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Riassunto pedagogia del gioco e dello sviluppo

Metodologia del gioco (Università degli Studi di Catania)

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PEDAGOGIA DEL GIOCO E DELL’APPRENDIMENTO

ROSA CERA

Introduzione

Gioco e apprendimento sono due concetti intrecciati tra loro; il gioco è fonte inesauribile di
apprendimento soprattutto in età infantile, ma la dimensione ludica non appartiene solo all’età
infantile, bensì anche a quella adulta. Studiosi come Montessori, Rosa Agazzi e Dewey hanno
sottolineato la capacità del bambino di apprendere attraverso il gioco, le esperienze e il “fare” che
contribuiscono a svilupparne la creatività. La Montessori ha proposto una scuola a misura di
bambino, dove tutto doveva essere maneggiato e spostato liberamente dal bambino; l’Agazzi
sosteneva che il materiale didattico dovesse essere un insieme di “cianfrusaglie” di cui i bambini si
servivano per allestire un “museo”; Dewey ritiene che la scuola debba porre l’attenzione su quattro
interessi fondamentali:

- La conversazione e la comunicazione;
- L’indagine o la scoperta delle cose;
- La fabbricazione o la costruzione delle cose.

La creatività viene considerata come un qualcosa che non può essere appesa ma che può essere
sicuramente incoraggiata e stimolata attraverso l’utilizzazione di adeguate metodologie didattiche
ludiche e cooperative. Le tre parole chiavi sono apprendimento, gioco e animazione. Il primo
capitolo mette in luce i modelli teorici dell’apprendimento e approfondisce concetti come la
metacognizione, intesa come conoscenza e controllo del proprio funzionamento cognitivo e di
quello degli altri. Il secondo capitolo illustra le problematiche dell’apprendimento in età infantile
sottolineando il rapporto tra creatività e apprendimento. Dal punto di vista didattico, sono state
individuate alcune metodologie adatte per stimolare lo sviluppo delle abilità creative come il
“problem solving” e il “brainstorming”. Il terzo capitolo argomenta le teorie sul gioco, illustra la
storia e il concetto di gioco. È indispensabile qui far riferimento a Freobel secondo cui il gioco
favorisce lo sviluppo del bambino, aiutandolo a capire come relazionarsi con gli altri, nonché i
giocattoli, definiti “doni”, che aiutano il bambino a scoprire le diverse forme generali dell’universo.
Il quarto capitolo verte sul concetto di animazione, considerata come attività in grado di favorire
trasformazioni nel soggetto, di sviluppare le capacità di riflettere su se stesso al fine di acquisire
maggiore consapevolezza di sé. Il quinto capitolo approfondisce le tematiche relative alle tecniche
di animazione: il metodo autobiografico, il metodo dell’alterità, quello collaborativo. Le tecniche
ludiche analizzate sono: i giochi di cooperazione, i giochi di comunicazione, il brainstorming, le
tecniche di drammatizzazione tra cui il teatro di burattini, teatro dell’ombra e teatro dell’oppresso.

 CAPITOLO 1 – MODELLI TEORICI DI APPRENDIMENTO


1. Le dimensioni dell’apprendimento

Le definizioni di apprendimento elaborate finora sono diverse ma tutte tendono a mettere in


evidenza la natura processuale e continuativa dell’apprendimento: il soggetto apprende quando
intuisce come ristrutturare la situazione problematica, quando ne coglie le relazioni essenziali
implicite e riorganizza il proprio campo di esperienza. L’apprendimento è un processo che
coinvolge la cognitività , la dimensione affettiva, relazionale, mentale, motivazionale di un

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soggetto. L’apprendimento produce cambiamenti permanenti nel soggetto. Quando di parla di


apprendimento si fa riferimento al concetto di conoscenza e al ruolo che questa svolge nei processi
cognitivi, nonché al concetto di metaconoscenza.

 FLAVELL: il concetto di conoscenza rimanda a un insieme di conoscenze che un soggetto


ha accumulato riguardo ai processi cognitivi delle persone. Il genere di conoscenze a cui si
riferisce Flavell è di tipo metacognitivo perché consiste nel conoscere il funzionamento del
proprio processo cognitivo e di quello degli altri. C’è una distinzione tra “conoscenza
dichiarativa e conoscenza procedurale. Il primo riguarda i dati depositati nella memoria a
lungo termine; il secondo riguarda i processi consolidati di un processo cognitivo. In ambito
cognitivo la conoscenza dichiarativa comprende i dati riferibili a un preciso campo del
sapere, la conoscenza procedurale fa riferimento alle procedure seguite per risolvere un
problema; in ambito metacognitivo, la conoscenza dichiarativa riguarda le procedure e i
modi seguiti dal soggetto per acquisire, quella procedurale si riferisce ai procedimenti di
monitoraggio e di applicazione del problem solving.
1.1. Alcune correnti di pensiero

Le correnti di pensiero, in campo psicologico, che hanno studiato i processi di apprendimento sono:

- Il comportamentismo
- Il cognitivismo
- Il post cognitivismo: costruttivismo, contestualismo e culturalismo.

La SCIENZA COMPORTAMENTISTA guidata WATSON e THORNDIKE assume come oggetto


d’indagine il comportamento osservabile. Per gli studiosi del comportamentismo, l’apprendimento
appare come una questione di modificazioni nel comportamento osservabile e non come qualcosa
che accade all’interno della mente. L’apprendimento si attua in seguito alle interazioni tra individuo
e ambiente che producono delle modificazioni nel comportamento del soggetto stesso.

La SCIENZA COGNITIVA sceglie come proprio oggetto di studio il funzionamento dei processi
mentali che sono in stretto rapporto con l’apprendimento, lo determinano e lo influenzano. I
cognitivisti ritengono che la comprensione del funzionamento dei processi d’apprendimento
dipenda molto dallo studio delle attività cognitive che consentono di ricevere e trasmettere
informazioni.

La SCIENZA POST COGNITIVA studia la mente dall’esterno tenendo conto innanzitutto


dell’influenza che i contesti culturali, spaziali e sociali esercitano sul funzionamento della mente
stessa.

Il COSTRUTTIVISMO : maggior esponente PIAGET il quale elabora il principio di costruttivismo


genetico per il quale il luogo della conoscenza non si situa né nel soggetto né nell’oggetto ma
nell’interazione tra il soggetto e l’oggetto. Il soggetto svolge un ruolo attivo di adattamento ai
contesti ambientali in cui apprende. Per Piaget è la mente del soggetto che organizza il mondo e
l’attività dei processi mentali consiste nel cercare di creare le condizioni ottimali per intrattenere
relazioni adattive con il mondo.

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Il CONESTUALISMO: maggiore esponenti LAVE e WENGER, ritengono che l’apprendimento sii


collochi nel contesto di specifiche forme di copartecipazione sociale. Essi si interrogano sulle forme
di partecipazione sociale che forniscono il contesto appropriato per il compiersi dell’apprendimento.

Il CULTURALISMO: maggior esponente VYGOTSKIJ, modella i percorsi di apprendimento come


processi che si modellano sulla base di contesti sociali e culturali condivisi. BRUNER
richiamandosi alle teorie di Vygotskij, sostiene che il soggetto attraverso i rapporti interpersonali
costruisce le prime competenze che dopo interiorizza attraverso il pensiero e il ragionamento.
Secondo Bruner i processi di apprendimento si verificano attraverso l’utilizzazione di precisi
strumenti culturali chiamati “amplificatori culturali” che consentono al soggetto di sviluppare e
potenziare le proprie capacità.

2. La metacognizione

Il concetto di metacognizione nasce in ambito cognitivista nei primi anni settanta. Flavell e Brown
hanno elaborato le due definizioni più emblematiche del concetto di metacognizione.

 Flavell: metacognizione consiste nell’insieme dei meccanismi di regolazione e di controllo


del funzionamento cognitivo stesso.
 Brown: ha completato il concetto di metacognizione includendovi i meccanismi di controllo.
La metacognizione comprende due componenti fondamentali: la conoscenza metacognitiva
e il processo di controllo-

Il processo di controllo è stato definito da CORNOLDI come le operazioni che sovrintendono


all’effettuazione del compito cognitivo, mentre la conoscenza come le impressioni, intuizioni,
nozioni, sentimenti, auto percezioni. La conoscenza metacognitiva risulta essere una
metaconoscenza perché pone il soggetto nelle condizioni di poter scegliere, predisporre, dirigere.
Nello svolgimento delle attività cognitive il soggetto utilizza determinate funzioni che variano a
seconda delle fasi di apprendimento: prima, durante e dopo.

PRIMA il soggetto ricorre alla funzione di PIANIFICAZIONE che consiste nell’immaginare come
procedere per risolvere un problema; DURANTE il soggetto si dedica alla funzione del
RAGIONAMENTO, cioè riflette sulla modificazione delle strategie; DOPO il soggetto svolge le
funzioni di CONTROLLO, di TRANSFER, di GENERALIZZAZIONE, di MANTENIMENTO.

2.1. Le ricadute pedagogiche delle attività metacognitive

Le attività metacognitve pongono il soggetto che apprende in una situazione che DEMETRIO
chiama “bi-locazione cognitiva” che consiste nelle capacità di assumere un’adeguata distanza dalle
situazioni che il soggetto vive in prima persona, in modo da poter descrivere se stessi e la situazione
vissuta nel modo più oggettivo possibile. La pratica della bi-locazione cognitiva consente di pensare
e di riflettere sulle modalità e sulle peculiarità del proprio apprendere. La didattica costruttivista
tende a promuovere percorsi di costruzione di consapevolezza metacognitiva e di conoscenza di sé.
Il discente conquista e acquista gli attrezzi necessari per conoscere e gestire i propri comportamenti
di apprendimento. Significa concedere lo spazio temporale e mentale per ragionare sul come e non
solo sul cosa, sul processo e non solo sul prodotto. Ciò contribuisce a far acquisire maggiore
consapevolezza nelle proprie capacità. Il soggetto, in grado di apprendere, è colui che sa utilizzare
le strategie efficaci nell’acquisizione e nella memorizzazione delle conoscenze. Sono e attività

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metacognitve a consentire al soggetto di apprendere in maniera proficua. Le attività metacognitve


consentono al soggetto che apprende di individuare il proprio stile di apprendimento e di proporsi
come agente epistemico. L’incoraggiamento diventa un approccio metodologico teso a favorire nel
soggetto in apprendimento uno stato d’animo positivo e propositivo che gli permette di credere
nelle proprie capacità. L’abilità di saper autogestire le proprie competenze e conoscenze e di saperle
applicare ai contesti adeguati e pertinenti si acquisisce attraverso esperienze guidate da un esperto.
La riflessione pedagogica e didattica, attraverso le attività metacognitve, prende atto della necessità
di favorire nel soggetto un apprendimento attivo e consapevole.

