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CHIRURGIA PLASTICA

Prof. Perrotta

INNESTI E LEMBI
Per INNESTO (o graft) si intende il trapianto di uno o più tessuti, o di una parte di essi,
prelevati da una sede originaria, interrompendo le connessioni vascolari, in una sede
ricevente.
Si distinguono in:
- SEMPLICI, quando costituiti da un solo tessuto (cute, mucosa, derma, tendine,
muscolo, fascia, nervo, osso, cartilagine, adipe).
- COMPOSTI, quando costituiti da più tessuti.
- CONTINUI, quando il prelievo dell’innesto è delle stesse dimensioni della zona da
ricoprire.
- DISCONTINUI, se l’innesto non copre tutta la perdita di sostanza (le zone non
coperte possono cicatrizzare secondariamente partendo dai margini dell’innesto).
Si distinguono, in base al soggetto donatore e ricevente:
1) AUTOINNESTI, il donatore ed il ricevente sono la stessa persona;
2) OMOINNESTI, il donatore ed il ricevente appartengono alla stessa specie:
- ISOinnesti se il donatore ed il ricevente hanno identica antigenicità (gemelli
monocoriali);
- ALLOinnesti se l’antigenicità è simile;
3) ETEROINNESTI, donatore e ricevente appartengono a specie diverse (ormai in
disuso, erano usati per il trattamento dei grandi ustionati, ad esempio con cute di
maiale);
La principale indicazione all’uso di omo ed etero innesti sono i grandi ustionati.
Si distinguono, in base all’uso che se ne fa:
1) ISOTOPICI, il tessuto viene usato per colmare una perdita di sostanza di un tessuto
identico in altra sede;
2) ETEROTOPICI, il tessuto viene invece utilizzato in sostituzione di un altro tessuto
(cartilagine in sostituzione della struttura fibrosa tarsale, cute in sostituzione di
mucosa del cavo orale, ecc.);
INNESTI DI CUTE
L’innesto di cute viene usato in caso di:
- ustioni
- traumi
- escissioni di tumori e nevi giganti
Mentre è controindicato se vi è esposizione di tessuti nobili (osso e strutture nervose) pieghe
di flessione (l’innesto va incontro a retrazione cicatriziale durante l’attecchimento) o unità
estetiche.
In base allo spessore del lembo è possibile distinguere:
- INNESTI A SPESSORE PARZIALE, possono essere prelevati a mano libera o
tramite DERMATOMO manuale o elettrico, da zone cutanee ben deterse, distese e
ampie come superficie antero laterale di coscia, regione glutea o inguinale. Nel caso
in cui sia necessario coprire una vasta zona corporea, si può inserire il tessuto
prelevato in un “mesher” o “mesh graft”, che pratica incisioni longitudinali estendendo
il prelievo a rete ed aumentandone la superficie da 2 a 10 volte.
1) EPIDERMICI (Ollier-Thiersh) di spessore compreso tra 0,2 e 0,25 mm,
comprende epidermide e porzione superiore delle papille dermiche.
2) DERMO EPIDERMICI A PICCOLO SPESSORE (Blair-Brown) di spessore
compreso tra 0,3 e 0,4 mm, comprende epidermide e strato papillare del
derma.
3) DERMO EPIDERMICI A MEDIO SPESSORE (Padget) di spessore compreso
tra 0,5 e 0,6 mm, comprende epidermide e derma fino al confine con lo strato
reticolare.
VANTAGGI E SVANTAGGI
- ampia disponibilità di tessuto
- processo di attecchimento meno indaginoso e più rapido
- guarigione spontanea della sede del prelievo

- maggior tendenza a discromie
- maggiore tendenza alla retrazione
- insufficiente copertura degli strati profondi
- scarso risultato estetico
- INNESTI A TUTTO SPESSORE (Wolfe-Krause) di spessore compreso tra 0,8 e 1
mm, comprendono epidermide e derma. Il prelievo viene effettuato a mano libera con
un bisturi. Le sedi di prelievo sono quelle zone in cui sarà meno visibile il danno
estetico, ovvero quelle in cui l’elasticità dei tessuti consentirà una guarigione per
prima intensione: la superficie interna del braccio, la regione sovraclaveare, inguinale
e retroauricolare.
VANTAGGI E SVANTAGGI
- minor tendenza alla discromia
- minor tendenza alla retrazione
- buona copertura dei piani profondi
- buon risultato estetico

- processo di attecchimento più indaginoso e più lungo
- scarsa disponibilità di tessuto
ATTECCHIMENTO DELL’INNESTO
Un innesto è per definizione privo di vascolarizzazione propria e viene detto “attecchito”
quando stabilisce connessioni vascolari con la zona ricevente.
L’attecchimento segue 3 fasi:
1) fase dell’IMBIBIZIONE (24-36 ore) in cui l’innesto viene nutrito dall’imbibizione sierica
del fondo (presenza di glucidi e proteine nell’interfaccia innesto / area ricevente),
maggiore è lo spessore dell’innesto e più difficoltosi saranno i processi di
angiogenesi. L’innesto a spessore sottile è immobilizzato (tramite medicazione
compressiva, “moulage”) per 4 giorni, quello a tutto spessore per 6 giorni circa.
2) fase dell’ANGIOGENESI o inosculazione vascolare (24-72 ore), in questa fase i vasi
dell’innesto non più sottoposti all’inibizione da contatto proliferano, finchè non si
connettono con i vasi della zona ricevente.
3) fase della CONTRAZIONE (6-12 mesi) in cui l’innesto va incontro rimodellamento e
retrazione cicatriziale (anche in parti sensibili, come le palpebre) e a possibili
variazioni cromatiche.
Le cause più comuni di mancato attecchimento sono:
- ematomi
- infezioni
- inadeguatezza del fondo
- insufficiente immobilizzazione
COLTURA DI CHERATINOCITI
E’ un metodo di copertura da utilizzare nel caso di grandi superfici scoperte, temporaneo o
definitivo. L’innesto viene prodotto dalla coltura di cute autologa per 15 giorni circa, con
superficie iniziale di 2 cm2.
INNESTI DI DERMA
Vengono usati per rinforzare la parete addominale in laparoceli o deficit muscolari. Il prelievo
viene effettuato con dermatomo o a mano libera previa disepitelizzazione della zona
prescelta.
Ovvi esistono materiali biologici eterologhi di origine bovina, il collagene sottoposto a vari
trattamenti diviene liquido e può essere iniettato dove necessario a ripristinare deficit
volumetrici.
INNESTI DI MUCOSA
La sede di prelievo più comune è il vestibolo buccale, meno frequentemente la mucosa
nasale o vaginale. Gli innesti di mucosa vengono usati per rimpiazzare deficit mucosi.
Il processo di attecchimento è quasi identico agli innesti cutanei. Anche se gli innesti di
mucosa tendono maggiormente a retrarsi durante l’attecchimento, per questo motivo la
sostanza innestata dovrebbe essere sovrabbondante rispetto al vuoto da colmare.
INNESTI DI ADIPE
La sede di prelievo è solitamente la regione ipogastrica o glutea. Si può prelevare solo adipe
o anche derma e iniettare il materiale in zone di deficit volumetrico per ristabilire la normale
anatomia. Data la spiccata tendenza a riassorbire, sarebbe bene anche in questo caso
ipercorreggere il difetto.
INNESTI DI FASCIA
La fascia è un tessuto altamente resistente e l’unico usato nel trattamento plastico della
paralisi del nervo facciale, nella ptosi palpebrale e in neurochirurgia come sostituto della
dura madre.
L’innesto è prelevato tramite un FASCIOTOMO a livello della fascia lata (struttura
connettivale esterna della coscia) mediante piccole incisioni o a cielo aperto.
INNESTI DI MUSCOLO
Vengono usati per riparare minus muscolari a livello facciale. I tessuti donatori sono
solitamente i muscoli estensori brevi delle dita del piede o dal palmare lungo. Per evitare che
il muscolo vada incontro ad atrofia, è bene denervare il muscolo tempo prima e rinnervare
durante l’apposizione dell’innesto.
INNESTI DI TENDINE
Sono usati spesso in traumatologia della mano e dell’arto superiore per ristabilire la
continuità di tendini con monconi troppo distanti per essere riaccostati direttamente. Il tendini
vengono prelevati a livello delle dita del piede o del palmare lungo, con l’accortezza di non
ledere il suo rivestimento esterno o il suo peritendine.
INNESTI DI VENA
Il vaso donatore è prelevato dalle vene della superficie dorsale della mano o più spesso
dalla vena safena. L’innesto venoso può essere usato per sostituire un vaso venoso ma
anche un vaso arterioso (con il tempo la muscolatura vasale venosa si “arterializza”).
Particolare attenzione va posta alla direzione del flusso, in quanto la presenza di valvole
nell’innesto potrebbe ostacolare il flusso sanguigno.
INNESTI DI NERVO
Vengono usati per riparare perdite di sostanza che riguardano i nervi periferici.
Secondo SUDDON e SUNDERLAND esistono diversi gradi di lesione nervosa:
- NEUROAPRASSIA (1° grado di SUDDON e SUNDERLAND): temporanea lesione
del rivestimento mielinico di un nervo che guarisce spontaneamente con restituzio ad
integrum.
- ASSONOTMESI (2° grado di SUDDON e SUNDERLAND): soluzione di continuo
dell’assone ma integrità del tubo endoneurale, la rigenerazione è spontanea.
- NEUROTMESI (3° grado di SUDDON e 3°, 4° e 5° grado di SUNDERLAND):
sezione completa dell’assone e della fibra nervosa (nel 3° il perinevio è integro, nel
4° è danneggiato, nel 5° completamente sezionato).
Le sedi di prelievo sono il nervo surale e femorale.
INNESTI D’OSSO
Vengono usati negli esiti di fratture comminute o con perdita di sostanza ossea per dare un
sostegno maggiore specie in particolari regioni, come il dorso del naso.
Gli innesti ossei possono essere:
- di sola CORTICALE
- di sola SPONGIOSA
- COMBINATI di corticale e spongiosa
Vengono prelevati dalla superficie antero mediale della tibia (per gli innesti corticali), dalla
cresta iliaca (per gli innesti corticali e spongiosi) o dalle coste (per gli innesti corticali e
spongiosi).
Un dubbio si pone sulla scelta di prelevare il periostio con l’innesto, allo scopo di facilitare
l’attecchimento dopo il trapianto, o lasciare il periostio in sede per favorire la rigenerazione
tissutale del sito di prelievo.
L’innesto osseo è infatti gravato da una serie di svantaggi:
1) notevole dolore post operatorio nella sede di prelievo
2) fratture precoci
3) rischio di infezione
4) possibile riassorbimento
INNESTI DI CARTILAGINE
Vengono prelevate dalle cartilagini costali e usate per sostituire con trapianto isotopico le
cartilagini nasali e auricolari o come trapianto eterotopico in sostituzione della struttura
fibrosa tarsale.
L’attecchimento è semplice in genere.

Per LEMBO (o flap) si intende il trapianto di uno o più tessuti o una parte di essi,
mantenendo la connessione vascolare con l’area donatrice. Questo è il motivo per cui i
lembi, aventi vascolarizzazione autonoma non hanno bisogno di contrarre rapporti vascolari
con la zona ricevente e non vanno incontro a fenomeni di “attecchimento” in senso stretto.
Il lembo è stabile nel tempo, non va incontro a sofferenza caratteristica dell’innesto che ne
causa la retrazione.
Le indicazioni al loro utilizzo sono:
1. l’esposizione di tessuti nobili: arterie, vene, tendini, strutture capsulo-legamentose,
articolazioni, scheletro
2. danno a carico di pieghe di flessione
I lembi sono classificati a seconda di:
- VASCOLARIZZAZIONE:
1) LEMBI ASSIALI o a vascolarizzazione prestabilita, sono lembi in cui i vasi
hanno decorso prevedibile (lembo inguinale o ipogastrico irrorato dall’arteria
iliaca circonflessa superficiale).
2) LEMBI RANDOM o casuali in cui le dimensioni del peduncolo vengono
ampliate per contenere una più alta percentuale di vasi (anche venosi).
3) LEMBI LIBERI (microchirurgici): si trasferisce il lembo a distanza
interrompendo le connessioni vascolari con l’area donatrice e
anastomizzando microchirurgicamente vasi sezionati a vasi di dimensioni
idonee sull’area ricevente (“FREE FLAP”).
E’ possibile trasformare un lembo random in assiale: durante il prelievo si delimita
perifericamente il lembo con profonde incisioni, senza scollarlo dai piani profondi, si
suturano i margini in modo da dilatare il circolo residuo e favorire la neoangiogenesi.
- SEDE D’ORIGINE:
1) LEMBI IN VICINANZA, allestiti nel caso in cui il tessuto delle zone adiacenti
la perdita di sostanza sia sufficiente a ricoprire il gap.
2) LEMBI A DISTANZA, possono essere diretti, ovvero prelevati in un unico
tempo operatorio (lembo addominale da intascamento, in cui la cute
addominale viene usata per colmare perdita di sostanza di mano o braccio, o
il lembo a gambe incrociate in cui la cute di gamba o coscia viene usata per
colmare una perdita di sostanza della gamba controlaterale) o indiretti (lembi
tubulati, bipeduncolati), per cui serve autonomizzare il lembo in più sessioni e
rimodellarlo infine a livello dell’area ricevente.
- MOVIMENTO:
1) avanzamento
2) rotazione
3) traslazione
- FORMA:
1) LEMBI PIANI, rettangolari, quadrangolari, triangolari, curvilinei, mono, bi e
trilobati.
2) LEMBI TUBULATI sono bipeduncolati a distanza, per il loro allestimento si
eseguono 2 incisioni parallele sulla cute da innestare, si scolla tutta la cute ivi
compresa e si suturano i margini della sede di prelievo, per evitare di
mantenere i tessuti sottostanti esposti. Quindi i margini del lembo si suturano
tra loro mantenendo la cute all’esterno e il lembo verrà poi trasferito a
distanza.
La scelta di una particolare forma permette una riparazione fedele della zona
ricevente e condiziona il tempo di spostamento del lembo da una parte all'altra, come
nel caso dei lembi bilobati a livello nasale.
- PEDUNCOLO:
1) PERMANENTE in cui il peduncolo non viene reciso dopo il loro trapianto.
2) TEMPORANEO in cui il peduncolo viene reciso dopo che le connessioni
vascolari con l’area ricevente si sono stabilite.
3) DERMICO, usati ad esempio in tecniche di mastoplastica per l’innalzamento
dell’areola.
4) SOTTOCUTANEO, ad esempio il lembo temporale, irrorato dall’omonima
arteria.
5) VASCOLARE, detti ad isola, in cui il peduncolo è costituito da soli vasi.
Per i lembi del viso il rapporto tra lunghezza del lembo e dimensioni del peduncolo
può essere di 1:1, mentre per i lembi degli arti inferiori il rapporto è di 3:1 o 4:1.
- FLUSSO:
1) DIRETTO
2) INVERTITO
- COMPOSIZIONE TISSUTALE: raramente un unico tessuto costituisce il lembo (es.
lembi muscolari), mentre solitamente più tessuti vengono prelevati dalla sede
donatrice (es. lembi pluritissutali) ma la denominazione del lembo dipende dal
tessuto predominante:
1) cutanei
2) dermici
3) dermo adiposi
4) ghiandolari
5) mio cutanei (il lembo di muscolo gracile è indicato nel caso di ricostruzione di
lembi lunghi, ad esempio a livello dei flessori dell’avambraccio)
6) fascio cutanei (il lembo radiale è il più usato per la ricostruzione a livello del
tendine d’achille)
7) osteo composti (il lembo di perone vascolarizzato è il più impiegato nelle
ricostruzioni ossee lunghe come la ricostruzione di mandibola o tibia e
traumatismi con importanti perdite di sostanza, avendo una duplice
vascolarizzazione - endomidollare ed arcuata - e non causando la sua
asportazione, avendo l’accuratezza di lasciare almeno 7-8 cm a livello distale,
danni a livello locale o instabilità della caviglia)
Spesso si decide di includere il tessuto sottostante al lembo prelevato per garantire
una migliore vascolarizzazione, ad esempio: i tessuti sovrafasciali vengono prelevati
includendo la fascia nel lembo; i lembi asportati da zone sovramuscolari tendono ad
essere asportati insieme al muscolo (sempre che la sua funzione non sia essenziale)
per migliorarne la vitalità.

