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Scrittura III – prof.

Rosario Chiarazzo (Anno Accademico 2020-2021)


Lezione 5 (21.10.2020)

Nella nostra ultima lezione, lavorando proprio sulla sinossi, abbiamo visto il testo di
Marco e di Matteo riguardante il detto sulla sequela.
C’è il famoso rimprovero a Pietro che abbiamo già esaminato che, dal punto di vista
narrativo ha un effetto non tanto perché ha delle connotazioni morali, non dice “tu mi
hai tradito”, ma serve a fare in modo che il lettore si ponga nella nuova prospettiva
che Gesù sta annunciando e preparando nel suo cammino verso Gerusalemme.
Volevo esaminare con voi brevemente anche la versione lucana, che a dire la verità
abbiamo trattato poco, cioè Lc 9, 23-27, già c’è un piccolo cambiamento rispetto a
Marco e Matteo, dove Pietro viene rimproverato due volte, qui invece Luca aggancia
direttamente una serie di 5 “loghia” (cioè detti) sul tema del seguire Gesù,
all’annuncio della Passione in modo tale che si vede in maniera molto evidente quello
che è il destino di Gesù e anche il destino del discepolo.
23
Ora diceva a tutti: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso e prenda la sua croce
ogni giorno – abbiamo già detto “ogni giorno” cosa vuol dire - e mi segua.
24
Poiché chi vuole salvare la sua esistenza, la perderà, ma chi perderà la sua esistenza per casa
mia, costui la salverà. 25 Infatti, che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, ma perde sé stesso
e subisce danno?
26
Chi infatti si sarà vergognato di me e delle mie parole, di costui il Figlio dell'uomo si vergognerà
quando verrà nella gloria sua e quella del Padre e degli angeli santi. 27
Vi dico in verità: ci sono
alcuni di coloro che stanno qui, che non gusteranno la morte prima di aver visto il regno di Dio».
Vedete, qui Luca mette insieme 5 detti di Gesù di origine diversa, raccolti forse per
primo da Marco e applicati da questo evangelista alla situazione di persecuzione a cui
la comunità era sottoposta; voi sapete che ogni Vangelo è stato scritto perché
l’evangelista ha come finalità la vita della comunità, allora in quel preciso momento,
associare la vita di Gesù con quella del discepolo, significa anche incoraggiare la vita
della comunità che trovandosi nelle innumerevoli difficoltà ha bisogno di coraggio e
speranza e quindi guardare al proprio Signore come fondatore.
Luca segue globalmente Marco, ma ci sono dei cambiamenti significativi dati proprio
da quel “prenda la sua croce ogni giorno” cioè, l’esistenza cristiana si configura
come adesione alla vita di croce che Gesù stesso ha preso su di sé.
Il versetto 23 formula l’esigenza di base: “Se qualcuno vuol venire dietro a me…”. I
versetti 24-26 esplicitano questa esigenza di base secondo diversi punti di vista; il
versetto 27 “Vi dico in verità…” ha un carattere conclusivo. Questa è la descrizione
della vita cristiana compresa come una sequela di Cristo, in cui il credente è posto
sulla via del Maestro: come Gesù è passato attraverso la sofferenza per raggiungere la
Risurrezione, così il cristiano si incammina nella stessa strada per poter vedere il
Regno di Dio e questo Luca lo ribadisce anche negli Atti degli Apostoli (At 14,22).
La prima esigenza di base (v. 23) esplicitata nei versetti successivi, ha un carattere
universale fondamentale: al posto di Marco che dice “E chiamata a sé la folla con i
suoi discepoli, disse loro…” (Mc 8,34), Luca scrive semplicemente “Ora diceva a
tutti…” (v. 23), secondo lo stile tipico di Luca. Il “tutti” manifesta che queste
esigenze che Gesù dice non sono rivolte solo ai discepoli di quel preciso momento o
ai suoi seguaci ma sono indirizzate agli uomini di ogni tempo. Il fatto di usare