3. Apprendimento significativo e auto regolato


3.1. Apprendimento significativo/apprendimento meccanico
 NOVAK: l’apprendimento significativo favorisce la comprensione, l’organizzazione logica
e l’integrazione delle nuove conoscenze con quelle già presenti; l’apprendimento meccanico
si basa sulla semplice memorizzazione delle informazioni senza collegarle precedentemente
acquisite. L’apprendimento significativo richiede:
- Conoscenze precedenti
- Materiale significativo
- Che il soggetto in apprendimento scelga di acquisire le nuove conoscenze in modo
significativo

L’acquisizione e l’organizzazione logica delle conoscenze implica che i concetti più generali
includano quelli più specifici. In questo modo il soggetto riesce a dare una struttura reticolare e
complessa al primo sapere in cui confluiscono i pensieri, i sentimento e le azioni. Secondo Novak
l’interazione di questi tre elementi viene definita “costruttivismo umano”.

 AUSBEL: l’apprendimento cognitivo è la conseguenza dell’interazione fra tre componenti:


pensiero, sentimenti e azioni. La teoria dell’apprendimento significativo di Ausbel si basa
sull’associazione dei concetti più specifici e particolari a concetti più generali già presenti
nel patrimonio cognitivo e per sottolineare tale associazione introduce il concetto di
“assimilatore”. Questo svolge una funzione determinante di collegamento tra le nuove
informazioni e quelle acquisite in precedenza. La teoria di Ausbel quindi prende il nome di
teoria dell’APPRENDIMENTO PER ASSIMILAZIONE. Le informazioni acquisite in
modo significativo possono essere più facilmente ricordate e collegate a quelle già presenti.
Secondo Ausbel un livello elevato di apprendimento significativo favorisce lo sviluppo
della creatività. Questa teoria comprende quattro principi: la differenziazione progressiva,
l’apprendimento sovraordinato, la conciliazione integrativa e gli organizzatori anticipati.
- Differenziazione progressiva: modalità d’apprendimento di nuovi contenuti di conoscenza
i quali vengono appresi attraverso esperienze apprenditive ordinate in sequenza.
- Apprendimento sovraordinato: si basa sull’acquisizione di concetti nuovi e inclusivi che
comprendono concetti già noti.
- Conciliazione integrativa: i principi di differenziazione progressiva e di apprendimento
sovraordinato favoriscono tale principio, secondo il quale i concetti, che prima sembrano
contraddittori, dopo risultano collegati in modo significativo e creativo.
- Organizzatori anticipati: sono dei piccoli segmenti didattici di carattere generale che fanno
da ponte di collegamento fra le conoscenze già presenti nel patrimonio conoscitivo.
3.2. Apprendimento auto regolato

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Il concetto di apprendimento auto regolato è collegato a quello di senso di efficacia espresso da


BANDURA, secondo il quale un soggetto avverte la necessità di essere autoefficace in relazione
alla convinzione nelle proprie capacità di organizzare e realizzare il corso di azioni necessario a
gestire le situazioni che si incontreranno per raggiungere i risultati prefissati. Bandura sottolinea
come le convinzioni di efficacia influenzino il modo in cui il soggetto pensa e trova delle fonti di
motivazione personali. Il senso di efficacia influenza i PROCESSI COGNITIVI,
MOTIVAZIONALI E AFFETTIVI dell’individuo.

 PELLEREY: ha effettuato una distinzione tra AUTOREGOLAZIONE e


AUTODETERMINAZIONE. La prima è la capacità del soggetto di controllare le proprie
azioni attraverso la coerenza, la tenuta e l’orientamento dell’azione. La seconda è intesa
come la dimensione della scelta, del controllo di senso e di valore e dell’intenzionalità
dell’azione.

Le abilità di autoregolazione e autodeterminazione contribuiscono a sottolineare l’importanza del


ruolo attivo dell’individuo nel processo di apprendimento.

 DEWEY: ha sempre ritenuto essenziale intrecciare il momento teorico con quello pratico, in
modo tale che il fare diventasse fondamentale nei processi di apprendimento. Ha ribadito
l’importanza di porre al centro delle attività di apprendimento il soggetto con i propri
bisogni e le proprie iniziative e aspirazioni.
 FREINET: riteneva fondamentale porre le capacità di auto organizzazione dell’individuo
alla base dei suoi studi pedagogici, promuovendo così una formazione aperta e basata
sull’autodirezione. L’esperienza e il lavoro in comune rappresentano i fondamenti della
pedagogia.
 AUSBEL: ritiene che un apprendimento per essere significativo necessita della disponibilità
del soggetto di apprendere i contenuti di conoscenza in maniera significativa e non
meccanica.
 VIGOTSKIANI: hanno sempre riconosciuto il ruolo della consapevolezza interiore del
soggetto nello sviluppo, nonché l’importanza della partecipazione ai discorsi sociali al fine
di favorire lo sviluppo della conoscenza.
 PIAGET: ha ipotizzato un ruolo sempre più forte del soggetto che tende a costruirsi una
personale visione della realtà con la quale interagisce.

La psicologia contemporanea considera il soggetto un individuo attivo, promotore del proprio


apprendimento e capace di conseguire gli obiettivi con l’utilizzazione di appropriate strategie di
apprendimento. La complessità deriva dal numero delle variabili che incidono sulla capacità di auto
regolazione come la programmazione del tempo, la conoscenza, la padronanza dei metodi.
ZIMMERMANN ha semplificato questo argomento mettendo in evidenza le tre fasi principali
attraverso cui si manifesta l’abilità auto regolativa nei contesti di apprendimento.

- Prima fase: elaborazione di un progetto d’azione che prevede l’integrazione tra le diverse
dimensioni del sé e la percezione della situazione da affrontare.
- Seconda fase: realizzazione del progetto d’azione
- Terza fase: procedimenti di riflessione al termine dell’azione.

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Il senso di efficacia è in stretta relazione con alcune sottofunzioni dell’auto regolazione: stabilire
obiettivi, autovalutazione, automonitoraggio, pianificazione e gestione del tempo, uso di strategie. Il
senso di efficacia influenza anche le valutazioni delle proprie prestazioni. L’efficacia del soggetto
influenza anche la pianificazione e la gestione del tempo e l’utilizzazione di determinate strategie di
studio da parte degli studenti. Tanto più elevato è il senso di efficacia tanto maggiore sarà la sua
capacità di apprendere determinate strategie e di saperle utilizzare nei contesti appropriati. La
capacità di auto regolazione apprenditiva dipende anche dalle competenze metacognitive del
soggetto, il quale dovrebbe conoscere non solo il funzionamento del proprio processo cognitivo ma
anche le variabili del compito da affrontare.

CAPITOLO 2. INFANZIA E CREATIVITA’

1. L’apprendimento in età infantile

Le teorie elaborate nel corso del ‘900 fino agli anni Cinquanta hanno messo in discussione un
vecchio modo di considerare l’istruzione come passiva e basata sulla memorizzazione meccanica di
concetti. In questo periodo sorgono le scuole nuove e un’educazione non più passiva ma attiva,
volta a considerare l’infanzia un’età pre-intellettuale e pre-morale. Con L’ATTIVISMO il fanciullo
diviene il protagonista assoluto del proprio processo di apprendimento, all’interno del quale
vengono valorizzati il “fare”, le attività manuali, il gioco e il lavoro. Tra i maggiori teorici
dell’attivismo troviamo:

 Maria MONTESSORI, fondatrice della casa dei bambini nel 1907; con il suo metodo
Montessori cerca di studiare la natura del fanciullo, ponendo attenzione alle attività senso
motorie del bambino. Per la Montesori era essenziale porre il bambino nelle condizioni di
poter lavorare e muoversi liberamente all’interno di uno spazio scientifico e didattico.
Importante è il concetto di “mente assorbente” del fanciullo, una mente capace di assorbire e
assimilare tutto, il più delle volte in modo inconscio.
 Rosa AGAZZI elaborò un metodo innovatore per la scuola dell’infanzia basato sul principio
della continuità tra il clima familiare e l’asilo. Le attività didattiche dovevano essere libere e
attive, dovevano svolgersi in un ambiente ordinato. La novità dell’Agazzi era il materiale
didattico che si basava su un insieme di “cianfrusaglie”, materiale di riciclo che i fanciulli
raccoglievano e portavano a scuola e con il quale si allestiva un museo.
 John DEWEY: ispirandosi alla corrente del pensiero del pragmatismo ritiene essenziale
collegare i momenti della didattica teorica a quella pratica, alla didattica del “fare”
considerata come pilastro fondamentale dell’apprendimento. Secondo Dewey la vita del
bambino doveva essere posta al centro dell’interesse scolastico e dell’attività didattica. Egli
riteneva che il compito della scuola fosse quello di interessarsi a quattro punti fondamentali:
l’interesse per la conversazione, quello per l’indagine, quello per la fabbricazione delle cose
e quello per l’espressione artistica. Dewey considera il bambino un “soggetto sociale” i cui
interessi erano legati alla vita sociale. Sottolineò l’importanza di incentivare l’educazione
cognitiva attraverso un curriculum di studi che ponesse come base la scienza.
1.1. Psicologia e processi cognitivi

Grande contributo alla conoscenza del funzionamento dei processi cognitivi è stato offerto dalla
psicologia e in particolare dagli studi di PIAGET, VYGOTSKIJ e BRUNER.

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 PIAGET: considera il fanciullo un “organismo” attivo in grade di adattarsi all’ambiente


circostante e capace di apprendere mettendo in atto il processo di ASSIMILAZIONE e di
ACCOMODAMENTO. Nel momento dell’assimilazione la mente assimila gli elementi
dell’ambiente esterno; in quello dell’accomodamento la mente trasforma le proprie strutture
a seguito dell’assorbimento di nuovi contenuti di conoscenza. Secondo Piaget la cresca del
fanciullo si basa sulla continua ricerca di equilibri fra manutenzione fisica e le sollecitazioni
dell’ambiente esterno. La teoria degli stadi evolutivi di Piaget evidenzia come la
maturazione del sistema nervoso sia determinante per lo sviluppo dell’intelligenza; Piaget
riteneva che lo sviluppo intellettivo del bambino dispendesse soprattutto dal sistema
nervoso, trascurando le variabili sociali e culturali. Gli stadi di sviluppo sono:
- Periodo senso-motorio (nascita-2anni):il bambino compie progressi attraverso sei stadi,
riflessi semplici;
- Periodo preoperatorio (2-7 anni): il bambino imita i modelli e si serve di simboli per
rappresentare oggetti;
- Periodo operatorio concreto (7-11 anni): il bambino riesce ad effettuare confronti e
operazioni mentali;
- Periodo delle operazioni formali (11-15 anni): l’adolescente riesce a fare operazioni
mentali sulle operazioni logiche e formali.
 VYGOTSKIJ: pone maggior attenzione sull’ambiente, inteso nelle sue connotazioni storico-
culturali. Per Vygotskij lo sviluppo del bambino è influenzato dalla cultura di appartenenza
e dai rapporti sociali; le funzioni mentali superiori hanno origine nella vita sociale.
L’apprendimento va dal sociale all’individuale, la pedagogia è chiamata ad assicurare al
fanciullo un’istruzione intenzionale e sistematica. La finalità dei processi di
insegnamento/apprendimento dovrebbe consistere nell’individuare il livello attuale e il
livello potenziale d’apprendimento del fanciullo, quella che lo studioso chiama AREA DI
SVILUPPO PROSSIMALE, in modo da svolgere la funzione di “scaffoling”, cioè
impalcatura di sostegno finalizzata a favorire l’apprendimento. Per V. il “Linguaggio
egocentrico” serva al fanciullo per rafforzare la propria posizione nei giochi e nelle azioni.
Piaget ritiene che il linguaggio egocentrico sia un parlare del fanciullo con se stesso senza
finalità comunicative con l’esterno.
 Piaget vs Vygotskij: per Piaget lo sviluppo del bambino procede autonomamente
dall’istruzione, la quale interviene solo quando il bambino è pronto a comprendere il mondo
degli adulti. Per Vygostkij lo sviluppo è costantemente accompagnato dalla cultura di
appartenenza e dall’ambiente sociale.
 BRUNER: l’apprendimento consiste nella trasmissione di contenuti di conoscenza che
vengono trasmessi al fanciullo in specifici contesti sociali, come la scuola. I saperi a cui si
riferisce Bruner sono socialmente e culturalmente definiti “saperi” che il bambino acquisisce
attraverso le proprie esperienze all’interno del contesto sociale e culturale. I bambini
necessitano di essere motivati ad apprendere, quindi la motivazione svolge un ruolo
fondamentale, come anche la conoscenze ed il rispetto da parte dell’insegnante dei ritmi e
degli stili cognitivi di ciascun alunno. A una prima fase di RAPPRESENAZIONE
OPERATIVA, in cui il fanciullo impara a conoscere un oggetto in funzione del suo utilizzo,
segue la fase di RAPPRESENTAZIONE ICONICA basata sulla rappresentazione concreta
degli oggetti e infine quella della RAPPRESENTAZIONE SIMBOLICA in cui un ruolo
essenziale è svolto dal linguaggio orale e scritto. Quando le tra fasi coincidono diventa

