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FILOSOFIA DELLA RELIGIONE (Giuseppina De Simone)

Nella storia dell’umanità sono presenti religioni diverse che hanno segnato la sua storia ed il
confronto tra le tante da una ricchezza per l’evoluzione della società tutta. C’è qualcosa di comune
tra tutte: l’esperienza religiosa come tale.

1) Come ci poniamo davanti a chi non professa la nostra religione? Come possono incontrarsi
i credenti di religioni diverse? È possibile pensare un incontro e cozzare per sempre l’una
con l’altra dichiarandosi guerra in maniera implicita o esplicita?
2) Possiamo poi ancora porre la questione della Verità o quando ci confrontiamo con le altre
religione o la dobbiamo mettere da parte per non generare conflitto? C’è una questione
della vera religione quando si scontra con le altre? Esiste di certo un terreno comune del
vissuto come oggetto.
3) Come rispondiamo a Feuerbach (“la religione è una forma di alienazione”, “l’uomo è
l’unico assoluto, il Dio che l’uomo si è costruito lo ha fatto perché è debole e non ammette i
propri errori. Questo Dio serve a dare sicurezza ed è un ancora per salvarsi”), Marx (“oppio
dei popoli”) e tutti i maestri del sospetto ateo per cui nella religione l’uomo viene
espropriato da sé stesso? Secondo questi la religione è una illusione e menzogna che copre
la libertà dell’uomo, perché solo accantonandola si aprono nuovi orizzonti di realizzazione
e espressione dell’essere umano.

Il confronto con l’esperienza religiosa è importante per capire il senso profondo della rivelazione
cristiana e poter comprendere il senso della nostra fede. L’esperienza religiosa è un fondamento
trascendente e quindi non riducibile ad un’idea o un concetto che può essere spiegata qualsiasi
realtà che cade sotto il nostro sguardo. Ciò che fonda la nostra vita, le verità più profonde e grandi
che danno solidità alla nostra vita e per cui ci giochiamo l’esistenza, non sono dimostrabili come
un teorema o una equazione matematica, diversamente ci superano. Il perché ci si sposi e si
decida di stare con una persona non è qualcosa di spiegabile con un algoritmo. La filosofia della
religione è una filosofia seconda. La prima è la metafisica, perché è la filosofia da ciò tutto cui può
essere dedotto. La nostra è una seconda perché non si costruisce come una teologia filosofica, pur
avendone rispetto, perché non affronta direttamente la questione di Dio, l’idea della religione o la
struttura dell’essere umano, ma ha come oggetto “l’esperienza religiosa” nella sua concretezza.
L’esperienza religiosa va trovata dentro la storia dell’umanità e dalla vita degli uomini. La finalità di
questa riflessione è rintracciare il fondamento dell’esperienza religiosa per accertare la sua verità
(quindi essere relazione dell’uomo con Dio, a partire dal farsi in contro di Dio stesso verso l’uomo).

Il metodo è articolato e si avvale di diversi approcci:


1) Momento fenomenologico: cos’è l’esperienza religiosa così come si presenta a noi?
Leggendo il fenomeno dell’esperienza religiosa nel suo presentarsi a noi
2) Momento ermeneutico: capire perché l’esperienza religiosa ha così tanto valore per
l’uomo e da quale radice
3) Momento critico veritativo: affrontiamo il momento di vaglio più diretto della verità
dell’esperienza religiosa.

MOMENTO FENOMENOLOGICO:

La fenomenologia è una prospettiva filosofica, della quale assumiamo i criteri ed il metodo, che
riteniamo preziosi per impostare il nostro percorso di ricerca nella maniera più corretta.
1) Attenzione al vissuto1. La conoscenza nasce dalla relazione vissuta e tale conoscenza è resa
possibile dalla relazione che sussiste tra soggetto e il mondo. Abbiamo una relazione con le
cose anche prima di conoscerle. C’è una relazione vissuta dalla quale nasce la conoscenza:
l’oggetto si offre alla conoscenza all’interno di un vissuto fatto di relazione. Noi non siamo
separati dalla realtà ma siamo dentro, ne siamo immersi. Con l’apertura di sguardo è
possibile afferrare e cogliere la struttura di senso della quale siamo alla ricerca. Husserl dice
poi che “il mondo della vita è un mondo di significati”.
2) Il vissuto è un tessuto relazionale: L’esperienza tende a comunicarsi. L’esperienza si
traduce in un linguaggio che tende alla comunicazione di sé stessa. La conoscenza nasce da
una relazione che li unisce e che è una relazione vissuta (Lebenswelt=emozioni cariche di
significate e vissute). L’esperienza non è solo quella empirica che tocco e vedo, ma è una
conoscenza che è intrecciata sulla vita. Comunicandosi all’esterno lo fa con i simboli, i miti,
i riti.
3) Il rapporto tra esperienza e conoscenza . L’esperienza dilata la conoscenza, ed ha sempre
dimensione di pensiero. L’esperienza si deve sempre accompagnare da interpretazione e
memoria. Il mondo della vita infatti è denso di significati, proprio perché il mondo della
vita è fatto da relazioni vissute in cui il soggetto è coinvolto totalmente. Questo vuol dire
che abbiamo un concetto di esperienza che si allarga e abbraccia la vita e le relazioni che
fanno la vita, comprende il rapporto con la realtà in tutte le dimensioni. 2

Nel rapporto di conoscenza, il soggetto non solo è in rapporto all’oggetto ma anche viceversa. Per
Husserl lo schema che parte dal soggetto e arriva all’oggetto tramite la conoscenza è falso perché
non da conto di quello che accade realmente. Si allarga anche però il concetto di oggetto che
chiamiamo realtà. L’oggetto non è muto, ma mi viene inoltre incontro, presentandosi. L’oggetto è
fenomeno, è ciò che si mostra ed appare ad una coscienza. Questa conoscenza del fenomeno, a
partire dalla relazione, è “tensione verso” ma anche “apertura a”. La conoscenza mira ad un livello
secondo, che come dice Husserl, ci fa spogliare dai pregiudizi della scienza, per conoscere
l’essenza del fenomeno, ciò che lo caratterizza nel suo presentarsi. Per comprendere le cose in
maniera fondata, è necessario allontanarsi da pregiudizi e partire dalle cose che la realtà ha da
dirci.

La fenomenologia tra i suoi criteri di metodo ne indica uno di particolare importanza l’“epochè”,
cioè la sospensione del giudizio, non alla negazione del mondo bensì alla «messa in parentesi» il
vestito di idee costruito dalla scienza (la definizione che la scienza pretende di dare su quella
realtà) e il “senso comune”. Quando parliamo di dato fenomenologico, intendiamo la realtà nel
suo mostrarsi e darsi a vedere. Non è l’oggettività che dobbiamo andare a cercare, mettere tra
parentesi l’idea di avere già una definizione in tasca che viene da altri o da un sapere che si dice
certo. Le due idee hanno la pretesa di avere una definizione rigida di partenza delle cose. La realtà
si presenta a noi per ciò che è e su questa relazione che è recupero di una relazione originaria di
rapporto alla realtà, si può innestare una conoscenza anche di tipo scientifico.