USTIONI FISICHE E CHIMICHE


Le ustioni sono un processo patologico conseguente all’esposizione ad elevate o
eccessivamente basse temperature o a chimici ustionanti. Più frequentemente per:
- infortuni domestici
- infortuni lavorativi
La classificazione clinica delle ustioni le divide in:
- Ustioni AMBULATORIALI
- Ustioni INTERMEDIE
- GRANDI Ustioni
In base ad alcuni parametri:
1. ESTENSIONE, può essere calcolata secondo tabelle che indicano l’estensione delle
varie aree del corpo o ricordando la semplice regola del 9, per cui ogni segmento
corporeo corrisponde al 9% (testa) o a un suo multiplo 18% (arti superiori), 36%
(tronco, arti inferiori), a parte viene considerata la regione genitale (1%).
2. PROFONDITA’, ci permette di distinguere Ustioni SUPERFICIALI e Ustioni
PROFONDE a seconda della compromissione della cute, del derma e dei piani
sottostanti (quindi clinicamente a seconda della possibilità di guarigione spontanea
senza esiti):
- USTIONI DI 1° GRADO: lesioni epiteliali caratterizzate da ERITEMA
- USTIONI DI 2° GRADO: lesioni dermiche, caratterizzate da FLITTENI
(2° superficiali – derma papillare, guariscono per prima intenzione e 2°
profonde – oltre il derma papillare, non risparmiano gli annessi, guariscono
per seconda intenzione)
- USTIONI DI 3° GRADO: lesioni a tutto spessore caratterizzate da NECROSI
e GANGRENA (secca, se l’ustione è causata da un solido surriscaldato,
umida, nel caso in cui l’agente ustionante sia un liquido e non si ha
evaporazione e disidratazione dei tessuti)
- USTIONI DI 4° GRADO: CARBONIZZAZIONE
3. ETA’: ustioni che in un adulto causano solo una sintomatologia locale, in un anziano
o bambino con controllo omeostatico ridotto possono complicarsi e avere prognosi
peggiore.
4. PATOLOGIE ASSOCIATE come diabete, insufficienza respiratoria, cardiaca, renale o
lesioni provocate dall’ustione o dall’inalazione di gas tossici e surriscaldati.
Quando l’ustione si estende al 20% (12% nel bambino) dell’area corporea, la lesione
coinvolge tutto l’organismo e si parla di MALATTIA DA USTIONI, con evoluzione in 3 fasi
successive:
1) Fase Acuta di shock (relativo): il danno termico causa un'infiammazione sostenuta
dall’immediata liberazione di enzimi proteolitici (PG, istamina, serotonina, peptidi
vasoattivi) che provocano la dilatazione dei piccoli vasi e l’aumento della permeabilità
capillare con formazione di flitteni ed edema. La perdita plasmatica può essere
sopportata finché non diventa tale da causare shock ipovolemico, sludging
eritrocitario con trombosi disseminata e alterazioni dell’equilibrio elettrolitico, acidosi
metabolica, oliguria fino ad anuria e riduzione della gittata cardiaca per il rilascio in
circolo del fattore miocardico depressore pancreatico. L’edema può localizzarsi a
livello polmonare specie se si inalano gas tossici o surriscaldati, con edema
interstiziale ed alveolare, formazione di membrane ialine proteiche all’interno degli
alveoli e causando insufficienza respiratoria acuta.
2) Fase Subacuta tossinfettiva: è caratterizzata dal riassorbimento delle sostanze
tossiche edemizzate ed essudate, che causano sofferenza epatica, e da rischio
infettivo elevato, per distruzione della barriera cutanea e depressione del sistema
immunitario.
3) Fase Cronica distrofica/dismetabolica: è determinata dall’aumento del fabbisogno
energetico del paziente ustionato, in cui c’è perdita di calore e liquidi dalle aree
lesionate, produzione di cortisolo e glucagone che stimolano lipolisi e
gluconeogenesi e quindi perdita di peso imponente ed ipotrofia.
Per il trattamento:
- TERAPIA INFUSIONALE: nelle ustioni di 2° e 3° grado che interessano una p.s.u.
(percentuale di superficie corporea ustionata) maggiore al 20% o 12% nell’adulto e
nel bambino la terapia infusionale viene subito impostata considerando di quali
soluzioni si dispone: sangue intero, plasma, soluzioni colloidali, ringer acetato,
soluzioni glucosate, ecc. Ognuna di queste è somministrata in base allo schema di
BROOKE con tanti cc di soluzione in base a: peso corporeo ed alla p.s.u (0,5 cc per
le soluzione colloidale x peso x p.s.u, 1,5 cc di soluzione elettrolitica x peso x p.s.u,
2000 cc di soluzione glucosata al 5%). Il ritmo di infusione va impostato per 48 ore
somministrando: durante le prime 8 ore il 50% del volume necessario ed il rimanente
nel corso delle 16 ore successive, poi, in seconda giornata si somministra la metà dei
liquidi del primo giorno e a decrescere successivamente sulla base della risposta
clinica ed ematochimica del paziente (ematocrito, diuresi, ecc.).
- Per le ustioni superficiali di 1° grado si utilizzano emulsioni e pomate a base di
cortisone, antistaminici ed anestetici o antinfiammatori per ridurre dolore e prurito.
- Per le ustioni superficiali di 2° grado si procede con una detersione della superficie
ustionata con disinfettanti poco istolesivi (a base di acido borico o di cloro),
applicazione di garze vaselinate sottili con pomata antibiotica (nome commerciale:
aureomicina al 3%) o garze antiaderenti (nome commerciale: adaptic) ricoperte da
normali garze e fasciatura. I flitteni vengono lasciati intatti a meno che non si osservi
un palese inquinamento, per cui è consigliabile il drenaggio sterile del contenuto
lasciando intatto il tessuto superficiale della bolla (“tetto”) che fungerà da
medicazione biologica. Queste lesioni, quando non si sovrappone un infezione
batterica, guariscono con totale restituzio ad integrum nel giro di 10-15 giorni.
- Per le ustioni profonde di 2° grado il trattamento, anche se non si discosta
inizialmente dalle ustioni superficiali di 2° grado, deve essere effettuato in un centro
specializzato che dispone di moderne tecniche di copertura delle perdite di sostanza
(colture di cheratinociti autologhi) e che sia attrezzato in caso di necessità di terapia
chirurgica (specie se un infezione incorre ad aggravare il quadro clinico).
- Per le ustioni profonde di 3° grado la terapia è sempre chirurgica e si basa
sull’escissione precoce dei tessuti necrotici (mediante escarectomia tangenziale,
escarectomia fasciale o dermoabrasione) e copertura con autoinnesti o lamine di
cheratinociti autologhi.

ULCERE CUTANEE E LESIONI DA PRESSIONE


Sono lesioni della pelle e dei tessuti sottostanti causate dalla compressione prolungata di un
tessuto molle (pelle, sottocute, muscolo) tra una sporgenza ossea sottostante, in profondità,
e una superficie esterna di appoggio.
Il sistema internazionale di classificazione delle Ulcere da Pressione, stabilisce differenti
stadi o categorie di lesione da pressione:
1. Stadio I: Eritema non sbiancante
Cute intatta con eritema non sbiancante di un’area localizzata generalmente in
corrispondenza di una sporgenza ossea. L’area può essere dolorosa, solida,
morbida, più calda o più fredda rispetto al tessuto adiacente.
2. Stadio II: Perdita cutanea a spessore parziale
Perdita di spessore parziale del derma che si presenta come un’ulcera aperta
superficiale con un letto della ferita rosso-rosa, senza tessuto devitalizzato (slough).
Può anche presentarsi come una vescica intatta o rotta piena di siero.
3. Stadio III: Perdita di cute a tutto spessore
Il tessuto adiposo sottocutaneo può essere visibile, ma l’osso, il tendine o il muscolo
non sono esposti. Tessuto devitalizzato (“slough”) può essere presente, ma non
oscura la profondità della perdita di tessuto.
4. Stadio IV: Perdita tessutale a tutto spessore
Con esposizione di osso, tendine e muscolo. Potrebbero essere presenti “slough” o
escara. Spesso include lo scollamento o la tunnellizzazione dei tessuti.
Le ulcere a questo stadio possono estendersi a muscoli e nelle strutture di supporto
(fascia, tendini o capsula articolare) favorendo l’osteomielite.
5. Stadiazione impossibile: a volte, i medici non possono stabilire lo stadio della piaga
da decubito. Ad esempio, non è possibile determinare lo stadio delle piaghe da
decubito ricoperte da detriti o da una spessa crosta superficiale (escara) fino a
quando i detriti o l’escara non vengono rimossi.
Diversi sono i fattori predisponenti o indirettamente responsabili:
- fattori estrinseci: forze di attrito e di taglio e l’aumento della temperatura e
dell’umidità della cute (microclima avverso);
- fattori intrinseci: fattori inerenti al paziente responsabili di una scarsa perfusione
tissutale, di una ridotta percezione sensoriale e di un'insufficiente introduzione di
principi nutritivi (allettamento e malnutrizione).
Le lesioni da pressione possono insorgere sia quando le aree corporee entrano in contatto
con superfici di appoggio che esercitano alti livelli di pressione di breve durata, sia con bassi
livelli di pressione di lunga durata.
La comprensione di tali meccanismi ci permette di spiegare le possibili differenze nello
sviluppo delle LdP, distinguendole in superficiali e profonde:
- le LdP superficiali sono generate da fattori che alterano le caratteristiche fisiche della
cute, che agiscono unitamente all’azione di forze di taglio e di pressione, provocando
la progressione del danno in profondità, quindi dall’esterno verso l’interno, dall’alto
verso il basso;
- le LdP profonde sono imputabili alla pressione e alle forze di taglio che causano
compressione dei tessuti profondi in prossimità di una sporgenza ossea. In tal caso
la lesione origina dal basso per poi estendersi verso l’alto.
Le complicanze che possono derivare dalle lesioni da pressione sono:
- disidratazione, anemia, squilibri idroelettrolitici e deplezione proteica;
- sepsi ed osteomielite (inerenti al III e IV stadio e nelle ulcere chiuse) che rappresenta
il 38% di causa di mortalità nelle persone anziane e nei portatori di lesioni multiple;
- infezioni: nel 30% dei casi si tratta di batteriemia polimicrobica rappresentata da
germi Gram-negativi, come il Proteus mirabilis, l’Escherichia coli, lo Pseudomonas
aeruginosa e la Klebsiella e da germi anaerobi come il Bacteroides fragilis.
La prevenzione è la migliore strategia terapeutica contro le piaghe da decubito e si attua con
un’attenzione meticolosa da parte di tutti coloro che assistono il paziente, come infermieri,
aiutanti e familiari:
- Riposizionamento frequente
- Igiene e cura della pelle meticolose
- Mantenimento del movimento
La terapia di una piaga da decubito è molto più difficoltosa della prevenzione.
Gli obiettivi principali del trattamento sono:
1. alleviare la compressione sulle piaghe
2. la pulizia e la medicazione delle lesioni
3. il controllo delle infezioni
4. un’alimentazione appropriata
A volte, è necessario eseguire un intervento chirurgico per chiudere le lesioni di grandi
dimensioni (con innesti cutanei e lembi muscolari).

PATOLOGIA SPECIALISTICA DELLA MANO


Malattia di Dupuytren: E’ una lesione cronica e progressiva dell’aponeurosi palmare, che si
ispessisce e retrae causando una flessione permanente, progressiva e irriducibile delle dita
della mano. Può associarsi ad una forma che coinvolge similmente la pianta del piede, la
Malattia di Ledderhose o, raramente, alla Malattia di La Peyronie che colpisce il pene.
Interessa la popolazione adulta di etnia bianca tra la IV e la VI decade di vita, senza differire
nella prevalenza nei due sessi (anche se i casi di malattia più gravi, in cui si impone terapia
chirurgica sono più frequenti negli uomini).
Non esiste ad oggi un accordo scientifico in merito all’eziologia della malattia di Dupuytren
che viene considerata ignota, anche se esistono numerose teorie al riguardo:
- teoria ereditaria, intesa come predisposizione genetica individuale;
- teoria delle affezioni congenite, basata sull’ipotesi, mai confermata, che a livello
dell’aponeurosi palmare vi sia un tessuto embrionario residuo dei muscoli flessori
brevi delle dita;
- teoria traumatica, secondo cui i microtraumatismi professionali siano alla base della
patologia (anche se studi di metanalisi non hanno indicato una maggiore incidenza
della patologia nei lavoratori manuali);
- teoria nervosa, vista la frequente bilateralità e la localizzazione esclusiva sui territori
innervati dal nervo ulnare, la malattia potrebbe essere dovuta ad un disturbo trofico
del nervo dovuto a turbe sensitive e vasomotorie;
- teoria endocrina e diatesica, secondo cui la malattia di Dupuytren, la malattia di
Ledderhose e la malattia di La Peyronie siano assimilabili a polifibromatosi ereditarie;
- teoria dell’avitaminosi E;
- teoria reumatica, secondo cui l’eziopatogenesi sia autoimmunitaria;
L’esordio di malattia è subdolo, può passare inosservato e le prime lesioni possono essere
confuse con callosità della mano.
Nel periodo iniziale si comincia a formare il nodulo e si percepisce un algia locale a livello
della testa del 4°, 5° o 3° metacarpale (in ordine di frequenza).
La malattia progredisce più o meno rapidamente ed il nodulo si modifica formando
ombelicature dovute alla retrazione dell’aponeurosi.
Il periodo terminale, o di stato, può coincidere con la permanenza di piccole o gravi
deformità.
La terapia è chirurgica e l’intervento di aponeurotomia o aponeurectomia dovrebbe essere
effettuato precocemente: quando il paziente, poggiando la mano su un piano rigido, non è in
grado di far aderire la porzione palmare delle dita (che si retraggono).
La correzione della deformità e l'asportazione dell’aponeurosi possono associarsi a
comparsa di necrosi cutanea (la cute può essere gravamente compromessa: fibrotica con
scomparsa di papille dermiche ed intrappolamento vasale, ghiandolare e nervoso). Inoltre, i
fasci vascolo nervosi inglobati nell’ammasso fibroso dovrebbero essere ben salvaguardati,
per questo si opta sempre per l’esecuzione di ampie incisioni che permettano di non
incorrere in lesioni iatrogene.
Per quanto riguarda i problemi articolari di mobilizzazione delle dita (per retrazione capsulo
legamentosa) di solito è sufficiente eseguire una mobilizzazione manuale forzata durante
l’intervento e, in caso di insuccesso una capsulotomia (anche se i risultati di quest’ultima
appaiono incostanti).
Malattia di De Quervain: Interessa la guaina tendinea del muscolo abduttore lungo del
pollice e del muscolo estensore breve del pollice.
L’abduttore lungo serve per muovere l’articolazione carpo-metacarpale, mentre l’estensore
breve per muovere l’articolazione del primo metacarpo.
E’ una tendinite abbastanza frequente nelle donne in età avanzata oppure nelle giovani
mamme che tengono in braccio il bambino e lo sollevano frequentemente.
A volte può coinvolgere la sinovia e non rispondere ai farmaci tanto da dover ricorrere al
trattamento chirurgico (di pulizia della guaina sinoviale).
La sintomatologia è caratterizzata da dolore in corrispondenza della guaina degli estensori,
simile al dolore della rizoartrosi (patologia ossea artrosica a carico dell’articolazione
trapezio-metacarpale, con cui fare diagnosi differenziale).
La terapia iniziale si avvale di: immobilizzazione del pollice; mezzi fisici come tecar e laser;
infiltrazione di corticosteroidi; trattamento chirurgico di decompressione.
Dito a scatto: La tenosinovite stenosante, comunemente nota come dito a scatto, interessa
le pulegge e i tendini della mano, indispensabili per la flessione delle dita.
Si presenta quando nella guaina tendinea si sviluppa una zona di rigonfiamento e si inizia a
percepire una sensazione di intorpidimento alla base del dito interessato.
Ogni volta che deve attraversare la puleggia vicina al rigonfiamento, il tendine viene
schiacciato causando dolore e una sensazione di “scatto” in flessione.
Quando il tendine scatta, produce infiammazione e gonfiore: si crea un circolo vizioso, finchè
il dito si blocca in flessione e diventa difficile e molto doloroso raddrizzarlo.
La somministrazione di antinfiammatori e l'applicazione di tutori possono essere indicati per
diminuire l'infiammazione del tendine.
Qualora questi trattamenti non dovessero essere sufficienti a migliorare i sintomi, il paziente
viene indirizzato all’intervento chirurgico in day hospital. Il movimento attivo del dito
generalmente inizia subito dopo l'intervento e l'uso normale della mano può essere
raggiunto in breve tempo.
Sindrome del tunnel carpale: E’ una frequente neuropatia (3 volte più frequente nella
donna, picco in 5° decade di vita, con prevalenza nella mano dominante ma nel 70% dei
casi bilaterale) dovuta alla compressione del nervo mediano nel suo passaggio attraverso il
tunnel carpale: un canale formato dalle ossa carpali (trapezio e scafoide, piriforme ed
uncinato) su cui è teso il legamento trasverso del carpo all’interno di cui decorrono strutture
nervose (nervo mediano), vascolari e tendinee (tendini flessori delle dita).
E’ stata dimostrata un’associazione con i lavori ripetitivi in cui si svolgono numerosi,
prolungati e ripetuti movimenti di flesso estensione del polso e delle dita, con applicazione di
forza o meno, che causano aumento pressorio all’interno del tunnel data dall’infiammazione
dei tendini che scorrono al suo interno e che aumentando di dimensione causano la
compressione del nervo mediano.
Più colpiti sono i lavoratori del settore manifatturiero, elettronico, tessile, alimentare,
calzaturiero, pellettiero, addetti a pubblici esercizi, addetti al confezionamento di pacchi, ecc.
Alla STC sono associate anche malattie sistemiche quali diabete, artrite reumatoide,
mixedema, amiloidosi, situazioni fisiologiche come gravidanza e menopausa, o pregressi
traumi del polso o deformità articolari, artriti e artrosi.
I sintomi comprendono:
- inizialmente: iniziano i “sintomi irritativi”, formicolii e sensazione di intorpidimento e
gonfiore alla mano soprattutto al mattino e durante la notte (specie se il polso rimane
a lungo iperflesso o iperesteso e la posizione supina aumenta la redistribuzione di
liquidi corporei all’arto superiore, con conseguente aumento pressorio);
- successivamente: il dolore si irradia all’avambraccio e compaiono i sintomi
“deficitari”, le dita perdono la sensibilità, la mano perde forza e l’eminenza tenar va
incontro ad atrofia;
All’EO neurologico, per la diagnosi si eseguono prove di forza, si valutano i riflessi
osteotendinei e la sensibilità, e ci si avvale di alcuni tests clinici:
- test di Tinel, in cui si percuote con il martelletto la regione del tunnel carpale. Il test è
positivo se il paziente percepisce una scossa nel territorio del nervo mediano.
- test di Phalen, in cui si chiede al paziente di estendere e flettere ripetutamente la
mano sull’avambraccio per 1 minuto. Il test è positivo se insorgono formicolii o
peggiorano.
L’esame elettromiografico (con piccoli aghi) ed elettroneurografico (con elettrodi di
superficie) permettono di fare diagnosi e di classificare la gravità del danno:
1. negativo
2. minimo danno
3. lieve
4. medio danno
5. grave
6. estremo danno (atrofia dell’eminenza tenar)
La terapia può essere conservativa, con farmaci antinfiammatori steroidei, ultrasuoni,
ionoforesi, laser, tutori per il polso (policarpal), o chirurgica, con intervento di “release” del
legamento trasverso del carpo e neurolisi, in open o in endoscopia con utilizzo di anestesia
locale o brachiale e una convalescenza di solito completa in 2-4 settimane.
In assenza di trattamento la sindrome tende ad aggravarsi o a rimanere stazionaria (solo in
alcuni pazienti), con esacerbazioni nei periodi freddi e miglioramento (apparente) durante i
mesi caldi.