l’imperfetto (“diceva”) indica che questo era un insegnamento abituale di Gesù,
l’imperfetto ci dice che è qualcosa che è avvenuto nel passato e che continua nel
presente, indicando che siamo di fronte ad un insegnamento stabile, possiamo dire ad
una verità.
Poi abbiamo l’espressione semitica “venire dietro a me” che significa diventare
discepolo di qualcuno e nel caso di Gesù consiste non solo nel mettersi alla sua
scuola, ma anche nel fare concretamente la sua esistenza itinerante. Nella Chiesa
l’espressione è sinonimo di essere cristiano con varie sfumature a seconda del
contesto.
Per Luca, il verbo “venire” utilizzato all’infinito presente, significa che è un
atteggiamento permanente, un impegno nel quale occorre perseverare; di fatti, mentre
qui abbiamo l’infinito presente (l’uso diverso dei verbi, dal punto di vista
grammaticale-sintattico, ci dice che c’è un messaggio diverso a seconda di come
vengono utilizzate le parole) in Matteo e Marco viene usato il verbo all’infinito
auristo che in greco è un tempo del passato, che indica un’azione verificatasi nel
passato una volta per tutte che però cambia l’esistenza. Qui invece, utilizzando
l’infinito presente, Luca vuole dire una cosa importantissima, cioè indica l’avere
questo impegno continuo nella storia di sequela verso il Maestro.
Subito dopo viene formulata la condizione per essere servo autentico di Gesù, viene
usato il termine “rinnegare sé stesso”, questa espressione equivale ad un'altra che
troviamo nel Vangelo “odiare la propria vita” (Lc 14,26); l’evangelista non pensa ad
una qualche pratica ascetica ma all’atteggiamento fondamentale della vita cristiana,
cioè una rinuncia da sé.
Rinnegarsi non significa abdicare a quello che si è, cioè non significa rinunciare ad
essere sé stessi, altrimenti il cristianesimo sarebbe una sorta di alienazione, creerebbe
all’interno di ogni singolo individuo una specie di antitesi, una contrapposizione e
sappiamo benissimo che quando ci sono dei conflitti interiori, il minimo che possa
venire fuori è la nevrosi; ma il cristianesimo al contrario è a favore di una
pacificazione interiore, e la pacificazione interiore significa proprio questo, ricevere
la propria vita come un dono di grazia, il proprio essere non è un essere dispotico che
ha una specie di dominio sugli altri e quindi essere totalmente sé stessi non significa
dominare gli altri, ma significa vivere la propria esistenza come un dono che si apre
anche agli altri, cioè che non fa di se l’unico criterio di azione. È quello che Paolo,
per esempio, nelle sue lettere molte volte chiama “i desideri della carne”: portare
avanti i desideri della carne significa porre il proprio ego al centro di tutto come
unico criterio di esistenza.
Mentre c’è una relazionalità che è oblazione, donazione e che è superamento dei
propri “capricci” e rinnegarsi significa portare la croce ogni giorno, quindi in fondo la
vita cristiana non è una specie di sogno di felicità a poco prezzo per cui uno dice “ah,
finalmente sono felice perché c’è Gesù che mi dà la gioia…”, certo, deve essere
anche gioioso, deve vivere nella letizia, però c’è un elemento fondamentale che ci
spinge nella nostra vita quotidiana ad accettare anche la sofferenza che diventa quella
difficoltà che ci permette di sperimentare la fedeltà nella quotidianità, quello è il
rinnegarsi.
Quindi possiamo dire, come forse ho già avuto modo di dire, che significa
incamminarsi per la strada della croce e non fare di sé il centro ma al contrario porre
l’altro, il progetto del Signore al centro senza egoismi.
“E mi segua” sembra una ripetizione dell’espressione “venire dietro a me”; ad
esempio Gv 12,26 ha una formulazione molto simile, però al posto di “venire” si
legge “servire”.
