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CAPITOLO 1
DIMENSIONI EMOTIVE NELL’APPRENDIMENTO E FUNZIONE DELL’INSEGNANTE:
INQUADRAMENTO
Etica e insegnamento
Apprendimento e conoscenza volti alla comprensione → mira a conoscere l’oggetto di ricerca,
rispettandolo e conservandolo integro → viene prodotto sapere autentico e si inducono
mutamenti nel soggetto che apprende e nel soggetto che insegna → chi apprende è obbligato
a mettersi a confronto con l’altro.
Apprendimento e conoscenza volti al controllo→ strumentalizza l’oggetto di ricerca, non
produce né cambiamenti né apprendimento ma solo una sottomissione dell’oggetto posto al
servizio di qualcuno. NON è possibile conoscere senza amore → solo amore e attenzione nei
confronti del soggetto permettono di conoscerlo → ricerca scientifica è tale quando lo
scienziato prova realmente amore per l’oggetto del proprio studio.
Essenza dell’etica → Apprendimento dall’esperienza che coinvolge le dimensioni emotivo-
affettive → ha come risultato una dimensione etica.
Atteggiamento etico → atteggiamento di moralità interiore → nasce dall’adesione a norme che
nascono all’interno della mente → connesse direttamente al problema della responsabilità.
Condotta etica → determinata da norme interne che si generano della mente a partire
dall’esperienza.
Levinas → non è l’etica che dipende dalla religione ma la religione dall’etica → non si ha un
atteggiamento etico per via della religione (legge trascendente) ma avere un atteggiamento
etico porta come conseguenza il mettersi di fronte al mondo con un atteggiamento religioso.
Atteggiamento etico → si acquisisce solo quando i conflitti interni sono risolti → bisogna
sapere però che in tutti gli uomini ci sono dei lati cattivi, malati, crudeli e bugiardi → queste
parti non vanno scisse ma riconosciute e pensate.
Scuola → luogo deputato ad apprendere → insegnamento è un servizio svolto nei confronti di
chi apprende (allievo) → l’insegnante è invitato a porgersi nei confronti dell’allievo con un
atteggiamento etico → modo di lavorare volto a cercare di capire le risonanze emotive presenti
nell’allievo, come egli vive e sente ciò che impara e a come vive la sua partecipazione a un
gruppo di lavoro (classe).
Atteggiamento etico dell’insegnante → modo di lavorare volto NON a manipolare/modificare
l'alunno ma a rispettarlo per quello che è, per come apprende, pensa e sente.
Mancanza di disciplina → maggiore fonte di ansia nelle classi → allievi sentono che le forze
distruttive non sono contenute e ne sono spaventati, quindi diventano più aggressivi. Es.
negativo è “L’attimo fuggente” perché il docente vuole plasmare l’allievo (l’insegnate non deve
adattare a se l’allievo ma adattare se all’allievo).
O un insegnante è etico o NON è un insegnante.
Annotazioni conclusive
Necessario formare gli insegnanti: attuali modalità di formazione → obsolete e insoddisfacenti.
Freud → credeva ci fossero 3 operazioni impossibili da svolgere:
1) educare
2)governare
3)psicoanalizzare → parallelismo tra funzione clinica, la funzione educativa e la funzione di
comando → le indicazioni alla pratica educativa possono arrivare al lavoro clinico e l’attività
educativa ha qualcosa di simile a quella di comando. Attività di governo/ educative se ben
espletate implicano valenze terapeutiche → sviluppano e accrescono le parti sane della
mente.
Nell’educare si sbaglia sempre → non esiste l’insegnante perfetto. L’insegnante quasi buono
sbaglia ma è in grado di imparare dai propri errori e correggersi.
Funzione dell’insegnante → NON trasmettere, modificare o immettere qualcosa
(atteggiamento manipolatorio e aggressivo) ma accompagnare l’allievo al sapere →
predisporre le condizioni in cui si realizzi un apprendimento.
Ruolo educativo → aiuto, assistenza, accompagnamento simile al ruolo di medico, infermiere e
psicoterapeuta.
Plotino → “L'insegnamento giunge solo a indicare la via e il viaggio; ma la visione sarà di colui
che avrà voluto vedere”.
Gibran → “Nessuno può insegnarvi nulla, se non ciò che in dormiveglia giace nell'alba della
vostra coscienza. Il maestro che cammina all'ombra del tempio, tra discepoli, non dà la sua
scienza, ma il suo amore e la sua fede. E se egli è saggio non vi invita ad entrare nella casa
della sua scienza, ma vi conduce alla soglia della vostra mente”
CAPITOLO 2
IL RAPPORTO MADRE-BAMBINO COME PRIMA ESPERIENZA DI APPRENDIMENTO
Il rapporto madre-bambino
RELAZIONE MADRE-BAMBINO: costituisce la prima esperienza relazionale e prototipo del
modo di conoscere e rappresentare il mondo che il soggetto userà nella vita: è un legame
fisico e psichico che determina aspetti cognitivi e affettivi.
Klein (1935): il neonato, attraverso l’esperienza dell’alimentazione, vive esperienze che
elicitano fantasie inconsce connotate emotivamente. Questa è un’occasione primaria di dare
un significato psichico all’interazione con la realtà esterna (avendo la md come primo
referente). Il contenuto emotivo e di queste prime rappresentazioni inconsce è connesso ai
sentimenti di rabbia e invidia relati alla dipendenza (d)al seno come primo oggetto (non
sempre disponibile e presente), la reazione del bambinno è quella di proiettare sulla madre
(cioè fuori di sé) fantasie e sentimenti distruttivi.
Bion (1962): ipotizza l’esistenza di un apparato inizialmente deputato a registrare le
impressioni sensoriali derivanti dall’apparato digerente che poi evolverebbe nelle fasi di
sviluppo in un apparato per pensare. Il latte come nutrimento (sperimentare benessere se
presente o malessere se assente) → buona esperienza di allattamento implica esperienza di
benessere non solo fisico ma anche psichico [in questa esperienza alimentare-relazionale
primaria possono essere coinvolti anche processi emotivi (rabbia, paura) connessi a pulsioni
distruttive innate]
IL PRIMO ABBOZZO DEL SISTEMA PSICHICO è CONCEPIBILE NEI TERMINI DI UN
SISTEMA ALIMENTARE CONNOTATO DALLA SITUAZIONE EMOTIVA DELLA MADRE E
DEL BAMBINO.
Digerire-metabolizzare fatti, avere idee disgustose, assorbire conoscenza, tutte metafore
connesse a processo di alimentazione, sperimentato fin dalla nascita.
Una madre BUONA fornisce al bambino il nutrimento e soddisfa i bisogni materiali ma anche i
bisogni affettivi (la capacità di apprendere dipende dalla capacità della md di soddisfare il
bisogno di relazione), accetta i sentimenti intollerabili del bambino riconoscendogli una forma
di soggettività, diventa contenitore di significati e vissuti (anche dolorosi) dell’altro, contiene
l’angoscia del bambino e funge da supporto mentale, fornendogli una risposta bonificata
dell’angoscia degli eventi esterni (holding) (Winnicot). Soprattutto non proietta sul bambino i
propri vissuti d’inadeguatezza (Bion). Offre al bambino una mente capace di contenere
esigenze e fornire sostegno → Bambino interiorizza una mente capace di contenere e
affrontare con il pensiero eventuali crisi.