PATOLOGIA NEOPLASTICA
della CUTE
Le precancerosi sono delle lesioni che compaiono prima del tumore cutaneo vero
e proprio. Si suddividono in:
Precancerosi Obbligate
Precancerosi Facoltative
PRECANCEROSI OBBLIGATE
Sono lesioni cutanee nelle quali la trasformazione verso una neoplasia è da
considerare come un epifenomeno, un’evoluzione naturale che avviene in uno
spazio di tempo più o meno breve.
Le precancerosi obbligate si distinguono in due gruppi:
1. Ereditarie
- Xeroderma Pigmentoso è una malattia della cute a trasmissione ereditaria
autosomica recessiva, a penetranza incompleta, caratterizzata da un
aumento incredibile della fotosensibilità. E' dovuta ad un difetto enzimatico di
una ligasi del DNA. I neonati, appena vengono esposti per le prime volte alla
luce solare, cominciano a presentare delle alterazioni cutanee a carattere
discromico e cheratosico (efelidi e delle lentiggini, proliferazioni della linea
melanocitaria, ipercheratosi, cheratosi attiniche o cheratosi solari). Nelle fasi
avanzate il paziente, non sottoposto a trattamenti e follow-up sulle cheratosi
attiniche, si ricoprirà di carcinomi squamocellulari con fenomeni distruttivi e
invasivi.
- Epidermodisplasia Verruciforme (Malattia di Lewandowsky Lutz): è una
condizione sporadica o autosomica recessiva. Il paziente in questo caso ha
un abnorme suscettibilità alle infezioni da Human Papillomavirus ed in
particolare dei sierotipi 5 , 8, 17, 20. Questi pazienti sin dai primi mesi di vita
vanno incontro a ripetute infezioni da HPV che si manifestano sul piano
cutaneo sottoforma di verruche. La cute si presenta cosparsa di lesioni
verrucose di piccole dimensioni, singole o confluenti a placche ma diffuse, e
anche se poco visibili interessano aree estese di cute. Nel soggetto di razza
nera la papula si sarà depigmentata e assumerà un aspetto biancastro e
cheratosico. Un’epidermide diffusamente danneggiata dal virus dell’ HPV
presenta un aspetto chilocitosico diffuso a quasi tutte le cellule
dell’epidermide. Ogni singola lesione va incontro a degenerazione
neoplastica diventando carcinoma spinocellulare.
2. Acquisite
- Cheratosi Attinica è a carico della cute mentre la Cheilite Attinica è il suo
equivalente a carico delle sedi mucose delle labbra. La lesione non è in realtà
molto specifica: si tratta infatti di lesioni maculo papulose, rotondeggianti, di
colorito vagamente eritematoso, ricoperte da squame biancastre o grigiastre,
aderenti all’epidermide che se rimosse meccanicamente danno adito a
sanguinamento abbondante. Nei casi più gravi di cheratosi attinica si trovano
quasi tutti i carcinomi spinocellulari infiltranti e invadenti. Il corno cutaneo
epiteliomatoso che in realtà è una cheratosi attinica in cui la proliferazione
epidermica assume questa vegetazione a corno. E' una lesione vegetante al
di sotto di cui si trova un carcinoma squamocellulare o spinocellulare.
- Leucoplachia è una lesione della mucosa del cavo orale, di colorito
biancastro localizzata nella mucosa in genere geniena con forma triangolare
con l’apice rivolto in corrispondenza della commissura e la base verso il
fornice posteriore, che insorge generalmente nell’età senile ed è molto rara
nei giovani. Il suo aspetto clinico varia in relazione alla sua fase evolutiva e
alla sua fase di stato. Inizialmente si presenta come un imbiancamento della
mucosa a superficie liscia mentre nelle fasi successive la lesione tende ad
infiltrare e quindi ad assumere un aspetto acciottolato e mammellonato fino
ad arrivare a lesioni francamente verrucose. Nelle fasi avanzate compaiono
ulcere erosive e quant’altro, per la trasformazione maligna concomitante.
- Radiodermiti: sono delle lesioni dermatologiche che insorgono in sedi esposte
a radiazioni ionizzanti, in genere a seguito di radioterapia postoperatoria per
tumori a carico di organi e apparati. La cute radiodermica appare
diffusamente secca, xerotica e ricoperta dalle lesioni verrucose e vegetanti
che vanno incontro a trasformazione carcinomatosa.
La Radiodermite cronica Tardivo-Professionale si presenta nei soggetti che
per attività professionale stavano esposti alle radiazioni ionizzanti: radiologi e
tecnici di radiologia. Si notavano lesioni soprattutto a carico delle sedi distali
del dorso delle mani (scomparsa dei peli nelle falangi distali e alterazione
delle unghie, distrofiche)
- Cheratosi Arseniacali lesioni presenti sul palmo delle mani di soggetti esposti,
per attività lavorativa e professionale, all'arsenico. La lesione è sempre
piuttosto monotona e ripetitiva, di tipo cheratosico, singola, circoscritta,
confluente e con un aspetto verrucoso e proliferativo centrale.
- Lichen Scleroatrofico è una patologia autoinfiammatoria su base autoimmune
caratterizzata dalla formazione di anticorpi che vanno a localizzarsi a livello
della giunzione dermoepidermica e ne determinano la degradazione con
conseguente accumulo di un infiltrato infiammatorio cellulare a ridosso della
membrana basale. Clinicamente si presenta con lesioni inizialmente
lenticolari e maculose, di colorito biancastro, singole che rapidamente
tendono a confluire determinando la formazione di ampie aree e placche a
contorni irregolari e a superficie liscia e lucida. Se sono localizzate in
corrispondenza dell’ostio vaginale o del’uretra rispettivamente nei due sessi si
verifica atresia dell’ostio vaginale e stenosi uretrale. In prossimità della
fossetta navicolare si possono avere lesioni maculose e lenticolari di colorito
biancastro, che appare completamente chiusa e quasi collabita. Quindi oltre
all’evoluzione tumorale (carcinoma verrucoso o carcinoma squamocellulare: il
carcinoma verrucoso ha meno tendenza all’invasività linfonodale mentre lo
spinocellulare invade immediatamente i linfonodi loco-regionali), la malattia
può dare i danni di tipo funzionale e meccanico.
PRECANCEROSI FACOLTATIVE
Sono una serie varia e non omogenea di patologie, in genere costituite da
processi infiammatori cronici come il lupus eritematoso discoide, le ulcere varicose, le micosi
profonde e fenomeni cicatriziali che nel corso della loro evoluzione possono trasformarsi in
carcinoma.
CARCINOMI IN SITU
Si tratta di tumori maligni che rimangono confinati per un tempo più o meno
breve o più o meno lungo nell’ambito dell’epidermide.
Non superano la giunzione dermoepidermica.
Per quanto l’istopatologia del tumore sia maligna con le mitosi, le atipie e le
proliferazioni cellulari, la lesione essendo confinata all’epidermide non darà mai
metastasi perchè l’epidermide non è vascolarizzata.
Solo in un secondo momento in tempi variabili, il carcinoma può superare la
membrana basale e diventare un carcinoma invasivo progredendo verso il basso.
I carcinomi in situ sono rappresentati da:
Malattia di Bowen: è dovuta all’esposizione cronica ai raggi ultravioletti e
quindi a fotoesposizione cronica; interessa le sedi fotoesposte come il viso,
le mani e, soprattutto nel sesso femminile, gli arti inferiori. La lesione si
presenta come una chiazza di forma vagamente rotondeggiante di colorito
eritematoso con limiti molto netti e definiti, appena rilevata sul piano
cutaneo e spesso sormontata da squame aderenti. Dal punto di vista
istologico, la lesione presenta una caratteristica: le cellule dell’epidermide
che sono ordinate secondo degli strati, nel morbo di Bowen si presentano
come dei dadi che sono stati mescolati e gettati e quindi sono distribuiti in
modo causale, con una completa disorganizzazione citoarchitetturale.
Eritroplasia di Queyrat (variante mucosa della malattia di Bowen): con
tale termine si intende: carcinoma in situ che interessa la mucosa genitale
maschile.
Si presenta come una placca rossa, a limiti ben definiti, leggermente
rilevata, con superficie spesso vellutata, talvolta dolente e pruriginosa.
La malattia non colpisce i maschi circoncisi. Probabilmente un ruolo
importante è giocato dall’HPV.
Papulosi Bowenoide: è indotta dalla infezione virus oncogeni (HPV 16 e 18).
Clinicamente si manifesta sottoforma di papule rotondeggianti, multiple,
leggermente rilevate, in genere di colorito bruno o pigmentate sulle regioni
genitali e paragenitali (asta, glande, vulva e regione pubica). In casi gravi è
interessata la regione perineale.
Malattia di Paget: lesione eritematosa lievemente rilevata coperta da una
fine desquamazione simil-eczematosa del capezzolo e dell’areola
mammaria al di sotto di cui è presente un carcinoma duttale infiltrante.
Esiste una variante di Paget extramammario che si localizza in genere
nelle zone genitali, zona perianale e perineali. Questa forma è associata a
carcinomatosi del retto o carcinomi annessiali della sede in cui si localizza.
La caratteristica della malattia di Paget sia mammaria che extramammaria
è quella di trovare nel contesto del tumore epidermidale la presenza di
cellule a citoplasma chiaro con un pattern immunoistochimico particolare,
grandi e rotondeggianti a citoplasma chiaro che prendono il nome di
cellule di Paget.
CARCINOMI INVASIVI
I carcinomi invasivi sono i basocellulari e spinocellulari ( nei nuovi testi gli
anatomipatologi non li chiamano più epiteliomi) o squamosi.
Una terza varietà e la variante verrucosa del carcinoma che ha delle sedi di
localizzazioni particolari e tipiche.
CARCINOMA BASOCELLULARE
E’ un tumore epiteliali in cui l’elemento costituente la neoplasia ricorda dal
punto di vista morfologico le cellule dello strato basale donde il nome (che non è legato
all’istogenesi perchè non deriva da cellule dello strato basale, ma da cellule embrionali
localizzate a livello di una zona del follicolo pilifero che sta nel contesto dell’epidermide).
In assoluto è il più frequente tumore maligno della cute. Insorge dopo la quarta
decade di vita e la sede più frequentemente colpita è il viso, rara è invece la
localizzazione palmo-plantare.
E’ un tumore maligno perchè ha una proliferazione cellulare atipica che nel
decorso aggredisce i tessuti limitrofi dando metastasi per continuità e per
contiguità (mentre metastatizzano molto raramente per via ematica o linfatica e
se lo fanno, le metastasi giungono ai linfonodi loco regionali).
Dal punto di vista clinico vengono suddivisi in superficiali, rilevati, ulcerosi e
pigmentati.
1. Le forme superficiali come dice la stessa parola non sono rilevate e quindi stanno
nello stesso piano della cute. Possono avere morfologie cliniche estremamente
differenti:
- forme eritematose
- forme eczematose ricoperte da squamocroste
- forme con squamocroste ancora più evidenti
- forme eritematose con piccole abrasioni e lesioni minime.
C’è un dato clinico che accumuna sempre e costantemente tutte le forme del
carcinoma basocellulare: l’orletto periferico.
Esso appare netto e rilevato rispetto alla cute sana circostante. E’ come se fosse
un orletto formato da micropapule, tipo le perle di una collana disposte l’una
accanto all’altra.
2. Le forme rilevate si sollevano rispetto al piano cutaneo e comiciano ad essere
papulose, nodulari, micronodulari con la superficie mammellonata.
Un segno tipico del carcinoma basocellulare rilevato è la presenza di teleangectasie sulla
sua superficie.
3. La forma ulcerativa è sicuramente la forma più aggressiva del basocellulare.
Essa si trova a formare lesioni minime dette “a colpo d’unghia” dove il paziente
riferisce la presenza di una piccolissima escoriazione (una crosticina che sanguina e
non guarisce mai). Si localizza prevelentemente nel viso. Si trovano anche casi di
grandi lesioni centrali che sono di più facile diagnosi (ad es. sul cuoio capelluto la
presenza di una lesione ulcerata a bordi netti ci fa sospettare un carcinoma
basocellulare ulcerato).
4. I basocellulari pigmentati rivestono un’importanza fondamentale nella diagnostica
perchè sono dei simulatori o dei mimi del melanoma. Se ci si trova difronte ad una
lesione pigmentata, bruna, scura e nodulare si può pensare alla possibilità di un
melanoma. Questa lesione può essere un carcinoma basocellulare quando l’orletto
periferico è evidente.
CARCINOMA SPINOCELLULARE
Il carcinoma spinocellulare è formato da elementi costitutivi che ricordano le
cellule dello strato epidermico spinoso, insorge più tardivamente e meno
frequentemente del carcinoma basocellulare.
Prende origine da alcuni stipiti di cellule dello strato basale dell’epidermide.
Ha spiccatissima predilezione per le aree fotoesposte.
Si distinguono forme primitive che insorgono ex novo su cute sana (è anche possibile la
localizzazione a cavallo tra mucosa ed epidermide orale e rettale) e forme che insorgono su
precancerosi (malattia di Bowen, eritroplasia di Queyrat, ecc.).
Le forme primitive si distinguono in ordine di frequenza in:
- forme ulcero-vegetanti: neoformazioni infiltrative di consistenza dura, incassate nei
tessuti, a superficie ulcerata, con perdita di sostanza, con fondo mammellonato,
ricoperto da vegetazioni spesso cheratosiche e a bordi in distinti ed erosi, duri e
ispessiti, i bordi sono indistinti e non netti.
- forme rilevate: si presentano procidenti sul piano cutaneo e possono assumere
aspetto vario, spesso come neoformazioni nodulose apprezzabili palpatoriamente,
altre volte l’adesione nodulare rilevata è ricoperta da un’induito squamocrostoso,
oppure (come nella cheratosi attinica), il rilievo è centrato da una massa cornea che
si manifesta sottoforma di corno cutaneo.
- forme superficiali: aspetto modicamente vegetante o papillomatoso e sono tendenti
ad infiltrare i tessuti sottostanti.
Nell’aspetto istologico dello spinocellulare risalta all’occhio questa massa proliferante che
all’interno tende a cheratinizzare e quindi a ricreare lo strato corneo allo stesso modo
dell’epidermide nelle condizioni normali.
CARCINOMA VERRUCOSO
E’ una proliferazione esofitica di aspetto verrucoso. Si localizza elettivamente
alle superfici acroposte, quindi superfici palmo - plantari e ai genitali. raramente
a livello del cavo orale dove prende il nome di papillomatosi orale florida.
L’immagine istologica del carcinoma verrucoso è molto particolare perchè ricorda
la forma delle “fiamme dell’inferno”.