Gerardus Van der Leeuw scrive sulla “fenomenologia della religione” del 1936 che l’epochè è “lo
sguardo che l’amante rivolge alla realtà amata”. È un desiderio di captare anche la più piccola
1
Husserl pubblica nel 1901 “le ricerche logiche” caratterizzate da un metodo nuovo, che mette in primo piano
l’esperienza come vissuto. Per lui il vissuto ed i significati di cui è carico è il punto di partenza per la conoscenza della
realtà.
2
La realtà di cui si fa esperienza non è solo quella empirica ma è molto più ampia. L’essere umano non è un aggregato
di molecole e cellule, è molto di più.
sfumatura e di accogliere la realtà dell’altro. L’epochè, come apertura di sguardo, consente
l’emergere dell’essenza. Possiamo definirla anche “Eidos” cioè la forma. Ciò che si presenta a noi è
ciò che è proprio e identifica in maniera propria quella determinata realtà. L’essenza possiamo
quindi definirla come l’insieme coerente dei significati vissuti di cui è carica quella esperienza. La
fenomenologia della religione attinge non soltanto a quella filosofica di Husserl ma attinge anche
alla tradizione di pensiero precedente dell’ermeneutica: l’esperienza religiosa allora è
interamente nei significati nei quali viene vissuta.

Per comprendere l’esperienza religiosa dobbiamo comprenderne il linguaggio. Il linguaggio


dell’esperienza religiosa ci permette di scandagliare le profondità di questa esperienza per cogliere
i significati che sono espressi dal linguaggio ma che prendono forma tramite questo linguaggio. Per
linguaggio intendiamo i simboli, i miti e i riti con i quali si strutturano, presentano e comunicano
le religioni. Tutte le religioni si strutturano attraverso un linguaggio simbolico, fatto di culto, norme
di comportamento, dottrina e forma comunitaria (non esiste la religione del singolo). Il simbolo
religioso è mediazione interna all’esperienza religiosa, ed è anche la struttura trascendentale
dell’esperienza. Attraverso la mediazione simbolica l’esperienza viene espressa. Il simbolo non è
una vuota immagine. Non è fantasiosa costruzione fatta ad arte: il linguaggio non si limita a
spiegare ma evoca e mette in movimento una ricchezza di significato, ma si carica di valenza
simbolica. Ciò che ha a che fare con la verità della vita e del reale non si può riassumere in un
concetto ma ci trascende, e ci supera3. Non è mai afferrabile totalmente attraverso una idea, ma la
si può fare attraverso un linguaggio evocativo che non vuole spiegare tutto, lascia vedere e fa
pensare. Il linguaggio simboli non è irrazionale ma è più profondo, ha a che fare con la profondità
della vita e la trascendenza della verità dell’altro, di sé stessi e di Dio che in ogni caso ci supera
sempre. La dimensione simbolica entra nel linguaggio dell’arte e della religione, non come fatto
convenzionale ma come origine vissuta. C’è un riconoscersi, un convergere verso un determinato
simbolo, non a partire da un ragionamento fatto a tavolino, ma a partire da una esperienza che si
condivide ed è esperienza comune. Il linguaggio simbolico non vuole spiegare, analizzare o
scomporre, ma ha portata evocativa che lascia trasparire e rimanda a e lascia intuire. Il simbolo
“svela e vela” (Bruno Fortes). Mistero non è ciò che è oscuro, ma è ciò che non finiamo mai di
capire. Il simbolo è ciò che contraddistingue allora la comunicazione di ciò che ha valore e
significato, perché è qualcosa che mette in moto la vita, e la profondità interiore della vita come è
la relazione tra persone. Questo linguaggio ha funzione evocativa e alimenta custodendo la
relazione. È un linguaggio che introduce A e fa entrare IN. È un linguaggio con capacità anaforica
(che introduce) e di rendere presente ciò che significa. Mentre il linguaggio convenzionale, un
codice, parliamo di simboli matematici (che sono segni chiaramente codificati), parliamo di segnali
stradali invece perché indicano qualcosa, il simbolo non si limita ad indicare ma rende presente.
C’è una relazione all’interno della quale si crea una comunicazione dell’altro e mi consente di
entrare in ciò che è. Il linguaggio simbolico mi rivela l’altro nella sua realtà profonda. Quella realtà
dell’altro che non potrei comprendere mai se non in quella comunicazione. Si coglie il significato
del simbolo riconducendolo al contesto all’interno del quale il simbolo acquista il suo significato (il
simbolo non spiega ma mette in relazione). Il simbolo ha portanza relazionale e rivelativa.

Il linguaggio mitico simbolico delle religioni ha a che fare con quella verità che è compresa dentro
il sacro. I miti delle religioni antiche non sono favole, esprimono una prima e originaria
comprensione della realtà, del tutto e della relazione in cui l’uomo è rispetto il tutto dentro il quale
l’uomo si comprende. Tale comprensione matura ed emerge dentro l’esperienza religiosa e la
relazione al sacro. I miti hanno la funzione particolare di ricondurre a ciò che esprime la verità
3
Ernst Cassirer dice che il linguaggio simbolico è il linguaggio più tipico dell’essere umano.
profonda del reale e che si coglie nella relazione al sacro e al divino. Nelle culture antiche il gesto
della divinità ha un carattere fondatore rispetto l’azione umana che ripete l’azione divina, e
proprio per questo è dotata di senso e realtà. Avendo la divinità fatto così, anche noi dobbiamo
fare in questo modo: ripetere il gesto della divinità fatta illo tempore, consente al gesto di avere
senso e realtà e di non collocarsi nel vuoto ma di collocarsi in una realtà ordinata dove tutto ha un
senso e un fine in relazione al sacro. Tale relazione è ciò che norma la vita dell’uomo anche nei
suoi gesti più semplici. Altrimenti ci sarebbe non senso, caos e non vita. I miti delle cosmogonie, il
passaggio dal caos al cosmo con una divinità che riconduce all’ordine una realtà caotica: la divinità
si oppone a potenze in contrasto tra loro mettendo ordine e da ciò nasce il cosmo dove ogni cosa
ha il suo senso, la sua funzione e dove l’uomo stesso è collocato. L’uomo delle popolazioni antiche,
senza scrittura, vive l’azione che compie come portata di senso e conseguenze nell’ordine
complessivo della realtà. Nella percezione religiosa del reale che cogliamo soprattutto in questi
popoli senza scrittura, la responsabilità cosmica viene immediatamente avvertita e vissuta. D’altra
parte anche la nostra religiosa afferma la responsabilità dell’uomo con il cosmo, traducendo la
centralità dell’uomo data dalla creazione come una giustificazione del dominio dell’uomo (che
rischia di essere sfruttamento) sulle risorse del cosmo: tale centralità invece sta a significare la
responsabilità nei confronti del cosmo e l’orientamento a Dio dice che questo deve emergere con
pienezza.