Relazione madre-bambino simile a successiva relazione insegnate-alunno: un soggetto
fornisce latte (conoscenza), l’altro non ne ha, ma ne necessita con la differenza che impegno
materno è avvertito come compito-ruolo che non colmerà mai richieste del figlio, il quale è in
condizione di completa dipendenza.
Il buon insegnante allora insegna a leggere, scrivere, contare facendo anche attenzione al
modo in cui l’allievo vive i rapporti e al suo mondo relazionale (attenzione al processo e non
solo al contenuto d apprendimento).
Il caso di Angela
FASI DEL BAMBINO:
- Schizoparanoide: vivere angosce persecutorie, oggetto è vendicativo e attaccante.
- Depressiva: bambino riconosce propria distruttività < senso di colpa per danni a oggetto
amato; paura di avere rappresentazioni interne rovinate e generare pensieri malevoli. Segue
una fase psichica conflittuale di elaborazione del senso di colpa e nasce aspetto riparativo
(proteggere oggetto verso cui si prova distruttività)
- Riparazione: tollerare che oggetto amato = oggetto odiato → costruire esperienza
relazionale. Premessa per formare immagine integrata e significativa → Struttura più matura,
doppia valenza, affettiva e cognitiva (es.rabbia segnala aspetto insoddisfacente, ma non
etichetterà madre come persecutrice).
L’apprendimento dall’esperienza
L’ottica psicoanalitica ha scoperto quindi che:
- APPRENDIMENTO → Fattori emotivi + conoscenza → non negare sentimenti negativi, ma
accettarli e riconoscerli: operazioni mentali intrecciate a vissuti personali.
- APPRENDIMENTO DALL’ESPERIENZA è significativo perché comporta la soluzione di un
problema, ma permette anche di imparare come tale problema è stato risolto. Vuol dire che la
conoscenza è il risultato di un travaglio interiore in cui è presente un oggetto buono che
permette di mettere ordine nei dati oggettivi che derivano dall’esperienza stessa. Questo
oggetto buono, che è l’apparato mentale, è in grado di contenere la confusione e il sentimento
di persecuzione che ne deriva» → Resistere alla tentazione di buttare fuori dalla propria mente
(evacuare) gli aspetti dolorosi dell’esperienza < Docente che crea le condizioni affinché ciò
non avvenga (insegnante che per primo dimostra di poter tollerare la sofferenza emotiva
implicita nel processo di apprendimento) → APPRENDIMENTO EMANCIPATIVO (autonomia
separazione/individuazione).
Bion: posso imparare dall’esperienza ma non apprendere → elaborazione personale e
soggettiva di info sensoriali ed emotive verso l’oggetto. La mente non è macchina fotografica,
non riproduce esattamente realtà: Gli input esperienziali non sono utilizzabili direttamente:
devono essere integrati ed elaborati da attività mentale per divenire significati mentalizzabili e
quindi pensabili. Questo processo non è così semplice perché è difficoltoso accettare nella
nostra mente qualcosa di ignoto con la sua incertezza.
Wittenberg: Soggetto non ha sicurezza che proprie risorse siano sufficienti: separarsi da
vecchie certezze implica sofferenza psichica di incertezza e come la mente affronta questo
dolore influenza capacità soggetto di fronteggiare spazi e luoghi nuovi-ignoti-diversi → arrivare
a contesti più adeguati richiede sofferenza-disagio: spesso vissuto terrorizzante. L’
apprendimento richiede anche una riorganizzazione dell’ assetto mentale per assimilare il
nuovo sapere → occorre tempo X di sperimentazione e riconfigurazione personale per
tollerare frustrazione (conoscenza-esperienza precedenti vengono modificate).
La scuola può lavorare in questo senso?
- Si → emerge cultura (emozionale) che favorisce cambiamento realtà interna verso nuove
modalità di pensiero e vicinanza a sfera affettiva-esperienziale intima.
- No → emerge cultura (intellettuale) che assicura pezzi sganciati di sapere predeterminato e
arricchimento nozionistico; bocca piena, ma mente non sazia.
Bion: sapere nozionistico è scisso dal Sé < la paura inconscia di provare sentimenti distruttivi
(invidia, odio, rabbia), così angosciosi inibisce nuove esperienze di conoscenza, vissute come
situazione cattive di inadeguatezza e mancanza < cancellazione coinvolgimento emotivo e
quindi della curiosità, tendenza al sapere e speranza di cambiare.
Scissione tra elementi cognitivi e affettivi (Richardson,1967) → perdere contatto con il Sé e
con gli altri < emergere di una mente anestetizzata in cui il compromesso è un assetto
finalizzato a buoni-ottimi risultati scolastici, evitare complicanze emotive e ottenere
gratificazioni narcisistiche (NON c’è un VERO APPRENDIMENTO).
AVIDITA’ (Bion): conseguenza che evade-elude sofferenza psichica, sostituendovi
soddisfacimento materiale → avidità incontrollata (allievo che dimentica tutto dopo un esame o
guarda sempre gli appunti perché non si fida del suo sapere).
Conoscenza realmente trasformativa = soggetto mantiene sentimenti ed emozioni che
connotano ogni incontro con realtà non ancora esplorata.
Competenza = sia patrimonio di strategie, nozioni e concetti che alunno usa per risolvere
problemi e cercare soluzioni, sia allenamento a dialogare con se stessi (attività mentali,
processi di apprendimento, elaborazione di esperienze, …); garanzia di avvicinarsi a oggetto
senza snaturarlo per non separarsi da altro da me.
CAPITOLO 3
I PROCESSI DI APPRENDIMENTO-INSEGNAMENTO
La relazione docente-allievo
Ogni atto di pensiero e conoscenza → mantiene una dimensione relazionale. Processo di
crescita cognitiva → incrementato dalla relazione con una persona attenta a cogliere le
emozioni implicate nei processi di apprendimento → tra queste emozioni vi è anche il disagio
psichico.
Questa persona con funzione di accompagnatore della crescita cognitiva → in grado di fare
distinzioni tra sentimenti e vissuti e che sa dare loro un nome → nome = significato pensabile.
Rapporto madre-bambino → rapporto di apprendimento-insegnamento per eccellenza → il
soggetto piccolo impara a interagire con la realtà → la madre deve tollerare le richieste e i
sentimenti distruttivi del bambino per poter svolgere là sia funzione genitoriale di cura fisica e
psichica.
Funzione docente → evoca la funzione genitoriale di contenimento e mentalizzazione degli
aspetti difficili dell’esperienza di apprendimento. Funzione docente → funzione di pensiero →
ha a che fare con competenze disciplinari e didattiche + deve saper cogliere le emozioni i
vissuti e i sentimenti di chi apprende → è necessario conoscere l’allievo per realizzare
esperienze di apprendimento.
Vertice psicoanalitico → conoscenza riguarda dati relativi al mondo interno dell’allievo →
l’insegnante può conoscerlo attraverso i sentimenti e le emozioni → è richiesta all’insegnante
una professionalità più completa → deve saper gestire le dinamiche relazionali
dell'apprendimento.
Insegnante → deve tollerare come propri i vissuti che l'allievo evoca dentro di lui quando
agisce sotto forma di comportamenti aggressivi e di rifiuto al compito o di ribellione alle regole
o ancora con atteggiamenti di ritiro in se stesso.
Insegnanti → corsi di formazione per comprendere che la relazione con gli allievi non è solo
intellettuale ma anche emozionale → vi sono stati infantili nella mente che hanno a che fare
con la sofferenza psichica connessa a ogni incontro con un oggetto diverso da sé → elementi
psichici primari che vengono raccolti e pensati anche dalla mente adulta.
