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Prof.ssa Angela Montaruli → ANGELA.MONTARULI@UNIMI.

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Crediti: 10, ore totali: 80. APPUNTI PRIMO SEMESTRE

Nello studio della vita biologica si possono identificare numerosi livelli di


organizzazione, dall’atomo fino all’organismo in toto (atomo- molecola-
macromolecola- organulo- cellula- organo- apparato- organismo). Le diverse discipline
biomediche si concentrano su uno o più di questi livelli. Tutti gli esseri viventi
presentano un’organizzazione della sostanza vivente, anche se questa può presentare
vari livelli di organizzazione, per cui si va dalle forme più semplici, si pensi ai virus, ai
batteri, che si riproducono a spese di altri usufruendo delle strutture delle cellule
superiori, fino agli organismi superiori detti eucarioti, che presentano delle cellule
specializzate per svolgere funzioni specifiche. Queste cellule che hanno caratteristiche
simili tra di loro, sia sul piano morfologico che funzionale, vanno ad associarsi a
formare i tessuti, che a loro volta vanno a formare gli organi. Nel livello più semplice
troviamo il livello chimico, che comprende atomi e molecole, poi c’è il livello cellulare, in cui le molecole si
associano a formare gli organelli e le cellule, che sono le unità funzionali e strutturali di un organismo, poi c’è il
livello tissutale, in cui gruppi di cellule, con caratteristiche simili e che svolgono funzioni specifiche, si associano. I
tessuti vanno a costituire gli organi, quindi il livello organi è quello in cui i tessuti si organizzano tra di loro, e infine
troviamo il livello dell’organismo in toto, cioè l’essere vivente.

La parola anatomia deriva dal greco ανατομή, anatomè, che vuol dire sezionare in parti, fare a pezzi. L’anatomia è
lo studio delle strutture di un organismo e dei rapporti tra le sue parti; è un campo vastissimo e comprende sia
quella macroscopica, cioè che possiamo osservare con i nostri occhi, sia quella microscopica, che quindi si avvale di
strumenti di osservazione come i microscopi. L’anatomia macroscopica va a studiare la struttura delle diverse parti
del corpo che possiamo osservare ad occhio nudo, come l’intestino, i reni il cuore, ecc.; l’anatomia microscopica
esamina le strutture che non si possono vedere ad occhio nudo, come sezioni di parti del corpo umano, che
possono però essere osservate grazie all’ausilio di microscopi.

Prima di parlare di anatomia però bisogna prima occuparsi di istologia, cioè la disciplina scientifica che studia i
tessuti e che è un’importante branca della medicina. Per studiare anatomia è anche importante la citologia (studio
della cellula) per analizzare gli elementi cellulari caratteristici dei tessuti che formano gli organi.

La forma della cellula è molto varia anche in base alla


funzione che deve svolgere. In linea generale la
maggior parte delle cellule, se isolate e sospese in
mezzo a un liquido, assume una forma sferica per
effetto della tensione superficiale. Invece, se le cellule
si riuniscono tra di loro a formare dei tessuti, la loro
forma è determinata dai loro rapporti con le altre
cellule, per cui potremo distinguerne alcune piatte,
cubiche, cilindriche, con o senza specializzazioni della
adipocita
membrana plasmatica, come ad esempio, ciglia,
flagelli, microvilli, ecc.; alcune cellule hanno anche una
forma che cambia continuamente in relazione al loro
stato funzionale, come ad esempio i macrofagi che
possono migrare dal sangue ai tessuti connettivi. Altre cellule hanno una forma che dipende moltissimo dalla loro
specializzazione funzionale, si pensi ad esempio alle cellule nervose, provviste di un gran numero di prolungamenti,
o le cellule muscolari, che tendono ad assumere una forma più affusolata, o agli spermatozoi, che presentano un
flagello che consente loro di muoversi. Non solo la forma, ma anche la loro dimensione è molto varia, si va dalla
cellula uova di circa 150 micron di diametro, allo spermatozoo intorno ai 4/5 micron di diametro.

L’aspetto morfologico dei tessuti e delle cellule che li compongono è correlato alla loro funzione e dell’organo a cui
appartengono, quindi esiste sempre una stretta correlazione tra anatomia e fisiologia, che è la scienza che studia la
funzione delle strutture del corpo.

L’anatomia si può definire come lo studio delle strutture di un organismo e


dei rapporti tra le sue parti.
L’immagine raffigura un’opera di Rembrant (“lezioni di anatomia”), che
illustra un professore di anatomia che esegue una dissezione sul corpo di
un giustiziato.

L’anatomia nel corso dei secoli ha assunto fisionomie diverse rispetto a quella attuale, infatti per lunghissimo
tempo è stata identificata quasi completamente con la scienza medica e per molti secoli prima di Cristo, i principali
centri del mondo scientifico si trovavano nell’antica Gracia e in Egitto, tant’è che lo studio sistematico noto di
anatomia è contenuto in un papiro egizio, che è databile intorno al 1600 a.C.; a quell’epoca gli studiosi
conoscevano la struttura dei visceri, ma non la loro funzione. Nel IV secolo a.C. Aristotele ampliò molto le
conoscenze anatomiche sugli animali. La vera e propria affermazione dell’anatomia come scienza è legata al fiorire
delle scuole filosofiche greche che permisero di arrivare a scoperte importanti, ma che erano però frenate dal fatto
che non potevano avvalersi della pratica dissettoria dei cadaveri, quindi erano costretti a ripiegare sulle analisi di
reperti animali, con grave danno per quanto riguardava la validità dei risultati: ad esempio Galeno riportò le
scoperte fatte sugli animali direttamente al campo umano sena fare correzioni.

Effettivamente l’anatomia fiorisce nel rinascimento (nasce come scienza che si basa sull’osservazione del corpo
umano) grazie all’opera di Leonardo da Vinci e Andrea Vesalio perché prima la dissezione dei cadaveri era
considerata sacrilega. Andrea Vesalio (chiamato il riformatore dell’anatomia) concepì il primo testo anatomico e
l’aula nella scuola di medicina, in modo che gli studenti fossero portati vicino al tavolo anatomico. Prima della
pubblicazione del suo trattato gli anatomici si erano basati su osservazioni di reperti animali.

Nel corpo umano sono presenti quattro tipi di tessuti con caratteristiche molto diverse tra di loro: tessuto
epiteliale, connettivo, muscolare e nervoso, ciascuno con le proprie varianti e sotto classificazioni.

Organi pieni vs cavi


Una caratteristica degli organi è la classificazione tra pieno o parenchimatoso, come il fegato, e cavo, come lo
stomaco.
Gli organi parenchimatosi non sono provvisti di una cavità centrale e sono caratterizzati dalla presenza di un
parenchima: tessuto “nobile” di un organo, quello a cui si deve la sua funzione; il parenchima è organizzato da uno
stroma che forma la struttura di sostegno per l’organo, e da una capsula che riveste e circoscrive l’organo (capsula
e stroma sono di natura connettivale).
Gli organi cavi sono caratterizzati dal fatto di possedere una cavità centrale chiamato lume, grazie alla
sovrapposizione di vari strati a cui si dà il nome di tonache; per questo gli organi cavi vengono anche definiti organi
a tonache sovrapposte. Ogni tonaca è caratterizzata da un diverso tipo di tessuto. Nel caso degli organi cavi
dell’apparato digerente ci possono essere 4 tonache: a partire da quella più interna che guarda il lume tonaca
mucosa, tonaca sottomucosa, tonaca muscolare e tonaca avventizia, cioè quella più esterna.
3 piani di sezione:
Per descrivere le diverse parti del copro bisogna partire da una
posizione anatomica iniziale di riferimento.
Il copro umano presenta una simmetria latero-laterale o anche detta
bilaterale, quindi possiamo dividere con un piano sagittale mediano
destra sinistra e non possiede una simmetria antero-posteriore, né
craniocaudale. I piani anatomici di riferimento sono quello sagittale,
frontale e trasversale.

1) Il piano sagittale mediano (antero-posteriore) divide il corpo umano in due metà, una destra e
una sinistra; i termini comunemente utilizzati che si riferiscono a questo piano sono “destra” e
“sinistra”, “laterale”, che identifica una parte più lontana al piano, e “mediale”, più vicina,
“omolaterale” e “controlaterale”, che si riferiscono al fatto che due parti si trovino nella stessa
metà identificata dal piano, piuttosto che dalla parte opposta; ad esempio la mano destra è
controlaterale rispetto alla mano sinistra. Se ci si riferisce a un arto superiore, si indica mediale la
parte più vicina al piano e laterale la parte più lontana, l’ulna è mediale rispetto al radio, che è
laterale.
2) Anche nel caso del piano frontale (coronale) non si può identificare un
unico piano di sezione, ma ne esistono diversi dalla superficie ventrale a
quella dorsale e viceversa; i termini usati sono “anteriore” o “ventrale” e
“posteriore” o “dorsale”.
3) Rispetto al piano trasversale (trasverso o orizzontale) i termini comunemente utilizzati sono
“superiore” o “craniale” e “inferiore” o “caudale”.
N.B. in riferimento agli arti i termini di posizione sono prossimale (quella parte che si trova più
vicina alla parte di giunzione col tronco) e distale.
I movimenti:
Per descrivere un movimento bisogna sempre prendere in considerazione la posizione anatomica, cioè la posizione
in cui il corpo umano si trova in stazione eretta, rivolto verso chi osserva, con le braccia che pendono lateralmente
al tronco e col palmo della mano rivolto verso l’avanti e gli arti inferiori ravvicinati con i piedi leggermente
divaricati. La posizione dell’arto superiore con il palmo rivolto in avanti è una condizione di supinazione. Il copro in
posizione anatomica lo si può anche immaginare rappresentato all’interno di un parallelepipedo in cui le pareti
laterali saranno dei piani sagittali, la parete anteriore e posteriore saranno piani frontali, mentre la parete
superiore e inferiore saranno dei piani trasversali; tra ogni coppia di facce di questo
ideale parallelepipedo si possono idealmente tracciare infiniti piani paralleli.

3 assi
1) asse saggitale: movimenti di inclinazione laterale, abduzione e adduzione (riferito
agli arti)
2) asse verticale/longitudinale: movimenti di torsione (riferito al rachide), rotazione
(riferito agli arti), pronazione e supinazione (riferito alla mano e all’avambraccio,
rotazione della mano)
3) asse trasversale: movimenti di estensione e flessione

Col termine di flessione si indica un movimento in cui due


superfici ventrali si avvicinano, mentre l’estensione è il
movimento opposto, cioè che tende ad allontanare due superfici
ventrali. Questi due movimenti si svolgono su un asse trasversale
e la parte in movimento si allontana dal piano frontale, mentre
nell’estensione si riavvicina. Considerando che nell’arto inferiore
le superfici sono orientate nel verso opposto rispetto al tronco, il
termine flessione relativo all’articolazione del ginocchio, indicherà l’avvicinamento di due superfici rivolte
dorsalmente, mentre nell’estensione si allontanano.

Il movimento che avviene lungo l’asse sagittale è detto inclinazione laterale e si


riferisce alla testa e al tronco. In questo movimento la parte mobile si allontana dal
piano sagittale mediano.

I movimenti di abduzione e adduzione si svolgono sempre sul piano sagittale, ma si


riferiscono agli arti. Nell’abduzione la parte mobile si allontana dal piano sagittale
mediano, mentre nella adduzione la parte di movimento si riavvicina al piano.

Il movimento di torsione si riferisce a un asse


verticale riferito al rachide, la rotazione invece è riferito agli arti, sempre su asse
verticale. In particolare quando il movimento è diretto verso il piano frontale
posteriore, si parlare di extrarotazione o rotazione esterna, mentre se diretta
verso il piamo frontale anteriore si parla di intrarotazione o rotazione interna.
In particolare la rotazione dei due segmenti più distali
dell’arto superiore, cioè dell’avambraccio e la mano,
prendono il nome di pronazione e supinazione; si
parla di supinazione quando il movimento è diretto verso l’esterno, mentre di
pronazione se è diretto verso l’interno. Nella pronazione l’ulna e il radio si incrociano,
mentre in supinazione tornano paralleli.

Suddivisione del corpo in regioni


Nel corpo umano si riconosce una parte assile
centrale (assile = che sta lungo l’asse corporeo),
che presenta una testa, un collo e un tronco, che
a sua volta è suddivisibile in torace, addome e
pelvi; alla parte assile sono collegate le parti
appendicolari costituite dagli arti superiori e
inferiori, che si uniscono al tronco attraverso dei
cingoli, rispettivamente scapolare e pelvico. Gli
arti superiori a loro volta presentano un’estremità
libera costituita da braccio, avambraccio e mano,
così come gli arti inferiori presentano
un’estremità libera costituita da coscia, gamba e
piede.

Il termine soma sta ad indicare tutte quelle strutture che costituiscono la parte più esterna del corpo umano,
quindi comprende i tegumenti, i muscoli e le ossa. La parte assile del corpo, ovvero il tronco, il torace, l’addome e
la testa, è strutturata secondo un modello costruttivo di tipo cavitario. Queste cavità prendono nomi diversi in
base a determinate caratteristiche, per cui si distinguono in spazi connettivali, sierosi e neurali.
Analizzando il corpo umano partendo dalla
superficie e andando in profondità, si trova come
primo strato la cute, costituita da epidermide e
derma, al di sotto della quale troviamo il
sottocutaneo e ancora più sotto c’è una fascia
superficiale di natura connettivale che va ad
avvolgere il corpo e si fissa a parti ossee sporgenti;
questa fascia prenderà nomi diversi a seconda delle
diverse regioni del corpo. Sotto questa fascia
connettivale si trova il piano osteomuscolare, in
particolare, nella foto, lo strato più profondo si
notano le cellule muscolari colorate di scuro. Una
situazione simile la si trova anche nell’ambito del
sottocutaneo, dove si nota un’altra lamina sottile
connettivale, detta fascia sottocutanea o fascia
superficiale del sottocutaneo, in cui ci sono altri
muscoli; questi sono i muscoli mimici, detti anche pellicciai, presenti soltanto a livello della testa e del collo e
almeno con uno dei loro capi di inserzione si fissano al derma e la muovono determinando le espressioni facciali.

Se si elimina cute e sottocutaneo si possono vedere i muscoli più


superficiali del corpo, ed è proprio il sistema osteomuscolare che
determina la morfologia del nostro corpo, che ne disegna le forme
caratteristiche secondo un piano costruttivo comune, ma che
presenta delle variazioni individuali. Per poter quantificare queste
differenze morfologiche che esistono tra i diversi individui, ma
anche per stabilire la posizione di un organo o per localizzare un
sintomo, bisogna fare riferimento ad una serie di punti e linee, che
possono essere tracciati in rapporto con le parti dello scheletro
che possiamo facilmente individuare, toccando la superficie
corporea.
È possibile tracciare sulla superficie del corpo delle linee verticali e
orizzontali, che possono servire come coordinate per indicare dei punti
ben precisi; queste linee sono particolarmente importanti per il tronco,
per stabilire la posizione dei molti visceri, che vi sono alloggiati.
Nell’immagine sono riportate alcune linee superficiali di riferimento, che
alludono alla faccia anteriore del tronco e che si tracciano idealmente
sulla base di punti ossei definiti; si nota la linea orizzontale clavicolare,
che passa attraverso le due articolazioni tra sterno e clavicola; più in
basso c’è un’altra linea orizzontale, ovvero la linea basisternale, che,
come dice il nome, è alla base dello sterno e segna il limite tra il torace e
l’addome. C’è la linea tangente all’arco costale, più in basso la linea
ombelicale che passa a livello dell’ombelico e ancora più in basso c’è la
linea bisiliaca che unisce le due spine iliache antero-superiori, ovvero due
sporgenze dell’anca, in particolare dell’osso iliaco.
Tra le linee verticali, quelle a cui più spesso si fa riferimento, sono la linea mediosternale, che divide lo sterno in
due metà simmetriche e che inferiormente prosegue come linea xifopubica, cioè che si porta dal processo xifoideo
dello sterno, ovvero la porzione inferiore, fino al pube. Poi c’è la linea marginosternare, che è la tangente al
margine laterale dello sterno, e la linea parasternale, che si trova più esterna, a circa due dita dalla
marginosternale. La linea emiclaveare, ci consente di dividere il quadrante addominale in parti più piccole, emi
perché passa per il centro della clavicola.
Posteriormente è presente la linea spondiloidea, che passa
attraverso i processi spinosi delle vertebre, la linea
paravertebrale, che si trova lateralmente alle vertebre, e la linea
angoloscapolare, che unisce l’angolo inferiore della scapola alla
cresta iliaca. Lateralmente è presente la linea ascellare anteriore,
media e posteriore.

Se si va a eliminare lo strato cutaneo, il sottocute e il piano osseo-muscolare, si giunge


al contenuto della cavità corporea, dove si trovano i visceri. Il termine viscere non è
sinonimo di organo, di fatti è considerato organo anche la pelle, il muscolo o qualunque
struttura che ha una sua individualità anatomica; i visceri sono solo quegli organi che si
trovano accolti all’interno della cavità toracica e addominale. La splancnologia è quella
parte dell’anatomia che va a studiare i visceri; il termine deriva dal greco σπλάγχνον,
splanchnikós, che vuol dire viscere. La cavità corporea è piena di un contenuto
viscerale, quindi per descrivere la posizione dei visceri si fa riferimento a dei settori che
si proiettano sulla parete addominale anteriore. Si assegnano alla parete addominale
anteriore dell’addome dei limiti ben precisi per poi dividerla in regioni, seguendo le linee convenzionali prima
elencate. Pertanto, la parete addominale anteriore è delimitata superiormente dalla
linea basisternale, mentre lateralmente i limiti della cavità addominale sono dati da
due linee che proseguono inferiormente le linee ascellari e che raggiungono le spine
iliache antero-superiori; inferiormente è limitata da due linee, che dalle spine iliache
si portano ai tubercoli pubici e completate infine da una piccola linea che li va a
unire. La parete addominale è ulteriormente scomponibile, mediante altre due linee
orizzontali, in tre regioni disposte su tre piani, uno superiore, uno medio e uno
inferiore; le due linee orizzontali, che consentono di distinguere questi tre piani,
sono la tangente all’arco costale, che passa per la decima costa dei due lati, e la
linea bisiliaca che è tesa tra le due spine iliache antero-posteriori. In questo modo i
tre piani che si individuano sono quello superiore o epigastrico (nell’immagine
indicato con la E), quello intermedio o mesogastrico (M) e quello inferiore
ipogastrico (I).
Ogni piano a sua volta è suddivisibile in tre regioni, una mediana e due laterali dette
destra e sinistra, per mezzo di due linee oblique che partono dal punto di mezzo
della clavicola, il punto emiclaviare, fino al tubercolo pubico dello stesso lato; in questo modo si individuano nel
piano superiore tre regioni, quella epigastrica propriamente detta, ovvero l’epigastrio, e due regioni che
corrispondono all’ipocondrio destro (ID) e sinistro (IS). Nel piano intermedio c’è centralmente il mesogastrio, che
contiene l’ombelico, e lateralmente le regioni addominali laterali, dette anche regioni del fianco destro (FD) e
sinistro (FS). Nel piano inferiore è presente al centro l’ipogastrio e lateralmente le regioni inguino-addominale
destra (IAD) e sinistra (IAS), dette anche fossa iliaca destra e sinistra. In questo modo l’addome è stato suddiviso in
nove regioni, delimitato da quattro linee che si intersecano tra di loro a formare una sorta di griglia.

Alcune definizioni:
Le cellule, che sono le unità funzionali dell’organismo, sono le più piccole unità microscopiche dotate di tutte le
caratteristiche della sostanza vivente, sono le parti elementari dell’organismo. Queste si associano tra di loro a
formare tessuti (insieme di cellule simili che svolgono funzioni simili); a loro volta i tessuti si aggregano e si
coordinano a formare delle organizzazioni tridimensionali che sono gli organi (insieme di tessuti che svolgono
funzioni che cooperano alla funzione dell’organo) che si possono definire come una sorta di unità di lavoro con
funzione specializzata. Per realizzare le funzioni fondamentali della vita vegetativa e di relazione, come la
locomozione, la digestione, la riproduzione, la respirazione, ecc., i singoli organi devono lavorare tra di loro,
formando dei gruppi di lavoro a funzione superiore rispetto a quella del singolo organo, più complessa; questi
gruppi di lavoro possiamo definirli come sistemi e apparati (insieme di organi che formano complessi integrati per
lo svolgimento di funzioni specifiche).
I sistemi sono più specificatamente insieme di organi che presentano analogie sia per quanto riguarda la loro
struttura sia per la loro funzione e condividono la stessa derivazione embriologica; alcuni esempi sono il sistema
scheletrico, muscolare, il sistema vascolare e nervoso.
Invece, gli apparati sono sempre associazioni di organi che cooperano alle stesse funzioni, ma possono differire per
quanto riguarda la derivazione embriologica e per la loro struttura; ad esempio l’apparato locomotore è formato
sia da ossa che da muscoli che cooperano per svolgere la stessa funzione, ma sono tra di loro strutturalmente
molto diversi, oppure pensando all’apparato circolatorio, il cuore e i vasi sanguigni che permettono la circolazione
del sangue hanno una struttura diversa fra loro.

Apparati organici:
Tutti gli apparati organici si possono fondamentalmente
suddividere in due grosse categorie:
1) apparati della vita di relazione
sono quelli che mettono in continuo rapporto
l’individuo con il mondo esterno, quindi
comprendono il sistema nervoso e l’apparato
locomotore.
2) apparati della vita vegetativa
consentono di mantenere in vita l’organismo
permettono la sopravvivenza della specie, per cui
comprendono l’apparato digerente, respiratorio,
uropoietico, cardiovascolare e genitale
L’apparato tegumentario e endocrino sono a cavaliere tra questi due grandi gruppi: se si pensa alla pelle, essa da
un lato ci consente di sopravvivere, di mantenere in vita l’organismo prevenendo la disidratazione, dall’altro è ricca
di innervazioni che ci consentono una continua relazione con il mondo esterno; anche l’apparato endocrino,
costituito da ghiandole che producono un secreto che prende il nome di ormone, è implicato sia in processi della
vita vegetativa, sia in processi tipici della vita di relazione.

Tipi di organi:
Un organo è un’unità macroscopica individuale, pluritessutale, definibile spazialmente, che svolge funzioni che
cooperano alla funzione dell’apparato cui appartiene. Strutturalmente, in base alle diverse modalità organizzative,
gli organi possono essere classificati in tre categorie:
• La prima è costituita da organi che presentano una struttura filamentosa o fibrosa, come i muscoli, i
tendini e i nervi; negli organi a struttura filamentosa le unità elementari, rispettivamente fibre muscolari
striate o lisce, fibre collagene e fibre nervose, sono aggregate a formare fascetti primari, secondari e
terziari; questa organizzazione in fascetti è legata alla presenza del tessuto connettivo.
• Gli organi pieni o parenchimatosi non presentano una cavità centrale, ma presentano un tessuto a cui si
ascrive la funzione principale dell’organo, ovvero il parenchima; sono organi dotati di un dispositivo
capsulare e stromale, quindi di uno stroma che permette di organizzare il parenchima e che funge da
struttura di sostegno.
• Gli organi cavi si distinguono tra quelli dei visceri e quelli dell’apparato cardiovascolare.
Organi cavi
Gli organi cavi sono anche definibili a tonache sovrapposte, infatti
presentano una parete delimitata da tonache, che delimita a sua
volta una cavità, il lume, al cui interno si trova un contenuto, lo
strato che guarda verso il lume è quello più caratteristico
dell’organo, perché a contatto con il contenuto presente nella
cavità, contenuto che può essere di diversa natura, come l’urina, il
sangue, il cibo, l’aria, ecc.

La parete degli organi cavi è costituita da


diverse tonache che vanno a costituire dei veri e
propri strati, ciascuno con funzioni diverse
nell’ambito della funzione dell’organo stesso. Lo
strato più interno prende il nome di tonaca
mucosa per quanto riguarda i visceri, mentre
per quelli dell’apparato circolatorio prende il
nome di tonaca intima, in particolare nel cuore
prende il nome di endocardio.
A sua volta la tonaca mucosa è costituita, dall’interno procedendo verso l’esterno, da un epitelio di
rivestimento, da una lamina propria e da una muscolaris mucosae (1). L’epitelio di rivestimento, oltre a svolgere un
ruolo di protezione, ha il compito di mediare gli scambi tra il lume del viscere ed il sangue e la linfa che scorro no
nei vasi che raggiungono gli organi; è la parte più a diretto contatto con il contenuto, quindi può assorbire sostanze
o secernere materiali che vanno a riversarsi nel lume. La lamina propria è di natura connettivale e ha una funzione
di sostegno e di nutrimento per l’epitelio, infatti può ospitare ghiandole la cui attività di secrezione va ad
aggiungersi a quella dell’epitelio; il dotto escretore delle ghiandole riversa nel lume il proprio secreto. La muscolare
della mucosa determina un certo dinamismo della tonaca mucosa stessa, che in un certo senso si può considerare
indipendente da quella che è la motilità complessiva dell’organo e che potrà favorire l’emissione del secreto delle
ghiandole o facilitare il processo di assorbimento.
La tonaca intima dei vasi e l’endocardio del cuore hanno una costituzione simile e presentano un epitelio che
prende il nome di endotelio (12), sotto il quale si trova uno strato sottoendoteliale (18) che corrisponde alla lamina
propria. L’endotelio si ritrova a stretto contatto con il contenuto del lume (sangue o linfa) e grazie alla sua
conformazione e alla sua continuità impedirà la coagulazione del sangue e potrà assorbire i materiali presenti nei
fluidi circolanti. Lo strato sottoendoteliale ha anch’essa funzioni trofiche e di sostegno per l’endotelio.

Sotto la mucosa c’è uno strato che prende il nome di tonaca sottomucosa (2), presente nella maggior parte dei
visceri, ma è assente a livello dei vasi e del cuore. Questa sottomucosa è costituita da tessuto connettivo lasso, che
le conferisce una sorta di motilità autonoma e può contenere delle ghiandole.

Al di sotto troviamo la tonaca muscolare (4), che nei vasi e a livello cardiaco prende nomi diversi, rispettivamente
tonaca media (17) e miocardio. La tonaca muscolare rappresenta lo strato intermedio della parete e dà all’organo
la motilità complessiva. Nei visceri cavi è costituita da fasce di fibre che possono essere orientate in vario modo a
seconda delle caratteristiche di motilità dell’organo stesso. Per quanto riguarda la tonaca media degli organi
dell’apparato circolatorio, questa può avere una costituzione per lo più muscolare come nel cuore, nelle arterie
muscolari e nelle vene di tipo propulsivo, oppure può avere una costituzione più elastica come nelle grosse arterie
tipo l’aorta. All’attività di questa tonaca sono legati i fenomeni meccanici che rendono possibile la circolazione del
sangue.

La tonaca più esterna prende il nome di avventizia (15), che è presente sia a livello dei visceri che dei vasi, è
formata da tessuto connettivo denso e forma l’avvolgimento più esterno, stabilendo i rapporti degli organi con
l’ambiente circostante. Questa tonaca consente all’organo una certa autonomia rispetto alle formazioni che si
trovano intorno e ne permette l’ancoraggio tramite dei mezzi di fissità, che sono dei legamenti che si legano
all’avventizia. A livello dei visceri questa tonaca può essere sostituita da un’altra tonaca che prende il nome di
sierosa (6), la quale può essere presente nei visceri
che nello svolgimento delle proprie funzioni
necessitano di modificare molto le loro
dimensioni; questa tonaca sierosa è presente nel
cuore e prende il nome di epicardio, mentre quella
dei visceri addominali e pelvici prende il nome di
peritoneo. Come l’avventizia, anche la sierosa
consente di fissare gli organi, a volte si stacca da
questi sotto forma di lamine per fissarsi su un altro
viscere oppure sulle pareti della cavità nella quale
il viscere è contenuto. La tonaca sierosa è
costituita da un altro tipo di epitelio detto
mesotelio e dallo strato sottomesoteliale di natura
connettivale.

Organi parenchimatosi

Hanno una struttura un po’ più complessa, meno generalizzabile,


anche se possiamo riconoscere due componenti: il parenchima, una
capsula e uno stroma. La capsula forma l’avvolgimento più esterno, è
formata da tessuto connettivo denso e invia nell’organo una sorta di
setti, che man mano che si addentrano nella profondità dell’organo si
dividono in lamine sempre più sottili fino ad andare a costituire un
vero e proprio reticolo tridimensionale, che rappresenta la struttura
di sostegno dell’organo, ovvero lo stroma; questo delimita anche
degli spazi all’interno dei quai è contenuto il parenchima. Lo stroma è
caratteristico per ogni organo ed è proprio la disposizione di questo
che consente di suddividere certi organi in lobi e lobuli, cioè dei
territori relativamente indipendenti tra di loro, che ricevono una propria irrorazione sanguigna e linfatica e una
propria innervazione. Lo stroma è anche un dispositivo di supporto e guida per i vasi e i nervi che devono entrare
nell’organo; infatti, nell’immagine si può notare che nei tralci connettivali che vanno a costituire lo stroma, si
possono notare delle strutture colorate in blu e rosso, che sono i vasi sanguigni arteriosi e venosi, che entrano ed
escono in più punti della superficie dell’organo. In alcuni casi vasi e nervi non entrano in più punti, ma entrano ed
escono a livello di un punto ben preciso della superficie, chiamato ilo.
Spazi corporei

Quando si descrive un organo la prima cosa che si fa è quella di descriverne le caratteristiche fisiche, ma bisogna
anche saper definire la sua posizione, i suoi mezzi di fissità e il suo rapporto rispetto agli organi vicini. I visceri
occupano degli spazi ben delimitati ad opera di membrane sierose o di lamine connettivali, per cui questi spazi
saranno chiamati rispettivamente cavità sierose o logge connettivali. I visceri che si trovano accolti all’interno di
cavità sierose sono in genere organi molto mobili, mentre quelli che si trovano nelle logge connettivali hanno
invece una mobilità più ridotta o nulla e sono tenuti fissi dall’aderenza alle pareti della loggia stessa e dei
legamenti. Per i visceri completamente rivestiti dal peritoneo, i mezzi di fissità sono dati da doppie lamine
peritoneali che si portano verso altri visceri o verso la parete addominale stessa. Per riassumere, gli spazi corporei
possono essere definiti come intervalli tra gli organi o che circoscrivono uno o più organi.
Questi spazi si possono classificare in diversi modi:
• Spazi connettivali, che comprendono logge (limiti fasciali o piani ossei) e interstizi (limiti non ben definiti);
degli esempi sono le logge muscolari all’interno delle quali si trovano visceri che generalmente svolgono
una funzione agonista e in logge differenti ci sono muscoli che svolgono funzioni antagoniste; esistono
logge che accolgono visceri, come quella parotidea, all’interno della quale si trova la parotide, cioè una
delle ghiandole salivari maggiori. Le logge sono spazi delimitati da lamine di tessuto connettivo che si
fissano a delle protuberanze ossee. Gli interstizi sono spazi i cui limiti non sono ben definiti come uno
spazio vascolare a livello del collo, dove passano i vasi sanguigni.
• Spazi sierosi, che sono delimitati da membrane sierose, cioè lamine che si trovano ad avvolgere quasi tutti
i visceri dell’addome e del torace, come il cuore avvolto dal pericardio, i polmoni avvolti dalla pleura e i
visceri addominali avvolti dal peritoneo.
• Spazi neurali, che rappresentano un tipo particolare di spazio connettivale che però ha un contenuto
nervoso, quindi questi spazi si trovano a circondare organi del sistema nervoso centrale; questi spazi sono
delimitati da lamine connettivali che prendono il nome di meningi, che hanno rapporti con un astuccio
osseo più esterno.

Gli spazi connettivali si trovano un po’ ovunque, mentre quelli sierosi si trovano solo nel torace e nell’addome e
mancano negli arti, nel collo e nella testa; gli spazi neurali si trovano solo nella scatola cranica e nel canale
vertebrale e questi spazi sono tutti in continuità.