Apro una piccola parentesi, per quanto riguarda il quarto Vangelo faremo l’esegesi di
alcune parti e metteremo in evidenza alcuni aspetti abbastanza problematici per
quanto riguarda la redazione, tra le varie ipotesi, si dice che uno dei possibili redattori
finali possa essere Luca, ma al di là di questo possiamo dire che c’è una certa
difficoltà nell’identificare il redattore unico del quarto Vangelo, sicuramente ci sono
stati più redattori che hanno lavorato in determinati momenti.
È interessante questo cambiamento che, in Giovanni, al posto di “venire dietro a me”
c’è “servire”.
Come mai c’è questa ripetizione? In fondo bastava averlo detto prima. Alcuni vedono
l’ulteriore esigenza di sottolineare l’entrare in comunione con il Maestro, secondo
l’uso rabbinico ascoltare il maestro significa seguirlo, andare dietro di lui. Oppure
questo “seguire” lo possiamo vedere in relazione al “portare la croce”: il discepolo è
invitato a portare la croce che ha come conseguenza il servire Gesù fino in fondo alla
via Crucis.
Però conviene fare, a questo punto, anche una riflessione sulla storicità e sul
significato di questa parola di Gesù: nel corso della storia dell’esegesi, questa
attribuzione a Gesù è stata diverse volte contestata per il fatto che Gesù non poteva
rimandare i suoi discepoli alla propria morte in Croce che non aveva ancora né
vissuto né previsto, Lui prevedeva la sua morte violenta, ma non la crocefissione.
Quindi si è detto che probabilmente è stata un’inserzione della comunità cristiana e
poi le testimonianze letterarie di questo “portare la croce” nel senso di essere pronto
al martirio, sono inesistenti o confuse nella Palestina dell’epoca. In modo particolare,
si cita spesso il Midrash1: “Abramo prese il legno, lo pose su suo figlio Isacco, come
un uomo portando una croce sulla sua spalla”, il senso però non corrisponde a Mc
8,34. Ci può essere un collegamento con Isacco per quanto riguarda Gv 19,17 (Essi
allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio,
detto in ebraico Gòlgota) ma è difficile che ci sia questa tipologia anche per Marco,
Matteo e Luca.
Questi argomenti non bastano per rifiutare la paternità di questa espressione a Gesù.
Nel primo secolo, la Palestina ha conosciuto e conoscerà ancora molte crocefissioni,
questo terribile supplizio romano; Gesù quindi poteva benissimo riferirsi a questa fine
tragica. Con “prendere la croce”, Gesù invita il discepolo a prendere coscienza, ad
accettare il rischio di questa sequela del Messia che significa essere pronti a subire la
morte e la morte più vergognosa che era conosciuta a quei tempi.
Dopo la crocefissione e alla luce dell’evento di Gesù, l’esigenza si precisa come una
imitazione di Gesù, cioè come un incamminarsi sulla stessa via, pronti a subire quel
destino infame. Il detto (“loghion”) era particolarmente attuale in un contesto di
persecuzioni che la comunità doveva affrontare, si lancia un messaggio alla
comunità: essere fedeli al Signore significa incamminarsi per la strada del martirio e
Luca aggiunge anche “ogni giorno” che è senz’altro un inserto redazionale che
cambia la prospettiva, che riguarda proprio l’esistenza quotidiana del credente in cui
si è invitati a rinunciare al proprio egocentrismo.
Potremmo, per esempio, vedere questa affermazione in relazione con quanto Gesù
proclama nella prima beatitudine nel vangelo di Matteo, quando dice “Beati i poveri
in spirito”, è una beatitudine formata da 3 parti: uno essere beati, poi la categoria e
che cosa viene promesso a coloro che vivono questa condizione. È al presente mentre
tutte le altre beatitudini sono al futuro, e ciò significa che vale ora, già adesso. Che
vuol dire “essere poveri nello spirito”?