Rapporto madre-bambino → può aiutare gli insegnanti → bisogna dare attenzioni all’allievo e
ai suoi bisogni nella realizzazione di un progetto culturale che lo lega all'insegnante e ai suoi
compagni → legame che va elaborato tenendo in conto la sofferenza psichica che lega l’allievo
al possesso di nuove conoscenze → paura di sbagliare, di non essere adeguato, là rabbia
verso situazioni disagevoli, la frustrazione dopo l'insuccesso.
L'insegnante → si trova a sperimentare se stesso come inadeguato al compito o incerto e
confuso sul da farsi.
Contenuti mentali bonificati → ripresi dalla mente dell'allievo e utilizzati come pensieri nuovi e
strumenti di consapevolezza delle proprie azioni → si traducono in un migliore adattamento al
mondo esterno → l’allievo acquisisce abilità per la risoluzione dei problemi e apprende
qualcosa sulle modalità di pensiero utilizzate per risolverli.
Crescita = poter contare sulle proprie risorse di fronte alle incognite che presenta un nuovo
problema → il compito di nutrice culturale dell’insegnante testimonia che vi è la possibilità di
occuparsi di qualcosa anche se ci è ignoto e ci spaventa.
Mente del docente → può aiutare l’allievo a riconoscere un percorso di apprendimento →
allievo può accettare la sofferenza di non essere onnipotenti e onniscienti.
Manifestazioni emotive → gli insegnanti sostengono che è spesso necessario prescindere da
esse per poter assicurare condizioni che proteggano l'impegno dell’apprendimento da
comportamenti indisciplinati e aggressivi → che rischiano di rallentare il lavoro della classe.
Atteggiamenti censori → 1) rispondono alla difficoltà dell’insegnante di contenere il proprio
disagio emotivo; 2) condannano l’allievo a una logica circolare dell’insuccesso.
→ Gli Insegnanti devono essere fermi ma comprensivi.
Poter identificarsi con insegnante quale essere che comprende le fantasie e le ansie implicate
in una relazione di apprendimento → sostiene gli aspetti della personalità dell’allievo aperti al
nuovo e interessati all’apprendimento di cose nuove.
Rapporto docente-allievo → ambito in cui l’alunno impara a pensare e riflettere sugli aspetti più
confusi e difficili della propria esperienza. Rapporto docente-allievo → valenza terapeutica →
aiuto per bonificare il rapporto dell’allievo con il sapere → nuove possibilità di apprendimento
→ dimensione più autentica del lavoro dell’insegnante → incoraggiare i processi di
conoscenza ponendosi come persona che aiuta l’allievo a modulare il disagio cognitivo →
secondo la teoria psicoanalitica.
La difficoltà ad apprendere
Secondo la teoria psicoanalitica: la difficoltà ad apprendere è legata a fattori razionali → non
solo a situazioni di handicap da patologie organiche ma riguarda anche bambini emotivamente
disturbati → riversano nella scuola il loro disagio → di chiudono in loro stessi o assumono
comportamenti aggressivi che mettono gli insegnanti nell'impossibilità di svolgere il suo
compito pedagogico-didattico.
Gli insegnanti pensano di non essere in grado di aiutare questi allievi → comportamenti
aggressivi e gli atteggiamenti di chiusura rendono il docente ansioso.
Fantasie e vissuti inconsci che si organizzano nella realtà interna del soggetti a partire dalle
prime relazioni con figure genitoriali → influiscono sulla struttura dell’Io e sulle possibilità di
apprendere dall’esperienza.
Klein: se nel bambino piccolo prevalgono vissuti di invidia odio e intolleranza alla frustrazione
→ non c’è possibilità di vedere emergere sentimenti di amore e riconoscenza per la figura
materna → percepita in modo distorto.
Difficoltà per il bambino a tenere dentro di sé sentimenti opposti nella percezione dell’altro→
ostacolano la possibilità di cogliere un’immagine realistica della madre.
Sviluppo di un patrimonio cognitivo: dipende da quanto il soggetto riesce a integrare gli aspetti
opposti della sua personalità → bilanciare sentimenti e percezioni negative della realtà con
vissuti di fiducia e speranza nelle risorse esterne e interne:
- se va a buon fine questa operazione → l’apparato mentale mitigherà e conterrà i vissuti di
invidia aggressività e onnipotenza.
- se tale operazione ha cattivo esito → i vissuti di invidia aggressività e onnipotenza
soffocheranno la speranza di trovare dentro di sé uno spazio per poter apprendere
dall’esperienza. I vissuti di invidia, odio e rivalità → quando raggiungono una certa violenza
nel mondo interno → evocano distruttività e depressione → ostacoli ai processi di pensiero e di
apprendimento vengono potenziati perché si cerca di allontanare la sofferenza fisica collegata
al nuovo sapere.
Difficoltà di apprendimento: incrementate dal prevalere di stati mentali primari → caratterizzati
da difficoltà a tollerare il disagio legato alla conoscenza.
Quando sono preponderanti gli aspetti psichici infantili → si produrrà ansia persecutoria,
disperazione e odio.
Nella mente più disposta a tollerare la sofferenza psichica → i sentimenti negativi NON
dominano le parti più adulte e costruttive della persona → ma possono generare amore e
speranza.
Mente che funziona in modo molto proiettivo → indebolisce le potenzialità cognitive e crea un
disturbo relazionale → spazio relazionale dell’allievo è come invaso da sentimenti distruttivi →
egli non è consapevole di averli generati.
Difficoltà di apprendimento → uso di sentimenti distruttivi che la mente non è in grado di
metabolizzare → mente è troppo impegnata a proteggersi da un pericolo esterno ed interno
autoprodotto → riduce la propria disponibilità ad apprendere.
Disturbo relazionale → docente che richiama l’allievo non considera che la mente di questi è
già occupata a fronteggiare la propria sofferenza da non avere spazio per altro → quindi
l’allievo risponde negativamente → l'insegnante si sente rifiutato.
Attitudini del soggetto → prigioniere di vissuti invidiosi e distruttivi → non possono migliorare
attraverso la relazione costruttiva con gli insegnanti → legame che separa l’allievo dal
maestro/sapere viene vissuto come immodificabile → grande sfiducia → il maestro è vissuto
come colui che umilia l’allievo e lo condanna a una situazione di disagio e inadeguatezza → ne
risente il rendimento scolastico anche se si è in presenza di buone capacità intellettuali → gli
insegnanti dichiarano di non essere in grado di agire e interagire con queste difficoltà di
apprendimento.
Alcuni esempi
Andrea: otto anni, non accettava correzioni dell’insegnante → le cancellava con il bianchetto
→ se l’insegnante gli faceva notare il suo comportamento scorretto egli iniziava a cantare o
faceva gestacci → non voleva farsi sottomettere → arriva a minacciare compagni e maestri
che suo padre avrebbe creduto a lui → reattività del tutto ingiustificata → le insegnanti iniziano
a sospettare che i genitori di Andrea realmente condividessero con Andrea opinioni
squalificanti nei loro confronti.
Andrea spiega alla direttrice che non voleva che sul suo quaderno ci fossero correzioni perché
lui voleva fare tutto giusto → si nota che Andrea mostrava comportamenti disturbati quando
faceva esercizi che non gli riuscivano bene → viversi insicuro lo faceva sentire sopraffatto
dall’insegnante → insegnante vissuto come essere autoritario che voleva umiliarlo → disagio
di apprendimento divenne per Andrea qualcosa da buttar fuori con comportamenti che
ponevano gli insegnanti in difficoltà.