Non stiamo facendo confusione tra le religioni, ma vogliamo dire che ci possono essere dei
significati comuni tra tutte le popolazioni alla ricerca del sacro.

 La vita in relazione a Dio, la possiamo assolutamente condividere e appartiene come


istanza e significato, dimensione di senso, all’esperienza religiosa dell’uomo. Questo
perché l’apparato di una religione nasce da un vissuto
 I riti e la ritualità, in tutte le religioni, relazioni quotidiane di un certo modo e che ricalcano
l’azione divina, e il fatto che siano compiute in un certo modo, sta a dire che quell’azione è
compiuta in maniera rituale. È sia il rito del culto, che la precisa ritualità, e conforma la vita
all’azione divina che è paradigmatica e fondatrice. Il rito serve a ricondurre la vita a ciò che
la fonda, la fa essere, da consistenza e da realtà relazionandosi all’eterno. Nel rito si ha una
relazione che appartiene a ciò che è senza tempo e a cui bisogna continuamente ritornare
(l’azione viene ripetuta, mentre per noi l’evento della salvezza non si ripete in quanto è
accaduto nella storia in maniera unica e irripetibile).

Per capire i termini di questa riflessione sull’esperienza religiosa, nel linguaggio mitico simbolico,
come definiamo l’oggetto e l’homo religiosus (il soggetto), e la relazione tra soggetto e oggetto
come si configura?

OGGETTO (come dice Van der Leeuw): ciò che gli studiosi chiamano oggetto delle religioni, in
realtà ne è il soggetto. Se vogliamo prendere in esame questa relazione che emerge dobbiamo
partire dalla priorità dell’oggetto che emerge chiaramente nell’esperienza. La realtà ultima,
indipendentemente che si parli di religioni che si rivolgono a Dio o no (il buddismo) alla quale le
religioni sono riferite, è ciò che chiamiamo divino, sacro, Dio. Come simbolico intendiamo
l’insieme di simboli, miti e riti che servono per avvertire la realtà ultima e la relazione che sussiste
tra il mondo il tempo, la vita, l’uomo con questa realtà ultima. Viene percepito come presenza,
come presente nella vita dell’uomo che è presente al fondo delle cose in modo costante ed è
motore della realtà. Tale oggetto è il tutto. Sebbene rappresentato anche nelle religioni antiche
come bene e male, o rappresentato come forme di animale, va ad intendere la totalità
dell’oggetto divino. C’è una intuizione di fondo che tutto in Dio si comprenda.

Esistono due tipologie nelle caratteristiche della simbologia religiosa.

A. COSMOBIOLOGICA: è quella che è in comune alle religioni dove il divino viene pensato
come realtà impersonale, la forza vitale che attraversa il cosmo. È una forza di vita che lo
tiene insieme, che costituisce il fondamento ma anche l’ordine interno. C’è un sacro divino,
che viene percepito dentro l’esperienza religiosa. Di questa forza vitale tutto è partecipe,
anche lo stesso essere umano, che non solo è immerso nella realtà, ma è partecipe della
forza vitale che nell’essere umano è presente e agisce. Sono il buddismo, il taoismo,
l’induismo. Esistono divinità anche qui ma il divino e il sacro è riconosciuto come forza
vitale, di ordine e vita che pervade il cosmo e comprende l’essere umano
B. TEISTA: tipica delle religioni monoteiste. Tale simbolica esprime una comprensione della
realtà ultima in termini personali. Non abbiamo il divino ma Dio, non le divinità ma Dio in
senso proprio. C’è una comprensione di Dio come persona e la relazione alla quale tutto è
chiamato e tutto è orientato, e non è una reazione di partecipazione ma una reazione di
comunione. Si parla di Dio e un Dio che è in relazione, che chiama, che parla e attrae alla
comunione con sé. Tutto vive in questa relazione con Dio.

Nella storia dei popoli senza scrittura, queste due simboliche corrispondono agli schemi esplicativi
delle religioni dei popoli dediti alla caccia (teista) e alle relazioni dell’agricoltura (cosmobiologica).
La prima nota caratterizzante del divino è la presenza, o meglio ciò che si coglie al fondo del reale
e costituisce il riferimento centrale che è presenza che si lascia avvertire come tale che la si colga
guardando il cielo, nella forza vitale della terra, o nel ciclo della luna. Questa realtà è presenza si
sottrae ad ogni forma di dominio ed è eccedente all’esperienza umana: è fonte di meraviglia e
stupore. A prescindere che il divino venga rappresentato con modo personale o impersonale,
esiste un insieme di significati che ritroviamo sempre e ovunque nell’esperienza religiosa. Il divino
è percepito come potenza salvifica, come fondamento, come totalità. Queste sono le
caratteristiche essenziali, ossia i significati come viene avvertito la presenza religiosa in tutte le
religioni indipendentemente da quale sia. Questo perché tali significati sono inerenti strettamente
all’esperienza religiosa come esperienza di relazione a ciò che viene chiamato sacro, divino o che
chiamiamo Dio. Esperienza in cui l’uomo si avverte alla presenza e sotto lo sguardo di una realtà
ultima dinnanzi alla quale e in rapporto alla quale vive e comprende sé stesso e in relazione alla
quale trova senso verità e significato per il proprio vivere in tutti i suoi momenti e dimensioni. La
qualifica di padre, signore, creatore la troviamo nella simbolica teista, investe tutta la realtà e il
tutto della vita.