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possibile trasmettere al fanciullo qualsiasi sapere disciplinare. Bruner definisce


l’apprendimento come collaborativo e considera l’intelligenza distribuita; è collaborativo
poiché si realizza all’interno di uno spazio intrapsichico, cioè ricco di rapporti
interpersonali. Ogni soggetto per Bruner possiede due forme di pensiero:
PARADIGMATICO e NARRATIVO. Il primo consente all’individuo di spiegare , facendo
ricorso alla scienza, eventi e situazioni; il secondo consente di interpretare gli eventi alla
luce delle proprie esperienze. L’intelligenza non è pertanto situata nella testa del soggetto
ma è situata in un contesto storico e culturale. Questa teoria mette in luce lo stretto legame
tra cultura e educazione. L’apprendimento è un’attività comunitaria.
 GARDNER: formula la “Teoria delle intelligenze multiple” secondo la quale esistono vari
tipi di intelligenze, linguistica, musicale, spaziale, logico-matematica, ognuna delle quali si
potrebbe più o meno sviluppare rispetto alle altre.

La pedagogia, tenendo conto della teoria di Gardner, ha tratto alcune indicazioni. Infatti questa
teoria ha indotto la pedagogia a prendere atto della necessità di rafforzare quella che Baldacci
chiama istruzione individualizzata, poiché ogni fanciullo possiede non solo i propri ritmi e stili di
apprendimento, ma anche perché ognuno possiede abilità e potenzialità diverse.

2. La creatività nei bambini


2.1. Creatività: possibili definizioni

I fattorialisti definiscono la creatività come l’espressione di un insieme di funzioni mentali, secondo


Gestalt, invece, la creatività non può essere considerata per i suoi prodotti, ma per i suoi processi
che conducono alla realizzazione dei prodotti. Argomento molto discusso è quello del rapporto tra
intelligenza e creatività. Lo sviluppo della creatività dipende molto dall’ambiente sociale e culturale
di un soggetto, dalla motivazione, dai livelli di interesse. Gardner conviene che la creatività è un
giudizio per sua natura sociale e culturale. Calvi sostiene che la creatività viene estrinsecata solo
dopo l’attraversamento di tre diverse fasi: fase di PROPULSIONE, in cui sorgono i bisogni che
danno vita al processo creativo; fase CONCEZIONALE, risiede nell’attività di pensiero svolta
anche nella dimensione dell’inconscio; fase di REALIZZAZIONE, traduce il pensiero creativo in
un prodotto reale. Gli studi condotti nell’ambito neurologico hanno dimostrato che nell’emisfero
sinistro risiede la memoria, la logica, l’analisi e tutte le funzioni razionali; nell’emisfero destro
risiedono funzioni legate all’estetica, alle immagini e all’istantaneità. Scuola e famiglia esercitano
un notevole sviluppo della creatività nella fase infantile. La famiglia potrebbe favorire lo sviluppo
delle potenzialità creative non imponendo modelli o schemi comportamentali, dando libera
espressione al fanciullo. La scuola potrebbe organizzare attività didattiche basate sulla libera
esplorazione, sull’osservazione e sulla manipolazione degli oggetti. Secondo Bruner sarebbe utile
valorizzare tanto il pensiero analitico quanto quello intuitivo.

2.2. Creatività e apprendimento

Apprendimento e creatività sono molto correlate poiché lo sforzo creativo produce apprendimento.

 TAYLOR: ha individuato diversi livelli di creatività, dal più facile al più complesso:
creatività espressiva (livello più basso, espressa in modo spontaneo e originale), creatività
produttiva (esercitare controllo sul gioco affinando le tecniche), creatività inventiva
(comprende abilità inventive), creatività innovativa (presente in pochi soggetti e si

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manifesta in campo artistico e scientifico) , creatività di emersione (raggiunto solo da


pochissimo soggetti, consiste nella trasformazione del pensiero creativo in un prodotto
specifico, reale e originale.

Educare significa aiutare il bambino sin dai primi anni di vita ad acquisire coscienza della propria
creatività ponendolo nelle condizioni di svolgere attività sperimentali. Secondo il punto di vista
pedagogico la creatività non può essere appresa ma può comunque essere incoraggiata attraverso
adeguate letture e discussioni. Un modo per incoraggiare la creatività giunge dall’ “Emilio” di
Rousseau. Nel terzo libero Rousseau racconto della necessità di preparare Emilio al lavoro di
falegname inteso come lavoro basato sull’arte e l’abilità manuale e creativa. Per Rousseau le
conoscenze possono essere acquisite attraverso l’esperienza perché essa è fonte di verità. Rousseau
ritiene che sia solo attraverso l’esperienza che i fanciulli possano sviluppare la creatività e il
pensiero critico. L’errore rappresenta un valore didattico attraverso cui acquisire conoscenze. Rosa
Agazzi parla di ordine inteso come situazione finalizzato a guardare le situazioni con occhio
intelligente e a organizzare l’ambiente educativo; ordine inteso anche come processo, cioè attento
al modo in cui il bambino scandisce le esperienze da compiere nel corso della giornata scolastica.
Le potenzialità creative possono essere estrinsecate in ambiti disciplinari come quello della musica
e del linguaggio. Attraverso la musica il soggetto genera quella che Bruner definisce sorpresa
produttiva, intesa come l’inatteso che colpisce l’osservatore. Per Bruner sono le antinomie, passione
e decoro, dilazione e immediatezza, a dare forma a un prodotto originale. La musica, dal punto di
vista pedagogico, consente di sviluppare il pensiero creativo. La lingua a sua volta porta i segni
della creatività umana perché è la forma per mezzo della quale l’uomo organizza la comprensione
della realtà. È attraverso la lingua che ogni bambino impara a rappresentare la realtà. Musica, lingua
e gioco consentono ai bambini di esprimere le loro doti di fantasia e immaginazione.

2.3. Come stimolare la creatività

L’immaginazione svolge un ruolo importante nel processo di apprendimento. I metodi per


sviluppare la creatività sono il PROBLEM SOLVING e il BARIN-STORMING.

- Problem solving: favorisce lo sviluppo della creatività poiché coinvolge l’apprendimento


mediante la scoperta e viene così stimolata la fantasia e anche l’immaginazione. Ci sono due
tipi di problem solving: l’approccio per prova ed errore e l’approccio in termini di insight. Il
primo si basa sulla ricerca casuale della soluzione del problema; il secondo prevede
l’utilizzazione e la trasposizione di un principio precedentemente appreso a una situazione
nuova. Sull’insight sono stati sviluppati tre processi: codifica selettiva, combinazione
selettiva e confronto selettivo. Affinchè il problem solving possa consentire il miglior
utilizzo della creatività è necessario l’attraversamento di alcune fasi: capire il problema,
generare delle idee, valutare le idee, pianificare l’azione. La via per individuare le possibili
soluzioni al problema consistono per Popper nel continuo tentare la soluzione e nella critica
severa di questi stessi tentativi. Secondo POPPER si può diventare esperti di un problema
solo quando si è veramente interessati al problema stesso. La creatività nasce nel momento
in cui il soggetto diventa capace di andare oltre i tentativi di un pensatore meno creativo.
- Brain-storming: si fonda sull’accantonamento dei giudizi critici al fine di generare idee
originali. Solitamente questa tecnica viene svolta in gruppo dove ognuno esprime
liberamente ciò che pensa ad alta voce, senza timore di essere giudicato. In tal modo ogni

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soggetto esprime il proprio pensiero e si confronta con gli altri. Prima di acquisire la
capacità di soluzione del problema, il bambino sviluppa le competenze linguistiche e
comunicative attraverso il gioco.
3. Gioco e linguaggio

L’acquisizione del linguaggio si realizza all’interno di precisi contesti sociali e culturali ed è lo


strumento principale della comunicazione. La COMPETENZA LINGUISTICA è una componente
fondamentale della COMPETENZE COMUNICATIVA. La componente comunicativa e quella
linguistica sono strettamente legate tra loro ma la prima prevale sulla seconda , perché sin dai primi
mesi di vita il bambino apprende forme di comunicazione paralinguistiche. La comunicazione non è
solo un processo psicologico, ma anche sociale. L’adulto e il bambino tendono a costruire
significati condivisi all’interno di precisi contesti culturali.

 Parisi e Antinucci: teoria semantico-generativa riguardo alla comprensione dello sviluppo


linguistico. Essi hanno individuato due fasi dello sviluppo: la prima in cui il bambino mostra
intenzioni comunicative nella descrizione di una situazione; la seconda in cui il bambino
dimostra di aver sviluppato le proprie capacità cognitive e linguistiche.

Le teorie di Piaget e Vygotskij hanno posto al centro dell’attenzione il rapporto tra pensiero e
linguaggio; successivamente, negli anni Settanta, si è affermata la teoria di Bruner e non si è più
parlato di competenza linguistica ma di quella comunicativa considerando il linguaggio come un
sistema inserito all’interno di specifici contesti di cui ne subisce l’influenza.

 Piaget: la comparsa del linguaggio si verifica dopo il superamento dell’intelligenza


sensomotoria essendo collegata al pensiero preoperatorio del bambino. Il linguaggio,
insieme al gioco di imitazione, favorisce lo sviluppo dell’attività rappresentativa. Esistono
due diverse forme di linguaggio usato dai bambini: LINGUAGGIO EGOCENTRICO e
LINGUAGGIO SOCIALIZZATO. Il primo non è finalizzato alla comunicazione, in quanto
il bambino non si preoccupa se l’interlocutore possa comprenderlo o meno; il secondo è
finalizzato alla comunicazione. Piaget considera il linguaggio una derivazione del pensiero.
Ritiene che lo sviluppo dell’attività verbale del bambino di realizzi attraverso il passaggio
dal linguaggio egocentrico a quello socializzato.

