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14/10/2016

Descrizione del corso:

Il corso intende approfondire come, attraverso la costruzione di una relazione autentica, si può
giungere ad un benessere integrale della persona e ad un suo sviluppo psicologico armonico. La
sfera psicologica relazionale, coniugandosi con la sfera emotiva, può facilitare “l’atto di cura” verso
l’altro. In ambito evolutivo, attraverso una graduale formazione alla cura dell’altro, si può favorire
un’inclinazione specifica dell’essere umano allo sviluppo di un comportamento empatico. In
particolare, mediante l’individuazione di processi interpersonali, si può promuovere la cura delle
relazioni come area attraverso la quale sperimentare l’accoglienza e l’ascolto, imparando ad
assumersi la responsabilità di relazioni interpersonali attente ad ogni persona.

Dopo una breve presentazione in aula la prof ci ha proposto di fare un esercizio relazionale per
conoscerci meglio e per mettere in moto alcune dinamiche che molti di noi tengono a bada e le
fanno agire solo in relazioni protette. La prof ha reputato che qui si possa fare, in quanto siamo un
numero esiguo di persone e in un ambiente protetto, ovviamente tutto nella libertà.

Quindi la lezione è consistita nell’affrontare questo esercizio, nel quale ognuno, osservando la
comunicazione e la relazione tra 2 persone di turno, poteva esprimere che cosa il loro modo di
relazionarsi trasmettesse.

21/10/2016

La prof chiede a chi era presente nella prima lezione di tirar fuori non il riassunto dell’esperienza
vissuta, ma la propria esperienza soggettiva nell’aver vissuto come spettatore a tale esercizio.

Una compagna dice che nell’esercizio di relazione tra le 2 coppie di persone ha notato che non si
conoscono veramente e che cercavano nell’altro ciò che manca a sé stessi; inoltre dice che
spesso si parla usando le buone maniere piuttosto che l’autenticità reale.

Un’altra compagna, che è stata protagonista dell’esercizio, risponde che si è sentita un po’ in
imbarazzo al momento in cui è andata a posizionarsi davanti agli altri, proprio perché non sapeva
che tipo di attività avremmo fatto e quali domande sarebbero state poste.

La prof chiede a questa compagna che senso ha per lei stare in questa posizione un po’ sulla
difensiva. Risponde che lo stare così, a braccia conserte, per lei è un possedere qualcosa e volerlo
custodire, come quando lei prega lo fa a braccia conserte perché per lei è un custodire il suo
rapporto con Dio. Lei ci ha comunicato il perché sta nella posizione a braccia conserte e questo è
un esempio di come in una relazione non dobbiamo dare mai una lettura nostra di un
comportamento. Quando entriamo in una relazione dobbiamo lasciarci dietro griglie interpretative e
meccanismi vari, perché questo crea un disagio di comunicazione e dunque di relazione.

La nostra identità si forma attraverso una serie di vissuti esperienziali che si sviluppano dalla vita
intrauterina fino alla morte, non è che nasciamo in un modo e così moriamo, abbiamo la capacità
di crescere e questo avviene solo grazie alle relazioni, anche se spesso inconsapevolmente,
quotidianamente. Pure se un giorno stiamo da soli tutto il giorno in uno spazio, in realtà siamo
sempre in relazione mentalmente con qualcun altro e questa è una cosa molto potente che ci fa
trovare la modalità migliore per noi stessi di poter nella relazione tornare indietro e cambiare
atteggiamento e questo avviene in maniera inconsapevole.
Se c’è un monitoraggio di noi stessi l’esercizio nelle relazioni ci fa seguire meno la parte istintuale
e più quella educata, cioè che sa cogliere quello che appartiene all’altro, tra me e il quale c’è un
confine spaziale e corporeo che anche definisce la relazione.

Una compagna di classe dice che lei pone in atto il giudizio verso gli altri attraverso la sua griglia
interpretativa per tutelarsi, perché non vuole soffrire, per difendersi; ma comunque nonostante ciò
non si preclude di porre in atto le relazioni. La prof dice che questo significa aver consapevolezza
e buona conoscenza di sé stessi. Se la relazione ha la capacità di strutturarsi autenticamente
possiamo prendere l’altro per quello che è ed entrarci in relazione per quello che è senza avere la
mira di cambiarlo.

L’altra volta durante l’esercizio era emersa la non corrispondenza tra l’aspetto verbale e il non
verbale quasi consapevole alle volte. La manifestazione dell’aspetto non verbale è quella più
autentica, in quanto meno sotto controllo, e noi dobbiamo saperla leggere. La prof notava
nell’esercizio a due che quando uno ha detto dell’altra una cosa intima, l’altra ha cambiato
completamente posizione e questo è espressione di un cambio di scena interiore della compagna.
Inoltre nell’altra coppia ha notato in una compagna una posizione di autoprotezione, come lei
stessa ha detto prima.

Questo esercizio è stato fatto per darci un’idea di cosa avviene nelle relazioni.

A livello ontologico l’essere umano è imperfezione e deve farci i conti di continuo. Nelle relazioni
noi diamo il meglio di noi stessi a casa perché conoscendo bene i familiari entri in relazione in
maniera autentica, perché sai che l’altro ti prende per come sei realmente.

28/10/2016

La prof chiede ai compagni che hanno partecipato all’esercizio di relazione iniziale di riepilogare
cosa è stato fatto e perché (= cercare di fare esperienza di cosa sia metterci in relazione).
Abbiamo notato che in una situazione di esposizione, stimolata da terzi, è più difficoltoso entrare in
relazione.

Questo è stato fatto per introdurre il concetto di relazione. Una filosofa che la prof ama è Stein, che
lavora su cos’è una relazione, come ci si introduce e cosa è essenziale in una relazione.

Quello che alla prof piace molto di Stein e che utilizza come fonte per portarla a una visione più
psicologica è l’approccio olistico, cioè integro che ha guardando la persona umana. Quindi noi
quando entriamo in relazione con qualcuno non lo facciamo solo con la nostra coscienza e psiche
ma anche con la nostra anima (che Stein individua come il nucleo centrale dell’individuo, che ci
muove verso l’altro), da un punto di vista psicologico il movente emotivo che ci porta verso l’altro,
inoltre noi entriamo in relazione anche corporalmente e per la Stein è importante questo: il corpo
non è un accessorio con una sottocultura rispetto a psiche e anima, invece ne ha la stessa
legittimità, il corpo è definito da Stein come di un corpo compenetrato dall’anima, i quali non sono
divisibili, dobbiamo averne una visione simbiotica i termini psicologici. A livello relazionale è
interessante infatti vedere che il corpo è il luogo dove si vive la relazione e tuttavia noi abbiamo
spesso molta difficoltà a entrare in relazione con l’altro con la nostra corporeità.

La prof ha bisogno di altri 2 volontari. Si offrono due studenti ai quali chiede di fare uno sforzo per
superare le barriere di imbarazzo nel trovarsi l’uno di fronte all’altro, poi li invita a osservarsi e a
pensare e mettere in atto un modo che gli garba per poter entrare in relazione l’uno con l’altro con
la propria corporeità (non solo i gesti ma anche ad esempio uno sguardo ecc). La prima compagna
lo fa facendo un sorriso, l’altro lo fa pure con il sorriso, ma anche guardandola negli occhi ed
esprimendo verbalmente alla classe che lui spesso si approccia all’altro anche con abbracci e gesti
fisici. Dunque siccome tra i due c’è conoscenza lui a volte si accosta anche per abbracciare lei, ma
lei è più chiusa caratterialmente, mette subito in chiaro che non si fa toccare.

Questo ci dà il senso che noi siamo una costruzione: la compagna è così perché negli anni ha
costruito una sua casa, è fatta di emozioni, che passano anche attraverso una corporeità che lei
gestisce come desidera. Quando capita che l’altro invade un’area corporea a lei dà fastidio e si
chiude. Se uno è stato invaso, sia fisicamente che non, delimita subito dei confini. Oppure c’è stato
un buon contenimento evolutivo, ossia una giusta misura tra un’espressione affettiva che si
sposava con un suo bisogno di essere accolta con la sua fisicità, e questo le ha permesso di
crescere in armonia tra quello che percepisce buono per sé e il come l’altro sta entrando in
relazione con lei. Può capitare viceversa che l’altro sia visto sempre in termini minacciosi. Ci sono
persone che vivono sempre nella relazione con l’altro una sorta di minaccia e assumono dei tratti
corporei molto difensivi.

Ci sono emozioni che vengono espresse in modo universale, come la gioia, la paura, l’angoscia
ecc… poi ci sono emozioni secondarie che sono estremamente soggettive e qui entra in gioco la
capacità di entrare in relazione con l’altro con tutto il nostro bagaglio; invece spesso noi lo
facciamo col freno tirato e allentiamo il pedale gradualmente quando iniziamo a voler decifrare
quello che l’altro ci sta mandando, la domanda sottostante alla relazione che si sta vivendo.

La comunicazione è il modo che ho di entrare in relazione, come i 2 ragazzi han fatto nell’esercizio
oltre che con gli sguardi anche con la parola, pure se con molta difficoltà. Se noi osserviamo 2
bambini sono molto potenti nella relazione corporea, hanno l’immediatezza di entrare in relazione
col corpo. Quando un bimbo si tiene a distanza, mantiene un confine, uno specialista deve iniziare
a osservarlo, chiedendosi perché utilizza il suo corpo diversamente da quello che è il normale iter
evolutivo.

Crescendo però questo accesso alla corporeità tendiamo a metterlo in 2° piano, lo accantoniamo.
Ma noi siamo corpo, e questo è importantissimo per la relazione, il corpo è il luogo dove viviamo
l’esperienza di noi stessi, non possiamo dividere il nostro essere corpo dal nostro essere soggetto
pensante.

Tornando al discorso della Stein alla prof piace molto ciò che lei sottolinea, cioè la capacità
dell’individuo di entrare in relazione attraverso 2 modalità: l’esperienza di sé medesimi,
importantissimo perché significa che si è in contatto con sé stessi nell’esperienza che si sta
vivendo (es la studentessa che ha fatto capire nell’esercizio com’è fatta lei e il confine che pone
verso l’altro); l’altra modalità è fare esperienza dell’altro, che vuol dire entrare nell’ottica empatica,
capendolo, rendendosi conto che è altro da me, non sono io. Sono due modalità che mi aiutano a
entrare in relazione con l’altro. Molto spesso invece noi utilizziamo l’una oppure l’altra, poche volte
le usiamo entrambe ma è proprio quando facciamo ciò creiamo una piattaforma comunicativa.

L’esercizio è servito a mostrare a chi osservava che ci sono modalità infinite di entrare in relazione
perché siamo infiniti con la nostra soggettività. Bisogna comprendere che la relazione è basata su
un incontro di diversità molto complesse, non si può pensare di entrare in relazione sempre in
maniera facile. Lo è se c’è un gioco minore di complessità, invece se la relazione è più articolata
avremo un’esperienza di noi e dell’altro molto più complessa, che non vuol dire solo difficoltà, ma
anche arricchimento. Uno di motivi per cui vedremo che c’è più difficoltà nella relazione è che noi
ci spaventiamo di quello che non conosciamo. Entriamo in allerta relazionale quando arriva una
situazione nuova o che ci destabilizza, ponendoci sulla difensiva o entrando nella relazione a
gamba tesa. Dunque è buono educarsi prima di tutto a relazionarci a noi stessi.
4/11/2016

L’altra volta abbiamo parlato dell’importanza della corporeità, della valenza della sfera corporea
nella relazione. Abbiamo introdotto la Stein come autrice perché la prof, pur venendo da un ambito
psicologico mentre Stein è una filosofa, l’ha trovata interessante da punto di vista antropologico
cioè nel come lei affronta il problema relazionale introducendo il valore dell’empatia (non nel senso
del semplice immedesimarsi nei panni dell’altro), che cosa essa sia dal punto di vista ontologico,
come attraverso essa costruisco la relazione con l’altro. Stein è molto essenziale nel tradurre il
concetto relazionale in un concetto di comprensione della dialogicità tra un essere e l’altro in
termini di comprensione di una realtà multiforme. Stein sottolinea l’aspetto variegato in questo
incontro dove la relazione si fonda prima di tutto nell’essere uno di fronte e all’altro e si forma
quando l’altro ce l’ho davanti nella corporeità. Oggi i giovani hanno relazioni digitali, non fatte di
incontri corporei e questo è un problema. La prof lavorando anche con i giovani nota che aldilà di
una pasta che ancora si sta forgiando (imbarazzo, difficoltà di stare con il proprio corpo, di
chiedere attenzione ecc, tutte le dinamiche adolescenziali e infantili) c’è la difficoltà, l’indifferenza
di stare nella relazione, del sentirsi, della propria esperienzialità, sia con loro stessi che con la prof
che è altro da loro. Dunque tutto quello che vive un adolescente nella relazione viene mediato da
molte cose: il telefonino, i social network ecc. Dobbiamo riflettere su cosa vuol dire crescere in una
società come oggi, dove questi apparecchi digitali sono parte integrante dei ragazzini.