Gli spazi sierosi avvolgono organi che hanno la caratteristica di


cambiare frequentemente le loro dimensioni; le membrane sierose
hanno il compito di ridurre gli attriti tra la parete dell’organo e quella
del torace e dell’addome durante il loro movimento consistente,
quindi consentono alle due pareti di scivolare tra loro. La sierosa è una
doppia lamina molto sottile, costituita da cellule lisce e appiattite;
questa sua conformazione fa si che quando il viscere si muove, le due
lamine sierose scivolano tra loro senza attrito, essendo anche bagnate
da un velo di liquido. I due foglietti che costituiscono la sierosa sono la
sierosa viscerale, che avvolge strettamente il viscere, e l’altro foglietto,
la sierosa parietale, che riveste la parete. Sierosa parietale e viscerale
sono in continuità tra loro e tra le due lamine si va a costituire uno
spazio sieroso, che prende il nome di cavità pleurica, pericardica o peritoneale a seconda di dove si trova.
L’immagine rappresenta una sezione sagittale, che ci fa vedere il comportamento del peritoneo nella cavità
addominale: lo spazio più scuro è la cavità peritoneale all’interno della quale si trovano sezioni di diversi visceri
avvolti dal peritoneo viscerale. Alcuni visceri sono del tutto avvolti dalla sierosa e per questo motivo sono anche
definiti intrasierosi, come l’intestino; altri visceri sono definiti retrosierosi, perché si trovano posteriormente alla
sierosa, come i reni e i surreni, e altri ancora possono trovarsi al di sotto della sierosa, come la vescica, e vengono
definiti sottosierosi. I visceri intrasierosi sono quelli dotati di maggior mobilità, come il cuore, la milza e lo stomaco,
ma il loro raggiungimento da parte dei vasi e dei nervi è più difficoltoso; in questo caso vasi, nervi e dotti escretori
raggiungeranno il viscere grazie a un peduncolo, definito meso, che è anche il mezzo di fissità dell’organo ed è a
livello del meso che avviene il passaggio tra sierosa viscerale e parietale, che continuano una nell’altra. Gli organi
retrosierosi e sottosierosi sono meno mobili e il passaggio di vasi e nervi è facilitato. I reni non hanno nessun
contatto col peritoneo perché sono circondati da una lamina connettivale che li isola completamente dall’ambiente
circostante, quindi i reni vengono più precisamente definiti organi extraperitoneali, il pancreas retroperitoneale e
la vescica sottoperitoneale.

I tessuti

Cellule con caratteristiche simili che svolgono funzioni comuni si associano tra di loro a formare dei
raggruppamenti che sono appunto i tessuti, i quali a loro volta si uniscono a formare delle unità fondamentali
superiori che sono gli organi, che formano complessi integrati per svolgere importanti funzioni, che sono gli
apparati e i sistemi. Ogni tessuto si specializza per almeno una funzione, contribuendo quella che è la
sopravvivenza di tutto l’organismo. La disposizione delle cellule che vanno a costituire un tessuto può essere a
lamina sottile o sotto forma di masse formate da milioni di cellule. Un tessuto è costituito essenzialmente da due
componenti, ovvero le cellule e la sostanza intercellulare, cioè la matrice (matrice extracellulare); le cellule di un
tessuto sono tutte incluse all’interno della matrice e i tessuti si differenziano proprio sulla base della quantità e
tipologia di essa; ad esempio la matrice può essere solida (funzione meccanica) come nel caso della cartilagine, è
molto specializzata e conferisce un certo grado di solidità e elasticità, può
anche essere una matrice solida cristallizzata, come nel caso dell’osso,
che da rigidità (funzione di sostegno e riserva di minerali), altri tipi di
matrice contengono fibre che conferiscono grande elasticità e flessibilità
(matrice semisolida), altri sono veri e propri tessuti fluidi, quindi con
matrice fluida come il sangue (funzione di trasporto), o in ultimo la
matrice può anche essere totalmente assente. I diversi tipi di tessuto
sono costituiti da cellule anche molto diverse tra loro. Nell’immagine si
vedono vari tipi di cellule nervose (A, B, P), le cellule connettivali (C, D), i
tre tipi di cellule muscolari (E, F, G)→ striate, cardiache e lisce, le cellule
molto appiattite che formano il mesotelio (H), le cellule che si uniscono
tra loro a formare epiteli di rivestimento prismatico e cubico (I, L), la
cellula adiposa (O), le cellule del sangue (M,N)…

In quei tessuti dove le cellule vanno a costituire degli


strati continui, come nel caso dei tessuti epiteliali, le
giunzioni intercellulari sono molto importanti perché
tengono saldamente unite le cellule tra loro, per cui gli
elementi cellulari sono intimamente connessi da queste
connessioni, che li uniscono fisicamente e permettono
alle cellule vicine di entrare in comunicazione. I principali
tipi di connessioni cellulari sono ad esempio i desmosomi,
ovvero una specie di saldatura tra due cellule vicine che si
può trovare nella pelle, poi ci sono le giunzioni
comunicanti o gap, le quali hanno funzione di formare
delle interruzioni, che sono delle specie di tunnel che
mettono in comunicazione il citoplasma di due cellule, e allo stesso tempo fondono le membrane a formare
un’unica struttura (presenti tra le cellule muscolari cardiache); ci sono le giunzioni strette che rappresentano una
specie di collare di membrana che sigilla ermeticamente lo spazio tra due cellule e non è possibile il passaggio di
molecole, e sono tipiche dell’epitelio intestinale.
Tutti i tessuti rientrano nelle quattro categorie dei tessuti epiteliali, connettivali, muscolari e nervosi. Nell’ambito di
ciascuna di queste quattro tipologie, si differenziano diversi sottotipi.
1) Il tessuto epiteliale ricopre e protegge la superficie del corpo e la cavità interna degli organi; è specializzato nel
trasportare sostanze all’interno o al di fuori del sangue, quindi in attività come secrezione, escrezione e
assorbimento, e va anche a formare le ghiandole.
2) Il tessuto connettivale è specializzato per sostenere il corpo o parti di esso per tenerle unite e per trasportare
sostanze (es sangue) e per proteggerlo da sostanze estranee; le cellule sono in genere relativamente lontane e
separate da una grande quantità di matrice.
3) Il tessuto muscolare è specializzato nei movimenti, poiché muove il corpo e le sue parti e formando la tonaca
muscolare della parete degli organi permette il loro movimento; le cellule muscolari si specializzano per la
contrattività e per produrre movimenti mediante un accorciamento delle unità contrattili.
4) Il tessuto nervoso è il più complesso e si specializza per far sì che le varie parti del copro possano comunicare
fra loro, per tanto la sua funzione principale è quella di condurre messaggi per coordinare tutte le funzioni
dell’organismo.

Tessuti epiteliali
Caratteristiche:
Il tessuto epiteliale è costituito da cellule a stretto contatto tra loro, quindi la sostanza intercellulare è
praticamente assente; ciò consegue che in questi tessuti sono presenti numerose giunzioni intercellulari, quindi
sono adatti a fornire resistenza meccanica e a fungere da vere e proprie barriere per il passaggio di materiali in
modo da permettere un trasporto selettivo di informazioni e metaboliti. Gli epiteli poggiano su una membrana
basale, che non soltanto serve ad ancorarli al tessuto connettivo sottostante, ma anche a separarli da questo; il
tessuto connettivo presente al di sotto dell’epitelio è definito come lamina propria. Gli epiteli sono tessuti
avascolari, ed è per questo che devono trovarsi sempre in vicinanza di un tessuto connettivo, che assicura il
trofismo; la nutrizione delle cellule epiteliali avviene per scambio indiretto, cioè attraverso la membrana basale con
i capillari che si trovano nella lamina propria del sottostante connettivo. I tessuti epiteliali sono caratterizzati anche
da un’intensa attività mitotica, cioè che le cellule si dividono molto, per cui gli epiteli saranno sempre provvisti di
cellule giovani di rimpiazzo, che man mano provvedono a sostituire le cellule che continuamente vedono esaurire il
proprio ciclo vitale; quindi gli epiteli sono continuamente rinnovati e in particolare alcuni presentano una
grandissima capacità rigenerativa (si pensi all’epidermide). Gli epiteli possono presentare delle specializzazioni
della loro superficie libera (quella opposta alla superfice che aderisce alla membrana basale), in forma di microvilli
e ciglia.

Funzioni:
In generale gli epiteli sono tessuti ampiamenti distribuiti su tutto il corpo umano e le cui funzioni possono essere
riassunte in questi quattro punti:

• Rivestimento della superficie esterna e delle cavità interne del corpo, andando a formare il rivestimento delle
mucose, delle tonache sierose e dei vasi sanguigni e linfatici
• Scambi metabolici tra organismo e ambiente (secrezione, assorbimento, escrezione); l’epitelio ghiandolare si
specializza per l’attività secretoria con prodotti di secrezione anche molto diversi tra loro (ormoni, muco,
succhi digestivi, ecc.). Gli epiteli che rivestono i tubuli renali hanno il compito di filtrare e concentrare i prodotti
che andranno a costituire l’urina primitiva (escrezione); l’assorbimento è la funzione svolta dall’epitelio di
rivestimento dell’intestino e dell’apparato respiratorio, che favorisce l’assorbimento delle sostanze nutritive e
dei gas atmosferici.
• Funzioni sensoriali: gli epiteli consentono di captare stimoli mediante la presenza di recettori dolorifici, tattili,
termici.
• Protezione dei tessuti sottostanti dalla disidratazione, dai danni meccanici, fisici e chimici e dall’invasione
microbica.
Classificazione in base alla funzione:
Il tessuto epiteliale può avere una prima classificazione sulla base della funzione principale che esso svolge, quindi
si individuano due grossi gruppi:
• Epiteli di rivestimento: formano lamine continue, mono/pluristratificate, rivestono superfici esterne o interne
del corpo e separano due ambienti diversi, tra cui avviene uno scambio di qualcosa (barriere filtranti, es. a
livello dei polmoni e dei reni).
• Epiteli ghiandolari o secernenti: derivano dagli epiteli di rivestimento, non hanno una forma laminare e le
cellule si specializzano per la sintesi (produzione di un secreto) e la secrezione (il secreto viene immesso da
qualche parte dopo essere stato prodotto) di vari prodotti; queste formazioni sono le ghiandole e a seconda
che il secreto sia espulso all’esterno del copro e all’interno di cavità comunicanti con l’esterno, oppure che
venga eliminato nel torrente ematico, si distinguono in esocrine e endocrine.

Epiteli di rivestimento
Costituiscono delle lamine cellulari mono o pluristratificate che rivestono la superficie esterna del corpo e le
superfici interne degli organi cavi; sono costituiti da cellule a contatto tra loro, fittamente stipate e una
caratteristica è quindi quella di possedere numerose giunzioni tra le cellule, che ne permettono l’unione e la
comunicazione. Questi epiteli presentano sempre una superficie libera, che guarda verso l’ambiente esterno, una
cavità o un condotto. Ha una funzione protettiva e in particolar modo, per quanto riguarda epiteli più sottili,
possono andare a costituire delle vere e proprie barriere filtranti (epitelio a livello dei reni costituisce barriera
sangue-urina). Sono tessuti avascolari e poggiano sempre su una membrana basale che li separa del sottostante
connettivo; la membrana basale va a costituire un filtro attivo per i materiali che dal connettivo devono diffondere
verso l’epitelio, o che al contrario devono diffondere in direzione del connettivo (cataboliti).

Classificazione:
Per gli epiteli di rivestimento ci sono ulteriori classificazioni, infatti i diversi tipi di epiteli si distinguono
essenzialmente in base a due criteri:
• In base al numero di strati di cellule che vanno a costituire la lamina epiteliale
❖ Semplici o monostratificati, formati da un solo strato di cellule (incluso l’ep. pseudostratificato)
❖ Composti o pluristratificati, formati da più strati di cellule (incluso il caso dell’ep. di transizione detto
anche polimorfo)
• In base alla morfologia delle cellule; se sono presenti più strati in base a quello più superficiale
❖ Pavimentosi o squamosi
❖ Cubici o isoprismatici
❖ Cilindrici o colonnari o batiprismatici

Nonostante le combinazioni possibili siano numerose, gli


epiteli più comuni nell’organismo umano sono:
- epiteli semplici (pavimentosi, cubici e cilindrici)
- epiteli pavimentosi composti
- epiteli pseudostratificato e di transizione

EPITELI SEMPLICI MONOSTRATIFICATI


Sono generalmente epiteli piuttosto sottili, dove le cellule hanno una stessa polarità, cioè che presentano una
disposizione degli organelli molto precisa, con i nuclei che si trovano in posizione basale e allineati tra loro. Gli
epiteli semplici si trovano generalmente a rivestire i condotti e i compartimenti e sono molto adatti a svolgere
funzioni che si riferiscono all’assorbimento e secrezione di sostanze.
Se si va a prendere una cellula dell’epitelio cilindrico semplice si scopre che in realtà
non è cilindrica, ma è prismatica, da qui l’uso di definire anche epitelio batiprismatico
questo tipo di epitelio. L’epitelio cilindrico semplice è particolarmente adatto ai
processi di secrezione e assorbimento; infatti, riveste la maggior parte del tubo
digerente, molti dotti escretori di ghiandole e la tuba uterina.

Questa è l’immagine del preparato di un vetrino osservato al


microscopio ottico. Si può notare che l’epitelio cilindrico dà
verso la cavità dell’organo e che sulla sua superficie libera
presenta delle specializzazioni; il lato più profondo poggia sul
tessuto connettivo. Sovente soprattutto negli epiteli prismatici,
le cellule epiteliali presentano delle differenziazioni della
superficie libera, e possono essere ciglia o microvilli.
L’immagine raffigura cellule che rivestono l’intestino, dotate di
microvilli.

Epitelio cilindrico
semplice

Nell’epitelio cilindrico capiterà


spesso di trovare delle cellule
caliciformi mucipare, con la forma di
un calice e infarcite di un secreto
mucoso, che viene riversato sulla
superficie libera. Nella foto si vedono
bene i microvilli e si può anche
chiamare epitelio con orletto a
spazzola.

L’epitelio cilindrico costituisce anche la mucosa che riveste lo stomaco, l’utero e le tube uterine; offre limitata
protezione perché monostratificato, ma è molto adatto a svolgere funzioni legate a secrezione e assorbimento.
Nell’epitelio pavimentoso semplice le cellule assumono una forma piatta, la parte che contiene il nucleo è più
slargata per poi assottigliarsi in lamine citoplasmatiche. Questo epitelio riveste gli alveoli polmonari, le cavità
sierose (mesotelio pleurico, pericardico, peritonale), il lume dei vasi (endotelio) e delle cavità cardiache
(endocardio) e nella capsula di Bowman del rene, dove entra nella costituzione della barriera sangue-urina. Spesso
gli epiteli semplici si trovano a separare delle superfici tra cui avvengono scambi di materiali.

Epitelio pavimentoso semplice (rosso) che riveste gli alveoli polmonari


(bianco). Epitelio molto sottile che lo rende indicato a far sì che possa
avvenire la diffusione di gas atmosferici, formando, insieme all’endotelio
dei vasi sanguigni che circoscrivono gli alveoli, la barriera aria-sangue.

L’epitelio cubico semplice è definito anche isoprismatico, con una base della stessa
misura dell’altezza. Lo si trova in alcune parti del nefrone, in particolare riveste parte
dei tubuli renali, in molti tipi di ghiandole, come nei follicoli tiroidei, nei dotti escretori.
Gli epiteli cubici sono quasi sempre monostratificati.

Una variante dell’epitelio cilindrico semplice è l’epitelio


pseudostratificato, munito di ciglia. Questo epitelio potrebbe
sembrare pluristratificato perché i nuclei sono a diverse
altezze, ma in realtà le cellule poggiano tutte sulla membrana
basale. È un epitelio molto tipico delle vie respiratorie
(nell’immagine epitelio di rivestimento pseudostratificato
della trachea). Anche qui sono presenti le cellule caliciformi
mucose, il cui muco forma un velo che va a intrappolare
elementi contaminanti presenti nell’aria e il battito delle
ciglia fa sì che venga sospinto verso la bocca, per essere poi
deglutito ed eliminato. Oltre che nella trachea, questo
epitelio lo si trova a tappezzare le cavità nasali, la faringe, la
laringe, i bronchi e a livello di tratti delle vie urinarie, in particolare a livello dell’uretra, anche se senza ciglia.
EPITELI COMPOSTI PLURISTRATIFICATI
L’epitelio di transizione è detto anche polimorfo, perché si modifica a seconda dello stato funzionale dell’organo
che sta tappezzando. Questo epitelio è una variante di quelli composti, perché ha la capacità di adattarsi alle
variazioni della superficie dell’organo di cui fa parte. È tipico della vescica e di parte delle vie urinarie. Lo strato
intermedio è formato da cellule a forma di clava, dette appunto clavate, sormontate da cellule a forma di cupola,
cupuliformi, spesso binucleate. Quando la vescica è vuota (a), la cavità interna è ridotta e l’epitelio aumenta il suo
spessore, con le cellule dello strato superficiale che hanno un aspetto più globoso o cubico; quando la vescica è
piena (b) la pressione aumenta, l’epitelio si assottiglia, il numero delle lamine cellulari diminuisce e le cellule
superficiali si fanno pavimentose. È chiaro che questo tipo di epitelio va a rivestire quelle aree del corpo umano
che sono soggette a cambiamenti di tensione. Questa particolare capacità dell’epitelio di transizione che fa sì che
sia offerta protezione alla parete della vescica, evitandone quindi lacerazioni dovute a forti stiramenti e
sollecitazioni meccaniche.

L’epitelio composto pavimentoso presenta due


varietà: cheratinizzato o cornificato e non
cheratinizzato. Il primo si riferisce all’epidermide,
ha numerosi strati e le cellule degli strati più
superficiali non presentano nuclei, perché si
infarciscono di cheratina, sostanza molto
protettiva, muoiono, si fanno sempre più piatte e
poi tenderanno a staccarsi per desquamazione.
L’epitelio non cheratinizzato lo si trova a livello
del canale vaginale, nella cavità orale e
nell’esofago, quindi dove c’è bisogno di una
grande protezione meccanica; in questi organi la
superficie libera è umida, quindi le cellule non
contengono la cheratina.

Per riassumere si può dire che l’epitelio pavimentoso composto è


un epitelio che offre grande robustezza e questo lo rende adatto
a tutte quelle situazioni in cui ci sono grandi sollecitazioni
meccaniche; si pensi alla bocca che contiene il cibo o all’esofago,
dove il bolo alimentare passa per essere sospinto in direzione
dello stomaco. Gli strati più superficiali vengono via via eliminati,
sostituiti da cellule degli strati più profondi.

Riassumendo in generale tutti questi epiteli di rivestimento, si può dire che quelli composti stratificati tendono ad
avere una funzione per lo più meccanica poiché hanno caratteristiche più legate a un ruolo protettivo, di
contenimento, mentre gli epiteli monostratificati semplici hanno caratteristiche più legate alla permeabilità,
secrezione e assorbimento, proprio perché più sottili.
Epiteli ghiandolari
Sono epiteli che vanno a formare le ghiandole, che sono formazioni specializzate nella sintesi, nell’accumulo e nella
secrezione di materiali utili al nostro organismo. Le cellule diventano veri e propri elementi secernenti, cioè che
sono deputate a prelevare dal sangue materiali grezzi e a sintetizzare sostanze piuttosto complesse, che vengono
poi rilasciate sotto forma di secreti. Le cellule epiteliali ghiandolari derivano sempre da un epitelio di rivestimento:
le cellule di questo epitelio di origine, in una piccola porzione, tendono a proliferare verso il connettivo sottostante
e a dare origine a delle vere e proprie strutture secernenti, che possono mantenere quell’epitelio di origine in
collegamento o perderlo. Se il collegamento viene mantenuto sarà presente un dotto escretore che andrà ad
aprirsi alla superficie dell’epitelio di origine, dove andrà a scaricare i prodotti di secrezione e si parlerà quindi di
ghiandole esocrine (eso = a secrezione esterna); se il collegamento con l’epitelio di rivestimento viene perso e
quindi la formazione ghiandolare rimane isolata a distanza dall’epitelio di origine, questa andrà a riversare i suoi
secreti all’interno dei vasi sanguigni e verrà chiamata ghiandola endocrina (endo = all’interno), con il secreto che
prende il nome di ormone.

GHIANDOLE ESOCRINE (A SECREZIONE ESTERNA)


Queste ghiandole derivano o dall’epidermide o dall’epitelio
che riveste un organo cavo che comunica con l’esterno e il
collegamento con l’epitelio di origine viene mantenuto per
mezzo di un dotto escretore, che si apre alla superficie
dell’epitelio stesso, dove scarica il prodotto di secrezione, si
può dire anche che le ghiandole esocrine sono quelle
ghiandole che liberano il loro secreto o all’esterno del corpo
(es. ghiandole sudoripare o sebacee) o all’interno di cavità
comunicanti con l’esterno (es. succo pancreatico da
pancreas esocrino, bile da fegato).

Le ghiandole esocrine si possono classificare in vario modo:


• In base al numero delle cellule
- Ghiandole unicellulari, sono singole cellule secernenti nell’ambito di un tessuto
epiteliale (cellule caliciforme mucipare)
- Ghiandole pluricellulari, formazioni costituite da epiteli ghiandolari

• In base alla posizione rispetto all’organo nel quale riversano il secreto


- Ghiandole intramurali o intraparietali, cioè che sono situate all’interno della parete dell’organo dal cui
epitelio hanno avuto origine, sono comprese nella parete dell’organo alle quali sono annesse (ghiandole
gastriche, esofagee, tracheali, uretrali, ecc.)
- Ghiandole extramurali o extraparietali, che sono diventate talmente grandi che si trovano al di fuori della
parete dell’organo da cui hanno avuto origine e al quale però inviano il loro prodotto di secrezione
attraverso uno o più dotti escretori (fegato, pancreas, ghiandole salivari maggiori come la parotide)

• In base al numero e ramificazioni dei dotti escretori


- Ghiandole semplici, una o più porzioni secernenti connesse alla superficie
dell’epitelio o direttamente o per mezzo di un dotto non ramificato →
- Ghiandole composte, il dotto escretore principale
si ramifica in condotti di calibro progressivamente
decrescente, che terminano con l’adenomero; vanno
a costituire gli organi di maggiori dimensioni, come
fegato e pancreas.
• In base alla forma delle porzioni secernenti, definite adenomeri
- Ghiandole acinose
- Ghiandole alveolari
- Ghiandole tubulari
- Ghiandole tubulo-acinose
- Ghiandole tubulo-alveolari

• In base alla modalità di secrezione


- Ghiandole olocrine, il secreto viene accumulato nel citoplasma
finché non muoiono, quindi nell’eliminare il secreto vengono esse
stesse eliminate; le ghiandole olocrine possiedono sempre
adenomeri provvisti di cellule giovani che via via rimpiazzano
quelle che vengono continuamente eliminate attraverso la
secrezione
- Ghiandole apocrine, il secreto viene accumulato nel citoplasma
cellulare sotto forma di granuli, in particolare nella zona apicale; i
granuli si fondono a formare delle vescicole di grosse dimensioni, che poi si stacca portando con sé anche
parte del citoplasma (apo = secrezione con parte del citoplasma), quindi il secreto conterrà residui
citoplasmatici
- Ghiandole merocrine o ecrine (mero = puro), il secreto viene eliminato sotto forma di microgocciole, la
membrana delle vescicole che contengono il secreto si fonde con quella cellulare e quindi le goccioline si
aprono e liberano all’esterno il secreto; la cellula non perde il suo citoplasma
• In base al tipo di secreto
- Ghiandole sierose, con un secreto più ricco di acqua
- Ghiandole mucose, con un secreto più denso e vischioso

GHIANDOLE ENDOCRINE (A SECREZIONE INTERNA)


Sono complessi costituiti da cellule secernenti che riversano
il proprio secreto, l’ormone, direttamente nel sangue. Le
cellule vanno a costituire organi distinti, come la tiroide,
l’ipofisi, le ghiandole surrenali, ecc., oppure possono
formare gruppi di cellule che vengono ospitati all’interno di
altri organi, come gli isolotti pancreatici, ovvero le isole di
Langherans che rappresentano la porzione endocrina del
pancreas, disseminata in un parenchima pancreatico, che è
essenzialmente una ghiandola esocrina; anche le cellule
interstiziali del testicolo sono disseminate all’interno del
parenchima che costituisce i testicoli.

Gli organi endocrini sono sempre pieni, quindi si distingue un parenchima a funzione secernente organizzato da
uno stroma connettivale di sostegno. Le cellule si possono organizzare in vario modo, andando a costituire follicoli,
cordoni o gruppi cellulari; quello che è tipico delle ghiandole endocrine è che queste cellule, comunque siano
organizzate, sono sempre in rapporto con una grande quantità di capillari sanguigni (e mancano di dotti escretori).
L’ormone viene liberato nel sangue e attraverso il torrente ematico attraversa un po’ tutto il corpo umano, fino a
incontrare cellule specifiche, dette bersaglio, le
uniche in grado di rispondere al messaggio portato
dall’ormone grazie a dei recettori.
I tessuti connettivi
I tessuti connettivi vengono anche definiti, tessuti a
funzione trofo-meccanica, quindi hanno funzione
trofica e meccanica, di connessione. Sono caratterizzati
dal fatto di presentare vari tipi di cellule, che sono più
rade rispetto agli epiteli ed è presente un’abbondante
sostanza extracellulare; sono presenti i vasi sanguigni.
Quindi le componenti del tessuto connettivo sono le
cellule e la matrice extracellulare, la cui tipologia
identifica i vari tipi di connettivi, infatti può essere
molto variabile: può essere liquida con funzione di
trasporto (sangue), può essere semisolida, oppure
solida con funzioni trofiche e meccaniche (connettivi
propriamente detti), o anche mineralizzata con funzione di sostegno e di riserva (tessuto osseo).

Nella matrice si riconoscono sempre due componenti, ovvero la sostanza fondamentale amorfa e le fibre di natura
proteica, che sono essenzialmente fibre collagene e fibre elastiche. Si distinguono diversi tipi di connettivi in base
all’abbondanza e alla disposizione delle fibre. Alle differenze istologiche corrispondono specifiche proprietà
funzionali e quindi diversi ruoli fisiologici.

Caratteristiche tessuto connettivo:


Le cellule possono essere molto differenti tra loro, sia per funzione che per l’aspetto; la sostanza fondamentale è
molto abbondante.

Funzioni:
• Congiungere i tessuti fra loro (es. organo a tonache sovrapposte, vari strati, varie tonache). Vanno anche a
formare vere e proprie lamine di appoggio per altri tessuti (derma e tonache di organi cavi)
• Congiungere i muscoli alle ossa (tendini)
• Collegare le ossa fra loro (legamenti)
• Formare un’impalcatura di sostegno per il corpo (scheletro di sostegno)
• Formare un’impalcatura di sostegno per gli organi pieni (stroma)
• Trasportare sostanze (sangue)

Classificazione:
• Tessuti connettivi propriamente detti
o Tessuto connettivo fibroso lasso, è un tessuto
morbido, idratato, molta sostanza fondamentale
o Tessuto connettivo fibroso denso, fibre
densamente impacchettate, poca matrice
o Tessuto adiposo, varietà del lasso
• Tessuti cartilaginei
o Cartilagine ialina
o Cartilagine fibrosa
o Cartilagine elastica
• Tessuti ossei
• Sangue (contenuto nell’apparato circolatorio) e Linfa
(contenuta nel sistema linfatico)
Tessuti connettivi propriamente detti
Presenta una popolazione cellulare piuttosto varia, che assume caratteristiche diverse nei connettivi, a volte anche
nomi diversi, ma generalmente sono fibroblasti, fibrociti, macrofagi e cellule adipose. I fibroblasti sono le cellule
più numerose, presenti in tutti i connettivi anche se con nomi diversi, e sono cellule attive che sintetizzano le
componenti delle fibre collagene, elastiche e della matrice; hanno una forma abbastanza variabile, per lo più
stellata o affusolata, e quando si trovano in una fase di riposo in cui non stanno attivamente sintetizzando, si
riducono di dimensione e diventano fibrociti. I macrofagi (grandi mangiatori), sono cellule del sangue, hanno anche
loro una forma piuttosto variabile, sono dotate di attività ameboidi, quindi si spostano all’interno del tessuto, e
hanno la capacità di fagocitare materiali estranei e dannosi; se nel connettivo entrano materiali estrani
all’organismo, come antigeni o batteri, si va a determinare un focolaio infiammatorio e i macrofagi accorrono,
aumentano le loro dimensioni, si arricchiscono di lisosomi e fagocitano le particele estranee. Le cellule adipose
sono i fibrociti che si sono specializzati nell’accumulare materiale lipidico, quindi lo trattengono come materiale di
riserva; quando le cellule adipose predominano numericamente sugli altri elementi cellulari, allora si parla di vero e
proprio tessuto adiposo.

La matrice è formata dalla sostanza fondamentale (composta da acqua, elettroliti e alcune sostanze organiche) e
da una componente fibrosa costituita da fibre collagene ed elastiche.

I tessuti connettivi propriamente detti si classificano in:


• Lasso, permeabile, facilita gli scambi metabolici, sede dei meccanismi di difesa

• Denso, robusto, notevole resistenza alle sollecitazioni


meccaniche
❖ A fasci paralleli o regolare
❖ A fasci intrecciati o irregolare

• Adiposo

I tipi di connessioni a cui si riferiscono i tessuti connettivi sono due:


• Connessione meccanica, per ancorare i tessuti fra loro e per sostenere e proteggere gli organi
• Connessione funzionale, consentire e facilitare il transito di sostanze per favorire la nutrizione e il
metabolismo delle cellule, e delle cellule stesse implicate nella difesa immunitaria

È chiaro che i tessuti connettivi più idonei a svolgere una connessione meccanica presenteranno una maggiore
quantità di fibre, che conferiscono al tessuto stabilità e robustezza, mentre i tessuti che offrono una connessione
più di tipo funzionale, presentano una maggiore quantità di sostanza fondamentale ricca di acqua, che favorisce la
diffusione delle sostanze e la migrazione delle cellule.
Il derma che si trova sotto l’epidermide è un
connettivo denso irregolare o a fasci intrecciati, poiché
i fasci delle fibre collagene tendono ad avere un
decorso irregolare e intrecciato.

Il tendine invece è un connettivo denso regolare o a


fasci paralleli, dove i fasci di fibre collagene sono
orientati in maniera uniforme e regolare.

Il tessuto connettivo denso regolare è caratterizzato da fibre che sono strettamente impacchettate lungo le linee di
trazione; quindi questo tipo di tessuto offre una grande resistenza ed è particolarmente indicato per andare a
costituire formazioni come i tendini, le aponeurosi (lamine tendinee appartenenti ai muscoli larghi che hanno
ampie zone di inserzione sull’osso, come per i pettorali), le fasce che avvolgono i muscoli e i legamenti che legano
le ossa tra loro.

Il tessuto connettivo denso irregolare è caratterizzato da fibre che tendono a intrecciarsi tra loro senza uno schema
apparentemente preciso, anche se in realtà non è legato al caso, e va a costituire il derma, la capsula fibrosa che
avvolge gli organi, le guaine che rivestono tendini e nervi, il periostio e il pericondrio, ovvero il connettivo che
riveste le ossa e quello che riveste le cartilagini.

La sostanza intercellulare che va a costituire i connettivi è formata da una componente fibrosa e dalla sostanza
fondamentale amorfa; quest’ultima è caratterizzata dalla presenza di macromolecole a base di proteine e
polisaccaridi ed è molto permeabile per permettere la diffusione e distribuzione dei metaboliti e la migrazione
delle cellule del sistema immunitario. La permeabilità è legata al grado di idratazione e questo aumenta
notevolmente in situazioni quali edema o infiammazione. La sostanza fondamentale è composta da acqua,
elettroliti e dalle sostanze organiche, date da glicoproteine strutturali e dai proteoglicani, ovvero macromolecole
proteiche alle quali si legano dei polisaccaridi complessi, chiamati glicosamminoglicani (GAG), che possono essere
solforati o meno; ne consegue che la sostanza intercellulare nel suo insieme presenta più o meno densa e
compatta in base ai diversi tipi di glicosamminoglicani presenti: nel tessuto connettivo lasso la consistenza è
piuttosto bassa, mentre è piuttosto elevata nelle cartilagini. Tra i glicosamminoglicani bisogna ricordare l’acido
ialuronico, presente in tutti i connettivi in grado di regolare la viscosità della sostanza fondamentale, perché le sue
molecole hanno una grande affinità con l’acqua. Nella cartilagine dell’osso è anche presente un
glicosamminoglicano che prende il nome di condroitinsolfato, le cui molecole si legano mediante dei ponti di zolfo,
che conferiscono una maggiore densità. Nel tessuto osseo la sostanza intercellulare si presenta mineralizzata e
questo rende conto la caratteristica di grande compattezza e rigidità delle ossa.

Nella sostanza fondamentale sono immerse sia le cellule che le fibre proteiche e la componente fibrosa dei tessuti
connettivi è rappresentata dalle fibre collagene, reticolari ed elastiche.

