrà prestare attenzione a queste paure e bonificarle, ma solo se non
ha anche lui gli stessi timori, perché in quel caso finirà per ignorarli o reprimerli.

Un’esperienza
In questo paragrafo viene raccontata un’esperienza dell’autrice, che aveva organizzato una
sorta di laboratorio con bambini al primo anno di scuola elementare per aiutarli a elaborare le
loro aspettative e paure sulla nuova esperienza. Alcuni di loro avevano aspettative positive e
ritenevano che si fossero realizzate (es.: “la scuola è bella come l’avevo sognata”), altri la
associavano a pensieri e sogni orribili e paurosi. A volte anche i genitori contribuiscono alle
paure dei bambini, essendo spaventati a loro volta dalla nuova esperienza. In generale,
ascoltare queste aspettative e aiutare i bambini a esprimerle ha permesso loro, nella maggior
parte dei casi, di vivere l’ingresso a scuola in modo più sereno.
CAPITOLO 6
L’INSEGNANTE

La psicoanalisi sottolinea il primato del mondo interno e come le relazioni infantili e i sentimenti
determinino le nostre relazioni adulte, la percezione e l’elaborazione della realtà.
Nell’educazione di uno studente, l’insegnare riflette il modo di essere del docente che, nel
rapportarsi con l’allievo, porta con sé il suo modo di vedere la vita e rivive i propri problemi-
fantasie vissuti in età scolare.
Le esperienze lavorative pregresse e i suoi stili di vita (paure, speranze e aspettative
influenzano il lavoro dell’insegnante - Salzberg-Wittenberg, Henry-Polacco e Osborne, 1983)
Quanto detto sopra sottolinea dunque l’importanza della metodologia che privilegia pensiero,
riflessione, giudizio critico e problem solving.

Significati del lavoro


Aneddoto dei tre spaccapietre ai quali viene chiesto che cosa stiano facendo (il 1° risponde
«spacco pietre», il 2° «guadagno cibo per la mia famiglia», il 3° «costruisco un edificio»
(cattedrale) dimostrazione che possiamo dare significati diversi al nostro lavoro, che per
esso esistono diverse implicazioni e che le ragioni cambiano per ogni persona.
Il modo di lavorare dipende sia da fattori esterni (la sua organizzazione, la retribuzione), sia
da fattori interni (come lo si vive, perché).
Maggiore è il significato che si attribuisce al lavoro, maggiori saranno l’impegno e la
motivazione; per es. c’è chi lo vive come una pena e un dolore, chi come un dovere e un
valore.
Diversi sono i fattori che danno origine ad aspettative e idee sul lavoro:
 le immagini che i genitori hanno trasmesso di lavoro, professionalità, etica,
 il senso del dovere sviluppatosi a scuola (fare i compiti come una delle prime responsabilità).
 i rapporti con gruppi di appartenenza (sportivi, culturali, religiosi, di amici)
 le esperienze lavorative (mansioni, valutazioni)
Il lavoro, sia esso creativo o dipendente, mobilita le emozioni, le angosce primarie e le fantasie
inconsce. Questi aspetti profondi della nostra mente vengono affrontati da Jaques (1970) il
quale afferma che per l’uomo il lavoro ha 2 funzioni principali:
1. adattativa verso l’ambiente
2. autovalutativa (aiuta a misurare proprio valore/capacità, valutare giudizi, discriminare
facoltà)
Inoltre, il lavoro è un mezzo di sussistenza, ha funzione primaria della responsabilità
(requisito per evoluzione del management e funzionamento moderne organizzazioni), obbliga
al confronto con la realtà e a raggiungere risultati concreti.
Il lavoro è l’occasione per confrontare la realtà soggettivamente percepita con la realtà
oggettiva; il modo di lavorare è indice di equilibrio psichico (quanto c’è di sano e quanto di
patologico nell’individuo?).
Freud: capacità di amare e lavorare sono 2 criteri per qualificare la salute mentale.
Maturità emotiva → lavoro soddisfacente: “dimmi dove lavori e ti dirò chi sei”.