La Stein parla del modo di entrare in relazione con l’altro attraverso la propria corporeità, dove io
faccio esperienza sia di me che dell’altro in una piattaforma comune. La prof ci ha segnalato
sull’ordo un libro importante di Massimo Recalcati, psicanalista che sottolinea come da un punto di
vista psicologico noi attraverso la griglia materna e paterna creiamo il nostro senso identitario, la
percezione della nostra identità.

La tecnologia comporta un’alterazione dal punto di vista relazionale, lo possiamo osservare, il


ragazzino non può capirlo, perché gli è connaturale, è nato così. Inoltre il ragazzo di oggi è
bombardato da immagini veloci, i film americani sono stati studiati per bombardare
psicologicamente i ragazzi.

La cosa che più ha voluto approfondire la prof è accostare personaggi come Stein, Buber e
Levinas (filosofi) all’aspetto psicologico, quindi mettere in dialogo tra loro la parte filosofica
esistenziale con quella psicologica e ha trovato dei punti di contatto, motivo per cui ha deciso di
fare questo corso. La prof si è chiesta: l’identità come si forma? Lei può rispondere dal punto di
vista psicologico in linee generali, perché poi ognuno ha una sua storia unica dunque non ci sono
dei criteri unici e oggettivi, e qui l’ha illuminata molto Recalcati che è uno psicanalista che rilegge la
teoria di Lacan, psichiatra e filosofo francese, il quale ha rivisto e corretto la teoria freudiana.
Premesso che Lacan non è un autore facile, anzi essenzialmente criptico e ambiguo, noi abbiamo
la fortuna di avere Recalcati che ci aiuta a renderlo più fluibile e proprio Recalcati ha illuminato la
prof quando parla del desiderio, cioè la capacità di far nascere e custodire il desiderio nella
costruzione di un’identità. Molto spesso quello che notiamo oggi da un punto di vista psicologico è
che l’adolescente ha un vuoto del desiderio tant’è che dal punto di vista clinico il sintomo più
denunciato in terapia è la depressione, che prima invece avveniva dopo i 50 anni. Questo
sociologicamente ci fa riflettere su cosa sta succedendo a livello sociale. Recalcati nota che c’è un
cambio della sintomatologia, c’è difficoltà per i giovani nell’individuare la propria vocazione,
desiderio, ciò che uno può perseguire nella propria vita che psicologicamente corrisponde alla
propria identità, al proprio sentirsi (ecco la Stein).

Facciamo un passo indietro: il titolo del corso inizia con la frase “educare alla relazione” perché
oggi si fa fatica a curare la relazione in tutti gli ambiti, non solo dal punto di vista psicologico. Chi
non lavora nella scuola comunque può notare che c’è un cambiamento nell’approccio umano,
questa diversità la cogliamo dal punto di vista psicologico soprattutto nella relazione coi bambini,
c’è un’incapacità di creare quella cura, quell’attenzione nel mettere i puntini sulle “i”, la cura del
particolare. Oggi siamo in una cultura che non ama riconoscere, chiamare e identificare per nome
le cose e metterci attenzione, ognuno pensi a propria vita, c’è un’incuria anche nelle relazioni.

La prof dice che a livello terapeutico per riuscire a entrare in relazione si deve fermare 10 volte,
mettere da parte le sue griglie automatiche che le appartengono, per imparare nella singola
relazione a capire quello che uno dice, il perché l’altro non mette cura, perché ha difficoltà a
intraprendere un certo tipo di cammino nella relazione.

Questo senso del desiderio di cui parla Recalcati ha interrogato la prof sul concetto di empatia di
Stein, cioè lei ha messo in relazione l’empatia osservata da Stein e il desiderio di Recalcati. Un
punto su cui lei ha messo in dialogo questi due punti di vista diversi, filosofico e psicologico, è il
concetto di cura; cosa vuol dire avere cura? In psicologia è il concetto della cura materna. Noi
nasciamo all’interno della relazione, siamo un essere dentro un altro essere. Siamo frutto di una
relazione sin dall’inizio, nessuno nasce sotto il cavolo, ma tutti da un utero. Questo le ha dato il
senso di come dall’inizio la relazione è essenziale, perché noi siamo ontologicamente esseri in
relazione. La prima osservazione che le è venuta pensando a questo corso è questa e
l’importanza della figura materna. Dal punto di vista clinico infatti la depressione post partum ha un
senso, perché c’è una scissione in cui il bimbo non è più parte di me, ma è altro da me.
Quest’essere in relazione così corporeo, fisico, di cui parla la Stein è dall’inizio, una mescolanza
dello stare uno nell’altra.

Al parto la creatura viene buttata nel mondo e dove trova, e qui ci supporta Recalcati, il 1° volto
che è altro da sé? Nella madre. Il volto materno è il mezzo con cui il neonato si rivolge poi verso il
mondo. Qui il nucleo di tutte le patologie psicotiche (schizofrenia, anoressie ecc), se manca quello
tu al mondo non ti rivolgi, c’è stata una mancanza di riconoscimento che il bambino ha nell’altro, un
volto che lo riconosca. Recalcati è molto potente parlando del desiderio, perché il desiderio per
Freud è il soddisfacimento della pulsione primaria del bisogno (il bimbo urla appena nato per
respirare, piange perché ha fame ecc), l’altro da me è quello che soddisfa i miei bisogni primari.
Questo è Freud…ma noi siamo ben altro dei bisogni primari. Quando il neonato avrà soddisfatto
tali bisogni ti chiederà altro e Recalcati dice che è il senso del riconoscimento, del desiderio.
Questo lo osserviamo quando guardiamo un bambino in un attaccamento sicuro con la madre, in
termini bowlbyani (Bowlby: psicologo che ha elaborato la teoria dell’attaccamento). Il punto
centrale è l’essere riconosciuti, essere resi unici dalla madre/figura di attaccamento, la quale deve
avere la cura per quel determinato e unico figlio, soprattutto nel caso in cui ce ne sia più di uno.
C’è uno studio psicologico sulla mania dei selfie. Da dove si sviluppa? La fase dello specchio dopo
i 18 mesi è essenziale perché il bimbo si riconosce e si autoafferma. Se questo avviene in modo
errato si sviluppa clinicamente il narcisismo e chi selfa maggiormente è chi ha sviluppato una
bisogno di doversi far riconoscere dall’altro, perché non gli è sufficiente riconoscersi da sè stesso
allo specchio. Un bisogno di un ulteriore riconoscimento da parte di un altro da me avviene perché
quello il riconoscimento che ho di me non mi dà un senso identitario, di cui però ho estrema fame.

Anche dal punto di vista della cura è importante che quando noi creiamo delle relazioni, tanto più
in ambito educativo, è importante il riconoscimento che diamo all’altro della sua unicità, del suo
essere irripetibile. Questo è il primo passo che Recalcati sottolinea.

Altra caratteristica importante nella cura relazionale è la capacità, dice lui, di essere soccorritore,
vedere chi tende le mani e porgergliele per aiutarlo. Freud diceva che il mestiere più difficile è
quello del genitore, l’essere il primo soccorritore, che prende tra le mani un essere che chiede
qualcosa, un neonato che viene alla vita con la richiesta di essere riconosciuto nella sua unicità.
Da qui la prof è partita nel discorso identitario, del “chi sono io”, come faccio a riconoscermi dal
punto di vista relazionale. Nell’esperienza relazionale della prof (la clinica, in termini terapeutici) un
elemento importante è che non si va da nessuna parte se non si crea una relazione fondata
anzitutto dall’incontro di due esseri uno di fronte all’altro, in un piano paritario, e ciò avviene
attraverso la nostra corporeità, i nostri sguardi e particolari fisici.

Parlando dell’incontro tra un neonato e sua madre, questo avviene prima della nascita, attraverso
le aspettative materne, intendendo l’immaginario di come il proprio figlio sarà (grasso, magro ecc)
che accompagnano la madre fino al parto e ciò già crea la relazione a livello mentale. Io, figura di
attaccamento, riesco a contenere nella mia mente il mio bambino, ovunque io sia. Questo esserci
crea la relazione tra me e il mio bambino. Noi tendiamo a vedere il neonato come un essere quasi
passivo perché non ha ancora sviluppato tutte sue potenzialità cognitive. Ma egli vive il mondo non
coi pensieri bensì con la sensorialità.

Per toccare il senso di responsabilità a cui prima accennavamo dobbiamo chiederci come io
ontologicamente mi faccio carico della mia identità che si mette in relazione con l’altro. In filosofia
Buber è fantastico dice che la capacità dialogica è farsi caro dell’altro, in un’etica relazionale.
Come io posso trasmettere la responsabilità nella cura della relazione? Il senso della
responsabilità è un’attitudine e come tale può essere sviluppata cercando di fornire attraverso il
mio comportamento dei criteri in cui l’altro si può orientare, un modello di me stessa nella relazione
con l’altro e questo aiuta entrambi. Dobbiamo imparare ad educarci alla cura, mettendoci come
modello per l’altro e vedere come lui reagisce, se si fa carico anche lui del senso della cura, o
devia, o ancora non legge ciò che sto facendo ecc.

Un’altra cosa per aiutare a sviluppare il senso di responsabilità nella relazione è non essere
iperprotettivi, perché ciò porta a un blocco della relazione, allora bisogna lasciare che l’altro agisca
nella sua capacità di agire, con le sue potenzialità. Ognuno, mettendo attenzione in ciò che sta
facendo, aiuta sè stesso e pure l’altro a muoversi nella sua libertà e ciò permette all’altro di farsi
carico delle sue responsabilità. Questi sono modi per aiutare l’altro a sviluppare questa etica
responsabile nella relazione.

Da genitori bisogna stare attenti perché oggi si vive con la preoccupazione di essere amati dal
proprio figlio (qualche tempo fa invece era il contrario) e se si ha la percezione che il figlio non mi
ama si entra in crisi, cercando dunque di evitargli tutte le sue frustrazioni, sennò il responsabile
della sua frustrazione risulta essere il genitore stesso che dunque non viene amato. Questo è
sbagliatissimo perché le frustrazioni ci devono essere, sono fisiologiche nel bambino. È giusto che
la sofferenza, come tutte le altre emozioni, se la viva lui nella sua unicità di essere. Se un genitore
si mette sempre in mezzo tra un malessere del bambino e il mondo, fa una mediazione sbagliata
che non permette al piccolo di farsi carico delle sue emozioni.

11/11/2016

L’altra volta abbiamo introdotto il concetto di responsabilità nella cura dell’altro, toccando alcuni
aspetti sia della Stein che di Buber, il quale guarda allo sviluppo della relazione in termini dialogici,
cioè al come l’uomo sia essenzialmente un essere in relazione. Riguardo al concetto di
responsabilità la prof si è soffermata sui vari autori e in particolare su Recalcati (di cui ci invita a
guardare qualcosa anche su youtube), che dà una visione della relazione illuminante, nel senso
che tutto il concetto di responsabilità lo associa al concetto di desiderio. Questo ha incuriosito la
prof, che tra l’altro ci invita a leggere “L’ora di lezione” in cui rende il concetto di “cosa” dovrebbe
essere un‘insegnante, approfondendo il senso di responsabilità, che cosa essa sia a livello
ontologico. Lei dice che in terapia lo psicoterapeuta spinge l’altro ad assumersi la propria
responsabilità, perché i pazienti arrivano alla seduta e chiedono che il terapeuta gli risolva il
problema, deresponsabilizzandosi. Recalcati sottolinea quanto invece la responsabilità che
ognuno di noi dovrebbe assumersi (aldilà ora del campo professionale) nella relazione sia molto
collegata al desiderio. Ma ci chiediamo: dal pdv psicologico cos’è il desiderio? Recalcati dice che è
un concetto collegato al senso della vita e quindi al concetto di maternità. Chi mi dona il senso
della vita? Chi mi fa accedere ad esso? La funzione materna, che mi permette di essere partorito
alla vita, di venire alla vita. Recalcati dice anche che la maternità non è biologica, è un dono che si
riceve, connotato non da qualcosa di fisiologico, ma che si crea nella relazione tra colui che adotta
una vita e colui che viene adottato. Ad esempio, se guardiamo al Vangelo, San Giuseppe è
l’emblema della responsabilità paterna, aldilà del legame sanguigno.

La funzione materna aiuta a umanizzare la vita che viene alla vita: cosa vuol dire questo? Quando
osserviamo un gattino allattato dalla propria “mamma” e un neonato allattato dalla propria madre
notiamo che c’è una relazione simile, ma poi succede qualcosa che li differenzia, cioè, dice
Recalcati, l’umanizzazione. Essa differenzia il mondo animale da quello umano perché il mondo
animale continua a viaggiare in modo istintuale laddove un gattino venga tolto alla propria
“mamma”, non così accade però se togliamo un bimbo a sua madre; questo è detto anche “punto
di oblio” cioè quel punto in cui la funzione materna apre la porta al figlio verso il mondo e ciò nel
mondo animale non avviene.