 Vygotskij: non è d’accordo con Piaget poiché considera lo sviluppo del linguaggio come
autonomo dal pensiero ed ha una funzione comunicativa e si caratterizza per il suo aspetto
sociale. Per lui lo sviluppo del linguaggio segue un percorso inverso affondando le sue
radici nel contesto sociale. Il linguaggio egocentrico rappresenta uno stadio di transizione
nel passaggio dal linguaggio sociale a quello interiore. Fino ai 6 anni il bambino esprime le
prorpie operazioni mentali attraverso il linguaggio egocentrico.

 VYGOTSKIJ vs PIAGET: si differenziano anche per quanto riguarda il rapporto tra


pensiero e linguaggio. Per Piaget il linguaggio dipende dal pensiero, per Vygotskij il
pensiero e il linguaggio svolgono due funzioni differenti. Secondo V. il bambino nei primi
mesi di vita sono presenti due forme di pensiero: quello preverbale e quello prelogico. Tra i
18 e i 24 mesi questi due convergono formando da un lato un pensiero verbale e dall’altro
un pensiero razionale.

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 Bruner: ritiene che il linguaggio abbia origine all’interno di un contesto comunicativo


prelinguistico che unisce il bambino all’adulto. Il bambino tende ad acquisire gli atti
linguistici significativi all’interno della propria cultura. Il rapporto madre-bambino riveste
un ruolo determinante poiché è proprio attraverso la madre e l’attività di gioco che il
fanciullo apprende il linguaggio.

4. Gioco e narrazione
4.1. La competenza narrativa

Le esperienze precoci di lettura stimolano nel fanciullo la motivazione a leggere. La narrazione di


esperienze di vita, di libri letti o racconti ascoltati favorisce nel bambino dei cambiamenti sia interni
che esterni. Secondo Bruner la lettura effettuata da un adulto a un bambino contribuisce a
svilupparne l’acquisizione del linguaggio e delle regole di interazione, poiché prevede l’alternanza
dei turni e la reciprocità. Grazie alla lettura ad alta voce di un libro il bambino inizia a fare il
proprio bagaglio culturale. Attraverso la lettura tra pari il bambino riesce a capire il pensiero
dell’altro che è differente dal proprio. Bruner sostiene che vi sia una capacità innata negli esseri
umani a organizzare il pensiero in forma di narrazione. Le narrazioni e i racconti sono dei mezzi di
cui si servono gli esseri umani per interpretare gli avvenimenti. Il bambino attraverso la narrazione
costruisce le sue conoscenze sulla realtà sociale e la propria identità individuale. È proprio
attraverso le narrazione che il bambino acquisisce il linguaggio di cui impara a servirsi per
comunicare le proprie esperienze. Esistono diversi generi narrativi:

- Gli SCRIPT consistono in narrazioni di azioni di routine e sono resoconti di esperienze


personali, le conoscenze sono di tipo generale.
- Le NARRAZIONI DI ESPERIENZE PERSONALI si basano sul ricordo di esperienze
singolari riguardanti persone specifiche e che si sono realizzate in un preciso momento.
- Il RACCONTO DI STORIE DI FANTASIA: rappresenta un’abilità più complessa che il
bambino acquisisce nel corso del suo sviluppo. La complessità di tale abilità consiste nel
possedere diverse conoscenza e capacità.

Alcuni studiosi hanno individuato 5 componenti che sono alla base di una storia:

- L’inizio formale
- L’evento iniziale
- I tentativi dei personaggi di raggiungere uno scopo
- La risoluzione del problema
- Le conseguenze e la conclusione
4.2. Diversi testi e generi di lettura

Esistono diversi tipi di testi, per questo è essenziale che i ragazzi acquisiscano le abilità necessarie
richieste nella lettura. L’acquisizione di tali abilità porrà il lettore nelle condizione di saper
individuare i motivi e gli scopi della propria lettura. Imparare a leggere significa non solo riuscire a
comprendere ciò che si legge ma anche capire perché si legge. La lettura dell’adulto al bambino si
basa su una socialità condivisa. È sempre la voce che consente di cogliere la sintassi del racconto, il
ritmo e la struttura del testo per poter cogliere il significato di quanto viene letto, il bambino ha

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bisogno di un TEMPO LENTO per poter appagare la propria curiosità. Le strategie che l’adulto può
adottare per rendere il testo comprensibile al bambino sono:

- Illustrazione sintetica dei contenuti del libro


- Lettura ad alta voce
- Dopo-lettura (momento della rilettura del testo che viene richiesta dal bambino per
soddisfare la propria curiosità)

La lettura ad alta voce, soprattutto se illustrato, rappresenta per il bambino un GIOCO. Secondo
Bruner la lettura di un libro è luogo di negoziazione di significati poiché con la lettura il bambino
impara a collegare le parole con gli oggetti. Quest’abilità il fanciullo l’acquisisce tramite i giochi
sociali. Lucia LUMBELLI afferma che il bambino per essere adeguatamente stimolato alla lettura
dovrebbe essere lui stesso artefice della lettura e non solo ascoltatore. L’insegnante dovrebbe
lasciare che il bambino legga da solo il testo di figure, limitandosi ad assecondarlo e a supportarlo
soltanto nei suoi tentativi interpretativi. Una tecnica molto efficace è quella del
RISPECCHIAMENTO VERBALE ideata da Rogers, consistente nel tradurre, da parte
dell’insegnante, tutti i comportamenti osservabili e restituendoli al bambino nel modo più oggettivo
possibile. A questa tecnica però andrebbe affiancato l’intervento verbale dell’insegnante finalizzato
a stimolare il fanciullo a esprimere la sua lettura con parole chiare.

4.3. Gioco: la dimensione estetica e fisica

Secondo Froebel il gioco rappresenta il versante in cui confluiscono l’attività cognitiva e quella
creativa, e dove trovano pace le tensioni e i conflitti di cui è caratterizzata l’infanzia. nel modello
pedagogico di Froebel un ruolo importante lo svolgono la sfera estetica e quella fisica della
personalità infantile. Per quanto concerne la dimensione estetica, Froebel ci offre l’immagine di un
fanciullo ludico, impegnato a sviluppare le proprie capacità espressivo-creative. Il gioco in tal
senso consente di integrare il bisogno cognitivo con quello creativo. Fra le diverse attività artistiche
Froebel fa riferimento al disegno che “sta propriamente tra parola e cosa”. Anche per la Agazzi il
disegno e il canto sono dei punti fondamentali per il suo modello pedagogico. La studiosa
conferisce valore minore all’attività del disegno rispetto a quella del canto perché il disegno resta
circoscritto mentre il canto sviluppa il senso estetico e spirituale. Per quanto concerne la
dimensione fisica, secondo Froebel, vediamo che egli sostiene che l’attività e il fare precedono
sempre il pensiero in quanto il bambino riesce a comprendere a pieno solo ciò che fa. Il corpo
necessita, quindi, come lo spirito di essere educato. Il GIOCO COGNITIVO consiste in quelle
attività ludiche che esaltano le esperienze sensorio-percettive, linguistiche e logiche. Per quanto
concerne l’attività linguistica bisogna programmarla sia sul piano strutturale che metodologico. Il
bambino si serve del linguaggio per conoscere e comunicare (piano strutturale); sul piano
metodologico, le insegnanti sono chiamate a stimolare il fanciullo. Il GIOCO ESPRESSIVO
consente all’infanzia di comprendere e interpretare i molteplici risvolti della realtà con cui
interagisce. Il gioco espressivo consente all’insegnante di diagnosticare e interpretare il mondo
affettivo del bambino.

 CAPITOLO 3. INFAZIA E GIOCO


1. Una nuova immagine di infanzia

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Il trasformarsi delle idee sull’infanzia ha spinto la pedagogia ad approfondire la conoscenza delle


potenzialità di ogni bambino. Le ricerche effettuate in questi ultimi 40 anni ci offrono un’immagine
di bambino nuova, in cui vive da protagonista il processo del proprio sviluppo. In altri termini, il
bambino diventa un soggetto pensante. Nella scuola dell’infanzia si assiste, da un punto di vista
pedagogico, al passaggio dal dire al fare, dalla teoria alla pratica. La comunicazione riesce ad
attribuire attraverso il gioco valore educativo ai linguaggi verbali e non verbali; la socializzazione
trova nel gioco il mezzo attraverso cui valorizzare i suoi repertori internazionali e i suoi potenziali
culturali.

2. La storia e il significato del gioco

Al gioco sono stati attribuiti significati e funzioni differenti. Il gioco cambia le proprie funzioni a
seconda del contesto in cui si svolge. Molte sono le variabili che influenzano il significato del
gioco. Dal punto di vista pedagogico, il gioco ha cominciato ad assumere un significato educativo a
partire dall’800 con la teoria di Froebel.

 Froebel secondo la sua teoria i giochi dell’infanzia non sono come frivolezze, ma come cose
di molta importanza e di un profondo significato. Per Froebel il gioco consente al bambino
di capire come porsi nei confronti degli altri e sono proprio i giocattoli, chiamati da Froebel
“doni”, ad aiutare il fanciullo a scoprire le diverse forme generali dell’universo. Alla teoria
di Froebel si opposero le sorelle Agazzi le quali offrirono una visione del gioco più
completa.
 Sorelle Agazzi: il gioco dovrebbe valorizzare personalità del bambino e non dovrebbe essere
contrapposto al lavoro poiché gioco e lavoro sono compresenti.
 Montessori: il gioco si presenta come impegnato e concentrato, simile al lavoro e diverso da
quello che la Montessori definisce come gioco insensato e dispersivo.
 Dewey: considera il gioco come un’attività che deve preparare il bambino al lavoro.

Oggi il gioco viene, da un lato, considerato nella sua accezione fenomenologico-esistenziale,


indispensabile per sollevare e ricreare la vita dell’uomo, dall’altro viene visto come un evento
inglobato che sii realizza all’interno di un sistema sociologico-culturale. Il gioco è un momento
essenziale nella vita di ognuno, capace di offrire gioia. Durante l’età infantile, il gioco richiama
l’attenzione del bambino al rispetto delle regole e gli consente di prendere distanza dalla realtà per
costruirne un’altra. Il gioco, dunque, svolge diverse funzioni:

- Conoscenza e scoperta delle cose e di sè


- Approccio al cambiamento
- Avvio all’esperienza della condivisione
- Creatività

La considerazione del gioco come strumento di costruzione di cultura deriva


dall’ANTROPOLOGIA PEDAGOGICA DELLA LUDICITA’ di HUIZINGA, il quale non
considera solo l’uomo come sapiens e faber ma anche come ludens. Per Huizinga l’uomo è in grado
attraverso il gioco di costruire cultura e caratterizzare le diverse attività ludiche. Attraverso il gioco
l’uomo può costruire i significati all’interno di una realtà personale. I gioco è stato considerato
come strumento di sviluppo cognitivo e socioaffettivo. A evidenziare la funzione di sviluppo
cognitivo del gioco hanno contribuito PIAGET, VYGOTSKIJ e BRUNER.