L’insegnante e il suo mondo interno


Studi hanno mostrato che chi forma, educa, insegna, intrinsecamente combatte distruttività,
morte, angoscia e i conseguenti sensi di colpa.
Klein (1946): nell’essere umano presente bipolarità-> accanto a impulsi distruttivi esiste spinta
costruttiva interiore che porta a fare sacrifici per sistemare le cose, «riparazione» di immagine
interna dell’oggetto amato e, nella mente, odiato-distrutto. In ogni docente ed educatore la
spinta costruttiva-riparativa prevale su quella distruttiva, l’atto di insegnare rappresenta la
vittoria della vita sulla morte, l’amore sull’odio (altruismo). Insegnare è sviluppare conoscenza,
vita, cambiamento dell’altro (studente), è un’operazione educativo-formativa, è un
comportamento-ruolo socialmente utile e costruttivo; l’insegnante sente di creare, di aiutare e
non di danneggiare o di distruggere.
Qualche autore parla pertanto di vera e propria pulsione a educare, l’insegnante si sente
rassicurato.
Insegnamento = operazione educativo-formativa = attività riparatoria.
La psicoanalisi ha rilevato che da un punto di vista emotivo l‘insegnamento presenta
comunque varie problematiche simili a quelle del rapporto madre-bambino: inconsciamente
chi insegna si identifica con la madre e a sua volta l’allievo identifica l’insegnante con tale
figura (identificazione madre-docente).
In qualche maniera l’insegnante mette al mondo e accudisce dei figli intellettuali. La
controprova sta nella radice etimologica di tutti quei termini che designano i membri della
relazione pedagogica:
- alunno dal lat. alere “allevare, nutrire”
- discepolo/discente dal lat. discere “imparare” dal greco didasko; tratti dalla radice dek “il
ricevere mentale”
- studente dal lat. studere “appoggiarsi” (riferito ad altra persona) l’inglese to breed “allevare”
denota sia generare-allevare, sia educare
L’insegnante viene identificato con la gestante (si noti la derivazione affine dei sostantivi
gestazione/gestante e del verbo gestire)
Nell’identificazione docente-madre gravida, Fornari (1976) definisce angosce genetiche
quelle paure tipiche di ogni progetto generativo, lavorativo, creativo: paura di generare figli
malati/deformi=timore di fare crescere alunni ottusi, ignoranti, distruttivi, disadattati.
Nella realtà quotidiana, tale angoscia si manifesta con paure intrinseche (insegnare male,
essere inadeguati) generando sensi di colpa, inadeguatezza.
Su scala ridotta, possiamo accostare l’ansia del docente all’ansia della madre. Nel rapporto
madre-figlio sono presenti sentimenti di ambivalenza: la madre oscilla tra il voler far crescere il
figlio e il mantenerlo dipendente da lei, mentre il figlio oscilla tra la dipendenza affettiva
indispensabile e spontanea e la ricerca di autonomia per trovare la propria identità (David et
al., 1976). La buona madre è quella che cerca di favorire il processo di separazione e
autonomizzazione
Il rapporto insegnante-studente presenta analogie con quello madre-figlio Lo studente ha
necessità di dipendenza intellettuale, ma ha anche tendenza all’autonomia, alla crescita e alla
separazione; l’insegnante deve essere in grado di permettere all’ allievo di sperimentare tale
dipendenza, ma anche di separarsi gradualmente.
Stella (1972) afferma che l’insegnante deve mantenere la giusta distanza affettiva stando
accanto allo studente senza intrudere, avviandolo alla separazione, al distacco e
all’autonomia.
Winnicott (1965) sostiene che essere solo è il vero elemento di emancipazione e che nasce
dalla capacità della madre di essere presente senza intrudere.
Possiamo dunque affermare che da un punto di vista delle dimensioni affettive della relazione
pedagogica un “buon” insegnante è colui che permette ai propri studenti di separarsi, in tal
senso lo si può definire generativo.
Generativo è quell’insegnante che permette all’allievo di crescere emotivamente, di
raggiungere l’autonomia, criticità e divergenza di giudizio.
Fare l’insegnante significa trasmettere conoscenze, ma soprattutto stabilire relazioni con gli
studenti in funzione della separazione al termine del percorso didattico-formativo;
l’insegnamento e l’apprendimento sono una continua e dinamica elaborazione del lutto.
Di contro, esistono anche gli insegnanti con atteggiamenti arroganti, nella cui fantasia si
reputano gli unici depositari del sapere; essi trascurano l’emancipazione, portano ad un
indottrinamento normativo, conducono lezioni e trasmettono nozioni asettiche (quasi a
difendersi inconsciamente dal distacco), considerano gli alunni inferiori, dei meri esecutori (no
promozione autonomia-criticità) privi di conoscenza, da plasmare a propria immagine.
L’insegnante si confronta anche con i propri sensi di colpa e si pone la domanda (= cartina
tornasole): «sono un buon docente? ho dei bravi allievi?»
L’alunno bravo rassicura il docente sulle proprie capacità e risorse, mentre l’alunno con
difficoltà espone il docente a ineguatezza perché non genera buoni discepoli.
Vissuto primario inconscio d’insuccesso → mi sento in colpa perché non genero cose buone.
Il senso di colpa può essere generato da:
 sensazione di non essere preparati in maniera adeguata (inadeguatezza), abbassamento del
livello emotivo e lavorativo dell’insegnante nei confronti della classe
 assenze prolungate
 timore di non essere stato equo o imparziale
E’ importante che l’insegnante abbia delle aspettative anche su di sé: che desideri essere
brillante, piacevole per i suoi studenti per suscitare l’attenzione, che abbia il desiderio di
trasmettere agli altri il sapere e aspetti della vita o della realtà che reputa buoni e arricchenti.
Fascino ambivalente di insegnare: senso di potenza e onnipotenza perché si crede che si
possa plasmare gli altri, esposto a narcisismo.
Occorre rinunciare a queste fantasie inconsce, rinunciare al narcisismo educativo (inteso come
amore per i propri saperi, pensieri e capacità didattiche) perché il rischio
è che si veda lo studente come appendice del docente e non come essere diverso da lui, con
bisogni propri.
Se l’insegnante riconosce i propri limiti e smette di sentirsi l’ombelico del processo educativo
può imparare e crescere insieme allo studente, può aiutare lo sviluppo di una conoscenza non
astratta, asettica e meccanica, può instaurare una relazione pedagogica, educativa e didattica
co-costruita.

Gli insegnanti di sostegno


Il sostegno è la forma di lavoro tra le più faticose, impegnative e coinvolgenti sul piano
emotivo e oggettivo tra tutte le professioni dell’ambito scolastico in quanto, nella complessa
relazione adulto-portatore di handicap, è difficile mantenere l’attenzione sul mero progetto
pedagogico-didattico
Per Bion è davvero complesso mantenere la curiosità davanti al caos e all’ignoto, la speranza
davanti alla disperazione, continuare ad offrire un contenitore al dolore collegato
all’apprendimento e alla conoscenza
Interessante è indagare i vissuti degli insegnanti che si occupano di studenti con handicap: ciò
evidenzia gli aspetti profondi tipici delle relazioni di aiuto e consente altresì di capire che cosa
sia la relazione educativa normale-> questo deriva dalla Psicoanalisi classica (Freud) che
afferma come la differenza sano-malato sia quantitativa e non qualitativa e come osservare la
mente malata aiuti a capire quella sana.
La persona psicologicamente sana, caratterizzata cioè da uno stato mentale adulto, è
consapevole che nella sua mente esistono parti malate ed è attenta alla eventuale intrusione di
parti infantili “bugiarde e imbroglione” (Meltzer, 1983).
Per aiutare gli insegnanti di sostegno nel loro operato sarebbe dunque un buon inizio riflettere
sul loro mondo interno, su ciò che accade dentro di loro nel momento in cui si trovano ad
affrontare una realtà tanto impegnativa e difficile.
Troppo sovente a scuola, per il mondo dell’handicap, vengono proposte soluzioni che
trascurano gli aspetti relazionali determinanti per l’efficacia e la qualità del lavoro
dell’insegnante e favoriscono l’acquisizione di abilità e competenza specifiche (skills); ciò
rischia di impedire la possibilità di conoscenza per aiutare il ragazzo con handicap. A tal
proposito gli insegnanti necessiterebbero di una formazione costante e continua, in modo da
acquisire un equipaggiamento mentale adeguato per affrontare questa realtà e padroneggiare
strumenti di inclusione e di aiuto.
La letteratura è ricca di studi su soggetti con handicap, al contrario scarseggia di studi su
docenti di sostegno e processi formativi, studi che li aiuterebbero ad affrontare le difficoltà
emotive che incontrano sul loro cammino.
Dalle ricerche effettuate risulta una sensazione di esclusione, emarginazione e abbandono sia
da parte dei docenti di sostegno rispetto a quelli che non lavorano con i portatori di handicap,
sia da parte di quelle strutture che si occupano di portatori di handicap rispetto ad altre
strutture del territorio.
Gli insegnanti di sostegno si sentono di serie B e questo innesca una serie di bisogni:
 bisogno di (ri)conoscimento: riconoscimento a livello progettuale e decisionale e
conoscimento motivato dalla loro sensazione di essere poco conosciuti dalle famiglie, dal
territorio, dal mondo del lavoro.
Percezione senso comune-docente sostegno = ruolo inutile che genera reazioni depressive
(idea di non servire a nulla)
 bisogno di collegamento-coordinamento: necessità di collegarsi meglio con mondo
esterno, istituzioni e strutture-enti formativi professionali(zzanti)
 bisogno di aiuto e di appoggio come condivisione dell’impegno, alleviare ansia-fatica
emotiva quotidiana, scaricare la tensione.
I docenti di sostegno sentono il peso della responsabilità perché non adeguatamente
supportati, lamentano fatica fisica e mentale, continuo confronto con esperienze di frustrazione
di aspettative/desideri e limiti operativi e di efficacia. Su di loro vengono anche scaricate le
tensioni, i carichi emotivi e i disagi dei familiari dell’alunno con handicap; servirebbe dunque
loro non solo una solida-salda struttura di personalità, una capacità profonda di empatia sia
con l’altro soggetto, sia con il proprio mondo interno, ma anche un mondo esterno organizzato.
 bisogno di avere più informazioni su strategie politiche, linee organizzative, innovazioni
tecniche, tecnologie didattiche, sviluppo procedure, miglioramento comunicazione per colmare
reali carenze
Dalle riflessioni con i docenti sostegno emergono 2 atteggiamenti opposti:
 riflessione autocritica sulla consapevolezza delle proprie lacune
 posizione rivendicativa: avanzamento richieste, critica rivolta al mondo esterno. La
posizione autocritica apre il dialogo costruttivo e bidirezionale per ottenere crescita
professionale, gratificazioni lavorative, identità di ruolo, consapevolezza motivazioni.
Che cosa chiedono gli operatori? Uno sviluppo dell’insegnante come soggetto e professionista
dell’handicap: questa richiesta è realistica, perché al centro c’è formazione, impegno e volontà
docente. L’auspicio è che si attivino processi formativi a lungo termine, un aumento della
consapevolezza, uno sviluppo delle risorse interne ed esterne, interventi legislativo-normativi-
innovativi di sostegno. Ascoltare queste richieste sottolinea la frustrazione dei docenti che è
figlia non di debolezza o immaturità, ma di impegno.
Importante è accogliere e ascoltare i problemi, capirli, scambiare esperienze e prospettive,
nuove modalità operative, sia per i portatori handicap sia per i docenti di sostegno.
CAPITOLO 7
STRUMENTI DI LAVORO