NEVI MELANOCITICI O NEVOCITI sono amartomi, accumuli di cellule o tessuti normali in


sedi in cui essi si trovano anche normalmente. Sono le formazioni cutanee più diffuse e
frequenti (ogni individuo di razza bianca presenta in media 10-15 nevi). Possono comparire
fin dalla nascita, ma in genere il loro numero aumenta progressivamente durante
adolescenza e età adulta. Nel corso della vita subiscono un evoluzione che ha permesso di
distinguere 3 fasi e quindi 3 forme di nevociti:
1) nevi GIUNZIONALI
2) nevi COMPOSTI
3) nevi INTRADERMICI
A queste 3 entità devono essere aggiunte il nevo di SPITZ, il nevo BLU ed il nevo
CONGENITO GIGANTE.
MELANOMA CUTANEO
E' un tumore maligno della cute che origina dal melanocita ed è molto
aggressivo, infatti, se non diagnosticato per tempo conduce rapidamente
all’exitus.
È una patologia abbastanza frequente, ma quello che colpisce è che i nuovi casi
di melanoma descritti per anno variano a seconda dell’area geografica che
andiamo ad osservare:
1. Bacino del Mediterraneo: 5-8 casi per 100.000 abitanti;
2. Regno Unito: 10 casi per 100.000 abitanti;
3. Scandinavia: 15 casi per 100.000 abitanti;
4. Stati Uniti: 10-20 casi per 100.000 abitanti;
5. Australia: 40-60 casi l’anno per 100.000 abitanti, è il paese a più alta incidenza di
melanoma nel mondo.
Quasi tutti i decessi per tumori della cute sono dovuti al melanoma (80%); gli
altri tumori maligni della cute che portano all’exitus sono per esempio il
carcinoma spinocellulare, quando metastatizza in sede linfonodale,
angiosarcoma (tumore dei vasi) e il lipoblastoma (tumore del tessuto adiposo), i
quali sono estremamente aggressivi ma rarissimi.
Si è assistito negli ultimi decenni ad un incremento dell’incidenza di melanoma e questo in
realtà è dovuto ad una serie di eventi: per prima cosa un reale incremento dell’incidenza del
tumore, in secondo luogo perché c’è stato un aumento della campagna di sensibilizzazione,
soprattutto su controllo e screening dei soggetti con fototipi particolari e dei nei, quali
precursori del melanoma, infine perché si può fare diagnosi più facilmente, in quanto negli
ultimi 20 anni si è avuto non soltanto un miglioramento delle nostre conoscenze cliniche, ma
soprattutto perché sono aumentati i mezzi diagnostici che ci aiutano, in particolare la
videodermatoscopia o epiluminescenza.
Fattori di rischio:
- Fototipo chiaro: nella letteratura dermatologica la classificazione dei fototipi
dell’autore americano Fitzpatrick, ci permette di distingue i diversi fototipi in
base al colore della cute, dei capelli e degli occhi.
Il fototipo I è il prototipo irlandese, di carnagione chiarissima, lentigginoso, con
gli occhi chiari e capelli rossi; il fototipo II è biondo/castano chiaro con la
carnagione chiara e gli occhi azzurri; fino ad arrivare al fototipo V che è
rappresentato dalla razza nera.
- Residenza in aree a forte insolazione
- Ustioni solari ripetute in età pediatrica/giovanile: le lesioni foto-indotte esitano in
lesioni pigmentarie di tipo lentigginoso che saranno la sede di comparsa del
melanoma perché il melanocita ha memoria immunologica, cioè ricorda di avere
subito dei danni al DNA durante l’età pediatrica e se questi sono stati continui e
ripetuti c’è una forte rischio di comparsa del tumore.
- Familiarità per il melanoma
Se un soggetto con fototipo chiaro, con storia di ustioni in età pediatrica e una familiarità per
questo tumore, il rischio di melanoma aumenta fino a 3 - 4 volte rispetto alla popolazione
sana.
E’ importante ricordare che nel 70% dei casi, quindi nei 2/3 dei casi, il melanoma compare
su cute sana, solo in 1/3 dei casi (30%) compare da un precursore tumorale e tra questi
precursori ci sono i nei.
PRECURSORI DEL MELANOMA
- Nevo displastico e la sindrome del nevo displastico: è una sindrome familiare, a
volte sporadica, caratterizzata dalla presenza di nevi melanocitari multipli che
mostrano segni clinici ed istologici di atipia. Clinicamente, il nevo atipico, sarà
asimmetrico e avrà bordi irregolari, colore disomogeneo, dimensioni superiori a 6
mm. All’esame istologico la proliferazione melanocitaria sarà alterata con cellule
atipiche con nuclei displastici, atipici in mitosi.
Nella forma familiare il rischio contrarre un melanoma è 150 volte maggiore rispetto
alla popolazione sana e addirittura diventa 500 volte superiore se il paziente con la
sindrome del nevo displastico ha familiarità per il tumore. Questi pazienti sono
ricoperti su quasi tutto l’ambito cutaneo da lesioni melanocitarie di forma
grossolanamente rotondeggiante, aspetto caratteristico “ad uovo fritto (in quanto al
centro della lesione c’è un’area più chiara che corrisponde al tuorlo e attorno ad essa
la zona più pigmentata che corrisponde all’albume) di un colorito particolare (non
sono esattamente pigmentate) e certe volte hanno una componente angiomatosa,
possono essere più piccole o più grandi, ma sempre multiple e disseminate.
- Nevi congeniti presenti alla nascita (al momento del parto sono già visibili). Altri nevi
sono gli early onset nevus, che compaiono entro i primi 3-4 mesi dalla nascita, e i
nevi acquisiti, che compaiono lungo il corso della vita con un picco di incidenza
durante la pubertà.
Per convenzione i nevi si distinguono in:
1. Piccoli: < 1,5 cm con trascurabile degenerazione in melanoma
2. Medi: tra 1,5 - 20 cm, con possibilità di degenerazione controversa
3. Giganti: > 20 cm, in cui la possibilità di evoluzione in melanoma è variabile dal 5% al
20%
I numeri sono convenzioni, non ci danno certezza di diagnosi.
Alcuni nevi congeniti seguono un decorso particolare, per esempio seguono le linee
di Blaschko; altri hanno un aspetto peloso e sono ricoperti da peli grossi, lunghi e
molto pigmentati.
A volte il nevo interessa tutto l’arto superiore o fino al gomito ed è detto nevo a
guanto, esiste anche il nevo a costume da bagno, o a mantellina, a seconda
dell’ampia sede occupata, oppure a turbante.
VARIANTI CLINICHE DEL MELANOMA
1) Lentigo maligna: rappresenta il 5 % di tutti i melanomi. Si localizza elettivamente
nelle sedi sovraesposte, come il volto, si manifesta inizialmente come forma
maculosa pigmentata (da qui il nome “lentigo”) di colorito bruno e ha una crescita
piuttosto lenta, soprattutto orizzontale. La lentigo maligna cresce allargandosi
orizzontalmente per molto tempo, poi, ad un certo punto della sua evoluzione,
cominciano a comparire delle lesioni papulo-nodulari, espressione di una crescita di
tipo verticale.
2) Superficial spreading melanoma: Il superficial spreading melanoma è la variante di
melanoma più frequente, “spreading” significa “crescita”, infatti questo tumore
conserva per lungo tempo la crescita orizzontale. Le sedi elettive di localizzazione
sono il tronco per gli uomini e gli arti inferiori per le donne.
Alcuni superficial spreading danno un tipo particolare di metastasi che si formano
lungo il tragitto per andare a colonizzare organi e apparati e prendono il nome di
metastasi in transito: sono dei piccoli noduli, detti satelliti, che si trovano accanto o
immediatamente alla periferia della lesione primitiva. Le cellule metastatiche
invadono i vasi linfatici, li percorrono per breve tratto e riemergono in superficie nelle
immediate vicinanze, costituendo tutti questi satelliti.
3) Melanoma acrale lentigginoso: si localizza alle estremità, nella regione
palmo-plantare, subungueale, nella mucosa orale e nei genitali.
Si manifesta, come tutti i melanomi, con un lesione pigmentata irregolare, con
contorni non netti e mal definiti e che rispetto al Superficial Spreading Melanoma ha
una tendenza all’invasione e alla crescita verticale piuttosto precoce.
4) Melanoma nodulare, a prognosi peggiore, rappresenta il 10-15% dei melanomi e,
indipendentemente dal sesso, si localizza prevalentemente al tronco e al dorso.
Esordisce come una lesione nodulare elevata, generalmente ipercromica e
raramente può essere acromica (si parla di melanoma amelanotico). La superficie
della lesione nodulare è convessa e spesso, proprio per questa tendenza a crescere
sin dall’inizio verticalmente.
Alcuni noduli possono essere peduncolati e per questo possono essere confusi con
alcuni tumori benigni ad esempio con il granuloma piogenico, che è un tumore della
cute frequentissimo. Altre volte, invece, un melanoma amelanotico sembra una
cicatrice o un cheloide: per questo è sempre importante richiedere sempre biopsia ed
esame istologico.
Per la diagnostica clinica utilizziamo la REGOLA ABCDE che ci permette di
orientarci e capire se una lesione è di tipo nevico o di tipo melanomatoso.
A) Asimmetria della lesione pigmentata - si osserva dividendo virtualmente la lesione in
due metà.
B) Bordi - nel neo in genere sono irregolari, nel melanoma sono irregolari e frastagliati
C) Colore - nella lesione nevica in genere il colore è solo uno (marrone, beige, bruno),
mentre nel melanoma sono presenti più colori contemporaneamente con aree di
regressione (aree in cui viene riassorbito il pigmento melanico, quindi la lesione
tende quasi a sbiancare).
D) Dimensioni - difficile trovare un melanoma al di sotto di 5 mm quindi la lesione deve
essere almeno 5 mm.
E) Evoluzione - le lesioni hanno una rapida crescita e tendono ad infiltrare rapidamente.
Il melanoma è un tumore molto insidioso, anche perché alcune lesioni dermatologiche
entrano in diagnosi differenziale con il melanoma, tra le più importanti abbiamo:
- Verruche seborroiche molto pigmentate – clinicamente sono molto spesso
indistinguibili dal melanoma, ma a volte troviamo degli sbocchi follicolari dilatati che
ci facilitano la diagnosi.
- Basalioma pigmentato - è quello che entra più spesso in diagnosi differenziale.
- Nevo di Spitz/Reed.
- Nevo blu.
- Neoformazioni vascolari (per esempio un angioma trombizzato dovuto ad un
capillare ischemizzato).
Il dermatologo effettuerà, oltre l’esame clinico e l’anamnesi, un esame videodermatoscopico
che è una microscopia da contatto: un manipolo che ingrandisce la lesione fino a 100 volte
(100x) permette di valutare l’aspetto e la disposizione del pigmento. Esistono tutta una serie
di pattern pigmentari (reticolari, a strisce, ecc), che in associazione all’aspetto clinico aiutano
a porre la diagnosi. Se la lesione è melanocitaria, a seconda delle anomalie cliniche e
dermatoscopiche suggeriremo un follow-up più o meno lungo.
Se l’aspetto dermatoscopico è molto significativo suggeriremo l’escissione chirurgica.
Dopo l’escissione chirurgica si procede con l’esame istologico e si noteranno tutti quei fattori
prognostici per la diagnosi, che sono:
Spessore - viene misurato con il metodo di Breslow.
Invasione e approfondimento del tumore - viene espresso, sempre istologicamente, con i
livelli di Clark.
Con il Metodo Breslow si misura lo spessore del melanoma mediante un oculare
micrometrico, graduato, che è capace di valutare lo spessore massimo della
lesione cioè la distanza che intercorre tra la prima cellula melanomatosa della
superficie e l’ultima in profondità.
In genere per avere una linea guida standard si segue la verticalizzazione delle
cellule neoplastiche che seguono un annesso pilifero (se presente).
Si suddividono lesioni di spessore inferiore a 0.75 mm, tra 0.76 e 1.50 mm, tra 1.51 e 2.25,
tra 2.26 e 3 e > di 3 mm.
L’invasione secondo Clark si basa sul superamento delle barriere anatomiche ed individua 5
livelli:
1) Melanoma in situ intraepidermico (è un tumore con minori caratteristiche di malignità
perché non avendo superato la membrana basale non può dare metastasi)
2) Derma papillare infiltrato
3) Infiltrazione completa del derma papillare fino al confine con il derma reticolare
4) Invasione di tutto il derma
5) Infiltrazione del tessuto adiposo (invasione del sottocute)
Il metodo Breslow dà la misura esatta della grandezza del melanoma ed è quello
che aiuta di più, sia nella diagnosi stessa che nella scelta della terapia,
dell’intervento chirurgico e del follow-up.
I livelli di Clark invece trascurano la parte in rilievo sulla superficie.
Il patologo deve specificare sempre in modo esatto lo spessore del melanoma.
Per quanto concerne le ulcerazioni, esse assumono valore prognostico negativo quando
superano i 3 mm di profondità. L’infiltrato linfocitario invece depone per una prognosi
migliore, poichè viene considerato come reazione difensiva dell’organismo alla diffusione del
tumore.
Le micrometastasi in linfonodi regionali devono essere valutate in base a:
- per uno spessore inferiore a 0,7 mm oltre all’esportazione e alla radicalizzazione
(allargamento dei margini di resezione per impedire il fenomeno delle metastasi in
transito) non si fa nessun follow-up, se non il controllo clinico degli altri nei;
- superato il limite di 0,7 mm si deve procedere a tutta una serie di accertamenti: dopo
la resezione si cerca il linfonodo sentinella.
La terapia del melanoma rimane a tutt’oggi quella chirurgica, nonostante le diverse proposte
terapeutiche. A questa si possono associare, a seconda del grado del tumore in base alla
classificazione TNM, la chemioterapia, la radioterapia, la terapia biologica e le perfusioni
ipertermiche regionali.
della MAMMELLA
BENIGNI:
FIBROADENOMA - È una neoplasia benigna della mammella che colpisce le donne
giovani. Origina dall’unità terminale della ghiandola mammaria ed è costituita da una doppia
componente stromale ed epiteliale.Si presenta come un nodulo circoscritto di consistenza
elastica e di dimensioni variabili, la resezione chirurgica è consigliata se il nodulo è di grandi
dimensioni (ad esempio nel fibroadenoma giovanile può raggiungere anche 10-15 cm e la
crescita è più rapida). La classificazione istologica in passato divideva i fibroadenomi dei due
pattern di crescita:
1. Pericanalicolare (attorno ai duttuli, comprimendoli)
2. Intracanalicolare (senza compressione)
Questa classificazione è stata abbandonata perché non ha finalità prognostiche.
TUMORE FILLOIDE - E così chiamato per il suo pattern di crescita fogliaceo, entra in
diagnosi differenziale con il fibroadenoma giovanile di grandi dimensioni. È un tumore
benigno ma esiste anche una variante borderline ed una maligna che può dare metastasi.
La diagnosi differenziale si fa con istologia: il fibroadenoma a una componente stromale
molto abbondante, e solido e a pochi spazi cistici; il tumore filloide ha uno stroma più
concentrato (con maggiore componente fibroblastica) e la componente epiteliale di accresce
con aspetto fogliaceo.
INTERMEDI:
LESIONI PAPILLARI E PAPILLOMATOSE: Sono lesioni della mammella con un incerto
potenziale (categoria diagnostica B3 della core biopsy). Le lesioni papillari sono divise in:
1. lesioni benigne (papilloma intraduttale, papillomatosi),
2. atipiche (papilloma e papillomatosi atipica),
3. maligne (carcinomi papillari invasivi o non invasivi).
PAPILLOMA INTRADUTTALE - Ha sede nei dotti principali ed è responsabile di secrezione
ematica del capezzolo laterale. Il papilloma intraduttale è macroscopicamente benigno, la
conferma istologica della sua natura si fa colorando con ematossilina eosina: questa
colorazione rivela cellule disposte ordinatamente attorno ad un core fibrovascolare senza
attività invasiva. Queste cellule sono positive per P63 e miosina, marcatori delle cellule mio
epiteliali, segno di differenziazione e benignità.
Nel papilloma si possono riscontrare fenomeni di fibrosi (simili a ciò che si vede
nell’Adenomatosi Sclerosante, un processo infiammatorio in cui alcune cellule rimangono
intrappolate nel contesto del tessuto fibroso) o di metaplasia (senza significato neoplastico)
di tipo apocrifo, mucinoso, squamoso, a cellule chiare, calcifico.
PAPILLOMATOSI - CENTRALE E PERIFERICA La prima è più frequente e si riscontra più
facilmente perché da prova di sé con la secrezione. La papillomatosi periferica invece è più
che altro un reperto incidentale.
PAPILLOMATOSI ATIPICA - È un’entità intermedia caratterizzata da proliferazione cellulare
senza infiltrazioni o metastasi.
CARCINOMA PAPILLARE - INFILTRANTE E NON INFILTRANTE Si sviluppa all’interno del
dotto, viene detto invasivo quando supera l’epitelio duttale e invade lo stroma (a prognosi
peggiore).
MALIGNI:
TUMORI IN SITU
1. DUTTALE: Quando si parla di tumori della mammella si deve distinguere tra
carcinoma invasivo e carcinoma in situ perché è diverso il significato prognostico. Il
carcinoma in situ dotale può essere suddiviso a sua volta il carcinoma di alto grado e
di basso grado.
a. Esiste poi uno stadio che precede la nascita del carcinoma in situ, similmente
a quanto visto nella prostata può avere una iperplasia epiteliale (tipica o
atipica, quella atipica è molto simile al carcinoma in situ ma per definizione
colpisce meno di due spazi duttili e ha dimensioni inferiori a 2 mm, quella
tipica può essere florida o solida).
E della variante cribriforme iperplasia epiteliale simula in tutto e per tutto il
carcinoma in situ epiteliale: forma ponti e micropapille.
b. Il carcinoma in situ duttale di BASSO grado è simile all’iperplasia epiteliale
ma ha dimensioni superiori ai 2 mm o occupa più di due spazi duttali.
c. Il carcinoma in situ duttale di ALTO grado presenta focolai di necrosi
comedonica (caseosa?) e focolai di micro invasione della membrana basale
(potrebbe fare metastasi linfonodali). Per questo motivo si fa il linfonodo
sentinella.
2. LOBULARE: Il carcinoma lobulare in situ no no capacità metastatica si differenzia
dal carcinoma duttale per la morfologia, infatti è multifocale, non forma noduli e le
cellule crescono a filiera (alla mammografia spesso non si riesce a riconoscere) e le
sue cellule sono caratteristiche perché perdono la E-Caderina. Le cellule
(sparpagliate) devono essere viste ad alto ingrandimento per cogliere le atipie che le
caratterizzano.
TUMORI INFILTRANTI (sarcomi, linfomi, tumori secondari, tumore filloide e carcinomi).
1. CARCINOMA DUTTALE INFILTRANTE: Questo è il tumore che ha la più alta
incidenza nelle donne con due picchi a 40 e 60 anni. Il rischio di morte stimato è del
20% ma la sopravvivenza sta aumentando sempre di più grazie agli screening che
possono riconoscere tumori in situ di piccole dimensioni.
Il carcinoma duttale infiltrante non altrimenti specificato (detto così perché le cellule
hanno un’organizzazione estremamente variabile) è aggressivo se non trattato e
causa metastasi a distanza (linfonodi, polmone, osso, cervello, fegato).
Radiologicamente alla mammografia ha un aspetto stellato perché in risposta
all’impossibilità di queste cellule, il tessuto circostante va incontro a reazione
desmoplastica, sviluppando tessuto fibroso con l’intento di incapsularlo.
I fattori di rischio sono: una stimolazione estrogenica e progestinica elevata
(menopausa tardiva e menarca precoce), prima gravidanza in età avanzata,
nulliparità, presenza di lesioni papillari atipiche o iperplasia duttale atipica,
radioterapia, carcinoma della mammella controlaterale, obesità o altri fattori come la
terapia estroprogestinica e alcune mutazioni genetiche come quelle della linea
germinale ai geni BRCA1 e 2.
La localizzazione è più frequente dei noduli del carcinoma duttale invasivo è il
quadrante supero esterno della mammella.
Oggi l’approccio terapeutico è molto cambiato: prima si tendeva ad una chirurgia
estremamente demolitivo e radicale. La chirurgia non è più così estesa perché
effettivamente a cambiare la prognosi esistono terapie audio avanti molto efficaci.
Riguardo al linfonodo sentinella se mi si riscontrano metastasi parcellari si può anche
scegliere di non svuotare il cavo ascellare mentre se è totalmente metastatico allora
si procede a linfadenectomia.
In generale per i noduli di dimensione inferiore ai 2 cm la chemio terapia la
radioterapia sono post chirurgia, se invece il modulo a dimensione superiore ai 2 cm
sono anche le odio avanti per cui si fa un esame istologico utile a conoscere la
positività del tumore ai recettori per gli estrogeni e ad HER2.
Possiamo avere tumori:
- LUMINAL A;
- LUMINAL B HER 2 negativi;
- HER2 positivi, E -, P-;
- Triplo negativi;
Per la valutazione del pattern recettoriale si effettua l’esame istologico e la ricerca genetica
dell’amplificazione del gene HER2, in caso dubbio.
Trattandosi di un tumore maligno è importante effettuare un grading (SCORE DI
NOTTHINGAM) che tenga conto del grado di differenziazione, del pleomorfismo e della
conta mitotica. A questi parametri si dà un punteggio di 1, 2 o 3 se più o meno differenziato
(più o meno ghiandole), meno o più pleomorfo (nuclei), a più basso o alto indice proliferativo.
Maggiore è il punteggio, peggiore è la prognosi.
2. CARCINOMA LOBULARE INFILTRANTE: Valido è il discorso fatto parlando del
carcinoma lobulare in situ, questo tumore tende a disseminare a singole cellule a
filiere o a bersaglio.
3. CARCINOMA MIDOLLARE: Si presenta come un nodulo ben circoscritto in cui le
cellule neoplastiche sono ammassate è molto variabili, è presente un infiltrato
linfocitario.
4. CARCINOMA MUCINOSO: C’è produzione di muco in cui sono immerse le cellule
neoplastiche. E’ un nodulo molle con aspetto gelatinoso. Ha una buona prognosi.
5. CARCINOMA TUBULARE: Si presenta con aspetto stellato com’è il carcinoma di
tale ma è ben differenziato con scarsa atipia nucleare, la prognosi è migliore.