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 Piaget: i bambini si servono del gioco per trasformare la realtà esterna adattandola alla
propria motivazione e al proprio mondo interiore.
 Vygotskij: il gioco è strettamente legato a tre aspetti di carattere emancipatorio:
- Il gioco si presenta come atto di mediazione tra i propri bisogni e la realtà contingente;
- Il gioco è un contesto liberatorio
- Il gioco apre una zona di “sviluppo prossimale” in quanto giocando il bambino compie
azioni diverse da quelle quotidiane.
 Bruner: investiga sul rapporto tra il gioco e le strategie per lo sviluppo dei problemi.

Il gioco come contesto di sviluppo di competenze relazionali e metacognitive è inteso come luogo
privilegiato in cui si creano pratiche di relazioni e comunicazione. Tutte le forme di gioco di ruolo
traggono origine dal mondo sociale. Tra le varie funzioni svolte dal gioco abbiamo quelle di
favorire lo sviluppo affettivo e cognitivo del bambino, inoltre svolge il ruolo di mediatore. Il gioco
quindi:

- Crea la zona di sviluppo prossimale, svolge un ruolo simile a quello dell’istruzione;


- Esercita il pensiero produttivo
- Contribuisce a strutturare la personalità
3. Il gioco nelle istituzioni educative

Le considerazioni sul gioco nelle istituzioni educative partono dall’asilo nido per poi procede alla
scuola materna, elementare e infine secondaria. L’ASILO NIDO è considerato un luogo privilegiato
in cui vengono offerte al bambino occasioni di arricchimento della propria personalità. Le situazioni
che il bambino vive nel nido sono tre:

- Situazioni di routine
- Attività libere
- Attività strutturate

Le situazioni di routine sono le attività quotidiane, abitualizzate che consentono al bambino di


acquisire conoscenze e competenze organizzative. Le attività libere richiedono uno spazio e dei
materiali di gioco flessibili, un luogo riservato alle relazioni con gli altri. Le attività strutturate
vengono svolte quasi sempre negli stessi spazi e con gli stessi materiali, in cui l’adulto ricopre un
ruolo stimolante e didattico. Per progettualità educativa si intende l’inserimento del bambino nel
nido, la corretta organizzazione dell’ambiente, le relazioni sociali fra i bambini. Per progettualità
educativa si intende la scelta degli spazi in cui effettuare le esperienze, la scelta dei materiali da
utilizzare, l’individuazione preliminare degli obiettivi. I giochi proposti ai bambini dovrebbero
essere di vario genere: spontanei, guidati, individuali e di gruppo. Le attività preferite nel nido sono
quelle di manipolazione e di psicomotricità. Piaget individua nel movimento le dinamiche della
nascita e dello sviluppo dell’intelligenza, ritenuta come forma di adattamento dell’organismo
all’ambiente. Per Piaget lo sviluppo della motricità corrisponde allo sviluppo dell’intelligenza. La
psicomotricità acquisisce valenza a partire dal terzo anno in poi. Il corpo rappresenta per il bambino
il mezzo con cui poter comunicare col mondo. Il ruolo dell’adulto e del docente non è più quello di
estraniarsi ma di giocare insieme a lui. Nella SCUOLA MAATERNA il gioco rientra tra le attività
principali anche se non sempre rispettoso dei ritmi individuali. Il docente dovrebbe evitare di
intrattenere il bambino con giochi che non rispettano il suo livello di sviluppo. La scelta dei giochi
non può ricadere sempre su quelli ben articolati e strutturati, a volte bisogna lasciare che il bambino

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giochi con del materiale amorfo. DECROLY suggerisce l’importanza dei giochi visivi, uditivo-
motori, quelli di avviamento al calcolo aritmetico. Nella SCUOLA ELEMENTARE prevale il
primato del cognitivo sul ludico. Alle elementari si tende a creare una separazione tra il tempo
scolastico e quello libero. Una tipologia può essere il gioco di ricerca-azione suggerito da Acerbi
che vede i bambini impegnati nella raccolta di testimonianze ludiche del passato raccolte tramite
interviste ai loro nonni. Nella SCUOLA SECONDARIA il tempo dedicato al gioco è sempre più
ristretto, a volte ritenuto anche inopportuno considerata l’età dei frequentanti. Giochi utili
potrebbero essere quelli di orientamento scolastico e di preparazione alla future professioni.

4. Il gioco in ospedale

Il ricovero in ospedale è spesso vissuto dal bambino come un’esperienza traumatica. In un simile
contesto diventa essenziale il ruolo svolto dal gioco in ospedale, il quale rappresenta un elemento di
continuità con l’ambiente familiare e sociale di provenienza. Il gioco svolge una funzione
terapeutica soprattutto per i bambini affetti da malattie croniche. I motivi per cui si è ritenuto
opportuno l’inserimento delle attività ludiche in ospedale derivano dalla necessità di considerare il
paziente nella sua visione olistica e non solo come un oggetto affetto da una malattia. La prima
normativa nella quale si prevedeva la necessità di una figura educativa che potesse affiancare quelle
sanitarie risale al 1936. I due motivi su cui si basava tale affermazione consistevano nel voler
evitare che i bambini ricoverati subissero danni alla carriera scolastica e danni morali. Le cliniche
pediatriche, quindi, mutarono il loro aspetto logistico, le pareti diventarono colorate, furono
introdotti giochi, musica e libri. Nel 1998 giunge la circolare ministeriale n.353 del 7 agosto, in cui
veniva riconosciuta l’importanza della scuola in ospedale. Il ruolo svolge il ruolo di garantire il
benessere psicofisico di ogni bambino in quanto lo aiuta a recuperare la normalità. La figura adulta
dell’educatrice/animatrice diventa essenziale in quanto serve da mediatrice tra i bambini e tra i
bambini e i giochi. Il gioco mediato dall’adulto assolve una funzione terapeutica. All’animatore
spetta la scelta adatta del gioco e dei giocattoli. Con i bambini impossibilitati a muoversi dal proprio
letto l’animatore svolge una funzione più complessa per tre motivi:

- Il coinvolgimento dell’operatore è maggiore


- Il bambino può essere sofferente, arrabbiato, depresso
- L’attività si svolge spesso a tre con uno dei genitori

Il genere di gioco drammatico è senza dubbio il più importante poiché i bambini possono trasferire
le loro ansie sui burattini.

5. La regola nel gioco

La funzione delle regole è stata studiata da Vygotskij e Bruner. La regola si presenta come
condizione indispensabile affinchè il gioco possa realizzarsi ed è imprescindibile anche in qualsiasi
relazione educativa che possa definirsi tale. La funzione della regola nel gioco è stata oggetto di
riflessioni.

 Huizinga: in ogni gioco è necessario che ci sia l’idea di onestà e libertà, l’assenza di tali
principi determina la fine del gioco stesso.
 Bateson: è il gioco stesso che necessita della violazione delle regole, poiché esso viola le
leggi del mondo reale.

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 Vygotskij: di solito un bambino fa esperienza della propria subordinazione a una regola


rinunciando a qualcosa che egli desidera, ma nel caso del gioco la subordinazione a una
regola e la rinuncia ad agire seguendo un impulso immediato costituiscono gli strumenti del
massimo piacere. La durata del gioco dipende dalla capacità del bambino di adattarsi alle
regole.
 Betteleheim sostiene che è proprio attraverso l trasgressione delle regole che il bambino
apprende l’esistenza delle stesse e la necessità di doverle rispettare.
6. I luoghi del gioco

Il luogo riservato al gioco è definito “spazio semi-determinato” e si tratta di un angolo che può
subire trasformazioni ma che conserva intatta la propria struttura. Le mutazioni avvengono
attraverso lo spostamento e la ricombinazioni di vari oggetti. Il bambino ha bisogno di
scombinare e ricombinare e questo serve per sviluppare le sue capacità creative. Il bambino
oltre ad attribuire al luogo ludico una valenza sociale, considera lo spazio come un angolo
individuale in cui può svolgere il gioco personale. Il luogo in cui il bambino svolge il gioco è un
luogo di confine, non tollera intrusioni. I luoghi di gioco possono a volte procurare al bambino
delle paure quando sono sconosciuti ma possono diventare occasioni per acquisire nuovi
apprendimenti. Il gioco svolto nei luoghi all’aperto può offrirsi quale strumento di maturazione
fisica ed estetico-affettiva della personalità infantile. Il giardino della scuola dell’infanzia
potrebbe diventare il luogo privilegiato se solo fosse adeguatamente preparato. Il gioco, avendo
numerose ricadute pedagogiche, potrebbe diventare uno strumento con il quale educare il
bambino alla conoscenze e al rispetto dell’educazione. I bambini hanno bisogno di poter
svolgere i loro giochi in luoghi differenti e di organizzare liberamente il loro tempo. Oggi i
bambini sono impegnati in tante attività che occupano il loro tempo libero, ma nonostante ciò
risultano annoiati, poiché le attività che svolgono sono frutto non di una loro scelta ma di quella
dei genitori.

7. Il gioco da zero a tre anni

Piaget, Vygotskij e Winnicott hanno studiato lo sviluppo del bambino per distinguere se stesso dal
mondo.

 Winnicott: il bambino tende a passare da una fase di fusione con l’ambiente a una in cui
inizia ad acquisire consapevolezza della propria individualità; da una fase in cui non vi è
alcun tipo di integrazione a una fase di integrazione, in cui il bambino comincia a percepire
di avere un dentro e un fuori. Il distacco dalla madre causa nel bambino un forte senso di
frustrazione dovuta alla presa di coscienza della perdita di funzione con la madre. Quando si
rende conto di essere un soggetto diverso ricorre all’utilizzo del gioco transizionale, per il
bambino il gioco è di suo possesso ma allo stesso tempo è diverso da lui. Il giocattolo
consente al bambino di prendere le distanze dalla madre, ma nello stesso tempo ristabilisce
un nuovo rapporto con lei.
 Piaget: afferma che il gioco simbolico consente al piccolo di evocare e anticipare la realtà. Il
gioco simbolico ha una natura transizionale perché viene svolto da un lato in situazioni quasi
di costrizione e dall’altro il pensiero risulta essere svincolato dalla realtà. Verso i due anni il
bambino tende s impegnarsi nella scoperta del mondo esternp ms cerca allo stesso tempo di
controllare il suo mondo interno, fatto di sentimenti, paure e affetti. Il primo gioco del

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bambino è l’adulto. Il ruolo dell’adulto nei giochi come quelli madre figlio, è di mediatore
tra bimbo e mondo esterno.
 Bruner: sostiene che il gioco rappresenta un’occasione per ricercare nuove combinazioni
comportamentali che non potrebbero altrimenti essere sperimentate sotto pressione
funzionale.

È molto difficile conoscere con esattezza il tipo di comportamento corretto da adottare con i
bambini nelle diverse situazioni; si consiglia di rispondere e ben interpretare i primi segnali del
bimbo (pianto, vocalizzi..), di porre attenzione alle retroazioni che il bambino produce durante
l’interazione, cercare di essere coerenti nei ritmi e nella regolarità nelle attività condivise.