SOGGETTO non è colui che definisce l’esperienza ma è qualificato dall’esperienza che vive. Tale
esperienza lo investe totalmente, non è tra le altre, il suo essere e il suo esistere si estendono a
tutta la realtà. In base a tale prospettiva il soggetto si definisce “homo religiosus” e la priorità è
data sempre all’oggetto. Non è il soggetto che determina la relazione e la connota a partire da sé,
al contrario questa relazione ne determina le caratteristiche. Ha la caratteristica della ricettività.
Non è soggetto passivo, ma sulla sua accoglienza si genera una capacità di risposta dettata da una
capacità di decisione e libertà nel decidersi per. Si fa trasformare e si conforma a. il soggetto che
vive l’attrazione al sacro lo accoglie e si lascia trasformare aderendo esistenzialmente. L’uomo
religioso è investito nella profondità del suo essere (è personale) ma è anche soggetto
comunitario. Anche la comunità è soggetta di questa esperienza, anzi la dimensione
personale/individuale e quella comunitaria vanno sempre insieme. L’esperienza religiosa non può
essere vissuta in una separatezza che isola e fa perno dell’individuo come se lo stesso possa
tenerla tutta per sé. Non si può prescindere alla vita di comunità ma comunque la comunità non
può sostituirsi al singolo4. Ci si trova a momenti soli davanti a Dio, e la comunità non può mai
sostituirsi nell’unicità della persona. Questo perché il vissuto religioso investe il soggetto in
profondità. Questa esperienza non accade accanto alle altre, ma è centrale. Il sacro è percepito
come presenza che sorprende l’uomo e che si lascia scorgere ma la cui presenza non è
controllabile né gestibile. C’è un intreccio tra la dimensione comunitaria e quella intellettuale e ci
fa riflettere sul fatto che l’esperienza religiosa viene avvertita come qualcosa che genera relazione,
una esperienza fondante in cui tutte le relazioni trovano senso. Tale relazione norma tutte le altre
relazioni vissute dall’uomo, a partire dalle familiari, e le altre che si tessono a livello esistenziale.
Nell’esperienza religiosa nessuno si salva da solo, e se non mi spinge alla costruzione di una vita
unitaria, vuol dire che questa esperienza religiosa non quadra. Se Dio è il mio Dio, e non c’entra
nulla tutto il resto, questa esperienza religiosa non è corretta con l’orientamento di senso che
emerge come tensione in questo vissuto. Quando questa esperienza non tende a questo, può
portare anche ad una negazione dell’esperienza religiosa nella sua totalità. Nella persona si ha la
totalizzazione dell’esperienza religiosa. Questo perché tale esperienza viene vissuta come centro
vivificante dell’homo religiosus. Dall’esperienza religiosa si irradia sia il senso, ma anche verità e
realtà alla propria vita. Nell’atteggiamento religioso del soggetto, non solo è implicato l’intero
essere: intelligenza, volontà, sentimenti, corpo, ragione, amore, ma ne è resa possibile
l’unificazione. una relazione tra le altre, non è neppure la relazione più profonda: è la relazione
fondante.

ATTO RELIGIOSO (LA RELAZIONE TRA SOGGETTO E OGGETTO). L’atto religioso è inteso come
adesione alla manifestazione del divino, e la risposta del soggetto alla manifestazione. L’atto è la
relazione al divino che vede il soggetto protagonista di una risposta che è adesione ed è in
invocazione/supplica/ringraziamento in cui però appare evidente che si tratta di una risposta
attiva. Il movimento dell’uomo verso Dio è sempre in qualche modo risposta a lui verso l’uomo
(“tu non mi avresti mai trovato se io non ti avessi cercato”). L’uomo religioso è qualificato
dall’esperienza di qualificazione che vive, vive tale esperienza come data. È un’esperienza che ha il
carattere dell’inatteso pur essendo fortemente cercata, è un’esperienza in cui ci si sente
posti/inseriti. Ciò determina un carattere di recettività che connoto l’esperienza ricevuta, e l’uomo
accoglie quello che gli è dato. È sollecitato dalla stessa manifestazione del sacro. Gli atti religiosi
sono allora l’azione che nasce dall’esperienza religiosa e sono coessenziali a questa e hanno in Dio
la loro sorgente, pur essendo differenti i versanti delle diverse culture.
Ovunque c’è esperienza religiosa c’è la preghiera. SI parla di preghiera del silenzio, fatta con
parole, comunitaria: nell’esperienza religiosa la preghiera dice la comunicazione nella quale si vive
e custodisce tale relazione. La preghiera è richiesta, ma in primis rendimento di grazie e
invocazione che nasce dall’accoglienza di un dono e dal suo riconoscimento. La forma più alta di
preghiera è quella del silenzio, contemplazione e accoglienza, in cui non chiediamo nulla e
accogliamo il volere di Dio. La preghiera ci dice ancora una volta come il movimento originante è
sempre quello di Dio verso l’uomo. C’è una relazione asimmetrica. Sebbene poi risulti meno
frequente della preghiera, anche il sacrificio è latto di culto più universalmente diffuso è una
espressione riassuntiva della risposta dell’uomo alla manifestazione del sacro e alla sua fede. Se
nella prima però c’è una dimensione maggiore di donazione, il sacrificio rappresenta
maggiormente espiazione.

4
In tutte le religioni, non solo in quelle primitive, non c’è spazio per l’individualismo (Carlo Greco).
Scheler dice che c’è una logica di senso negli atti religiosi che ci fa capire qualcosa in più
dell’esperienza religiosa. Alcune caratteristiche.
1) Gli atti religiosi non sono di carattere propriamente psichico/emotivo. Tutto l’uomo è
coinvolto nell’interezza del suo essere a causa della sua relazione con l’oggetto. C’è un
coinvolgimento unitario.
2) Nell’atto religioso c’è un movimento di trascendenza. Il trascendimento non riguarda solo
ciò di cui si fa esperienza ma riguarda la totalità del reale compreso il soggetto. Il soggetto
è proteso a Dio. Questi atti non hanno origine empirica nell’ordine del finito ma hanno
fondamento nell’eternità, nella trascendenza e nella sovrabbondanza dell’amore di Dio.
3) Gli atti religiosi sono tanto privi di fondamento quanto di una meta. Gli atti religiosi
appartengono alla coscienza umana, ma questo non vuol dire che gli atti religiosi nascano
da un bisogno dell’uomo. Non c’è fondamento empirico di cui facciamo esperienza quindi
nell’esperienza religiosa.

Allo scopo di stabilire l’essenza della religione, a conclusione è possibile quindi dire che

1) Si è sviluppata secondo l’indagine fenomenologica sull’esperienza religiosa attraverso le


forme espressive nelle quali essa si oggettiva e si fa storia condivisa;
2) Il divino si mostra universalmente quale presenza che trasforma e interpella;
3) Il soggetto religioso è apparso per lo più come oggetto dell’azione divina e sono
inscindibilmente correlati negli atti religiosi;
4) L’esperienza religiosa è totalizzante e qualitativamente più intensa di ogni altra, a ciò si
accompagna un senso di inadeguatezza e consapevolezza del limite sottratto ad ogni forma
di controllo e possesso.

MOMENTO ERMENEUTICO:

Il passaggio ulteriore è il passaggio alla prospettiva ermeneutica. Prendiamo in esame i maestri del
sospetto che ci aiutano a comprendere le patologie dell’esperienza religiosa e fare discernimento
per cogliere ciò che esperienza religiosa non è.

FEUERBACH: padre dell’ateismo critico contemporaneo. La sua interpretazione del fatto religioso è
animata da uno spirito illuministico e da un intento umanistico: rivelare all’uomo la vera realtà
della religione permettendogli di riappropriarsi della sua vera essenza. Pertanto la coscienza di sé è
non solo il fondamento di possibilità della religione ma anche l’oggetto stesso della religione.
Secondo Feuerbach, la religione è una forma di alienazione dove l’uomo è estraneo a sé stesso e
non è più capace di comprendere quale sia la sua dignità e il suo valore perché attribuisce tutto
quello che è di buono a Dio e finisce per sentirsi nulla5. L’uomo è schiacciato nella sua libertà e
negato come oggetto. Disfarsi della religione e smascherare l’inganno significa far comprendere
che l’unico Dio, come dice, è l’uomo. Non c’è altro assoluto infinito che le capacità umane.