TECNICA DEL LINFONODO SENTINELLA


Viene detto linfonodo sentinella il primo linfonodo che drena un tumore metastatico.
L’ipotesi su cui si basa la tecnica di studio del linfonodo sentinella sarebbe il fatto che tutti i
linfonodi della stazione linfonodale di cui il linfonodo sentinella fa parte, se negativo, siano
indenni (ovvero non siano sede di metastasi).
Con la tecnica del linfonodo sentinella si iniettava intraoperatoriamente, in passato, un
colorante vitale blu e dopo un tempo esattamente calcolato si esaminava il linfonodo prima
che il colorante si disperdesse ma dopo il tempo necessario affinché avesse raggiunto il LS.
Oggi, per lo studio del linfonodo sentinella si sceglie sempre più spesso di usare un
radiocolloide, ad esempio il Solfuro Colloide marcato con Tecnezio 99 radioattivo.
Il radiocolloide viene iniettato durante le 24 ore precedenti all’intervento, in sede
intradermica nel caso di un melanoma (in prossimità della lesione) e mediante un rilevatore
gamma-portatile si valuta la radioattività del linfonodo che quindi una volta identificato viene
asportato con la più piccola incisione possibile.
Sulla base della presenza di metastasi linfonodali rilevate dall’esame istologico
estemporaneo dell’LS si sceglie se procedere allo svuotamento della stazione linfonodale
per intero.

PATOLOGIA MALFORMATIVA
della MAMMELLA
- MAMMELLA TUBEROSA: il seno tuberoso si caratterizza per alterazioni nella
morfologia della ghiandola mammaria che tende a svilupparsi in maniera anomala
assumendo una forma stretta e lunga, spesso definita, appunto "tuberosa" o
"tubulare".
Le malformazioni che caratterizzano il seno tuberoso possono manifestarsi già dalle
prime fasi di sviluppo della donna, quindi fin dall'adolescenza.
Il seno tuberoso si manifesta a causa di uno sviluppo anomalo del tessuto mammario
che tende ad accumularsi e concentrarsi nella zona dietro l'areola, assumendo la
tipica forma.
Si pensa che possano avere un ruolo nell'eziologia della malformazione l'esposizione
a inquinanti ambientali e gli eventuali ormoni assunti con l'alimentazione.
1. TIPO 1: vi è una mancanza di tessuto mammario localizzata soprattutto nei
quadranti interni e inferiori della mammella.
2. TIPO 2: mancanza di tessuti nei quadranti inferiori del seno, con areole più o
meno dilatate (generalmente si manifesta in seni di dimensioni
medio-piccole).
3. TIPO 3: mancato sviluppo del tessuto mammario in tutti i quadranti, con un
seno che appare “proiettato in avanti”. L'areola non necessariamente è
dilatata.
4. TIPO 4: è la forma più grave e si caratterizza per una severa mancanza dello
sviluppo del tessuto mammario in tutti i quadranti del seno (così come
avviene nel tipo 3). L'areola non assume mai forma e dimensioni normali, ma
può occupare l'intero seno.
Le principali metodiche e tecniche impiegate in chirurgia estetica per trattare il seno
tuberoso sono generalmente effettuate durante l’età adulta, attendendo la completa
formazione delle mammelle e comprendono interventi di:
- MASTOPESSI
- MASTOPLASTICA ADDITIVA
- LIPOFILLING
- TECNICHE COMBINATE
dei GENITALI
- IPOSPADIA: L'ipospadia è una malformazione urogenitale caratterizzata
dall'apertura anormale dell'uretra sulla faccia inferiore del pene e dall'incurvamento in
basso di quest'ultimo organo.
E' il risultato di un difetto di saldatura tra i margini della doccia che si forma alla faccia
inferiore del pene in seguito a vacuolizzazione della lamina epiteliale.
L'ipospadia può essere anteriore (50%), media (20%) o posteriore (30%).
La posizione coronale del meato uretrale è in assoluto la più comune ed è associata
ad una cute prepuziale a “ventaglio” e alla corda penis.
- EPISPADIA: L'epispadia è l'apertura abnorme dell'uretra sulla faccia dorsale del
pene e dall'incurvamento del pene verso l'alto.
E' il risultato della mancata saldatura delle labbra della doccia uretrale dovuto a
vacuolizzazione della lamina epiteliale che si trova però affondata profondamente sul
pene a livello della faccia superiore. Ne consegue che la doccia avrà sede sulla
faccia inferiore del pene e non più su quella superiore.
1. L'epispadia può essere peno-pubica: quando il pene (che è corto e contratto)
presenta un solco che distalmente mette capo ad una fossa imbutiforme al
cui fondo si apre l'uretra posteriore.
2. L'epispadia è detta balanica: quando, invece, l'apertura uretrale è sulla faccia
dorsale ma alla base del glande.
La diagnosi già alla nascita avviene e queste malformazioni possono essere
correlate anche a criptorchidismo o ad ernie inguinali (a volte esami strumentali
servono a valutare altre alterazioni dell'apparato urinario e genitale).
del CRANIO
- LABIOPALATOSCHISI: è una malformazione a carico della chiusura del bottone
cefalico, con un'incidenza complessiva di 1:2000 nella razza nera e di 1:1000 nella
razza bianca, si manifesta più spesso a sinistra (⅔ dei casi). LABIOSCHISI è
caratterizzata da fissurazione del labbro superiore in posizione paramediana, mono o
bilaterale, la PALATOSCHISI invece è la fissurazione del palato che mette in
comunicazione la cavità orale e le cavità nasali.
Secondo la più popolare classificazione, di Kernahan Stark, distinguiamo:
1. schisi del palato primario (labbro e premascella), unilaterale o bilaterale,
completa o incompleta;
2. schisi del palato secondario duro e molle, completa o incompleta uni o
bilaterale;
Le 2 malformazioni possono presentarsi anche in associazione.
1. la LABIOschisi è molto frequente, si manifesta circa in 1:1750 nati vivi, con
predilizione per il sesso maschile.
L’eziopatogenesi è in parte data da una predisposizione genetica, su cui
fattori ambientali, specialmente l’esposizione a teratogeni prenatali
(specialmente infezioni virali contratte nelle prime settimane di gestazione,
radiazioni ionizzanti, altre malattie materne) o a sostanze tossiche, si
sommano causando deficit vascolari e alterazioni della migrazione del
mesoderma all’interno delle strutture ectodermiche normalmente congiunte.
Embriologicamente la formazione del labbro superiore, dell’arcata mascellare
fino al foro incisivo, si ha quando i 2 processi mascellari ed il processo fronto
temporale si uniscono lungo la linea mediana, tra la 5° e la 7° settimana di
vita intrauterina.
La labioschisi può essere distinta in 3 forme cliniche:
- completa: interessa il labbro a tutto spessore raggiungendo il vestibolo
nasale
- incompleta: la schisi non coinvolge il labbro per tutta la sua altezza
- cicatriziale o frustra: la cute e la mucosa appaiono indenni ma il
muscolo orbicolare è interrotto
La labioschisi è caratterizzata da:
- dislocazione della narice
- appiattimento e slargamento del naso
- filtro e arco di cupido del lato sano stirati verso sopra
Le problematiche associate a labioschisi sono divise in immediate e tardive:
immediatamente si può presentare difficolta alla suzione, oltre alle evidenti
alterazioni estetiche, tardivamente esiti cicatriziali e deformità del naso.
La correzione chirurgica viene proposta precocemente, all’età di 3-6 mesi,
con tecnica di Le Mesurier, di Tennison o di Millard, sulla base della familiarità
del chirurgo con una o l’altra. Esse si basano sul concetto di Z plastica, per
evitare fenomeni di retrazione cicatriziale e un miglior recupero delle strutture
da ricongiungere. Di fondamentale importanza è la ricostruzione del muscolo
orbicolare.
2. la PALATOschisi si manifesta più spesso nel sesso femminile e occorre
quando una delle noxae patogene già citate colpisce un soggetto
geneticamente predisposto e si manifesta con schisi del palato duro e molle
(palato secondario) isolatamente o in associazione a schisi del palato
primario (labbro e premaxilla).
Clinicamente la fissuraione può coinvolgere in parte o interamente il palato
dal foro incisivo all’ugola.
Questa malformazione immediatamente causa problemi all’alimentazione
che, vista la comunicazione oro nasale non permette l’instaurarsi della
depressione endo-orale alla base della suzione. Oltre a predisporre
all’instaurarsi di fenomeni flogistici a carico delle vie aeree (per la mancata
umidificazione e riscaldamento dell’aria), a polmoniti ab ingestis e problemi di
ordine fonatorio, ortodontico ed estetici.
La correzione chirurgica va effettuata ad 1 anno di vita usando diverse
tecniche per il palato duro (tecnica di Stricker, di Veau-Wardill-Kilner, di Von
Langenbeck) e per il molle (tecnica di Furlow), per far sì che la fonazione
possa avvenire normalmente ma evitando che cicatrici troppo precoci
arrestino o interferiscano con il successivo sviluppo del palato.
Le alterazioni comprendono:
- deviazione del setto nasale e della piramide nasale
- appiattimento dell’ala del naso
- appiattimento del filtro labiale, dell’arco di cupido e deformità a fischio
(possono trarre beneficio dal trattamento con acido ialuronico)
- procheilia del labbro inferiore
- prognatismo
- occlusione dentale con deformità di terza classe
Il trattamento si basa sull’allestimento di lembi mucosi laterali alla schisi,
isolati con le loro arterie e traslati lungo la linea mediana.
Per il palato duro si usano innesti ossei prelevati dalla cresta iliaca.
Anche a seguito di intervento chirurgico possono permanere (secondarie a
patologie infettive):
- fistole del palato
- insufficienza velofaringea
del COLLO
- CISTI E FISTOLE LATERALI: Le fistole che derivano dal 2° arco e dal secondo
2° branchiale. Possono essere complete se sboccano superiormente in faringe e
inferiormente sulla cute del collo, o incomplete (cieche) se sboccano unicamente a
livello cutaneo (cieche esterne) o faringeo (cieche interne).
Le cisti si pongono solitamente a livello dell’osso ioide lungo il decorso della fistola e
si dividono sulla base dell’epitelio di rivestimento in: epidermoidi, mucoidi (epitelio
cilindrico secernente), dermoidi (epitelio pluristratificato pavimentoso con annessi
pilo-sebacei) e amigdaloidi (tessuto linfatico). Altra localizzazione tipica è a livello
della biforcazione carotidea (sulla parete di cui aderiscono saldamente).
Nella maggiorparte dei casi l’orifizio cutaneo è posto lungo il decorso del muscolo
SCM ed ha un diametro di circa 1-2 mm da cui fuoriesce liquido filante salivare o pus
(quando batteri piogeni colonizzano la zona).
La diagnosi differenziale si deve porre nei confronti di altre tumefazioni laterali del
collo (tumefazioni linfonodali di varia natura).
Tra le fistole laterali ricordiamo anche quelle auricolari e preauricolari, in cui si forma
un breve tramite a fondo cieco (1-2 cm di lunghezza) situato sul trago, sul lobulo o
alla base dell’elice del padiglione auricolare.
Dal 1° arco branchiale possono originarsi anche piccole appendici fibrocartilaginee
solitamente situate davanti al trago, o più raramente in prossimità dello SCM sul collo
o sulla guancia: i fibrocondromi preauricolari o appendici fibrocartilaginee del collo.
Per tutte queste condizioni la terapia è chirurgica e consiste nell’exeresi delle cisti,
delle appendici fibrocartilaginee o nell’asportazione del tramite fistoloso per le fistole.
- CISTI E FISTOLE MEDIANE: possono localizzarsi a qualunque livello della
linea mediana tra la fossetta sovrasternale e la base della lingua lungo tutto il
decorso del dotto tireoglosso (segno della migrazione tiroidea durante la vita
embrionale dalla radice della lingua alla cartilagine tiroidea, tra secondo e quarto
anello tracheale). La sede più comune è a livello ioideo.
La persistenza del dotto tiroideo, che normalmente dovrebbe involvere al 4° mese di
vita prenatale, può dare origine a cisti e fistole mediane. L’orifizio cutaneo delle fistole
ha diametro di 1-3 mm e può sboccare a livello cutaneo esterno o internamente a
livello del forame cieco della lingua. La parete delle cisti è formata da epitelio
cilindrico muco secernente, di solito.
La diagnosi differenziale si fa con adeniti o strutture tiroidee ectopiche.
La terapia è chirurgica e consiste nell’exeresi della cisti e asportazione del tramite
fistoloso, cute circostante l’orifizio cutaneo e porzione di osso ioide interessato.
delle ESTREMITÀ
Le malformazioni della mano comprendono 4 gruppi di malformazioni:
1) per difetto (assenza di un arto: amelia, della mano: acheiria, di un dito: ectrodattilia,
di una falange: ectrofalangia, del metacarpo: mectrometacarpia; iposviluppo della
mano: microcheiria; accorciamento delle falangi, delle dita o del metacarpo:
brachifalangia, brachidattilia, brachimetacarpia;)
2) per eccesso (polidattilia e polifalangia, macrodattilia, aracnodattilia)
3) da mancata divisione (sindattilia e sinostosi interfalangea)
4) da errore di forma o errore tra i rapporti stabiliti (clinodattilia, deviazione dell’asse, e
clamptodattilia, dita flesse inestensibili, tra cui la mano torta congenita)
- SINDATTILIA: è una malformazione caratterizzata dalla fusione parziale o totale di
2 o più dita. Si osserva anche a livello delle dita del piede, in forma isolata o in un
contesto sindromico. Colpisce circa 1/5000 nati, senza prevalenza di sesso ma con
predilizione per gli arti sinistri e in ordine di frequenza il 3° e il 4° dito , il 4° e il 5° dito
o più raramente il 2° ed il 3°.
Se ne conoscono 3 forme cliniche:
- cutanea (lassa)
- fibrosa
- ossea
A seconda che la fusione interessi solo la cute, il sottocute e i tessuti molli o anche i
segmenti ossei.
Si distinguono anche forme:
- parziali (prossimali e distali)
- totali
Nelle forme ossee l’intervento chirurgico di riparazione viene anticipato rispetto al
solito (normalmente si può decidere di intervenire tra i 6 ed i 24 anni), in età
prescolare (anche prima dei 18 mesi) e si procede con la ricostruzione della plica
interdigitale usando lembi cutanei di vicinanza prelevati dalla faccia palmare e
dorsale della mano.
Se non operata è possibile riscontrare alterazioni osteoarticolari (nuove
malformazioni acquisite) dovute al trascinamento del dito più lungo da parte di quello
più corto (clinodattilia) e alterazioni della funzionalità prensile.
- POLIDATTILIA: è una malformazione per eccesso di numero in cui si ha la
presenza di uno o più raggi digitali o parti di essi. Questa malformazione è
abbastanza frequente e viene classificata a seconda della localizzazione del dito in
sovrannumero in:
- forma radiale o pre assiale (ad esempio con allargamento della falange
distale e biforcazione e sepimentazione del’unghia o presenza di un dito vero
e proprio extra), si trasmette con carattere autosomico recessivo.
- forma ulnare o post assiale, ha carateristiche simili alla forma radiale ma non
si trasmette secondo autosomia recessiva.
- a dita intercalate (forma mediana), è la più rara, si manifesta spesso in
associazione a sindattilia del dito sovrannumerario con le dita adiacenti.
La terapia della malformazione è la rimozione chirurgica che ha lo scopo di
preservare il raggio digitale il cui assetto funzionale è migliore asportando l’elemento
sovrannumerario per ristabilire anche l’estetica della mano.
Alcune polidattilie vengono classificate in maniera diversa per quanto riguarda la
duplicazione del pollice, dito fondamentale per la prensilità della mano. La correzione
chirurgica in questo caso deve essere effettuata “aprendo” l’articolazione per
verificare se esista solo un manicotto articolare, individuare nervi e strutture vascolari
e tendinee e solo in seguito procedere alla ricostruzione.