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Nella tradizione rabbinica è un’attività/metodo di interpretazione della Scrittura che, andando al di là del senso
letterale semplice, scruta il testo in profondità (secondo regole e tecniche proprie) e sotto tutti gli aspetti, per
attualizzarlo e adattarlo ai bisogni e alle concezioni delle comunità, e trarne applicazioni pratiche e significati nuovi che
sono lontani dall'apparire a prima vista.
Dobbiamo scansare l’equivoco che ci si possa riferire ad una povertà solo dal punto
di vista economico, ci possono essere tanti ricchi che mettono a disposizione dei
poveri i loro beni, ma ci possono essere anche tanti poveri che sono invidiosi di ciò
che hanno gli altri, per cui l’essere poveri non è come un grande privilegio per entrare
nel regno dei Cieli. Qui Matteo parla in maniera intelligente di povertà in spirito: che
vuol dire povertà in spirito? La povertà in spirito è la capacità di saper riconoscere
che io non basto a me stesso, che c’è qualcuno a cui affidarsi, la capacità di
comprendere, di mettere in atto concretamente che io dipendo da un Altro, con la A
maiuscola!
Quindi è proprio l’esistenza del credente che è chiamato a testimoniare la propria
fede, che diventa la condizione per vedere il Regno di Dio. Da questo punto di vista
questa espressione è una regola di vita che si concretizza ad esempio in Lc 23,26
quando il Cireneo porta la Croce: portare la Croce, è in un certo modo un’opera di
cristianizzazione verso colui che in quel momento è stato costretto ma che comunque
ha portato la croce di Gesù.
Poi abbiamo il versetto 24 che dice “Poiché chi vuole salvare la sua esistenza, la
perderà, ma chi perderà la sua esistenza per causa mia, costui la salverà.” Qui siamo
in presenza, dal punto di vista del genere letterario, di un mashal, che sono una specie
di proverbi, di detti sapienziali. Potremmo tradurlo in questi termini: colui che per
sfuggire alla morte respinge il Messia, si pone sotto la condanna quando il Figlio
dell’uomo verrà a giudicare, chi invece è pronto al martirio, chi rischia la propria
esistenza concreta non subirà il giudizio di condanna. “Salvare l’esistenza” è
un’espressione biblica che troviamo nella Scrittura e molte volte viene usato il
termine “psyché” cioè “anima” in greco, ma nell’ambiente biblico “psyché” traduce
la parola ebraica “nefesh” che indica l’esistenza terrena concreta e diventa sinonimo
di “essere sé stesso”, Luca infatti metterà il pronome riflessivo al posto di “psyché”.
Nefesh indica il soffio vitale di Dio che permette di vivere, ciò ci rimanda alla Genesi.
Poi notate un altro elemento importante, abbiamo al posto di “a causa mia e del
Vangelo” di Mc 8,35, soltanto “a causa mia”, così facendo viene tolta la prospettiva
missionaria di portare il Vangelo e la Buona Notizia (tipico di Marco) ma Luca
amplifica ulteriormente il rapporto personale del credente con Gesù come motivo
dell’essere, del vivere il comportamento cristiano. Il detto dunque implica una fedeltà
ad ogni costo, fino al martirio, significa che il cristiano ha fatto una scelta di una vita
che richiede il dono di sé e quindi perde la sua esistenza accettando ogni giorno di
vivere per qualcun Altro.
Nel versetto 25, pur riprendendo il loghion di Mc 8,36 che apparentemente non ha
nulla in comune con il versetto precedente della prontezza al martirio, siamo in
presenza di un proverbio in forma di domanda retorica, che afferma che non c’è bene
più prezioso della propria vita: guadagnare l’universo intero non controbilancia la
perdita della vita.
Luca opera qualche ritocco significativo: aggiunge il verbo “perdere”, cambia
l’espressione semitica “psyché” con il pronome “sé stesso”, in questo modo il legame
con il v.24, anche dal punto di vista letterario, diventa più stretto. La verità di tipo
sapienziale rappresentata dal mashal del versetto 24, viene cambiata con un
avvertimento che c’è la possibilità di perdere la vita eterna, c’è un pericolo e se uno
incorre in questo pericolo, sa come deve procedere; non si mostra più l’assurdità di
chi guadagna il mondo ma le conseguenze per la salvezza di chi soccombe alla sete di
potere, di successo, delle ricchezze.
Luca si interessa anche alla povertà di tipo sociologico, il povero è veramente il
povero, infatti anche nella beatitudine dove Matteo dice “beati i poveri in spirito”,
Luca dice “beati i poveri”, quelli cioè che non hanno proprio niente.
Un altro elemento interessante è nel versetto 26, la parola di Gesù denuncia un altro
pericolo che l’evangelista considera attuale, quello di vergognarsi di Gesù: vi ho già
detto altre volte che Luca scrive per i cristiani della seconda, terza generazione, i
quali avevano perso un po' di convinzione nell’adesione al Signore, al Risorto e allora
vivono una vita un po' annacquata, un po' addormentati potremmo dire e allora Luca
li vuole scuotere, ha questa preoccupazione. Nel nostro versetto, rispetto a Mc 8,38,
c’è qualche cambiamento per esempio Luca toglie “in questa generazione adultera e
peccatrice”, forse la ritiene poco adatta oppure poco comprensibile per i suoi lettori,
o anche non vuole limitare solo ai suoi contemporanei questa affermazione, ma la
vuole aprire ad un’universalità, quest’ultima è l’ipotesi più probabile. Poi, sottolinea
il senso di