Situazione familiare di Andrea → mamma in ospedale per sospetto male incurabile e papà con
problemi di alcolismo e poca attenzione per la vita scolastica del figlio → figure genitoriali non
affidabili → ricovero della mamma poneva in crisi tutto il mondo interno del bambino → non
c’era più nessuno che potesse arginare i suoi aspetti fragili e infantili → problema esterno
sembra concretizzare il dubbio interno → assenza dentro di sé parti solide e costruttive in
grado di dare fiducia nei momenti di difficoltà.
Come mai il problema diventa cognitivo → il bambino non poteva contare su figure esterne o
interne negava ogni situazione di apprendimento per non confrontarsi con le sue parti più
piccole e fragili. Andrea chiedeva spesso chi comandava → drammatizzazione di un bisogno
interno → paura che nessun adulto fosse realmente forte. Una volta compresa la natura dei
problemi di Andrea, è stato possibile aiutarlo.
Alcuni allievi si rifugiano in uno spazio mentale intimo e segreto dove dominano modalità
onnipotenti → si presentano disciplinati e ordinati ma distanti e isolati. Docente → percepito
come figura interna persecutrice. Sperimentare in modo vivo l'apprendimento → genera
disagio → ci si deve confrontare con figure → l’allievo sceglie inconsciamente di cancellare
conoscenza e avere dei sentimenti → questo può sopprimere scambio spontaneo e affettivo
con l’insegnante e con il sapere stesso.
Difficoltà di apprendimento → hanno a che fare con il prevalere di percezioni negative →
potenziano aspetti di difesa e chiusura verso il nuovo → vissuto come ignoto e minaccioso.
Visione troppo persecutoria della realtà → rende rigidi i confini tra mondo esterno ed interno.
Difficoltà degli insegnanti → rimanere vicino a vissuti d'ansia e ad atteggiamenti di aggressività
→ senso di rifiuto che fa sentire gli insegnanti pieni di sfiducia nelle proprie capacità e di rabbia
per l'allievo → situazione molto lontana dal modello di insegnante.
Maestra → dovrebbe pensare la rabbia dell’allievo e restituirgliela in forma narrativa →
ponendo ordine tra i vissuti collegati → così la mente dell’allievo riparte a pensare → l’allievo
può acquistare fiducia.
Intervento dell'insegnante rispetto alle difficoltà conoscitive dell'allievo → insegnante come
madre del bambino → deve poter riconoscere stato d'animo e i bisogni dell’allievo ritrovandoli
nei comportamenti messi in atto nelle attività scolastiche → se si comprendono le dinamiche
emotive come inadeguatezza, rabbia, perdita e intolleranza alla frustrazione → le fantasie
persecutorie implicate nell’apprendimento sono meno complesse e opprimenti.
Comportamenti aggressivi, incapacità di concentrarsi, tentativi di evadere dal compito →
vanno pensati dalla mente dell’insegnante → così da poter condurre a comprendere che le
difficoltà di apprendimento dell’alunno sono difficoltà di relazione → esprimono vissuti di
inadeguatezza.
Relazione docente-allievo → diversa esperienza di funzione genitoriale → mediata dal compito
pedagogico-didattico. Insegnante → può aiutare l'alunno a pensare e differenziare le ansie→
delineando un percorso di apprendimenti più fecondo e personale.
L'alunno non va definito pigro o demotivato → bisogna riflettere sulle modalità con cui si
relaziona alle attività scolastiche → apparire svogliato e chiuso in sé stesso o aggressivo →
sono tutti diversi personali tentativi per risolvere il proprio disagio scolastico → tentativi
improduttivi.
NON basta essere un insegnante capace se nella relazione con l’allievo non sono presenti
capacità di accoglimento e risposta che possano trasformare in attività e pensiero le emozioni
più vive → bisogna fare attenzione agli aspetti fragili → l’espressione di questi aspetti aiuta
l’allievo a riprendere dentro di sé fantasie e vissuti negativi migliorati dal pensiero del docente
→ si pongono le basi per un apprendimento creativo perché è più attento al nuovo.
Questo tipo di ascolto da parte del docente sugli aspetti più primitivi delle sue relazioni di
apprendimento → faticoso per l'insegnante. Se le difficoltà di apprendimento sono lette come
disagio relazionale → vengono chiamati in causa l’insegnante e il suo approccio relazionale.
A volte gli insegnanti sembrano non avere fiducia nelle possibilità della propria mente di
reggere l’ansia dell’alunno per poterla pensare e restituirgliela resa meno pesante dalla propria
comprensione.
CAPITOLO 5
L’ALLIEVO
Aspettative e fantasie
All’inizio di un anno scolastico ci sono aspettative ed emozioni di 3 tipi:
1) timore di sentirsi confusi;
2) speranze/paure nei confronti dell’autorità;
3) speranze/paure nei confronti del gruppo classe.
In generale, l’inizio del nuovo anno scolastico rappresenta per tutti (anche insegnanti e
genitori) un’esperienza nuova; se però si rivela troppo nuova (o troppo poco) può generare
delusione e rabbia.
Per l’insegnante, la difficoltà principale è trovare il modo di esprimere gli aspetti indefiniti delle
fantasie degli allievi, che influenzano tanto l’esperienza scolastica quanto più è difficile per loro
comunicarle.
Il cambiamento e l’esperienza nuova possono spaventare, ma sono anche desiderati, se
nell’infanzia non si sono vissute esperienze traumatiche; in questo caso, la paura di essere
inadeguati, di prendere brutti voti o di essere trascurati sarà più forte e riattiverà veri e propri
fantasmi, disturbando il rendimento.
All’inizio dell’anno, possono esserci paure anche legate ai nuovi compagni (ansie di perdita di
Sé) e si manifestano soprattutto in quella che viene definita “insicurezza”.
Le ansie, poi, possono riguardare anche insegnanti, programmi e strumenti didattici
(soprattutto i libri di testo). Agli insegnanti sono associati tutti i problemi tipici del rapporto con i
genitori (è una sorta di transfert); inoltre essi possono suscitare l’aspettativa di trovare in loro
tutte le risposte, e scoprire che non è così può portare delusione. Lo stesso vale per i libri.
C’è inoltre il timore della confusione che si crea di fronte a esperienze nuove. Tutte queste
ansie e paure vengono comunicate “facendole provare” all’insegnante (identificazione
proiettiva); quest’ultimo potrà prestare attenzione a queste paure e bonificarle, ma solo se non
ha anche lui gli stessi timori, perché in quel caso finirà per ignorarli o reprimerli.
Un’esperienza
In questo paragrafo viene raccontata un’esperienza dell’autrice, che aveva organizzato una
sorta di laboratorio con bambini al primo anno di scuola elementare per aiutarli a elaborare le
loro aspettative e paure sulla nuova esperienza. Alcuni di loro avevano aspettative positive e
ritenevano che si fossero realizzate (es.: “la scuola è bella come l’avevo sognata”), altri la
associavano a pensieri e sogni orribili e paurosi. A volte anche i genitori contribuiscono alle
paure dei bambini, essendo spaventati a loro volta dalla nuova esperienza. In generale,
ascoltare queste aspettative e aiutare i bambini a esprimerle ha permesso loro, nella maggior
parte dei casi, di vivere l’ingresso a scuola in modo più sereno.