MARX: parla della religione come alienazione, ma che nasce a livello economico e sociale. Il
sistema produttivo del capitalismo dice che l’uomo non appartiene più a sé stesso, all’uomo non
appartiene il frutto del suo lavoro ma appartiene a chi detiene il capitale. L’uomo è forza lavoro e
non ha altro bene che la propria prole (proletariato). L’essere umano secondo Marx si realizza nel
lavoro come dimensione sociale e collettiva, ma vengono strappate all’uomo che lavora e quindi

5
“L’uomo come individuo indubbiamente deve sentirsi limitato, ma può avere coscienza di questo suo limite, di
questa sua finitezza, solo perché ha davanti a se come oggetto la perfezione, l’infinità della specie”.
ciò in cui si realizza non gli appartiene più. La religione trasferisce quindi sul piano del sacro quello
che avviene nell’ordine di vita materiale, è una sovrastruttura ideologica per cui per poter
giustificare dal punto di vista ideale i rapporti di dipendenza e soggezione economica, si costruisce
un sistema sacrale e ideale fatto di credenze che giustificano questa dipendenza in nome di una
dipendenza più originaria: quindi come l’uomo dipenda da Dio, deve dipendere anche dal
padrone. Quindi se secondo il capitalismo la dipendenza è dal più forte e capace, ed è
giustificabile, tale appartiene alla condizione umana. Marx vuole sovvertire lo specchio di questo
mondo rovesciato: il rapporto sbagliato si tratta in primis a livello economico (di tipo ontologico)
ma anche la religione propone una felicità che non è da ricercare sulla terra. La religione propone
una giustizia ultraterrena che viene presentata come una consolazione che copre e compensa
tutte le sofferenze che sulla terra vengono subite. Marx quindi dice che è uno strumento nelle
mani dei più forti e che sovverte le masse (“religione oppio dei popoli”).

NIETZSCHE: è ancora più sottile come critica, se per i primi due si tratta di rovesciare la teologia
per far capire che non è una antropologia e ristabilire la verità. Secondo lui non c’è nessuna
verità, che non esiste e non ne abbiamo assolutamente bisogno. Dobbiamo smettere di pensare
che la vita abbia un senso e un fine, perché la vita non ha bisogno di nessun senso e nessun fine: la
vita vale nel suo continuo senza una direzione o fine, ma che questa realtà è l’unica in cui siamo.
Dobbiamo imparare a dire di si alla vita e starci dentro, salpando in mare aperto senza confini
senza una rotta da seguire e senza chiederla a nessuno. La rotta non c’è e c’è solo il divenire senza
alcun senso e alcun fine di una vita che ripete continuamente sé stessa. Secondo Nietzsche la
religione nasce dalla volontà di credere e l’ha inventato l’uomo debole. L’uomo debole ha paura
di stare nel divenire e ha necessità di un assoluto a cui agganciare la propria vita, e si costruisce un
mondo ideale. Al contrario di assoluto, secondo lui, non c’è nulla. Dio è quindi morto perché non
c’è nessun fondamento, è sempre più buio perché abbiamo sganciato la terra dal suo sole e rotola
via verso un infinito divenire senza senso. Il pensiero di Nietzsche non è un pensiero sistematico,
ma è un pensiero frammentario. Quello che ha anticipato in modo lucidamente folle è ciò che
respiriamo oggi nella nostra società. La sua critica della religione trova ampio eco in quello che
normalmente sentiamo dire: la religione impedisce di vivere la vita ed essere felici (è solo un
insieme di norme che mi impedisce di vivere). Secondo lui il cristianesimo è una invenzione di San
Paolo, per cui tutto il sistema di valori della fede cristiana poggia sul risentimento: la morale non si
afferma da sé, ma deve essere opposta a qualcuno (morale da armento = delle pecore che
smettono di pensare dove il politico e il prete ti dicono cosa devi fare e ti libera dalla fatica di
pensare).

FREUD: La religione è una forma di nevrosi ossessiva universale. Serve a rimuovere quello che ci
da fastidio ed è pericoloso e sublimarlo su un piano sacrale. In Freud la religione è una illusione
che nasce a livello culturale e sociale come risposta ai bisogni di sicurezza: nel momento in cui la
civiltà si sviluppa rispondendo a domande a livello scientifico, della religione potremmo fare a
meno. La religione scomparirà man mano gli uomini progrediranno in civiltà più progredite. Non
c’è dubbio che il merito più grande di Freud sia stato quello di avere dimostrato l’influsso delle
immagini parentali nella strutturazione dell’esperienza religiosa. Si tratta, però, di sapere in quale
misura l’immagine di Dio corrisponda all’immagine idealizzata del padre che egli descrive.
L’indagine di Freud si rivela una pura costruzione aprioristica, che riduce indebitamente la
complessità e la ricchezza della religione ad una sua immagine caricaturale, pericolosa come una
malattia psichica e da eliminare secondo opportuna terapia.
Confronto con ermeneutiche in chiave di trascendenza: c’è una prospettiva diversa per cui la
religione è un fatto dell’uomo e gli serve per mantenerlo in equilibrio. Ha una funzione interna alla
storia di natura immanente e riconducono il linguaggio simbolico all’orizzonte dell’esperienza
umana e del finito in cui l’uomo è parte.

Questo tipo di contestazioni viene ripreso poi anche dai moderni discendenti dei maestri del
sospetto come Michel Onfray (“la religione ci impedisce di essere liberi e di prendere il gusto della
vita con un insieme di norme che pretende di imporre”) o la visione scientista che oppone la
scienza alla religione (Odifreddi). Secondo questa visione le religioni non parlano di Dio ma
dell’uomo sottoponendolo ad una condizione inesistente di subordinazione.

Se per i maestri del sospetto la religione è una menzogna, oggi si esistono correnti di pensiero
nella scienza delle religioni che ritiene che la religione sia funzionale agli equilibri umani: una
religione civile che trova una considerazione che apparentemente ci fa fare un passo avanti ma è
riconducibile ad una spiegazione puramente umana del fatto religioso e su base antropologica
(funzionale agli equilibri della vita). Come dobbiamo intendere la religione sotto una chiave
antropologica? È possibile una comprensione di questo tipo e dove conduce? Viene fuori il
dibattito in merito all’a-priori religioso, quindi la dimensione religiosa. La religione è qualcosa che
non possiamo cancellare perché c’è una dimensione religiosa che appartiene all’uomo come tale e
l’uomo è di per sé aperto alla trascendenza e all’assoluto. L’uomo è interrogazione e non può fare
a meno di ricercare l’assoluto (per S. Tommaso c’è un desiderio dell’uomo di Dio).