responsabilità di colui che si vergogna del messaggio di Gesù e conferisce una gloria
propria al Figlio dell’uomo che è la maestà che corrisponde al Risorto.
Il Figlio dell’uomo, il Padre, gli angeli santi, formano una triade nella quale gli angeli
sono visti come la corte celeste di quel mondo divino a cui il Figlio dell’uomo
appartiene totalmente. Questo è un loghion interessante perché pone in rilievo la
coscienza unica che Gesù ha del suo disegno di Dio, cioè il destino eterno dell’uomo
dipende dalla posizione che lui prende nei confronti della persona e nel messaggio di
Gesù. In questo momento Gesù considera la sua Parola e sé stesso decisivi per la
salvezza: come ci si è comportati nei confronti di Gesù, ad un certo punto porta alla
salvezza o alla dannazione.
Ora ci si chiede in quale occasione Gesù abbia pronunciato un simile discorso, una
simile affermazione, certamente la sua Parola contiene una situazione difficile che
vuole rafforzare la scelta nei suoi confronti.
Indubbiamente in un contesto di persecuzione chiama alla coerenza della vita con la
fede cristiana, ma Luca si trova ad annunciare il Vangelo ai fedeli della 2 e 3
generazione cristiana e allora intuiamo che infondo c’è la possibilità di annacquare il
Vangelo di lasciarsi sedurre da false dottrine che potevano forse operare una sintesi
tra i propri interessi e quello del Vangelo, invece con questa affermazione di Gesù si
esprime proprio una scelta di campo, concreta.
Nei versetti 23-26 Luca traccia la vita del cristiano al seguito del Maestro, una vita
che passa per la sofferenza, per la rinuncia all’egoismo, una vita che non è questione
di conquistare il mondo né di cercare gloria o di raggiungere chissà quale carica o
vetta ma si tratta di essere fedeli al Vangelo, senza paura e senza compromessi.
Alcuni dicono che Gesù quando dice queste cose avesse in mente le tentazioni di cui
si parla all’inizio del Vangelo.
Poi, abbiamo il versetto 27 che è decisamente problematico: “Vi dico in verità: ci
sono alcuni di coloro che stanno qui, che non gusteranno la morte prima di aver
visto il regno di Dio”. Luca, in modo antitetico, lega la promessa di Gesù (v.27) al
versetto
precedente: la visione del Regno di Dio per alcuni costituisce l’esito positivo in
contrasto con il giudizio di condanna fatto a coloro che si vergognano di Gesù. Nella
mente dell’evangelista, questi alcuni sono coloro che hanno saputo perdere per causa
di Gesù la propria vita, rinnegare se stessi, portare la croce, quelli che poteremmo
considerare discepoli autentici; l’evangelista sa che le esigenze di Gesù sono rivolte a
tutti ma non sono accolte o vissute da tutti anche all’interno della stessa comunità
cristiana e poi c’è questa affermazione un’po' strana: come intendere soprattutto la
seconda parte del versetto dove si dice “che non gusteranno la morte prima di aver
visto il regno di Dio”? Vedete “gustare la morte” è un’espressione giudaica, che
proviene dal Talmud, e sembra presente anche nella Bibbia e significa “fare l’amara
esperienza della morte”, un’esperienza che uno non vorrebbe fare. Generalmente si
gusta qualcosa quando c’è qualcosa di buono, qui invece il gustare è collegato alla
morte che di per sé è un’esperienza negativa: sta dunque ad indicare il fare
l’esperienza amara della morte. Morte non come dissoluzione di tutto ma piuttosto
come incapacità di godere della salvezza. Invece, vedete, gli autentici seguaci di Gesù
possono fin d’ora fare l’esperienza di vedere il regno di Dio anche se poi dovranno
morire come Gesù.
A questo loghion sono state date diverse interpretazioni che si possono dividere in
due grandi categorie: alcuni esegeti in comunione con i Padri della Chiesa, si
riferiscono ad un evento preciso che è quello della trasfigurazione che viene subito
dopo. Secondo altri farebbe riferimento alla Risurrezione o addirittura alla distruzione
di Gerusalemme.
Oggi, invece si tende a pensare, ad una presenza attuale del Regno nella vita della
Chiesa che si manifesta nelle attività, nella diffusione del Vangelo o nell’esperienza
del credente che abbracciando la sofferenza al seguito di Cristo, partecipa alla sua
vita di resurrezione, oppure il Regno diventa visibile a chi, dopo Pasqua, viene dato
di conoscere i misteri del Regno in modo nuovo. Quest’ultima categoria è più vicina
all’intenzione dell’evangelista per il quale la presenza del Regno è già una realtà
attuale perché legata alla presenza di Gesù prima e all’annuncio del Vangelo fatto
dalla comunità cristiana poi.
Ora ritorniamo alla sinossi, abbiamo visto quali sono i criteri del seguire Gesù così
come ce li ha presentati Luca, che è molto vicina a quella di Marco, mentre una
differenza in Matteo è “quando verrà il Figlio dell’uomo renderà a ciascuno secondo
il proprio operato”, cioè svelerà quella che è stata la sua esistenza.
Andiamo adesso all’episodio della trasfigurazione, episodio molto bello e
interessante, volevo leggervelo prima nella tradizione marciana, quello più antico e
poi nella tradizione di Matteo e Luca, se avete davanti il testo che vi ho messo sul sito
vedrete che è davvero interessante: 2E, dopo sei giorni, - poi vedremo il significato di
questi sei giorni - Gesù prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni e li conduce sopra un monte
alto, in disparte da soli. – Vedete, “monte alto” è interessante, in genere , il monte già di