CHIRURGIA MAXILLO FACCIALE


Prof. Bianchi

TRAUMA MAXILLO FACCIALE


I traumi che interessano il distretto maxillofacciale possono presentarsi isolati o associati a
lesioni del neurocranio. La frequenza dei traumi al volto varia in rapporto ad età, sesso e
paese di appartenienza e l’attitudine alla pratica sportiva. In Italia, la prima causa di traumi
facciali sono gli incidenti automobilistici, a motore, gli investimenti pedonali e gli incidenti in
bicicletta.
I traumi facciali sono più frequenti nel maschio tra seconda e terza decade di vita, a seconda
dell’età inoltre possiamo constatare come nell’infanzia le fratture riguardino principalmente la
mandibola, mentre nell’adulto specialmente la mascella e le restanti ossa del volto.
Inoltre il minor peso del bambino causando una riduzione della forza di impatto dell’agente
traumatico, determina in genere fratture meno gravi.
Le ossa più fragili sono quelle nasali, seguite dalle zigomatiche e dalla mandibola. E, in
generale, le ossa facciali tendono a rispondere meglio a traumi che agiscono in direzione
verticale e dal basso verso l’alto, è in questa direzione che le ossa hanno sviluppato “pilastri
di resistenza” contro i traumi. L’aria contenuta all’interno dei seni paranasali e le suture tra le
ossa riducono l’intensità degli urti fornendo maggiore protezione. Anche i muscoli,
specialmente la contrazione dei muscoli masticatori ha un ruolo fondamentale nel
proteggere la mandibola e la dentatura (che mantiene il trofismo delle ossa alveolari) da
traumi e fratture.
Il trattamento immediato ed urgente nei gravi traumi facciali è volto al mantenimento delle
funzioni vitali:
- eliminare ostacoli alla respirazione
- controllare emorragie
- eseguire una toilette chirurgica con sutura di eventuali ferite
- prevenire le infezioni
- sedare il dolore
L’ostacolo delle vie aeree superiori può provocare un'insufficienza respiratoria alta con
cianosi, tirage e cornage (depressione del giugulo e respiro rumoroso).
Le cause di ostruzione respiratoria sono essenzialmente 3:
1. GLOSSOPTOSI, retropulsione del corpo linguale, determinata da: ematoma della
pelvi orale, stato di incoscienza (per eventuale trauma cranico associato), perdita
dell’ancoraggio anteriore dei muscoli genioglossi (nelle fratture bilaterali della
parasinfisi mandibolare) — decubito laterale + legature temporanee di lingua o
mandibola
2. OSTRUZIONE OROFARINGEA da corpi estranei: saliva, sangue vivo o coagulato,
secrezioni mucose, vomito, frammenti di denti o ossa — aspirazione, broncoscopia
3. OCCLUSIONE OROFARINGEA in seguito a frattura mascellare tipo Le Fort I, II e III
che causa una dislocazione del palato molle con interferenza e successiva
ostruzione dell’orofaringe — riduzione manuale della frattura
FRATTURA DEL FRONTALE
Le fratture di questo osso sono dovute solitamente a traumi diretti ad alta energia.
L’osso frontale prende parte alla costituzione del seno frontale (parete anteriore e posteriore
del seno frontale) e del tetto orbitario.
Nella frattura, può esserci un interessamento della parete esterna oppure un interessamento
sia della parete esterna che di quella interna:
- il conivolgimento della parete interna è associato a delle complicazioni in quanto,
dietro la parete posteriore del seno frontale ci sono le meningi: infatti il primo segno
di frattura frontale con coinvolgimento meningeo è la fuoriuscita di liquor dal naso; in
questo caso richiederemo come esami la tc con e senza mdc; ovviamente, la frattura
con rinoliquorrea è più grave in quanto si può avere contaminazione, meningite,
cerebrite, meningocefalite, ecc;
I segni più frequenti sono edema, ecchimosi periorbitaria ptosi palpebrale, alterazione della
morfologia del III superiore della faccia con depressione della regione frontale e lacerazione
dei tessuti molli.
Importanti complicanze delle fratture delle ossa frontali possono essere: l’esoftalmo, la
pneumo-orbita, il pneumoencefalo e le fistole liquorali, che possono associarsi ad altri
temibili complicanze come meningiti o encefaliti o, ancora, la Sindrome della fessura
orbitaria superiore (paralisi III, IV, VI nervo cranico) e la Sindrome dell’apice orbitario (perdita
acuta del visus).
Il principale esame radiografico da eseguire è la TC in scansioni assiali e coronali con
ricostruzione 3D della regione fronto-orbitaria.
Le fasi del trattamento comuni ad ogni frattura sono l’esposizione delle rime fratturative, la
riduzione e la sua stabilizzazione con placche e viti in titanio.
FRATTURE DEL MALARE
L’osso zigomatico o malare per la posizione anatomica che occupa è spesso esposto a
insulti traumatici. Particolari siti di minoris resistentiae sono: la sutura fronto malare, la sutura
maxillo malare (ancora più debole delle altre per la presenza del foro d’uscita del nervo
infraorbitario, spesso coinvolto nella dislocazione) e la sutura temporo malare. Le fratture
COMPLETE a “tripode” sono quelle in cui tutti questi punti si fratturano disarticolando
completamente l’osso zigomatico.
Le altre fratture sono così raggruppate:
- fratture senza spostamento
- fratture con spostamento del corpo zigomatico (a “gradino”) senza rotazione
- fratture con spostamento del corpo zigomatico e rotazione mediale (con riduzione del
diametro trasversale dell’orbita)
- fratture con spostamento del corpo zigomatico e rotazione laterale (con aumento del
diametro trasversale)
- fratture pluriframmentarie e complesse (associate a frattura dell’orbita)
- fratture dell’arco zigomatico isolate o associate (le cosiddette fratture a “V” con
infossamento dell’osso su 3 siti: anteriore a livello della sutura temporo zigomatica,
posteriore e centrale)
Clinicamente subito dopo il trauma si osserva:
- edema dei tessuti molli ed ecchimosi periorbitale
- non sempre è presente dolore spontaneo, mentre può essere evocato facendo
pressione sui focolai di rottura
- ipo-anestesia dei territori innervati dalla seconda branca del trigemino (zigomo,
labbro superiore, mucosa orale tra il canino e i denti incisivi)
- la diplopia a seconda dell’entità della frattura può presentarsi subito o a distanza di
qualche giorno
- enoftalmo o distopia oculare con disallineamento della linea bipupillare
- appiattimento dell’emivolto interessato (in caso di infossamento)
- chemosi ed ecchimosi congiuntivale
- epistassi (in caso di drenaggio del materiale ematico nel seno mascellare)
- limitazione all’apertura della bocca secondaria alla contusione dei capi muscolari del
massetere e del muscolo temporale (che si inseriscono sullo zigomo)
Per fare diagnosi l’esame ispettivo spesso difficoltoso per l’edema tissutale è da associare a
radiologia convenzionale con RX in proiezione occipito buccale, assiale bilaterale e
simmetrica, TC con eventuali ricostruzioni 3D e RM per valutare i danni del globo oculare e
dei muscoli estrinseci dell’occhio.
La terapia è chirurgica, ad eccezione delle fratture senza spostamento e l’intervento viene
eseguito entro 10-15 giorni dal trauma per evitare che i frammenti ossei si consolidino in
posizioni asimmetriche e viziate, si sviluppino eventuali fibrosi e danni alla mobilità
mandibolare (anchilosi extrarticolare).
Il trattamento chirurgico prevede 3 tempi:
1. esposizione delle rime di frattura (incisione cutanea, scollamento del periostio)
2. riduzione della frattura per via percutanea, transcutanea e buccale
3. contenzione mediante fissazione rigida interna (placche e viti in titanio o in materiale
riassorbibile)
FRATTURE DELL’ORBITA
Le pareti orbitarie più frequentemente sede di frattura sono quella inferiore e quella mediale.
Il punto di minor resistenza del pavimento orbitario è la parte compresa tra la fessura
orbitaria inferiore ed il canale di passaggio del nervo infraorbitario, mentre nella parete
mediale il punto più debole è la lamina papiracea dell’etmoide.
Le FRATTURE DEL PAVIMENTO ORBITARIO sono distinte in:
- fratture senza scoppio dell’orbita, si verificano in corso di frattura di zigomo,
mascellare superiore o di un fracasso facciale in cui il trauma all’orbita avviene per
via indiretta;
- fratture con scoppio dell’orbita, si verificano per traumi isolati dell’orbita e a loro volta
vengono suddivise in:
1. BLOW OUT se il frammento fratturato si sposta all’esterno della cavità
orbitaria, a loro volta divise in:
- PURE: quando la frattura della parete inferiore dell’orbita avviene
senza che sia leso il margine periferico
- IMPURE: quando a una frattura del margine periferico consegue la
frattura del pavimento orbitario
2. BLOW IN se il frammento fratturato si sposta all’interno della cavità orbitaria
Le fratture del pavimento orbitario possono verificarsi in seguito ad un trauma diretto del
globo oculare, che trasmette la sua energia alle pareti orbitarie e la più fragile tra queste (il
pavimento orbitario) si frattura consentendo il prolasso dell’orbita nel seno mascellare (al
fine di proteggere il bulbo oculare da uno “scoppio”. Un classico esempio è l’urto di una
pallina da tennis, o, più raramente cadute accidentali o traumi volontari.
I sintomi sono:
- dolore locale
- diplopia (direttamente proporzionale alla severità della frattura), valutata ediante lo
schermo di Hess (che consente di valutare anche il coinvolgimento dei muscoli retto
inferiore e piccolo obliquo che, decorrendo sul pavimento orbitario, sono i primi ad
erniare o ad incarcerarsi — test della trazione forzata)
- alterazioni della vista (calo del visus, emorragia del vitreo, emorragia retrobulbare,
neuropatia ottica post traumatica, dislocazione della lente)
- enoftalmo
- falsa ptosi palpebrale
- chemosi ed ecchimosi congiuntivali e palpebrali
- edema (conseguente al passaggio di aria attraverso la rima di frattura dalla regione
endonasale, che aumenta di pressione) ed ematoma palpebrale e periorbitario
- enfisema palpebrale
- oftalmoplegia
- ipo-anestesia dei territori innervati dalla branca oftalmica del trigemino
L’RX, la TC, e la RM, oltre ad un esame oculistico completo sono necessari prima di
procedere alla ricostruzione chirurgica, che deve comunque essere effettuata entro 10-15
giorni o entro 12-24 ore in caso di incarceramento muscolare.
La chirurgia può procedere secondo diversi approcci: congiuntivali o cutanei, in open, o per
via endoscopica specie nel trattamento delle fratture della parete mediale.
Qualunque sia la via di accesso, per riposizionare il contenuto orbitario prolassato all’interno
della cavità ed evitare che prolassi nuovamente si usano materiali eterologhi o alloplastici
come: pericardio bovino liofilizzato (per la correzione di piccoli difetti), lamine di osso
eterologo decalcificato e deantigenato, mesh in titanio (in fratture ampie e comminute).
FRATTURE DEL MASCELLARE
Si realizzano solo per traumi intensi che si esercitano prevalentemente in senso antero
posteriore. Le Fort mise in evidenza con i suoi esperimenti l’esistenza di 3 pilastri di
resistenza dell’osso mascellare (per ogni lato):
1) PILASTRO ANTERIORE: dal canino lungo la parete laterale della fossa nasale, fino
all’apofisi orbitaria del frontale;
2) PILASTRO MEDIO: dal primo molare all’apofisi piramidale, per dividersi in alto verso
il processo orbitario dell’osso zigomatico e il processo frontale dell’osso zigomatico e
in orizzontale verso l’osso temporale;
3) PILASTRO POSTERIORE: dal secondo molare funo all’incisura pterigoide;
Dall’identificazione di queste zone, consegue la comprensione di quali siano le sedi di minor
resistenza del mascellare, essere seguono un decorso orizzontale ed è per questo che le
fratture orizzontali (di Le Fort) sono le più frequenti rispetto a tutte le altre:
1. fratture alveolo dentarie: in cui alveolo e corona dentale (con o senza esposizione
della polpa) si fratturano, sublussano o si ha avulsione del dente.
2. fratture orizzontali di Le Fort:
- Le Fort I o frattura di Guerin: si ha in seguito a traumi che impattano al di
sotto della spina nasale anteriore, la linea di frattura può essere mono o bi
laterale e ha un decorso orizzontale, dalla spina nasale passando per il
pavimento del seno mascellare, il piede dell’apofisi piramidale, per terminare
in corrispondenza della tuberosità del mascellare o al processo pterigoideo.
SINTOMI: edema del labbro superiore, malocclusione dentale, segno di
Obwegeser…
- Le Fort II: si ha in seguito a insulti più violenti che impattano secondo una
direzione antero posteriore e dall’alto verso il basso. La linea di interruzione
ossea inizia dalla sutura fronto nasale, passa attraverso la doccia lacrimale,
la metà mediale del pavimento orbitario, la sutura maxillo malare e l’apofisi
piramidale, terminando a livello della tuberosità mascellare o del processo
pterigoideo.
SINTOMI: edema del viso e deformità del viso, edema periorbitale, epistassi,
perdita di LCR…
- Le Fort III anche chiamate di “disgiunzione craniofacciale”, si verificano per
traumi ancora più violenti e la linea di frattura parte dalla sutura fronto nasale,
si estende lungo la cavità orbitaria, orizzontalmente, verso la lamina
papiracea dell’etmoide e la fessura orbitaria inferiore. Giunta alla grande ala
dello sfenoide segue 2 vie: 1 inferiore fino all’apofisi pterigoide, una superiore
verso la parete laterale dell’orbita, la sutura fronto malare e temporo malare.
SINTOMI: enoftalmo, emotimpano, allungamento ed appiattimento del viso,
edema del viso e periorbitale…
3. fratture verticali di Lannelongue anche dette di “disgiunzione intermascellare” ha una
direzione sagittale parallela al setto nasale e al vomere, è spesso associata ad un
quadro fratturativo complesso (ad esempio ad una frattura orizzontale tipo Le Fort III)
4. fratture associate orizzontali e verticali comprendono:
- frattura alveolare (una frattura verticale tipo Lannelolongue che continua
raggiungendo il pavimento della fossa nasale e la zona dei premolari)
- frattura di Walther (tipo Le Fort I che si estende da una regione premolare
all’altra, associata ad una rima di frattura tra gli incisivi)
- frattura di Richet (tipo Le Fort II, ma monolaterale)
- frattura di Huet (frattura che si estende lungo la regione canina bilateralmente
per unirsi al centro in una frattura del palato che si estende frontalmente)
- frattura di Basserau (tipo Le Fort I associata a 2 linee parallele di frattura che
si estendono sagittalmente da un incisivo laterale all’altro)
La diagnosi si avvale di una prima ispezione esterna, esame endorale e accertamenti
radiografici, TC 3D in tagli assiali, coronali e sagittali.
Il trattamento prevede 2 fasi:
- fase IMMEDIATA: per verificare la pervietà delle vie aeree, emorragie nasali, orali o
cutanee che possono rappresentare un pericolo “life threatening".
- fase SUCCESSIVA: può anche essere rinviata di qualche giorno, sulla base dello
stato generale del paziente.
Per le fratture composte è sufficiente effettuare il BIM: il bloccaggio intermascellare e la
legatura interdentale applicando su ogni arcata dentale una striscia metallica di adeguata
lunghezza fissata tra i denti con fili metallici interdentali (almeno 3). Qualora i denti fossero
assenti bisogna rinforzare la stabilità della ferula metallica ancorandola alla spina nasale
anteriore o alle sospensioni zigomatiche per l’arcata superiore, inferiormente invece si
esegue un cerchiaggio mandibolare.
Il BIM viene mantenuto in sede per almeno 2 settimane.
Nelle fratture sagittali si esegue una prima riduzione manuale della frattura, la contenzione
con BIM e la fissazione rigida interna sulle rime di frattura.
Nelle fratture orizzontali è invece necessario incidere la mucosa gengivale, specialmente se
le fratture sono miste o comminute, bisogna esporre i focolai di frattura e con placche, viti ,
BIM, sospensioni metalliche, ecc. riposizionare in una perfetta occlusione dentale le due
arcate.
FRATTURE DELLA MANDIBOLA
Le fratture della mandibola sono le più frequenti lesioni cranio facciali.
Le possibili cause sono: traumatiche (incidenti stradali, traumi sportivi, infortuni lavorativi,
traumi balistici, ecc.), iatrogene (estrazione dentaria inadeguata del terzo molare inferiore) e
patologiche (osteonecrosi, tumori, osteoporosi, metastasi ossee, cisti ossee, osteomieliti,
ecc.)
Le fratture della mandibola vengono classificate in base a:
- perdita o meno di contiguità dei monconi ossei: COMPOSTE o SCOMPOSTE
- entità del danno osseo: COMPLETE o INCOMPLETE
- numero di frammenti: SEMPLICI o COMMINUTE
- sede: DIRETTE o INDIRETTE
- CON PERDITA DI SOSTANZA o SENZA PERDITA DI SOSTANZA
- PRESENZA DI ELEMENTI DENTARI sui monconi fratturativi o ASSENZA DI
ELEMENTI DENTARI
- interessamento di muscoli inseriti sui frammenti: FAVOREVOLI o SFAVOREVOLI
La regione più debole della mandibola è il condilo mandibolare dove la mandibola si articola
con l’osso temporale.
Le FRATTURE DEL CONDILO sono fratture articolari che si divisono a seconda:
- della localizzazione fratture della testa, del collo e subcondilari
- del coinvolgimento di entrambi i condili fratture monocondilari o bicondilari
- della “rottura dei capi ossei” in fratture parziali, incomplete o comminute
- del coinvolgimento della capsula articolare in fratture intracapsulari (in cui c’è un
maggior rischio di anchilosi articolare) ed extracapsulari (in cui le alterazioni
funzionali e la dislocazione, per l’azione tirante del muscolo pterigoideo esterno,
sono più frequenti)
- dello spostamento dei monconi ossei, con o senza spostamento della mandibola
- con o senza interferenza articolare dei monconi
Importante, poi, dividere le fratture del condilo del bambino da quelle dell’adulto: nel
bambino, il trauma, oltre al danno strutturale, può causare un grave quadro clinico di deficit
di crescita dell’osso.
La diagnosi si basa sull’esame ispettivo generale (mandibola semi aperta, scialorrea, edemi
ed ecchimosi, emorragie e ferite cutanee, asimmetria del volto, malocclusione, ecc.) ed
endorale (lacerazioni gengivali, lesioni dentali, ecc.), palpazione combinata extra ed
endorale, RX, TC 3D.
Il trattamento non chirurgico si esegue nel caso di fratture incomplete, a legno verde,
condilari senza spostamenti o quando le gravi condizioni del paziente non consentono un
intervento chirurgico. Si può, in questo caso inserire un BIM per 10-15 giorni (non più a
lungo per evitare l’anchilosi temporo mandibolare).
Il trattamento chirurgico delle fratture mandibolari prevede l’esposizione e la riduzione della
frattura, la contenzione e fissazione dei monconi con placche, viti e viti bicorticali. Nel post
operatorio si posiziona un BIM per qualche settimana e si procede al trattamento
fisioterapico di riabilitazione.
FRATTURE NASO-ETMOIDO-ORBITARIE
Le ossa nasali, le pareti mediali delle orbite ed il pavimento della fossa cranica anteriore
definiscono lo spazio interorbitario in cui possono nascere, a seguito di traumi diretti, lesioni
dei tessuti molli e fratture del complesso naso-etmoido-orbitario. Queste fratture sono state
classificate da Markowits sulla base della misura del frammento osseo centrale, ove si trova
il legamento cantale (palpebrale) mediale, in 3 tipi:
1. singolo frammento centrale del bordo orbitario mediale con legamento cantale
inserito sulla cresta lacrimale
2. frammenti multipli della cornice orbitale media con il frammento in cui si inserisce il
legamento di dimensioni sufficienti
3. frammenti multipli e legamento inserito su un frammento osseo ridotto o il legamento
è del tutto avulso
I sintomi di una frattura NOE sono:
- algia locale,
- diplopia,
- alterazione del visus e dei movimenti oculari,
- epistassi,
- enoftalmo o esoftalmo,
- ptosi palpebrale superiore,
- telecanto traumatico,
- edema ed ematoma orbitario e periorbitario,
- enfisema palpebrale,
- ecchimosi a “farfalla” o a “panda”,
- emorragia subcongiuntivale,
- rinoliquorrea
La diagnosi clinica è difficoltosa per la raccolta ematica e le eventuali lesioni dei tessuti molli
che accompagnano la frattura. La palpazione consente di valutare la mobilità delle ossa
nasali e l’instabilità della regione cantale mediale. Per escludere complicanze oftalmiche
all’RX e TC si associano esame oculistico completo e RM.
L'obiettivo del trattamento chirurgico prevede di:
- riposizionare in modo corretto il frammento su cui è aggrappato il legamento cantale
mediale per ristabilire la distanza intercantale preesistente al trauma
- trattare le lesioni orbitarie, della base cranica, dell’osso mascellare e del naso
La via d’accesso è coronale con incisioni cutanee congiuntivali e, se necessario, endorali
superiori.
Un punto critico è la ricostruzione dell’apparato nasolacrimale, che spesso viene valutato in
un secondo momento e trattato con dacriocistorinostomia.