8. Giochi solitari e giochi cooperativi


8.1. Il gioco solitario

Abbiamo diverse forme di attività ludiche: il GIOCO SOLITARIO basato sull’utilizzazione di


oggetti; il GIOCO PARALLELO in cui diversi bambini svolgono lo stesso tipo di attività senza
interagire; il GIOCO ASSOCIATIVO dove ogni bambino collabora nello svolgimento della stessa
attività non in modo reciproco; il GIOCO COOPERATIVO, in cui i bambini collaborano tra di loro.
Gli studi psicopedagogici sostengono la pericolosità del gioco solitario, considerato come sintomo
di disagio di bambini non inseriti. Il gioco solitario è considerato come sintomo di insofferenza e di
disagio verso la socializzazione. Winnicott, invece, sostiene che lo stare soli rappresenta una
capacità particolare del bambino, il quale dopo aver preso coscienza di essere in una condizione di
separatezza dalla madre, accetta questa nuova condizione costruendosi una propria autonomia.
Spesso il voler stare soli può anche dipendere da una eccessiva precedente socializzazione. Il gioco
solitario viene definito da Winnicott come “assorto” perché il bambino trova concentrazione per
pianificare le azioni al fine di giungere a determinati obiettivi.

8.2. Il gioco cooperativo

Il gioco cooperativo più diffuso è quello del “far finta” cioè il gioco di finzione. Nel gioco di
finzione i bambini devono trovare un’intesa soddisfacente e un accordo sui significati della finzione
ludica. Il gioco di finzione consiste in un’attività creativa in cui i soggetti, gli oggetti e i luoghi
vengono reinventati e nelle recitazioni effettuate i bambini non seguono un copione. Affinchè il
gioco di finzione possa svolgersi è necessario che i bambini condividano un patrimonio comune di
conoscenze ed esperienze. Le comunicazioni e le regole che i bambini pattuiscono prima dell’inizio
del gioco riguardano: il racconto (durante il gioco si apre una parentesi in cui si spiega come deve
procedere la storia), il suggerimento (interruzione del gioco per dare informazioni su come deve
procedere il racconto), la strutturazione (i bambini negoziano i ruoli e i personaggi senza ammettere
la finzione) e la proposta di finzione (viene chiaramente dichiarato il significato fittizio del gioco).
Dal punto di vista cognitivo per poter giocare insieme è necessario che i bambini siano almeno in
parte capaci di decentramento, cioè siano in grado di realizzare che gli altri possono avere punti di
vista diversi. Dal punto di vista emotivo il piacere che traggono dal gioco in comune deve poter
compensare le frustrazioni inevitabili prodotte dalla riduzione della libertà che esso comporta. Il
gioco collettivo si basa su una mescolanza di momenti in cui il bambino può far prevalere il proprio
egocentrismo e le proprie idee e momenti in cui deve scendere a patti. Le due razioni opposte che
possono essere generate nel gioco cooperativo possono essere quelle di CONFLITTUALITA’ o

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quelle di DECENTRAMENTO. La BONDIOLI ha individuato le cause più frequenti che generano


situazioni di conflitto:

- Ambiguità dei messaggi


- Controproposta, si contraddice ciò che dice il partner
- Risposta tangenziale, si ignora quanto detto dal compagno
- Realizzazione di progetti di gioco diversi con l’utilizzo delle stesse risorse umane e materiali
- Sottrazione di risorse al compagno
- Azioni simmetriche in compiti che richiedono azioni complementari
- Modo intrusivo di ingresso nel gioco

Le tecniche utilizzate dai bambini per condividere i giochi di finzione che la Bondioli ha
individuato sono:

- Tecniche di adattamento
- Tecniche di assecondamento
- Tecniche di sollecitazione
- Tecniche di espansione
- Tecniche di gestione di gruppo
9. Giochi e giocattoli

Nella seconda metà dell’800 si assiste a un’esplosione di produzione e di circolazione del


giocattolo. Il giocattolo è stato per tanto tempo un semplice oggetto che acquisiva valore ludico solo
nel momento in cui gli adulti non lo consideravano più un oggetti importante da mostrare nella
propria casa. Nell’era industriale il valore del giocattolo cambia. Un tempo i bambini giocavano
anche senza possedere oggetti, i giochi si svolgevano all’aperto. Oggi la scelta dei giocattoli è
delegata all’adulto che spesso acquista giocattoli senza alcun valore educativo. Spesso l’adulto
trascura il tempo che dovrebbe spendere a giocare con il bambino. Quando l’adulto chiede al
bambino di giocare, questo reagisce sempre positivamente in quanto durante il gioco l’adulto
diventa una figura da imitare. La sovrabbondanza dei giocattoli e la “metropoli dei balocchi” rischia
di diventare il luogo meraviglioso e artificiale dove i bambini consumano la loro solitudine. La
fantasia può essere stimolata dai giochi che hanno un’originale progettazione utopica; l’avventura si
basa su giochi in cui il soggetto mette in discussione se stesso; il movimento viene agevolato da
giochi basati sulla valorizzazione della corporeità.

10. Osservazione e gioco

Le funzioni svolte dall’osservazione nelle scuole dell’infanzia e nei nidi non possono avere
connotazione valutativa: l’osservazione viene raramente usata come strumento di valutazione dei
bambini. Le sue funzioni principali sono due:

- Osservazione sia occasionale sia sistematica come monitoraggio di progressi;


- Osservazione come metodologia usata dal docente per verificare la qualità e l’efficacia delle
proprie azioni didattiche.

Piaget definisce il rapporto tra adulto e bambino basato sulla coercizione educativa poiché la mente
dell’adulto esercita un notevole controllo sulla mente del bambino, ancora non socializzata e

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matura. Il ruolo dell’adulto è quello di mediatore delle relazioni che il bambino instaura all’interno
di precisi contesti. Sono necessarie:

- Osservazione della relazione bambino/genitori


- Osservazione della relazione bambino/bambino
- Osservazione della relazione bambino/oggetto

Così l’osservazione può diventare uno strumento efficace di descrizione delle relazioni fra vincoli e
possibilità.

 CAPITOLO 4. GIOCO E ANIMAZIONE


1. Visione storico-culturale dell’animazione

Il concetto di animazione nasce in Francia intorno alla prima metà del 1900 su iniziativa di alcuni
intellettuali di creare la “Maison de la culture”, un luogo dove era possibile dispensare
gratuitamente cultura alle masse. Nasce la figura dell’animatore culturale; alla sua nascita questa
figura aveva forti connotazioni politico-sociali. Bersnard ha individuato tre fattori che fanno
dell’animazione un fenomeno sociale:

- Animazione come sistema con funzioni ludiche ricreative e educative


- Animazione come nuovo controllo sociale liberatore e regolatore
- Animazione come progetto ideologico, cioè trasformazione del concetto di animazione in
progettualità pedagogica

La prima e la terza sono quelle che hanno maggiore connotazione educativa. In Italia i primi centri
culturali nascono verso la seconda metà del 1900. Dopo gli anni novanta si concepisce l’animazione
in due modi diversi: da una parte viene intesa come qualcosa di effimero, dall’altra parte come
qualcosa dal valore scientifico e pedagogico. Oggi l’animazione ha il compito di facilitare i processi
di autentificazione dell’esistenza degli individui all’interno di una comunità. L’agire animativo si
caratterizza per tre elementi: la dimensione interiore dell’essere umano, l’apertura alla reciprocità,
la dimensione esteriore verso la quale sono proiettate le possibilità di comportamento personale.
L’animazione si basa su tre processi congiunti:

- Rivelazione
- Atti relazionali/comunicativi
- Creatività
1.1. I contesti e le funzioni dell’animazione

Il concetto di animazione è stato associato a quello si educazione e di formazione in quanto


l’animazione mostra di occuparsi dello sviluppo e della trasformazione dei soggetti. Le funzioni
educative dell’animazione possono essere rappresentate da tre livelli:

- Primo livello: valore educativo dell’animazione è solo implicito perché consiste


nell’organizzazione di eventi e contesti ludici
- Secondo livello: potenziale formativo dell’animazione diventa esplicito quando consiste
nell’aggregare gruppi di individui

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- Terzo livello: il potenziale educativo è più evidente in quanto esplica attraverso gli attori del
contesto che hanno la possibilità di elaborare meta-significati nei luoghi di lavoro di
comunità.

Altra funzione importante dell’animazione è la mediazione. La figura dell’animatore rappresenta


nei contesti multiculturali, quindi per l’immigrato, abitudini, usanze e tradizioni diverse dalle
proprie, ma rappresenta anche una figura per lui essenziale ai fini dell’integrazione. L’immigrato
vive situazioni di disagio e qui torna utile la figura dell’animatore che svolge la funzione di
mediazione interculturale, si impegna ad aiutarlo e a inserirlo nel nuovo contesto sociale e sollecita
la popolazione autoctona ad aprirsi e ad accogliere il diverso.

2. Il gruppo nei processi di animazione


2.1. Dal gruppo al gruppo di lavoro

È necessario distinguere il gruppo dal gruppo di lavoro. Il gruppo si caratterizza per una pluralità di
interazioni; il gruppo di lavoro si distingue per una pluralità di integrazioni. Il gruppo nel diventare
gruppo di lavoro attraversa tre fasi: la coesione, l’interazione e l’interdipendenza. Nel momento in
cui i membri del gruppo avvertono fra di loro un senso di interdipendenza, vuol dire che il gruppo
da semplice composizione di soggetti è diventato gruppo di lavoro. L’interdipendenza è il tramite
vincolante per la maturazione del rapporto tra uguaglianze e differenze, l’equilibrio tra
soddisfazione dei bisogni individuali e dei bisogni di gruppo. Gli elementi distintivi del gruppo
sono la fiducia, la coesione e la condivisione degli obiettivi. La figura dell’animatore nei processi di
costruzione del gruppo di lavoro tende ad esercitare la propria influenza, in particolare sui gruppi
informali. Il compito dell’animatore è quello di comprendere le zone di influenza e di potere che si
creano nel gruppo. Nel gruppo di lavoro si tende a porre maggior enfasi sul prodotto e non sul
processo. Il porre maggior attenzione al prodotto significa non attribuire la dovuta importanza alle
dinamiche di gruppo. Sarebbe conveniente per l’animatore cercare di fare in modo che il processo e
il prodotto siano in relazione e che si integrino, ma per far ciò necessario riflettere sulla dimensione
del gruppo, sulla sua struttura, sui ruoli, sulla comunicazione e sull’influenza reciproca e la
leadership. La dimensione può variare da un minimo di 4 elementi a un massimo di 28; la struttura
può essere formale (quando c’è una gerarchia) e informale (basata sul modo in cui i membri
partecipano); i ruoli corrispondono alle responsabilità che ognuno ha; la comunicazione rappresenta
lo strumento essenziale attraverso il quale ognuno esprime il proprio pensiero; la leadership è quel
ruolo che tutti i membri riconoscono a un soggetto particolarmente carismatico e comunicativo. Fra
le tante funzioni dell’animatore ci sono anche quelle di gestire i conflitti all’interno del gruppo. La
mediazione si realizza attraverso tre fasi:

- Fase preliminare: la situazione più favorevole è quando tutte le parti coinvolte sono
favorevoli al colloquio
- Colloquio: parte centrale e si sviluppa in 5 fasi (introduzione, modo di vedere delle singole
parti, chiarimento del conflitto, soluzione del problema, accordo)
- Fase di attuazione: l’animatore e le parti del conflitto di rincontrano dopo un po’ dii tempo
per verificare se i termini dell’accordo sono stati rispettati.