Recalcati dice: come avviene questa umanizzazione, questa trasmissione del senso della vita?
Oggi viviamo in una società in cui tutto è sostituibile e la società ha 2 grandi fregature: il senso del
nuovo e il senso della libertà (cioè l’idea dell’uomo di autofondarsi, senza bisogno dell’altro). Qual
è la funzione materna? È l’apertura alla vita, cioè il rendere unico e insostituibile il proprio figlio.
Quando intervistiamo una mamma con più figli, notiamo che ella comunque sottolineerà sempre la
diversità tra ognuno di essi, ognuno è insostituibile ai suoi occhi. Freud definiva la madre come
primo soccorritore del figlio, Recalcati definisce la funzione materna come il rendere unico quel
figlio nella sua unicità, dunque un processo di soggettivazione da una parte, per poi arrivare al
concetto più oggettivante, cioè il calare quell’unicità all’interno di un essere parlante, caratteristica
dell’essere umano, quella di avere la facoltà di linguaggio. Nella relazione è essenziale lo sviluppo
del linguaggio perché il linguaggio è il primo canale che si instaura tra la funzione materna e il
bambino.

Lacan diceva che prima che si arrivi allo sviluppo del canale linguistico tra adulto e bambino c’è un
vuoto, una vulnerabilità del bambino. È capitato alla prof che molti genitori lamentino che il bimbo
non dorme ancora in camera sua a 3-4 anni. In una situazione del genere ci sono passaggi che si
fanno col genitore per capire dov’ è la dipendenza di quel bimbo.

La funzione materna è quella che mi apre al mondo attraverso il canale del linguaggio, cioè quella
che mi sta riconoscendo. C’è un punto che viene descritto da chi partorisce, cioè quando il bimbo
viene alla luce: la madre vive con spaesamento l’uscita del bimbo dal buio alla luce, quasi come se
si sentisse abbandonata, tant’è che i disturbi post-partum insorgono quando questo passaggio non
viene vissuto in maniera serena. Effettivamente dal pdv relazionale c’è una rottura, il bambino
deve staccarsi dalla madre, prima respira attraverso di essa ora deve respirare coi suoi polmoni.

Recalcati dice che il desiderio è anzitutto un’esperienza, che noi sperimentiamo nella nostra mente
e attraverso la nostra corporeità. Un esempio che Recalcati utilizza è quello del figliol prodigo che
viene riaccolto dal padre dopo aver avuto bisogno di andare a trovare il suo desiderio; quel figlio
sentendosi smarrito torna al padre, riconquistando il senso di responsabilità verso sé stesso (dal
mangiare cose dei porci torna al prendersi la responsabilità di ritornare alla propria eredità
paterna). Questo è il percorso che dovrebbe fare qualsiasi adolescente: per individuarsi deve fare
un suo percorso di prove ed errori (e qui i genitori invece fanno danni per parare tutti i colpi
evitando al figlio le cadute necessarie), perde la sua vita e poi quando si assume la responsabilità
del proprio errare ritorna e conquista la sua eredità psicologica, che gli ha dato suo padre. Questo
momento di “ribellione” avviene in qualsiasi giovane, il quale ha bisogno di affrancarsi dalle figure
genitoriali, ma poi c’è un punto di ritorno che avviene quando l’individuo ha battuto delle tappe,
cosa che invece non fa il figlio adattato, colui che dice sempre “sì” ecc… ma il punto è che proprio
dallo scontro e dalla conflittualità emerge l’individualità.

Dunque il desiderio per Recalcati è qualcosa che sta in noi, ma non lo possiamo padroneggiare,
non ne abbiamo padronanza. Esso ci trascende, ci oltrepassa. Questo è il paradosso più grande, il
desiderio appartiene al mio io in termini psicologici, ma mi oltrepassa, mi trascende. In termini
psicanalitici coincide con la scoperta dell’inconscio, cioè quel magma che dobbiamo decifrare
facendo un lavoro su noi stessi e attraverso la decifrazione dell’inconscio riusciamo a dare senso a
ciò che ci appartiene, cioè al nostro proprio desiderio.

Dunque Recalcati si chiede: come faccio a individuare e decifrare quel desiderio che mi appartiene
e che sta nel mio inconscio? Dice che il desiderio mi è stato trasmesso: è importante il concetto di
filiazione perché non siamo figli di nessuno, ognuno di noi trova in sé, aldilà del dato biologico, dei
pezzettini psicologici presi da papà o mamma e questi pezzettini sono quelli che hanno forgiato la
nostra identità. Io sono unica e irripetibile perché il desiderio depositato in me lo manifesto
attraverso la mia essenza; in termini psicologici Recalcati fa un parallelo: i frutti distinguono un
albero, cioè in questo caso un individuo; l’individuare i propri frutti è saper individuare il proprio
desiderio, la propria vocazione. Ovviamente non parliamo di desiderio inteso come il capriccio, la
cosa banale, superflua, ma in termini psicologici come la reale vocazione dell’individuo e scoprirla
è difficile, perché essa ci caratterizza, ci rende unici. Per esempio, collegandoci alla scuola,
Recalcati dice che una volta l’insegnante era quello che doveva correggere le linee storte, ma il
concetto è sbagliato, perché una determinata linea storta in un bambino è quella proprio che lo
caratterizza.

Facciamo un passo indietro per capire meglio cos’è il desiderio. Dal pdv evolutivo è interessante
sottolineare che quando cresciamo un bambino non serve dargli insegnamenti o norme rigide, ma
poche regole, senza mettersi nel ruolo di pedagogo, bensì sapendo accoglierlo da un punto di
vista generativo nella sua unicità, cioè anche nel suo essere storto; l’importante è per lui sentirsi
accolto, desiderato, voluto. Questo ci dà il senso della capacità da parte del genitore di voler bene,
di dire “sì, ci sono”. Questo implica l’accesso alla vita. Se io questo “sì” non lo dico all’altro, non gli
permetto di andare verso il mondo. La funzione dell’io è quella di aprire una porta al tu attraverso
un “sì” aldilà di come il tu è, delle aspettative che io avevo su di lui ecc. Questa accoglienza tra l’io
e il tu deve essere reciproca.

Marcel Mauss dice che l’essere umano nasce con un’innata vulnerabilità e fragilità, che ha ragione
di esistere soprattutto a livello relazionale perché attraverso la relazione riesco ad arrivare a una
reciprocità del mio io e del mio tu. Il gancio è rapido con Buber, che parla del fatto che ognuno di
noi ha un tu innato, che in termini psicanalitici chiamiamo desiderio che mi mette in dialogo col mio
io.

Il passaggio importante è tra questa esperienza di desiderio e la capacità di osservare l’essere


umano come mancante di qualcosa e questa mancanza ontologicamente è quella che mi spinge a
realizzare il mio desiderio: da una mia deficienza io arrivo a percorrere quello che è la mia strada
vocativa, vocazionale, che mi chiama, non la scelgo io, la scopro ma mi oltrepassa, mi trascende; il
mio desiderio mi si manifesta attraverso l’agire, attraverso i miei sentimenti, le mie emozioni, ma
questo desiderio va oltre me, io non riesco a gestirlo, non sono padrone della mia essenza. Quello
che io posso fare per soggettivizzare il mio desiderio, per renderlo unico a me medesima è
prendermi la responsabilità di esso, individuarlo e assecondarlo, percorrerlo.

Facciamo un altro passo: il desiderio ci definisce nella nostra intimità, noi possiamo percepire
qualcosa di esso nei nostri comportamenti manifesti e nei nostri disagi; quando entriamo in un
profondo disagio psicologico non dobbiamo buttarci giù, ma prendere atto che qualcosa si è
scollato dal pdv psicologico: l’essere e il pensiero han preso due vie diverse. Ad esempio
nell’anoressia una delle variabili più significative individuate nello sviluppo del sintomo è che non
c’è stata un’accoglienza della persona nel desiderio dell’altro, per cui essa decide di essere
padrona di quello che entra in sé, caloria per caloria. Questo è un esempio estremo.

Ma il desiderio come passa a livello relazionale? Come posso trasmettere e passare questo senso
del desiderio nella relazione? Facendo sentire all’altro che lui per me c’è, è voluto e desiderato, per
cui la persona sente di essere accolta. Questo fatto di saper accogliere caratterizza anche l’altro in
quanto non è che io accolgo l’altro perchè sono buona e brava, ma mi metto nella posizione di
accogliere e desiderare l’altro nella sua unicità e questo implica che gli trasmetto un mio desiderio
di accoglienza. Questa trasmissione, che è trasmissione di vita, del senso della vita (in quanto ti
accolgo nella tua unicità), tu che sei dall’altra parte come lo vivi? Come vivi l’essere riconosciuto
nella tua unicità? Lo vivi con piacere, io ti sto donando il piacere di essere riconosciuto, voluto,
amato, accolto. Questo dà il senso d’identità, ognuno di noi su questo ha costruito la propria
identità, chi scricchiola dal punto di vista emotivo è perché questo riconoscimento ce l’ha avuto a
metà o in modo condizionato.

Quando io accolgo il desiderio dell’altro, do anche forma alla mia relazione con lui, gli do senso. La
nostra relazione prende senso, prende vita, ecco la funzione primordiale che ha la madre, cioè
quella di dare forma alla relazione col figlio, perchè lo riconosce nella sua unicità.

Inoltre il desiderio, da un altro punto di vista, è il legame che mi permette di mettermi in relazione
all’altro, perché nel momento in cui l’altro mi accoglie io acquisisco automaticamente la capacità di
guardarmi; cioè se io vengo riconosciuto sento un senso di piacere e ciò significa che mi sto
mettendo in relazione con me stesso, perché mi sto individuando nel senso del piacere, mi sto
definendo, ci sono, esisto. È ovvio che questo senso di piacevolezza identitario, cioè di essere
riconosciuta, prende delle declinazioni in formule che a noi umani servono, attraverso l’altruistica:
ad es dicendo “come stai bene oggi con questo vestito!”, io sto dicendo a una persona “come sei
bella!”, la sto riconoscendo nella sua unicità.

18/11/2016
Schemi di lezione importanti:

L’altra volta abbiamo toccato il concetto di desiderio per arrivare a unire come si sviluppa l’identità
al concetto di desiderio. Quello che alla prof piace che focalizziamo è la continua oscillazione tra
desiderio visto come desiderio dell’altro, quindi il fatto che io entro nella vita attraverso il desiderio
di qualcun altro, mi riconosco perché sono stato riconosciuto dal desiderio di qualcun altro, noi non
possiamo fare a meno dunque dell’altro. Attraverso il riconoscimento altrui io arrivo a identificarmi,
il concetto di relazione è base costitutiva dell’essere umano. Tale desiderio non è da interpretare
solo in termini di accoglienza da parte del desiderio di qualcun altro, ma anche come desiderio di
avere un desiderio proprio. L’essere umano nasce come spinta derivante da qualcosa che eredita,
non siamo figli di noi stessi; la falsità di oggi invece è di pensarsi autogeneranti dunque non
necessitanti, in quanto ci facciamo da soli, ed esempio emblematico di questo è la teoria gender;
dunque io posso individuare quello che è il mio desiderio in termini vocazionali e sviluppare questo
desiderio in maniera parossistica (da questo vengono poi tutti i sintomi narcisistici che oggi
abbiamo).

Possiamo incontrare individui i quali avendo questa profonda convinzione di autogenerarsi, a lungo
raggio eliminano tutto ciò che riguarda l’altro; se andiamo alla radice questo è pericoloso da un pdv
psicologico e d evolutivo, significa innescare in un bimbo la possibilità di pensarsi autobastante a
sé stesso e ciò è rischioso da pdv identitario. Il rischio che c’è da un pdv psicologico è quello di
una deriva solipsistica, dove la relazione non è più necessaria ma diventa qualcosa che posso
scegliere; da questo si possono sviluppare moltissime patologie. A livello sessuale
nell’adolescenza l’altro è cercato non perché complementare alla mia corporeità, bensì viene
utilizzato come un oggetto che si cambia di continuo, e questo è utilizzare l’altro in termini identitari
come fosse un oggetto.

Lo scrittore Baricco è, come Recalcati, una persona che sa cogliere alcune mutazioni
antropologiche che avvengono oggi e dice che noi siamo come dei mutanti, stiamo transitando da
una mentalità antropologica in cui siamo cresciuti a tutt’altra realtà da quella. Ma il ragazzo che ha
18 anni oggi è già mutato, non ha gli occhi che abbiamo noi in quanto non ha il nostro vissuto che
affondava le radici altrove, siamo noi che dobbiamo prendere atto di questa mutazione.

Da un pdv educativo e pedagogico, sposando ciò che dice Recalcati, il miglior genitore non è
quello che educa dispensando norme, ma colui che cerca attraverso il suo desiderio, la sua
testimonianza di esso, di trasmettere qualcosa all’identità del bimbo, che si sta formando.