CAPITOLO 6
L’INSEGNANTE
La psicoanalisi sottolinea il primato del mondo interno e come le relazioni infantili e i sentimenti
determinino le nostre relazioni adulte, la percezione e l’elaborazione della realtà.
Nell’educazione di uno studente, l’insegnare riflette il modo di essere del docente che, nel
rapportarsi con l’allievo, porta con sé il suo modo di vedere la vita e rivive i propri problemi-
fantasie vissuti in età scolare.
Le esperienze lavorative pregresse e i suoi stili di vita (paure, speranze e aspettative
influenzano il lavoro dell’insegnante - Salzberg-Wittenberg, Henry-Polacco e Osborne, 1983)
Quanto detto sopra sottolinea dunque l’importanza della metodologia che privilegia pensiero,
riflessione, giudizio critico e problem solving.
Mantenere il “setting”
Il concetto di setting si rivela utile non solo per dar conto di una serie di fenomeni che
accadono in un gruppo di lavoro avente come obiettivo l’apprendimento, ma prima ancora si
rivela utile nella progettazione, organizzazione e gestione del processo formativo.
Incominciano perciò ad apparire studi e ricerche che tentano una traduzione, un’applicazione e
un adattamento del concetto di setting dal contesto analitico a quello formativo e
dell’educazione degli adulti (Corino, 1990, Lo Verso, 1990, Lo Verso, Ruvolo, 1990).
In termini di setting, quali indicazioni ci dà la psicoanalisi che possono essere utilizzate
nell’ambito scolastico per il lavoro dell’insegnante e per la promozione dell’apprendimento
dall’esperienza?
In psicoanalisi il termine “setting” - che fu usato probabilmente per la prima volta da Winnicott
al XIX Congresso internazionale di psicoanalisi di Ginevra del 1955 - riprendere quella di
Flegheneimer, secondo cui il setting è come il buio al cinema o il silenzio nella sala da
concerto: serve cioè per vedere e sentire meglio. In psicoanalisi esso è dunque l’insieme delle
condizioni che permettono lo svolgersi del lavoro analitico. Ma se è vero che il setting è
regolarità e durata, è altrettanto e ancor più vero che, prima ancora che un fatto logistico
organizzativo, il setting, come ha fatto rilevare Di Chiara (1986, 1991), è un assetto mentale
ovvero un atteggiamento e un assetto relazionale. Il mantenimento del setting dunque non è
un rituale, burocratico o ossessivo rispetto delle regole e della struttura data ma soprattutto un
modo di essere nel rapporto con l’altro, il paziente. In altri termini si può dire che il setting sia
uno stato della mente nei rapporti con gli altri, in qualunque tipo di rapporto - e quindi
evidentemente anche nel rapporto educativo-formativo - si può saper mantenere un setting
oppure no; la maturità emotiva nella relazione con gli altri consiste proprio in questo saper
mantenere la giusta distanza interpersonale senza intrudere o senza lasciare troppo solo
l’interlocutore, proprio come la buona madre dovrebbe fare con il suo bambino, come ricordava
Winnicott (1965).
Un setting rigoroso e stabile inoltre permette che il transfert sia più nitido e trasparente.
Possiamo dire che il setting è il contenitore che permette di realizzare l’apprendimento
attraverso l’elaborazione delle proprie esperienze. E’ lo strumento di lavoro basilare perché sta
a monte dell’interpretazione, in quanto è ciò che permette all’interpretazione di essere: infatti
senza un setting e il suo mantenimento, l’interpretazione psicoanalitica non sarebbe (non è)
che un esercizio intellettualistico, quando non manipolatorio e autoritario. La funzione del
setting nel lavoro analitico è talmente importante che, secondo Winnicott (1956), con i pazienti
regrediti la situazione analitica diventa più importante dell’apprendimento (mentre con i
pazienti con un Io intatto è fondamentale un lavoro interpretativo).
Interessante e anche curioso osservare al riguardo che Winnicott usa il termine “management”
per definire la conduzione dell’analisi, nel senso che il suo modo di organizzare il lavoro può (e
dovrebbe) tener conto del patrimonio psicoanalitico. Credo che stia proprio in un “modo di
organizzare” improntato ai suggerimenti della psicoanalisi il senso più profondo del contributo
psicoanalitico, non solo al processo educativo-formativo o anche al processo manageriale in
senso lato: un modo per controllare meglio il processo organizzativo nel senso dello sviluppo e
della maturazione individuale e collettiva, e non invece nella direzione della manipolazione e
della casualità o della fortuna.
Se è vero che le modalità di organizzazione del lavoro analitico vanno sotto il nome di setting,
allora sarà altrettanto vero che, nell’ambito educativo, il primo contributo che ci può dare la
psicoanalisi sta proprio nel modo di organizzare e “gestire” il processo di apprendimento, cioè
sta nel modo di organizzare e gestire il setting di apprendimento. Il setting cioè diventa il primo
e principale strumento di lavoro, cioè di apprendimento. Questo implica che utilizzare la
psicoanalisi nella formazione non significhi fare interpretazioni o andare alla caccia del
profondo, anche perché spesso la profondità, come ricorda von Hofmannsthal nei suoi lavori
teatrali, sta nella superficie delle cose, ma soprattutto e prima di tutto vuol dire progettare,
strutturare e gestire un setting di apprendimento, vale a dire un contesto di lavoro. È dunque
nella progettazione e organizzazione del lavoro formativo, prima ancora che nella gestione
dell’aula, che può esserci - e dovrebbe esserci - l’utilizzazione del contributo e della
competenza psicologica, intesa nel senso psicodinamico.
Tenendo conto che il setting non è solo organizzazione e gestione dell’aula, ma anche e
soprattutto uno specifico stato della mente quando lavora per apprendere, l’attenzione al
setting come attenzione a tenere un corretto assetto e atteggiamento mentale diventa cruciale
nella promozione e facilitazione dell’apprendimento e, a maggior ragione, quando si voglia
insegnare tenendo conto del contributo della psicoanalisi intesa come scienza della relazione.
Il setting implica l’adozione di un atteggiamento etico. (Vedi cap. 1) non è possibile avere un
atteggiamento autenticamente formativo se non si assume anche una posizione etica.
Un concetto collegato al setting il concetto di metasetting di cui parla Lie- Berman (1970-72) : è
l’ambiente sociale che circonda il setting e che lo influenza in qualche modo (es. la
famiglia) .Dunque, come nella situazione analitica le variazioni ambientali possono incidere sul
setting, così la famiglia e la struttura scolastica, per le interferenze che provocano sull’azione
formativa, possono essere definite come metasetting e quindi essere viste sotto un profilo
diverso: non solo come fatti esterni, sociali, ma come fatti connessi con l’ approfondimento e
intervenienti attivamente in esso.
L’atteggiamento “analitico” nella scuola (vedi Speziale Bagliacca)
Qual è l’assetto mentale più adeguato nella pratica educativa per promuovere l’apprendimento
e lo sviluppo delle persone?
Nell’analisi l’atteggiamento più adeguato a mantenere il setting è ovviamente quello analitico,
tanto che si può dire che atteggiamento analitico e mantenimento del setting coincidono.
Dobbiamo chiederci allora in che cosa consiste adottare un atteggiamento analitico in un
contesto che analitico non è, come appunto quello educativo.
Sostanzialmente vuol dire mantenere un assetto mentale e relazionale specifico che non va
assolutamente confuso col fare “interpretazioni” (perché si lavora con alunni “sani e obbligati”,
non con pazienti).