ARMIDO RIZZI: dice che nella lettura fenomenologica dell’esperienza religiosa, che tale è legata
all’esperienza morale sebbene non si possono sovrapporre del tutto. Per capire da dove vengono i
significati e i simboli dell’esperienza partiamo dall’esperienza morale. La condividiamo in materia
esplicita con tutti, ognuno si interroga sul bene e sul male e ognuno è sollecitato a dover scegliere
a prescindere del senso che gli diamo. L’esperienza morale è caratterizzata dall’emergere di un
imperativo etico che determina il qualificarsi della decisione che siamo chiamati a prendere e che
non è indifferente da qualunque cosa facciamo. C’è una voce della coscienza che non possiamo
ignorare e che dice cosa è lecito e cosa no. Tale voce della coscienza è l’emergere dell’imperativo
morale che ha il carattere di essere incondizionato (“non dice se vuoi ma devi, ma devi!”). Tale
voce della coscienza, non va vista come dice Freud di super-io e dei divieti del padre che dicono
cosa devi fare e per mantenerti in equilibrio (per non distruggere e non distruggerti). Tale lettura
di Freud non regge perché nell’esperienza etica leggiamo una istanza di trascendenza che emerge
nell’esperienza morale. L’imperativo morale non è funzionale all’io, ma anzi in certi versi tende a
negare la tendenza in me spontanea di affermare sempre me stesso e nello spezzare questa logica
mi rende veramente libero anche da me stesso. L’imperativo etico apre un orizzonte ultimo ma ciò
che è in gioco è la dignità e il senso stesso del mio essere uomo. Questo orizzonte non l’ho
costruito io, ma si offre a me come qualcosa di cui non dispongo e non posso alterare, anzi è
misura di me stesso. Questa poi non investe solo la singola azione, ma la chiamata alla conversione
investe tutta la vita. La relazione è quindi data dall’altro e supera l’uomo.

MOMENTO CRITICO-VERITATIVO:

L’esperienza religiosa appartiene all’uomo e ne è una esperienza qualificante che identifica


l’essere umano. Bisogna spostarsi dall’orizzonte della struttura antropologica ma dall’orizzonte
ontologico, non ragionando in termini trascendentali, fermandoci a riflettere che tale esperienza
religiosa appartiene all’essere dell’uomo, non tanto nell’organizzarsi quanto a sé stesso. Ma non è
una tautologia, non è ripetere l’umano. Non possiamo fermarci a vedere l’esperienza religiosa
come struttura della coscienza. L’esperienza religiosa nella sua autentica dimensione di senso
rimanda ad una origine che non è umana. L’uomo è costantemente sollecitato nel trovare il centro
del proprio esistere nell’altro da sé. L’esperienza religiosa attesta più il fare di Dio che il fare
dell’uomo. C’è un’origine rivelativa che ne è alla base. Non basta parlare di a-priore religioso
come se fosse una struttura della coscienza. Ma la religione è una possibilità dell’uomo, che si
spiega nell’ordine antropologico della struttura della conoscenza, che elabora e costruisce, o l’è
una possibilità data? È una impossibile possibilità dell’uomo che si relaziona a Dio: l’infinito in
relazione al finito. Il finito da sé non può arrivare a Dio, non può conoscere nulla di Lui partendo
direttamente da sé. Ciò che rende possibile questo essere in relazione a Dio e anche amarlo, come
dice Van der Leeuw è Dio il soggetto agente.

Schleiermacher è il primo a sottolineare l’importanza di una considerazione filosofica della


religione come esperienza religiosa: un vissuto interiore. La religione concerne nella sua
profondità del vissuto e nell’intimità del soggetto, una molla interiore di quello che io vivo. Lui
identifica la religione con il sentimento e il gusto dell’infinito. L’uomo è reazione all’infinito e sua
tensione; mentre nella metafisica l’infinito è la spiegazione dell’origine del tutto, nella morale
determina l’agire, nella religione non c’è alcuna destinazione particolare se non quella della
contemplazione. L’esperienza religiosa non ha carattere funzionale ma è relazione all’infinito e alla
gratuità coinvolgendo tutto l’uomo dalla profondità del suo essere (sentimento e gusto
dell’infinito). Il sentimento che è proprio dell’esperienza religiosa lo possiamo chiamare
sentimento di dipendenza assoluta, perché nell’esperienza religiosa l’uomo si apre alla
contemplazione dell’infinito e sente tale relazione come qualcosa che lo pervade. L’uomo in
questa relazione è dato a sé stesso, ma il sentimento di dipendenza assoluta coincide con
l’autocoscienza immediata del soggetto. Noi non possiamo porci in essere ma siamo dati a noi
stessi: c’è una dipendenza originaria. Avvertiamo noi stessi al fondo del nostro agire, siamo dati a
noi stessi e non autonomi in senso assoluto (non ci diamo l’essere, siamo totalmente dipendenti).
L’esperienza religiosa è quindi dell’essere umano come tale e sua struttura portante. -> i discorsi
di Schleiermacher rischiano però di bloccarsi esclusivamente sul dato antropologico, e
nell’ambito di una riflessione filosofica che riguarda solo il soggetto.

La discussione sull’apriori religioso è stata ripresa nella quotidianità per cercare un punto
d’incontro tra le religioni: ci possiamo incontrare sulla comune ricerca di Dio. Il rischio di
radicalizzare questo discorso è di spiegare le religioni solo come una pura e semplice esplicitazione
di questa struttura che genera differenti storie per cui l’uomo è solo “naturalmente religioso” (la
religione naturale). Dobbiamo fare quindi un passo avanti distinguendo la religione “naturale”
(l’uomo cerca Dio) da quella “rivelata”, che invece ha appunto la sua sorgente nella rivelazione di
Dio all’uomo (Dio si manifesta all’uomo). L’esperienza religiosa non è mai riconducibile al fare
dell’uomo ma soprattutto al fare di Dio, che attrae l’uomo a sé rivelandosi ponendo in essere
l’uomo.

Gli atti religiosi che appartengono originariamente e costituivamente alla coscienza umana, e
costituiscono l’essere umano, ma non gli appartengono del tutto; sono posti e vissuti secondo una
logica di senso corrispondente alla logica di senso della rivelazione. Esiste una corrispondenza tra
gli atti religiosi e il rivelarsi di Dio (Scheler). Gli atti non esprimono unicamente l’umano ma
l’umano in relazione a Dio, sono una risposta e hanno carattere recettivo. L’uomo cerca Dio perché
Dio cerca l’uomo (“tu non mi avresti cercato se io non ti avessi trovato”), l’esperienza religiosa si
da in modo di correlazione asimmetrica: il movimento fondante e generante viene da Dio, a tal
movimento corrisponde il movimento dell’uomo. C’è una spinta interiore del Signore che non ci
lascia tranquilli e muove dal di dentro il nostro cuore e la nostra vita. C’è una relazione nella quale
siamo, che ci costituisce e ci è donata e nella quale Dio si china verso l’uomo. L’esperienza religiosa
ha sempre come sua fonte il rivelarsi di Dio e l’accoglienza di questa in ciò che chiamiamo fede. La
religione non è un fatto puramente umano: è infatti quanto di più umano e originario vi sia, ma
non si può spiegare esclusivamente in termini prettamente umani, rimandando a un fondamento
rivelativo senso di cui non siamo (“senza di Me non potete fare nulla”). L’uomo è cercatore di Dio,
è essenzialmente religioso, è l’essere che prega e cerca Dio, l’atto religioso è compiuto da ogni
uomo necessariamente. L’oggetto degli atti religiosi è anche l’origine degli atti religiosi e anche
l’inclinazione dell’attitudine di Dio all’uomo è Dio stesso. La religione non può essere una
costruzione umana, l’esperienza religiosa di Dio come tale è possibile solo in quanto data da Dio.
La stessa inquietudine dell’uomo nel cercarsi non può che avere possibile se non dipendente da
Dio.