LESIONI PRENEOPLASTICHE E CARCINOMA DEL CAVO ORALE


Il carcinoma del cavo orale è una processo neoplastico maligno che può interessare
qualsiasi parte della cavità orale: gengive, lingua, mucosa geniena, palato, labbra, e
pavimento orale. Tra le sedi appena menzionate la lingua (ed in particolare il suo versante
inferiore) è quella su cui la neoplasia insorge più frequentemente (75% dei casi).
Colpisce soprattutto i soggetti di età avanzata, in particolare gli uomini (per i quali costituisce
l’ottavo tumore maligno per frequenza). Tuttavia negli ultimi tempi l’incidenza di tale
patologia è molto aumentata anche nelle donne (per le quali costituisce il dodicesimo tumore
maligno per frequenza), a causa della maggiore diffusione dell’abitudine tabagica nel gentil
sesso.
EZIOLOGIA:
L’eziologia esatta del carcinoma del cavo orale è sconosciuta (come per quasi tutti i tumori
d'altronde).
E’ comunque possibile identificare diversi fattori di rischio che aumentano la probabilità di
andare incontro a tale patologia:
- Familiarità.
- Età avanzata.
- Fumo di sigaretta, aumenta di 4 volte la probabilità di insorgenza del carcinoma del
cavo orale.
- Abuso di alcol, aumenta di 3 volte la probabilità di insorgenza del carcinoma del cavo
orale.
Se l’abuso di alcol ed il fumo di sigaretta sono presenti contemporaneamente la probabilità
di ammalarsi aumenta di 15 volte (effetto sinergico).
- Eccessiva esposizione ai raggi solari: causa la comparsa del carcinoma alle labbra,
in particolare a livello del labbro inferiore.
- Infezione da HPV (16 e 18).
- Scarsa igiene orale.
- Traumatismi cronici della mucosa (in caso di impianti dentali mal eseguiti, che
traumatizzano continuamente la mucosa orale e causano infiammazione cronica).
Un test di screening per l’individuazione precoce di un carcinoma orale è il cosiddetto ORAL
BRUSHING, test citologico utile prima di un eventuale biopsia o per l’analisi di cute lesionata
su cui si osservano possibili lesioni precancerose.
Il carcinoma del cavo orale, infatti, può svilupparsi sia da mucosa apparentemente sana che
da lesioni precancerose.
Le principali lesioni precancerose che portano allo sviluppo del tumore maligno alla bocca
sono la leucoplachia, l’eritroplasia (o eritroplachia), la cheilite attinica ed il lichen planus.
- Per leucoplachia si intende la presenza di una placca bianca sulla superficie della
mucosa che non è secondaria a nessun processo patologico.
La diagnosi di leucoplachia infatti viene posta per esclusione di altre lesioni similari
(candidosi, lichen planus, leucoedema, ecc.). La maggior parte delle lesioni si
osserva in pazienti anziani forti fumatori, masticatori di tabacco e bevitori.
La leucoplachia ha un aspetto prevalentemente bianco perché l'aumento dello strato
di cheratina maschera il colorito roseo dei vasi presenti nella sottostante lamina
propria. Quando la lesione assume un colore misto (bianco e rosso) prende il nome
di leucoeritroplachia.
Distinguiamo tre forme cliniche principali di leucoplachia:
1. la forma piana presenta una superficie piana e regolare,
2. la forma verrucosa con superficie irregolare con propaggini bianche,
3. la forma fissurata è caratterizzata da aree bianche alternate ad aree rosse (in
questi casi la biopsia può evidenziare vari gradi di displasia o un carcinoma in
situ o invasivo)
Può essere rimossa attraverso un intervento di escissione (tuttavia se è dovuta a
traumatismo cronico basta rimuovere la causa del traumatismo e la lesione
regredisce spontaneamente).
Il rischio di trasformazione neoplastica della leucoplachia è intorno al 70% e la
lesione tende frequentemente a recidivare.
- L’eritroplasia (o eritroplchia) consiste nella presenza di un’area rossa della mucosa
orale che non è secondaria a nessun processo patologico.
La diagnosi di eritroplasia infatti viene posta per esclusione di altre lesioni similari
(rossore da trauma, rossore da fenomeni infettivi, rossore da fenomeni infiammatori,
ecc.).
La maggior parte delle lesioni si osserva in pazienti anziani forti fumatori, masticatori
di tabacco e bevitori e si presenta come aree rosse dai contorni indistinti e dalla
superficie vellutata. La lesione eritroplasica risulta soffice alla palpazione e diventa di
consistenza dura solo se si sviluppa un carcinoma invasivo.
- La cheilite attinica è una forma di cheratosi attinica che si sviluppa sul labbro
inferiore. Essa si sviluppa in seguito ad una sovraesposizione ai raggi UV, ed è
caratterizzata dalla comparsa di un’area di ipercheratosi (area squamosa biancastra
di consistenza aumentata).
- Il lichen planus è una patologia infiammatoria cronica a patogenesi
immuno-mediata che interessa cute e mucose e si manifesta come striature bianche
estese a gran parte della mucosa orale.
La possibilità di trasformazione maligna del lichen è solo del 3%, per cui solitamente
la lesione non viene asportata, ma solo tenuta sotto controllo.
CLINICA:
Nei primissimi stadi di malattia, il tumore sarà totalmente asintomatico a causa delle sue
piccole dimensioni.
Quando il carcinoma si fa più grande possono comparire diversi sintomi e segni:
- Presenza di tumefazione o ulcerazione all’interno della bocca
- Fetor necrotico
- Disfagia
- Motilità preternaturale dei denti, o caduta di elementi dentali
- Dolore nella sede tumorale (quando vengono infiltrate le branche nervose)
- Parestesie e disestesie (causate da infiltrazione delle branche del trigemino da parte
della massa neoplastica)
- Sintomi funzionali (infiltrazione gengivale, fratture, infiltrazione muscolare del
muscolo massetere con difficoltà alla masticazione e alla fonazione)
- Perdite di sangue dalla bocca
- Astenia, anoressia e febbricola
La classificazione clinica dei carcinomi del cavo orale conta:
1. carcinoma squamocellulare, il più frequente
2. tumore mesenchimale
3. tumori ghiandolari (carcinoma adenoideocistico), caratterizzato da una prognosi
grave (spesso infiltra le strutture nervose)
Che si presentano fondamentalmente in 3 forme:
1. forma ulcerata: lesione crateriforme che tende a sanguinare
2. forma vegetante: con aspetto esofitico papillare o a “cavolfiore”
3. forma infiltrante: con tendenza ad infiltrare i tessuti sottostanti
DIAGNOSI:
Il sospetto diagnostico di carcinoma del cavo orale si pone attraverso l’esame ispettivo della
cavità orale stessa.
La conferma si può avere solo su un reperto istologico prelevato attraverso biopsia, che sarà
di tipo escissionale per le lesioni più piccole e di tipo incisionale per le lesioni più grandi.
La biopsia è sempre seguita da test genetici per individuare tutte le situazioni in cui
chemioterapici di nuova generazione possono essere considerati nella terapia adiuvante, o,
se il tumore si rivela particolarmente aggressivo porre indicazione per una resezione con
ampi margini.
Saranno necessari anche esami di diagnostica per immagini (TC, RM e PET) per
evidenziare la presenza di metastasi linfonodali o a distanza e stabilire lo stadio della
neoplasia.
Anche se il carcinoma del cavo orale è molto più semplice da diagnosticare rispetto agli altri
tipi di tumore (perché risulta visibile palpabile anche agli stadi precoci), nel 70% dei casi è
presente un ritardo diagnostico che porta i pazienti ad avere una diagnosi quando il tumore
è già al III o IV stadio, che quindi li porta ad essere sottoposti sucessivamente a gravi
mutilazioni chirurgiche o a morte (la sopravvivenza a 5 anni della malattia in stadio IV è del
5%).
Se invece la malattia viene diagnosticata precocemente la mortalità si riduce quasi a zero (la
sopravvivenza a 5 anni della malattia in stadio I è superiore al 90%).
Una delle principali cause del ritardo diagnostico è la negligenza del paziente che
sottovaluta la presenza di lesioni all’interno del cavo orale, in particolar modo se non
causano dolore (probabilmente il paziente pensa solo che sia solo una brutta afte o una
lesione da traumatismo cronico).
TERAPIA:
Il trattamento del carcinoma del cavo orale dipende dalla sede e dallo stadio della neoplasia
e dallo stato di salute del paziente (performance status).
Il gold standard per il trattamento del carcinoma del cavo orale è l’asportazione tramite
intervento chirurgico, seguita da cicli di chemioterapia e radioterapia (al fine di eliminare i
residui tumorali).
Quando sono presenti metastasi linfonodali (oppure quando è presente anche solo un
rischio superiore al 20% di avere metastasi linfonodali) è necessario praticare uno
svuotamento linfonodale dei linfonodi cervicali.
Quando l’intervento chirurgico è controindicato (stadio troppo avanzato o paziente con
scarso performace status) il trattamento avviene attraverso radioterapia neoadiuvante o
brachiterapia.