In un contesto formativo, bisogna osservare, ascoltare e riconoscere gli aspetti altri di ciò che
ci viene comunicato e aiutare a elaborarli senza però fare interventi selvaggiamente
interpretativi, ma sapendo e trovando il modo di dire e inviare messaggi che aiutino la
comprensione e l’integrazione nella mente delle ansie e delle parti scisse. Si tratta di utilizzare
le emozioni, piuttosto che controllarle facendo finta di utilizzarle con stili di conduzione
narcisistici e in ultima istanza indicatori di angosce e paure (persecutorie), negate, del docente.
Il secondo punto da sottolineare è che l’atteggiamento analitico consiste nel cercare di capire
piuttosto che nello schematizzare, nel mettersi di fronte allo sconosciuto piuttosto che nel
ridurre tutto a modelli e teorie precostituite, nel cercare di apprendere dall’esperienza e dalla
relazione piuttosto che ricondurre difensivamente l’esperienza a schemi precostituiti.
L’assunzione di un atteggiamento analitico da parte dell’insegnante, in quanto stile di relazione
finalizzato a mantenere un setting per realizzare l’apprendimento, vuol dire quindi cercare di
capire, pensare e sentire nel senso bioniano del termine, cioè promuovere un gruppo di lavoro
volto all’esplorazione insieme dei problemi, alla ricerca della verità, non una classe gestita
difensivamente. E infatti un atteggiamento antiformativo non solo la manipolazione degli allievi,
ma l’utilizzazione dell’aula per trasmettere messaggi valoriali o ideologici.
(es di Harris: L’iperdidatticismo, aria onnisciente, una supervisione troppo rigorosa… tutto ciò
stimola la competitività nel senso peggiore del termine, con tutte le conseguenti fantasie
persecutorie e rivalità, invidia, gelosia ed esclusione) Il modello di lavoro, l’atteggiamento
analitico come atteggiamento finalizzato al mantenimento del setting, è dunque un
atteggiamento orientato a promuovere il confronto, fondato sulla non onnipotenza e sulla
ricerca in comune.
La competenza psicologica dell’insegnante consiste proprio nel non fare lo psicologo,
ma l’insegnante.
Mantenere e rispettare il setting è prima di tutto mantenere i ruoli e l’obiettivo, rispettare i tempi
e i lavori previsti e non fare nessun cambiamento se non è stato contrattato, discusso e
concordato con tutto il gruppo. Ma mantenere il setting è anche tollerare che qualche allievo
non voglia cooperare, impedendo però che chi non vuole partecipare attacchi il gruppo e il suo
lavoro; è proteggere il gruppo costituendo una situazione relazionale in cui i membri possano
interagire con una mentalità adulta da gruppo di lavoro (Bion, 1961), cioè promuovere il
pensiero e non favorire l’agito. È saper mantenere la capacità di pensare anche sotto l’urto
massiccio delle identificazioni proiettive degli allievi che sono particolarmente forti all’inizio e
alla conclusione di un ciclo di studi (vedi il capitolo 5, quarto paragrafo). Mantenere il setting è
dunque, per usare una terminologia diversa, promuovere un atteggiamento scientifico,
sperimentale, di ricerca insieme in una situazione che è, per definizione, di incertezza.
Colludere con i bisogni di dipendenza degli allievi e quindi agire anziché pensare. I contenuti
devono essere collegati alla concreta esperienza degli allievi, l’atteggiamento analitico
significhi non il rifiuto del contenuto ma l’attenzione costante a come esso viene atteso,
recepito, elaborato. lo studente all’inizio di un percorso di apprendimento non si aspetta
qualcuno che lo aiuti e assista nell’apprendimento, ma qualcuno che, dando delle risposte o
delle ricette di comportamento (delle “tecniche” o dei “metodi”), tolga magicamente dalla
sofferenza mentale e dalla fatica e frustrazione di apprendere dall’esperienza. Tenere il setting
in una situazione scolastica (o formativa) non vuol dire rinunciare ai contenuti, ma cercare di
elaborare e far elaborare la componente affettivo-emotiva che li accompagna e che si
manifesta nelle fantasie che gli allievi fanno sulla scuola, sulla loro classe, sui compagni,
l’insegnante, se stessi; sul perché sono lì, su cosa ci si aspetta da loro e su come potranno
utilizzare o trasferire ciò che apprenderanno. Questo atteggiamento aiuta ad aumentare la
“disponibilità” a ricevere, che è la condizione per imparare e crescere. (vedi cap. 1) Il setting è
fatto di regole organizzative e logistiche, di “programmi”, e tenere il setting da parte
dell’insegnante è prima di tutto rispettare queste regole, senza colludere con gli allievi. Dato
dunque che il setting è un contenitore, è necessario mantenerlo perché ciò serve non solo a
elaborare ma anche a proteggere, e a far uscire dalle eventuali crisi che il processo di
apprendimento comporta. L’attenzione al mantenimento del setting come insieme di regole,
processo e assetto relazionale, sia nella scuola che nella formazione, costituisce quindi la
miglior garanzia per la realizzazione del lavoro e per la promozione dell’apprendimento negli
allievi.
Due situazioni peculiari dell’attività didattica: la lezione e la valutazione, sotto il profilo
psicologico, ovvero cercando di mettere in evidenza che cosa comportano sul piano emotivo e
relazionale.
Valutare
1- Valutare → si raffronta la crescita culturale dell’allievo con gli obiettivi, le mete, gli esiti che
si erano previsti e sperati per lui attraverso l’interazione educativa. Quindi ha anche una
funzione orientativa, in itinere, momento per momento, l’insegnante può cogliere la necessità
di modulare diversamente la proposta educativa perché l’allievo possa accoglierla in modo più
proficuo. La valutazione non è quindi solo un momento di controllo fiscale, ma è anche un
importante momento di feed-back, al servizio non solo dello studente ma anche
dell’insegnante. Si vuole dire che, ridotta solo ad un esercizio di potere (insegnante) e ansie
(alunno), la valutazione perverte il suo senso e la sua utilità originaria e si trasforma in una
sorta di pratica inutile che perde qualunque valenza formativa.
L’allievo deve restituire all’insegnante, rielaborato da lui stesso, ciò che egli ha cercato di
trasmettergli. Questo implica che lo studente deve trarre fuori di sé qualcosa che ha dentro per
darlo a qualcun altro. Nella valutazione, chi apprende può essere aiutato a guardare “le cose”
che ha portato fuori da sé - ciò che imparato - in un modo descrittivo più che giudicante.
Questa capacità di guardare e rimanere vicino ai propri prodotti non è innata o scontata, ma è
qualcosa che si può apprendere grazie a una relazione asimmetrica ma non giudicante in cui
emozioni e vissuti implicati possono essere contenuti; solo la capacità di osservare
→ è ciò che permette di apprendere dall’esperienza, ma questo apprendimento è frutto diretto
di un’attività valutativa adeguata; In questo senso Fattività di valutazione mobilita nel valutato
ansie che il valutatore deve saper cogliere e accogliere, perché diventano un potente
strumento affinché l’allievo possa imparare dall’esperienza attraverso l’osservazione di se
stesso nel momento del giudizio e dell’esame. Senza passare attraverso questa elaborazione
tutta interiore la valutazione perde totalmente il suo significato e diventa - come tante altre, del
resto, nella scuola - una grande occasione di apprendimento perduta. La valutazione è, così,
un fatto relazionale che coinvolge nel medesimo impegno comunicativo insegnante e allievo.