Per Scheler l’origine degli atti religiosi non può essere rintracciata su un piano empirico, tali non
hanno fondamento né meta. Non possono essere spiegati nell’ambio della immanenza perché tali
superano infinitamente l’uomo stesso. Anche sul piano naturale, la religione è fondata sulla
rivelazione. La rivelazione scorre sempre sulla stessa fonte, per rivelazione si intende il parteciparsi
ed il comunicarsi dell’uomo. Ciò che rende possibile la rivelazione è il farsi conoscere di Dio, un
movimento primigenio che viene da Lui e non viceversa. Lui parla di sentimento di dipendenza
assoluta.

Per Xavier Zubiri, il termine religione compreso nel senso proprio di “re-ligazione” indica una
relazione forte e vincolante che è talmente forte che si impone e nulla la può spezzare. Non
possiamo cancellarla o toglierla da noi stessi. L’uomo è allora “re-ligato” in radice e questo è un
fatto, che si sia consapevoli o meno, per lui il sentimento viene dopo. Facciamo un’esperienza
enigmatica e problematica in cui si da una intuizione chiara di fondo che però ha bisogno di essere
chiarificata. La realtà, che è ciò per cui siamo e dentro cui siamo, non è l’insieme delle cose reali
ma consta nel cammino della ricerca della fede che diventa adesione e vivere secondo Dio. Al
fondo del nostro essere non c’è una struttura antropologica, ma una struttura ontologica che è
relazione a Dio per cui l’uomo prima di fare esperienza di Dio, lui stesso è esperienza di Dio . Tale
relazione si lascia avvertire dentro la coscienza, è li che questa relazione affiora come spinta alla
ricerca. Il fondamento rivelativo è dato nell’essere umano e nella sua coscienza e nella storia del
mondo. Questa relazione ci è data e nella quale siamo posti, tale ci supera nel momento stesso
in cui è radicalmente intima a noi stessi. La trascendenza di Dio è la trascendenza nelle cose, si
rivela e viene in contro al fondo delle cose e della storia. Non è fuggendo da me, che io incontro
Dio, ma andando in profondità ascoltando la voce della coscienza e che continua a dirsi, ma anche
andando in profondità del cammino storico dell’umanità e mi spinge a tirare fuori da tutto il bene
la costruzione di un mondo più giusto. Dio non lo incontro fuori di me, ma lo incontro al cuore, al
fondo del reale che è la realtà per cui tutto è e verso cui tutto tende. Non possiamo parlare
allora di religione naturale perché tutto parte dal dono di Dio (è relazione che ci è donata).

La rivelazione di cui ci parla la scrittura non è soltanto quella storico escatologica, ma è anche la
rivelazione che passa attraverso la creazione. Dio crea con la parola (logos), e nella creazione Dio si
rivela e comunica sé stesso. C’è una rivelazione cosmico antropologica, una rivelazione naturale o
creaturale e che passa attraverso la relazione e quella storico escatologica che passa attraverso il
popolo di Israele fino a Cristo Gesù e illumina il fine per cui comunica sé stesso all’uomo e il suo
fine ultimo.
Per Mancini vi è una “soprannaturalità” della religione “filosoficamente rilevabile”: “solo una
iniziativa e un movimento di Dio, aprioristicamente dati, possono far sorgere la realtà come la
religione. La quale non pone, ma suppone il soggetto e vi si affida”.

Abbiamo compreso il fondamento rivelativo nell’ordine creaturale e della creazione 6. Non si può
comprendere l’uomo senza Dio, l’uomo non può comprendersi a partire da sé ed in relazione di sé
solo. La creazione è rivelazione originaria di Dio, il suo racconto comincia dicendo “in principio”
ed è allora l’inizio della storia della salvezza tutta creata attraverso la Parola. La creazione è prima
rivelazione e grazia in quanto è dono (Dio parla e si comunica attraverso la creazione). La
creazione non risponde nell’ordine della necessità ma nell’ordine del dono di Dio di dirsi e
comunicarsi: Dio ha creato unicamente per amore. Questa rivelazione che è data da sempre ed è
perenne, non è in contrapposizione con la rivelazione cristologica perché questa conduce a
definitiva pienezza quella offerta nella creazione (Dei Verbum – Gesù unico mediatore di tutta
l’intera rivelazione). C’è un'unica rivelazione di Dio nella storia dell’umanità, storia della relazione
di Dio con l’uomo. Le forme sono diverse, la rivelazione cosmologica e cristologica, ma il
fondamento è uno, che lo si riconosca o meno. Il cristianesimo ha una chiave di comprensione
ulteriore che è fatta dalla rivelazione di Dio in Gesù Cristo che però non taglia fuori gli altri, ma fa
comprendere l’universalità della rivelazione e il desiderio di Dio che tutti gli uomini abbiano la vita
ed in pienezza.

Come possiamo confrontarci con diverse religioni? C’è un confrontarsi certamente tra l’esperienza
che tutti gli uomini fanno verso il divino. Bisogna avere una capacità di rispetto e di ascolto, con
uno sguardo capace di cogliere l’autenticità eventuali deformazioni o alterazioni anche nel nostro
modo di vivere la fede. Dobbiamo imparare a rintracciare le tracce della presenza di Dio dentro i
bisogni dell’uomo. Anche dentro una scelta contraddittoria, dobbiamo imparare a scorgere
l’esperienza di Dio che faticosamente si fa strada, ma è data dalla misteriosa presenza di Dio nel
cuore dell’uomo. C’è un desiderio di pienezza di vita: questo si distingue dal bisogno magari di
beni o condizioni di vita che sembrano solo apparentemente garantirci quella totalità. Il desiderio
non è riducibile al bisogno, che è in realtà soltanto una traccia che ne supera l’ordine. Il bisogno
nasce dal soggetto e torna al soggetto, perché si riduce all’orizzonte dell’io. C’è una logica di
consumo che non ci basta mai. Il desiderio invece si da come tensione, come relazione a ciò che ci
supera e ci trascende e si lascia prospettare come bene. Il punto di partenza non è ciò che io ho
bisogno, ma ciò che è massimamente da cercare. La ricerca della pienezza di vita non è quindi un
bisogno ma un desiderio che ci porta ad uscire da noi stessi ed implica relazione. Nel bisogno
posso negare la relazione, nel desiderio sono spinto ad uscire da me. Posso non pensare allora me
come misura, ma aprirmi a ciò che mi supera e che non posso ridurre a me stesso.