Mantenere il “setting”
Il concetto di setting si rivela utile non solo per dar conto di una serie di fenomeni che
accadono in un gruppo di lavoro avente come obiettivo l’apprendimento, ma prima ancora si
rivela utile nella progettazione, organizzazione e gestione del processo formativo.
Incominciano perciò ad apparire studi e ricerche che tentano una traduzione, un’applicazione e
un adattamento del concetto di setting dal contesto analitico a quello formativo e
dell’educazione degli adulti (Corino, 1990, Lo Verso, 1990, Lo Verso, Ruvolo, 1990).
In termini di setting, quali indicazioni ci dà la psicoanalisi che possono essere utilizzate
nell’ambito scolastico per il lavoro dell’insegnante e per la promozione dell’apprendimento
dall’esperienza?
In psicoanalisi il termine “setting” - che fu usato probabilmente per la prima volta da Winnicott
al XIX Congresso internazionale di psicoanalisi di Ginevra del 1955 - riprendere quella di
Flegheneimer, secondo cui il setting è come il buio al cinema o il silenzio nella sala da
concerto: serve cioè per vedere e sentire meglio. In psicoanalisi esso è dunque l’insieme delle
condizioni che permettono lo svolgersi del lavoro analitico. Ma se è vero che il setting è
regolarità e durata, è altrettanto e ancor più vero che, prima ancora che un fatto logistico
organizzativo, il setting, come ha fatto rilevare Di Chiara (1986, 1991), è un assetto mentale
ovvero un atteggiamento e un assetto relazionale. Il mantenimento del setting dunque non è
un rituale, burocratico o ossessivo rispetto delle regole e della struttura data ma soprattutto un
modo di essere nel rapporto con l’altro, il paziente. In altri termini si può dire che il setting sia
uno stato della mente nei rapporti con gli altri, in qualunque tipo di rapporto - e quindi
evidentemente anche nel rapporto educativo-formativo - si può saper mantenere un setting
oppure no; la maturità emotiva nella relazione con gli altri consiste proprio in questo saper
mantenere la giusta distanza interpersonale senza intrudere o senza lasciare troppo solo
l’interlocutore, proprio come la buona madre dovrebbe fare con il suo bambino, come ricordava
Winnicott (1965).
Un setting rigoroso e stabile inoltre permette che il transfert sia più nitido e trasparente.
Possiamo dire che il setting è il contenitore che permette di realizzare l’apprendimento
attraverso l’elaborazione delle proprie esperienze. E’ lo strumento di lavoro basilare perché sta
a monte dell’interpretazione, in quanto è ciò che permette all’interpretazione di essere: infatti
senza un setting e il suo mantenimento, l’interpretazione psicoanalitica non sarebbe (non è)
che un esercizio intellettualistico, quando non manipolatorio e autoritario. La funzione del
setting nel lavoro analitico è talmente importante che, secondo Winnicott (1956), con i pazienti
regrediti la situazione analitica diventa più importante dell’apprendimento (mentre con i
pazienti con un Io intatto è fondamentale un lavoro interpretativo).
Interessante e anche curioso osservare al riguardo che Winnicott usa il termine “management”
per definire la conduzione dell’analisi, nel senso che il suo modo di organizzare il lavoro può (e
dovrebbe) tener conto del patrimonio psicoanalitico. Credo che stia proprio in un “modo di
organizzare” improntato ai suggerimenti della psicoanalisi il senso più profondo del contributo
psicoanalitico, non solo al processo educativo-formativo o anche al processo manageriale in
senso lato: un modo per controllare meglio il processo organizzativo nel senso dello sviluppo e
della maturazione individuale e collettiva, e non invece nella direzione della manipolazione e
della casualità o della fortuna.
Se è vero che le modalità di organizzazione del lavoro analitico vanno sotto il nome di setting,
allora sarà altrettanto vero che, nell’ambito educativo, il primo contributo che ci può dare la
psicoanalisi sta proprio nel modo di organizzare e “gestire” il processo di apprendimento, cioè
sta nel modo di organizzare e gestire il setting di apprendimento. Il setting cioè diventa il primo
e principale strumento di lavoro, cioè di apprendimento. Questo implica che utilizzare la
psicoanalisi nella formazione non significhi fare interpretazioni o andare alla caccia del
profondo, anche perché spesso la profondità, come ricorda von Hofmannsthal nei suoi lavori
teatrali, sta nella superficie delle cose, ma soprattutto e prima di tutto vuol dire progettare,
strutturare e gestire un setting di apprendimento, vale a dire un contesto di lavoro. È dunque
nella progettazione e organizzazione del lavoro formativo, prima ancora che nella gestione
dell’aula, che può esserci - e dovrebbe esserci - l’utilizzazione del contributo e della
competenza psicologica, intesa nel senso psicodinamico.
Tenendo conto che il setting non è solo organizzazione e gestione dell’aula, ma anche e
soprattutto uno specifico stato della mente quando lavora per apprendere, l’attenzione al
setting come attenzione a tenere un corretto assetto e atteggiamento mentale diventa cruciale
nella promozione e facilitazione dell’apprendimento e, a maggior ragione, quando si voglia
insegnare tenendo conto del contributo della psicoanalisi intesa come scienza della relazione.
Il setting implica l’adozione di un atteggiamento etico. (Vedi cap. 1) non è possibile avere un
atteggiamento autenticamente formativo se non si assume anche una posizione etica.
Un concetto collegato al setting il concetto di metasetting di cui parla Lie- Berman (1970-72) : è
l’ambiente sociale che circonda il setting e che lo influenza in qualche modo (es. la
famiglia) .Dunque, come nella situazione analitica le variazioni ambientali possono incidere sul
setting, così la famiglia e la struttura scolastica, per le interferenze che provocano sull’azione
formativa, possono essere definite come metasetting e quindi essere viste sotto un profilo
diverso: non solo come fatti esterni, sociali, ma come fatti connessi con l’ approfondimento e
intervenienti attivamente in esso.
L’atteggiamento “analitico” nella scuola (vedi Speziale Bagliacca)
Qual è l’assetto mentale più adeguato nella pratica educativa per promuovere l’apprendimento
e lo sviluppo delle persone?
Nell’analisi l’atteggiamento più adeguato a mantenere il setting è ovviamente quello analitico,
tanto che si può dire che atteggiamento analitico e mantenimento del setting coincidono.
Dobbiamo chiederci allora in che cosa consiste adottare un atteggiamento analitico in un
contesto che analitico non è, come appunto quello educativo.
Sostanzialmente vuol dire mantenere un assetto mentale e relazionale specifico che non va
assolutamente confuso col fare “interpretazioni” (perché si lavora con alunni “sani e obbligati”,
non con pazienti).
In un contesto formativo, bisogna osservare, ascoltare e riconoscere gli aspetti altri di ciò che
ci viene comunicato e aiutare a elaborarli senza però fare interventi selvaggiamente
interpretativi, ma sapendo e trovando il modo di dire e inviare messaggi che aiutino la
comprensione e l’integrazione nella mente delle ansie e delle parti scisse. Si tratta di utilizzare
le emozioni, piuttosto che controllarle facendo finta di utilizzarle con stili di conduzione
narcisistici e in ultima istanza indicatori di angosce e paure (persecutorie), negate, del docente.
Il secondo punto da sottolineare è che l’atteggiamento analitico consiste nel cercare di capire
piuttosto che nello schematizzare, nel mettersi di fronte allo sconosciuto piuttosto che nel
ridurre tutto a modelli e teorie precostituite, nel cercare di apprendere dall’esperienza e dalla
relazione piuttosto che ricondurre difensivamente l’esperienza a schemi precostituiti.
L’assunzione di un atteggiamento analitico da parte dell’insegnante, in quanto stile di relazione
finalizzato a mantenere un setting per realizzare l’apprendimento, vuol dire quindi cercare di
capire, pensare e sentire nel senso bioniano del termine, cioè promuovere un gruppo di lavoro
volto all’esplorazione insieme dei problemi, alla ricerca della verità, non una classe gestita
difensivamente. E infatti un atteggiamento antiformativo non solo la manipolazione degli allievi,
ma l’utilizzazione dell’aula per trasmettere messaggi valoriali o ideologici.
(es di Harris: L’iperdidatticismo, aria onnisciente, una supervisione troppo rigorosa… tutto ciò
stimola la competitività nel senso peggiore del termine, con tutte le conseguenti fantasie
persecutorie e rivalità, invidia, gelosia ed esclusione) Il modello di lavoro, l’atteggiamento
analitico come atteggiamento finalizzato al mantenimento del setting, è dunque un
atteggiamento orientato a promuovere il confronto, fondato sulla non onnipotenza e sulla
ricerca in comune.
La competenza psicologica dell’insegnante consiste proprio nel non fare lo psicologo,
ma l’insegnante.
Mantenere e rispettare il setting è prima di tutto mantenere i ruoli e l’obiettivo, rispettare i tempi
e i lavori previsti e non fare nessun cambiamento se non è stato contrattato, discusso e
concordato con tutto il gruppo. Ma mantenere il setting è anche tollerare che qualche allievo
non voglia cooperare, impedendo però che chi non vuole partecipare attacchi il gruppo e il suo
lavoro; è proteggere il gruppo costituendo una situazione relazionale in cui i membri possano
interagire con una mentalità adulta da gruppo di lavoro (Bion, 1961), cioè promuovere il
pensiero e non favorire l’agito. È saper mantenere la capacità di pensare anche sotto l’urto
massiccio delle identificazioni proiettive degli allievi che sono particolarmente forti all’inizio e
alla conclusione di un ciclo di studi (vedi il capitolo 5, quarto paragrafo). Mantenere il setting è
dunque, per usare una terminologia diversa, promuovere un atteggiamento scientifico,
sperimentale, di ricerca insieme in una situazione che è, per definizione, di incertezza.
Colludere con i bisogni di dipendenza degli allievi e quindi agire anziché pensare. I contenuti
devono essere collegati alla concreta esperienza degli allievi, l’atteggiamento analitico
significhi non il rifiuto del contenuto ma l’attenzione costante a come esso viene atteso,
recepito, elaborato. lo studente all’inizio di un percorso di apprendimento non si aspetta
qualcuno che lo aiuti e assista nell’apprendimento, ma qualcuno che, dando delle risposte o
delle ricette di comportamento (delle “tecniche” o dei “metodi”), tolga magicamente dalla
sofferenza mentale e dalla fatica e frustrazione di apprendere dall’esperienza. Tenere il setting
in una situazione scolastica (o formativa) non vuol dire rinunciare ai contenuti, ma cercare di
elaborare e far elaborare la componente affettivo-emotiva che li accompagna e che si
manifesta nelle fantasie che gli allievi fanno sulla scuola, sulla loro classe, sui compagni,
l’insegnante, se stessi; sul perché sono lì, su cosa ci si aspetta da loro e su come potranno
utilizzare o trasferire ciò che apprenderanno. Questo atteggiamento aiuta ad aumentare la
“disponibilità” a ricevere, che è la condizione per imparare e crescere. (vedi cap. 1) Il setting è
fatto di regole organizzative e logistiche, di “programmi”, e tenere il setting da parte
dell’insegnante è prima di tutto rispettare queste regole, senza colludere con gli allievi. Dato
dunque che il setting è un contenitore, è necessario mantenerlo perché ciò serve non solo a
elaborare ma anche a proteggere, e a far uscire dalle eventuali crisi che il processo di
apprendimento comporta. L’attenzione al mantenimento del setting come insieme di regole,
processo e assetto relazionale, sia nella scuola che nella formazione, costituisce quindi la
miglior garanzia per la realizzazione del lavoro e per la promozione dell’apprendimento negli
allievi.
Due situazioni peculiari dell’attività didattica: la lezione e la valutazione, sotto il profilo
psicologico, ovvero cercando di mettere in evidenza che cosa comportano sul piano emotivo e
relazionale.