In definitiva, dire che la valutazione è essa stessa un ambito di apprendimento vuol dire non
tanto determinare se l’allievo in un dato momento abbia raggiunto un determinato obiettivo
prefissato per lui, bensì capire quanto l’allievo abbia imparato a mettere in rapporto le proprie
risorse interne con le richieste della realtà in funzione del rendere visibili e comunicabili i propri
apprendimenti. L’allievo che deve imparare a esprimere le proprie conoscenze in una
situazione di valutazione si confronta prima o poi con difficoltà e limiti rispetto al proprio
prodotto, ovvero angoscia, inadeguatezza, incapacità, rischiando così di andare incontro a una
sorta di critica radicale al proprio modo di essere. Naturalmente quando l’allievo e l’insegnante
possono condividere l’esperienza di comunicare fra loro intorno a un prodotto, possono
attraversare uno spazio di apprendimento bonificato. In questi momenti entrambi possono
riconoscere la soddisfazione di essere arrivati a qualcosa che vale e può essere apprezzato.
Da qui nascono un nuovo desiderio e una maggiore sicurezza nell'affrontare ulteriori
apprendimenti. La valutazione si svolge sempre sullo sfondo di un gruppo-classe di compagni
e il sapere può essere un mezzo per ottenere l’affetto dell’insegnante. In questo senso, per
esempio, è bene evitare di fare elenchi di merito poiché essi costituiscono un fattore
disintegrante per il gruppo classe e incrementano la gelosia e la paura, che non servono
all’apprendimento ma solo a gratificare narcisisticamente il docente, oppure a produrre
individui estremamente competitivi, ma non per questo emotivamente maturi e adattati.
L’ansia però è anche dell’insegnante: quanto più è stretto il rapporto con l’allievo tanto più è
impegnativo decidere, poiché non si possono separare sic et simpliciter i rapporti e i sentimenti
personali dal giudizio, così come non si possono separare dal processo di insegnamento-
apprendimento. Rassicurare gli alunni dichiarando che la valutazione è di secondaria
importanza rispetto all’apprendimento è una falsificazione e, come tale, antitetica alla crescita.
È invece utile permettere allo studente di sperimentare la propria ansia, il che lo aiuterà ad
apprendere anche da questa esperienza. Imparare a rapportare i propri risultati con le richieste
di realtà, cioè apprendere a valutare, significa sia per l’insegnante che per lo studente
accettare di lavorare con le ansie che sorgono inevitabilmente. Si può quindi affermare che la
valutazione diviene apprendimento solo quando non si negano le ansie a essa connesse, ma
le si esplicitano ed elaborano.
Se la scuola come istituzione non prende coscienza del carico emotivo che la valutazione
come relazione comporta non solo per l’allievo ma anche per l’insegnante, Non basta, infatti,
sostituire le performance quantitative…Sono necessari dunque nuovi atteggiamenti e
consapevolezze professionali.
Fare lezione
2- Fare lezione → è uno strumento didattico di particolare importanza, quando ci si avvale
della lezione, nel corso della propria attività, è bene tenere a mente quali sono le dimensioni
che la caratterizzano, affinché nella sua progettazione, preparazione ed esecuzione lo
strumento sia di una qualità il più possibile elevata. Quando la si utilizza occorre allora
domandarsi:
- il perché, cioè quali sono le funzioni che deve svolgere;
- il come, cioè quali sono le modalità di comunicazione più efficaci; - il quando, cioè quali sono
i tempi di fruibilità;
- il chi, cioè chi è il responsabile della lezione; - il che cosa, cioè quale ne è il contenuto;
- la relazione, cioè la dinamica che intercorre tra docente e uditorio. Analizziamo singolarmente
questi vari aspetti.
Funzioni della lezione sono sostanzialmente quattro:
1. trasmissione di informazioni;
2. trasmissione di concetti;
3. razionalizzazione di eventi di gruppo;
4. proposta di schemi e modelli interpretativi.
Permette di passare molte informazioni e concetti in poco tempo sintetizzando conoscenze;
rende omogenee le conoscenze degli allievi e aiuta a uscire dalla confusione anche perché
soddisfa il bisogno di dipendenza da una figura riconosciuta come più competente. Questa
figura, per altri versi, permette a chi apprende di identificarsi con un oggetto più ricco, un
modello a cui tendere nel percorso di crescita culturale. Se proposta con un buon livello
qualitativo, in termini di contenuto e di modalità espositive, può fornire competenze utili per
ulteriori elaborazioni più attive e critiche da parte degli allievi. Se la lezione è aderente alla
situazione emotiva attuale degli allievi e del gruppo diventa quindi un modo per elaborare
indirettamente ciò che succede in quel determinato momento. Il docente può proporre schemi
e modelli interpretativi grazie a una più approfondita conoscenza delle discipline e dei
collegamenti interdisciplinari. Questi schemi e modelli possono offrire agli allievi nuove e più
ricche possibilità per percepire, pensare, organizzare, ricordare e collegare eventi, nozioni e
concetti.
-Metodologia
La lezione per essere utile/soddisfacente deve essere preceduta da un momento preliminare
di preparazione/progettazione in cui il docente individua obiettivi, destinatari, modalità, tempi.
Per quanto riguarda i destinatari della lezione si devono aver chiare le caratteristiche delle
persone cui sarà rivolto l’intervento; in particolare è necessario sapere quale livello di
conoscenze esse abbiano, quale preparazione sull’argomento, quale tipo di modello culturale
presuppongano, quale sia il linguaggio da loro usato. Definiti e articolati gli obiettivi rispetto ai
destinatari della lezione, è possibile scegliere la metodologia più adeguata, cioè i metodi, le
tecniche e le tecnologie didattiche attraverso le quali modulare il proprio intervento.
Le modalità del fare lezione sono sostanzialmente tre e rispondono a finalità diverse: lezione
aperta, lezione “chiusa” e “dubitativa” o “problematica”, cioè la lezione che sollecita a mettere
in discussione conoscenze e informazioni o teorie acquisite.
-Tempistica e fruibilità
Va ricordato che i vari momenti della vita mentale del gruppo e dei singoli allievi incidono sulla
comprensione del messaggio sia favorendolo (e magari enfatizzandolo) sia, soprattutto,
distorcendolo. Bisogna, cioè, tener conto del momento (inizio anno, fine anno…) in cui si farà
lezione, perché la ricezione del contenuto concettuale risente dello stato emotivo specifico in
cui esso viene trasmesso e ricevuto, che perciò costituisce una sorta di filtro attraverso il quale
le persone percepiscono quanto viene detto. Non serve dunque dire tutto e sempre, perché
anzi può creare confusione e disorientamento: serve dire quello che è utile, in quel determinato
momento. Vi è poi un’articolazione temporale che il docente deve tenere a mente riguardo alla
struttura della lezione e all’articolazione del discorso. È utile ricordare che un discorso ben
articolato (per esempio in introduzione, sviluppo e conclusione) ha maggiori possibilità di
essere recepito poiché si presenta in modo strutturalmente più chiaro. Perseguire la chiarezza
espositiva e, in funzione di questa, adeguare e articolare dettagliatamente la propria
esposizione è la condizione per la buona qualità della lezione. è necessario dire solo le cose
più importanti ed essenziali e quindi occorre studiare bene a tavolino i punti cruciali da
trasmettere per non disperdersi.
-Il responsabile della lezione
Importante aver ben chiaro chi è il titolare della lezione, cioè se la lezione è tenuta dal docente
o da una persona esterna.