CONCLUSIONE:

La questione allora è educarci a comprendere tra i bisogni e scorgere tra le pieghe della nostra
esistenza il desiderio che muove i nostri passi e ci fa vivere. C’è una relazione che ci precede, il
bene ci precede ed è più grande di noi. Nella ricerca di ciò che è bene sperimentiamo il nostro
rapporto in ciò che ci supera, e la ricerca di un compimento che si da all’interno di una relazione.
Questa relazione è scritta dentro la nostra stessa esistenza ed è parte di noi. Se cerchiamo la
pienezza della vita allora è perché veniamo dalla pienezza della vita. Tale non costituisce solo il
nostro tendere ma anche la nostra radice (sorgente continua del nostro essere). Questa
6
Prima Grazia (Mancini)
relazione non è immobile, anzi è viva e dinamica, è principio di vita e di un dinamismo
dell’esistenza. Dentro questa relazione l’Assoluto si comunica, e ci è donato e nel comunicarsi si
rivela. La fede è non solo riconoscere questa relazione che è radice e ci porta, ma anche lasciarsi
condurre da questa relazione, assumerla consapevolmente e viverla: lasciare che questa relazione
orienti e plasmi tutta la nostra esistenza. Questa parola non si impone, ma è una brezza leggera,
un enigma che parla e la sua parola è appello (che interpella e chiama in causa e vuole essere
capita – ZUBIRI). L’esperienza religiosa è al cuore del nostro esistere, è esperienza di trascendenza
che si annuncia, è pienezza di relazione e comunione.

L’esperienza della trascendenza, l’esperienza di Dio, l’esperienza del donarsi di Dio e farsi
incontro come promessa e dono di una pienezza di vita e di essere, è data ad ogni uomo . La
presenza di Dio è che è spinta alla pienezza della vita e della comunione, è una presenza che si da
nella relazione che non è fuori dalla realtà ma ci spinge profondamente ad immergerci in noi
stessi. Si annuncia e traspare anche nella contraddizione e nell’incertezza della sensibilità
contemporanea e del modo così confuso di vivere la religiosità contemporanea. L’imporsi in primo
piano della dimensione affettiva e emozionale, può costituire una risorsa a partire dalla quale
aiutare a recuperare il senso profondo della nostra umanità. Aiutare a ritrovare il senso profondo
della nostra umanità aiutandoci a comprenderla nella relazione che la fonda e sostiene con Dio, e
che costituisce l’orizzonte di compimento del desiderio che attraversa il cuore dell’uomo. Potrai
sconfiggere la malattia e la sofferenza, vincere o guadagnare qualsiasi bene, ma questo desiderio
non verrà comunque soddisfatto. Capire invece che questo desiderio ci porta ad alzare lo sguardo
oltre noi stessi e ci porta a scoprirci in relazione all’alto in un percorso di comprensione di quello
che portiamo nel cuore e che cosa veramente siamo.

C’è una tensione tra Dio e l’uomo che è feconda e non porta ad una scissione ma è proprio dentro
questa relazione tra l’eterno e il tempo, Dio e l’uomo, il finito e l’infinito in cui siamo. Più si è
dentro il tempo più si vive l’umanità: più si è umani, più diventiamo partecipi della vita di Dio e
viceversa. L’esperienza religiosa ha un fondamento rivelativo nella relazione tra Dio e l’uomo e tale
esperienza è data necessariamente ad ogni uomo, è esperienza fontale della nostra umanità.
Capire che ogni essere umano è in relazione a Dio significa che ha dignità massima: è fatto a
immagine e somiglianza di Lui che è presente in ogni essere umano. Ciascuno è una parola
pronunciata da Dio, dentro la storia di ciascuno il Signore agisce e si lascia incontrare. Il che non
vuol dire che tutto è buono e santo, ci sono deformazioni, negazioni, strumentalizzazioni, ma non
dobbiamo dimenticare mai che al fondo della vita di ogni essere umano, la presenza di Dio emerge
e riaffiora continuamente.

L’esperienza religiosa non nasce in qualcosa che manca, ma nel suo livello consapevole nasce dal
sentirsi raggiunti da un amore più grande. Essere toccati da Dio, raggiunti dalla sua presenza e li
quella esperienza che è implicita dento di noi e data in maniera anonima, è li che emerge.
L’incontro con Dio emerge in modo consapevole quando avverti quello che già era, ciò di cui non ti
rendevi conto e che eri raggiunto da sempre dall’amore di Dio e dalla sua presenza. Il punto di
partenza non è l’esperienza della nostra finitezza, ma l’esperienza della pienezza che avvertiamo
dentro di noi. Ciò che muove la nostra ricerca non è la mancanza, ma la pienezza che intuiamo
ciò per cui noi siamo, e verso cui noi andiamo. L’esperienza di sentirsi amati, è come veramente
si percepisce l’amore, non quando si ama (come tra uomo e donna).

“L’esperienza religiosa è tanto empirica di fondamento quanto di una meta” (Scheler). La fede
diventa vera quando Dio non è la risposta ai bisogni, ma molto di più. Prima ancora che io alzassi il
mio grido Lui era già accanto a me e da sempre mi ha amato. L’esperienza scatta in maniera
consapevole quando coglie che la relazione con Dio non viene dalla ricerca dell’uomo ma viene
dalla sovrabbondanza di Dio ed è donata. L’esperienza religiosa è chiave di comprensione di quello
che siamo.

Nel saggio di De Simone, si parla del rapporto tra bisogni e desiderio, e amore e conoscenza. La
nostra vita è attraversata da tanti bisogni, e molte volte l’esperienza viene riscoperta a partire da
un bisogno (consolazione, sicurezza, conforto, di sentirsi protetto in un gruppo…), noi dobbiamo
imparare a passare dalla logica del bisogno a quella del desiderio: al fondo dei bisogni c’è il
desiderio profondo (che i padri chiamavano “del cuore”, o S. Caterina “santa inquietudine”) che
abita il cuore dell’uomo e che non possiamo negare. Cerchiamo sempre un di più e quello che
abbiamo non ci basta mai, non solo per la logica consumistica di cui siamo travolti, ma l’uomo è
guidato da una inquietudine del cuore di una ricerca che non finisce e lo spinge sempre oltre. C’è
un desiderio di un di più che è un desiderio di qualcosa che dia pienezza alla vita, un desiderio
dell’eterno. Questo desiderio è la traccia di Dio dentro di noi, e non per cosa ci manca ma per cosa
che siamo e costituisce il vero bene. Questa pienezza mi porta ad alzare lo sguardo, perché la
risposta non la posso trovare nelle cose finite, e mi spinge ad andare oltre.

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