Valutare
1- Valutare → si raffronta la crescita culturale dell’allievo con gli obiettivi, le mete, gli esiti che
si erano previsti e sperati per lui attraverso l’interazione educativa. Quindi ha anche una
funzione orientativa, in itinere, momento per momento, l’insegnante può cogliere la necessità
di modulare diversamente la proposta educativa perché l’allievo possa accoglierla in modo più
proficuo. La valutazione non è quindi solo un momento di controllo fiscale, ma è anche un
importante momento di feed-back, al servizio non solo dello studente ma anche
dell’insegnante. Si vuole dire che, ridotta solo ad un esercizio di potere (insegnante) e ansie
(alunno), la valutazione perverte il suo senso e la sua utilità originaria e si trasforma in una
sorta di pratica inutile che perde qualunque valenza formativa.
L’allievo deve restituire all’insegnante, rielaborato da lui stesso, ciò che egli ha cercato di
trasmettergli. Questo implica che lo studente deve trarre fuori di sé qualcosa che ha dentro per
darlo a qualcun altro. Nella valutazione, chi apprende può essere aiutato a guardare “le cose”
che ha portato fuori da sé - ciò che imparato - in un modo descrittivo più che giudicante.
Questa capacità di guardare e rimanere vicino ai propri prodotti non è innata o scontata, ma è
qualcosa che si può apprendere grazie a una relazione asimmetrica ma non giudicante in cui
emozioni e vissuti implicati possono essere contenuti; solo la capacità di osservare
→ è ciò che permette di apprendere dall’esperienza, ma questo apprendimento è frutto diretto
di un’attività valutativa adeguata; In questo senso Fattività di valutazione mobilita nel valutato
ansie che il valutatore deve saper cogliere e accogliere, perché diventano un potente
strumento affinché l’allievo possa imparare dall’esperienza attraverso l’osservazione di se
stesso nel momento del giudizio e dell’esame. Senza passare attraverso questa elaborazione
tutta interiore la valutazione perde totalmente il suo significato e diventa - come tante altre, del
resto, nella scuola - una grande occasione di apprendimento perduta. La valutazione è, così,
un fatto relazionale che coinvolge nel medesimo impegno comunicativo insegnante e allievo.
In definitiva, dire che la valutazione è essa stessa un ambito di apprendimento vuol dire non
tanto determinare se l’allievo in un dato momento abbia raggiunto un determinato obiettivo
prefissato per lui, bensì capire quanto l’allievo abbia imparato a mettere in rapporto le proprie
risorse interne con le richieste della realtà in funzione del rendere visibili e comunicabili i propri
apprendimenti. L’allievo che deve imparare a esprimere le proprie conoscenze in una
situazione di valutazione si confronta prima o poi con difficoltà e limiti rispetto al proprio
prodotto, ovvero angoscia, inadeguatezza, incapacità, rischiando così di andare incontro a una
sorta di critica radicale al proprio modo di essere. Naturalmente quando l’allievo e l’insegnante
possono condividere l’esperienza di comunicare fra loro intorno a un prodotto, possono
attraversare uno spazio di apprendimento bonificato. In questi momenti entrambi possono
riconoscere la soddisfazione di essere arrivati a qualcosa che vale e può essere apprezzato.
Da qui nascono un nuovo desiderio e una maggiore sicurezza nell'affrontare ulteriori
apprendimenti. La valutazione si svolge sempre sullo sfondo di un gruppo-classe di compagni
e il sapere può essere un mezzo per ottenere l’affetto dell’insegnante. In questo senso, per
esempio, è bene evitare di fare elenchi di merito poiché essi costituiscono un fattore
disintegrante per il gruppo classe e incrementano la gelosia e la paura, che non servono
all’apprendimento ma solo a gratificare narcisisticamente il docente, oppure a produrre
individui estremamente competitivi, ma non per questo emotivamente maturi e adattati.
L’ansia però è anche dell’insegnante: quanto più è stretto il rapporto con l’allievo tanto più è
impegnativo decidere, poiché non si possono separare sic et simpliciter i rapporti e i sentimenti
personali dal giudizio, così come non si possono separare dal processo di insegnamento-
apprendimento. Rassicurare gli alunni dichiarando che la valutazione è di secondaria
importanza rispetto all’apprendimento è una falsificazione e, come tale, antitetica alla crescita.
È invece utile permettere allo studente di sperimentare la propria ansia, il che lo aiuterà ad
apprendere anche da questa esperienza. Imparare a rapportare i propri risultati con le richieste
di realtà, cioè apprendere a valutare, significa sia per l’insegnante che per lo studente
accettare di lavorare con le ansie che sorgono inevitabilmente. Si può quindi affermare che la
valutazione diviene apprendimento solo quando non si negano le ansie a essa connesse, ma
le si esplicitano ed elaborano.
Se la scuola come istituzione non prende coscienza del carico emotivo che la valutazione
come relazione comporta non solo per l’allievo ma anche per l’insegnante, Non basta, infatti,
sostituire le performance quantitative…Sono necessari dunque nuovi atteggiamenti e
consapevolezze professionali.