Le fibre collagene sono le più diffuse, sono composte da


una proteina piuttosto complessa chiamata
tropocollagene. Alle fibre collagene si deve la resistenza
alla trazione dei tessuti connettivi, poiché sono fibre
molto resistenti e inestensibili.
Le fibre reticolari appaiono più sottili rispetto a quelle
collagene, ma al posto di organizzarsi in fasci si organizzano i
reti tridimensionali, che vanno a costituire l’impalcatura di
molti organi pieni. Sono meno resistenti rispetto alle
collagene, proprio perché più sottili, ma sono più flessibili e
sono costituite dalla stessa proteina di base delle fibre
collagene.

Fibre collagene e reticolari sono costituite dal tropocollagene, che è la


stessa struttura proteica di base. I fasci di fibrille di cui sono costituite
sono scomponibili a loro volta in microfibrille, che hanno una
caratteristica striatura trasversale; ogni microfibrilla è composta da
molecole filamentose di tropocollagene che si avvolgono a spirale. Il
collagene è costituito da subunità di tropocollagene che si allineano
longitudinalmente e che si associano parallelamente tra loro in modo
piuttosto sfasato, per andare a costituire le microfibrille di collagene. Le
fibre reticolari prendono più un aspetto a rete.

Le fibre elastiche invece sono più estensibili, quindi conferiscono al tessuto in cui
sono contenute, la possibilità di sopportare grandi sollecitazioni meccaniche.
Sono costituite anch’esse da fasci di microfibrille, però prive di striature e formate
dall’elastina.

Tutte queste componenti, ovvero le fibre, i


proteoglicani, ecc., sono prodotte da un tipo di cellula
presente nel connettivo, ovvero il fibroblasto, che ha
un aspetto irregolare, mentre le altre cellule che
popolano il connettivo hanno altre funzioni, ad
esempio di difesa come il macrofago, oppure gli
adipociti infarciti di materiale lipidico.

I fibroblasti rappresentano le cellule più abbondanti per quanto riguarda il


connettivo propriamente detto e sono coloro che costruiscono le subunità
proteiche delle fibre e che secernono l’acido ialuronico.
Il tessuto connettivo lasso è formato da una
rete di fasci collagene frammisti da fibre
elastiche e questa disposizione è in grado di
assicurare sia grande resistenza, sia grande
elasticità. Il tessuto connettivo lasso va a
costituire lo stroma degli organi pieni, la lamina
propria che si trova sotto l’epitelio di
rivestimento, la tonaca sottomucosa degli
organi cavi e il sottocutaneo ovvero l’ipoderma. Funzioni: sostegno, coesione, trofismo.

Il tessuto connettivo adiposo è composto da


cellule chiamate adipociti. È un connettivo a
carattere speciale, le cui cellule accumulano al
loro interno i lipidi, che spinge il nucleo e gli
organelli presenti nel citoplasma cellulare
verso la periferia. Il tessuto adiposo si trova per
circa il 50% al livello del sottocute, costituendo
il pannicolo adiposo sottocutaneo, mentre il
45% lo si ritrova a livello della cavità addominale, dove va a costituire il tessuto adiposo interno, e il restante 5% lo
si trova come grasso di infiltrazione nel tessuto muscolare.

La distribuzione delle aree di accumulo del tessuto


adiposo nel corpo maschile e femminile, assume
caratteristiche diverse. Il numero di adipociti può variare
sia in base al tessuto sia in base alla regione
dell’organismo, sia in base alle caratteristiche legate a
ciascun individuo.

In figura è rappresentata la sezione di un


tendine, ovvero un tessuto connettivo a fasci
paralleli. La caratteristica principale è la
grande ricchezza di fibre collagene, con una
minore quantità di sostanza fondamentale e
di cellule. Quando il tendine è in trazione la
sinuosità delle fibre collagene funge da
ammortizzatore, mentre le fibre elastiche frammiste, riportano alla sinuosità originale il tendine una volta che la
trazione è terminata.

Nel tessuto connettivo denso a fasci intrecciati


le fibre non sono poste casualmente, ma si
riconsoce sempre una direzione prevalente die
fasci, che rappresenta la direzione secondo la
quale il nostro connettivo dimostra la maggiore
resistenza alle sollecitazioni meccaniche.
Tessuto cartilagineo
È un connettivo a carattere solido e insieme all’osso costituisce i tessuti di sostegno. La cartilagine nell’individuo
adulto si trova a livello delle superfici articolari, costituisce le cartilagini costali, l’orecchio esterno, il naso e le
strutture cartilaginee che vanno a costituire le vie aeree, quindi nella laringe, nella trachea e nei bronchi. La
cartilagine è un tessuto solido molto resistente alla compressione, ma più flessibile rispetto all’osso, quindi è in
grado di assorbire elasticamente le sollecitazioni meccaniche; è fondamentale nel ridurre gli attriti soprattutto a
livello delle articolazioni e mantiene la pervietà nelle vie aeree, cioè mantenerle sempre libere al passaggio
dell’aria facendo in modo che non si chiudano. Il tessuto cartilagineo guida lo sviluppo dello scheletro osseo.

La sostanza intercellulare è molto densa, compatta e consistente, tanto da andare a imprigionare al suo interno la
componente cellulare, che si può paragonare ai fibrociti, ma prendono il nome di condrociti e condroblasti. Questi
ultimi sono condrociti in fase attiva di elaborazione, mentre i condrociti sono in quiescenza, non in attività
sintetica. Vi è assenza di vasi sanguigni, quindi le sostanze nutritive devono arrivare per diffusione a partire dal
tessuto connettivo, infatti il tessuto cartilagineo presenta un rivestimento esterno di connettivo denso che è il
pericondrio.

Funzioni:
• Costituisce lo scheletro di sostegno dell’orecchio, del naso, della laringe, della trachea e dei bronchi
• Consente lo scorrimento e il movimento reciproco delle superfici articolari impegnate in un’articolazione
(cartilagine articolare)
• Nell’embrione e nel feto va a costituire il modello scheletrico, che via via in varie fasi dello sviluppo viene
sostituita da tessuto osseo
• Promuove l’accrescimento definitivo delle ossa lunghe, cioè gli consente di raggiungere la loro lunghezza
definitiva nell’adulto, poiché permane della cartilagine metafisaria tra la diafisi e l’epifisi delle ossa lunghe.

Le cellule cartilaginee si trovano all’interno di nicchie


che vanno ad imprigionare le cellule; all’interno delle
nicchie la cellula va incontro a mitosi, quindi si formano
piccoli gruppetti di cellule, tutte figlie della madre, e
vengono chiamati gruppi isogeni. Il GAG più
rappresentativo della cartilagine è il condroitinsolfato,
che presenta molecole legate da molti ponti zolfo. A
differenza del connettivo propriamente detto, la
cartilagine è un tessuto avascolare, manca la
vascolarizzazione, quindi gli scambi metabolici con le
cellule della cartilagine
avvengono per diffusione attraverso la matrice.

Si possono distinguere vari tipi di cartilagine,


caratterizzati dalla composizione della matrice
extracellulare. In base alla quantità e al tipo
prevalente delle fibre presenti nella matrice, si
possono distinguere essenzialmente tre tipi di
tessuto cartilagineo:
• La cartilagine ialina (ialos = vetro) è la più diffusa, appare bianco-bluastra e presenta una matrice molto
abbondante. Riveste le superfici articolari delle ossa, costituisce le cartilagini costali e fornisce sostegno
alle vie respiratorie, costituendo le cartilagini nasali, gli anelli tracheali e bronchiali e quasi tutte le
cartilagini della laringe. Anche il feto è costituito da cartilagine ialina che man mano viene sostituita dal
tessuto osseo attraverso processi di ossificazione; durante lo sviluppo post-natale costituisce la cartilagine
metafisaria (quella che permette l’accrescimento delle ossa lunghe).
• La fibro-cartilagine o cartilagine fibrosa somiglia al connettivo denso, è una forma di transizione tra il
connettivo denso e la cartilagine; costituisce i dischi intervertebrali, i menischi, i labbri articolari, cioè
dispositivi che completano alcune articolazioni mobili, e la sinfisi pubica. È costituita da grossi fasci fibrosi
immersi in una quantità di matrice molto più scarsa.
• La cartilagine elastica è più opaca, giallastra e flessibile e presenta moltissime fibre elastiche che le
conferiscono il colore, e scarsa matrice. La si trova a livello del padiglione auricolare, del meato uditivo
esterno, della tuba uditiva e va a costituire l’epiglottide.

I condroblasti producono anche quello che sono le componenti organiche della sostanza fondamentale, che danno
alla cartilagine il tipico aspetto di gel solido.

Ogni formazione cartilaginea è avvolta dal pericondrio, che altro non è che una lamina di tessuto connettivo denso
a fasci intrecciati molto vascolarizzato. Il pericondrio contiene cellule giovani, ovvero i fibroblasti che sono poi in
grado di trasformarsi in condroblasti, i quali diventano poi condrociti.

Tessuto osseo
È un tessuto molto forte e resistente, infatti è una forma veramente specializzata di connettivo che presenta una
mineralizzazione della propria matrice, che è il substrato che consente a questo tipo di tessuto di avere grandi
qualità legate alla resistenza e alla durezza. L’osso è resistente, ma ha una struttura tale che allo stesso tempo è
anche abbastanza leggero e contrariamente a quanto si è portati a pensare non è un tessuto statico, ma è in
continuo rimodellamento e rinnovamento per tutta l’intera durata della vita.

Le funzioni dell’osso sono:


• Costituisce l’impalcatura del corpo, lo scheletro
• Da protezione ai visceri, come ad esempio la gabbia toracica
• Da inserzione a muscoli e tendini
• Accoglie elementi emopoietici del midollo, ovvero le cellule del midollo osseo in grado di produrre le
cellule del sangue
• È la sede di deposito del calcio, che può essere sequestrato dall’osso quando è importante che le sue
concentrazioni nel sangue debbano aumentare
Componenti: cellule e matrice ossea
Anche i tessuti ossei sono caratterizzati sia da cellule che da sostanza intercellulare, che prende anche il nome di
matrice ossea; questa è costituita da una componente organica (data dalle fibre collagene e dalla sostanza
fondamentale) e per il 65% da una componente inorganica, che conferisce la consistenza tipica della sostanza
intercellulare dell’osso, poiché formata per lo più (86%) da fosfato di calcio, presente in forma di cristalli di
idrossiapatite che si depositano lungo le fibre collagene. Oltre al fosfato di calcio è presente anche il carbonato di
calcio in minore quantità.

Invece le cellule presenti nel tessuto osseo sono: osteociti, osteoblasti, osteoclasti. La matrice viene elaborate dagli
osteoblasti che producono gli elementi costitutivi della matrice e vi appongono il calcio (di contro gli osteociti). Gli
osteoclasti invece sono collegati all’attività di immagazzinamento di calcio del tessuto osseo, ovvero smantellano
ed erodono la matrice ossea per liberare ioni calcio nel sangue. Gli osteoclasti di solito sono grosse cellule dotate
anche di più nuclei e che possiedono questi enzimi litici che lisano (distruggono) la matrice ossea.
Quando gli osteoblasti elaborano la matrice (che è mineralizzata), ad un certo punto ne restano intrappolati;
queste cellule una volta intrappolate diventano osteociti, ovvero cellule quiescenti che non elaborano più la
matrice ma ne sono intrappolati, e comunque partecipano al metabolismo dell’osso, in quanto sono in grado di
recepire le sollecitazioni meccaniche che agiscono sull’osso stesso, per comunicarlo agli osteoblasti che depositano
nuova matrice.

Nel feto e nei primissimi anni di vita, il tessuto osseo è definito non lamellare, il che significa che la matrice ossea
non presenta una particolare organizzazione; invece nello scheletro adulto la gran parte del tessuto osseo è
lamellare e in questo caso gli osteoblasti, che producono la matrice guidando la mineralizzazione sotto forma di
lamelle ossee di pochi millimetri di spessore, adiacenti tra loro.

I tessuti ossei non solo hanno funzione meccanica, ma anche trofica in quanto rappresentano una grande riserva di
sali minerali, che possono essere resi disponibili agli altri tessuti quando necessario. Da questo punto di vista gli
osteoclasti, in seguito a segnali trasmessi da degli ormoni, liberano degli enzimi in grado di digerire la matrice
organica e quindi di permettere la liberazione degli ioni calcio nel sangue. Il tessuto osseo, proprio perché ricco di
sali minerali, costituisce un grande magazzino al quale tutte le cellule degli altri tessuti possono attingere se
necessario, affinché possano avvenire le funzioni metaboliche responsabili delle funzioni dei diversi organi. La
concentrazione di ioni calcio nel sangue, ovvero la calcemia, è un parametro che si mantiene sempre in un range
ristretto e rimane sempre più o meno costante, perché accumulo e liberazione sono legate all’attività di ormoni
che la tengono sotto controllo.

L’osso è ampiamente vascolarizzato e presenta una lamina di tessuto connettivo denso all’esterno, chiamato
periostio, ricco di vasi sanguigni e osteoblasti giovani. Sotto il periostio il tessuto osseo si organizza in due tipi
fondamentali, che sono sempre costituiti da tessuto osseo lamellare: tessuto osseo compatto e tessuto osseo
spugnoso. La dentina è una particolare forma di osso compatto, presente nei denti.

Questa è una sezione longitudinale della porzione prossimale di un osso


lungo, in particolare l’epifisi prossimale della tibia (si riconosce perché le
due superfici tibiali superiori, i piatti tibiali, sono le superfici grazie alle
quali si mette in rapporto articolare con il femore). L’epifisi presenta un
tessuto osseo con cellette, quindi si può definire spugnoso; più
esternamente il tessuto osseo spugnoso è rivestito da un sottile strato di
tessuto osseo compatto.

Questa è la sezione longitudinale dell’epifisi prossimale del femore, infatti si nota


la testa femorale che si articola con la cavità acetabolare presente a livello
dell’anca. Si nota il tessuto spugnoso sull’epifisi, mentre il tessuto compatto che
riveste va a costituire la diafisi.
L’osso spugnoso è formato da trabecole,
ovvero lamelle ossee disposte in
maniera apparentemente disordinata, e
le cavità vanno a costituire l’alloggio del
midollo emopoietico. Queste trabecole
non sono organizzate in osteoni.

Quando si parla di ossa lunghe vanno distinte due estremità chiamate epifisi, unite tra
loro dalla porzione centrale chiamata diafisi. A livello delle epifisi delle ossa lunghe è
presente soprattutto del tessuto osseo spugnoso, coperto in superficie da un sottile
strato di compatta. Le trabecole del tessuto osseo spugnoso delimitano delle cellette
che contengono il midollo osseo rosso, ovvero quello emopoietico. A livello della diafisi
è presente il tessuto osseo compatto, che si organizza in osteoni, completati da sistemi
di lamelle interstiziali e circonferenziali. A livello della diafisi è contenuto un canale
centrale midollare, che contiene altro midollo osseo, ma giallo, costituito per lo più da
tessuto adiposo. L’osso spugnoso quindi si trova in punti in cui le forze sono applicate
in varie direzioni, ovvero nelle parti interessate alle articolazioni, mentre l’osso
compatto ha caratteristiche di grande resistenza alla compressione in senso
longitudinale; nel caso di una pressione laterale, questo può provocare la frattura della
diafisi.

Il tessuto osseo compatto è il più rappresentato nello scheletro adulto e il termine


compatto si riferisce al fatto di non avere degli spazi all’interno e la matrice ossea va a
costituire degli insiemi di lamelle che sono chiaramente molto aderenti tra loro.
Questi sistemi di lamelle prendono anche il nome di sistemi di Havers o haversiani.
Nell’immagine è presente una sezione trasversale di osteoni. Nell’osteone i sistemi di
lamelle si organizzano a costituire degli strati concentrici, intorno ad un canale
centrale all’interno del quale sono contenuti i vasi sanguigni e i nervi. La struttura
costituita dal canale centrale di Havers e dalle lamelle concentriche che lo
circoscrivono, va a costituire un osteone, che nel tessuto osseo compatto,
accompagnato dalle lamelle circonferenziali (fanno la circonferenza dell’osso) e dalle
lamelle interstiziali (tra gli osteoni), sono tre organizzazioni che coesistono. Gli osteociti pescano, grazie ai
prolungamenti, i materiali utili, necessari perché possano sopravvivere, dai vasi sanguigni presenti nel canale di
Havers. La costante formazione di nuovi sistemi di lamelle da parte degli osteoblasti riflette la necessità che l’osso
ha di adattarsi sempre al meglio alle sollecitazioni meccaniche che man mano l’osso stesso riceve.

L’epifisi delle ossa lunghe e le ossa brevi sono conformate in


maniera simile, cioè con tessuto osseo spugnoso all’interno e un
sottile rivestimento di tessuto osseo compatto all’esterno. Il
tessuto osseo spugnoso va a costituire anche la parte centrale
delle ossa piatte, che prende anche il nome di diploe, circondato
da due tavolati esterni di tessuto osseo compatto. Le trabecole
sono formate da lamelle ossee disposte in maniera irregolare che
si vanno a intrecciarsi tra loro, formando una rete tridimensionale
nella quale è contenuto il midollo osseo.
L’osteone è una porzione di tessuto osseo che si
organizza intorno al canale di Havers. Si sviluppano
in senso longitudinale a formare una sorta di
manicotto. Il canale di Havers contiene vasi
sanguigni, nervi e tessuto connettivo. I puntini più
intensamente colorati sono le lacune ossee che
contengono gli osteociti. Le lacune sono scavate
all’interno della matrice e ogni lacuna ospita un
singolo osteocita. A partire dalle lacune si notano
delle leggere striature, che sono i canalicoli
all’interno dei quali decorrono i prolungamenti
degli osteociti, attraverso i quali sono a contatto
con i canali centrali da cui pescano i materiali
necessari per la loro sopravvivenza. Le lamelle concentriche rappresentano l’unità strutturale del tessuto
osseo compatto nell’adulto e hanno uno spessore di 3-7 µm di diametro.

Ci sono lamelle che riempiono gli spazi tra gli osteoni e sono dette
interstiziali.

In quest’immagine si notano tutti gli elementi dell’osso


compatto: gli osteoni, le lamelle interstiziali, che
costituiscono la breccia ossea, periostio (connettivo
denso), le lamelle circonferenziali con un grosso raggio
di curvatura e che vanno a circondare l’osso. In questa
immagine si nota anche che i canali di Havers sono in
comunicazione tra loro e con i vasi sanguigni del
periostio, attraverso il sistema di canali di Volkmann,
disposti perpendicolarmente o obliquamente ai canali di
Havers.

In ogni lamella sono presenti delle striature, costituite da fibre


collagene, che sono tutte parallele tra loro. Tra lamelle contigue le
fibre collagene si orientano perpendicolarmente rispettivamente a
quelle delle lamelle adiacenti, con un angolo di circa 90°; questa
disposizione conferisce grande robustezza all’osso.

La matrice inorganica dell’osso è data soprattutto dal fosfato di calcio, che aumenta durante lo sviluppo e
l’accrescimento, fino a raggiungere circa il 65% del peso dell’osso. Oltre al fosfato di calcio, è presente anche il
carbonato di calcio. Il fosfato di calco si organizza in microcristalli di idrossiapatite, i quali vanno ad allinearsi fra le
fibre collagene. Gli osteoblasti producono la matrice inorganica, che all’inizio è semisolida per poi diventare solida
grazie al processo di calcificazione; questa avviene grazie all’allineamento regolare dei microscristalli.
Durante le prime fasi della vita le ossa si accrescono fino a raggiungere un picco che si ha intorno ai vent’anni.
Nell’adulto sano la quantità di massa ossea che viene rimossa è anche sostituita da una di nuova formazione, senza
avere una riduzione complessiva. Durante le fasi di invecchiamento la produzione di nuovo osso non riesce a
colmare del tutto il tessuto osseo che viene perso per attività erosiva da parte degli osteoclasti, per cui lo scheletro
perde massa ossea e si viene a realizzare una condizione che prende il nome di osteopenia; questa riguarda
soprattutto le donne dopo la menopausa. Non tutte le
ossa sono interessate in egual misura a questo
processo, tra quelle che tendono a diventare più fragili
ci sono le vertebre. Quando la perdita di massa ossea è
decisamente molto accentuata e quindi va a
compromettere la funzionalità dello scheletro, allora si
parla di una vera e propria condizione patologica, quale
l’osteoporosi; la struttura dell’osso viene alterata,
diventa poroso, più fragile, perché si ha una perdita
della componente proteica e minerale. Questa
condizione predispone alle fratture.

I fattori nutrizionali sono molto importanti per un normale sviluppo e mantenimento dell’osso. È importante che ci
sia un corretto apporto di calcio con la dieta, ma anche di vitamina D, perché regola l’assorbimento del calcio a
livello intestinale. È importante esporsi alle radiazioni solari perché l’azione dei raggi ultravioletti va a favorire la
trasformazione della provitamina D contenuta nella pelle, in vitamina D. Sono particolarmente importanti anche le
sollecitazioni meccaniche prodotte dall’esercizio fisico, determinanti perché si abbia un normale rimodellamento
osseo; in risposta all’esercizio fisico, l’osso è in grado di aumentare la sua forza, ovve3ro la quantità di sali minerali
che vengono depositati e di fibre collagene che vengono sintetizzate, l’esercizio fisico stimola anche la produzione
della calcitonina, cioè l’ormone che attiva gli osteoblasti e inibisce gli osteoclasti.

Il sangue
Il sangue è un tessuto connettivo fluido e non un liquido corporeo, come sono saliva e urina. È composto da una
matrice extracellulare liquida, il plasma, e da una componente cellulare. È sospinto dall’azione di pompa del cuore
e scorre all’interno di un sistema di vasi arteriosi e venosi che raggiungono i diversi organi.

Il sangue ha 3 funzioni principali:


• Trasporto di ossigeno dai polmoni alle cellule e di anidride carbonica dalle cellule ai polmoni, di sostanze
nutritive dal tratto gastrointestinale, di ormoni e di prodotti di rifiuto
• Protezione dalle emorragie con il processo di coagulazione e dalle infezioni con il sistema immunitario
• Regolazione della temperatura corporea

Caratteristiche:
Il sangue è più denso e viscoso dell’acqua, ha una
temperatura di 38°C e pH pari a 7,35/7,45;
costituisce circa l’8% dell’intera massa corporea
e il volume ematico è di 5-6 litri in un uomo
adulto e di 4-5 litri in una donna.
Il plasma è un liquido viscoso di colore giallo paglierino, costituito da acqua per il 90% e da sostante disciolte per il
restante 10%.
Più precisamente la composizione del plasma è: acqua 92% (trasporto di molecole organiche e inorganiche),
proteine plasmatiche 7%, altri soluti 1%.
Le principali proteine plasmatiche che sono:
• Albunine (60%), ovvero le principali responsabili della pressione osmotica del plasma e sono delegate al
trasporto di lipidi e ormoni steroidei
• Globuline (35%), che trasportano ioni, ormoni e lipidi e hanno funzione immunitaria
• Fibrinogeno (4%), che è la componente essenziale del sistema di coagulazione e che può essere convertito
in fibrina insolubile
• Enzimi, proenzimi e ormoni con funzione regolatrice (<1%)

Altri soluti del plasma sono:


• Elettroliti plasmatici, in particolare Na+, K+, Ca2+, Mg2+, Cl-, HCO3-, HPO42-, SO42-. La composizione ionica dei
fluidi extracellulari normali è essenziale per le attività vitali delle cellule; gli ioni contribuiscono alla
pressione osmotica dei fluidi corporei.
• Nutrienti organici, impiegati nella produzione di ATP, nella crescita e nel mantenimento cellulare;
comprendono lipidi (acidi grassi, colesterolo e trigliceridi), carboidrati, in particolare glucosio e aminoacidi
• Scarti organici trasportati alle sedi di eliminazione e comprendono urea, acido urico, creatina, bilirubina e
ioni ammonio.

La parte corpuscolare del sangue è formata da tre elementi


figurati: piastrine, leucociti o globuli bianchi ed eritrociti o
globuli rossi (99,9%).

La formazione delle cellule del sangue viene definita


emopoiesi e parte dal midollo osseo rosso. Le cellule
staminali emopoietiche danno origine a tutte le cellule del
sangue mediante il processo illustrato in figura.
Eritropoiesi è il termine che indica specificamente la
formazione di eritrociti e inizia precocemente durante lo
sviluppo embrionale. Il midollo osseo rosso è la sede
principale di formazione delle cellule del sangue
nell'organismo adulto; questo tessuto si trova a livello
delle vertebre dello sterno, delle coste, delle ossa
craniche, delle scapole, del bacino e dell’epifisi prossimali
delle ossa degli arti. In condizioni particolari il midollo
osseo giallo, che occupa la cavità diafisarie di molte ossa
lunghe, può convertirsi in midollo rosso, come ad esempio
in seguito a perdite ematiche cospicue e prolungate, con
lo scopo di incrementare la produzione di eritrociti.
Perché si realizzi l’eritropoiesi è necessario che il midollo riceva adeguate quantità di aminoacidi, ferro, e vitamina
B12, contenuta negli alimenti e soprattutto nella carne. L’eritropoiesi è controllata dall’eritropoietina (EPO), ovvero
una glicoproteina sintetizzata e secreta principalmente dal rene, in condizioni di ipossia, e svolge essenzialmente
due funzioni: stimola la proliferazione degli eritroblasti delle cellule staminali da cui derivano; accelera la
maturazione degli eritrociti, aumentando la velocità di sintesi dell'emoglobina, e in caso di intensa simulazione con
EPO il midollo osseo può aumentare di 10 volte la velocità di produzione di eritrociti, raggiungendo i 30 milioni di
cellule al secondo. Nel corso della maturazione, un eritrocita passa attraverso una serie definita di stadi, come
mostrato in figura.
Il processo di formazione dei leucociti e definito leucopoiesi, inizia anch’esso precocemente durante lo sviluppo
embrionale e le cellule staminali responsabili della produzione di leucociti si trovano nel midollo osseo rosso.
Anche le cellule staminali deputate alla produzione di linfociti originano nel midollo osseo rosso, nel processo
definito linfocitopoiesi. Alcuni linfociti derivano da cellule staminali linfoidi, che restano nel midollo, e differenziano
in linfociti B o cellule NK. Molte cellule staminali linfoidi migrano dal midollo osseo rosso nei tessuti linfoidi
periferici, incluso il timo, la milza, e linfonodi, dove originano linfociti; quindi i linfociti sono prodotti sia a livello
degli organi linfoidi che midollo osseo rosso. Le cellule staminali migrate nel timo originano linfociti T. I fattori che
regolano la maturazione linfocitaria non sono completamente chiariti, ma un ruolo essenziale è svolto da ormoni
secreti dal timo, che promuovono il differenziamento e il mantenimento della popolazione linfocitaria T. Altri
ormoni, definiti nell’insieme fattori stimolanti le colonie (Colony-Stimulating Factors CSF), sono coinvolti nella
regolazione delle popolazioni di altre cellule della serie leucocitaria. I CSF sono utilizzati per stimolare la sintesi dei
leucociti in individui affetti da linfopenia o sottoposti a chemioterapia antitumorale.

Eritrociti o globuli rossi


Sono tra i 4,5 milioni e i 5,5 milioni per mm3 e hanno un diametro
di 7-8 m. L’aspetto morfologico è detto a “disco biconcavo” e
questa forma del globulo rosso aumenta l’efficienza dello
scambio di gas fra citoplasma e plasma ematico e favorisce il suo
scorrimento nel microcircolo periferico. Sono privi di nucleo e il
citoplasma è omogeneo e privo di organuli.

Il citoplasma dei globuli rossi è formato per il


65% da acqua e per il 35% da proteine (95%
emoglobina e 5% altre). L’emoglobina è una
proteina che trasporta ossigeno e ce ne sono
circa 280 milioni di molecole per grammo. Più di
1 miliardo di molecole di O2 potenzialmente
trasportabili da un singolo globulo rosso. Vengono prodotti nel midollo osseo e
prima di essere immessi nel sangue perdono nucleo, ribosomi, mitocondri e
reticolo endoplasmatico. Trasportano ossigeno dai polmoni ai tessuti e anidride
carbonica dai tessuti ai polmoni. Sono continuamente rinnovati, dato che hanno
una vita di 120 giorni. Una diminuzione del loro numero o comunque una ridotta
funzionalità nel trasporto dell’ossigeno viene definita anemia.

Una delle caratteristiche dei globuli rossi è il colore rosso


dovuto all’emoglobina, grossa molecola proteica
contenente ferro e che rappresenta circa un terzo del
peso della cellula. L’emoglobina è formata da 4 subunità
proteiche globulari, globine, ciascuna delle quali
contiene un gruppo eme. Ogni eme contiene uno ione
ferro, che interagisce con una molecola di ossigeno.
Leucociti o globuli bianchi
Ci sono tra i 5.000 e i 9.000 leucociti per mm3 di sangue. Hanno funzioni di difesa
dell'organismo: alcuni distruggono le sostanze estranee penetrate nell'organismo,
altri servono la formazione di anticorpi. Svolgono la loro funzione nel connettivo e
perciò utilizzano il sangue per migrare dalla sede in cui vengono prodotti, midollo
osseo, ai tessuti. In caso di necessità i globuli bianchi, attratti da specifici stimoli
chimici (chemiotassi), sono in grado di fuoriuscire dal circolo ematico (diapedesi)
per migrare nel connettivo e grazie al movimento ameboide raggiungono il sito da
difendere.

Hanno funzioni specifiche, ma tutte legate all’immunità. L’azione di difesa contro


agenti esterni nocivi (virus, batteri e tossine) può essere svolta:
• Direttamente, ovvero che l'ospite indesiderato viene mangiato per
fagocitosi.
• Indirettamente, cioè per produzione di anticorpi, che neutralizzano e distruggono il bersaglio contro cui
sono diretti.
Vengono distinti a seconda della presenza o meno di granulazioni citoplasmatiche in:
• Granulociti, che comprendono neutrofili, eosinofili e basofili
• Agranulociti, ovvero linfociti e monociti

GRANULOCITI NEUTROFILI (LEUCOCITI POLIMORFONUCLEATI)


Sono i più importanti elementi funzionali del sistema di difesa aspecifico e compongono il 50-70% di tutti i
leucociti. La loro emivita è di 6-8 ore e il 50% non circola nello spazio intravasale, ma rimane adeso alla parete
endoteliale. Il loro numero aumenta rapidamente nel sangue durante le infezioni acute, hanno capacità fagocitarie
e producono sostanze citotossiche.

GRANULOCITI EOSINOFILI E BASOFILI


I granulociti basofili compongono l’1% di tutti i leucociti e contengono granuli ricchi di istamina, per la
vasodilatazione, ed eparina, che è un anticoagulante. I granulociti eosinofili sono tra il 2 e il 4% dei leucociti
ematici, hanno un’emivita di 12 ore e hanno anch’essi attività fagocitaria. Sono responsabili delle reazioni con
scatenamento di sintomi allergici: vasodilatazione, eritema, ponfi, broncospasmo.

MONOCITI
Sono il 4-8% dei leucociti ematici e non contengono granuli citoplasmatici. Hanno capacità fagocitaria superiore a
quella di tutti gli altri leucociti e migrano in uno stato ancora immaturo dal midollo al sangue, per poi passare nei
tessuti circostanti dove permangono come macrofagi tessutali.

LINFOCITI
Compongono tra il 25 e il 40% dei leucociti ematici (nel bambino anche di più) e sono i mediatori del sistema
immunitario specifico. Si distinguono in Linfociti T e Linfociti B e questi ultimi sono deputati alla produzione di
anticorpi. I Linfociti B vengono prodotti nel midollo osseo, mentre i Linfociti T vengono prodotti nel timo; entrambi
vengono mandati negli organi linfatici secondari, ovvero nei linfonodi e nella milza.
Piastrine o trombociti
Sono frammenti cellulari che
misurano circa ¼ di un globulo
rosso e sono circa 350.000
per mm3. Si tratta di porzioni
cellulari anucleate, derivanti
dalla frammentazione di grandi cellule del midollo
osseo, dette megacariociti. La loro vita media è di
circa 3-5 giorni e la loro funzione è importante sia
nell’emostasi che nella coagulazione del sangue:
formano il primo "tappo" che tenta di arrestare l'emorragia e secernono sostanze che scatenano il processo di
coagulazione.

Gruppi sanguigni
Fin dall'antichità vennero compiuti molti studi sul sangue. Iniettando sangue di un individuo sano in un individuo
malato, si avevano frequentemente conseguenze mortali. Solo nel 1901 un medico austriaco scoprì che sulla
superficie dei globuli rossi dell'uomo erano presenti delle
sostanze chiamate agglutinogeni e che nel plasma ci sono
degli anticorpi chiamati agglutinine. Sulla base di queste
scoperte furono distinti nella specie umana 3 gruppi
sanguigni che vennero chiamati A, B e 0. Nel 1902 fu scoperto
il quarto gruppo, più raro, che venne chiamato AB. In Italia la
media di distribuzione dei gruppi sanguigni è la seguente: 0
per il 40%, A per il 36%, B per il 17% e AB per il 7%.