Quindi c’è sempre un fluttuare tra il desiderio di accoglienza da parte dell’altro - e dunque il
prendere atto che c’è una base relazionale ontologica che ci caratterizza come esseri umani e ci
differenzia del mondo animale - e il desiderio di avere la capacità di riconoscere l’altro nella sua
unicità. Chi svolge questo ruolo? La funzione materna, intesa come qualsiasi figura di
attaccamento, che svolge il ruolo di riconoscimento, cioè di accoglienza dell’altro. Quando viene
umanizzata la vita del bambino? Quando il desiderio di essere riconosciuto da parte del bambino
viene riconosciuto dalla figura di attaccamento, allora si instaura una relazione io-tu, dove il tu,
l’adulto, sta riconoscendo un alterità che chiede e l’io, il bimbo, può accedere alla vita attraverso la
richiesta di soddisfacimento che fa.

C’è un bellissimo esperimento fatto in Romania, in un orfanotrofio, dove dei giornalisti hanno
osservato due gruppi di bambini, il primo formato da individui che arrivati a 8-9 anni avevano il
desiderio di comunicare, di entrare in relazione, di esplorare il mondo…il secondo gruppo invece
era composto da bambini stanchi, apatici, amorfi. I giornalisti hanno chiesto agli educatori come
mai questa differenza e la risposta è stata che i bimbi più aperti erano quelli che erano stati più
accuditi, accolti e riconosciuti nelle fasi evolutive primordiali, in quanto erano stati valutati più fragili
e incapaci di prendersi cura di loro stessi; per questo appunto era subentrato un educatore che li
aveva individualmente accolti, dunque riconosciuti nella loro individualità, e ciò gli ha permesso
nella fase evolutiva fino ai 10 anni di avere un senso identitario più corposo, compatto e aperto al
mondo. L’altro gruppo di bambini invece era stato valutato più sicuro di sé nelle prime fasi di vita,
dunque era stato seguito di meno, in quanto ritenuto capace di sbrigarsela da solo.

Questo studio è servito per avallare tutte le teorie psicologiche che vogliono l’accoglienza
dell’unicità dell’altro. Io posso essere bravissima come madre a rispondere ai bisogni fisici e
fisiologici del mio bimbo, ma se non rispondo al riconoscimento della sua singolarità quello che mi
ritrovo nella ragazzina ad esempio è un sintomo anoressico, con l’esclusione dell’altro dalla
relazione con sé, con un sentirsi padrona della propria volontà; l’anoressia è una forma di
narcisismo in quanto si pensa di sussistere in base al proprio desiderio e alla propria volontà, tanto
da decidere il cibo che entra nel proprio corpo in modo maniacale e ossessivo.

Da un pdv clinico quello che vediamo è che si sviluppa il problema della relazione con l’altro
quando il soggetto si chiude in una forma solipsistica e narcisistica, in una centralizzazione dell’io,
o anche viceversa la nevrosi si può sviluppare nell’essere riconosciuto solo dall’altro, cioè io vivo e
mi riconosco solo in funzione del riconoscimento dell’altro, e questa è quella che noi chiamiamo
“identità diffusa”, ossia un percepirsi solo se vengo riconosciuta dall’altro. Nei termini di Recalcati
invece il desiderio è la ricerca della propria vocazione che però ti trascende, ti trasporta, non sei tu
il padrone dentro casa tua, è il desiderio che ti conduce.

Essere riconosciuti in senso identitario e contattare il proprio desiderio è un duplice risvolto che
porta il soggetto a fare esperienza di sé in termini di non padronanza, io non sono padrone perché
il riconoscimento mi viene da fuori, dalla figura di attaccamento. A proposito della parabola del
figliol prodigo, la possiamo leggere da un pdv psicologico: il figlio che se ne va è quello che è stato
riconosciuto, perché ha avuto la capacità del distacco, e poi nel momento in cui ragiona e decide di
ritornare a casa, sa da chi ritorna. Questa capacità del distacco va auspicata da parte del genitore
nei confronti del proprio figlio e quando ciò non avviene un figlio fa bene a fare le valigie, come è
successo a un compagno di classe che racconta la propria esperienza. La prof coglie l’occasione
per dire che questo distaccarsi è possibile se un figlio è stato riconosciuto, perché è questo che gli
permette di sganciarsi, anche se traumaticamente, e probabilmente nel caso del compagno di
classe c’è stato a livello di desiderio un proprio istinto preservativo che lo ha spinto ad andare
verso il suo desiderio.

La prof dice che lui si è permesso, anche spazialmente, di staccarsi dal nucleo delle figure di
attaccamento. Il passo ulteriore è quello di dire: tu hai potuto uscire in quanto sei stato riconosciuto
però è vero anche che dall’altra parte c’è stato il desiderio del taglio.

Per arrivare allo schema riportato all’inizio, il passo ulteriore da fare è comprendere che per essere
riconosciuti è necessaria la funzione materna, è la figura della madre che ti fa accedere al mondo.

Facciamo un esempio pratico: quando io madre ho la capacità di riconoscere ognuno dei miei due
figli, dalla loro nascita in poi, nella sua singolarità, nel suo modo di essere, di relazionarsi con me,
di esternare i propri sentimenti, questo rende unico l’individuo.

Facciamo un altro passo: da un pdv psicanalitico il padre ha la funzione di intermediario tra


l’attaccamento della madre al proprio figlio, cioè il padre deve avere questa capacità di aiutare la
coppia madre–figlio a separarsi, e lo fa mediante la sua persona, quindi il bambino maschio impara
a non collidere più con la figura paterna, ma vi si riconosce. Invece la bimba con la figura materna
entra in uno stato di profonda competizione, poi subentra la figura paterna che dice “io ci sono,
sono il partner di mamma, quindi ti aiuto non più a competere ma a identificarti col femminile”.
Riguardo la funzione paterna, ciò che alla prof sta a cuore che capiamo è che il padre introduce
alla vita da un pdv del linguaggio, cioè il padre ha la capacità di riconoscere nel figlio l’eredità della
parola, la parola viene trasmessa dal padre al figlio in termini linguistici: io permetto a te figlio di
ereditare un linguaggio che è fatto non solo di grammatica, ma di accoglienza, di presenza e di
ascolto e nel momento in cui ti dono questa parola io padre mi devo staccare, è proprio un’eredità,
che passa da me a te.

LA LEZIONE DEL 25/11/2016 NON E’ QUI RIPORTATA PERCHE’ CI SON STATI PROBLEMI
DI REGISTRAZIONE, MA COMUNQUE ABBIAMO CONTATTATO LA PROF CHE HA DETTO
CHE NELLA SEGUENTE LEZIONE RIPETERA’ COMPLETAMENTE I CONCETTI.

2/12/2016

L’altra volta abbia cercato di esaminare le due funzioni, materna e paterna, perché penso siano
entrambe importanti nello sviluppo dell’identità.

La funzione materna è importantissima da un pdv psicologico nello sviluppo identitario del


bambino, attraverso la visione del volto materno il bambino identifica sé stesso. Come la madre
umanizza la vita del figli? Dico umanizza perché in noi, a differenza dell’animale c’è il momento
dell’umanizzazione, cioè quando prende corpo a livello psicologico l’umanizzazione del bambino e
ciò avviene attraverso il riconoscimento da parte della funzione materna. In termini psicologici e
ontologici il riconoscimento è la capacità da parte della figura materna di introdurre il proprio
bambino al mondo, la capacità o meno della madre di rispecchiare, attraverso il riconoscimento,
un’immagine che rimanda al proprio figlio e che serve lui a identificare sè stesso, a dare anche die
confini corporei alla sua figura umana. Questo non passa attraverso la fase dello specchio, che
viene dopo, quando il bimbo si riconosce e inizia a delineare le sue caratteristiche fisiche e non,
quindi anche attraverso l’esplorazione corporea; ma inizialmente il bimbo arriva nel mondo con un
senso di non percezione di finitezza umana, di non integrazione. Il bimbo vive una fase simbiotica,
in termini psicologici, non ha un chiaro confine di dove inizia lui e dove finisce la madre, non riesce
a differenziare quello che appartiene a lui e quello che appartiene alla madre. La capacità di
identificarsi fisicamente da parte del bimbo corrisponde a una capacità di identificarsi
psicologicamente che avviene nel momento in cui individua una parte di sé e la differenzia da
quello che appartiene ad altro da sé. C’è un movimento di autoaffermazione e nello stesso tempo
di differenziazione. Questo movimento in termini identitari corrisponde a un movimento anche
mentale. Alcuni studi han visto che in bambini con handicap fisico, è più difficoltoso questo
processo di autoaffermazione e differenziazione, nel 90% dei casi l’handicap fisico incide
psicologicamente, perché la capacità motoria viaggia parallelamente a quella psicologica, questo
perché a livello neurofisiologico nei primi anni di vita c’è un’esplosione delle connessioni neuronali
e dunque, più il bambino ha una possibilità di esplorare il mondo introno a sé e mettersi in
comunicazione corporea con sé stesso, più amplia le connessioni dei neuroni e di conseguenza
anche lo sviluppo psicologico.

Questo parallelismo dobbiamo sempre tenerlo davanti nello scenario dello sviluppo emotivo, nella
formazione di una identità umana. Nei casi ad esempio di psicosi, molto spesso il fatto della
corporeità divisa dall’aspetto psicologico lo si vive nella relazione. La persona psicotica vive due
aree, corporea e psichica, non integrate ma molto scisse. Per questo agisce i suoi pensieri perché
attraverso l’atto la persona riesce a dare compattezza e integrità al suo aspetto psicologico.

Nello sviluppo identitario il riconoscimento da parte della funzione materna crea una relazione tra
un IO (che è in formazione) e un TU (la funzione materna). Attraverso questo TU si crea una
relazione che porta a un NOI. Il pensiero che ci può venire è che se ci troviamo di fronte a una
figura materna non integrata dal pdv psicologico, l’IO come fa a relazionarsi, a utilizzare per il suo
riconoscimento identitario un TU che non ha la capacità di viversi in termini integri? Seguirà una
relazione tra un IO e pezzi di TU, pezzi anche corporei, pensiamo allo sviluppo che si ha nella fase
evolutiva dei disturbi dovuti a una fissazione di alcune tappe evolutive, fasi non elaborate bene a
cui il soggetto prima o poi torna.

Il riconoscimento in termini pratici è proprio questo specchio empatico da parte della figura di
attaccamento. In termini psicanalitici il riconoscimento è saper introdurre il bambino all’interno del
suo desiderio, cioè la funzione materna è quella che può introdurre il bambino a scoprire, a trovare
il suo desiderio, a trovare l’autenticità di sé stesso. In termini psicologici permette al bimbo un sano
sviluppo integro dell’idea di sé.

In termini psicanalitici la funzione materna, attraverso il riconoscimento, è capace di trasmettere il


desiderio al bambino di trovare l’autenticità della propria vocazione. Il paradosso è che questo
desiderio non può essere dominato e veicolato dal soggetto, ma lo oltrepassa. Il soggetto però in
questo può individuare cosa fare, nella fase evolutiva, per elaborare, per portare a un suo senso
identitario la relazione tra il suo IO in fieri e il TU con cui si deve relazionare.

Allora, il riconoscimento è la capacità di trasmettere il desiderio di essere anche voluto, accolto e,


altro elemento importante, riconosciuto come insostituibile. La funzione materna è quella che dona
unicità al proprio figlio, lo riconosce nella sua irripetibilità. Holmes ci fa presente che la funzione
materna è quella anche di donare la costanza, cioè la prevedibilità nella relazione, nella quale il
bambino trova ciò che lo rassicura: ciò che è prevedibile per il bimbo è rassicurante, ecco perché
madri con disturbi psicotici creano nella relazione qualche problema ovviamente al figlio, che si sta
formando.

In termini pratici come si tramuta questo desiderio, che deve passare dal riconoscimento da parte
della funzione materna? Dal pdv psicologico questo desiderio deve essere trasformato in un
appello che il bimbo fa, nella sua formazione, alla figura materna. In termini evolutivi lo chiamiamo
una domanda d’amore. Nel momento in cui la figura materna accoglie questo appello allora stiamo
andando verso uno sviluppo identitario sano, cioè il bimbo viene riconosciuto nella sua unicità.

Non esiste un prontuario che ci dice cosa vuole il bambino in generale, ciò che possiamo
osservare è che ogni bimbo nasce con una sua unicità, ecco perché in psicologia è molto difficile
chiudere in criteri standard l’unicità di un individuo. Se noi osserviamo dei neonati sembrano tutti
uguali, ma in realtà la richiesta alla figura di attaccamento di ogni neonato è molto diversa e questo
si vede nel comportamento. Questa deve essere l’abilità della figura materna, cioè quella di
cogliere il desiderio unico di quel figlio. Se una mamma ha più figli deve essere in grado di cogliere
la richiesta soggettiva di ogni figlio, questo permette all’io che si sta formando di riconoscersi nella
sua unicità a livello identitario.