Fare lezione
2- Fare lezione → è uno strumento didattico di particolare importanza, quando ci si avvale
della lezione, nel corso della propria attività, è bene tenere a mente quali sono le dimensioni
che la caratterizzano, affinché nella sua progettazione, preparazione ed esecuzione lo
strumento sia di una qualità il più possibile elevata. Quando la si utilizza occorre allora
domandarsi:
- il perché, cioè quali sono le funzioni che deve svolgere;
- il come, cioè quali sono le modalità di comunicazione più efficaci; - il quando, cioè quali sono
i tempi di fruibilità;
- il chi, cioè chi è il responsabile della lezione; - il che cosa, cioè quale ne è il contenuto;
- la relazione, cioè la dinamica che intercorre tra docente e uditorio. Analizziamo singolarmente
questi vari aspetti.
Funzioni della lezione sono sostanzialmente quattro:
1. trasmissione di informazioni;
2. trasmissione di concetti;
3. razionalizzazione di eventi di gruppo;
4. proposta di schemi e modelli interpretativi.
Permette di passare molte informazioni e concetti in poco tempo sintetizzando conoscenze;
rende omogenee le conoscenze degli allievi e aiuta a uscire dalla confusione anche perché
soddisfa il bisogno di dipendenza da una figura riconosciuta come più competente. Questa
figura, per altri versi, permette a chi apprende di identificarsi con un oggetto più ricco, un
modello a cui tendere nel percorso di crescita culturale. Se proposta con un buon livello
qualitativo, in termini di contenuto e di modalità espositive, può fornire competenze utili per
ulteriori elaborazioni più attive e critiche da parte degli allievi. Se la lezione è aderente alla
situazione emotiva attuale degli allievi e del gruppo diventa quindi un modo per elaborare
indirettamente ciò che succede in quel determinato momento. Il docente può proporre schemi
e modelli interpretativi grazie a una più approfondita conoscenza delle discipline e dei
collegamenti interdisciplinari. Questi schemi e modelli possono offrire agli allievi nuove e più
ricche possibilità per percepire, pensare, organizzare, ricordare e collegare eventi, nozioni e
concetti.