Nel 1941 si evidenziò nei globuli rossi di una scimmia, il Macacus


Rhesus, e successivamente in quelli umani, un nuovo antigene, che fu
chiamato fattore Rh, in grado di determinare la comparsa di anticorpi
specifici nel sangue di altri individui. Come per gli antigeni del sistema
AB0, la presenza o l'assenza del fattore Rh è ereditaria ed in base ad
essa la popolazione viene suddivisa in due gruppi: Rh+ in cui è
presente e Rh- in cui manca.

La linfa
È anch’essa un tessuto connettivo fluido e si forma quando il liquido interstiziale entra nei vasi linfatici, che alla fine
riportano la linfa alle grandi vene vicino al cuore. Questo ricircolo di liquido è un processo continuo ed essenziale
per mantenere l’equilibrio dei liquidi nell’ambiente interno, ovvero l’omeostasi. La linfa è un liquido di color ambra
chiaro, con composizione simile al plasma, ma con meno proteine e carboidrati e più lipidi. Non sono presenti
globuli rossi ma solo leucociti. Acqua e proteine escono dai vasi sanguigni nell’ambiente interstiziale dei connettivi
e mediante i vasi linfatici sono riportate nel torrente ematico.

Tessuto muscolare
La caratteristica principale è quella di essere costituito da cellule muscolari, allungate, in grado di accorciarsi;
questo è possibile perché nel loro citoplasma sono presenti delle particolari proteine contrattili filamentose, le
quali si organizzano in maniera molto precisa in fasci chiamati miofibrille, che si dispongono parallelamente tra loro
lungo l’asse maggiore delle cellule muscolari. L’accorciamento in realtà non è dovuto a una contrattilità intrinseca
alle fibrille, quanto al fatto che queste fibrille scivolano reciprocamente tra loro. Un’altra caratteristica è che le
cellule muscolari vengono organizzate da tessuto connettivo lasso, molto ricco di vasi sanguigni e fibre nervose; è
importante una ricca vascolarizzazione per la necessità di avere un grande apporto di ossigeno e materiali nutritivi,
dal fatto che devono essere continuamente eliminati i cataboliti prodotti. Siccome i tessuti muscolari vanno
continuamente incontro ad accorciamenti e distensioni, sia i vasi sanguigni, sia le fibre nervose, tendono ad avere
un decorso ondulato. Ci sono tre varietà di tessuto muscolare: muscolare striato scheletrico, muscolare striato
cardiaco e muscolare liscio.

Tessuto muscolare striato scheletrico


Funzioni: permette i movimenti volontari delle diverse parti dello scheletro, consente il mantenimento della
postura, fa sì che possano essere contenuti e protetti gli organi interni e controlla gli orifizi.

Costituisce essenzialmente tutti i muscoli scheletrici e va a formare un piccolo numero di muscoli appartenente
all’apparato respiratorio, come a livello della faringe e della laringe, e dell’apparato digerente, in particolare a
livello della lingua e nella regione terminale del retto. È inoltre definito volontario, in quanto si contrae sotto il
controllo della volontà ed è innervato da motoneuroni del sistema nervoso centrale.

Le cellule tipiche di questo tessuto hanno forma cilindrica allungata, sono polinucleate e presentano una
caratteristica striatura trasversale per la disposizione delle miofibrille. In realtà le cellule vanno a formare dei
sincizi, ovvero una formazione dotata di più nuclei, un elemento sovracellulare di grandi dimensioni, che si forma
durante lo sviluppo embrionale a partire dalla fusione di un certo numero di cellule precursori, che prendono il
nome di mioblasti. I mioblasti sono quindi cellule mononucleate con una forma affusolata, che si fondono a
formare i sincizi, ovvero le fibre muscolari (cellule muscolari), queste sono dunque molto grandi e polinucleate. Il
citoplasma delle fibre muscolari prende il nome di sarcoplasma (sarcos = carne, tutte le strutture appartenenti al
muscolo) e presenta molti mitocondri. Il reticolo endoplasmatico liscio forma una particolare rete di canali che si
intrecciano tra loro. Le fibre del tessuto muscolare scheletrico sono tutte parallele tra loro e sono tenute insieme
da tessuto connettivo lasso.

Questa è la sezione trasversale di un muscolo scheletrico. La parte


delimitata dal riquadro azzurro è il fascetto o fascicolo muscolare,
al cui interno sono presenti un certo numero di fibre muscolari. Il
bianco intorno è il connettivo, perché queste organizzazioni
muscolari sono sempre organizzate da connettivo. I puntini più
scuri sono i nuclei delle fibre muscolari e si trovano
perifericamente, subito al di sotto del sarcolemma (membrana
plasmatica della fibra muscolare).

In questa immagine si nota che il muscolo si inserisce


sull’osso attraverso i tendini e all’interno del muscolo si
distinguono un certo numero di fascicoli; ogni fascicolo
è costituito da una serie di fibre muscolari, al cui
interno sono presenti le miofibrille, tutte parallele tra
loro e all’asse maggiore della fibra. La singola miofibrilla
è caratterizzata da bande alterne chiare e scure; le
miofibrille sono formate da miofilamenti, alcuni più
spessi (quelli di miosina), altri più sottili (quelli di
actina), in parte sovrapposti gli uni agli altri. Tornando
al fascicolo, si nota l’assone di un motoneurone che
decorre nel tessuto connettivo. Le aponeurosi sono i
tendini di muscoli larghi, sono ampie lamine tendinee
con cui i muscoli si inseriscono sull’osso.
Da questa immagine si nota che il muscolo, il fascicolo e le fibre
possiedono un rivestimento esterno di natura connettivale, che
organizzano gli elementi del muscolo. L’epimisio avvolge tutto il
muscolo, il perimisio avvolge il fascetto muscolare, mentre
l’endomisio avvolge la singola fibra muscolare. Le fibre collagene di
questi involucri, alle estremità del muscolo, si fondono insieme per
costituire il tendine.

In questa immagine (sezione longitudinale) è particolarmente evidente


la striatura trasversale delle fibre muscolari, con un’alternanza di bande
chiare e scure. Questa striatura è data dalle miofibrille che si
dispongono in maniera molto regolare, parallela tra loro.

La fibra muscolare è un sincizio anatomico, cioè una massa citoplasmatica che


presenta più nuclei e che deriva dalla fusione dei mioblasti, mononucleati simili
alle cellule del muscolo liscio, attraverso un processo di miogenesi. La fibra
muscolare è quindi una cellula di notevoli dimensioni, con un diametro di 50-60
µm e lunghe anche alcuni centimetri.

Questa è un’immagine al microscopio elettronico che ci


permette di osservare l’ultrastruttura della fibra
muscolare. La striatura si rivela molto articolata. Ogni
miofibrilla possiede la striatura trasversale ed è proprio
questa disposizione molto regolare a determinare la
striatura muscolare stessa. Le miofibrille si allineano a
registro.

In realtà ciascuna componente di questa striatura è definita


convenzionalmente con una lettera. Il sarcomero è la
porzione di miofibrilla compresa tra due linee Z che si ripete
per tutta la lunghezza. Il sarcomero presenta una porzione
centrale più scura e due porzioni laterali più chiare; ciascuna
di queste due porzioni laterali è metà della banda chiara che
si osserva sulla miofibrilla.
Questa è un’immagine al microscopio elettronico di una
porzione longitudinale di due miofibrille; queste sono
formate da tanti fili di diverso spessore. Le miofibrille sono
quindi formate da fasci di filamenti, alcuni sottili e altri più
spessi; questi fasci di filamenti sono quelli costituiti dalle
proteine contrattili e si chiamano miofilamenti. Le
miofibrille si possono suddividere in tante porzioni tutte
uguali che si susseguono, ciascuna delle quali formate da
fasci di filamenti, sia spessi che sottili, che sono intercalati
tra loro (si sovrappongono gli uni agli altri). Quindi laddove i
filamenti spessi e sottili sono sovrapposti si va a identificare
la banda scura della fibra, mentre dove non c’è alcuna sovrapposizione si identifica la banda più chiara.

Questa è un’immagine elettronica ad altissimo ingrandimento di un


sarcomero. Le due linee Z ne delimitano il confine; la banda più scura
al centro del sarcomero viene identificata come banda A, mentre le
bande più chiare vengono identificate come bande I. Al centro della
banda A si trova un’altra banda che prende il nome di banda H, che è
meno scura. Ogni sarcomero presenta solo mezza banda I, l’altra metà
appartiene al sarcomero adiacente.

Qui si nota che i filamenti di actina sono presenti nelle bande I e


nella zona periferica della banda A, senza entrare nella banda H.
la banda A è quindi costituita da filamenti di miosina che in
periferia si sovrappongono all’actina.

N.B. Nella banda H solo filamenti spessi, nella banda A sia quelli
spessi che quelli sottili ingranati tra loro, nella banda I solo
filamenti sottili.

La miosina è una proteina contrattile filamentosa, provvista di una testa globulare; la singola molecola di miosina
presenta una testa globulare che va a sporgere sul filamento e diverse molecole si associano a formare un fascio
che costituisce il filamento spesso. L’actina è una proteina globulare
che va a costituire dei filamenti più sottili insieme ad altre due
proteine; in ogni filamento sottile le singole molecole di actina si
legano tra loro a formare due lunghe file avvolte ad elica. Le molecole
di actina rivolte all’esterno interagiscono con le teste della miosina. I
filamenti sottili sono costituiti anche da tropomiosina che forma altre
due catene a spirale, che si inseriscono in uno spazio che si trova tra
le due catene actiniche; il complesso di troponina è costituito da tre
subunità globulari che si legano, a intervalli piuttosto regolari, alla
tropomiosina, completando il filamento sottile.
Nella contrazione i filamenti sottili scivolano lungo quelli spessi
perché le teste della miosina si legano all’actina, spostando i filamenti
sottili verso il centro del sarcomero, diminuendo la lunghezza del
sarcomero stesso. Questo avviene in tutti i sarcomeri di tutte le
miofibrille, determinando un accorciamento della fibra muscolare nel
suo complesso. Le molecole di actina possiedono quindi dei siti attivi
che interagiscono con la miosina. Quando il muscolo è a riposo, i siti
attivi sono coperti dalla tropomiosina, che è tenuta in posizione dalla troponina. Quando si ha la contrazione,
gli ioni calcio, accumulati nel reticolo sarcoplasmatico, vengono liberati e scatenano il processo della
contrazione; gli ioni calcio si legano alla troponina che sposta la tropomiosina, determinando l’esposizione dei
siti attivi dell’actina che si legano alla testa della miosina.

All’interno della fibra muscolare, oltre alle


miofibrille, sono presenti gli organelli comuni
a tutte le cellule, come i mitocondri, molto
numerosi perché necessari per produrre
l’energia necessaria alla contrazione. Il
reticolo endoplasmatico (blu) liscio
circoscrive le singole miofibrille, formano
una sorta di rete; il reticolo endoplasmatico
viene indicato in questo caso anche come
sarcoplasmatico o sarcotubulare. È costituito
da una serie di tubuli e da porzioni più
slargate che prendono il nome di cisterne ed
è in grado di controllare la contrazione delle
singole miofibrille; il reticolo endoplasmatico
è quello che assume, conserva e rilascia gli
ioni calcio. Il reticolo sarcoplasmatico si associa ad altre formazioni (viola), che prendono il nome di tubuli T o
trasversi, che sono una dipendenza della membrana plasmatica, sono un’introflessione del sarcolemma. I tubuli
trasversi sono delimitati da due cisterne del reticolo sarcoplasmatico. L’insieme di queste tre strutture viene
definita triade, costituita quindi da un tubulo T e da due cisterne sarcotubulari.

Tessuto muscolare striato cardiaco o miocardio


Va a costituire la parete cardiaca e anche in
questo caso c’è una striatura trasversale; la
differenza dal muscolo scheletrico è che l’attività
contrattile del miocardio è involontaria, cioè
indipendente dal sistema nervoso, che può
influire solo accelerandola o rallentandola.
L’impulso contrattile si auto genera. Un’altra
differenza è che il miocardio è costituito da
cellule mononucleate più piccole, quindi non si
tratta di sincizi anatomici polinucleati; anche
queste cellule però presentano bande chiare e
scure e sono cilindriche. Possiedono
un’estremità ramificata, hanno più o meno una
forma a Y caratteristica, che ha un corrispettivo
funzionale perché permette alle cellule cardiache
di porsi in contatto reciproco su più piani, determinando un sincizio funzionale; la forma a Y fa sì che il tessuto
muscolare vada a formare una specie di rete tridimensionale, che permette all’intera parete cardiaca di contrarsi in
maniera uniforme. Il nucleo è più tondeggiante e posto centralmente. Le cellule cardiache sono unite tra loro per
mezzo di giunzioni, sia comunicanti che desmosomi, che prendono il nome di strie o dischi intercalari e che
assicurano all’impulso nervoso contrattile di essere trasmesso in modo rapido e diffuso lungo tutta la rete
tridimensionale. Ci sono due tipi di miocardio: miocardio comune e miocardio specifico. Il primo è costituito da
tutte le cellule muscolari che formano la vera e propria massa contrattile del cuore; il miocardio specifico può
essere definito anche con il termine di sistema di conduzione del cuore, perché gli impulsi si auto generano. È
presente una maggiore quantità di connettivo e i mitocondri sono ancora più numerosi rispetto al muscolo
scheletrico.
Il miocardio specifico è costituito da cellule miocardiche
molto differenziate. Queste cellule hanno perso a
capacità contrattile perché si sono specializzate per
produrre e distribuire gli impulsi contrattili, che sono
autonomi. Le cellule che costituiscono il miocardio
specifico si raggruppano a formare strutture che
prendono il nome di nodi e fasci, che vanno a costituire
il sistema di conduzione del cuore; alcuni esempi sono il
nodo senoatriale, il nodo atrioventricolare, il fascio
atrioventricolare.

Tessuto muscolare liscio


È costituito da cellule mononucleate affusolate, che possono
riunirsi a piccoli gruppi nel connettivo e andare a costituire
piccole formazioni muscolari autonome, come i muscoli
erettori del pelo presenti nel derma; possono anche unirsi in
quantità più cospicue e andare a costituire la tonaca
muscolare degli organi cavi. Nelle cellule muscolari lisce, il
sarcoplasma è ricco di miofibrille, ma non sono organizzate a
formare i sarcomeri, quindi non si osserva la striatura
trasversale; i miofilamenti sono paralleli tra loro, causano un
accorciamento della cellula sempre in virtù di uno scivolamento
reciproco, ma non è presente una disposizione paragonabile a quella del
tessuto striato. I singoli filamenti si orientano in una disposizione per lo
più parallela all’asse maggiore delle cellule, ma in superficie tendono a
incrociarsi obliquamente inserendosi sulla membrana plasmatica,
determinando la contrazione o il rilassamento della cellula. Anche in
questo caso la contrazione delle cellule non è sotto il controllo della
volontà, quindi si parla di contrazione involontaria che è più lenta
rispetto a quella della muscolatura striata. È presente molto connettivo.
Apparato cardiovascolare
Il cuore
Il cuore è un organo dell’apparato cardio vascolare ed è una vera e propria pompa che spinge il sangue nei due
circuiti. L’apparato cardiovascolare è composto anche da un sistema chiuso di vasi sanguigni, che sono arterie,
vene e capillari, al cui interno scorre il sangue, il cui compito è quello di portare ossigeno e nutrimento a tutto il
corpo e prelevare i prodotti di rifiuto.

Dal cuore si originano due circuiti:


• Nel primo il sangue viene sospinto dal ventricolo sinistro
all’interno di una grossa arteria chiamata aorta; attraverso
l’aorta e i seguenti vasi in cui si suddivide, il sangue raggiuge
tutti gli organi. A livello dei diversi circoli periferici il sangue
cede ossigeno e raccoglie anidride carbonica. Il sangue ritorna
a livello dell’atrio destro del cuore, attraverso le vene cave
inferiore e superiore.
• Dall’atrio destro del cuore, il sangue scende nel ventricolo
destro, da cui parte il secondo circuito. Il sangue viene spinto
nell’arteria chiamata tronco polmonare, che si divide in due
rami, uno per ciascun polmone. Il sangue arricchitosi di anidride carbonica a livello periferico, arriva ai
polmoni, dove avviene lo scambio di gas. Il sangue si arricchisce nuovamente di ossigeno, torna al cuore a
livello dell’atrio sinistro, attraverso le vene polmonari.

Prende il nome di piccolo circolo o circolazione polmonare, quella circolazione che è incentrata sui polmoni; copre
delle distanze minori rispetto al secondo circuito. Il piccolo circolo parte dal lato destro del cuore, fa capo ai
polmoni e torna al lato sinistro del cuore. A livello dei polmoni, l’anidride carbonica che è stata raccolta a livello
periferico viene ceduta e il sangue si arricchisce di ossigeno. In questo caso le vene polmonari portano al cuore
sangue arterioso, perché ricco di ossigeno.
Prende il nome di grande circolo o circolo sistemico, quello che va ad alimentare tutto il resto del copro; parte dal
lato sinistro del cuore, raggiunge tutti i distretti corporei periferici, per poi tornare al cuore destro. Fa parte della
circolazione sistemica anche la circolazione coronarica, che va ad alimentare il cuore, poiché anch’esso necessita di
un costante rifornimento di ossigeno e materiali nutritivi. La vena cava superiore raccoglie il sangue da tutti i
distretti sopradiaframmatici, mentre quella inferiore lo raccoglie dai territori sottodiaframmatici.

Dal cuore dipendono tutte le funzioni dell’apparato cardiovascolare. È un organo muscolare la cui forma e
grandezza ricordano quella di un pugno chiuso, intorno ai 10cm di diametro e peso intorno ai 200g; il volume può
variare in funzione del sesso, dell’età e delle condizioni del soggetto. Il cuore batte circa cento mila volte al giorno
e grazie a queste continue pulsazioni pompa una quantità enorme di sangue all’interno dei vasi sanguigni. Il
volume di sangue pompato può variare molto a seconda delle condizioni, per esempio se si sta facendo attività
fisica o meno; può variare tra i 5 e i 30 litri di sangue pompati al minuto. Il cuore ha la forma all’incirca di un
tronco di cono, che presenta una base rivolta verso l’alto e inclinata all’indietro e leggermente a destra. L’apice è
posto in basso, inclinato in avanti e a sinistra, lo troviamo tipicamente a livello del quinto spazio intercostale.

Il cuore si trova nella cavità toracica, protetto da sterno e coste, in


uno spazio tra i due polmoni che prende il nome di mediastino; si
trova subito dietro al corpo dello sterno e ha un’estensione che va
all’incirca dalla seconda alla sesta costa. La posizione del cuore è
un po’ asimmetrica, infatti deborda per i 2/3 a sinistra e per 1/3 a
destra. In proiezione posteriore il cuore corrisponde al corpo di
alcune vertebre toraciche, precisamente va dalla quinta all’ottava
vertebra toracica, che per questo motivo sono anche chiamate vertebre cardiache.

Il cuore si trova in uno spazio connettivale situato tra i


due polmoni e chiamato mediastino (zona connettivale).
Nell’immagine si può osservare come il cuore si localizzi
nel mediastino anteriore; nel mediastino posteriore si
trovano alcune formazioni vascolari, come l’aorta, ma
anche l’esofago, la trachea, i bronchi. Quindi la cavità
toracica è ripartita in tre grandi regioni: due laterali,
ovvero le cavità pleuropolmonari, che appunto
accolgono i polmoni rivestiti dalle rispettive pleure, e
uno spazio centrale mediastinico, di natura
connettivale, che è distinto a sua volta in posteriore e
anteriore. Siccome la posizione del cuore è un po’
asimmetrica, il mediastino è un po’ più esteso verso sinistra e quindi la cavità pleurica sinistra e quindi anche il
polmone sinistro, è un po’ più piccolo.

La base sta in alto e corrisponde ai due atri, mentre


l’apice corrisponde alla punta del ventricolo sinistro.
La base si trova a livello della terza cartilagine costale,
mentre l’apice corrisponde al quinto spazio
intercostale sinistro.

L’apice del cuore si trova spostato all’incirca di un centimetro


rispetto alla linea emiclaveare (gialla), che passa per il punto
di mezzo della clavicola. Sulla parete del torace, la posizione
data all’apice del cuore, corrisponde a quella del battito
cardiaco, il cosiddetto itto della punta, che quindi
solitamente è palpabile a livello del quinto spazio
intercostale. Questo rappresenta un focolaio di auscultazione
mitralico, perché il medico quando ausculta il nostro torace,
avverte un rumore a questo livello, dovuto proprio alla
contrazione del ventricolo sinistro. Nell’immagine si può
anche notare il margine anteriore dei polmoni (linea nera) e il
contorno del muscolo diaframma (rosso), che ha una forma
peculiare e divide la cavità toracica da quella addominale.
La proiezione del cuore sulla parete toracica anteriore corrisponde
ad un’area chiamata aia cardiaca. In questa aia si possono osservare
quattro orifizi (viola), anche chiamati osti; due di questi sono
interposti tra atri e ventricoli, mentre gli altri due si trovano tra il
ventricolo sinistro e l’aorta e tra il ventricolo destro e l’arteria
polmonare. L’aia cardiaca ha una forma di quadrilatero irregolare e
presenta un margine destro, che corrisponde alla parte destra del
cuore e parte dalla terza cartilagine costale e giunge alla sesta; il
margine sinistro parte dall’apice de cuore e raggiunge all’incirca il
secondo
spazio
intercostale. Questa regione è importante perché
permette di valutare se il cuore è normale, sia da un
punto di vista morfologico che fisiologico; il medico,
mediante la percussione della parete toracica, è in grado
di valutare le dimensioni cardiache e mediante la
auscultazione apprezza i toni cardiaci. I toni cardiaci
sono quei rumori che si determinano per il passaggio del
sangue, che passa attraverso gli orifizi cardiaci, e sono
determinati dal fatto che questi orifizi presentano delle
valvole. Le
valvole
sono
importanti
per determinare un corretto flusso cardiaco. Il rumore del sangue che
passa attraverso questi orifizi muniti di valvole, sono udibili in
maniera migliore in punti precisi del torace (in rosso), detti focolai di
auscultazione. Il focolaio mitralico si apprezza nella regione dell’itto
della punta, ovvero nell’apice del cuore, ed è dovuto alla contrazione
del ventricolo sinistro. Se le valvole attraverso cui passa il sangue
sono interessate da un processo patologico, è chiaro che si creerà un
flusso di sangue anomalo e quindi si potranno rilevare dei suoni
anomali, ad esempio i soffi.

Il cuore poggia sulle due cupole diaframmatiche, in particolare sulla sua convessità superiore. Grazie
all’interposizione del diaframma, il cuore è separato dai visceri della cavità addominale. A livello della base il cuore
si continua con i grossi vasi che escono ed entrano.
In questa immagine si vede che il cuore, insieme al tratto iniziale dei grossi vasi che si staccano dal cuore, è rivestito
da un sacco di natura fibro-sierosa ed è detto pericardio. Dove il cuore poggia sulla cupola diaframmatica, il sacco
si inserisce sul diaframma attraverso dei legamenti, chiamati legamenti frenopericardici, che fissano il cuore. Il
pericardio è costituito da una componente più esterna fibrosa, ovvero connettivale, e una parte sierosa.

La parte più esterna del pericardio è dato dalla componente fibrosa, ovvero
tessuto connettivo denso (pericardio fibroso), mentre internamente ci
sono due foglietti di pericardio sieroso. Tra i due foglietti è presente una
cavità detta pericardica. La membrana sierosa che riveste il cuore presenta
due foglietti: sotto il pericardio fibroso si trova una membrana più sottile,
liscia e umida, costituita dal foglietto più esterno del pericardio sieroso,
detto parietale; il foglietto più interno è detto viscerale. Questa situazione
si ripete in tutte le membrane sierose, con il foglietto parietale che
aderisce alla componente fibrosa, mentre quello viscerale è a contatto con
l’organo. All’interno della cavità pericardica (quindi tra i due foglietti) sono
contenute piccole
quantità di liquido
pericardico (10-15
ml), prodotto dalle stesse cellule che costituiscono i
foglietti sierosi, formati dal mesotelio, ovvero epitelio
pavimentoso monostratificato. I due foglietti si riflettono
uno nell’altro in corrispondenza della base del cuore.
Immaginiamo di paragonare il nostro cuore con un pugno
che spingiamo contro un palloncino: si crea una struttura a
doppia parete, proprio come succede per il cuore.
Il compito del pericardio è quello di proteggere il cuore dagli attriti e di favorire gli ampi movimenti del cuore.
L’attrito è annullato dal fatto che i due foglietti sierosi scorrono uno sull’altro e sono molto umidi, grazie anche alla
presenza del liquido pericardico, che ha funzione di lubrificazione.
Per riassumere, il cuore presenta una faccia anteriore sternocostale, una faccia posteroinferiore diaframmatica,
che poggia sul centro frenico del diaframma; la base si trova in alto a destra, mentre l’apice è in basso a sinistra,
spostato in avanti e che corrisponde al ventricolo sinistro. Si possono identificare due margini, uno destro acuto e
uno sinistro ottuso.

La faccia posteriore presenta un solco orizzontale che è occupato dai


vasi sanguigni coronarici, che riforniscono il cuore stesso; questo
solco prende il nome di solco coronario o atrioventricolare, perché
nella superficie esterna va a separare gli atri (in alto) dai ventricoli (in
basso). Il solco
coronario
anteriormente non è
visibile perché è
nascosto dalle origini
del tronco
polmonare (viola) e
dell’aorta (rossa).
Posteriormente è
presente anche un
solco verticale che parte da quello coronario e va a separare
esternamente le due camere atriali, quindi si chiama solco
interatriale. È presente anche un altro solco verticale che parte da
quello coronario, detto interventricolare, visibile sia
posteriormente che anteriormente. Il solco longitudinale posteriore divide la faccia posteriore in due parti
disuguali, con la parte più ampia che corrisponde al ventricolo sinistro e quella più piccola che corrisponde a
quello destro. Si vede lo sbocco della vena cava superiore e l’orifizio della vena cava inferiore e tra questi due
spazi c’è una zona liscia che corrisponde al seno delle vene cave (in anatomia seno sta per avvallamento). Si
notano anche gli orifizi di sbocco delle quattro vene polmonari (rosa), due di destra e due di sinistra, che portano il
sangue ossigenato all’atrio sinistro.

Guardando la faccia anteriore, si possono riconoscere i grandi vasi che si dipartono: sono la vena cava superiore
(blu), l’aorta (rossa) che forma un arco e il tronco polmonare (viola) che si divide in due rami per i due polmoni. Ai
lati dell’aorta e del tronco polmonare sono presenti due appendici chiamate auricole destra e sinistra. Il solco
longitudinale anteriore divide la faccia anteriore del cuore in due regioni di diversa grandezza: l’area destra copre i
2/3 del totale e corrisponde al ventricolo destro, mentre l’area sinistra corrisponde al ventricolo sinistro; si nota
bene quindi che l’apice del cuore sia di pertinenza solo del ventricolo sinistro. Il ventricolo destro si prolunga verso
l’alto a formare una sporgenza conica, chiamato cono arterioso, a cui fa seguito il tronco arterioso, dietro al quale
origina l’aorta.

Questa immagine rappresenta una sezione del


cuore secondo un piano frontale e ci fa capire come
sia effettivamente un organo cavo. È suddiviso in
due metà, una destra e una sinistra, che non
comunicano mai tra loro, se non durante la vita
fetale, che tra i due atri è presente un’apertura, un
foro, chiamato forame di Botallo; la fossa ovale è
ciò che ne rimane dopo la nascita. Ogni metà è
formata da due camere, una superiore, ovvero
l’atrio, e una inferiore, cioè il ventricolo; atrio e
ventricolo di ogni metà possono comunicare tra
loro attraverso gli osti cardiaci (orifizi) muniti di
valvola, mentre tra i due atri e i due ventricoli non
esiste comunicazione, perché completamente separati da due setti, uno interatriale e uno interventricolare. I due
orifizi atrio-ventricolari presentano dei dispositivi valvolari, che servono a regolare il passaggio di sangue dall’atrio
al ventricolo, impedendo un reflusso in senso opposto; queste valvole atrio-ventricolari prendono il nome di
valvole cuspidali: tricuspide (a destra) e bicuspide o mitrale (a sinistra). La base dei ventricoli presenta l’origine
delle arterie aorta e tronco polmonare. Tutti i vasi che partono dal cuore sono arterie, a prescindere dal contenuto
di sangue arterioso o venoso; i vasi che arrivano al cuore sono sempre vene, anche se portano un sangue arterioso.
Anche tra ventricoli e vasi che partono dal cuore, sono presenti degli orifizi arteriosi muniti di dispositivi valvolari;
queste valvole sono conformate in maniera diversa rispetto a quelle tra atrio e ventricolo e sono dette valvole
semilunari o a nido di rondine (perché hanno una convessità che guarda verso il ventricolo): in particolare si
chiamano valvola polmonare per il tronco polmonare e valvola aortica per l’aorta. Il nome atrio deriva dal fatto che
rappresentano le zone di afflusso, di ingresso del sangue portato dalle vene; una volta raccolto il sangue refluo che
ha viaggiato per i tessuti periferici, gli atri dovranno spingere il sangue nel sottostante ventricolo. Per fare questo
gli atri non hanno bisogno di una pressione elevata, perché la distanza è bassa, quindi la loro parete non è
particolarmente spessa. La funzionalità dei due atri è molto simile, tant’è che le loro dimensioni sono molto simili
da un punto di vista anatomico, mentre si trovano differenze tra ventricolo destro e sinistro, in relazione alla
diversa funzionalità delle due camere ventricolari.

L’atrio destro riceve sangue povero di ossigeno dalla circolazione sistemica, attraverso le due vene cave. La parete
mediale dell’atrio destro è piuttosto liscia, ma presenta una piccola depressione che rappresenta il residuo del
forame di Botallo; questo è utile perché nel periodo fetale i polmoni non funzionano ancora, perché l’ossigeno
arriva attraverso la placenta e i vasi del cordone ombelicale, che viene interrotto alla nascita, rendendo
funzionante il piccolo circolo. Le pareti dell’atrio destro sono leggermente irregolari, perché si sollevano in rilievi
carnosi, che prendono il nome di muscoli pettinati.
L’atrio sinistro riceve le quattro vene polmonari, che portano sangue arterioso, e presenta pareti più lisce rispetto
all’atrio destro, non presenta i muscoli pettinati.
Nel ventricolo destro c’è la valvola atrio-ventricolare, che è presente a livello dell’orifizio atrio ventricolare, e
l’orifizio dell’arteria tronco polmonare(?), con la rispettiva valvola a nido di rondine. Le pareti del ventricolo destro
sono più spesse rispetto a quelle degli atri, ma comunque più sottili rispetto a quelle del ventricolo sinistro. Nei
due ventricoli sono presenti dei rilievi muscolari che fanno come dei ponti, chiamati trabecole carnee, ed alcune
vanno anche a sporgere all’interno della cavità ventricolare, dal basso protrudono verso l’interno della cavità; in
questo modo costituiscono delle formazioni che prendono il nome di muscoli papillari, sopra i quali sono presenti
dei piccoli tendini (corde tendinee) che si vanno ad attaccare sui lembi delle valvole atrio ventricolari. La funzione
di queste corde tendinee fa sì che le valvole atrio-ventricolari non si ribaltino verso l’atrio, impedendo il rigurgito di
sangue dal ventricolo all’atrio. I muscoli papillari sono gli ultimi a contrarsi e quando si contraggono stirano le
corde tendinee, che toccano le valvole cardiache impedendone il ribaltamento verso l’alto. Nel ventricolo sinistro
le pareti sono più spesse e le trabecole carnee più prominenti, il ventricolo sinistro, oltre all’orifizio atrio-
ventricolare, presenta anche l’orifizio aortico con le rispettive valvole a nido di rondine.

Riassumendo, nel cuore si distinguono quattro cavità, due superiori chiamate atri e due inferiori chiamati
ventricoli. Ogni metà del cuore presenta una comunicazione tra atrio e ventricolo, mentre i due atri e i due
ventricoli non comunicano tra loro per la presenza dei setti interventricolare e interatriale.