ALTRI TUMORI
TUMORI BENIGNI: mioma, lipoma, adenoma
TUMORI MALIGNI:
SARCOMI
I sarcomi sono tumori maligni rari che originano nei tessuti connettivi e possono quindi
interessare muscoli, ossa, cartilagine, tendini, strati profondi della pelle, vasi sanguigni e
tessuto adiposo. Li possiamo distinguere in 3 macro-categorie:
1. Sarcomi ossei
2. Sarcomi dei tessuti molli (osteosarcomi, miosarcomi)
3. Tumori stromali gastrointestinali
L’osteosarcoma origina dai precursori degli osteoblasti, che non riescono ad evolvere in
cellula matura e rimangono bloccate ad uno stato immaturo e precanceroso.
Si manifesta generalmente nel periodo di massima crescita dell’osso e per questo colpisce
le parti terminali delle ossa lunghe (femore, ossa del braccio), ma non sono escluse altre
sedi come ginocchio, bacino, spalla e mandibola (queste soprattutto negli anziani).
I sintomi sono: tumefazione, dolore e mobilità dei denti.
La diagnosi viene effettuata mediante ortopantomografia con raggi X (nel caso specifico di
mandibola e mascella), rx, tac e risonanza magnetica.
La terapia dell’osteosarcoma prevede prima l’esecuzione della chemioterapia
(chemioterapia neoadiuvante) e in seguito l’asportazione chirurgica.
Questo approccio permette il ricorso a interventi chirurgici meno demolitivi e migliora la
prognosi dei pazienti, aumentando la sopravvivenza.

CLASSIFICAZIONE TNM
La classificazione TNM dei tumori maligni è un sistema internazionale per la classificazione
delle neoplasie, a partire da cui si può ricavare lo stadio della malattia
Vengono considerati 3 parametri: T, N, M, ognuno dei quali descrive determinate
caratteristiche del tumore:
- Lettera T: indica le dimensioni del tumore primario. Il valore di questo parametro varia
da 1 (tumore piccolo) a 4 (tumore grande). La lettera T può essere affiancata dalla
sigla "is" (Tis), nel caso in cui il tumore sia in situ. Se la lettera T è seguita dalla
lettera "x" (Tx) significa che non è possibile valutare la dimensione del tumore.
- Lettera N: indica il coinvolgimento dei linfonodi che si trovano nelle vicinanze del
tumore. Il valore di questo parametro va da 0 (nessun linfonodo coinvolto) a 3 (molti
linfonodi coinvolti). Anche in questo caso, se la lettera N è seguita dalla lettera "x"
(Nx) significa che non è possibile determinare la quantità di linfonodi coinvolti.
- Lettera M: indica la presenza di metastasi. Può assumere valore 0 (nessuna
metastasi) o valore 1 (presenza di metastasi).

LINFONODI DEL COLLO


Suddivisione topografica di ROBBINS dei linfonodi del collo
- Livello I: linfonodi sottomentonieri e sottomandibolari
- Livello II: linfonodi giugulari superiori
- Livello III: linfonodi giugulari medi
- Livello IV: linfonodi giugulari inferiori
- Livello V: linfonodi spinali e cervicali trasversi
- Livello VI: linfonodi del comparto centrale
- Livello VII: linfonodi del mediastino superiore
Altri gruppi linfonodali: suboccipitali, retro- e parafaringei, buccinatori o facciali, peri- e
intraparotidei.

MALOCCLUSIONI
Il termine “occlusione” si riferisce letteralmente ai contatti tra i denti delle arcate antagoniste
sia in una posizione statica che dinamica.
La “gnatologia” studia gli organi o apparati collegati all'occlusione dentaria.
L’occlusione dentale è guidata dall’articolazione temporo-mandibolare (ATM), tra il condilo
mandibolare (che si trova al termine del processo condiloideo della mandibola) e la cavità
glenoidea dell’osso temporale. Tra i due capi ossei dell’articolazione è interposto un disco
fibro-cartilagineo (menisco).
I movimenti di occlusione vengono effettuati dai denti dell’arcata inferiore (in quanto la
mandibola è mobile, mentre l’osso mascellare è fisso), e sono:
- Movimento centrico (o movimento in centrica): è il normale movimento di apertura e
chiusura permesso della bocca.
- Movimento protrusivo (o movimento in protrusiva): è il movimento di spinta in avanti
della mandibola, guidato dai denti incisivi. Questo viene eseguito durante la
deglutizione della saliva. Gli incisivi, in condizioni fisiologiche, entrano in contatto
solo quando c’è questo tipo di movimento, mentre non entrano in contatto nei
movimenti di lateralità, nei movimenti in centrica o quando la bocca è chiusa.
- Movimento di lateralità (o movimento eccentrico): i movimenti di lateralità destra e
sinistra sono guidati dai canini, infatti si parla di guida canina. In condizioni
fisiologiche durante i movimenti di lateralità i canini scorrono gli uni sugli altri senza
interferenze. In condizioni non fisiologiche invece il primo premolare è “troppo
addossato” al canino, per cui durante i movimenti di lateralità il canino sbatte sul
premolare (si parla di trauma occlusale). Se il trauma occlusale è cronico porta alla
degenerazione dell’osso alveolare con conseguente retrazione gengivale (detta
recessione gengivale) che porta all’ esposizione della radice del premolare.
Si parla di “malocclusione” dentale quando i denti dell'arcata superiore non sono
perfettamente allineati con quelli dell'arcata inferiore. In altri termini, la malocclusione
dentale è un anomalo rapporto tra i denti della mascella e quelli della mandibola.
La presenza di malocclusioni può causare problemi di varia natura:
- Funzionali (disturbi della fonazione, della masticazione, della deglutizione o della
respirazione).
- Odontoiatrici (i denti disallineati possono portare a un aumentato rischio di carie e
malattia parodontale).
- Articolari (disturbi dell’articolazione temporo-mandibolare).
- Estetico/sociali.
EZIOLOGIA:
La causa più comune è la presenza di precontatti dentali, altre cause più rare sono tumori,
fratture della mandibola e bruxismo.
CLINICA:
La classificazione della malocclusione più utilizzata è la classificazione di Angle.
Questa classificazione è basata sulla posizione della cuspide mesio-vestibolare del primo
molare superiore rispetto al solco mesio-vestibolare del primo molare inferiore:
- Occlusione fisiologica: la cuspide mesio-vestibolare del primo molare superiore è
alloggiata nel solco mesio-vestibolare del primo molare inferiore.
- Malocclusione di classe I: la cuspide mesio-vestibolare del primo molare superiore è
alloggiata nel solco mesio-vestibolare del primo molare inferiore (come
nell’occlusione fisiologica), tuttavia i denti anteriori al primo molare si presentano
storti e disallineati.
- Malocclusione di classe II: la cuspide mesio-vestibolare del primo molare superiore è
alloggiata anteriormente al solco mesio-vestibolare del primo molare inferiore.
Questa malocclusione si associa prognatismo.
- Malocclusione di classe III: la cuspide mesio-vestibolare del primo molare superiore
è alloggiata posteriormente al solco mesio-vestibolare del primo molare inferiore.
Questa malocclusione si associa progenismo.
DIAGNOSI E TERAPIA:
La diagnosi si avvale di CEFALOMETRIA, TELERADIOGRAFIA, TC e gipsometria (calco).
Il trattamento ortodontico-chirurgico si svolge in 3 fasi:
1. La prima fase è definita ortodonzia prechirurgica e dura, a seconda della complessità
del caso, da 6 a 18 mesi in cui si utilizza un apparecchio ortodontico fisso vestibolare
o linguale.
2. La seconda fase è rappresentata dall’intervento chirurgico effettuato dal chirurgo
maxillo-facciale al termine dell’ortodonzia prechirurgica. Durante l’intervento, detto di
chirurgia ortognatica, il chirurgo riposiziona, con un intervento di osteotomia, una o
entrambe le ossa mascellari (mandibola e mascellare superiore) determinando il
raggiungimento di una buona occlusione dentaria e di un’equilibrata estetica facciale.
3. A questo punto rientra in gioco l’ortodontista che può iniziare, di solito un mese dopo
l’intervento chirurgico, la terza ed ultima fase del trattamento, definita ortodonzia
postchirurgica, che ha lo scopo di perfezionare i rapporti occlusali tra le due arcate
dentali e che ha una durata media di circa 6 mesi

I PRECONTATTI DENTALI sono aree di contatto prematuro che si realizza mantenendo la


mandibola in posizione di occlusione abituale.
Le principali cause di precontatto dentale sono: disodontiasi dell’ottavo dente, estrazioni
dentali, otturazioni mal realizzate e protesi mal realizzate.
La presenza di precontatto causa interferenza nei movimenti mandibolari, in particolare nei
movimenti di lateralità e protrusione.
Il trattamento del precontatto si effettua attraverso una procedura che prende il nome di
molaggio selettivo, che consiste nell’andare appunto a molare la porzione di dente che
causa il precontatto attraverso una fresa diamantata fine. Per sapere quale porzione di
dente andare a molare l’odontoiatra utilizza delle cartine coloratrici (carta di articolazione)
che vengono fatte tenere tra i denti al paziente, e non appena rimosse rilasciano il colorante
sui punti di maggiore contatto. Il punto che si andrà a colorare maggiormente sarà quindi
quello del precontatto, per cui il dentista saprà dove andare a limare.
Il bite è una protesi rimovibile creata su misura per il paziente che di norma ricopre l’arcata
dentaria inferiore, e che quando viene applicato (generalmente durante la notte) permette di
eliminare i precontatti e di rilassare la muscolatura masticatoria. La principale indicazione
per l’utilizzo del bite è uno squilibrio importante del tono muscolare dei masseteri (un
massetere più ipertrofico dell’altro). Paradossalmente i muscoli masticatori si riposano
quando mangiamo, mentre entrano sotto stress quando l’articolazione rimane ferma, in
particolare se sono presenti malocclusioni.
Esistono anche dei bite di riposizionamento condilare, che vengono utilizzati quando a
causa della malocclusione si è avuto uno spostamento in avanti dei condili mandibolari.
Con PATOLOGIA DELL’ATM (o disfunzione dell’ATM) ci si riferisce all’artropatia
temporo-mandibolare: una malattia che comporta una limitazione della funzione
dell’articolazione con riduzione dell'apertura della bocca e dolore.
Ha cause molto variegate: difetti congeniti, patologie degenerative (conseguenti ad esempio
a lussazioni ripetute), traumi, tumori, ecc. Questa patologia è strettamente legata alla
malocclusione, perché una scorretta chiusura della bocca sarà necessariamente associata
ad una scorretta postura dei condili mandibolari.
Una disfunzione dell’ATM (a cui può essere associata una malocclusione) può essere
causata da una sindrome ascendente (squilibrio posturale dove la causa si trova al di sotto
del baricentro del soggetto) o può essere causa di una sindrome discendente (squilibrio
posturale dove la causa si trova al di sopra del baricentro del soggetto).
Sia la sindrome ascendente che discendente sono associate allo stesso tipo di sintomi
(cervicalgia, lombalgia, fastidio all’ATM), che sono causati dal tentativo di compenso
posturale dell’organismo, il quale crea delle tensioni muscolari per mantenere la postura
corretta: le tensioni muscolari si associano a dolore e fastidio.
Spessissimo le sindromi ascendente e discendente si combinano a formare sindromi miste.
I sintomi tipici della patologia dell’ATM sono il dolore e la presenza di rumori durante i
movimenti mandibolari, causati dalle continue sub-lussazioni dell’articolazione, che alla
lunga portano alla degenerazione del condilo mandibolare, che essendo rivestito da molta
cartilagine risulta essere “morbido” (mentre la cavità glenoidea non degenera perché più
resistente del condilo).
Oltretutto la degenerazione condilare, oltre ad essere dovuta a cause meccaniche, è favorita
dal fatto che la cartilagine condilare è nutrita da un’arteriola proveniente dall’osso temporale.
Man mano che l’articolazione si consuma quest’arteriola sarà in grado di fornire sempre
meno sangue, per cui la cartilagine sarà sempre meno nutrita e degenererà più facilmente.
La patologia dell’ATM essendo su base degenerativa non può essere guarita. Il trattamento
infatti permette esclusivamente di bloccarne la progressione.
Il BRUXISMO consiste nel digrignamento dei denti (che ne causa lo stridore), dovuto alla
contrazione della muscolatura masticatoria, soprattutto durante il sonno. Il digrignamento
perdura per 5-10 secondi e, durante la notte, può ripetersi varie volte.
I fattori eziologici del fenomeno non sono noti: in alcuni casi si è notata una predisposizione
familiare, talvolta si è fatto riferimento a malformazioni mandibolari o a problemi d'occlusione
dentaria.
Generalmente al risveglio la persona non avverte nessun disturbo tranne nei casi di
bruxismo intenso in cui si rileva dolore all'articolazione temporo-mandibolare (associato a
cefalea). Il digrignamento può creare dei danni a lungo termine a causa dell'usura della
superficie masticatoria dei denti sia dell'arcata superiore sia di quella inferiore,
assottigliamento dello smalto che predispone ad ipersensibilità dentinale, carie e fratture
dentali. La diagnosi è clinica, ed il trattamento consiste nell’uso del bite.

OSTEONECROSI DEL MASCELLARE


L'osteonecrosi della mandibola è una lesione orale che coinvolge l'osso mandibolare o
mascellare scoperto. Essa può causare dolore o può essere asintomatica. La diagnosi viene
fornita grazie alla presenza dell'osso esposto per almeno 8 settimane. Il trattamento consiste
in sbrigliamento limitato, antibiotici e sciacqui orali.
può avvenire spontaneamente o dopo estrazioni dentarie o traumi, alte dosi di terapia con
bifosfonati EV, o alte dosi di denosumab 120 mg sottocute 1 volta/mese (ad es. per il
trattamento del cancro).
L'osteonecrosi della mandibola potrebbe essere un osteomielite refrattaria piuttosto che una
vera osteonecrosi, in particolare quando è associata all'uso di bifosfonati.
Può essere asintomatica per lunghi periodi e i sintomi si tendono a manifestare nelle fasi
successive:
- dolore
- scarico purulento (dall'osso esposto nella mandibola o, molto meno spesso, dalla
mascella)
- fistole intraorali o extraorali
Il trattamento dell'osteonecrosi della mandibola in genere comporta sbrigliamento limitato,
antibiotici e sciacqui orali antibatterici. La resezione chirurgica della zona interessata
potrebbe peggiorare la condizione per cui non è il trattamento iniziale di scelta.

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