Se altro al docente, questo induce una sorta di conflitto di ruolo, in quanto il titolare del corso
gestisce (o dovrebbe gestire) anche la dinamica del gruppo.
Il modo migliore per comunicare e farsi ascoltare è, prima di tutto, ascoltare gli altri. Se il
docente “ascolta” i suoi allievi saprà anche fare bene le sue esposizioni teoriche, che
diventeranno un momento al servizio di chi impara.
-L’interazione docente-gruppo
Nella relazione tra chi fa lezione e chi ascolta sono in gioco una dimensione reale e una
fantasmatica. Sul piano reale vi è un docente con degli allievi, ma sul piano fantasmatico in
realtà sono in azione tre entità diverse che riguardano immagini diverse del docente:
a. l’immagine percepita dall’uditorio, cioè come appare in realtà il docente;
b. l’immagine desiderata, quella che il docente vuol dare di sé, ovvero come vuole apparire
all’uditorio;
c. l’immagine auto-percepita dal docente stesso, cioè come il docente appare a sé stesso
mentre è al lavoro.
Se analizziamo più da vicino i fattori mentali possibile riconoscere gli aspetti emotivo-affettivi
che influenzano profondamente la qualità della trasmissione delle informazioni.
Vi sono, innanzitutto, delle fantasie in gioco. Sono importanti le aspettative e le motivazioni
personali che si coniugano con le concezioni e le teorie che il docente e i partecipanti hanno
sulla relazione docente-allievo e sull’apprendimento. (docente: interpersonale-intergruppo;
meccanismi proiettivi, aspetti transferali…interazione emotiva).
In un mondo in cui tutti vanno di fretta, comunicare veramente vuol dire però anche avere
pazienza, in uno sforzo di comprensione e avvicinamento reciproco; la buona comunicazione
infatti non significa necessariamente capirsi al volo (cosa possibile, ma rara) bensì
approssimarsi poco per volta al pensiero altrui. E poi tacere. Ci si dimentica che il silenzio non
è assenza di comunicazione, ma una modalità comunicativa emotivamente molto pregnante;
non necessariamente un vuoto, ma spesso un valore, uno spazio per pensare che aiuta a far
nascere delle idee: il silenzio è la gestante dei pensieri innovativi.
CAPITOLO 9
IMPARARE A OSSERVARE
Intento del capitolo: mostrare come l’osservazione possa aiutare ad acquisire un nuovo
atteggiamento professionale da parte dell’insegante. L’osservazione permette di sviluppare la
capacità di cogliere ciò che l’alunno comunica sul piano verbale e non verbale.
Conoscere l’allievo non significa assimilarlo e confonderlo con i propri desideri e preconcetti.
Si vuole promuovere una sensibilità all’apprendimento dall’esperienza attiva, per aiutare gli
insegnanti a comprendere il ruolo dei fattori emotivi.
Un’esperienza
Viene illustrato un corso triennale di formazione sull’osservazione volto a insegnanti di scuola
materna.
Il gruppo è composto da 7 insegnanti di ruolo provenienti da alcune scuole materne di
Collegno. La finalità era quella di avvicinare i componenti alle problematiche dell’osservazione
e alle competenze necessarie stare in una relazione più autentica e non direttiva con gli allievi.
Nel primo anno, dopo una serie di lezioni teoriche sugli aspetti affettivo-emotivi
dell’apprendimento in ottica psicoanalitica, i docenti avevano lavorato come gruppo di letture
con una conduttrice. Erano stati analizzati alcuni protocolli di osservazione relativi a una
coppia madre-bambino redatti da osservatrici esterne al gruppo di aggiornamento. L’intento
era quello di familiarizzare i docenti con il metodo e creare un vocabolario comune nel gruppo.
Nei due anni successivi gli stessi insegnanti avevano osservato più+ volte, in prima persona.
Un alunno di scuola materna in scuole non coincidenti con la propria sede di servizio. Ogni
volta, avevano il compito di scrivere un protocollo di osservazione. Il bambino veniva proposto
dalle insegnanti di sezione dopo l’invito a non individuare un allievo molto problematico, in ogni
caso l’alunno non veniva a sapere di essere oggetto di osservazione.
Come osservatrici, le insegnanti dovevano limitarsi a un atteggiamento neutrale, pur
rimanendo in relazione con quanto osservato. Ogni protocollo veniva letto dall’osservatrice nel
gruppo, con la presenza del conduttore. I commenti erano riportati in un verbale redatto a
turno, per ogni seduta, dai partecipanti. Nel tempo lo stile dei verbali e dei protocolli muta: da
discorsivo e retorico con molte generalizzazioni a più affettivo con il focus sull’interazione
bambino/insegnante/classe, osservatore/gruppo/conduttore.
All’inizio dell’esperienza, emergono difficoltà di resistere alla tentazione di agire e fare per
modificare una situazione secondo la propria visione, mentre la richiesta era quella
semplicemente di cogliere la realtà in atteggiamento neutrale. Per molto tempo, era difficile
immaginare di rimanere in relazione con l’allievo senza poter intervenire attivamente. Questa
difficoltà del non-agire sembra legata alla difficoltà di star vicino a emozioni nuove.
Paradossalmente, alle insegnanti appariva intrusivo il semplice guardare, poiché abituate a un
ruolo di intervento attivo nella propria classe. Per cui, anche nell’adulto inserito in un contesto
nuovo con cui non può familiarizzare attraverso un ruolo noto produce paure di essere di
troppo, essere isolato e solo.
Per poter sfuggire a questo senso id estraneità e solitudine, le insegnanti oscillavano tra un
ruolo di osservatrice e quello di maestra. Le osservatrici rispondevano alle domande degli
alunni, ma come farebbero se fossero le loro maestre, andando a inquinar l’osservazione.
Talvolta l’osservatrice si sentiva esposta agli sguardi degli allievi, poiché non protetta nel
proprio ruolo di maestra, indifesa, controllata.
Un’altra difficoltà era legata allo scambiare la neutralità del suolo di osservatore con assenza
di relazione.
Inoltre, lasciar fluire i dati osservativi senza organizzarli immediatamente con schemi cognitivi
o riferimenti culturali propri dava molta ansia e spingeva le docenti a cercare elementi
famigliari nel contesto osservativo (ad es. far rassomigliare l’alunno osservato con uno della
propria classe).
Entrare in un contesto osservativo ricco di più variabili (es. interazione bambino
prescelto/compagni di sezione/maestre) metteva in confusione le osservatrici. Sembrava che
avessero paura di interagire con tutti gli altri elementi del contesto perché si distoglieva
l’attenzione dall’alunno prescelto.
Durante l’esperienza, le corsiste iniziavano a cogliere le difficoltà che avevano come
osservatrici a porgere l0atteznione a messaggi emotivi quali solitudine del bambino osservato
o la propria noia. Da questo, la ricerca di cause esterne e concrete. Gradualmente le
osservatrici iniziavano a sentire sé stesse e le emozioni come proprie, non semplicemente
attribuite agli oggetti esterni. Si avviò la consapevolezza del proprio modo di osservare e
interagire con lo spazio interno e esterno. Iniziano così a comprendere come gli aspetti
onnipotenti dell’attività del docente inficiavano sulla relazione con l’alunno, impedendo loro di
conoscerlo. A seguito, comparivano anche i dubbi sul proprio operato.
L’allenamento a stare vicini alle emozioni implicate nell’osservazione ha permesso di far
emergere nuove idee, che pur mettendo in luce i limiti dell’attività del docente, possono essere
pensare dal gruppo senza bisogno di difendersi.