Le differenze anatomiche relative ai due ventricoli sono legate soprattutto


allo spessore della parete. La parete ventricolare destra è decisamente più
sottile rispetto a quella del ventricolo di sinistra. Questo perché nel
ventricolo destro viene generata una pressione minore, sufficiente a
spingere il sangue all’interno del circolo polmonare, che sono molto vicini
al cuore; pressioni più alte a questo livello sarebbero dannose perché i
capillari polmonari sono molto sottili e fragili. Il ventricolo sinistro, per
spingere il sangue in tutti i distretti corporei, deve necessariamente
generare delle pressioni sei o sette volte maggiori rispetto a quelle
generate nel ventricolo destro. Quindi la base anatomica di tutto questo è
la parete ventricolare, che risulta molto più spessa e che in sezione ha un
aspetto circolare. Quando il ventricolo si contrae la distanza tra l’apice e la
base diminuisce, così come il suo diametro; quando il ventricolo sinistro si
contrae, va anche a sporgere all’interno della cavità del ventricolo destro
e questo fatto non fa che migliorare l’efficienza di contrazione del ventricolo destro. La stessa contrazione del
ventricolo sinistro favorisce l’espulsione del sangue anche nel circolo polmonare.

Le valvole che permettono la comunicazione tra atrio e


ventricolo vengono anche definite cuspidali, in particolare:
tricuspide quella destra e bicuspide o mitrale quella sinistra. Il

termine mitrale deriva dal fatto che somiglia alla


mitra, ovvero il copricapo indossato dal Papa.
Evidentemente la tricuspide è dotata di tre
lembi valvolari, mentre la bicuspide di due.
Anche gli orifizi di comunicazione tra ventricoli e
vasi in uscita, presentano dei dispositivi valvolari
semilunari, in particolare la valvola semilunare polmonare è quella tra il ventricolo destro e il tronco polmonare,
mentre la valvola semilunare aortica si trova tra il ventricolo sinistro e l’aorta. Tutte e due presentano tre lamine di
connettivo fibroso rivestito da endotelio e sono conformate a formare delle specie di tasche a nido di rondine
(infatti possono anche essere chiamate così); la parte concava è rivolta verso l’arteria, mentre quella convessa è
rivolta verso il ventricolo. Quindi le valvole cardiache sono in tutto quattro, due cuspidali e due semilunari. Quando
gli atri si contraggono immettono nei ventricoli sottostanti il sangue ricevuto dalle vene e questo è consentito dalle
caratteristiche
costruttive delle valvole cuspidali, che non si oppongono al passaggio di sangue. La contrazione dei ventricoli forza
il sangue contro i lembi delle valvole cuspidali e ne provoca la chiusura, favorendo invece lo scorrimento verso le
arterie; la contrazione del ventricolo spinge i lembi
valvolari che si appiattiscono, permettendo al
sangue di fluire. La contrazione dei muscoli papillari
mette in tensione le corde tendinee, facendo sì che
durante la spinta massima, i lembi valvolari cuspidali
non protrudano verso l’atrio. Le valvole cuspidali e
semilunari sono aperte e chiuse in maniera
alternata: quando sono chiuse le valvole atrio-
ventricolari, sono aperte quelle semilunari e questo
avviene durante la fase di contrazione ventricolare,
che prende il nome di sistole ventricolare; durante
la diastole ventricolare, ovvero durante la quale i
ventricoli si riempiono di sangue, sono aperte le
valvole cuspidali, mentre quelle semilunari sono
chiuse. Le valvole semilunari formano delle specie di
coppette, quindi quando il sangue viene spinto dal basso vero l’alto, per contrazione dei ventricoli, a causa della
forte pressione sono spinte ad aderire contro la parete del vaso sanguigno, lasciando libero passaggio per il
sangue; una volta che la sistole ventricolare è terminata, una piccola colonnina di sangue, per effetto della forza di
gravità tende a ridiscendere verso il basso e così facendo va a riempire le tasche, che per la loro stessa struttura
anatomica vanno a contatto tra di loro chiudendosi, impedendo così il reflusso di sangue nei ventricoli, senza la
necessità di avere delle corde come nelle valvole cuspidali. Sia le valvole semilunari che cuspidali col tempo
possono andare incontro a degenerazione patologica, dovuta da tante cause, come processi infiammatori e di
invecchiamento. I principali tipi di difetti valvolari sono ad esempio la stenosi valvolare, cioè che non si apre a
sufficienza, ostacolando il flusso ematico e creando un sovraccarico di pressione nella parete cardiaca a monte
della fenosi; un altro difetto può comportare il problema opposto, ovvero che la valvola non si chiude
completamente, quindi si parla di insufficienza valvolare. Stenosi e insufficienza valvolare possono anche essere
presenti contemporaneamente.

In questa immagine si nota il flusso di sangue delle due


metà del cuore. A sinistra si possono vedere le quattro
vene polmonari che portano il sangue ossigenato
nell’atrio sinistro, passa nel ventricolo sinistro e da qui è
sospinto nell’aorta in direzione della periferia. Nella
parte destra del cuore il sangue refluo dei territori sovra
e sottodiaframmatici, viene portato dalle vene cave
superiore e inferiore, arriva nell’atrio destro del cuore,
passa nel ventricolo destro e viene sospinto nel tronco
polmonare, che si divide nelle de arterie polmonari per i
due polmoni; queste arterie portano sangue venoso,
cioè povero di ossigeno e carico di anidride carbonica.

Quindi il cuore, per svolgere la funzione di pompa, alterna fasi di contrazioni e di distensione e questo determina
una sequenza di eventi che viene definita ciclo cardiaco. La fase di contrazione prende il nome di sistole, mentre
quella di distensione prende il nome di diastole. Durante la sistole il muscolo cardiaco pompa il sangue nel piccolo
e grande circolo; in diastole il muscolo cardiaco si distende, i ventricoli si riempiono di nuovo di sangue, per poi
effettuare un nuovo ciclo. L’intero ciclo cardiaco è di circa 0,8 secondi. Durante l’alternarsi di queste due fasi, le
quattro valvole cardiache sono alternativamente aperte o chiuse; in diastole sono aperte le valvole cuspidali per
permettere al sangue di scorrere nei ventricoli, mentre in sistole il sangue apre le valvole semilunari. In ogni ciclo
cardiaco il cuore produce due toni cardiaci, uno un po’ più lungo che corrisponde alla chiusura delle valvole atrio-
ventricolari, quindi in sistole, mentre l’altro suono corrisponde alla chiusura delle valvole semilunari, quindi in fase
di diastole. Quando ci sono anomalie nelle valvole anche i toni possono essere irregolari, quindi è compito del
bravo medico rilevare anomalie che riguardano il corretto flusso sanguigno all’interno delle camere cardiache.

La parete cardiaca è costituita da tre strati, sia nelle camere atriali che ventricolari. Partendo dall’interno verso
l’esterno troviamo, l’endocardio, poi c’è il miocardio, che è lo strato più spesso, e infine lo strato più esterno è
l’epicardio. Questi tre strati corrispondono rispettivamente alla tonaca intima, media e avventizia dei vasi
sanguigni. Questa è la sezione della parete
del cuore; si può notare all’esterno la
componente fibrosa del sacco
pericardico e poi i due foglietti sierosi, con in
mezzo la cavità sierosa riempita del liquido
pericardico. Il foglietto più esterno è detto
parietale ed è addossato al pericardio
fibroso, mentre il foglietto viscerale del
pericardio corrisponde all’epicardio, che
quindi riveste il cuore; i due foglietti sono
formati da tessuto epiteliale pavimentoso
semplice, che prende il nome di mesotelio.
Lo strato intermedio è il miocardio ed è il più
spesso, perché è formato a sua vola di vari strati di tessuto muscolare cardiaco; in questo strato si riconoscono le
cellule muscolari a forma di Y unite tra loro tramite i dischi intercalari. La superficie più interna, ovvero
l’endocardio, è costituita da un epitelio pavimentoso semplice, che va a foderare le camere cardiache; l’endocardio
si continua con l’epitelio che va a rivestire i vasi sanguigni, ovvero l’endotelio (tonaca intima).

Il miocardio corrisponde al tessuto muscolare cardiaco, cioè quello che costituisce la gran massa della parete
cardiaca e che ha la funzione contrattile. Il tessuto muscolare cardiaco è una specie di ibrido tra quello scheletrico
e quello liscio: come il tessuto muscolare striato, il miocardio assicura un’azione potente e rapida che serve a
garantire un corretto apporto di sangue a tutti gli organi e tessuti e presenta una caratteristica striatura
trasversale, ma presenta delle cellule distinte tra loro; come il tessuto muscolare liscio, si contrae
indipendentemente dalla nostra volontà, quindi è involontario. Il miocardio è in grado di contrarsi in maniera
spontanea, con un ritmo costante, e questa caratteristica è definibile con il termine di autoritmicità. Allo stimolo
elettrico, il tessuto muscolare cardiaco si comporta come se si trattasse di un’unica fibra che si contrae, quindi in
questi termini lo si può considerare come un sincizio funzionale; queste singole cellule a forma ramificata (a y)
sono unite elettricamente tra loro, a livello delle strie intercalari (dischi), a formare una sorta di unità funzionale.

Il miocardio si organizza formando due sistemi indipendenti tra loro, uno per gli atri e uno
per i ventricoli. La muscolatura atriale è costituita da una serie di fasci propri per ciascuno
dei due atri, fasci i quali sono circondati da altri fasci muscolari che sono comuni ai due
atri; i fasci propri sono formati da fibrocellule a decorso a spirale, detto decorso
anulospirale, con un andamento tale da circondare gli orifizi di sbocco delle vene di ogni
atrio, mentre i fasci comuni sono più esterni e hanno un decorso più trasversale,
portandosi da un atrio all’altro. Nel complesso la parete atriale è più sottile di quella
ventricolare.
Anche nei ventricoli ci sono fasci muscolari propri per ogni ventricolo
(rosa) e fasci comuni (azzurro). I fasci propri costituiscono lo strato
intermedio della muscolatura ventricolare, mentre quelli comuni
formano altri due strati, uno interno ai fasci propri e uno esterno;
quindi il miocardio ventricolare è formato da tre strati sovrapposti. I
fasci propri si inseriscono intorno all’anello fibroso che circonda
l’orifizio atrioventricolare, si portano obliquamente verso il basso e
senza raggiungere l’apice formano un’ansa, risalgono e si ricongiungono allo stesso anello fibroso da cui si sono
originati. In pratica i fasci propri formano due sacchi vicini tra loro. I fasci comuni si inseriscono sempre sugli anelli
che circoscrivono gli orifizi atrioventricolari, discendono obliquamente in direzione più superficiale rispetto ai
fasci propri e una volta raggiunto l’apice del ventricolo, compiono una specie di vortice per poi risalire in una
posizione più profonda rispetto ai fasci propri. Alcuni di questi fasci comuni profondi vanno a formare i muscoli
papillari. Per riassumere, la parete miocardica ventricolare è formata da uno strato superficiale di fasci comuni
discendenti, da uno strato intermedio di fasci propri e da uno strato profondo di fasci comuni ascendenti.

Come già detto, le cellule muscolari


cardiache sono unite tra loro a formare una
rete unica, mediante i dischi intercalari. A
livello delle strie intercalari, le membrane
plasmatiche di due cellule vicine sono
connesse tra loro mediante due tipi diversi di
giunzioni: i desmosomi che saldano tra loro
le cellule e le giunzioni gap che le collega dal
punto di vista funzionale.
Il muscolo cardiaco è definito involontario, poiché si contrae spontaneamente (autoritmicità).
Il cuore è un organo in grado di contrarsi regolarmente per svolgere la sua funzione di pompa e questo è possibile
grazie ad un sistema di autoregolazione molto delicato. Sebbene il cuore sia regolato sempre dal sistema nervoso
autonomo, bisogna sempre ricordare che è dotato di una struttura intrinseca, che permette di generare e condurre
gli impulsi elettrici. Quindi il cuore è autosufficiente, perché possiede un proprio stimolatore in grado di generare
l’impulso elettrico per far avvenire il battito cardiaco. Questo stimolo è di natura elettrica, si origina in maniera
involontaria e la sua origine è deputata al sistema di conduzione del cuore, che rappresenta il miocardio specifico.
Il sistema fa sì che le migliaia di cellule muscolari possano contrarsi in maniera sincrona; il termine miocardio
specifico si riferisce ad alcune cellule miocardiche, che si sono differenziare in modo da perdere le loro capacità
contrattili per specializzarsi nel distribuire gli impulsi
contrattili.

Gli elementi che vanno a costituire il miocardio


specifico si raggruppano a formare strutture che
prendono il nome di nodi e fasci. Il ritmo dell’attività
cardiaca si genera a livello del nodo senoatriale,
costituito da un gruppo di cellule poste a livello
dell’atrio destro, vicino allo sbocco della vena cava
superiore. Poiché il ritmo si origina a livello del nodo
senoatriale, questo viene anche indicato come
pacemaker naturale (in italiano segna passi).
Tramite vie di conduzione di questo stimolo, gli
impulsi elettrici che si sono formati a livello del nodo
senoatriale possono passare sia agli atri che ai ventricoli. L’impulso elettrico che parte dal nodo senoatriale genera
il ritmo sinusale; l’impulso emesso depolarizza il muscolo cardiaco adiacente e si propaga attraverso gli atri fino a
raggiungere la seconda struttura di conduzione che è il nodo atrioventricolare. Questo lo si trova sempre a livello
dell’atrio destro, in particolare a livello del
pavimento vicino allo sbocco del seno
coronario (da vene coronarie); lo stimolo
elettrico, una volta giunto a livello del nodo
atrioventricolare, rallenta per permettere agli
atri di contrarsi e poi si diffonde nel fascio
comune di His, o tronco comune, il quale si
trova nella porzione membranosa prossimale
del setto che divide i due ventricoli, per poi
suddividersi in due branche, destra e sinistra.
Queste due branche decorrono in posizione
sub endocardica lungo le due superfici del
setto del cuore; perifericamente queste
branche si suddividono e formano una sorta di
rete sub endocardica, formata da fibre di
purkinje, le quali si estendono nelle pareti ventricolari e quindi sono in diretto rapporto con la muscolatura
ventricolare. Nei ventricoli l’onda di contrazione scende verso la punta del cuore per poi andare a risalire lungo i
muscoli papillari, seguendo il vortice che la muscolatura, che forma il sacco esterno, fa a livello della punta del
cuore. Questo è il motivo per il quale i muscoli papillari sono gli ultimi a contrarsi, impedendo così che la forte
pressione di sangue nei ventricoli ribalti le cuspidi atrioventricolari.
Il ritmo cardiaco è stabilito dal nodo senoatriale, ma può essere modificato da alcuni fattori, come l’attività fisica; il
sistema nervoso autonomo è in grado di influenzare la frequenza cardiaca. Il ritmo sinusale (ritmo normale)
nell’uomo corrisponde a circa 70 battiti al minuto. Il cuore, anche se è dotato di autoritmicità, riceve
continuamente segnali dal sistema nervoso, che gli permettono di adattare il suo lavoro e potenza a quelle che
sono le richieste variabili a cui il nostro organismo deve far fronte. Quindi il sistema nervoso autonomo non
innesca il battito, ma modula il ritmo del battito, adattandolo alle richieste dell’organismo; la frequenza cardiaca
può essere accelerata per opera del sistema nervoso simpatico, che determina una condizione di tachicardia,
oppure può rallentare e a questo è deputato il sistema nervoso parasimpatico, determinando la bradicardia.

I vasi sanguigni
I vasi sanguigni costituiscono un circuito chiuso in cui il sangue viene spinto dall’attività del cuore. I vasi formano
un’enorme rete di distribuzione, che coprirebbe all’incirca 96 mila chilometri, e sono una struttura dinamica,
perché si dilatano, si contraggono, pulsano per adattarsi ai bisogni del nostro corpo. Esistono tre principali tipi di
vasi: arterie, vene e capillari. Le arterie per definizione sono i vasi che portano il sangue dal cuore alla periferia; il
sangue scorre in direzione centrifuga. Le arterie via via si riducono di calibro e si ramificano, fino a quando
all’interno degli organi, andranno a risolversi in vasi estremamente sottili, ovvero i capillari. La parete
estremamente sottile dei capillari è ideale per gli scambi nutritizi con le cellule di tutti i tessuti. Dai capillari si
formano le vene che sono, per definizione, i vasi in cui il sangue viaggia in direzione centripeta, ovvero dalla
periferia verso il cuore; quindi le vene sono vasi che si formano per confluenza di vasi più piccoli e che diventano
sempre più grandi fino ad arrivare al cuore. Esistono anche dei vasi intermedi rappresentati dalle arteriole e dalle
venule; le prime sono i vasi che si trovano interposti tra arterie e capillari, mentre le venule richiamano il sangue
dai capillari, poiché sono interposte tra questi e le vene.

I vasi sanguigni sono formati da tre strati


sovrapposti: tonaca intima, media e avventizia. La
tonaca intima è la più interna ed è formata da
endotelio, che poggia sul sottostante strato
sottoendoteliale e che si continua con
l’endocardio.
La tonaca media è formata da tessuto muscolare
liscio, le cui fibrocellule si dispongono in maniera
circolare intorno al lume del vaso; in questo
modo, quando queste fibre si contraggono, si ha
una riduzione del calibro del vaso
(vasocostrizione), mentre quando si rilasciano, il
diametro vasale aumenta (vasodilatazione). Per
questo motivo le fibrocellule dei vasi si
definiscono anche fibre vasomotorie. L’attività
della tonaca media è molto importante per
regolare la dinamica del sistema circolatorio; in genere la tonaca media è lo strato più spesso nelle arterie, perché
è quella responsabile della pressione sanguigna e di un flusso costante e continuo di sangue. La tonaca avventizia
è lo strato più esterno, anch’esso piuttosto spesso ed è costituito di fibre collagene e in parte elastiche; queste
fibre collagene hanno il compito di ancorare i vasi ai tessuti circostanti. Nelle vene questo strato è particolarmente
rappresentato ed è più spesso rispetto alla tonaca media. La tonaca avventizia può essa stessa contenere fibre
nervose, vasi linfatici e nei vasi più grandi anche un sistema proprio di piccoli vasi sanguigni, detti vasa vasorum
(letteralmente vasi dei vasi), ovvero piccolissimi vasi propri che portano ossigeni e nutrimenti ai tessuti più esterni
dei vasi sanguigni.
I capillari sono formati solamente da un sottile strato di cellule endoteliali.

Le arterie sono i vasi che portano il sangue dal cuore ai capillari, quindi verso la periferia, a prescindere che il
sangue sia più o meno ricco di ossigeno o anidride carbonica. La loro caratteristica è quella di dover sopportare
pressioni molto alte, determinate dalla grossa spinta sistolica, per cui devono presentare uno strato muscolare
molto sviluppato; la tonaca media può quindi essere costituita da moltissimi strati di muscolatura liscia. Le arterie
presentano anche una membrana elastica posta tra tonaca intima e media, e un’altra lamina elastica tra tonaca
media ed avventizia. Il lume delle arterie è più piccolo rispetto a quello della vena satellite (si usa questo termine
per vene e arterie che scorrono una di fianco all’altra). Le arterie contengono, nelle loro tonache, anche una
maggior quantità di fibre elastiche e collagene e questo fa sì che le pareti arteriose risultino sempre pervie e che
quindi possano anche sopportare elasticamente gli sbalzi di pressione, riprendendo le loro dimensioni originarie
dopo essersi espanse.
Le vene invece raccolgono il sangue refluo, che ha viaggiato per i vari distretti, e lo riportano al cuore, dovendo
sopportare un minore carico pressorio rispetto alle arterie; questo si traduce nel fatto di presentare una tonaca
media più sottile. La tonaca intima nelle arterie è liscia, mentre nelle vene presenta delle valvole a nido di rondine
e questo fa sì che sia mantenuto il flusso sanguigno in una sola direzione. La tonaca avventizia è più spessa nelle
vene. Col diminuire del diametro di questi vasi, anche lo spessore della parete in toto diminuisce, tanto che a livello
dei capillari la parete è sostituita semplicemente da endotelio. Dal punto di vista funzionale questo è molto
importante, perché è proprio nei capillari che si possono realizzare gli scambi di gas e nutrienti tra il plasma
sanguigno e il liquido interstiziale dei tessuti circostanti.

L’alta pressione nelle arterie condiziona la stessa


struttura dei vasi arteriosi, che quindi presentano
una parete molto elastica e resistente. Man mano
che le arterie si allontanano dal cuore modificano la
loro struttura, passando da arterie elastiche, ad
arterie muscolari, ad arteriole fino a diventare
capillari. Le arterie elastiche sono quelle di calibro
maggiore, il cui diametro è anche superiore al
centimetro e sono dette anche arterie di
conduzione, perché trasportano grandi quantità di
sangue lontano dal cuore e lo conducono verso
arterie di calibro inferiore. Queste grosse arterie
sono quelle che si trovano in vicinanza del cuore,
come l’arteria polmonare, l’aorta e i rami principali
che si staccano da essa, come la suclavia, la carotide
e le arterie iliache. Le pareti di queste arterie,
rispetto al loro diametro, non sono così spesse, ma
sono molto resistenti; di fatti queste arterie sono dette elastiche perché nella loro parete ci sono molte fibre
elastiche, quindi si ha un minor numero di fibrocellule muscolari lisce. Questa costituzione è quella che fa sì che
possano più facilmente dilatarsi quando arriva il sangue proveniente dai ventricoli, sopportando così la grande
pressione della sistole.
Allontanandosi un po’ dal cuore si trovano le arterie muscolari, dette anche arterie di distribuzione perché sono
quelle che distribuiscono il sangue ai muscoli e agli organi interni. Sono più piccole rispetto alle arterie elastiche,
me presentano una tonaca media più spessa, quindi con un abbondante presenza di strati di fibre muscolari lisce.
Esempio di arterie muscolari è una delle diramazioni della carotide, quindi la carotide esterna, ma anche le arterie
brachiali, femorali, mesenteriche, ecc. Presentano meno fibre elastiche, quindi sono meno distendibili, ma hanno
maggior capacità di vasocostringersi e vasodilatarsi, in rapporto alle reali esigenze dell’organo che stanno
vascolarizzando. Per questo si può dire che le arterie muscolari sono di tipo distrettuale, cioè vanno a raggiungere i
diversi distretti corporei. Queste arterei sono quelle che poi, ramificandosi, vanno a costituire le arteriole, ovvero
vasi intermedi interposti tra le arterie e i capillari, hanno un diametro decisamente inferiore, intorno ai 30 µm, e
vanno a controllare il flusso di sangue tra arterie e capillari. La parete è formata da endotelio all’interno, circondato
da una tonaca media incompleta, formata da pochissimi strati di cellule muscolari. L’innervazione da parte del
sistema nervoso autonomo di questi vasi induce la contrazione delle cellule muscolari, determinando
vasocostrizione o vasodilatazione, a seconda che l’innervazione sia di tipo simpatico o parasimpatico. Le arterie
elastiche, muscolari e le arteriole si susseguono, quindi ci sarà un cambiamento graduale della parete dei vasi, non
è una cosa netta.
La parete delle vene è più sottile rispetto alle arterie satelliti, perché sopportano un carico pressorio minore. Si
classificano in base alle loro dimensioni in vene di grande, medio e piccolo calibro. Le venule sono più sottili delle
arteriole satelliti e mancano di tonaca media, quindi presentano solo la tonaca intima e avventizia. In sequenza le
vene si presentano come capillari, poi venule, poi vene di piccolo, medio e alla fine grande calibro. Queste ultime
sono rappresentate dalle due vene cave e presentano una tonaca media un po’ più spessa rispetto alle vene di
medio calibro e sono circondate da una spessa tonaca avventizia. Le vene di grande calibro sono satelliti delle
arterie elastiche, mentre le vene di medio calibro decorrono parallelamente alle arterie muscolari. I capillari hanno
un diametro di circa 8 µm, sono i vasi che connettono tra di loro arteriole e venule e rendono possibili gli scambi a
livello periferico; questo grazie alle pareti molto sottili formate dalle sole cellule endoteliali, che poggiano su una
sottile lamina basale.

I capillari vanno a formare i cosiddetti letti capillari; dall’arteriola parte


un vaso che si chiama metarteriola, da cui si diramano i capillari che
vanno appunto a formare un letto. Nel punto in cui si stacca il capillare
è presente un anello di muscolatura liscia che va a costituire lo sfintere
precapillare, che regola il flusso sanguigno all’interno dei capillari.
Quando è necessario che al tessuto arrivino ossigeno e nutrimenti vari,
gli sfinteri sono rilasciati e il sangue fluisce all’interno dei capillari;
quando non c’è bisogno di massivo apporto di ossigeno al tessuto, gli
sfinteri tendono a chiudersi, quindi il sangue passa direttamente nelle
venule post capillari attraverso un canale preferenziale.

I capillari possono essere


essenzialmente di tre tipi:
capillari continui, fenestrati e
sinusoidi. I capillari continui sono
i più comuni e le cellule
endoteliali sono connesse fra loro
a formare un rivestimento
completo; il passaggio di
materiale avviene attraverso le cellule endoteliali stesse o attraverso le fessure intercellulari. Si trovano nel tessuto
muscolare, nella pelle, nei polmoni, ecc. I capillari fenestrati presentano delle specie di pori, ma la membrana
basale è comunque continua; questa situazione permette uno scambio più rapido di acqua e soluti tra il sangue e il
tessuto. Si trovano a livello renale, nell’intestino e in alcune ghiandole endocrine. I capillari sinusoidi hanno una
parete ampiamente incompleta, ci sono vere e proprio aperture anche nella membrana basale e per questo
tendono ad appiattirsi. Di solito hanno un lume più ampio e la presenza di queste ampie fenestrature consente di
far passare più facilmente materiali di grandi dimensioni, come cellule o proteine. Questi capillari sinusoidi si
trovano a livello del midollo osseo e nel fegato.
Il sangue che deve circolare nelle vene deve
viaggiare in direzione centripeta e il ritorno
venoso è influenzato da alcuni fattori: la
funzione di pompa causata dagli atti respiratori
e la contrazione muscolare. La contrazione del
muscolo va a comprimere le vene e la
compressione spinge il sangue verso il cuore,
fungendo da vera e propria pompa (pompa
muscolare scheletrica). A livello della gamba la
pressione sanguigna è molto bassa e la forza di
gravità tende a far defluire il sangue verso il basso, opponendosi al ritorno venoso; per questa ragione a livello
dell’endotelio sono presenti delle valvole strutturate in maniera simile alle valvole semilunari del cuore. Queste
valvole impediscono il reflusso di sangue verso il basso grazie alla loro concavità rivolta in direzione del cuore. Le
valvole al di sotto del punto del punto di compressione muscolare si chiudono grazie alla loro forma a coppetta,
così da impedire il reflusso verso il baso e costringendolo a salire aprendo le valvole più in alto. Quando i muscoli
sono molto attivi, il sangue sarà pompato molto più efficacemente verso il cuore, mentre lo stare fermi, seduti o
sdraiati molte ore, tende a far formare un ristagno di sangue; per questo motivo le gambe e i piedi possono
risultare gonfi, proprio a causa della mancanza di spremitura da
parte dei muscoli. La mancanza di attività fisica e l’invecchiamento
fanno sì che si possa avere una perdita di elasticità della parete
delle vene, soprattutto per quelle superficiali degli arti. Questa
perdita di elasticità causa le cosiddette vene varicose, ovvero
vene con un decorso sinuoso a S, e anche le valvole subiscono uno
sfiancamento che non gli permette di chiudersi bene, causando un
flusso retrogrado, che comporta una dilatazione ulteriore delle
vene, rendendole tortuose. Il termine varicoso indica appunto l’andamento a S, ma vuol dire anche gonfio, quindi
le vene sono rigonfie di sangue. Questa condizione è tipica delle vene superficiali, perché sono meno circondate da
strutture di sostegno, quindi da muscoli. Ne soffrono persone costrette a stare in piedi per molto tempo, donne in
gravidanza e soggetti obesi; anche la predisposizione genetica
può fare la sua parte, ad esempio si può avere la tendenza di
avere una minore elasticità delle pareti vasali. Una possibilità
per trattare le vene varicose è quella di sostenerle dall’esterno;
infatti, spesso viene consigliato di usare le calze elastiche, che
vanno a mimare l’azione dei muscoli per ridurre il ristagno di
sangue; un altro modo per prevenire questo problema è
sicuramente quello di condurre uno stile di vita attivo, che
favorisce il ritorno del sangue in direzione del cuore, ma anche
avere un corretto stile alimentare.

Come abbiamo già visto, i vasi sanguigni danno origine a due circuiti distinti: grade circolazione e piccola
circolazione. La prima si origina dal ventricolo sinistro, da cui parte l’aorta, che è il grosso vaso che si ramifica e che
distribuisce il sangue ossigenato in tutto il corpo; a livello periferico, dal sistema venoso si formano le due vene
cave, che terminano nell’atrio destro. Del grande circolo fa parte anche il seno coronario. La piccola circolazione
comincia dal ventricolo destro con il tronco polmonare, che si divide nelle due arterie polmonari destra e sinistra
che si portano ai due polmoni; qui si risolvono in una rete di capillari, dove avvengono gli scambi gassosi, e che
confluiscono poi in vene via via sempre più grandi finché non si formano le quattro vene polmonari che
confluiscono nell’atrio sinistro del cuore, portando sangue arterioso.

Le arterie sono condotti di colore bianco-roseo, originano sempre dai ventricoli e suddividendosi il loro diametro
decresce verso la periferia. Sono vasi che pulsano in sincronia con il cuore, per cui quando vengono recise tendono
a sanguinare zampillando; sono sottoposte a grandi livelli di pressione, ma questa è più bassa nel piccolo circolo
rispetto al grande circolo. Le arterie viaggiano in sede profonda all’interno delle logge muscolari e sono affiancate
dalle vene satelliti; a volte arterie e vene satelliti, insieme ai nervi, possono trovarsi all’interno di una guaina
connettivale comune e andare a costituire i cosiddetti fasci vascolonervosi. Uno dei più importanti è quello che
passa a livello del collo e che oltre alla carotide e alla giugulare, contiene anche il nervo vago. Solitamente per
portarsi nei diversi organi, le arterie tendono a seguire il percorso più breve, per cui ad avere un andamento
piuttosto rettilineo. Ogni arteria può emettere dei rami detti collaterali, che si staccano dal tronco principale
formando di solito un angolo acuto; invece, all’estremità, un’arteria può continuare o direttamente in un’altra
arteria a pieno canale, cambiando il nome, oppure può risolversi in uno o più rami terminali. Ogni arteria
attraverso i rami collaterali e terminali va a vascolarizzare una ben definita zona del corpo umano, chiamato
territorio di distribuzione.
Esistono importanti sistemi di comunicazione tra arterie diverse, ovvero le anastomosi e sono importanti dal punto
di vista funzionale e clinico. Un esempio è quello del circolo di Willis, che si trova alla base dell’encefalo e che è una
specie di anello formato dalle anastomosi di alcune arterie, in particolare le due carotidi interne e le due arterie
vertebrali; queste anastomosi consentono di costituire un dispositivo anatomico in grado di distribuire il sangue al
cervello ad una pressione costante. I tratti anastomotici che uniscono le diverse arterie formano, in alcuni casi,
delle vere e proprie arcate anastomotiche; ad esempio, nella mano è presente un’arcata anastomotica che si forma
a partire da due arterie presenti nell’avambraccio (arteria radiale e ulnare), per cui se una di queste due arterie
dovesse occludersi, il sangue potrebbe fluire comunque a livello delle dita perché l’altra arteria può fare
rifornimento di sangue. Questi dispositivi anastomotici servono a fornire
delle vie alternative di vascolarizzazione e quindi permettono di irrorare
in maniera costante un certo territorio, anche quando si dovesse
verificare la compressione dell’arteria che vi porta il sangue. Anche
durante la contrazione dei muscoli si possono verificare delle piccole
contrazioni meccaniche, che potrebbero andare a chiudere parzialmente
un vaso e quindi a ridurre il flusso di sangue, ma grazie alla presenza
delle anastomosi si crea un circolo collaterale per cui il sangue può
circolare. Si ha una situazione di supplenza vascolare, cioè un’altra
arteria va a supplire alla mancanza di flusso dovuta alla occlusione
dell’altra. Ci sono diversi tipi di anastomosi, ad esempio con rami
trasversali (a), per convergenza (b), con arcate semplici (c) o multiple (d),
oppure formando delle reti (e).