per sé è alto rispetto alla pianura, infatti Luca cambierà dicendo: “Avvenne che dopo
queste parole, circa otto giorni dopo, - lì siamo a sei, qui a otto – avendo preso con sé Pietro e

Giovanni e Giacomo, salì sul monte per pregare”. (Lc 9, 28) Cambia la prospettiva, vedete,

nell’introduzione del racconto della trasfigurazione: Marco ci diceva che sale su un


monte alto, Luca solo che sale sul monte. Poi vedete come procede la narrazione di
Marco: E fu trasfigurato dinnanzi ad essi; 3e le sue vesti divennero fulgide, assai candide: - qui
c’è l’inserimento dell’evangelista – quali un lavandaio sulla terra non potrebbe rendere così
candide. – questo è proprio un commento personale di Marco, uno dei suoi pochi

versetti propri in cui fa un commento personale, un’po' simile alla guarigione


dell’emorroissa in cui dice che aveva perdite da molti anni e che aveva speso tutti i
suoi soldi per i medici e invece che migliorare era peggiorata, questo lo dice solo
Marco, perché vuole suscitare nel lettore un’impressione, vuole emozionare, far
vedere come Gesù cambia la vita delle persone - 4E apparve loro Elia con Mosè e stavano
conversando con Gesù. 5E Pietro, prendendo la parola, dice a Gesù: «Rabbì, è bene per noi essere
qui; e faremo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!».
Ci fermiamo a questi 5 versetti per fare il confronto con Matteo e Luca.
Matteo dice (capitolo 17): 1E dopo sei giorni, Gesù prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni,
suo fratello, e li conduce, sopra un alto monte in disparte. 2E fu trasfigurato dinanzi ad essi, e il suo
volto risplendette come il sole, le sue vesti divennero candide come la luce. – in Mt17 la

presentazione cambia un po' - 3Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Ci sono alcune accentuazioni un po' diverse tra Marco e Matteo, ora vediamo Luca
cosa dice: 28Ora, avvenne che dopo queste parole, circa otto giorni dopo avendo preso con sé
Pietro e Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29E, mentre egli pregava, l’aspetto del suo
volto divenne un altro e il suo abito candido, sfolgorante. 30Ed ecco due uomini conversavano con
lui, i quali erano Mosè ed Elia, 31
che, apparsi in gloria, parlavano del suo esodo, che stava per
compiersi a Gerusalemme. 32
Ora, Pietro e quelli che erano con lui erano aggravati dal sonno; -