Come avviene questo appello che il bimbo fa alla figura materna? In termini psicologici viene da
una presenza (ovviamente lei ci sta dando dei criteri di lettura che ci aiutano a capire come si
forma il senso identitario, poi nel percorso individuale ogni caso è a sé e va studiato, calandosi
nella storia, leggendo e interpretando il suo appello attraverso la sua sintomatologia, che è varia e
variata. I sintomi vanno indagati a livello relazionale per capire dietro l’appello del singolo soggetto
cosa c’è). La presenza è un criterio che utilizzo quando vado a lavorare sia sull’adulto che su un
bambino, comunque esprima il suo disagio. L’appello lo possiamo tradurre in:

- presenza, cioè l’esserci. Io ci sono, tu mi puoi toccare e io ti posso contenere. Pensate alla
funzione contenitiva, ci son stati studi evolutivi fatti su neonati e figure materne e su che
tipo di contenimento fisico dava la madre alla nascita e si è visto che dopo, nella fase
evolutiva, il movimento tattile, corporeo di questi bimbi era segno di una capacità di
riconoscimento corporeo di sé molto più integrato che in neonati che erano stati contenuti e
manipolati poco da parte della figura materna. Dunque la presenza è un dire “ci sono
fisicamente, sono qua, ti contemplo”.
- ascolto: viene in conseguenza, è la capacità di sintonizzarsi sui segnali che il bimbo
emana, che appartengono all’appello e che sono estremamente individuali, se pensiamo ai
neonati non tutti esprimono il loro appello nello stesso modo. Nel momento in cui la madre
è sintonizzata sull’appello che il bimbo sta facendo, gli permette di auto ascoltarsi, gli fa da
specchio. Ecco perchè il volto fisico della madre è vitale, perché fa da specchio, il bimbo
impara a auto identificarsi. Tutto questo porta, attraverso tutta la fase evolutiva dal
preuterino ai 18 anni, a creare a livello identitario in cui io non sono insignificante per te, io
son stato riconosciuto, son stato accolto.

Questo è uno sviluppo che la prof ci ha dato in termini molto semplici per introdurci allo sviluppo
relazionale. È ovvio che tutto questo è possibile quando abbiamo una figura materna che si
riconosce a livello identitario. Se io ho una figura materna che non ha raggiunto una figura integra
a livello della sua identità, questo percorso è molto turbolento e disagiato.

Quando interviene nello sviluppo, attraverso la presenza e l’ascolto, il linguaggio? Quando


abbiamo la capacità del bimbo di svilupparlo? Il linguaggio è molto importante perché è il mezzo
con cui egli si espone all’altro, inizia una relazione simbolica tra sé e la figura di attaccamento,
prima del linguaggio c’è il desiderio, c’è questo vivere la realtà che lo circonda alla ricerca
spasmodica di ciò che lo soddisfi (infatti anche l’animale vive l’istinto). Noi ci umanizziamo anche
attraverso il linguaggio, la potenza della parola, perché attraverso esso vengo riconosciuta, entro a
far parte del simbolico, quindi la potenza della parola è entrare dentro il mondo della simbologia a
livello relazionale.

Quant’è importante, per esempio, introdurre il bimbo all’uso delle favole, della fantasia, della
creatività, quello gli apre molti più scenari a livello relazionale. Un film che utilizza molto questo è
quello di Benigni “La vita è bella”; la simbologia presente in quel film, l’uso potente della storia che
Benigni fa al proprio figlio per proteggere la sua vita psicologica, è enorme. Quello che Benigni fa,
cioè utilizzare la simbologia attraverso il linguaggio, lo fa la figura paterna, che introduce la parola
al figlio. La parola intesa non solo in termini psicanalitici, cioè come l’interdizione da quello che è
l’accoppiamento con la figura materna (complesso edipico). Il papà è quello che introduce la
parola, cioè una sorta di apertura al simbolico e in quel momento introduce il bimbo all’esposizione
dell’altro, perchè il linguaggio è un codice che, nel momento in cui viene condiviso, introduce tuo
figlio alla relazione, quindi la presenza materna deve andare a sposarsi con l’introduzione della
parola. Quando gli psicologi osservano un bimbo di 8-9 mesi autistico notano che non ha la
condivisione dell’attenzione. Quando sto con un bimbo che ancora non ha sviluppato il linguaggio
verbale e abbiamo un giocattolo a distanza, io guardo il giocattolo, lui pure, poi lui guarda me e mi
invita ad andare insieme verso il giocattolo. Ciò vuol dire che in quel bimbo è avvenuto uno
sviluppo cognitivo di condividere insieme un simbolo racchiuso dal giocattolo. Il bimbo autistico
questo non lo fa, non lo condivide, va da solo al giocattolo. Questo perché lo sviluppo psicologico
inizia a differenziarsi con l’introduzione del linguaggio, che porta il bimbo a essere con, a
condividere.

Il desiderio che viene innestato, trasmesso dalla figura paterna lo dobbiamo anche pensare come
qualcosa che si instaura, inizia a darsi forma, perché alla base c’è una mancanza ontologica, noi
nasciamo non come esseri completi, è come se nel nostro DNA è scritto qualcosa che
ontologicamente ci rende imperfetti; ciò ci porta a dare un senso a questa ricerca di completezza,
di tensione, di perfezione che noi abbiamo. Un altro inganno che dobbiamo tener presente dal pdv
identitario è credere che tutto questo sia creato onnipotentemente da noi, in termini psicologici è
quello che chiamiamo narcisismo, cioè la persona che crede di essere Dio, perché pensiamo di
essere completi, autoaffermati, noi a livello psicologico cerchiamo di dare senso a tutto questo
ricevuto in eredità da un padre e una madre che si sono presi cura di noi.

Questo inganno si concretizza oggi ad esempio nei disturbi alimentari, che portano a
un’autoreferenzialità assurda, dove sono io il centro del mondo, mi gestisco e mi auto fondo, sono
io che creo il mio sintomo.

È interessante che, mentre Freud diceva che l’inconscio è la ripetizione di qualcosa che emerge
attraverso il nostro comportamento, ma che era già presente nell’inconscio, invece per noi oggi in
termini psicanalitici l’inconscio è la sede di quello che noi ancora dobbiamo scoprire di noi, è
qualcosa di nuovo che deve emergere, non è la ripetizione di qualcosa di vecchio. Questo apre lo
scenario a un non determinismo, a una vivacità psicologica, a un poter scegliere di trovare il nostro
desiderio e svilupparlo attraverso le nostre inclinazioni e capacità, che sono assolutamente
soggettive.

Come arrivare ad un’apertura in termini relazionali di quello che è il concetto identitario? Attraverso
il concetto di sviluppo dell’empatia a livello relazionale.
Gli studi dicono che l’empatia è una caratteristica connaturale a noi e a cosa mi può servire nello
sviluppo identitario creare un’area empatica in me, che poi mi possa servire nella relazione? La
Stein ha sviluppato questo concetto prendendolo da Husserl, suo padre dal pdv formativo, ma
cosa intendeva lei per empatia? È a fondamento di tutti gli atti dell’essere umano. Lei vedeva e
concepiva l’empatia in termini spaziali, come un luogo, uno spazio attraverso il quale posso capire
cosa sto vivendo nella relazione. Chi ha fatto Bowlby può fare un parallelo tra la Stein e Bowlby e
la sua teoria dell’attaccamento. Lui diceva che quando un bimbo è vicino spazialmente alla figura
di attaccamento è contento. Così è il concetto di empatia, io riesco a svilupparla attraverso una
spazialità fisica, essa è il mio riconoscere l’altro, attraverso la mia attività cerebrale, e comprendere
come l’altro si sta ponendo verso il mondo attraverso il taking place, il mettersi al suo posto.

Facciamo un po’ di ginnastica mentale, immaginiamo in termini psicanalitici il desiderio, esso è


derivante da una presenza fisica, luogo dell’empatia, capacità di essere con, il mio stare davanti a
te; la Stein dice che io agisco un atto empatico quando ho un altro davanti a me, quando lo
percepisco nella sua spazialità e corporeità. Questo è importante perchè a livello relazionale come
viviamo tutte le nostre relazioni? Fisicamente, nello spazio. Sono tutte uguali? Come noi agiamo
nella relazione a livello spaziale? Pensiamoci un attimo. E non confondiamoci perchè quella sui
social network, whatsapp ecc è comunicazione, NON relazione. La non capacità di stare nello
spazio, nella relazione in termini empatici, anche verso sé stessi, che manca ai giovani deriva
anche da questa mancanza spaziale, dal fatto che vivono uno spazio virtuale più che fisico.
Dunque poi hanno difficoltà a stare e vivere nella relazione.

La Stein dunque diceva che l’empatia è alla base di tutti gli atti, i quali prendono forma attraverso
l’essenza della CURA, cioè la capacità di mettere attenzione nella relazione. Ma secondo la Stein
educare all’empatia significa insegnare e rendersi conto che esiste una realtà fuori di sé, ecco che
ritorna l’empatia come luogo, l’individuo deve rendersi conto che sta percependo qualcosa fuori di
lui, l’empatia dunque è un percepire che sto vivendo con l’altro qualcosa nella spazialità, essa
porta alla comprensione, cioè al rendermi conto. Questa parte cognitiva di noi si sposa con una
condivisione di emozioni. Che vi viene in mente guardando questo schema? (vedi foto allegate)

A me viene in mente lo sviluppo relazionale in termini evolutivi, quello che si crea a livello di luogo
tra la figura di attaccamento e il bambino, tant’è che la Stein distingue il sentimento che è
quell’energia che scaturisce dalla comprensione, dall’empatia cognitiva e l’empatia emotiva, che la
Stein dice che porta allo sviluppo del sentimento, che è diverso dall’emozione. Lei diceva che il
nucleo dell’atto empatico è proprio prendere consapevolezza di tutto questo, è percepire,
comprendere e condividere. L’atto di cura verso l’altro è un atto essenzialmente intenzionale, non
casuale, ecco perché poi se facciamo il parallelismo con la relazione figura di attaccamento-
bambino, la cura è un atto intenzionale, non naturale, della madre verso il figlio. Magari noi
pensiamo che è una cosa naturale, ma non è così. Con questa griglia possiamo capire come delle
donne possano sopprimere la vita del proprio figlio.

Ma si può accedere al concetto di cura in termini empatici solo se all’origine c’è un atto di auto-
cura, di auto-formazione. Gli antichi greci insegnavano proprio questo, l’auto esplorazione di sé
stessi. Levinas diceva che solo nel momento in cui io mi decentro posso entrare nella relazione col
TU. Ma uno si chiede: se io mi decentro come metto questo decentramento insieme alla Stein, alla
questione dell’auto-cura?

Il corrispondente psicologico è: se io non mi riconosco a livello identitario come posso riconoscere


l’altro? Non riesco a entrarci in relazione.

Dunque forse l’aspetto della cura prevede un aspetto di decentramento in termini identitari, cioè
nel momento in cui mi permetto di entrare totalmente in una relazione con uno che è altro da me io
devo imparare a decentrarmi in senso identitario, cioè spostare il mio focus, nella relazione. Tant’è
che una delle caratteristiche che abbiamo nell’ascolto attivo è quella di mettere da parte le proprie
convinzioni, le proprie griglie di lettura ecc, quindi nient’altro che il discorso di spostamento del
focus, il decentramento. Inoltre nel mio decentrarmi per entrare in relazione con l’altro, devo
cogliere anche le mie finitezze, il mio essere mancante di qualcosa, ontologicamente parlando.

L’empatia non è da intendersi solo a livello emotivo, ma anche cognitivo, di comprensione. Il buon
samaritano si prende cura perché a livello cognitivo decide di farlo, è un atto intenzionale. Un
compagno però dice che il decentrarsi del samaritano è motivato dal fatto che lui non è coinvolto
emotivamente con il poveretto, non è un suo amico, dunque è più facile decentrarsi. Resta il fatto
che il suo decentrarsi è intenzionale, c’è la scelta di farlo.

Parallelamente al buon samaritano la figura paterna ha la funzione di custodire il collegamento tra


l’introduzione della parola e della legge, e il mantenere fedeltà a quello che è l’aspetto della
funzionalità paterna, cioè il custodire il desiderio. Quando il padre mette in collegamento il
desiderio con la legge si prefigurare l’atto di cura, che è fatto di legge, la parte diciamo cognitiva, e
il desiderio, che è la parte genuina che appartiene alla nostra essenza, alla nostra anima.

A livello relazionale quello che è fondamentale è anche l’aspetto del linguaggio, attraverso il quale
riesco a creare uno spazio tra me e l’altro. Il linguaggio è anche la capacità di entrare in un mondo
di simboli e la comunicazione simbolica è fatta di tante cose, ad esempio c’è comunicazione solo
quando si ha la capacità di ascoltare e viceversa c’è ascolto quando c’è comunicazione, altrimenti
c’è il silenzio. Ma io come sviluppo la mia capacità di ascoltare in termini empatici nella relazione?
È fondamentale la sospensione del giudizio e osservare all’interno della relazione quello che si
dice, come se osservassimo da fuori. Lo spazio usato all’interno della relazione, quello che si dice,
quello che non si dice, il materiale paraverbale (il timbro della voce, il tono ecc) ci aiuta a capire
come si sta utilizzando l’empatia nella relazione. Altra cosa da osservare è il non verbale, i gesti, le
facce, la mimica corporea ecc. tutto questo ci aiuta a vedere come a livello relazionale l’empatia
prende corpo nello spazio tra due persone.