Arterie
L’aorta si origina dal ventricolo sinistro e ha un percorso prima
ascendente, poi compie un arco con cui si porta indietro e a
sinistra; questo è l’arco aortico, dopo il quale si pone lateralmente
alla colonna vertebrale, verso sinistra, e si porta verso il basso per
continuare con un tratto discendente. L’aorta discendente
incontra il diaframma, lo perfora e si porta nella cavità
addominale; l’aorta addominale poi si separa nei due grossi rami
terminali, cioè le arterie iliache comuni destra e sinistra, che si
portano verso gli arti inferiori.
Quindi i tratti dell’aorta sono l’aorta ascendente, di circa cinque
centimetri, che ha origine a livello dell’orifizio aortico del
ventricolo sinistro, poi a livello della seconda cartilagine costale
compie l’arco aortico con concavità inferiore, che si porta indietro
e a sinistra, continuando con l’aorta discendente che affianca il
lato sinistro della colonna vertebrale. L’aorta discendente è
distinta in due tratti, l’aorta toracica che decorre all’interno del
torace, nel mediastino posteriore, poi si incunea nell’orifizio
aortico del diaframma e diventa aorta addominale.
L’aorta ascendente ha due rami collaterali, ovvero le arterie coronarie, che vascolarizzano la parete cardiaca, ed è
contenuta in parte nel sacco pericardico.

All’aorta ascendente fa seguito l’arco dell’aorta,


che si porta dapprima indietro verso sinistra, poi
disegna una curva a concavità inferiore che va a
circondare il peduncolo di sinistra. Dalla
convessità dell’arco aortico, originano a partire
da destra verso sinistra, alcuni rami. Da destra
troviamo il tronco brachiocefalico o arteria
anonima, che porta il sangue alla testa e all’arto
superiore destro, poi c’è l’arteria carotide
comune sinistra, che irrora la testa e l’arteria
succlavia di sinistra che fornisce il sangue all’arto
superiore sinistro. Il tronco brachiocefalico si
porta obliquamente in alto verso destra e si
divide in due rami, cioè l’arteria carotide comune destra per la testa e l’arteria succlavia destra per l’arto superiore
destro, questi sono rami terminali, che come le arterie omonime dell’arto sinistro, vanno alla testa, al collo e
all’arto superiore. L’arco aortico prosegue a livello di T4 continua come aorta discendente.

Le arterie carotidi comuni risalgono nel


collo fino all’altezza del margine
superiore della cartilagine tiroidea della
laringe. Ciascuna carotide a questo livello
si divide in una carotide esterna e
interna. Quella esterna va ad irrorare la
superficie esterna del cranio, la faccia e il
collo; quella interna irrora organi che si
trovano all’interno della cavità cranica e
delle cavità orbitarie. La carotide esterna
ha una serie di rami collaterali, come l’arteria tiroidea superiore, l’arteria linguale, l’arteria facciale e l’arteria
occipitale; i rami terminali della carotide esterna sono rappresentati dall’arteria temporale superficiale e
dall’arteria mascellare. La carotide interna nel collo non dà
rami collaterali, ma entra nella scatola cranica, si porta
all’encefalo e agli organi della vista e qui si divide in rami
collaterali; i rami terminali della carotide interna sono
rappresentati dall’arteria comunicante posteriore e dalle
arterie cerebrali media e anteriore. Questi ultimi vasi
entrano a far parte del circolo arterioso di Willis: le ossa
della base cranica, che si incastrano tra loro a sostenere il
cervello, raccolgono questo intricato sistema di vasi
sanguigni grazie al quale i tessuti nervosi possono essere
ossigenati e nutriti. Quindi il circolo o poligono del Willis è
un circolo intracranico e deve il suo nome a un medico
inglese, Thomas Willis, che lo studiò per la prima volta.
Tutto l’encefalo viene quindi vascolarizzato dalle arterie
carotidi interne e dalle arterie vertebrali (rami delle arterie
succlavie), che si anastomizzano tra loro a livello della base
dell’encefalo e vanno a costituire questo circolo, che quindi
costituisce un dispositivo anastomotico che consente il regolare e costante passaggio di sangue a pressione
costante verso tutte le aree dell’encefalo. Il circolo di Willis è una struttura dotata di grande simmetria, ma che
presenta anche un certo grado di variabilità tra diversi individui. Come abbiamo detto per quanto riguarda i sistemi
anastomotici, anche in questo caso, se per qualche ragione l’apporto di sangue proveniente da una delle due
carotidi non sia sufficiente, il sangue proveniente dall’altra sarà in grado di garantire l’irrorazione di quella parte
dove altrimenti rischierebbe di avviarsi un processo ischemico (insufficiente flusso di sangue). Il cervello è un
organo molto vulnerabile a disturbi legati al rifornimento di sangue; condizioni di ipossia o di ischemia, che durino
anche pochi secondi, sono in grado di causare sintomi neurologici importanti e se durano diversi minuti causano
danni neuronali irreversibili. Per questo motivo il flusso di sangue dev’essere in grado di portare in maniera
efficacie l’ossigeno, il glucosio e tutti gli altri elementi nutrizionali al sistema nervoso centrale, rimuovendo
l’anidride carbonica e i prodotti del metabolismo. Per cui i vasi cerebrali hanno queste caratteristiche anatomiche
uniche, proprio perché servono a proteggere il più possibile il cervello da problemi di natura circolatoria; quando
anche questi meccanismo protettivi falliscono, si avrà come risultato l’ictus, che si riferisce ad una serie di sintomi o
segni neurologici derivanti da problemi che coinvolgono i vasi sanguigni. Il rifornimento di sangue al cervello può
essere diviso in due territori arteriosi, cioè il sistema nervoso centrale riceve sangue arterioso da due circoli
relativamente indipendenti, ovvero un circolo anteriore formato dalle due arterie carotidi interne, e un circolo
posteriore che origina dalle due arterie vertebrali.

Le arterie vertebrali passano attraverso tutti i forami trasversali delle vertebre cervicali, per entrare all’interno
della cavità cranica. Le due arterie vertebrali si uniscono poi a livello della giunzione tra il volvo e il ponte (due
porzioni del tronco encefalico) e formano l’arteria o tronco basilare; questa si divide poi nelle due arterie cerebrali
posteriori.

Questa interconnessione tra vasi sanguigni protegge il cervello quando parte del rifornimento può essere bloccata.
Purtroppo, soltanto parte della circolazione cerebrale è dotata di anastomosi e di conseguenza gran parte del
cervello rimane vascolarizzata dai rami terminali.

Il circolo di Willis è una delle principali anastomosi arteriose e si basa sull’esistenza di arterie comunicanti. Esiste
un’arteria comunicante anteriore, che mette in comunicazione le arterie cerebrali anteriore, mentre da ciascuna
delle carotidi interne si diparte un’arteria comunicante posteriore, che si anastomizza con l’arteria cerebrale
posteriore dello stesso lato, mettendo così in comunicazione il circolo anteriore con quello posteriore dello stesso
lato.

Le arterie succlavie, che quella destra si stacca dal


tronco brachiocefalico e quella sinistra si stacca
direttamente dall’arco, passano al di sopra dell’apice
dei polmoni trovandosi dietro al muscolo scaleno
anteriore, o meglio tra scaleno anteriore e medio. Poi si
incuneano e passano nello spazio posto tra la clavicola
e la prima costa, da cui appunto prendono il nome
succlavia (subclavicola). Infine, continuano a pieno
canale come arteria ascellare. L’arteria succlavia è il
vaso che si porta nell’arto superiore e lo vascolarizza.
Da essa si staccano alcuni vasi collaterali che si portano
alla testa, al collo e alla parte superiore del torace.

L’arteria vertebrale è un vaso collaterale della succlavia e va a percorrere


tutti i forami trasversali delle vertebre cervicali, incuneandosi come una
specie di nastro, per poi entrare nella cavità cranica.

Questa è la sezione frontale del rachide cervicale in visione anteriore e si può


notare il percorso delle arterie vertebrali, che quindi decorrono lateralmente
ai corpi cervicali, all’interno dei forami trasversali.
L’arteria succlavia continua poi con l’arteria ascellare, che
decorre dal margine laterale della prima costa fino al
margine inferiore del muscolo grande pettorale, dove
termina continuando come arteria brachiale. L’arteria
ascellare emette dei rami collaterali, che si portano al
torace e alla spalla.

L’arteria brachiale è la principale arteria del braccio e si


estende dal margine inferiore del grande pettorale, fino alla
piega del gomito, dove si divide nelle arterie radiale e ulnare.
L’arteria brachiale decorre medialmente all’omero
(nell’immagine è tratteggiato), accompagnata dalle due vene
omonime.

L’arteria radiale e l’arteria ulnare decorrono nell’avambraccio. L’arteria radiale


corrisponde al ramo di biforcazione laterale, fino al processo stiloideo del radio;
l’arteria ulnare è il ramo di biforcazione mediale, quindi decorre sul lato interno.
Le arterie radiale e ulnare vascolarizzano l’avambraccio e la mano, infatti a livello
del polso, queste due arterie si anastomizzano formando due arcate palmari, una
più superficiale e una più profonda, che forniscono sangue al palmo della mano;
formano anche un’arcata dorsale. Da queste arcate si formano le arterie digitali
dorsali e palmari, che raggiungono il metacarpo.
All’arco dell’aorta fa seguito l’aorta discendente, che comprende un tratto toracico e uno addominale. L’aorta
toracica decorre nel mediastino posteriore e termina a livello dell’orifizio aortico del diaframma, circa a livello della
dodicesima vertebra toracica, dove prosegue come aorta addominale. L’aorta addominale rappresenta l’ultimo
tratto dell’aorta discendente, comincia a livello dell’orifizio aortico del diaframma e scende davanti alle prime
vertebre lombari, per terminare a livello di L4 (quarta vertebra lombare), leggermente spostata a sinistra rispetto
alla linea mediana. A livello di L4 l’aorta addominale si divide in due grossi rami collaterali che sono le due grosse
arterie iliache comuni, le quali si portano ognuna in un arto inferiore, vascolarizzando quindi le pareti pelviche, i
visceri in esse contenute e tutti gli arti inferiori. Il ramo
terminale è l’arteria sacrale mediana, ovvero un vaso più
piccolo che si trova centralmente.

I rami che si staccano dall’aorta toracica sono di due


categorie: ci sono i rami viscerali (in immagine indicati con i
riquadri rossi) che si portano a vascolarizzare gli organi del
torace, e i rami parietali (riquadri verdi) che vascolarizzano
le pareti toraciche. I rami viscerali sono le arterie bronchiali,
ovvero i vasi nutritizi per i polmoni, le arterie pericardiche e
le arterie esofagee. I rami parietali comprendono le arterie
intercostali, che decorrono negli spazi intercostali
accompagnate dalle vene omonime e dal nervo intercostale,
e le arterie freniche superiori, che vascolarizzano la faccia
superiore del diaframma.
Anche l’aorta addominale emette rami viscerali e parietali.
Tra i rami viscerali ci sono i vasi che irrorano gli organi
dell’apparato digerente e la milza, come il tronco celiaco,
l’arteria mesenterica superiore, quella inferiore, poi ci sono
le arterie surrenali, le arterie renali e le arterie genitali. Tra i
rami parietali ci sono le arterie freniche inferiori, che si portano alla faccia inferiore del diaframma e le arterie
lombari, che ricordano le arterie intercostali ma nella parete addominale e che irrorano i muscoli addominali, le
vertebre e il midollo spinale.

Il tronco celiaco o tripode celiaco (si divide in tre


grossi rami) è un grosso ramo impari, perché si
stacca in maniera unitaria dalla faccia anteriore
dell’aorta addominale, e va a portare sangue allo
stomaco, al duodeno, al fegato, al pancreas, alla
milza e all’estremità inferiore dell’esofago. Il
tronco celiaco si tripartisce costituendo tre rami di
divisione, che sono l’arteria gastrica sinistra,
l’arteria epatica comune e l’arteria lienale, detta
anche splenica. L’arteria gastrica sinistra, oltre a
emettere due o tre arterie esofagee per il tratto
addominale dell’esofago, si porta verso la piccola
curvatura dello stomaco, dove si anastomizza con
l’arteria gastrica destra, che è un ramo dell’arteria
epatica. L’arteria epatica comune decorre verso destra, dà rami come l’arteria gastroduodenale, e continua verso il
fegato come arteria epatica propria.
L’arteria lienale è il più grosso dei tre vasi, ha un decorso orizzontale verso l’ilo della milza, ha un andamento
serpiginoso ed è adagiata sul margine superiore del pancreas (dietro lo stomaco). L’arteria lienale emette molti
rami per il corpo e la coda del pancreas ed emette una serie di arterie gastriche brevi.
L’arteria mesenterica superiore origina anch’essa
come ramo impari dall’aorta addominale, circa due
centimetri sotto al tronco celiaco, dando rami per il
pancreas, per il duodeno, per l’intestino tenue e per
gran parte dell’intestino crasso, il colon ascendente e
il colon trasverso in particolare per la metà destra.

L’arteria mesenterica inferiore è il ramo impari che si


stacca dall’aorta addominale, che si trova più in basso,
originando circa quattro centimetri al di sopra della
parte finale dell’aorta addominale. L’arteria
mesenterica inferiore porta sangue al colon
discendente e all’intestino retto.

Il tronco celiaco si stacca dall’aorta all’altezza di T12,


l’arteria mesenterica superiore si stacca a livello di L1
e la mesenterica inferiore a livello di L3. Tra arteria
mesenterica inferiore e superiore si staccano anche
due rami pari, ovvero le arterie renali, a livello di L1
L2, per andare a raggiungere l’ilo renale e distribuirsi
all’interno del rene.

Le arterie surrenali irrorano i surreni. Le arterie genitali, destinate alle gonadi (testicoli e ovaie), quindi nel maschio
prendono il nome di arterie testicolari e nella femmina di arterie ovariche.

A livello di L4 originano dall’aorta due grossi vasi


collaterali, che sono le arterie iliache comuni destra e
sinistra, che si portano in basso e in fuori fino a
raggiungere l’articolazione sacro-iliaca. A questo livello
ogni arteria iliaca comune si divide in un’arteria iliaca
più esterna e una più interna, detta anche ipogastrica.
L’arteria interna è quella che quindi rappresenta il
ramo mediale di biforcazione dell’iliaca comune, che si
porta all’interno della pelvica, dando dei rami per i
visceri contenuti nelle pelvi, come la vescica, l’utero, la
vagina e gli organi dell’apparato genitale maschile; dà
anche rami per le pareti della pelvi, per il perineo e per
i genitali esterni.
L’arteria iliaca esterna è il ramo laterale di biforcazione
della iliaca comune. Si porta al di sotto del legamento
inguinale, venendosi così a trovare a livello della
coscia, dove continua nell’arto inferiore come arteria
femorale. L’arteria iliaca esterna rappresenta quindi il
tronco arterioso principale responsabile dell’irrorazione dell’arto inferiore.
Pertanto, la vascolarizzazione arteriosa dell’arto inferiore origina
dall’arteria iliaca esterna, che entrando nella coscia prende il nome di
arteria femorale, che decorre nella regione antero-mediale della coscia, al
di sotto del muscolo sartorio e appoggiata sul muscolo adduttore lungo.
Termina nel canale degli adduttori. Questa arteria femorale decorre in
quello che viene definito triangolo femorale di Scarpa, cioè una regione di
forma triangolare situata nella parte superiore della coscia, con un apice
inferiore; questa regione è delimitata in alto dal legamento inguinale,
lateralmente dal sartorio e medialmente dall’adduttore lungo. L’arteria
femorale da numerosi rami collaterali per il femore, per i muscoli, per la
cute della coscia e per i genitali esterni. Scende nella regione
anteromediale della coscia secondo una linea che idealmente unisce il
punto di mezzo del legamento inguinale, alla parte posteriore del condilo
mediale del femore.

Poi si porta posteriormente al ginocchio, nella regione poplitea, dove diventa


arteria poplitea, che comincia a livello del canale degli adduttori, fino all’arcata
tendinea del muscolo soleo. Da qui originano poi due arterie tibiali, una
anteriore e una posteriore, e un ramo dell’arteria tibiale posteriore è l’arteria
peroniera.

Dopo aver rifornito di sangue le ossa, i muscoli e la cute della gamba, le


arterie tibiali e peroniera si portano al dorso e alla pianta del piede,
formando un’arcata plantare e una dorsale del piede. L’arteria tibiale
anteriore supera la membrana inter-ossea, che si trova frapposta tra tibia e
perone, per poi passare nella loggia anteriore della gamba, dove scende
fino al legamento crociato della gamba, diventando arteria dorsale del
piede.
L’arteria tibiale posteriore scende dietro la tibia e termina a livello del
calcagno, dividendosi nelle arterie plantari mediale e laterale. Quindi
nel piede la vascolarizzazione è fornita dalle arcate arteriose che
assicurano un’uniforme distribuzione di sangue alle dita e
all’avampiede, con una situazione analoga a quella che si realizza nella
mano. Nel piede esiste una sola vera arcata arteriosa anastomotica,
ovvero l’arcata plantare, in quanto quella dorsale spesso è incompleta.

Con il termine arteriosclerosi si identifica una malattia


progressiva delle arterie elastiche muscolari, che è
caratterizzata da ispessimento e irrigidimento della parete
arteriosa. L’ispessimento è dovuto alla formazione di un
ateroma o placca ateromatosa a livello della tonaca intima, in
posizione sub intimale, che determina un restringimento del
lume dell’arteria. Gli effetti possono essere diversi, ad esempio,
l’arteriosclerosi dei vasi coronarici è responsabile della
coronaropatia, ovvero di problemi a carico delle arterie
coronarie; l’arteriosclerosi dei vasi che nutrono l’encefalo può
insitare in un ictus. L’arteriosclerosi si associa a un danno del rivestimento endoteliale, per cui si ha la formazione
di depositi lipidici; uno dei principali fattori responsabili è la quantità di lipidi presenti nel sangue, in particolare
colesterolo. Si possono formare delle placche aterosclerotiche, che sono degli ammassi di tessuto adiposo che si
spingono verso il lume del vaso andandolo a restringere. Queste placche iniziano a svilupparsi durante la vita
adulta e man mano tendono ad accrescersi es espandersi con l’età, di norma non si è consapevoli della presenza di
placche fino a quando queste non raggiungono dimensioni tali da limitare il flusso di sangue all’interno dell’arteria
e quindi determinando le complicanze vascolari. Ci sono dei fattori che aumentano il rischio di danno vascolare,
come il fumo e l’ipertensione; i maschi di norma sono più colpiti rispetto alle femmine. Quando un’arteria è
occlusa si può ricorrere all’angioplastica, in cui viene inserito un catetere munito di palloncino all’interno di
un’arteria, che viene posizionato in corrispondenza del restringimento del lume; il palloncino viene poi gonfiato,
viene dilatata l’area dove si trova il restringimento, il palloncino viene poi sgonfiato e il catetere estratto. Nel
frattempo, per assicurare la pervietà del vaso, si posizionano degli stent, ovvero dispositivi cilindrici formati da
delle maglie, che servono a mantenere pervio il lume del vaso e che diventano parte permanente del vaso stesso.
Nel caso di occlusione delle vene coronarie, è necessario ricorrere ad un trattamento più invasivo, ovvero il bypass
coronario: viene prelevato il segmento di una vena o di un’arteria, viene innestato tra l’aorta e il sistema
coronarico, bypassando l’area soggetta al restringimento aterosclerotico.
Vene
Le vene sono i vasi che devono raccogliere il sangue che ha circolato nei tessuti periferici e che lo devono riportare
al cuore. le vene hanno pareti più sottili rispetto alle arterie satelliti, perché devono sopportare un carico pressorio
inferiore; solitamente hanno un diametro maggiore rispetto alle arterie corrispondenti. Le vene sono vasi che
originano dalle reti capillari dei tessuti e degli organi, procedendo in direzione centripeta e andando a confluire via
via in condotti di calibro crescente. Il fatto che le arterie e le vene decorrono affiancate l’una all’altra, fa sì che le
arterie che pulsano in sincronia con il cuore, trasmettano la loro stessa pulsazione anche alle vene satelliti,
facilitando il ritorno venoso. Siccome i vasi decorrono in vicinanza dei muscoli, la stessa attività muscolare sarà in
grado di favorire il ritorno venoso, mentre il fatto di stare fermi in stazione eretta lo ostacola. Le vene hanno una
forma cilindrica, ma quando sono vuote di sangue, contrariamente alle arterie, possono appiattirsi, collabire, cioè
afflosciarsi (le arterie sono sempre beanti, aperte). Le vene presentano delle valvole, simili a quelle cardiache, e
rispetto alle arterie sono anche più numerose. In molti distretti, come negli arti, per ogni arteria si trovano due
vene satelliti, che accompagnano un vaso arterioso. La maggior parte delle vene, specialmente quelle in cui il
sangue scorre in senso contrario alla gravità, presentano delle valvole, simili a quelle semilunari presenti a livello
dell’aorta e del tronco polmonare, che con la loro concavità sono rivolte in direzione del cuore. la distribuzione di
queste valvole non è regolare ed uniforme, ma soddisfa precise esigenze funzionali, infatti sono più numerose in
quei distretti dove il deflusso di sangue è più difficoltoso, come nelle vene degli arti inferiori. Il ritorno venoso al
cuore è quindi determinato da tre fattori: il primo è dato dall’apertura e chiusura delle valvole venose, il secondo è
dato dal fatto che le arterie e le vene viaggiano in coppia, per cui la stessa pulsazione dell’arteria viene trasmessa
alla vena satellite, e il terzo è data dall’azione fornita dalla pompa muscolare, ovvero dall’attività dei muscoli. Il
semplice schiacciamento dell’arcata plantare durante la deambulazione, comprimendo le vene contribuisce a
facilitare il ritorno venoso. La stessa azione aspirante del cuore favorisce il ritorno venoso. Quindi è chiaro che la
mancanza di movimento muscolare, determina un ristagno di sangue venoso, quindi un aumento della pressione
intravasale ed un’insufficienza valvolare. Una caratteristica tipica del sistema venoso è data dalle anastomosi, cioè
le comunicazioni tra vene e che possono formare delle vere e proprie reti; in questo caso si parla di plessi venosi.
Anche le vene profonde sono unite alle vene superficiali da dei rami anastomotici, che prendono il nome di rami
perforanti, perché nell’andare a collegare le vene profonde a quelle superficiali, perforano le fasce che avvolgono i
muscoli. Proprio per l’abbondanza di anastomosi per la presenza di queste reti venose periferiche, si può dire che
non esistono territori venosi isolati, per cui non si applica al sistema venoso il concetto di terminalità, come per le
arterie. In rapporto al loro diametro si possono distinguere vene di grosso, medio e piccolo calibro. Per quanto
riguarda la loro posizione, le vene si distinguono in vene superficiali, che decorrono nei tegumenti, accolte nello
spessore del tessuto connettivo sottocutaneo, e vene profonde che si trovano al di sotto della fascia comune
connettivale che avvolge il corpo umano e che decorrono quindi nelle logge muscolari, negli interstizi dei muscoli e
quindi di fianco alle arterie corrispondenti. A volte possono trovarsi all’interno di una guaina comune, assieme alle
arterie e ai nervi, per formare i fasci vascolo-nervosi. Le vene superficiali si possono trovare attraverso la cute e
appaiono come delle strisce bluastre e negli arti raccolgono gran parte del sangue che viene poi scaricato nelle
vene profonde. Tra le diverse vene esistono differenze di struttura che ricalcano le condizioni secondo cui si
realizza il circolo venoso refluo dei vari distretti. Nelle vene della testa e del collo, i valori di pressione sono molto
bassi e il sangue scende verso il cuore favorito dalla forza di gravità. Queste vene, anche se si tratta di vasi di grosso
calibro, presentano una parete piuttosto sottile e si possono definire come vene di tipo recettivo. In altre vene,
come quelle dei territori posti al disotto del diaframma, la circolazione avviene in direzione contraria alla forza di
gravità, per cui presentano una parete più spessa, con una grossa componente muscolare e si possono definire
vene di tipo propulsivo. Tra questi due estremi ci sono aspetti strutturali di transizione.

Le vene si distinguono in quelle della piccola circolazione e in quelle della grande circolazione. Le vene del piccolo
circolo sono date dalle quattro vene polmonari, che riportano all’atrio sinistro del cuore un sangue arterioso
proveniente dai polmoni. Le vene del grande circolo sono quelle vene che portano all’atrio destro del cuore il
sangue venoso proveniente da tutti i distretti corporeo. Per cui comprendono effettivamente tre sistemi: quello
che fa capo alla vena cava superiore, costituito da tutte le vene che raccolgono il sangue dai territori posti al di
sopra del diaframma, il sistema che fa capo alla vena cava inferiore, formato dalle vene che raccolgono il sangue
dai territori sottodiaframmatici e dal sistema della vena porta (sangue venoso proveniente dalla parte
sottodiaframmatica del canale alimentare), e il sistema delle vene del cuore, che fa capo al seno coronario.

Tutto il distretto venoso della grande circolazione fa capo alla vena


cava superiore e inferiore, che riportano all’atrio destro del cuore il
sangue refluo da tutti gli organi, con l’eccezione delle vene
cardiache.

La vena cava superiore è un grande tronco venoso impari,


che si forma nel torace per la confluenza di due grosse
vene: le vene anonime. Le due vene anonime destra e
sinistra, o vene brachiocefaliche, drenano il sangue dalla
testa, dal collo, dagli arti superiori e dal torace. La vena
cava superiore presenta tutti i caratteri strutturali delle
vene recettive, quindi scarsa muscolatura con assenza di
valvole. Ogni tronco brachiocefalico deriva dall’unione
della vena giugulare interna (corrispondente dell’arteria
carotide interna), che raccoglie il sangue dalla testa e dalle
regioni profonde del collo, con la vena succlavia dello
stesso lato, che raccoglie il sangue dall’arto superiore e
dalla parte superiore del torace. L’unico affluente della
vena succlavia è la vena giugulare esterna, che raccoglie il
sangue dalle vene superficiali della testa, del collo e dalla parte superiore del torace. Alle vene anonime fanno
capo anche altre vene provenienti dalla regione cervicale e dalla parete toracica. Quindi la vena di raccolta del
circolo venoso endocranico e della cavità orbitale è la vena giugulare interna, che raccoglie il sangue dai seni
venosi della duramadre.

I seni venosi della duramadre sono dei canali che decorrono nello
spessore della duramadre, cioè la meninge protettiva più esterna che
protegge l’encefalo. Alcuni di questi canali sono impari e mediani, altri
sono pari. Questi seni vanno a scaricare le vene dell’encefalo,
dell’organo dell’udito e della vista e confluiscono nella vena giugulare
interna.
Questa è una sezione coronale (frontale) dell’encefalo, dove si può
osservare in maniera più chiara dove sono localizzati i seni venosi.
Si trovano all’interno della duramadre, che è la meninge più
esterna colorata in grigio, al di sotto della quale c’è la meninge
intermedia colorata in giallo, che prende il nome di aracnoide. La
meninge più interna è la piamadre colorata in rosso. All’esterno
della duramadre si trova il tessuto osseo. I seni venosi della
duramadre, in sezione frontale, sembrano dei laghetti contenuti
all’interno della meninge.

L’unico vaso che affluisce alla vena cava superiore è la vena


azigos, che raccoglie il sangue dalle pareti toraciche; infatti,
riceve come rami affluenti tutte le vene intercostali di destra,
oltre alle vene bronchiali, a quelle esofagee, mediastiniche e
freniche superiori. La vena azigos riceve anche la vena
emiazigos e la vena emiazigos accessoria, le quali ricevono a
loro volta le vene intercostali di sinistra.

La vena azigos risale dalla regione lombare sul lato destro della
colonna vertebrale. Entra nella cavità toracica attraverso il
diaframma e riceve le vene emiazigos ed emiazigos accessoria,
che invece decorrono sul lato sinistro.

La vena succlavia è il vaso che raccoglie il sangue


proveniente dall’arto superiore e quindi inizia
come diretta continuazione della vena ascellare.
Così come l’arteria omonima, passa sotto la
clavicola incuneandosi tra la clavicola e la prima
costola. Unico affluente della vena succlavia è la
vena giugulare esterna
Questa immagine mette in evidenza i vasi arteriosi e
venosi che si trovano all’interno della cavità ascellare.
La vena ascellare è il primo grosso tronco venoso in
cui confluisce tutto il sangue raccolto dall’arto
superiore. Riceve anche qualche piccolo ramo
affluente che porta sangue dalle formazioni della
spalla e dal torace, ad esempio dai muscoli della
spalla, dai muscoli toracoappendicolari e dalla
mammella. La vena ascellare si trova affiancata
all’arteria omonima ed è circondata da delle strutture
(colorate in giallo), che sono i rami nervosi
appartenenti al plesso brachiale, responsabili di
innervare l’arto superiore.

Il sangue refluo dell’arto superiore viene raccolto da due sistemi di vasi, per cui ci sono vene che costituiscono il
circolo profondo, satelliti delle corrispondenti arterie e che quindi decorrono all’interno delle logge muscolari
ricalcando il percorso delle arterie satelliti; c’è anche un circolo superficiale, con le vene superficiali che decorrono
nel sottocutaneo e che non hanno un corrispettivo arterioso. Nell’arto superiore ci sono due vene superficiali,
ovvero la cefalica e la basilica, le quali si scaricano nel sistema profondo; in particolare la vena cefalica si scarica
nella vena ascellare, mentre quella basilica in
una delle due vene brachiali profonde.

Le vene profonde sono in genere doppie


rispetto alle arterie corrispondenti, ma hanno
lo stesso nome. Le vene profonde originano
dalla mano a partire dalle arcate venose
superficiali e profonde, proseguono
nell’avambraccio con due vene ulnari, che
affiancano l’arteria satellite, e due vene radiali.
Queste, a livello del gomito, confluiscono per
andare a formare le due vene brachiali, ovvero
le vene satelliti dell’arteria brachiale; dalle due
vene brachiali si forma la vena ascellare e così
via.

Per quanto riguarda le vene superficiali, queste decorrono nel


sottocute e non sono satelliti di arterie. Sono unite tra loro da
molte anastomosi e sono unite alle vene profonde con rami
anastomotici. Si può notare come dalle reti venose della mano,
si formano due principali vene, ovvero la vena cefalica e la vena
basilica; la vena cefalica decorre sul lato radiale (lato pollice),
mentre la vena basilica decorre sul lato ulnare (lato mignolo).
La vena cefalica sfocia nella vena ascellare, mentre la vena
basilica sbocca nella vena brachiale mediana. La rete venosa
palmare della mano inizia dalle vene digitali, andando poi a
costituire le due vene basilica e cefalica, che decorrono prima
nell’avambraccio scambiandosi anastomosi. La vena cefalica
percorre poi il braccio e penetra in un interstizio tra il muscolo
deltoide e il pettorale (interstizio deltoideo-pettorale), dove
trova la vena pettorale in cui si riversa. Il decorso della vena
cefalica è più lungo rispetto a quello della vena basilica, che nel braccio perfora la fascia e raggiunge il circolo
profondo, gettandosi in una delle due vene brachiali. Nella regione della piega del gomito si può osservare che la
vena cefalica emette la vena mediana del gomito o vena cubitale mediana, cioè un grosso ramo venoso che si
porta mediamente fino a raggiungere la vena basilica; è quindi un’anastomosi tra vena cefalica e basilica. Di solito i
prelievi di sangue sono fatti a livello della vena cubitale mediana.

La vena cava inferiore si forma a livello di L4 per


confluenza delle due vene iliache comuni, ciascuna
delle quali, a livello dell’articolazione sacroiliaca, si è
originata per unione delle vene iliache esterne (da arti
inferiori) e interne (da piccolo bacino). A livello di L4 la
vena cava inferiore risale, spostata a destra rispetto alla
colonna vertebrale, fino al diaframma, che perfora
entrando nella cavità toracica per poi sboccare
nell’atrio destro del cuore. Nel suo decorso all’interno
della cavità addominale riceve una serie di vene che
sono sia parietali, come le vene lombari e freniche
inferiori, sia vene viscerali, provenienti da organi come
le gonadi (vene genitali), i reni (vene renali), i surreni
(vene surrenali) e le vene epatiche. Tutto il sangue che
proviene dagli organi dell’apparato digerente che si
trovano sotto il diaframma (stomaco, duodeno,
pancreas, intestino tenue, intestino crasso e retto) e il
sangue che proviene dalla milza, viene raccolto da tre
grosse vene, cioè la vena mesenterica inferiore, superiore (da intestino tenue e crasso) e vena lienale o splenica (da
milza, pancreas e parte dello stomaco). Questi tre grossi vasi confluiscono a formare un tronco venoso molto
importante, ovvero la vena porta, la quale porta il sangue al fegato per poi ramificarsi. Il sangue che proviene da
tutti questi territori raggiunge il fegato e per mezzo delle vene epatiche raggiunge la vena cava inferiore. Questo
sistema della vena porta (nell’immagine in rosso) ha un comportamento un po’ anomalo, perché al posto che
riversarsi direttamente nella vena cava inferiore, entrano prima nel fegato, nel quale i vasi si ramificano. Il sistema
della vena porta convoglia al fegato il sangue ricco dei
prodotti dell’assorbimento intestinale e dalla emocateresi
splenica, cioè dalla distruzione dei globuli rossi che avviene
nella milza. Il sangue refluo dal fegato lo abbandona per
mezzo delle vene epatiche, che entrano direttamente nella
vena cava inferiore. Quindi l’intestino e la milza non
mandano il sangue venoso direttamente nella vena cava, ma
lo convogliano in questo sistema portale epatico, perché nel
fegato devono essere elaborate alcune sostanze ed
immagazzinate. Si forma quindi la rete mirabile venosa, da
cui origina il sistema delle vene epatiche; è una rete che si
forma dalla divisione di una vena in una serie di vasi più
piccoli, in capillari, che a loro volta si riuniscono a formare
una struttura vascolare più grande (vena-capillari-vena).
Esiste anche una rete mirabile arteriosa a livello renale, dove
si ha una situazione per cui c’è una rete di capillari interposta
tra due arterie. La vena porta si trova dietro la testa del
pancreas, per poi portarsi obliquamente verso l’alto e verso
destra, raggiungendo l’ilo del fegato.
Oltre alle vene epatiche, che sono circa una quindicina di vasi, drenano il sangue della vena porta e dell’arteria
epatica.