sempre quando c’è una teofania l’uomo dorme, chissà perché, è interessante! - ma
essendosi tenuti svegli videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33
E avvenne che
mentre essi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bene per noi essere qui; e faremo
tre tende, una per te e una per Mosè e una per Elia».
Oggi cominciamo a vedere come ci presenta questo testo Marco. Notate: “sei giorni
dopo”, questo esatto riferimento incuriosisce, a cosa si riferisce? Vengono date
diverse interpretazioni: faceva parte della fonte pre-marciana e l’evangelista l’ha
riportata, oppure è un riferimento alla teofania di Mosè sul monte Sinai (Es 24,15-
17). Potrebbe essere un riferimento retrospettivo alla confessione di Pietro, oppure
un’anticipazione della settimana di Passione di Gesù a Gerusalemme. Tutte
potrebbero essere valide, ma a me pare che sia un’allusione alla teofania di Mosè al
Sinai.
Perché abbiamo Pietro, Giacomo e Giovanni? Perché sono i primi discepoli, quelli
che costituiscono un circolo di intimi, non solo qui ma anche in Mc 5,37 e Mc 14, 33.
Poi l’evangelista dice “li condusse sopra un monte alto”: Marco non precisa perché li
conduce sul monte, mentre Luca dirà che li conduce a pregare, questo è caratteristico
di Luca che quando Gesù compie qualcosa di veramente importante si ritira a
pregare.
“Sopra un monte alto”: tra i monti abitualmente indicati in Palestina ci sono l’Ermon,
il Carmelo e il Tabor, quest’ultimo è indicato come luogo tradizionale in cui è
avvenuta la trasfigurazione, identificato a partire dal IV secolo.
Più importante della localizzazione qui è importante ciò che rappresenta il monte:
nella tradizione ebraica abbiamo il monte Moria, il monte Sinai, Gerusalemme che ha
una posizione alta, perché il monte? Anche nel discorso della montagna, ad esempio,
Gesù il suo primo grande discorso lo fa dalla montagna.
Perché è luogo di incontro con Dio ed è luogo dove viene fatta una rivelazione.
Qui Marco dice con un’affermazione, una frase enfatica “in disparte, da soli”, fa
risaltare il carattere misterioso, il mistero rivelativo di ciò che ci sta dicendo.
Notiamo poi l’espressione “fu trasfigurato davanti a loro”: l’episodio è noto come
“trasfigurazione” per effetto della traduzione del verbo greco, che poi vi dirò, che è
“trasfiguratus est”. Il verbo greco qui utilizzato è “metamorphein”, che significa
cambiare forma, cambiare aspetto. Questo stesso termine è usato nel famoso inno
cristologico della lettera di San Paolo ai Filippesi (Fil 2, 6-11).
Luca cambierà verbo perché nel mondo antico esistevano le “Metamorfosi” di Ovidio
in cui c’erano personaggi che cambiavano forma, diventavano mezzi animali e
siccome Luca scrive per il mondo greco, quell’espressione poteva dare adito ad un
fraintendimento, infatti dirà “il suo volto cambiò d’aspetto”, parla del volto e non
della forma, di questo ne parleremo la prossima volta.
Quindi “morphein” indica la natura, cambiare la natura significa che in questo preciso
momento si manifesta anche la sua natura divina, in questo episodio della
trasfigurazione.
“Le sue vesti divennero splendenti, di un bianco abbagliante”, qui siamo in presenza
di un simbolismo: il bianco rappresenta la trascendenza, il mondo di Dio; la veste
rappresenta la dignità di colui che la possiede, c’è quindi riferimento alla dignità di
Gesù Cristo.
Il verbo “splendere” lo troviamo nel Nt solo in questo brano.
C’è qui un accumulo di superlativi perché si vuole mettere in risalto la brillantezza
della scena.
Il paragone che poi segue (solo in Marco) ci presenta l’immagine del lavoratore che
sbianca gli indumenti, e dice che nemmeno il miglior «candeggiatore» sarebbe in
grado di produrre un bianco così splendente come erano le vesti di Gesù quando
manifesta la sua realtà divina. Questi superlativi servono proprio a sottolineare questa
natura divina di Gesù.

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