-Metodologia
La lezione per essere utile/soddisfacente deve essere preceduta da un momento preliminare
di preparazione/progettazione in cui il docente individua obiettivi, destinatari, modalità, tempi.
Per quanto riguarda i destinatari della lezione si devono aver chiare le caratteristiche delle
persone cui sarà rivolto l’intervento; in particolare è necessario sapere quale livello di
conoscenze esse abbiano, quale preparazione sull’argomento, quale tipo di modello culturale
presuppongano, quale sia il linguaggio da loro usato. Definiti e articolati gli obiettivi rispetto ai
destinatari della lezione, è possibile scegliere la metodologia più adeguata, cioè i metodi, le
tecniche e le tecnologie didattiche attraverso le quali modulare il proprio intervento.
Le modalità del fare lezione sono sostanzialmente tre e rispondono a finalità diverse: lezione
aperta, lezione “chiusa” e “dubitativa” o “problematica”, cioè la lezione che sollecita a mettere
in discussione conoscenze e informazioni o teorie acquisite.

-Tempistica e fruibilità
Va ricordato che i vari momenti della vita mentale del gruppo e dei singoli allievi incidono sulla
comprensione del messaggio sia favorendolo (e magari enfatizzandolo) sia, soprattutto,
distorcendolo. Bisogna, cioè, tener conto del momento (inizio anno, fine anno…) in cui si farà
lezione, perché la ricezione del contenuto concettuale risente dello stato emotivo specifico in
cui esso viene trasmesso e ricevuto, che perciò costituisce una sorta di filtro attraverso il quale
le persone percepiscono quanto viene detto. Non serve dunque dire tutto e sempre, perché
anzi può creare confusione e disorientamento: serve dire quello che è utile, in quel determinato
momento. Vi è poi un’articolazione temporale che il docente deve tenere a mente riguardo alla
struttura della lezione e all’articolazione del discorso. È utile ricordare che un discorso ben
articolato (per esempio in introduzione, sviluppo e conclusione) ha maggiori possibilità di
essere recepito poiché si presenta in modo strutturalmente più chiaro. Perseguire la chiarezza
espositiva e, in funzione di questa, adeguare e articolare dettagliatamente la propria
esposizione è la condizione per la buona qualità della lezione. è necessario dire solo le cose
più importanti ed essenziali e quindi occorre studiare bene a tavolino i punti cruciali da
trasmettere per non disperdersi.
-Il responsabile della lezione
Importante aver ben chiaro chi è il titolare della lezione, cioè se la lezione è tenuta dal docente
o da una persona esterna.
Se altro al docente, questo induce una sorta di conflitto di ruolo, in quanto il titolare del corso
gestisce (o dovrebbe gestire) anche la dinamica del gruppo.
Il modo migliore per comunicare e farsi ascoltare è, prima di tutto, ascoltare gli altri. Se il
docente “ascolta” i suoi allievi saprà anche fare bene le sue esposizioni teoriche, che
diventeranno un momento al servizio di chi impara.

-La finalità della lezione


È l’apprendimento da parte degli allievi. Formazione quanto a incremento delle capacità
relazionali e utilizzo delle risorse. La lezione si è confermata importante per i suoi aspetti di
sinteticità ed economicità, sia pur collocata nella prassi didattica accanto agli altri metodi.

-L’interazione docente-gruppo
Nella relazione tra chi fa lezione e chi ascolta sono in gioco una dimensione reale e una
fantasmatica. Sul piano reale vi è un docente con degli allievi, ma sul piano fantasmatico in
realtà sono in azione tre entità diverse che riguardano immagini diverse del docente:
a. l’immagine percepita dall’uditorio, cioè come appare in realtà il docente;
b. l’immagine desiderata, quella che il docente vuol dare di sé, ovvero come vuole apparire
all’uditorio;
c. l’immagine auto-percepita dal docente stesso, cioè come il docente appare a sé stesso
mentre è al lavoro.
Se analizziamo più da vicino i fattori mentali possibile riconoscere gli aspetti emotivo-affettivi
che influenzano profondamente la qualità della trasmissione delle informazioni.
Vi sono, innanzitutto, delle fantasie in gioco. Sono importanti le aspettative e le motivazioni
personali che si coniugano con le concezioni e le teorie che il docente e i partecipanti hanno
sulla relazione docente-allievo e sull’apprendimento. (docente: interpersonale-intergruppo;
meccanismi proiettivi, aspetti transferali…interazione emotiva).

Suggerimenti per comunicare in modo efficace:


Senza dimenticare che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, cioè che non basta parlar
bene per essere capiti.
Per prima cosa bisogna far fare una cura dimagrante al proprio linguaggio: essere brevi, chiari,
concisi. Disse Carducci una volta: “L’uomo che impiega venti parole per dire una cosa che
potrebbe essere detta con tre è capace di qualunque nefandezza”.
Lo stesso discorso vale per la parola scritta: lo strumento di chi scrive non è la penna, è la
forbice. Ma la capacità di sintesi non è qualcosa d'innato, bensì il frutto di un lavoro di
addestramento mentale, e la stessa chiarezza di linguaggio è figlia della chiarezza delle idee;
se uno non ha le idee chiare deve chiarirsele prima, studiando e preparandosi.
E’ anche opportuno ricordarsi che ciò che conta, nella comunicazione, non è tanto quello che
si vuole dire, ma quello che l’altro capisce, quindi bisogna stare attenti non solo a quello che si
dice, ma soprattutto a che cosa arriva all’altro e a che cosa, di conseguenza, l’altro risponde:
l’organo di chi parla non è la lingua, è l’orecchio. Quando si deve dire qualcosa, si cerchi di
adeguarsi alle esigenze dell’ascoltatore. Ciascuno di noi è più interessato a quello che sente
se ne vede la significatività immediata per sé.
Occorre evitare il più possibile di usare una terminologia troppo tecnica, sofisticata o straniera;
ma se proprio non se ne può farne a meno, si abbia l’accortezza, come indicava De Mauro, di
tradurla immediatamente
E bene esprimere un concetto e un’idea per volta, magari puntualizzando ogni tanto ciò che
s’è detto. Così come è molto efficace fare esempi concreti di quanto si va dicendo: quando
teorizziamo non sempre ci facciamo capire, ma se esemplifichiamo concretamente ciò che
diciamo rendiamo immediatamente palese agli altri il nostro pensiero. Umberto Eco suggerisce
che quando qualcuno parla di un “certo” qualcosa bisognerebbe richiedergli sempre di “quale”
qualcosa si tratta.