Le vene renali originano a livello dell’ilo renale ed escono


percorrendo davanti alle arterie renali, aprendosi lateralmente
nella vena cava inferiore, a livello di L2. Le vene surrenali
portano il sangue dai surreni, mentre le vene genitali dalle
gonadi, col nome di vene testicolari per il maschio e di vene
ovariche per le femmine. Vene renali, surrenali e genitali hanno
un percorso parallelo a quello delle arterie satelliti.

Le vene lombari sono disposte in maniera simile alle vene intercostali, cioè con un decorso trasversale per portarsi
fino alla parete posteriore della vena cava inferiore, dove sboccano. Le vene lombari di ogni lato sono unite tra loro
da tratti anastomotico che costituiscono una specie di piccolo tronco verticale, che in alto da origine alla vena
azigos a destra ed emiazigos a sinistra; in questo modo si viene a formare un’importante via anastomotica tra il
sistema della vena cava inferiore e superiore.

Le vene freniche inferiori originano dalla faccia inferiore del


diaframma per sfociare nella vena cava inferiore, sopra lo sbocco
delle vene epatiche.

La vena cava inferiore si forma per confluenza di due grossi tronchi


venosi, ovvero le vene iliache comuni destra e sinistra. Le vene
iliache comuni originano per confluenza di altri due vasi venosi,
ovvero la vena iliaca esterna e interna. La vena iliaca interna è detta
anche ipogastrica e raccoglie il sangue dalle pareti e dai visceri della
pelvi, oltre che dai genitali esterni; la vena iliaca esterna raccoglie il
sangue proveniente da tutto l’arto inferiore e dalla parete
dell’addome.
Anche nell’arto inferiore esiste un circolo venoso profondo satellite di quello arterioso (i nomi sono gli stessi) e
anche in questo caso si può osservare che ci sono vene satelliti duplici rispetto alle corrispondenti arterie; ad
esempio, ci sono due vene tibiali anteriori e due posteriori. Anche qui è presente un circolo superficiale: dalla rete
venosa superficiale del piede si formano due vene, la grande safena e la piccola safena, che convogliano il sangue
attraverso dei rami perforanti nel circolo
profondo. Il sangue tende a passare dalla pianta
del piede al dorso, perché sulla pianta viene
esercitata una pressione per il fatto di stare in
stazione eretta; dal dorso del piede, a partire
dalle reti venose, hanno origine le due vene
superficiali, una che decorre medialmente e
l’altra che decorre lateralmente. Nella loggia
anteriore della coscia, l’arteria e la vena femorale
sono affiancate e dopo essere passate al di sotto
del legamento inguinale, decorrono affiancate al
sartorio e poggiate sul muscolo pettineo e
sull’adduttore lungo. Nella parte infero-mediale
della coscia i due vasi passano nel canale degli
adduttori, dove si portano posteriormente a
livello della cavità poplitea.

La vena grande safena percorre medialmente la gamba;


comincia a livello del piede, davanti al malleolo mediale,
per poi percorrere verticalmente tutta la faccia mediale
della gamba, dove raccoglie il sangue da tutti i territori.
All’altezza del ginocchio fa una piccola curva e si porta
nella faccia anteromediale della coscia, decorrendo lungo
il margine mediale del sartorio, fino al triangolo femorale
di Scarpa; qui perfora la fascia che avvolge i muscoli della
coscia e va a trovare la vena femorale, dove vi si getta. In
tutto il suo percorso, eccetto che per la parte finale, la
grande safena ha una posizione sottocutanea sopra-
fasciale. Questa vena ha una parete molto spessa rispetto
alle altre vene e ha un ricco corredo muscolare, con
caratteristiche di vena di tipo propulsivo; possiede anche
molte valvole.
La vena piccola safena è più corta rispetto alla grande
safena. Origina dietro al malleolo laterale, decorre a livello
della faccia posteriore della gamba in posizione mediana,
poi si pone nel solco tra i due muscoli gemelli trovandosi
vicino al ginocchio; qui perfora la fascia e si getta nella
vena poplitea. Anch’essa possiede numerose valvole e ha
un decorso in parte sottocutaneo e in parte sotto-fasciale.

Esistono una serie di vene perforanti che si trovano a livello della caviglia
e al di sopra del polpaccio che permettono la comunicazione tra le due
reti venose superficiale e profonda. Queste comunicazioni formano delle
vie anastomotiche attraverso le quali il sangue si può scaricare dalla rete
superficiale nei vasi profondi e viceversa. Le vene safene sono quelle che
più facilmente formano le varici, poiché tendono a dilatarli a causa del
ristagno di sangue, per esempio quando si ha un’insufficienza delle
valvole. Le vene varicose sono particolarmente gravi se sono superficiali
degli arti inferiori, che già di norma sono esposte ad una pressione legata
al fattore gravitazione, che tende a causare uno sfiancamento della parete; le vene varicose sono particolarmente
frequenti nelle persone anziane, nei soggetti obesi e in gravidanza. In quest’ultimo caso si ha una compressione dei
vasi da parte dell’utero, il che determina un’impossibilità a scaricare; durante il periodo della gravidanza vengono
anche prodotti degli ormoni che tendono a rilassare i vasi sanguigni. Le vene varicose sono particolarmente
evidenti sulla superficie corporea come una sorta di strisce bluastre e caviglie e piedi tendono ad essere molto
gonfi per via del ristagno di sangue. In questi casi una cosa molto utile da
fare è camminare, mentre lo stare fermi o lo stare al sole risulta dannoso,
perché induce un effetto di vasodilatazione. In tutti questi casi è chiaro
che praticare regolare attività fisica, se non prevenire lo sviluppo delle
vene varicose, è un modo per facilitare il ritorno venoso, contrastando
l’accumulo di sangue a livello periferico. In questo caso si consiglia anche
l’uso delle calze elastiche, perché forniscono una sorta di massaggio che
favorisce il fluire del sangue all’interno dei vasi. In alcuni casi si ricorre alla
chirurgia, sfilando la safena; si fa un piccolo taglio a livello del triangolo di Scarpa e del malleolo mediale, sfilando la
vena superficiale. Dopo la rimozione della vena, l’organismo si deve adattare servendosi maggiormente del sistema
venoso profondo.

L’attività di pompa esercitata dai muscoli è un importantissimo meccanismo che


consente di contrastare la pressione idrostatica e riportare il sangue verso il cuore.
I muscoli deputati a questo sono in particolare i tricipiti della sura e i muscoli della
coscia. Con la contrazione spremono i vasi, fanno aprire le valvole e favoriscono il
ritorno venoso.

Apparato respiratorio
È un apparato che fa parte di quel gruppo di apparati della vita vegetativa, perché è necessario per mantenere in
vita l’organismo. Senza accorgercene respiriamo circa una quindicina di volte al minuto e in media inspiriamo circa
13.000/14.000 litri di aria al giorno. Tutto questo è allo scopo di portar via dal corpo l’anidride carbonica, che è una
sostanza di scarto del metabolismo cellulare, quindi tossica e che non deve accumularsi, sostituendola con
l’ossigeno, che fa sì che possano avvenire tutti quei processi cellulari che ci consentono di estrarre l’energia
contenuta negli alimenti.

L’apparato respiratorio è formato da un insieme di organi cavi che cooperano per lo svolgimento di una funzione
generale. Oltre agli organi cavi che costituiscono le vie aeree o respiratorie, l’apparato respiratorio comprende
anche organi che sono parenchimatosi, quindi pieni, ovvero i polmoni; questi rappresentano effettivamente il
luogo dove si realizzano gli scambi di gas tra l’aria e il sangue. Tutti gli organi dell’apparato respiratorio agiscono
insieme per svolgere delle funzioni: per distribuire aria e scambiare gas, per rifornire di ossigeno le cellule del
corpo e rimuovere CO2. Siccome i miliardi di cellule di cui siamo fatti si trovano lontani dall’aria, per poter
scambiare i gas con questa, in primo luogo l’aria deve scambiare gas con il sangue a livello dei polmoni; dopo di che
il sangue circola consentendo lo scambio di gas con le singole cellule. Tutti questi eventi richiedono
necessariamente il funzionamento di due sistemi, ovvero quello respiratorio e quello circolatorio. Tutte le parti che
formano l’apparato respiratorio, ad eccezione degli alveoli polmonari, funzionano come dei semplici distributori di
aria; soltanto gli alveoli e i sottili canalicoli che vi sboccano funzionano come scambiatori di gas. Ci sono anche altre
funzioni, perché oltre a distribuire e scambiare gas, l’apparato respiratorio ha anche una funzione di filtro, di
riscaldamento e di umidificazione dell’aria che respiriamo; in più, alcuni degli organi che fanno parte dell’apparato
respiratorio influenzano la produzione dei suoni che utilizziamo per la comunicazione orale. Infine, a livello delle
vie respiratorie, è anche presente un epitelio specializzato che ci consente di percepire gli odori. Quindi le cellule
hanno continuamente bisogno di essere rifornite di ossigeno, necessario per il processo di conversione energetica
che si svolge nei mitocondri, cioè per la respirazione cellulare, che ha come prodotto di rifiuto l’anidride carbonica.

L’apparato respiratorio comincia con una serie di vie aeree superiori, che comprendono il naso o cavità nasale, cui
sono annesse le cavità paranasali, e il primo tratto della faringe (rinofaringe). Questi organi sono contenuti a livello
della testa, per essere più precisi nello splanco-cranio o cranio
viscerale massiccio facciale, cioè nella parte anteroinferiore
della testa. Le vie aeree superiori, attraverso la faringe,
continuano con le vie aeree inferiori, che sono costituite dalla
laringe, che continua con la trachea e con i bronchi. I due
bronchi, cioè i rami di biforcazione della trachea, assicurano
che l’aria possa arrivare nei polmoni. Le vie aeree inferiori
occupano il collo e il torace. I polmoni hanno un esteso
rapporto con il piano muscolare sottostante, costituito dalla
cupola diaframmatica. Attraverso le vie aeree l’aria passa
subendo una modificazione tale da far sì che venga riscaldata,
umidificata e depurata dagli elementi contaminanti. Noi
abbiamo dei sistemi di protezione, come lo starnuto per le vie
aeree superiori e la tosse per le vie aeree inferiori. Durante
l’inspirazione l’aria è portata dall’ambiente esterno fino a
livello degli alveoli polmonari, dove avviene lo scambio dei gas
atmosferici.

Il naso è costituito da una parte più esterna e da una interna,


ovvero la cavità nasale. Il naso esterno prende anche il nome
di piramide nasale, per la sua forma di piramide triangolare; è
il rilievo che sporge dalla faccia, formato sia da cartilagini
(blu) che da ossa (giallo). Il volume e la forma del naso sono
estremamente variabili tra i diversi soggetti, ma esiste anche
una variabilità legata alla razza e all’età. Nell’infanzia il naso
tende a essere più piccolo e largo, poi si modifica con lo
sviluppo per assumere la forma definitiva. Gli individui di
razza bianca (A) tendono ad avere un naso più stretto e
affilato; sotto sotto questo aspetto vengono definiti leptorrini
(dal greco λεπτός, leptòs, cioè sottile). Gli individui di razza nera (C) tendono ad avere un naso più schiacciato e
vengono definiti platirrini. I soggetti di razza gialla (B) hanno caratteristiche intermedie e vengono definiti
mesorrini, quindi hanno un naso meno affilato, ma meno schiacciato. Spesso il naso definisce la fisionomia di
ciascuno di noi e la variabilità è legata alla razza, all’età e in relazione alla statura dei soggetti; sembrerebbe che
aumentando la statura è maggiore il numero di soggetti che hanno un naso più affilato, mentre soggetti più bassi
hanno un naso tendenzialmente più schiacciato.
Il naso presenta una porzione superiore, che
risulta fissa perché provvista di uno scheletro
osseo dato dalle ossa nasali, e una parte
inferiore formata da strutture cartilaginee, che
costituisce la parte mobile. Queste strutture
comprendono le cartilagini nasali laterali e
quelle alari, oltre alla cartilagine del setto.

Questa è un a sezione sagittale mediana, condotta


attraverso il naso esterno e la cavità nasale. Si può
osservare la parete laterale della cavità nasale
perché è stata rimossa la parete mediale, cioè il
setto nasale. Le cavità nasali si trovano
superiormente alla bocca e sono due condotti
simmetrici, che sono contenuti in parte a livello del
naso esterno e in parte nella porzione superiore e
media dello scheletro della faccia. Questi condotti
si presentano piuttosto irregolari, anfrattuosi.
Dalle aperture esterne che sono le narici, le cavità
si portano posteriormente per aprirsi nella
porzione nasale della faringe (rinofaringe); le
aperture di comunicazione tra cavità nasali e faringe prendono il nome di coane. Ognuna delle cavità nasali può
essere distinta in una parte più anteriore, cioè il vestibolo del naso, e una porzione più ampia, cioè la cavità nasale
propriamente detta in cui sboccano le cavità paranasali. Nel vestibolo del naso sono presenti dei grossi peli che
prendono il nome di vibrisse e che rappresentano il primo filtro, che serve a liberare l’aria che entra dalle narici
dalle particelle che la contaminano. Le cavità nasali hanno una forma di fessure ristrette orientate su un piano
sagittale, in cui si può descrivere un pavimento, una volta e due pareti, una mediale (setto) e una laterale. Il setto
nasale è molto vascolarizzato, soprattutto nella zona di passaggio tra vestibolo del naso e cavità nasale
propriamente detta, tanto che in seguito a traumi che si possono avere a questo livello, spesso si hanno emorragie
nasali, più propriamente indicate col termine epistassi.
Le pareti laterali sono irregolari perché presentano una serie di rilievi e depressioni. Questi rilievi sono i tre cornetti
nasali o turbinati superiore, medio e inferiore, che fanno da tetto agli stretti passaggi (meati) che si trovano sotto,
per cui si ha un meato superiore, uno medio e uno inferiore.
Tutta la cavità nasale ha una parete ricca di vasi sanguigni, perché qui si ha il primo riscaldamento, la prima
umidificazione dell’aria, cosa che non potremmo avere se respirassimo con la bocca. L’aria passa attraverso i
meati, rallenta il suo flusso, si creano dei vortici e in questo modo può essere più facilmente umidificata, riscaldata
e filtrata. È chiaro che questi processi fanno sì che quando l’aria raggiunge la faringe è già completamente satura di
vapore acqueo; anche in presenza di temperature esterne piuttosto basse, la temperatura dell’aria è simile a quella
corporea. Quando respiriamo con la bocca, durante giornate fredde, avvertiamo una fastidiosa sensazione di
secchezza di bocca e gola, a cui possono seguire dei colpi di tosse, proprio perché l’aria che entra nei polmoni
attraverso la bocca non subisce questa modificazione.
Le cavità nasali sono tappezzate da una mucosa, perché sono presenti delle ghiandole muscose con delle cellule
ciliate; il movimento di queste ciglia a livello della superficie delle cavità nasali, fa sì che il muco prodotto dalle
ghiandole vada a inglobare le particelle contenute nell’aria, come quelle di carbone, e che vengano spinte verso la
faringe, per poi essere deglutito. Questo vuol dire che la respirazione nasale protegge maggiormente la gola e i
bronchi, nei confronti degli agenti ambientali dannosi.
Le pareti delle cavità nasali sono quindi tappezzate
da due tipi di mucose, una respiratoria e una
olfattiva. La prima riveste la maggior parte della
superficie delle cavità nasali ed è quella che ha
funzione di scaldare e umidificare l’aria, mentre la
mucosa olfattiva si limita alla solo in un punto
ristretto delle cavità nasali e contiene dei recettori
per l’olfatto.
La nostra mucosa respiratoria presenta un epitelio
pseudostratificato cigliato e contiene delle cellule
caliciformi mucipare; l’epitelio poggia su una lamina
propria, contenente delle ghiandole; il secreto di
queste ghiandole, insieme a quello delle cellule caliciforme mucipare, intrappola le particelle dell’aria e ha una
funzione antibatterica.
La mucosa olfattiva è formata da un epitelio di rivestimento formato da vere e proprie cellule nervose, le cellule
olfattive, in grado di percepire stimoli odorosi, quindi si tratta di veri e propri recettori per gli odori, da queste
cellule partono i filuzzi olfattivi, ovvero gli assoni di queste cellule che vanno a formare il nervo olfattivo.

Alle cavità nasali sono annesse delle altre cavità, dette paranasali o semi-paranasali. In particolare, ci sono i seni
frontali (verde), scavati all’interno delle ossa frontali, i seni mascellari (rosso), scavati nelle ossa mascellari, il seno
sfenoidale (arancio) e le cellule etmoidali (blu). Questi ultimi prendono il nome di cellule perché sono formati da
tante piccole cellette scavate nell’osso dell’etmoide. Il seno sfenoidale è scavato all’interno di un osso della base
cranica, ovvero lo sfenoide. Queste cavità sono tutte collegate direttamente alle cavità nasali e più che avere la
funzione di modificare le caratteristiche dell’aria, hanno il compito di alleggerire il massiccio facciale; inoltre, la
presenza di queste cavità, è legata a quelli che sono i fenomeni di risonanza legati all’emissione dei suoni: queste
cavità fanno da cassa di risonanza per la voce. I seni paranasali prendono il nome dalle ossa nelle quali sono
scavati. Anche questi seni possono andare incontro a raffreddore, a causa della comunicazione diretta con le cavità
nasali.

Dalle cavità nasali, attraverso le coane, si accede alla prima parte della
faringe, cioè la rinofaringe. La faringe è un organo che in realtà andrebbe
studiato anche in relazione all’apparato digerente, perché è in comune a
questi due apparati; attraverso la faringe passa l’aria (freccia blu) e il cibo
(freccia rossa), perché comunica anche con la cavità orale e con l’esofago.
La faringe è un organo molto importante perché è coinvolta nella fonazione,
poiché si può parlare anche qui di cassa di risonanza per la voce; è
sufficiente cambiare la forma per la faringe per modificare il timbro della
nostra voce.
Anatomicamente la faringe è un organo difficile da
delineare, perché presenta numerose aperture di
comunicazione con altri organi. Questa è una sezione
sagittale mediana condotta a livello della testa e del collo.
La faringe è inserita nella base cranica, per poi scendere
verso il basso anteriormente alle vertebre cervicali, fino alla
sesta vertebra cervicale, per una lunghezza di circa 14 cm. È
un condotto piuttosto slargato verso l’alto che via via si
restringe verso il basso, preludendo a quello che è il canale
con cui continua direttamente la faringe, ovvero l’esofago.
È un organo appiattito in senso antero-posteriore, cioè da
davanti a dietro. La faringe è anche parte del canale
digerente, perché è posteriore alla cavità orale, facendo
seguito a quella che è l’apertura di comunicazione tra
cavità orale e faringe, cioè all’istmo delle fauci. La faringe
riceve aria dalle cavità nasali attraverso le coane e la immette nella laringe, attraverso un’apertura, chiamata
orifizio laringeo. La laringe è posta anteriormente all’ultimo tratto di faringe e all’esofago. Tutte queste
comunicazioni si ritrovano a livello della parete anteriore della faringe, che quindi è largamente incompleta. Nella
faringe si aprono anche le tube uditive, che mettono in comunicazione la faringe con la cassa del timpano.
La faringe ha una struttura prevalentemente muscolare; si tratta di muscoli striati, quindi la tonaca muscolare della
faringe è formata da muscoli striati. Durante la deglutizione questi muscoli si contraggono e impiegano brevissimo
tempo per portare il bolo alimentare all’interno dell’esofago (meno di 1 sec). Durante la deglutizione, i centri
nervosi del respiro vengono inibiti e quindi viene bloccata la respirazione. I muscoli che compongono la faringe
sono essenzialmente costrittori ed elevatori, i quali si dilatano quando devono accogliere il bolo alimentare, che
passa per la faringe con un’onda peristaltica; questo vuol dire che passa attraverso una serie di contrazioni e di
rilasciamenti di questi muscoli, che fanno sì che il cibo possa progredire. La deglutizione è sotto il controllo del
sistema nervoso e quindi è un atto volontario. Durante la deglutizione, l’ingresso dell’aria verso la laringe viene
impedito, perché una cartilagine della laringe, l’epiglottide, si chiude occludendo l’adito laringeo. I muscoli striati
della tonaca muscolare formano un involucro attorno alla faringe,
pressoché continuo. La faringe si divide in tre parti: una superiore,
che prende il nome di rinofaringe perché comunica con le cavità
nasali (dalle coane fino al palato molle); c’è una porzione intermedia
chiamata orofaringe, perché si trova posteriormente alla cavità orale
con cui comunica (dal palato molle fino all’osso iloide); infine c’è una
porzione inferiore che prende il nome di laringofaringe o ipofaringe,
perché è in rapporto anteriormente con la laringe e che continua con
l’esofago.

Questa è la faccia anteriore della faringe, largamente


incompleta a causa delle numerose aperture. Per permettere di
vedere questo, la faringe è stata aperta posteriormente. A
partire dall’alto si vedono le due coane, con al centro il setto
nasale; si possono notare anche i cornetti nasali. A livello della
rinofaringe ci sono anche le due tube uditive di Eustachio,
destra e sinistra. Più sotto c’è l’apertura di comunicazione con
la cavità orale, che è l’istmo delle fauci. Procedendo verso il
basso si trova l’apertura di comunicazione con la laringe, con
l’epiglottide che si chiude come un coperchio per impedire al
bolo di entrare nelle vie aeree inferiori. Più in basso c’è
l’apertura naturale di comunicazione tra l’ipofaringe e l’esofago
con cui essa continua inferiormente.
La faringe presenta anche delle raccolte di tessuto linfatico,
ovvero le tonsille, che si trovano all’inizio delle vie respiratorie-
digerenti. La tonsilla faringea si trova a livello della volta della
rinofaringe, subito dietro le coane; quando questa tonsilla è
ingrossata si hanno le cosiddette adenoidi. Quando questa
tonsilla è ipertrofica può riempire lo spazio dietro le coane e
quindi rendere difficoltoso il passaggio dell’aria; se questo
accade si ha difficoltà a respirare e il soggetto tende a respirare
con la bocca. Poi ci sono le tonsille palatine, ovvero le tonsille
propriamente dette, che si trovano a livello della oro-faringe;
hanno una forma a mandorla e si trovano tra i pilastri dell’istmo
delle fauci, nel punto di passaggio tra cavità orale e faringe. Poi
c’è una tonsilla linguale e delle tonsille tubariche, che si trovano
all’ingresso delle tube uditive; questo è il motivo per cui sono
frequenti le otiti nel bambino, perché queste tonsille si infiammano facilmente e l’infiammazione si propaga
nell’orecchio.

La laringe è il primo organo delle vie aeree inferiori. La laringe è un organo estremamente specializzato e molto
difficile da studiare, perché ha una costituzione estremamente particolare. Da una parte va a formare una sorta di
sfintere che protegge il tratto iniziale delle vie aeree, dall’altro è responsabile del processo di fonazione. Anche la
laringe è un organo cavo impari e mediano, che occupa la regione del collo ed è posta piuttosto superficialmente.
La parete della laringe è costituita da delle parti cartilaginee, che sono poi completate da delle formazioni
muscolari e fibrose. In proiezione posteriore ha un’estensione che va dalla quarta alla sesta vertebra cervicale, per
una lunghezza di circa 4 cm; le dimensioni di quest’organo possono variare molto da soggetto a soggetto, così
come in relazione all’età e al sesso. Nell’infanzia la laringe è piuttosto piccola e aumenta le dimensioni durante la
pubertà, quando va incontro a tutte le modificazioni, cui poi si devono quei tipici cambiamenti del tono di voce
(soprattutto nei maschi). La faccia posteriore della laringe è rivolta verso la faringe, alla cui parete è unita tramite
del tessuto connettivo. La laringe superiormente presenta un orifizio ovoidale un po’ inclinato, che la mette in
comunicazione con la faringe, e inferiormente ha un orifizio un po’ più arrotondato, tramite cui quest’organo
comunica con la trachea.

Questa è la faccia anteriore della laringe, privata dei muscoli e delle altre
formazioni che completano la parete, che è costituita principalmente da questi
elementi cartilaginei. Questi elementi nel loro complesso danno alla laringe la
forma di una piramide triangolare, con la base in alto e apice-tronco in basso.
La forma della laringe è anche paragonabile a quella di una clessidra, perché
presenta un restringimento circa a metà.

Le facce antero-laterali della laringe sono coperte da una


ghiandola endocrina, ovvero la tiroide, e dai muscoli sottoioidei.
La laringe si trova subito sotto la cute, dove è presente una
sporgenza, il cosiddetto pomo d’Adamo, che prende anche il
nome di prominenza laringea e che è particolarmente evidente
nei maschi; questa sporgenza corrisponde all’angolo formato
dalla convergenza di due lamine cartilaginee, che si fondono
sulla linea mediana per formare una delle cartilagini della
laringe, ovvero la cartilagine tiroidea. Più in basso c’è un’altra
sporgenza convessa, data da un anello che appartiene ad
un’altra delle cartilagini della laringe, cioè la cartilagine
cricoidea o cartilagine cricoide. La laringe è quindi un organo
costituito da una serie di pezzi cartilaginei, che si articolano tra loro mediante legamenti; questa struttura è ideale
per mantenere sempre aperte le vie respiratorie per il passaggio dell’aria. La laringe si alza e si abbassa durante la
deglutizione, la respirazione e la fonazione. La mobilità di questi pezzi cartilaginei e la mobilità dell’organo nel suo
insieme, si deve alla presenza di un gran numero di muscoli sia estrinseci che intrinseci; i muscoli estrinseci sono
quelli che hanno origine e inserzione sulla stessa struttura, quindi sulla laringe, mentre quelli estrinseci possono
inserirsi con uno dei loro capi su strutture esterne. Esistono anche altre due cartilagini, ovvero quelle aritenoidi,
che presentano sulla loro sommità altre due piccolissime cartilagini, dette cornicolate. Inoltre c’è un’altra
cartilagine impari, che è l’epiglottide. Tranne l’epiglottide, che è una cartilagine elastica, le altre sono tutte
formazioni di cartilagine ialina.

La cartilagine tiroide è impari ed ha una forma a scudo o a libro semiaperto, mentre la cartilagine cricoide ha la
forma di un anello concastone, che quindi presenta una porzione più slargata posta posteriormente.

In questa immagine si vede la faccia posteriore della laringe e si


vede bene l’epiglottide. È una cartilagine impari mediana con una
forma a foglia, che si inserisce con la parte più ristretta
nell’angolo interno della cartilagine tiroidea; in questo modo
l’epiglottide si viene a trovare posteriormente e inferiormente
alla radice della lingua. Allo stato di riposo, cioè quando il
soggetto non parla e non deglutisce, l’epiglottide è diretta
obliquamente dal basso verso l’alto e dall’avanti verso il dietro.
Funziona come una sorta di valvola che si abbassa per chiudere
l’ingresso alla laringe durante la deglutizione. Siccome è formata
da cartilagine elastica ritorna in posizione nella fase di riposo.

La cricoide è un elemento scheletrico molto importante perché sostiene altre cartilagini ed è d’attacco a molti
muscoli. Inferiormente si lega al primo anello tracheale, mentre superiormente presenta delle articolazioni per le
due cartilagini aritenoidi, che somigliano a delle piramidi a sezione triangolare; queste piramidi possono ruotare
intorno al proprio asse verticale, quindi ruotare internamente o esternamente. Sulla punta di queste cartilagini
aritenoidi ci sono anche le cartilagini cornicolate, che hanno l’aspetto di chicchi di riso.

Qui sono rappresentati i muscoli intrinseci che si


inseriscono sui diversi pezzi cartilaginei della
laringe. Questa muscolatura intrinseca permette
alle cartilagini della laringe di muoversi
reciprocamente e vanno ad influenzare la tensione
e la posizione delle corde vocali, che sono tese tra
le cartilagini aritenoidi e tiroidea. Oltre ai muscoli
intrinseci, la laringe è mossa nel suo insieme anche
da muscoli estrinseci sovra e sottotiroidei.
Questa è un’immagine dall’alto della laringe. I muscoli formati da
fibre striate e vanno ad agire in maniera diretta o indiretta sulle
corde vocali. Il risultato dell’azione di questi muscoli è la
dilatazione o la costrizione di un’apertura, definita rima della
glottide; questo è il punto più ristretto della laringe. Questi
muscoli striati si distinguono quindi in dilatatori e costrittori di
questo spazio ristretto che è la rima della glottide ed è a livello
delle cartilagini aritenoidi.

La laringe internamente è tappezzata da una


mucosa respiratoria e quindi presenta un epitelio
ciliato ricco di cellule caliciformi mucipare. A livello
delle corde vocali è invece presente un epitelio
pavimentoso.

Questa è una sezione sagittale dove si può notare la


rima della glottide, che è una fessura sagittale dovuta
alla presenza di due pieghe della mucosa. Le pieghe
sono in direzione sagittale e prendono il nome di corda
o piega vocale falsa o vestibolare quella superiore,
mentre si chiama corda vocale vera quella inferiore.
Queste pieghe sono tese tra le cartilagini aritenoidi,
posteriormente, e l’angolo interno della cartilagine
tiroidea, anteriormente. Tra le due pieghe la rientranza
prende il nome di ventricolo laringeo, ovvero una
introflessione della mucosa. La porzione superiore alle
pieghe ventricolari va a costituire quella parte della
laringe che prende il nome di vestibolo laringeo, cioè la
parte della laringe che fa seguito all’adito laringeo. Al di
sotto della rima della glottide, sotto le corde vocali vere,
c’è l’ultima parte della laringe che continua
inferiormente con la trachea.
La corda vocale vera è chiamata così perché all’interno contiene
un cordone fibroso, ovvero il legamento vocale, che viene
mantenuto in tensione da un muscolo striato. Quando le
cartilagini aritenoidi ruotano verso l’interno, le due corde vocali
si avvicinano e la rima della glottide si restringe, avvicinando le
corde vocali; al contrario, quando queste due cartilagini ruotano
verso l’esterno la rima della glottide tende ad essere più ampia.
Se durante queste modificazioni passa aria attraverso la laringe,
come appunto avviene durante la respirazione, sono emessi dei
suoni.

Questo avviene non soltanto perché passa dell’aria


attraverso una fessura più o meno ristretta, ma anche
perché il passaggio dell’aria mette in vibrazione le corde
vocali vere, producendo la voce. Va tenuto presente che
questo non è sufficiente per emettere dei veri e propri
suoni, perché questi verranno articolati grazie a tutta una
serie di modificazioni che coinvolgono la cavità orale, agli
organi annessi (guance e lingua) e alla presenza dei
risuonatori che rendono udibile il suono.

Nei maschi le corde vocali tendono ad avere un calibro maggiore e sono meno tese, mentre nelle femmine le corde
vocali tendono a essere più sottili e più tese; questo riscontro anatomico sta alla base delle differenze nel tipo di
suoni emessi, per cui possono essere più o meno ampi (apertura maggiore o minore della rima della glottide) o più
o meno alti (stato di tensione delle corde vocali). Durante la respirazione tranquilla la rima della glottide ha una
forma tendenzialmente più triangolare, con apice anteriore, mentre durante una respirazione più profonda la rima
della glottide assume una forma più a rombo.
Il timbro di voce dipende dalla presenza delle casse di risonanza, che si trovano al di sopra della laringe, quindi la
lingua, il palato, la cavità nasale, la cavità orale, la faringe, i seni paranasali, ecc. assumono tutti quanti un ruolo
come cassa di risonanza; tutte queste strutture partecipano a definire la qualità del suono emesso. Il suono che è
prodotto dalle corde vocali in realtà somiglia più a un ronzio che a un vero e proprio suono, quindi quello che
ascoltiamo quando parliamo è ciò che è prodotto grazie all’attività delle casse di risonanza.
Dopo la laringe si riconoscono altri organi come la trachea, che decorre
prima nel collo e poi nel torace e che poi si divide nei due bronchi
principali. La trachea ha inizio subito sotto la cartilagine cricoide, per
terminare nel torace, circa a livello della quarta vertebra toracica, dove
si divide nei due bronchi principali destro e sinistro che vanno a
portare aria nei rispettivi polmoni. È un canale impari e mediano e ha
una porzione cervicale e una che prosegue nel mediastino posteriore.