Se dovessimo definire l’empatia in termini più psicologici, meno filosofici della Stein, la potremmo
riassumere come un atto fatto di azione e di linguaggio, anche paraverbale o non verbale.

Altra cosa su cui la prof si è soffermata, è sottolineare come l’empatia passa attraverso una
dimensione cognitiva e una dimensione emotiva, proprio perché atto intenzionale, non naturale. La
dimensione cognitiva dell’empatia implica la compresenza di diversi processi, tra i quali il
riconoscimento e la capacità di discriminare le varie espressioni emotive. Altro processo
importante da tener presente è il riconoscimento di una certa comunicazione referenziale che
avviene tra i due, cioè nel saper cogliere e leggere, dare senso, a quello che l’altro sta provando
nel relazionarsi con me, cogliere la realtà dal pdv dell’altro. Questo è un aspetto cognitivo, quello
che la Stein definiva come il rendersi conto però mettendosi nei panni dell’altro, questo è un
aspetto cognitivo dell’empatia.

Tutt’altra cosa è l’empatia emotiva, che si riferisce allo sviluppo emotivo dell’empatia. Nelle prime
battute di vita abbiamo il contagio emotivo, se un neonato piange nella stanza dopo due minuti
piangono anche quelli vicini. Nel mondo animale se osserviamo un cane che sta male, l’altro cane
si avvicina e avrà cura di quello che sta male, questo è l’aspetto della condivisione emotiva, che è
un aspetto prettamente dell’empatia emotiva. Dal pdv psicologico abbiamo uno sviluppo, dal
contagio emotivo arriviamo poi a 3-4 anni all’empatia reale, fino ad arrivare nell’adolescenza
all’empatia autentica. Questo è lo sviluppo dell’empatia emotiva. Come noi riusciamo ad
apprendere questa empatia? Svariate ricerche hanno osservato quanto è importante e naturale nel
bambino l’imitazione di un altro, infatti se l’adulto sorride a un neonato anche lui sorride, lo stimola
all’imitazione, il bimbo emula la nostra espressione emotiva, è una cosa che ci è connaturale sin
da neonati.

L’imitazione è uno dei capisaldi che ci aiutano a decifrare meglio come si può sviluppare a livello di
capacità evolutiva l’empatia, perché attraverso l’imitazione, quindi l’osservazione, io posso
sviluppare la mia area empatica che poi posso mettere nella relazione con gli altri. Ovviamente
l’empatia si sviluppa solo nella relazione, non da soli, questo è un concetto fondante.

16/12/2016

Facciamo una sintesi di tutto quello che abbiamo detto fino ad ora, per poi a gennaio fare una
sorta di cappello e chiusura.

Per integrare il discorso che stiamo facendo la prof ci legge un passaggio dall’ultimo libro di
Davenia, dedicato a Leopardi, in cui lui dialoga col poeta e introduce gli argomenti cari a Leopardi
collegandoli con la difficoltà che l’adolescente di oggi vive nella relazione coi coetanei, quindi il
senso di finitezza, la solitudine, il vuoto ecc e c’è un passaggio che si collega al desiderio, che la
funzione materna può aiutare a far sorgere nello sviluppo identitario del proprio figlio.

L’autore fa un dialogo (trasposto nel tempo) con Leopardi e dice che “i giovani si annoiano più dei
vecchi perché sentono di più il peso della vita”. In effetti l’autore fa riferimento a una ragazza che,
qualche anno fa prima di suicidarsi, lasciò un biglietto in cui scriveva ai suoi genitori che le
avevano voluto bene, ma non erano stati capaci di farle del bene, che le avevano dato tutto
persino il superfluo ma non l’indispensabile, non un ideale per cui valesse la pena di vivere la vita
e per questo se la sarebbe tolta. Questo scritto rende chiaro il percorso che può intraprendere la
figura materna nella relazione col proprio figlio. La prof ci ha sintetizzato ciò che appartiene al
materno (nello sviluppo identitario) e ciò che appartiene al paterno.

FUNZIONE MATERNA FUNZIONE PATERNA


↓ ↓
RICONOSCIMENTO → DESIDERIO=APPELLO PAROLA
- presenza ↓
- ascolto “IO SONO CON”

IO – TU → NOI

Quello che a lei interessa trasmetterci è quanto la funzione materna sia essenziale nel passaggio
del riuscire a trasmettere la particolarità, la soggettività, la unicità, quindi la funzione materna è
quella che deve trasmettere l’insostituibilità, deve avere la capacità di rendere unica, attraverso la
cura, l’identità che si sta sviluppando.

Il passaggio che ci ha letto la prof sottolinea questo sviluppo del senso del desiderio: voi mi avete
dato tutto, anche il superfluo, ma sembra che manchi un passaggio essenziale cioè il pensare che
io posso avere la vita, qualcosa che mi viene trasmesso, ma che mi supera.

Un altro passaggio di Davenia dice che “valere la pena” è un’espressione paradossale ma


interessante: per vivere bisogna trovare la pena per cui farlo e la madre è colei che apre una porta
e trasmette questo senso della vita, che ne vale la pena. Qual è la differenza tra l’insostituibilità
che la madre trasmette al figlio e la funzione paterna?

Qui dal pdv psicologico abbiamo detto che la figura paterna è quella che introduce la legge, il
senso del limite, è quella che deve interdire, che deve saper dire “no”. A cosa serve la legge
trasmessa dal paterno? Aiuta l’individuo che si sta formando a distinguere che non tutto è
possibile, che c’è un limite al piacere. La figura paterna è anche quella che introduce il figlio al
linguaggio, alla potenza della parola e quindi al valore del “no”.

Altro passaggio che Davenia fa abbastanza illuminante è che in un’analisi evolutiva quello che
studiamo è il suo senso di vulnerabilità, di fragilità. Allora partiamo dal presupposto ontologico che
l’essere umano nasce mancante di qualcosa, questa ricerca del mancante che abbiamo per tutta
la vita (dalla culla alla morte secondo Bowlby), il bambino la ricerca attraverso la figura materna,
dal semplice riconoscimento dell’odorato della mamma il bambino vive un senso di quietezza.
Questo senso di mancanza della natura umana porta l’uomo dal pdv psicologico alla ricerca
continua di sé stesso, di questo senso di completezza, a trascendere sé stesso da un pdv
ontologico.

Quando noi osserviamo in psicologia un bambino, attraverso l’attività ludica vediamo il senso di
ricerca che lui ha, nell’adulto lo vediamo attraverso il disagio.

La figura materna e paterna ci aiutano nella nostra ricerca di senso e di completezza, ci aiutano a
segnare il cammino, ci danno degli strumenti.

Davenia fa un altro passaggio in cui dice che ”melanconia è vedere l’enorme fragilità del mondo e
non scappare, ma chinarsi a riparare senza stancarsi, scorgere che sempre, sempre qualcosa
manca e in quel vuoto sentirsi spinti non verso il nulla, ma verso la creazione”. Cioè questa
mancanza originaria non va letta in termini negativi, come qualcosa di incolmabile, perché è quella
che ci permette di perseguire la valenza del nostro vivere; collegandoci al passaggio di Davenia
precedente, al vuoto che la ragazza suicida ha percepito, questa mancanza di eredità da parte
delle figure genitoriali è qualcosa che ci caratterizza come esseri umani, ma questa caratteristica ci
deve spingere verso l’essere generativi, non verso l’essere distruttivi. Il senso della melanconia, di
cui parla Davenia, non va letto come una fuga, come un sentirsi spinti verso il nulla, ma come una
mancanza che ci spinge a essere creativi, verso il desiderio, verso lo sviluppo generativo del mio
senso identitario; la mancanza si tramuta in bisogno, il bisogno si tramuta in desiderio. Ovviamente
questo passaggio parte dal presupposto che il senso materno esplichi la sua funzione di apertura
al mondo, cioè il bimbo attraverso l’apertura al materno si apre poi al mondo.

Recalcati dice che attraverso la nascita, nel momento in cui il bimbo si rispecchia nella figura
materna, egli è in grado di aprirsi al mondo. Se ciò non avviene c’è una chiusura, l’andare verso il
nulla che dice Davenia, un’entropia, un tornare indietro, un chiudersi dentro, da cui il suicidio della
ragazza. Davenia dice che: “la melanconia è il prezzo della presenza dell’eterno nell’uomo”. Dal
pdv psicologico è la ferita originaria, con cui l’essere umano nasce; Davenia ha l’intento di
trasmettere che Leopardi non era vittima del suo pessimismo, il passaggio che lui fa è bellissimo
per arrivare a dimostrare quanta potenza c’è nel senso della ferita, della mancanza.

Come avviene concretamente questo fatto di poter ereditare il senso del desiderio, cioè che vale la
pena vivere, e il senso dell’interdizione, cioè della legge, della parola, del linguaggio trasmesso
dalla figura paterna?

Attraverso il riconoscimento c’è il passaggio processuale tra i genitori e il bambino, un


rispecchiamento. Ma il riconoscimento come avviene? Attraverso l’empatia, con cui io riesco a fare
eredi e a far sì che il figlio si senta erede, che si faccia carico della sua identità.

EMPATIA

IO – TU = NOI

1) COMPRENSIONE RECIPROCA (collaborazione)
2) ACCETTARE L’ALTROEMPATIA COGNITIVA
3) TU ESISTI EMPATIA EMOTIVA

Nella relazione tra IO e TU, dove l’IO è in formazione, tra i due il carico di responsabilità del proprio
senso identitario ce l’ha l’IO e solo attraverso la relazione è in grado di prendersi questa
responsabilità.

Quando Davenia si rifà all’esempio della ragazza suicida, dalle parole della ragazza riportate nel
testo, sembra che la responsabilità sia caricata tutta sul TU, cioè sull’altro, sui genitori che non
sono stati capaci di darle e farle il bene. La ragazza scarica tutte le responsabilità, assume una
posizione di vittima nella relazione. Invece in una relazione c’è corresponsabilità.

L’unicità della miscela relazionale che caratterizza l’IO e il TU è irripetibile, per questo ogni
bambino è irripetibile. Se pensiamo alla funzione materna, l’unicità del bimbo è genetica ma anche
caratteriale, perché c’è l’unicità della relazione di quell’IO con il TU materno e paterno. Ogni figlio
che nasce si va a incastrare con il TU materno e creano un NOI unico, diverso da figlio a figlio.
Ecco perché in una famiglia nascono identità diverse. Quando osserviamo l’individuo dobbiamo
focalizzare molto bene il livello relazionale, nella terapia sistemico relazionale infatti si va a vedere
come il genitore si relaziona a questo bambino, come si relaziona con l’altro genitore e con gli altri
figli.

Ora dobbiamo vedere che funzioni esplica questo NOI nella quotidianità.

Un elemento importante è la comprensione reciproca, che si costruisce attraverso ad esempio una


collaborazione, stimolando l’altro a collaborare con te. Se pensiamo ad esempio alle classi, chi
lavora come insegnante sa che la collaborazione è un elemento vincente e laddove ci sia un bimbo
che non vuole ascoltare e crea disagio collettivo, lo porto dentro il sistema con la collaborazione e
ad effetto domino tutti gli altri bambini collaboreranno.

Altro esempio: se si lavora sulla coppia, quando io stimolo uno dei due a livello terapeutico questo
porta effetti sull’altro.

Altro elemento importante è accettare l’altro, ma come arrivo a far sì che l’altro si senta accettato?
Utilizzando l’empatia cognitiva, cioè quella che io utilizzo per entrare nel modo di leggere del
mondo dell’altro. Questo mi aiuta a capirlo dunque a fare in modo che accetti di stare in relazione
con me. La condivisione della comprensione porta inevitabilmente a un NOI, a un “essere insieme
per”.

Altro elemento importante: tu esisti, tu ci sei. Come metto in pratica questo nella relazione?

Attraverso l’empatia emotiva, se non uso questo non posso rimandare all’altro che c’è, che esiste
per me. Gli rimanderei solo che ho capito quello che lui sente, che pensa.

Tutto questo serve per arrivare al NOI, cioè al senso di accoglienza reciproca, alla capacità di
stare in relazione con l’altro. In quest’ottica tutte le nostre relazioni, anche le più difficili e ostiche,
sono gestibili. Non ci sono relazioni in cui non possiamo entrare.

Facciamo un passo ulteriore: come si fa a livello pratico a porre in atto tutto ciò che abbiamo
detto?