In un mondo in cui tutti vanno di fretta, comunicare veramente vuol dire però anche avere
pazienza, in uno sforzo di comprensione e avvicinamento reciproco; la buona comunicazione
infatti non significa necessariamente capirsi al volo (cosa possibile, ma rara) bensì
approssimarsi poco per volta al pensiero altrui. E poi tacere. Ci si dimentica che il silenzio non
è assenza di comunicazione, ma una modalità comunicativa emotivamente molto pregnante;
non necessariamente un vuoto, ma spesso un valore, uno spazio per pensare che aiuta a far
nascere delle idee: il silenzio è la gestante dei pensieri innovativi.
CAPITOLO 9
IMPARARE A OSSERVARE

Intento del capitolo: mostrare come l’osservazione possa aiutare ad acquisire un nuovo
atteggiamento professionale da parte dell’insegante. L’osservazione permette di sviluppare la
capacità di cogliere ciò che l’alunno comunica sul piano verbale e non verbale.
Conoscere l’allievo non significa assimilarlo e confonderlo con i propri desideri e preconcetti.
Si vuole promuovere una sensibilità all’apprendimento dall’esperienza attiva, per aiutare gli
insegnanti a comprendere il ruolo dei fattori emotivi.

L’osservazione come strumento professionale di conoscenza


La normativa scolastica inizia a riconoscere gli aspetti affettivo-emotivo a partire dagli anni ’90,
Nuovi orientamenti per la scuola materna 1990, e Programmi per la scuola elementare 1985.
“Lo sviluppo armonico ed integrale della personalità implica la costante attenzione e
disponibilità da parte dell’adulto, stabilità e positività della relazione”.
Tradizionalmente, le istituzioni scolastiche che preparano al ruolo di insegnante, identificano il
processo di insegnamento-apprendimento con l’attività intellettuale, che miri alla trasmissione
e acquisizione di nozioni.
Nel 1991, il concetto di cultura cambia, viene intesa non solo come bagaglio da portare con sé
ma anche un modo di essere. I sentimenti, le idee, le convinzioni fanno parte di questo
concetto. La sola informazione necessaria, ma non sufficiente.
Il limite di questi documenti normativi riguarda il fatto di dare per scontato la capacità degli
insegnanti di gestire le dinamiche emotive e relazionali nel processo di apprendimento più
dinamico e “attivo”. In realtà, gli aspetti più fragili e infantili dell’alunno dovrebbero essere
maggiormente tenuti conto dall’insegnante, in quanto costituiscono il Sé del soggetto, la sua
struttura cognitiva. L0alunno deve, perciò, trovare un interlocutore perché queste parti più
intime possano arricchire l’apprendimento e non ostacolarlo.
Per garantire le condizioni di un buon iter evolutivo, si deve aiutare l’allievo a mantenere il
contatto anche con gli aspetti affettivi, affinché non si istituzionalizzi un modello di
apprendimento dove il Sé coincide solo con la parte relazionale e intellettiva.
Attualmente, accade che i docenti censurino alcuni comportamenti dell’allievo, in quanto non li
comprendono.
Quali sono gli iter formativi più adeguati ad arricchire le competenze relazionali degli
insegnanti? Le esperienze formative di osservazione legate a un’epistemologia psicodinamica
sono utili a comprendere la relazione insegnante-alunno attraverso lo studio dell’interiorità
delle emozioni.
Sono modelli orientati all’osservazione diretta del comportamento spontaneo del bambino e
delle sue interazioni, piuttosto che dare indicazioni tecniche e operative. Le esperienze di
osservazione servono a sperimentare in prima persona una situazione di apprendimento.
L’osservazione abitua a una conoscenza in cui le informazioni devono poter emergere grazie
al fatto si essere in contatto con l’oggetto, senza ricorrere a classificazioni già conosciute a
priori, che negherebbero il contatto con il proprio Sé e con l’oggetto, indispensabile ad
apprendere dall’esperienza.
Per sentire i messaggi bisogna far tacere momentaneamente i propri bisogni e progetti.
Nell’osservazione i docenti si trovano spiazzati: il non avere responsabilità educativa verso
l’oggetto di osservazione li fa sentire a disagio, inermi. I giudizi, i voti, lo spiegare e correggere
proteggono da una relazione più autentica con gli allievi.
Un delle difficoltà maggiori dei docenti-osservatori è legata all’accedere a un atteggiamento
conoscitivo che non fa uso di griglie osservative precostituite, perché è difficile tollerare di non
sapere a priori lo svolgimento degli eventi.
Attraverso l’esperienza osservativa gli insegnanti iniziano a intuire una metodologia di lavoro
dove il comprendere prevale sullo spiegare, dove è possibile guardare, registrare i fatti senza
interpretare. Quest’esperienza posta a tollerare di prendere anche gli aspetti vaghi, sconosciuti
dell’oggetto, lontani dai propri schemi mentale, accettando di confrontarsi con i propri
sentimenti di disagio, isolamento e solitudine.
La consegna dell’osservazione (che non prevede un agire) porta gradualmente a scoprire
come questa passività porti a una ricchezza conoscitiva, a un’attività. La passività
dell’osservatorie diviene una condizione imprescindibile affinché, gradualmente, i dati osservati
possano essere accolti e, successivamente, condurre a una conoscenza attiva e autentica che
strutturi i fatti non a priori, ma a partire dalla relazione tra oggetto osservato e osservatore.
Non si può pretendere una mente osservatrice completamente neutra. All’opposto, la qualità
della raccolta dati dipende sia dalla mappa emotiva dell’osservatore sia da sentimenti che la
relazione con l’oggetto osservato risveglia in lui.
In questa esperienza, l’insegnate nota che vi è un momento importante che precede la
conoscenza e ha a che fare con il poter guardare i dati della realtà ancora sconosciuta. Questa
consapevolezza si rende nota attraverso i piccoli gruppi di lettura, che si avvalgono di un
conduttore. In questi gruppi, gli osservatori possono beneficiare di un training osservativo,
attraverso un confronto sul materiale osservativo e il proprio operare.
Nei gruppi, ogni partecipante legge a turno i propri protocolli di osservazione e dopo la lettura
può esprimere liberamente i propri pensieri in proposito.
Il conduttore favorisce questo atteggiamento partecipativo. Si nota quindi la relatività dei vertici
osservativi di ciascuno, della teorizzazione sull’alunno osservato. Nascono cosi i primi dubbi
sulle proprie sicurezze preconcette e si scopre la ricchezza di una teoria non più data a priori.
Attraverso il gruppo e il conduttore, gradualmente ciascuno comprende quanto siano
importanti le valenze personali presenti nella propria osservazione e nelle proprie operazioni
cognitive, la consapevolezza della soggettività dell’osservazione ne assicura l’oggettività.
Avvicinarsi alla metodica dell’osservazione è un’operazione difficile per gli insegnanti, in
quanto la capacità di osservare si collega con la capacità di tollerare l’incertezza, il non sapere.
Ciò si scontra con le tradizioni di formazione che si rifanno a vecchi modelli pedagogici, i quali
presentano l’insegnante sempre all‘altezza della situazione, un leader senza esitazioni. Ma
avallare questa idea, significa confermare un vecchio modello di apprendimento visto come
trasmissione-ricezione di dati, e non come relazione sia pure asimmetrica tra due soggettività
vive. Perché l’allievo possa esprimere la propria struttura cognitiva autentica, deve poter
contare su un insegnante in grado di tollerare di confrontarsi con una struttura diversa dai
propri desideri, con un percorso in cui l’allievo costruisce le proprie coordinare, non ancora
disponibili. Ci deve essere pazienza e fiducia che l’allievo possa, prima o poi, trovare la propria
strada nell’apprendimento.
L’insegnante apprende così, che solo nel tempo certi dati apparentemente slegati possono
forse combinarsi in una forma, dare luogo a una rappresentazione significativa che può essere
condivisa nel gruppo.
Accettare il tempo del caos senza imporre un proprio ordine permette di imparare a tollerare
qualcosa che appare pericoloso perché lontano dai propri parametri e logiche.
In conclusione, l’iter formativo degli insegnanti non può essere semplicemente informativo e
teorico, ma richiede esperienze di osservazione attiva e ripetuta nel corso degli anni.