I conflitti possono essere rimediati anche attraverso il gioco.

3. Le competenze dell’animatore

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L’animatore deve possedere gli strumenti adeguati per analizzare i problemi che gli individui, i
gruppi e la comunità vivono. All’animatore sono richieste le conoscenze e le abilità tipiche delle
scienze umane, in quanto gli si richiede di essere in grado di osservare le dinamiche del gruppo al
fine di comprendere i problemi. Diverse sono le tipologie di animatori culturali: abbiamo quello
socioculturale e quello interculturale. Le funzioni svolte dall’animatore sono principalmente due:
può assolvere al compito di semplice intrattenitore del gruppo, oppure può svolgere il ruolo di
animatore/conduttore, cioè colui che, oltre a preoccuparsi di facilitare la vita del gruppo, fa anche da
guida. Le competenze richieste all’animatore riguardano:

- Le conoscenze relative alle posizioni da occupare nel gruppo


- La capacità comunicativa e di osservazione

Le posizioni che l’animatore può occupare all’interno del gruppo dipendono dalla formazione del
gruppo stesso; la capacità comunicativa è quella maggiormente richiesta poiché non deve solo usare
un registro linguistico appropriato, ma deve saper usare anche il giusto tono e volume di voce.
L’animatore dovrebbe anche essere capace di leggere e interpretare i silenzi del gruppo. Per quanto
riguarda la capacità di osservazione, questa consente all’animatore di rilevare dati e informazioni
preziose per monitorare il gruppo. Le funzioni di animazioni da cui l’animatore dovrebbe prendere
esempio vengono fornite da ANZIEU e MARTIN:

- Funzione di produzione mettere in atto una serie di azioni finalizzate al raggiungimento


dell’obiettivo finale;
- Funzione di facilitazione facilitare la fase di produzione mettendo a punto le modalità
organizzative e di produzione del gruppo, appare utile la competenze della comunicazione
interpersonale;
- Funzione di elaborazione consiste in quell’area in cui i membri del gruppo esprimono se
stessi ricercando forme di comunicazione basate sulla sincerità.
4. Laboratorio: luogo di animazione

Il laboratorio è considerato lo spazio privilegiato in cui svolgere le attività di animazione, poiché si


distingue per i suoi spazi non ben delimitati. I laboratori sono quei luoghi fisici e sociali attrezzati
che agiscono come condizionatori e mediatori delle attività. Il laboratorio si configura come luogo
in cui l’infanzia deprivata della contemporaneità può ritrovare la sua spontaneità. Secondo Frabboni
il laboratorio si caratterizza per due specifiche identità pedagogiche e per tre specificità didattiche:

Identità pedagogiche:

- Stile relazionale
- Stile sperimentale

Specificità didattiche:

- Interdisciplinarità, è trasversale a tutte le materie


- Strategie non individualizzate, nelle attività di laboratorio si preferiscono i lavori di gruppo
- Progetto didattico, basato sul versante metodologico

I laboratori, definiti anche atelier, comprendono attività di manipolazione e riproduzione, in cui


viene data ampia libertà d’espressione all’inventiva e all’immaginazione. La ricerca-azione,

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effettuata nei laboratori, si presenta come uno strumento molto flessibile e facilmente utilizzabile in
ambito educativo per diversi motivi: può servire per rilevare dati e informazioni; può diventare un
utile metodo nell’educazione di strada, può essere una tecnica di animazione sociale.
L’adulto/animatore svolge un ruolo importante nei laboratori; la sua funzione è quella di produrre
stimoli, affrontare argomenti importanti e creare un clima accogliente. Il laboratorio può diventare il
luogo privilegiato di gioco per i bambini ma anche per gli adulti.

4.1. Il laboratorio di educazione psicomotoria

Le attività svolte nei laboratori di psicomotricità si distinguono per essere sia libere, basate sul
gioco non strutturato, sia mirate, cioè quelle pianificate e organizzate. L’educazione psicomotoria
oltre ad assolvere una funzione comunicativa importante per i bambini piccoli, corre in aiuto anche
degli adolescenti che si sentono a disagio con il proprio corpo in continuo cambiamento. Per
organizzare delle attività di psicomotricità, l’animatore esamina quattro elementi: lo spazio, il
tempo, i materiali e le relazioni. Lo spazio dovrebbe includere alcune aree particolari come quella
del gioco sensomotorio, dotato di materiale versatile; il tempo dovrebbe avere un andamento rituale,
rispettoso dei ritmi del bambino; le relazioni comprendono l’atteggiamento dell’adulto, le funzioni
di tutoring dell’insegnante, il momento delle consegne e le relazioni tra i bambini; i materiali
utilizzati si distinguono per la loro varietà formale e a volte svolgono la funzione di mediatori di
comunicazione.

4.2. Il laboratorio della lettura e della narrazione

Lo spazio riservato al laboratorio della lettura sarebbe consigliabile non fosse molto grande. Il
contatto precoce con il libro consente al bambino di arricchire il proprio linguaggio di parole
sempre nuove. Il laboratorio della lettura e della narrazione consente al fanciullo di sviluppare le
competenze linguistiche, anche se bisogna distinguere tra l’acquisizione del linguaggio e della
cultura e il linguaggio dell’educazione. L’acquisizione del linguaggio consiste nell’apprendimento
di determinati valori ed elementi culturali; il linguaggio dell’educazione è basato sulla negoziazione
e non si limita alla semplice esposizione dei fatti, ma contribuisce allo sviluppo del pensiero critico
e delle abilità interpretative. Bruner sostiene che il linguaggio dell’educazione deve configurarsi
come il linguaggio della creazione di cultura. Il laboratorio della lettura consente ai bambini di
acquisire il linguaggio dell’educazione e attraverso il contatto diretto con il libro riesce a
immedesimarsi nei personaggi e nelle situazioni oggetto di narrazione. La lettura non è un’attività
semplice in quanto si basa su processi di comprensione e decodificazione. L’adulto si pone come
mediatore tra il bambino e il contenuto e le immagini del testo. L’insegnante capace di animare:

- Conosce bene chi sono i bambini destinatari dell’animazione


- Seleziona i testi da proporre
- Sceglie dei buoni libri in termini di linguaggio, personaggi e illustrazioni
- Individua quali siano le aree problematiche del testo in riferimento alla tematica trattata
- Struttura animazioni in cui il coinvolgimento emotivo passi anche tramite la comprensione
di alcuni passaggi fondamentali del test.

L’insegnante deve stimolare processi di comprensione e interpretazione nel bambino. la


comprensione è un processo dinamico di interazione tra le informazioni fornite dal testo e le
conoscenze presenti nella memoria del lettore. L’interpretazione riguarda più la sfera personale ed

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emotiva, infatti alla fine della lettura si chiede al bambino di raccontare le emozioni e i sentimenti
che la lettura ha provocato.

 CAPITOLO 5. I METODI E LE STRATEGIE DI ANIMAZIONE


1. Il gioco come metodo

I contesti in cui il gioco potrebbe essere utilizzato come metodo sono molteplici:

- L’animazione teatrale
- L’animazione socioculturale
- L’animazione ludico ricreativa
- L’animazione socio educativa

Il compito dell’animatore è sempre quello di porre al loro agio i membri del gruppo, di farli
esprimere e di coinvolgerli nelle attività. Considerare il gioco come metodo di animazione significa
fondare il metodo sulla partecipazione e sulla crescita personale dei soggetti coinvolti. Il gioco si
pone tra gli obiettivi prioritari quello di facilitare il processo di trasformazione e di conquista di
autonomia dei soggetti. La fase successiva alla scelta del gioco consiste nella realizzazione del
gioco stesso, la quale comprende due aspetti: la giocabilità del gioco e il ruolo e la modalità di
partecipazione del conduttore. La scelta del luogo deve essere effettuata tendendo conto sia
l’ambiente fisico che di quello psico-relazionale. Il ruolo e la modalità di partecipazione del
conduttore riguardano sempre le competenze dell’animatore. La capacità di riflettere su se stessi
consente di cogliere le incongruenze della propria personalità, al fine di facilitare la crescita
personale ed eliminare ogni atteggiamento di superiorità. Dopo la fase di realizzazione del gioco
subentra quella de “debriefing”, cioè del dopogioco, in cui si innalzano i risultati prodotti dal gioco
e la qualità del lavoro di gruppo. Il debriefing consiste in tre fasi:

- Fase di descrizione in cui i protagonisti descrivono l’esperienza compiuta


- Fase di analogia-analisi in cui i partecipanti discutono sul gioco compiuto
- Fase di applicazione in cui vengono valutate le scoperte rilevanti

La scelta del metodo e delle tecniche da utilizzare nei contesti di animazione dipende dagli obiettivi,
dal setting e dalle caratteristiche dei partecipanti. Le metodologie più utilizzate nei contesti di
animazione potrebbero essere riassunte nella:

- Metodologia narrativo-autobiografica, finalizzata all’accrescimento della conoscenza di sè


- Metodologia dell’alterità, finalizzata all’ampliamento della dimensione relazionale
- Metodologia collaborativa, finalizzata all’apprendimento in gruppo
2. Il metodo autobiografico

È considerato principalmente adatto all’educazione degli adulti. Gli elementi che


contraddistinguono l’autobiografia risiedono nella:

- Componente ermeneutica (interpretazione degli eventi)


- Componente emancipatoria (capacità di guardare oltre se stessi)
- Componente esperienziale ( riflessione sull’esperienza in termini proiettivi)

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La biografia è un racconto spontaneo, l’autobiografia, invece è più pilotata e indotta. Il metodo


autobiografico consente pertanto all’animatore, a cui è richiesta una profonda conoscenza
dell’essere umano, di comprendere l’identità personale e il sé di ogni individuo. In altri termini, il sé
si presenta come un organo dinamico che nel tempo cresce e cambia, e la personalità di un soggetto
viene quindi a costituirsi a seguito delle continue interazioni ed esperienze che compie all’interno di
un preciso contesto socio-culturale. Un ulteriore valore pedagogico dell’autobiografia risiede nel
fatto di essere considerata una metodologia umanistica e attivistica di tutto rispetto che predilige il
contatto diretto con le cose e con gli altri, l’apprendimento dell’esperienza, il dialogo reale, il
conflitto come momento della concentrazione.

3. Il metodo dell’alterità

Questa metodologia definisce i criteri e le modalità attraverso cui diventa possibile rapportarsi
correttamente all’altro. I contesti d’animazione si presentano quale luoghi specificatamente consoni
all’osservazione e alla conoscenza tra ii soggetto che ricercano tra loro un adeguato
accomodamento e livello di comprensione. Le finalità che questo genere di metodologia si prefigge
di conseguire consistono:

- Nello sviluppo di processi di conoscenza reciproca


- Nella realizzazione di processi integrati di empatia ed exotopia
- Nel riconoscimento dell’altro come soggetto diverso da sé

L’empatia consiste nella capacità di immedesimarsi nell’altro, leggendo l’altro attraverso i propri
valori e ideali; l’exotopia risiede nella capacità di saper prendere le distanze dall’altro ricercando
propria autonomia, ma nello stesso tempo consiste nel rispetto dell’altro.