DIALOGO

ASCOLTO ATTIVO

ACCOGLIENZA SOSPENDERE IL GIUDIZIO CORPO
PACE QUI ED ORA RIMANDI:
RICONOSCIMENTO EMPATIA - di contenuto
CONTATTO CON SE’ - emotivi

Sicuramente attraverso il dialogo (sia verbale che paraverbale), ma nel dialogo in particolare
attraverso l’ascolto attivo, che è la cosa più difficile da mettere in pratica. Quando riusciamo a farlo
proviamo un senso di accoglienza, di riconoscimento, di pace. L’ascolto attivo presuppone un
mettersi in gioco fino in fondo, utilizzando delle parti di noi che durante il resto della giornata
dormono…

L’ascolto attivo necessita:

- la sospensione del giudizio (cioè togliere le griglie valoriali che mi appartengono)


- lo stare nel “qui ed ora”, dunque non viaggiare con la mente altrove
- l’utilizzare l’empatia cognitiva (cioè cercare di capire cosa l’altro mi sta dicendo) e
affiancare a questa l’empatia emotiva cioè cercare di comprendere cosa l’altro sta
provando in quel momento, nel qui ed ora
- punto essenziale per fare queste tre cose precedenti è l’essere in costante contatto con noi
stessi (con la nostra pancia e con la nostra testa), con il nostro senso identitario e questo è
abbastanza difficile da mettere in pratica, presuppone un’ottima conoscenza di noi stessi.
Recalcati dice che attraverso la presa di consapevolezza del proprio limite, delle proprie
fragilità, è possibile entrare in relazione con l’altro. Questo esercizio del contatto con sé
stessi può essere solo progressivo, cioè può solo evolvere in una sempre maggiore
conoscenza di sé stessi.

Va da sé che praticare l’ascolto attivo è molto faticoso, si può fare in una, al massimo due
occasioni in una giornata, perché è un farsi carico della relazione con l’altro a livello di
responsabilità.

Un’altra cosa importante, quando prendiamo consapevolezza dei nostri limiti, è mostrare all’altro la
nostra finitezza, perché uno dei problemi maggiori che si hanno nella relazione, quindi nel dialogo,
è che l’altro dà per scontato che noi siamo in una posizione di perfezione. Se noi sveliamo all’altro
invece ciò che siamo, i nostri difetti, egli si metterà in una posizione parallela a noi, facendo cadere
le proprie difese.

Altra cosa importante che possiamo fare nell’ascolto attivo è stare nel “qui ed ora” mantenendo la
nostra attenzione aperta, in maniera non strutturata, cioè quello che ascolto dall’altro non deve
essere categorizzato (invece di solito noi di default tendiamo a prendere ogni informazione che ci
arriva e a metterla in un cassetto, che ci appartiene). Quindi il materiale che ricevo dall’altro devo
viverlo nel contatto con me stessa, cercando di capire dove l’altro sta emotivamente, cosa mi sta
dicendo.

Altra cosa: affinché il mio ascolto sia efficace e non passivo, una volta ricevuto il materiale
dall’altro, è importante mostrare accoglienza (sia mediante il corpo, che con la parola), rimandare
all’altro che abbiamo capito cosa ci sta dicendo, quindi il contenuto (ho capito bene? Mi sta
dicendo questo?), e rimandare anche l’emozione che io sento che mi sta trasmettendo (utilizzo la
pancia: noto le espressioni, il tono della voce, i colori del volto ecc).
Ripartiremo nella prossima lezione dall’ascolto, che ci serve poi per arrivare al dialogo, quindi alla
relazione.

13/01/2016

Sull’ordo ci sono indicati alcuni test che la prof. ha utilizzato per preparare il corso, se noi
dovessimo fare una cernita lei ci consiglia di leggere c. Palazzini (ed.), le relazioni che curano, lup,
Città del Vaticano 2013 - Ponzio, Responsabilità e alterità in Emmanuel Lèvinas, Jaca Book, Milano 1995 -
Recalcati, Le mani della madre, Feltrinelli, Milano 2015. Poi ovviamente tutti questi testi la prof li ha
impastati a sua immagine e le idee sono contenute in ciò che ha detto. Comunque resta il consiglio
di leggerli.

La lezione inizia e prosegue per qualche minuto con scambi di idee tra gli studenti.

La prof oggi e nell’ultima lezione vuol fare una sorta di compendio di quanto detto. Ovviamente il
punto di partenza è quello riferito a lei stessa: che desiderio ha messo nel preparare questo corso,
cosa l’ha spinta? Il desiderio da cui è partita, probabilmente perchè ci sta psicologicamente dentro,
è andare a indagare e proporre a noi qualcosa che avesse a che fare col desiderio dell’incontro,
cioè col desiderio di approfondire come si costruisce una relazione, cosa ci sta dietro e che tipo di
influenza ha, a livello identitario, la costruzione di una relazione. La prof pensa che oggi dal pdv
sociale si è a un bivio. Qui si allaccia a Bauman, che proponeva la liquefazione dei legami sociali,
intendendo che stiamo assistendo a un loro sbriciolamento; il disagio del vivere attuale infatti non è
quello derivante da una relazione non funzionante, ma quello derivante da un auto centramento
(attacchi di panico, dipendenza da alcool, computer, droghe ecc) che il paziente stesso denuncia
in sede terapeutica. C’è una mutazione: a fronte di un disagio derivante da una conflittualità
relazionale, oggi invece ci si sposta a un problema di IO in relazione a un OGGETTO inanimato, la
prof lo definirebbe inumano. Infatti il soggetto denuncia un disagio del proprio IO con un oggetto
inanimato che è la bottiglia per l’alcolista, l’alterazione dello specchio per l’anoressica, la droga per
il tossicomane ecc. Tutti questi oggetti prendono il posto di un TU, per cui assistiamo non più a un
conflitto IO-TU, ma IO-OGGETTO. Questo problema crea il disagio i cui sintomi clinici attuali sono
di DIPENDENZA.

Questo è il problema oggi antropologico-sociale. La dipendenza tra l’io e l’oggetto con cui si
sceglie di interfacciarsi porta a una liquefazione, uno sbriciolamento dei legami sociali. Io con
l’oggetto creo un mio disagio attraverso lo sviluppo di una dipendenza. La dipendenza oggi è il
sintomo più frequente che troviamo in terapia.

Bauman l’aveva capito già diversi anni fa. C’è proprio una spoliazione della relazione umana. La
prof dunque ha proposto questo corso perché pensa che bisogna stimolare l’essere umano a
riacchiappare dentro di sé un senso di responsabilità verso sé e verso l’altro. Anche se ovviamente
relazionarsi è fatica, ci espone a passioni, conflittualità, turbolenza emotiva. La relazione è esporsi.

Questo per darci il senso del perché ha fatto il corso e il senso che gli sta dando. L’uomo sta
andando verso un chiudersi in sé stesso, scegliendo una profonda solitudine e una relazione
inumana, con un oggetto. Ma questo significa sofferenza, perché l’uomo nasce ontologicamente
dentro una relazione, quella con la madre.

Parlando del rapporto con i bambini a scuola la prof dice che dal pdv scolastico osservando un
bimbo si vede che è molto semplice e trasparente, per cui quello che osservo di lui è verace. Poi
vado a osservare il genitore e una delle malattie di oggi è quella che il genitore ha, di desiderare di
essere amato dal proprio figlio, l’inverso di ciò che accadeva una volta, cioè che i figli ricercavano
l’attenzione e l’approvazione dei genitori. Ora invece il genitore ha paura di non essere amato dal
figlio, per cui fa una serie di mosse per cercare di avere il suo amore e la sua approvazione,
parandolo da tutte le frustrazioni che lui può subire. Dunque per una maestra è più difficile
correggere un alunno, perché lui dall’altra parte dai genitori riceve l’opposto.

Partiamo ora dal senso della relazione: la relazione implica reciprocità, sennò non posso parlare di
relazione. Reciprocità significa che laddove ci sono un IO e un TU in relazione, c’è un movimento
altalenante, di avanti e indietro, che crea, attraverso la caratteristica di reciprocità, una
trasformazione. Dunque la relazione ci cambia ontologicamente. Per entrare in relazione ho
bisogno essenzialmente del corpo, della mia corporeità (ricordiamo gli esercizi iniziali); è ovvio che
se la relazione mi porta trasformazione, questa trasformazione include anche il corpo, non avviene
solo internamente. Infatti il corpo si esprime con lo sguardo, l’odorato, la sensualità ecc, è esso
che mi veicola nella relazione. Le persone che hanno una maggiore padronanza della propria
corporeità entrano meglio in relazione, chi invece ha imbarazzo e bassa autostima di sé fa più
fatica. Questo è molto evidente nell’adolescente, il quale guardandosi allo specchio non si piace al
99%, e nel momento in cui entra in relazione si porta dietro tutto questo, la cosa è percepibile.

Segue un dibattito di cui non capisco NIENTE perché ognuno parla sopra all’altro, e comunque
irrilevante ai fini dello studio, in quanto è tra gli studenti.

Essere in relazione pone in esposizione il soggetto, cioè la trasformazione implica che tu soggetto
ti stai esponendo all’altro, stai rischiando qualcosa di tè stesso. L’esposizione implica la turbolenza
e la turbolenza a sua volta implica un caos di emozioni, cioè l’essere comunque esposti a una
caoticità emotiva nella relazione. Devo sapere che nell’essere rifiutato c’è sempre un aspetto
positivo perché vuol dire che io sono entrato nella relazione, io ci sono.

Nel momento in cui il disagio attuale non mi deriva più dal livello relazionale, perché non c’è più un
IO e un TU, ma un IO e un OGGETTO inanimato, questa relazione tra me e l’oggetto che mi crea il
disagio cioè la zona di turbolenza, porta a un annullamento del desiderio, così come lo abbiamo
definito all’inizio. Oggi da un pdv clinico il disagio principale della persona che si relaziona con
l’oggetto è una mancanza del desiderio, quella che si chiama la “clinica del vuoto”. Mentre prima
c’era la clinica della conflittualità relazionale oggi c’è la clinica del vuoto, il soggetto sceglie di
ripiegarsi su sé stesso, sceglie una via del piacere autocentrata, una clinica dell’anti amore; mentre
nella relazione esponendomi entro in una relazione d’amore, seppur conflittuale, nella clinica del
vuoto ho l’anti amore, perché viene a mancare il chi relazionale, l’altro. E l’oggetto non riesco
ovviamente a vederlo come un altro.

Quello che è importante è che questa clinica dell’anti amore, cioè questa non relazione dell’IO con
il TU comporta una disconnessione tra il soggetto e l’altro, una chiusura “autistica”. Quello che si
può fare da un pdv clinico, quindi anche terapeutico, è rianimare il soggetto del desiderio, devo
ridare vita al desiderio, devo riconnettere l’individuo al proprio desiderio, che in questa clinica di
non relazione è stato perso.

Come io posso ricongiungere l’individuo al proprio desiderio? Attraverso la cura risanante. In


terapia la cura è cercare di condurre il soggetto in maniera autonoma verso il suo desiderio,
ovviamente attraverso la parola, in terapia, attraverso la dialogicità. Attraverso la cura risanante io
posso anche restituire dignità al soggetto, perché nel momento in cui egli si riappropria della
propria vocazione, del proprio desiderio, è come se ritrovasse una sua dignità.

Cos’è la cura? È un atto, una pratica, qualcosa che si fa concretamente nella relazione con l’altro.
Ovviamente essendo un atto implica una intenzionalità, una volontarietà dunque anche dietro c’è
un senso di responsabilità, per cui il mio benessere corrisponde anche a un atto di cura che è il
ben agire. Quando io assumo questa intenzionalità nella cura è come se prendessi
consapevolezza anche della posizione in cui mi trovo, che è strutturalmente, biologicamente
mancante di qualcosa (infatti abbiamo bisogno della cura della madre). Questo mi spinge ancor
più, attraverso la cura, ad andare verso l’altro per riempire tale mancanza di base.

Allora cosa posso fare io, a livello identitario, cioè come l’IO si forma a livello di cura risanante? Io
avevo proposto all’inizio il fatto che attraverso il riconoscimento io riesco a creare quella cura
risanante che mi permette di avere una sana relazione, dove sviluppo il senso identitario. Il
riconoscimento praticamente è la vita voluta, desiderata. Quando non c’è stato riconoscimento,
quando la mia vita non è stata voluta, contenuta, io sento il disagio. Quindi il senso del
riconoscimento implica proprio la capacità di accogliere l’altro, desiderarlo e accettarlo. Il volere e il
desiderare l’altro implica che io sia in grado di accogliere il mio desiderio, altrimenti come amerei
l’altro, se non amassi prima me stessa? Quindi vedete che ritorniamo sulla cura, sulla capacità
dell’individuo di sapere accogliere l’altro. Se io sono riconosciuto dal desiderio di un altro, sono in
grado di riconoscere un altro a mia volta.

Il senso del riconoscimento mi permette di costruire l’IO, cioè il senso identitario, che deriva proprio
dalla relazione, dalla cura, non è auto fondante l’IO. Come si può sviluppare l’IO nella relazione?
Attraverso la potenza della parola, che è il primo atto che mette in comunicazione l’IO e il TU.
Prima della parola è come se nella relazione tra l’IO e il TU non ci fosse stata una decifrazione
della relazione, la parola dà identità alla relazione e ne definisce i confini. Ovviamente la parola
passa attraverso la corporeità, quindi ci deve essere una presenza corporea. E se c’è la parola che
avviene attraverso una presenza, ci deve essere anche una terza area che è l’ascolto, perché la
parola va accolta, contenuta e rimandata dall’altro attraverso l’ascolto. Queste tre aree mi
permettono di arrivare all’IO attraverso la relazione.