Un’esperienza
Viene illustrato un corso triennale di formazione sull’osservazione volto a insegnanti di scuola
materna.
Il gruppo è composto da 7 insegnanti di ruolo provenienti da alcune scuole materne di
Collegno. La finalità era quella di avvicinare i componenti alle problematiche dell’osservazione
e alle competenze necessarie stare in una relazione più autentica e non direttiva con gli allievi.
Nel primo anno, dopo una serie di lezioni teoriche sugli aspetti affettivo-emotivi
dell’apprendimento in ottica psicoanalitica, i docenti avevano lavorato come gruppo di letture
con una conduttrice. Erano stati analizzati alcuni protocolli di osservazione relativi a una
coppia madre-bambino redatti da osservatrici esterne al gruppo di aggiornamento. L’intento
era quello di familiarizzare i docenti con il metodo e creare un vocabolario comune nel gruppo.
Nei due anni successivi gli stessi insegnanti avevano osservato più+ volte, in prima persona.
Un alunno di scuola materna in scuole non coincidenti con la propria sede di servizio. Ogni
volta, avevano il compito di scrivere un protocollo di osservazione. Il bambino veniva proposto
dalle insegnanti di sezione dopo l’invito a non individuare un allievo molto problematico, in ogni
caso l’alunno non veniva a sapere di essere oggetto di osservazione.
Come osservatrici, le insegnanti dovevano limitarsi a un atteggiamento neutrale, pur
rimanendo in relazione con quanto osservato. Ogni protocollo veniva letto dall’osservatrice nel
gruppo, con la presenza del conduttore. I commenti erano riportati in un verbale redatto a
turno, per ogni seduta, dai partecipanti. Nel tempo lo stile dei verbali e dei protocolli muta: da
discorsivo e retorico con molte generalizzazioni a più affettivo con il focus sull’interazione
bambino/insegnante/classe, osservatore/gruppo/conduttore.
All’inizio dell’esperienza, emergono difficoltà di resistere alla tentazione di agire e fare per
modificare una situazione secondo la propria visione, mentre la richiesta era quella
semplicemente di cogliere la realtà in atteggiamento neutrale. Per molto tempo, era difficile
immaginare di rimanere in relazione con l’allievo senza poter intervenire attivamente. Questa
difficoltà del non-agire sembra legata alla difficoltà di star vicino a emozioni nuove.
Paradossalmente, alle insegnanti appariva intrusivo il semplice guardare, poiché abituate a un
ruolo di intervento attivo nella propria classe. Per cui, anche nell’adulto inserito in un contesto
nuovo con cui non può familiarizzare attraverso un ruolo noto produce paure di essere di
troppo, essere isolato e solo.
Per poter sfuggire a questo senso id estraneità e solitudine, le insegnanti oscillavano tra un
ruolo di osservatrice e quello di maestra. Le osservatrici rispondevano alle domande degli
alunni, ma come farebbero se fossero le loro maestre, andando a inquinar l’osservazione.
Talvolta l’osservatrice si sentiva esposta agli sguardi degli allievi, poiché non protetta nel
proprio ruolo di maestra, indifesa, controllata.
Un’altra difficoltà era legata allo scambiare la neutralità del suolo di osservatore con assenza
di relazione.
Inoltre, lasciar fluire i dati osservativi senza organizzarli immediatamente con schemi cognitivi
o riferimenti culturali propri dava molta ansia e spingeva le docenti a cercare elementi
famigliari nel contesto osservativo (ad es. far rassomigliare l’alunno osservato con uno della
propria classe).
Entrare in un contesto osservativo ricco di più variabili (es. interazione bambino
prescelto/compagni di sezione/maestre) metteva in confusione le osservatrici. Sembrava che
avessero paura di interagire con tutti gli altri elementi del contesto perché si distoglieva
l’attenzione dall’alunno prescelto.
Durante l’esperienza, le corsiste iniziavano a cogliere le difficoltà che avevano come
osservatrici a porgere l0atteznione a messaggi emotivi quali solitudine del bambino osservato
o la propria noia. Da questo, la ricerca di cause esterne e concrete. Gradualmente le
osservatrici iniziavano a sentire sé stesse e le emozioni come proprie, non semplicemente
attribuite agli oggetti esterni. Si avviò la consapevolezza del proprio modo di osservare e
interagire con lo spazio interno e esterno. Iniziano così a comprendere come gli aspetti
onnipotenti dell’attività del docente inficiavano sulla relazione con l’alunno, impedendo loro di
conoscerlo. A seguito, comparivano anche i dubbi sul proprio operato.
L’allenamento a stare vicini alle emozioni implicate nell’osservazione ha permesso di far
emergere nuove idee, che pur mettendo in luce i limiti dell’attività del docente, possono essere
pensare dal gruppo senza bisogno di difendersi.

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