4. Il metodo collaborativo

È utilizzata con i gruppi di lavoro. L’animazione contribuisce alla creazione del gruppo e delle
relazioni fra i componenti. Il gruppo classe si basa quindi sull’interdipendenza positiva e si pone
come obiettivo finale quello di favorire lo sviluppo di competenze sociali. Tale metodo stimola tutti
i componenti della classe a partecipare al lavoro di gruppo. È importante che nelle scuole si sviluppi
la cultura e la pratica della didattica collaborativa, ancora poco utilizzata. Gia Piaget e Dewey
avevano parlato di clima collaborativo, quindi questo metodo non dovrebbe essere del tutto
sconosciuto. Gli psicologi cognitivisti hanno posto in evidenza l’importanza del feedback ai fini
dell’apprendimento. La collaborazione che si crea all’interno dei gruppi di lavoro contribuisce
all’apprendimento di specifiche abilità come quelle sociali e comunicative-relazionali. La
metodologia collaborativa prevede:

- Conversazione e discussione guidata


- Il gruppo dei pari
- Aiuto reciproco

Tra le metodologie più note abbiamo il Cooperative Learning.

4.1. Cos’è il Cooperative Learning

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Il Cooperative learning consiste in un vasto movimento educativo che si basa sull’utilizzazione di


particolari tecniche di cooperazione per quanto riguarda l’apprendimento in classe. Può essere
definito come un insieme di tecniche di conduzione della classe nelle quali gli studenti lavorano in
piccoli gruppi per attività di apprendimento e ricevono valutazioni in base ai risultati conseguiti.
Affinchè il cooperative learning si realizzi è necessario che il contesto di apprendimento si distingua
per determinate caratteristiche: l’interdipendenza positiva, l’interazione faccia a faccia,
l’insegnamento e l’uso di competenze sociali nell’agire dei piccoli gruppi, la revisione e il controllo.
L’interdipendenza positiva si crea quando nel gruppo ogni membro si prodiga affichè il lavoro
possa giovare anche agli altri. , quindi è necessario che il lavoro sia condiviso da tutti. Il
cooperative learning si è sviluppato in particolare negli Stati Uniti intorno agli anni sessanta e
all’affermazione di questo movimento hanno contribuito Dewey e Lewin; entrambi convengono
sulla necessità di favorire la collaborazione e la cooperazione nella scuola al fine di contribuire allo
sviluppo di una società democratica e migliore. Si propone come una metodologia volta a creare un
contesto educativo, in cui i soggetti coinvolti nei processi formativi sono in grado di collaborare e di
sviluppare le proprie abilità cognitive, sociali e di comunicazione.

5. Le tecniche di animazione
5.1. Le tecniche ludiche

Le tecniche fungono da veri e propri catalizzatori, in quanto facilitano l’acquisizione dei contenuti
di conoscenza e ne amplificano i significati. Quando la scelta della tecnica risulta essere appropriata
diventa più semplice anche trasmettere i contenuti, poiché la tecnica si presenta come mezzo per
trasportare le conoscenze. L’animatore, quindi, deve anche saper utilizzare correttamente la tecnica
celta e di saperla adattare alle circostanze. La scelta della tecnica da utilizzare rientra in un quadro
più ampio di progettazione dell’azione animativa. La quale si basa su tre fasi:

- Individuazione di criteri per la scelta del gioco di animazione


- Conduzione e attuazione del percorso ludico
- Analisi dei processi attraverso il debriefing (dopo gioco)

A tale proposito CAILLOIS ha elaborato una tassonomia ludica in cui suddivide i giochi in quattro
categorie:

- AGON, giochi di competizione


- ALEA, giochi in cui prevale il caso
- MIMICRY, giochi di simulazione
- ILINX, giochi di vertigine
6. I giochi di cooperazione

I giochi di cooperazione si pongono come obiettivo prioritario quello di superare in gruppo gli
ostacoli che si presentano durante le attività. I giochi cooperativi consentono di migliorare il clima
socio affettivo tra i membri del gruppo e dimostrano di essere efficaci nell’affrontare i problemi tra
soggetti di diversa provenienze etnica e socio-culturale. Il gruppo cooperativo si differenzia da
quello tradizionale perché si basa sull’interdipendenza positiva. Le origini del gruppo cooperativo
risalgono alle società tribali. Il sentimento della competitività non risulta essere appropriato al
gruppo cooperativo poiché tende a distruggere la fiducia che ogni soggetto nutre di se stesso e il
senso di collaborazione. Questo non vuol dire che il senso di competizione sia del tutto assente nei

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giochi cooperativi, ma solo che assume un valore e una funzione differente: stimola nel soggetto la
volontà di sperimentarsi e di favorire la propria crescita personale. Le attività cooperative, quindi,
contribuiscono allo sviluppo della creatività, dell’empatia e dello spirito dii sostegno tra soggetti
che lavorano insieme. I giochi cooperativi possono essere utilizzati anche nelle attività sportive e
sono considerati validi strumenti per l’educazione alla pace.

6.1. I giochi di comunicazione

I processi di comunicazione si basano sulle relazioni e per questo motivo diventa fondamentale
avere una conoscenza generale del quadro teorico di riferimento della relazione e della
comunicazione stessa:

- La psicologia umanistica sii è occupata degli studi sulla relazione


- La scuola di Palo Alto ha approfondito gli aspetti riguardanti la comunicazione
- L’approccio nonviolento nella costruzione dei rapporti si è occupato della gestione dei
conflitti e del processo di equivalenza.

La scuola è chiamata a una progettazione che tenga conto della cooperazione, della gestione dei
conflitti e delle emozioni. Il gioco, quando viene pensato e utilizzato nella scuola a fini didattici,
necessita di un’organizzazione e di una gestione competente da parte degli insegnanti i quali
dovrebbero essere i primi a credere nel valore educativo delle attività ludiche e a essere consapevoli
delle finalità che intendono raggiungere. Le attività ludiche basate sulla comunicazione consentono
al docente di migliorare la qualità relazionale con i propri studenti.

6.2. I giochi di simulazione

I giochi di simulazione nascono come giochi bellici, di simulazione strategica che servivano per
l’addestramento militare dei giovani. Dal punto di vista didattico il modello pone al centro dei
processi di apprendimento un insieme di relazioni e processi modificabili e trasformabili. Il concetto
di modello quindi risulta essere implicitamente presente nel concetto stesso di simulazione, la quale
consiste nel progettare un modello di un sistema reale e nel condurre esperimenti con esso allo
scopo di comprendere il comportamento del sistema o di valutare varie strategie per operare sul
sistema. La valenza didattica dei giochi di simulazione risiede nel facilitare lo sviluppo di
determinare competenze come quella dell’acquisizione di automatismi che consiste nello sviluppo
di abitudini percettivo-motorie, basate sul meccanismo stimolo-risposta. Un esempio di gioco di
simulazione potrebbe essere quello del role-playing. Tale gioco deriva dall’esperienza compiuta da
Moreno con il “teatro della spontaneità” , attraverso cui si rese conto di come questa tecnica
aiutasse i soggetti a liberarsi dai sentimenti repressi.

6.3. Il braistorming

È una tecnica ideata da Alex Osborn; è strettamente legata alle dinamiche di gruppo e ai processi di
comunicazione che si realizzano nel gruppo e del gruppo con l’esterno. Tali critiche definite da
Osborne come insieme di giudizi di valore rendono difficile la comunicazione e inibiscono
l’operatività e la creatività dei soggetti. La comprensione del funzionamento del brainstorming è
collegata alla conoscenza relativa all’organizzazione e al funzionamento dei gruppi in cui tale
metodo viene utilizzato: gruppo di discussione, gruppo di orientamento, gruppo di counseling,
gruppo repressivo, gruppo di addestramento, gruppo terapeutico. Il tratto più saliente del

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brainstorming consiste nel favorire lo sviluppo della creatività nei soggetti, creatività intesa come
qualcosa che riguarda l’intera personalità di un individuo. Le funzioni del brainstorming sono state
illustrate dal suo ideatore Orborn e sono:

- Come ausilio per l’attività intellettuale


- Come supplemento alle riunioni di direzione tradizionali
- Come mezzo didattico nei programmi per lo sviluppo del pensiero creativo

È una tecnica di animazione di gruppo che stimola il gruppo alla riflessione e al pensiero creativo.

7. Le tecniche di drammatizzazione

Consistono nel dare forma a un dramma al fine di trovare una soluzione. Tutte le tecniche di
drammatizzazione si distinguono per la loro particolare vena didattica-educativa poiché consentono
di concretizzare i loro apprendimenti e di ricostruire la realtà servendosi dei giochi di finzione. Il
teatro favorisce lo sviluppo delle abilità comunicative ed espressive consentendo una formazione
globale della personalità. La metodologia didattica più appropriata è il laboratorio, in cui andrebbe
utilizzata una didattica flessibile e partecipata in modo da poter potenziare le abilità già possedute
dagli studenti.

7.1. Il teatro dei burattini

È facilmente adattabile a svariati contesti può essere realizzato sia nella scuola dell’infanzia che
nella scuola primaria. Attraverso la costruzione dei burattini l’uomo ricorre a tutto il proprio
potenziale creativo. Gli elementi distintivi di questo genere di teatro sono:

- Scelta della storia


- Sceneggiatura
- Costruzione del setting di rappresentazione
7.2. Il teatro delle ombre

Offre la possibilità di poter esprimere le proprie emozioni facendo ricorso ai diversi canali
comunicativi e all’interno di uno specifico spazio. La narrazione ricorre all’utilizzazione sia del
linguaggio verbale che non verbale. Questo genere di teatro consente ai bambini di esprimere le loro
idee e i loro sentimenti. Gli obiettivi educativi consistono nel favorire lo sviluppo di competenze
cognitive, immaginative e fantastiche, oltre a consentire al bambino di superare la paura del buio.

7.3. Il teatro dell’oppresso

Il fondatore è Augusto Boal. I concetti su cui si basa il teatro dell’oppresso sono tre:

- Il rapporto attore/spettatore
- La relazione oppresso/oppressore
- La maschera sociale

Il teatro dell’oppresso consente di conoscere i sentimenti dell’oppresso e permette all’oppresso di


liberarsi dai condizionamenti altrui. l’oppresso attraversa un processo di coscientizzazione e riesce a
trovare soluzioni per conquistare la propria libertà.

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8. Le tecniche multimediali

Le tecniche del mondo multimediale sono considerate valide ai fini dello sviluppo di determinate
competenze come quelle legate alla manualità, alla coordinazione oculo-manuale, al problem
solving e all’acquisizione di abilità relazionali e collaborative. La realtà virtuale, secondo Ferrarotti,
finisce per distorcere la realtà, inducendo il soggetto a illudersi di vivere una vita irreale. Luca
Giuliano, invece, valorizza gli aspetti positivi di questa nuova realtà dicendo che il virtuale
rappresenta una problematizzazione della realtà e non una perdita della materialità. L’identità
tenebrosa con il computer genera un’utilizzazione scorretta e diseducativa del computer, in cui si
realizza una depauperamento dei contenuti referenziali. Il giocatore, attraverso il videogame,
esercita le proprie capacità cognitive e impara a controllare le proprie emozioni. I pericoli più
ricorrenti potrebbero risiedere nell’alienazione dalla realtà, nell’assenza dell’imprevisto,
nell’esercitazione incontrollata del potere sull’altro.

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