20/01/2016

L’altra volta ci siamo soffermati sul concetto di relazione come trasformazione, entrando nella
differenza tra l’approccio psicologico, quindi quello che implica il disagio che porta la persona a
verificare quel disagio a livello relazionale, e come oggi questo disagio sia cambiato rispetto a
prima. Mentre prima dal pdv psicologico denunciavamo un disagio derivante dalla relazione IO-TU,
invece oggi il disagio è portato dal fatto che il soggetto inizia a soffrire per una dipendenza da una
relazione con un oggetto inanimato, inumano (droga, dipendenza dal computer, alterazione della
propria immagine davanti allo specchio ecc).

Questo ci dice molto del cambiamento antropologico e sociologico che stiamo vivendo in questi
anni. Come anche diceva Pasolini è una sorta di mutazione antropologica, cioè la trasformazione
di una relazione in termini di reciprocità, che viene a mancare tra 2 esseri umani e si instaura tra
essere umano e soggetto.

Dal pdv clinico da un disagio sintomatico caratterizzato da una difficoltà relazionale, passiamo alla
clinica del vuoto, cioè c’è una mancanza reale di un perseguire il proprio desiderio. Quello che si
nota soprattutto nei giovani è una forma di apatia, di noia, non si individuano reali obiettivi da
perseguire in ordine alla realizzazione del proprio desiderio. Tant’è che la depressione, malattia
che prima si manifestava in fase adulta, oggi insorge anche nei ragazzi giovani.

Quello che è importante è capire la sconnessione tra il soggetto e l’altro, è come se si fosse
tagliato il cordone tra l’IO e il TU.

Questo ha portato a un ripiegamento del soggetto su sé stesso, oltre che a una chiusura verso il
mondo, in un atteggiamento narcisistico. Questo porta anche allo sviluppo di tutti i sintomi fobici,
degli attacchi di panico, questo appunto è dovuto al ripiegamento del soggetto sulle proprie
dinamiche. Quindi da un punto di vista clinico sarebbe meglio prevenire, invece che curare, ossia
aiutare il soggetto a educarsi alla relazione e alla cura della relazione.

La prof ha introdotto il termine “cura” nel titolo perché è un termine antropologicamente essenziale,
noi nasciamo bisognosi di cura. Questo a livello psicologico corrisponde alla cura della relazione in
termini individuali, che porta a uno sviluppo della propria identità. Quindi va aiutato il soggetto a
appropriarsi di ciò che lo caratterizza e lo rende unico, la dimensione del desiderio è altamente
creativa, soggettiva, appartiene proprio all’individualità del soggetto e questo va sottolineato,
perché la difficoltà che le persone portano in terapia è la mancanza che loro sentono di un
rapporto della propria identità con sé stessa, come se la propria identità non è strutturata. Questo
è il motivo per cui la prof ha proposto questo corso, perché nota in tutti i pazienti questa mancanza
di connessione con il proprio sentire, come se il soggetto avesse congelato le proprie dinamiche e
non riuscisse ad andare a vedere cosa sta dietro questa mancanza. È solo in grado di denunciare
la mancanza, cioè che non sente il desiderio di nulla.

Questo ha portato la prof a riflettere su ciò che sta avvenendo a livello di cambiamenti e ha messo
in relazione il concetto di identità con il concetto di cura in termini di responsabilità. È partita dallo
studio di Heidegger e Sartre, quindi dal pdv ontologico, ma quello che le mancava era il passaggio
della cura in termini etici, per cui è andata a finire su Levinas. Nel momento in cui entro in
relazione attraverso il volto dell’altro, in automatico ho una presa di responsabilità dell’altro.
Levinas sottolinea che nel riconoscere l’altro ne riconosco la soggettività, l’unicità.

Questo ha portato la prof a cercare di capire come si sviluppa il senso identitario dal pdv evolutivo.
Quello che più l’ha colpita è il concetto di individuazione e assimilazione (Piaget ecc), c’è
un’esigenza di individuarci nelle nostre caratteristiche ma anche una necessità di appartenenza a
un gruppo, di identificare il nostro IO nel gruppo. Questo movimento costante, che avviene nella
fase dello sviluppo dell’identità, una danza continua tra individuazione e appartenenza, si svolge
dalla nascita fino alla giovane età adulta, una sorta di bilanciamento tra il trovare le proprie
caratteristiche e l’identificarsi come appartenente a un gruppo.
Questo continuo bilanciamento porta a uno sviluppo identitario, ma ci chiediamo: come questo
parallelismo tra l’individuarmi e l’appartenere si coniuga con il concetto di relazione?

Perché se io guardo al concetto identitario in termini individuali per me è essenziale che tutto
questo io lo coniugo, lo interfaccio con l’altro, che fa la medesima operazione. Cosa la relazione mi
provoca da un pdv individuale e di appartenenza?

Questo è ciò che la prof si è chiesta per arrivare al concetto di cura, cioè attraverso la cura della
relazione è inevitabile che vado a lavorare sul senso identitario.

Il concetto di cura ha posto la domanda: come intervenire sul soggetto affinché si riappropri delle
caratteristiche identitarie, affinché ne diventi padrone attraverso la cura (e dunque la relazione
risanante) e facendo ciò possa vivere con serenità l’appartenenza al gruppo che lo accoglie (che
sia sociale culturale ecc)?

Il concetto di responsabilità presente in diversi autori ha incuriosito la prof su come stimolare il


soggetto a sviluppare il senso di identità, che secondo lei ha a che fare con la clinica del vuoto; è
come se il soggetto non fosse consapevole della responsabilità che ha riguardo alla relazione, ma
in primis riguardo al concetto identitario, è come se non avesse un contatto con questo senso,
come se non lo visualizzasse. Il confrontarlo dunque con qualcosa che non sente lo pone in una
condizione di aprire delle porte che non ha mai aperto. La prof si chiede: perché il paziente non ha
mai concepito la responsabilità nella relazione verso sé e verso gli altri? Questa domanda è il
motivo che l’ha spinta a fare questo corso. Cosa possiamo fare noi per sviluppare questa attitudine
alla responsabilità?

In terapia si cerca di mettere in movimento il soggetto su una riflessione propria, evitando di essere
iper protettivi nei suoi confronti e invece accompagnandolo a una presa di consapevolezza.
Questo non perché io desidero il ben-essere dell’individuo, ma perché desidero condurlo verso il
ben-agire, cioè agire in termini sani verso sé e verso l’altro.

Da un pdv psicologico secondo voi qual è una delle prime cose che si può fare nella relazione per
accompagnare il soggetto verso il ben-agire nei confronti di sé stesso e degli altri? Il mezzo che ho
è l’ascolto attivo, quello che devo fare concretamente però è accompagnare il soggetto a capire
quali sono le sue risorse. Questo perché è importante rimandare sempre al soggetto il
riconoscimento della sua dignità, che lui c’è ed è degno di esserci per me, va bene così, nel modo
di essere sé stesso. Il mio aiutarlo nel riconoscere le proprie risorse lo aiuta a prendere contatto
con quello che gli appartiene, quindi io lo sto riconoscendo nel suo essere degno di sé stesso.

Ovviamente nel 90% dei casi il soggetto, per cui non è facile fare questo lavoro, mi porta a vedere
quello che non va, gli errori. Questo lo aiuta a comprendere che ha delle mancanze, quindi il
prendere consapevolezza degli errori lo aiuta ad assumersi un carico che tende a non voler
prendere su di sé. Come aiutare il soggetto a leggere la parte negativa? Perché a volte al soggetto
piace stare nell’errore, è zona franca per lui, questo deriva da una mancanza che può essere di
riconoscimento, ma anche da un voler perpetuare una parte di sé stesso perché gli fa comodo,
perché in quella situazione del “povero me” gli altri si prendono cura di lui.

L’esercizio di portare il soggetto a prendere consapevolezza di questa mancanza, lo aiuterà


gradualmente a riconoscere quello che gli appartiene in termini positivi.

Facciamo un parallelo: nella parabola del Figliol prodigo, quando il figlio che ritorna capisce di
avere mancato, di essere nell’errore? Quando il padre lo abbraccia, lo bacia, lo sta riconoscendo.
Quindi quello che è importante dal pdv relazionale non è puntare il dito su una cosa, ma portare a
quella cosa il soggetto attraverso la cura nella relazione, cioè riconoscendolo per quello che è.

Se poi vogliamo allacciare questo concetto a quello di desiderio, il concetto di desiderio lo vedo
nella lettura delle risorse, cioè quando nella relazione ho accolto la parte deficitaria, posso riportare
il soggetto alla scoperta di quello che lo caratterizza, proprio attraverso la deficienza, l’errore.
Quindi un’altra caratteristica importante nella cura non è solo il senso di responsabilità che io
prendo su di me nella relazione, ma anche il livello di attenzione all’altro e di preoccupazione, cioè
io devo essere attenta a quello che l’altro mi porta nella relazione, anche con la comunicazione
non verbale e preoccuparmi, intendendo con ciò la presa a cuore dell’altro, che non è più dunque
inteso come l’essere, ma come il volto, lo sguardo, l’individualità.

Quindi vediamo che l’atto di cura non viene naturale, è qualcosa che dobbiamo imparare (se da
bambini molto meglio), ha una caratteristica di intenzionalità. Chi fa questo lavoro nella fase
evolutiva? La funzione materna e il padre. La madre è colei che trasmette al proprio figlio il
sentimento della vita, aiuta a sviluppare in lui il sentire che c’è qualcosa che dà senso al suo
vivere, perché la madre è colei che fisiologicamente accoglie in sé un altro essere e dà un senso a
questa vita che nasce. Questo è ciò che dà vita da un pdv psicologico all’individuo che portiamo in
noi.

Per la madre adottiva questo lavoro implica ancor più un senso di cura e responsabilità.

Il sentimento di vita che la madre trasmette al figlio è collegato al concetto di desiderio, che è
qualcosa che appartiene all’individuo ma lo supera allo stesso tempo. La madre è colei che
favorisce il riconoscimento delle caratteristiche proprie dell’individuo attraverso il riconoscimento
della sua insostituibilità. Questo rende l’individuo più o meno capace, quando è adulto, di ri
acchiappare le risorse di cui parlavamo prima.

La funzione paterna invece è quella che pone il limite, la legge e che mette in dialogo il concetto di
insostituibilità dell’individuo col senso del limite. Il padre deve riuscire a far dialogare il desiderio
con la legge; questo lavoro di connessione tra le due cose è indispensabile, dove ci sta uno deve
esserci anche l’altro. Quello che è importante è che il padre costruisce questo pointe anche
attraverso la propria testimonianza, cioè il passaggio tra la capacità di desiderare e il poter
desiderare sapendo però che c’è un limite a questo desiderio lo permette la testimonianza del
padre attraverso il suo essere. Non lo trasmette attraverso regole morali, dispensando pillole ai
figli, ma con il suo modo di vivere e di vivere la relazione.

Lacan diceva che per poter rompere a un certo punto la relazione col padre, da cui bisogna prima
o poi affrancarsi, io figlio devo servirmi di questa figura paterna, cioè attraverso la relazione che
vivo col padre devo riappropriarmi di quello che mi appartiene attraverso la sua testimonianza,
rielaborare le mie risorse e caratteristiche attraverso la testimonianza, l’essere di mio padre.

Se pensiamo a Gesù Cristo, come ci ha fatto conoscere Dio, il Padre? Attraverso il suo modo di
essere, il suo essere.

Quindi quello che passa a un figlio è quello che tu sei, non tanto le parole che dici.

Quello che alla prof piace di Recalcati è che lui si chiede quali sono le condizioni per cui posso
entrare in una relazione d’amore verace con l’altro. Queste condizioni sono: la libertà, quindi i
propri spazi, se noi insegniamo ai nostri figli di avere cura del proprio spazio vitale essi poi
rispetteranno anche quello degli altri, e l’appartenenza, il fatto di essere parte, a livello identitario,
di una relazione.
In tutto ciò l’ascolto attivo mi permette di entrare nella relazione, sospendendo il giudizio con le mie
griglie interpretative per accogliere in maniera autentica ciò che mi viene portato nella relazione
dall’altro e tutto questo avviene attraverso l’empatia, che non è una dote spontanea con cui il
bambino nasce, ma che dobbiamo fargli vedere con la nostra testimonianza.

L’empatia esige anche una sorta di maturazione che tocca tutte le sfere dell’attività psichica
umana: il bambino deve avere una maturazione intellettuale, in cui coglie quello che vive nella
relazione; una maturazione pro-sociale, cioè capace di portare il soggetto a una stabilità nella
relazione sociale; deve infine acquisire delle competenze fatte di comunicazione. Tutto questo
porta all’empatia matura che mi fa cogliere l’altro e lasciare che sia quello che sia, questa è la vera
empatia, non il voler leggere il mondo con gli occhi dell’altro, ma lasciarlo essere quello che è, e
coglierlo così come è, nella sua autenticità.

FINE

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