Ha una forma cilindrica un po’ appiattita posteriormente, per una lunghezza


di circa 10/12 cm, con un decorso che in alto è più mediano e verticale e che
poi tende ad approfondarsi più posteriormente. In proiezione posteriore
rispetto alla colonna, l’estensione della trachea va da C6 fino a T4, dove si
divide nei due bronchi. In proiezione anteriore, il punto di biforcazione della
trachea corrisponde a una linea orizzontale ideale, che passa per le seconde
cartilagini costali. Bisogna però tenere presente che essendo un organo
elastico estensibile, si accorcia e si allunga in maniera fisiologica durante i
movimenti di flessione ed estensione della testa e della colonna vertebrale.

La trachea è costituita da una serie di anelli cartilaginei (15/20


anelli), uniti tra loro da delle lamine fibrose che prendono il
nome di legamenti anulari. Posteriormente questi anelli
cartilaginei non sono completi, hanno quindi una forma a C
aperta posteriormente. Nella parte posteriore la trachea
presenta quindi una parte membranosa, la cosiddetta parete
membranosa della trachea;
questo facilita il passaggio
del bolo nell’esofago che si
trova dietro. Questi anelli
formano uno scheletro
cartilagineo per fare in modo che la trachea sia un organo sempre beante, cioè
che il lume tracheale dev’essere mantenuto sempre pervio in modo che l’aria
possa liberamente passare.

Lateralmente alla trachea decorrono alcuni vasi, ovvero l’arteria


carotide comune e la vena giugulare interna, che insieme al nervo
vago vanno a costituire il fascio vascolonervoso del collo. Più in
basso la trachea è incrociata anteriormente dall’arco dell’aorta e
dai rami che si staccano da essa; anteriormente è incrociata dai
rami della vena cava superiore.
Questa è una sezione trasversa della trachea,
dove si può notare la presenza di questi anelli a
forma di C; le estremità della C sono colmate da
dei fasci di muscolatura liscia con un decorso
trasversale e che costituiscono la parte
membranosa posteriore. La tonaca più interna è
quella mucosa, formata da un epitelio cilindrico
ciliato pseudostratificato, in cui sono presenti
delle cellule caliciformi mucipare. Più
esternamente alla mucosa c’è una tonaca fibro-
muscolo-cartilaginea, che contiene gli anelli
tracheali di cartilagine ialina, tessuto connettivo
e muscolatura liscia nella parte posteriore.
All’esterno c’è la tonaca che permette alla
trachea di stabilire i rapporti con il tessuto
connettivo circostante della regione del collo e
del mediastino; questa è una tonaca fibrosa avventizia.

A livello di T4 la trachea si divide a formare i due bronchi principali destro e


sinistro, ciascuno dei quali raggiunge l’ilo del rispettivo polmone, in cui si
dividono come rami di un albero. La maggior parte di questi rami sono
contenuti all’interno del polmone stesso.
Nell’immagine sono state demolite tutte le formazioni anatomiche che
occupano la parte del torace del mediastino anteriore, per poter mettere in
evidenza la biforcazione tracheale a livello di T4 nei due bronchi principali. È
stato sollevato parte del parenchima polmonare per apprezzare il decorso dei
bronchi a livello dell’ilo e all’interno del polmone stesso. Insieme alla
ramificazione bronchiale si ha anche la ramificazione dei vasi polmonari.

I due bronchi principali che si sono formati per la divisione della trachea vengono definiti anche bronchi
extrapolmonari, proprio perché si trovano al di fuori del polmone. Tutti i bronchi che derivano dalla
ramificazione dei due bronchi principali e che si ramificano
all’interno del polmone prendono il nome di bronchi
intrapolmonari, anche se la ramificazione comincia già prima
dell’ilo. Nell’immagine si vede bene come sia fitta la
ramificazione dei bronchi all’interno dei polmoni (modello
ottenuto iniettando resina liquida all’interno delle vie
respiratorie di un essere umano). Da ogni bronco principale
che si addentra nel rispettivo polmone si formano dei bronchi
secondari, terziari, via via sempre più piccoli, fino ad arrivare
ai bronchioli. Solitamente l’insieme costituito dalla trachea e i
bronchi, con le rispettive ramificazioni, viene definito col
termine di albero bronchiale o albero tracheo-bronchiale
(sembra un albero capovolto).
Il bronco destro è più corto e di calibro maggiore rispetto al sinistro, nonché più
verticale. Il bronco sinistro è più piccolo ma più lungo, perché deve fare più
strada per raggiungere l’ilo del polmone sinistro. Questa situazione anatomica
può spiegare anche perché eventuali oggetti estranei che siano stati aspirati a
livello delle vie respiratorie, di norma tendono a finire nel bronco destro, che
rappresenta una più diretta continuazione della trachea. Questa differenza di
calibro tra i due bronchi si deve al fatto che il polmone destro presenta maggior
volume rispetto al sinistro e quindi ha una maggiore capacità respiratoria. Dal
bronco destro si formano tre bronchi lobari, mentre dal sinistro due, che si
portano ai rispettivi lobi del polmone; i lobi del polmone sono territori di
parenchima che presentano una ventilazione e una vascolarizzazione proprie.
Man mano che i bronchi entrano nel polmone, questi sono sempre in rapporto
con i vasi che entrano o escono dal polmone e con i nervi. I vasi sono i rami delle
arterie polmonari e delle vene polmonari; ci sono anche arterie e vene bronchiali che alimentano i polmoni. Con la
ramificazione bronchiale si ramificano anche i rami
del nervo vago; tutte queste strutture vascolari e
nervose si fanno strada all’interno del parenchima
polmonare, seguendo la ramificazione bronchiale.
A cavallo del bronco sinistro si trova l’arco
dell’aorta, mentre davanti al bronco destro c’è la
vena cava superiore e l’arteria polmonare destra.
Così come abbiamo osservato per la trachea,
anche i bronchi presentano uno scheletro formato
da anelli cartilaginei; anche in questo caso sono
anelli incompleti, contenuti in una tonaca fibrosa,
che posteriormente si arricchiscono di una
componente muscolare. Ci sono circa 4/6 anelli
cartilaginei per il bronco destro e 9/12 per il
bronco sinistro. Man mano che i bronchi si
dividono e ramificano cambiano la loro struttura rispetto a quella dei bronchi principali; non soltanto si riducono di
calibro, ma tendono anche a diventare più cilindrici, perché scompare la porzione membranosa posteriore. Inoltre,
gli anelli cartilaginei si frammentano in placche cartilaginee, sempre accolte all’interno di una tonaca fibrosa; man
mano che diminuisce il calibro delle diramazioni bronchiali, queste placche diventano sempre più piccole, fino a
scomparire a livello dei bronchi interlobulari. Man mano che le placche cartilaginee si riducono, si sviluppa sempre
più la componente muscolare, che forma uno strato dall’andamento circolare e spirale; in questo modo, quando le
fibrocellule si contraggono, i bronchi si possono accorciare
senza che venga occluso il loro lume. Nell’immagine, a e b
rappresentano le sezioni della trachea e del bronco principale;
le lineette nere rappresentano i fasci di muscolatura liscia che
si inseriscono sugli anelli cartilaginei. La tonaca mucosa si
solleva in pieghe longitudinali e che è costituita dall’epitelio
pseudostratificato ciliato; le ciglia creano una corrente di muco
diretta verso l’esterno, ovvero verso la faringe.
Vedendo la struttura delle ramificazioni più distali, si può
vedere come questa si modifichi. In c non ci sono più gli anelli
cartilaginei, ma si sono trasformati in placche cartilaginee (parti
grigie con puntini neri); la componente muscolare aumenta e
va a formare uno strato circolare. L’immagine d si riferisce ai
bronchioli e si nota che le placche cartilaginee sono totalmente
scomparse e il lume ha un aspetto ancora più stellato, a causa
delle pieghe più evidenti della mucosa.
Perché l’aria possa arrivare fino a livello delle superfici respiratorie, ovvero gli alveoli
polmonari, l’albero bronchiale si deve suddividere in maniera continua, con una
costante diminuzione del calibro delle strutture. Da un punto di vista funzionale si
possono distinguere due porzioni di queste vie aeree intrapolmonari. Una porzione
dei bronchi deputata alla sola conduzione dell’aria (azzurro), costituita dai bronchi
principali, lobari, segmentali o zonali e dai bronchioli intralobulari e terminali; questa
è la porzione cosiddetta conduttiva. Poi c’è la porzione respiratoria (rosa), data dai
bronchioli che iniziano a prendere il nome di bronchioli respiratori e da dei sacchi
alveolari che si formano a partire dai bronchioli respiratori e che sono formati da un
insieme di alveoli.

A livello delle prime ramificazioni bronchiali, la struttura dell’albero bronchiale è


abbastanza uniforme, con le placche cartilaginee che via via si fanno sempre più
rade, fino a trovarsi solo a livello delle biforcazioni; man mano che si procede con la
ramificazione le placche scompaiono a livello dei bronchioli, che si ramificano
ancora fino a diventare bronchioli terminali. Da qui si formano i bronchioli
respiratori, chiamati così perché la loro parete si arricchisce di minuscoli sacchetti
emisferici, che sono gli alveoli.

Questa è la porzione più distale


dell’albero bronchiale, infatti non ci sono più placche cartilaginee, ma
presenta solo muscolatura liscia e fibre elastiche. I fascetti muscolari nei
bronchi a calibro minore assumono un decorso a spirale, il che è
importante per far sì che il lume non si chiuda. Alla fine dell’albero
bronchiale, la parete è formata solo da
alveoli, che hanno la caratteristica di
possedere una parete sottilissima, che è
la condizione ideale perché possano
avvenire gli scambi atmosferici. Gli alveoli
all’inizio sono piuttosto radi, per poi costituire completamente tutta la parete.
I rami che vanno a costituire l’albero bronchiale svolgono gli stessi compiti della
trachea, ovvero a distribuire l’aria all’interno dei polmoni, ma le componenti
anatomiche delle vie respiratorie continuano ad avere il compito di depurare,
riscaldare e umidificare l’aria inspirata. I meccanismi di depurazioni devono essere
efficaci nel rimuovere qualunque forma contaminante, prima che l’aria inspirata
raggiunga gli alveoli polmonari, dove avvengono gli scambi dei gas atmosferici. Per
questo motivo, tutta la mucosa delle vie respiratorie presenta uno strato di muco
protettivo che la ricopre; questo è il più importante tra i meccanismi di
depurazione. Ogni giorno le vie respiratorie producono una quantità di muco pari a
125 ml e questo va a formare un rivestimento continuo sulla mucosa respiratoria,
ovvero il catarro, che si sposta dai bronchi verso la laringe. Il battito delle ciglia
avviene sotto forma di onde sempre nella stessa direzione, ovvero verso l’esterno. La mucosa del naso, della
rinofaringe, della laringe, della trachea e dei bronchi è costituita dall’epitelio pseudostratificato ciliato con
all’interno nelle cellule caliciformi mucipare. Il movimento delle ciglia sposta il muco con le particelle dannose
verso la cavità orale, in modo che possa essere deglutito o espettorato. Questo meccanismo viene definito
ascensore muco-ciliare. Quindi lo strato di muco non soltanto protegge le cellule epiteliali da danni meccanici e
dall’essiccazione, ma trattiene anche i corpi estranei che sono stati inalati e di trasportarli verso la cavità orale. Il
fumo di sigaretta, oltre agli altri danni che causa, va a paralizzare le ciglia, con conseguente ristagno di muco, che
porta a quella tipica tosse dei fumatori; questa tosse rappresenta un tentativo di liberarsi in maniera alternativa di
questo muco che si accumula a causa della paralisi delle ciglia.

Per riassumere:

Man mano che l’albero bronchiale si divide fino agli alveoli, la parete si assottiglia, finché non sarà costituita da
epitelio pavimentoso semplice. Tutte queste modificazioni preludono alla funzione polmonare, ovvero lo scambio
di gas. Le strutture deputate al semplice passaggio dell’aria verso i polmoni, con una struttura rigida, a livello
distale diventano delle strutture deputate allo scambio di ossigeno e anidride carbonica.

La cavità toracica presenta due grossi spazi


laterali, ovvero le due logge pleuropolmonari,
che contengono le due cavità pleuriche. Questa
è una sezione trasversa della cavità toracica, al
di sotto di T4. I polmoni sono avvolti da una
membrana sierosa, chiamata pleura; le pleure
avvolgono i polmoni e sono costituite da due
foglietti (come per il pericardio): uno più
esterno definito parietale (blu), che riveste le
coste, i muscoli intercostali, la faccia superiore
del diaframma e il mediastino; il foglietto più
interno è quello viscerale e tappezza il
polmone, andandosi a insinuare anche nelle scissure presenti sulla superficie dei polmoni e che dividono il
parenchima polmonare in lobi. Esistono due sacchi pleurici, uno per ciascun polmone. A livello dell’ilo polmonare
(porta di accesso a ciascun polmone) i due foglietti si riflettono uno nell’altro. Tra pleura viscerale e pleura
parietale è presente uno spazio nel quale è contenuta una piccola quantità di liquido pleurico, che serve a facilitare
lo scorrimento tra i due foglietti pleurici durante i movimenti respiratori, evitando attrito. In questo modo, quando
nei polmoni entra l’aria, la pleura viscerale che è umida e molto liscia, scorre senza attrito sulla pleura parietale,
anch’essa altrettanto umida e liscia, consentendo di respirare senza avvertire dolore. Nella pleurite, dovuta ad
un’infiammazione delle pleure, la respirazione provoca dolore perché lo scorrimento avviene con attrito. Quindi le
pleure oltre a facilitare lo scorrimento del polmone sulle pareti toraciche, sono fondamentali perché intervengono
per la realizzazione degli atti respiratori; durante la dilatazione della cavità toracica, data dai muscoli inspiratori, la
pleura parietale che aderisce alle pareti toraciche, seguendo i movimenti delle pareti provoca una pressione
negativa all’interno della cavità pleurica, che viene compensata con l’espansione del polmone, che richiama quindi
aria dall’esterno. Il torace gioca quindi un ruolo cruciale nella respirazione e le maggiori variazioni di volume del
torace si hanno quando si ha la contrazione del diaframma. Con la respirazione diaframmatica, cioè quando il
diaframma si contrae, si appiattisce in fase di
inspirazione (linea rossa) abbassando il pavimento
del torace, aumentando la cavità toracica e
favorendo l’espansione dei polmoni verso il
basso, all’interno dello spazio di riserva della
pleura. Quando il diaframma si rilascia (linea blu)
si trova più in alto, riprendendo la sua forma
iniziale, quindi con le cupole diaframmatiche più
evidenti; di conseguenza la cassa toracica ha un
volume minore. Sono queste modificazioni
morfologiche che permettono l’inspirazione e
l’espirazione. Contemporaneamente alla
contrazione del diaframma, le coste si spostano
verso l’alto e l’esterno, allargando ulteriormente la gabbia toracica; siccome le coste hanno una forma un po’
ellittica e il loro angolo di attacco alla colonna vertebrale si trova più in alto rispetto alla loro estremità anteriore,
questo fa sì che la cavità si faccia più ampia quando la gabbia toracica si solleva. In questo modo viene aumentata
sia la profondità, cioè il diametro antero-
posteriore, ma anche la larghezza del torace. È
chiaro che ci sono alterazioni legate all’età che
possono rendere più difficoltosa la
respirazione, perché in età avanzata le coste e
lo sterno tendono ad articolarsi tra loro in
maniera più rigida; inoltre i muscoli respiratori
diventano meno efficienti.

I polmoni sono contenuti nelle logge pleuropolmonari della cavità


toracica, che sono delimitate lateralmente dalle coste e dai muscoli
intercostali, medialmente dal mediastino, inferiormente dal
diaframma e superiormente dai vasi succlavi, oltre che dal plesso
brachiale e dal muscolo scaleno anteriore.

Quest’immagine rappresenta le facce mediane o


mediastiniche. A livello della faccia mediastinica si
trova il cosiddetto ilo polmonare, ovvero la porta di
ingresso dell’organo (quadrato tratteggiato); l’ilo è il
punto di ingresso di tutte le strutture vascolari e
nervose che devono raggiungere il polmone o uscirne.
Nell’ilo entrano i bronchi, l’arteria polmonare, le vene
polmonari e i nervi. Ci sono poi dei vasi più piccoli,
ovvero le arterie e le vene polmonari che sono i vasi
nutritizi del polmone, appartenenti al grande circolo.
Tutte queste strutture, che entrano o escono dal
polmone, vengono definite nel loro insieme col termine di peduncolo polmonare.
Il volume del polmone destro è maggiore di quello sinistro ed è di circa
1600 cm3 nel maschio (un po’ meno nella femmina), con un rapporto di
circa 11 a 10 col polmone sinistro. I rapporti tra polmoni e parete toracica
possono anche cambiare tra individuo e in dividuo e anche in rapporto alle
fasi e alle intensità degli atti respiratori. L’apice del polmone corrisponde
all’apertura superiore del torace e oltrepassa la clavicola di circa un paio di
centimetri; tant’è che l’apice del polmone lo possiamo toccare a livello
della regione sovra-claveare. Il margine anteriore comincia dietro
all’articolazione esterno-clavicolare, scende dietro il manubrio dello sterno
e continua dietro al corpo dello sterno, fino a livello della sesta/settima
cartilagine costale (anche se margine inferiore è variabile con
respirazione).

I polmoni si possono paragonare a due coni con l’apice in alto e la


base in basso. Prima della nascita i polmoni sono di colore rosso
brunastro, mentre nel bambino sono più rosei; nell’adulto diventano
grigiastri, perché compaiono macchie sempre più numerose a causa
dell’accumulo di pigmenti. I pigmenti sono per lo più particelle di
carbone che arrivano con l’aria ispirata e si depositano nel connettivo
interstiziale intorno ai vasi. La quantità e il tipo di pigmento possono
variare in rapporto a quelle che sono le nostre abitudini di vita, le
professioni svolte e relativamente all’ambiente in cui viviamo. La
superficie polmonare presenta una specie di disegno ad areole, che si
accentua con l’età, perché le linee di demarcazione di queste areole
sono quelle in cui si ha l’accumulo delle particelle di carbone; queste areole non sono altro che le facce
superficiali dei lobuli, in cui il parenchima polmonare viene suddiviso.
I polmoni sono organi parenchimatosi dalla consistenza molle e spugnosa, dotati di grande elasticità che
favorisce il ritorno elastico durante l’espirazione. Il polmone presenta una base che può essere identificata col
nome di faccia diaframmatica, poi ha un apice che sporge dietro la clavicola, una faccia laterale che prende il
nome di faccia costovertebrale e una mediana chiamata faccia mediastinica. Si possono anche distinguere tre
margini, uno anteriore, uno posteriore e uno inferiore. La base dei polmoni si modella perfettamente alla
convessità del diaframma, pertanto ha una forma
concava. Attraverso l’interposizione del diaframma, il
polmone destro entra in rapporto con il lobo destro
del fegato, mentre quello sinistro col lobo sinistro del
fegato, con lo stomaco e con la milza.
Posteriormente i margini polmonari scendono più in
basso e vanno così a porsi in rapporto con la
ghiandola surrenale e col polo superiore del rene
(sempre con interposizione del diaframma). La faccia
costovertebrale è convessa e si estende dal margine
anteriore fino al margine posteriore. La
faccia mediastinica è leggermente concava ed è
compresa tra margine anteriore e posteriore e
presenta al centro l’ilo. Sotto l’ilo i due foglietti pleurici si prolungano verso il diaframma, formando il legamento
polmonare, anche detto legamento triangolare del polmone, che va a fissare il polmone al diaframma.
Osservando la superficie del polmone si vede
che è percorsa da delle scissure (o fessure) che
si approfondano fino all’ilo e consentono di
dividere i polmoni in regioni più piccole,
chiamate lobi. A livello del polmone destro sono
presenti due scissure, quella più in basso è detta
scissura principale o obliqua, da cui se ne origina
un’altra detta secondaria o orizzontale. La
presenza di queste due scissure consente di
dividere il polmone di destra in tre lobi, uno
superiore, uno medio e uno inferiore. Nel
polmone sinistro è presente una sola scissura,
ovvero quella principale; quindi il polmone
sinistro è diviso solo nel lobo superiore e inferiore. In ciascuno dei lobi polmonari si possono osservare ulteriori
divisioni. I lobi sono territori indipendenti dal punto di vista funzionale, perché presentano una vascolarizzazione e
una ventilazione propria; all’interno di ogni lobo si possono anche distinguere dei territori più piccoli, che
prendono il nome di segmenti polmonari, e i lobuli. Quest’ulteriore divisione dei lobi in zone ha un significato
funzionale, perché quando si hanno delle patologie polmonari gravi, come i tumori, in cui è necessario asportare
parte del polmone, la suddivisione in zone permette di asportare le porzioni più piccole possibili all’interno di un
lobo, quindi di sacrificare il minimo possibile di parenchima polmonare; quest’intervento prende il nome di
zonectomia. La zona polmonare costituisce un territorio che fa parte di un lobo, ma che presenta una sua
indipendenza anatomica, perché è rifornita da un’arteria zonale, da una rete venosa zonale e da un bronco zonale.
Ciascun polmone presenta un totale di dieci zone.

La suddivisione in lobuli è per lo più strutturale. I lobuli sono dei territori più piccoli delle zone, delimitati da tessuto
connettivo; all’interno di ogni lobulo si trovano le unità funzionali o elementari dei polmoni, cioè gli acini
polmonari. Ogni lobulo è costituito circa da 10/15 acini polmonari. Con la suddivisione dei lobi, delle zone e dei
lobuli, anche l’albero bronchiale si divide: i lobi sono forniti da bronchi lobari, le zone dai bronchi zonali e i lobuli
dai bronchi lobulari. All’interno del lobulo, i bronchi lobulari si ramificano in rami più piccoli, che formano i
bronchioli terminali che ventilano gli acini. Le ramificazioni bronchiali all’interno del lobulo sono quelle che
costituiscono il parenchima polmonare. L’insieme dei bronchi che precedono quelli lobulari, vengono definiti come
parte intrapolmonare dell’albero bronchiale. Seguendo i bronchi, anche le arterie polmonari si ramificano e a
livello degli alveoli formano le reti di capillari. Ricalcando l’albero bronchiale si ramificano anche le arterie
bronchiali e i nervi. Dalle reti capillari che circondano gli acini, si formano le radici delle vene polmonari, che vanno
a confluire in vasi di calibro sempre maggiore che decorrono
nel connettivo interstiziale, fino a che non si formano le vene
polmonari, che terminano nel lato sinistro. Quindi il sistema dei
vasi polmonari è un sistema funzionale e costituisce la piccola
circolazione, mentre il sistema dei vasi bronchiali formano un
sistema nutritizio che fa parte della grande circolazione.
L’arteria polmonare origina nel ventricolo destro e le vene
polmonari terminano nell’atrio sinistro; le arterie bronchiali
sono rami dell’aorta toracica (rami viscerali), mentre le vene
bronchiali confluiscono nelle vene azigos ed emiazigos. In ogni
acino il bronchiolo respiratorio (o alveolare) si divide in
maniera dicotomica, cioè si formano due rami. Si stima che nei
due polmoni siano presenti 300 milioni di alveoli, ma se
immaginassimo di aprire questi alveoli e di appiattirli su una
superficie, questi coprirebbero le dimensioni di un campo da
tennis, quindi intorno a circa 85 m2, circa quaranta volte la superficie del corpo umano; tutto questo serve ad
acquisire rapidamente grandi quantità di ossigeno e a liberarsi velocemente dell’anidride carbonica che si è
formata dal metabolismo cellulare.

L’unità elementare del parenchima polmonare è quindi l’acino polmonare


ed è formato da tutte le ramificazioni provviste di alveoli, che si formano a
partire da un bronchiolo terminale. (nel disegno in rosso vena polmonare e
in blu arteria polmonare)

La parete alveolare è forata dall’epitelio alveolare pavimentoso


semplice e tutto intorno da uno strato connettivale ricco di
capillari. L’epitelio e formato da due tipi di cellule: gli
pneumociti di primo tipo, o cellule alveolari di primo tipo, e gli
pneumociti di secondo tipo, o cellule alveolari di secondo tipo;
può trovarsi un terzo tipo di cellula o nella parete o nella cavità
alveolare, ovvero i macrofagi e che provengono dai setti
connettivali tra gli alveoli. Tra cavità alveolari vicine possono
essere presenti dei pori, che permettono alle cavità di
comunicare tra loro.
Gli pneumociti di primo tipo (2) sono cellule piuttosto appiattite,
sporgono solo dove è presente il nucleo, con lamine citoplasmatiche che
vanno a costituire la parete alveolare. Queste cellule formano il 90%
della superficie interna della cavità alveolare, formano uno strato
continuo.
Gli pneumociti di secondo tipo (3) hanno una struttura molto diversa:
sono cellule più tondeggianti, hanno dimensioni maggiori e coprono una
superficie decisamente inferiore, circa il 10% della superficie alveolari.
Queste cellule sporgono all’interno della cavità (1) e si trovano sparse
tra gli pneumociti di primo tipo. Quelle di secondo tipo presentano un
citoplasma son degli inclusi delimitati da membrane; questi inclusi sono
detti anche corpi multilamellari e contengono delle lipoproteine con
azione surfactante. I materiali surfactanti formano uno strato (azzurro)
che si stratifica sulla superficie interna degli alveoli e consente di
mantenere gli alveoli dilatati; questo fa sì che venga permesso il
massimo utilizzo della superficie che serve per la
respirazione. Il surfactante è una sorta di pellicola fosfolipidica, che
serve ad abbassare la tensione superficiale degli alveoli e quindi a facilitare l’espansione dei polmoni. Uno dei
problemi respiratori legati al fatto di nascere prematuri è quello che essendo il polmone ancora immaturo spesso
non è in grado di produrre adeguate quantità di surfactante.

I macrofagi alveolari (5) sono grosse cellule tondeggianti e possono migrare tra il connettivo intra-alveolare e la
cavità alveolare.
Sotto l’epitelio alveolare si trova una lamina basale, che si fonde con la lamina basale dei capillari alveolari (8). I
capillari alveolari sono vasi molto sottili, con un calibro inferiore agli stessi globuli rossi (5/6 µm), quindi per poter
passare si impilano tra loro formando delle file, attraversando più lentamente i capillari; questo fa sì che il tempo
utile agli scambi gassosi sia maggiore.
Le fibre elastiche formano una rete a maglie larghe intorno all’alveolo, mentre le fibre collagene formano una rete
a maglie un po’ più strette.

Lo spazio tra alveolo e capillare è definita


barriera aria-sangue, o membrana respiratoria,
che è quindi formata dall’epitelio alveolare,
dall’endotelio del capillare e dalle rispettive
lamine basali. Nei punti in cui le cellule
endoteliali dei capillari e le cellule alveolari
entrano in contatto, le relative membrane basali
si fondono. Lo spessore di questa barriera può
variare da 0,2 a 0,7 µm, perché non in tutti i
punti le lamine basali sono fuse, in alcuni punti
tra esse ci possono essere cellule del connettivo
interstiziale. I gas passano dall’eritrocita
all’alveolo per la differenza di pressione parziale.

In questa immagine si vedono bene i pori di Kohn, cioè delle finestre tra
cavità alveolari vicine, attraverso cui l’aria può fluire.
Apparato endocrino
È un apparato molto antico, già presente nei microorganismi unicellulari ed è
costituito da un insieme di ghiandole e cellule, distribuite in zone molto diverse del
copro umano. L’apparato endocrino con la sua secrezione è implicato sia nei
processi della vita vegetativa, che nei processi della vita di relazione. Insieme al
sistema nervoso, l’apparato endocrino funziona in modo da ottenere e mantenere
una stabilità dell’ambiente interno, in modo da assicurare sempre una situazione
di equilibrio in rapporto alle continue modificazioni che sia hanno nell’ambiente; i
due sistemi possono lavorare in maniera indipendente o in concerto l’uno con
l’altro, a costituire una sorta di grande sistema neuroendocrino, che è in grado di
presiedere a quelle che sono le funzioni generali del copro. Bisogna sempre tenere
presente che quasi ogni processo dell’organismo umano viene mantenuto in
equilibrio da questa interazione complessa ed estremamente precisa, grazie a
sostanze regolatrici che sono sia di natura endocrina che nervosa.
L’apparato endocrino produce delle sostanze chiamate ormoni, che vanno ad agire
su organi e tessuti bersaglio che possiedono dei recettori estremamente specifici.
L’apparato endocrino si può definire come un sistema di comunicazione complesso, che integrato col sistema
nervoso controlla per via umorale (attraverso il sangue) molte funzioni essenziali alla sopravvivenza dell’individuo,
alla sua crescita e al mantenimento della specie.
La regolazione endocrina di diversi processi del copro umano inizia molto precocemente nello sviluppo, già durante
la vita intrauterina. Dopo la nascita diversi ormoni sono già in grado di influenzare l’attività di varie cellule bersaglio
presenti nel copro; è proprio un meccanismo di tipo endocrino, ovvero un segnale ormonale prodotto dal feto, che
raggiunge la madre e che da inizio al travaglio del parto. In un senso molto ampio si può dire che la funzione
dell’apparato endocrino è quella di trasmettere delle informazioni molto sofisticate, andando a completare le
funzioni del sistema nervoso.
A differenza del sistema nervoso, il sistema endocrino agisce più lentamente, in un arco di tempo più lungo che va
dai trenta minuti alle tre ore circa; nel caso di alcuni ormoni, come quello della crescita, i tempi sono decisamente
più lunghi. L’apparato endocrino agisce anche più diffusamente, perché tutte le cellule del copro sono raggiunte
dai messaggi ormonali; inoltre è un sistema afferente, quindi invia prevalentemente dei segnali diretti alla
periferia.
Questa compartecipazione di questi due principali sistemi di regolazione, ci consente di avere un controllo molto
preciso su molti parametri, come ad esempio assorbimento e immagazzinamento di ioni calcio, metabolismo dei
nutrienti e capacità produttive. Il sistema nervoso, con i suoi messaggi continui, controlla direttamente solo i
muscoli e le ghiandole, che sono quindi innervate da fibre afferenti; il sistema endocrino, invece, agisce in maniera
più diffusa, quindi è in grado di regolare molte cellule del corpo umano. Gli effetti dei neurotrasmettitori hanno
durata più breve, mentre gli effetti legati agli ormoni hanno durata più lunga.
Gli ormoni possono essere sostanze di natura chimica anche molto diversa e sono prodotti dalle ghiandole
endocrine. Da un punto di vista morfologico, le ghiandole endocrine differiscono da quelle esocrine perché non
possiedono dei dotti escretori; quindi sono complessi formati da cellule secernenti che derivano da un epitelio di
rivestimento, ma perdono il collegamento con l’epitelio di origine e riversano il loro prodotto di secrezione
direttamente nel sangue. Le ghiandole endocrine hanno generalmente aspetti morfologici comuni, cioè sono tutte
formate da cellule che presentano le caratteristiche di elementi secretori, ma queste cellule possono associarsi a
formare strutture con una morfologia diversa tra loro; possono formare cordoni, follicoli o gruppi. Una
caratteristica distintiva delle ghiandole endocrine è quella di essere a contatto sempre con una grande quantità di
capillari sanguigni.

Il termine ormone deriva dal greco όρμάω, hormâō, che vuol


dire eccitare. Sono sostanze liberate nel sangue e attraverso
questo agiscono come segnali destinati soltanto a specifiche
cellule, che prendono il nome di cellule bersaglio; gli organi e i
tessuti che contengono le cellule bersaglio prendono il nome
di organi e tessuti bersaglio. Ogni ormone viene prodotto in
maniera molto selettiva ed esclusiva da una certa ghiandola o
cellula endocrina, possiede una composizione chimica ben
definita e svolge un’azione specifica solo a livello di quegli
organi sensibili, che possiedono i recettori specifici in grado di
riconoscere l’ormone. I bersagli possono anche essere altre
ghiandole endocrine, su cui alcuni ormoni che in questo caso
prendono il nome di tropine, agiscono regolandone la
funzione. Il legame che si crea tra l’ormone e la serratura può essere paragonabile al meccanismo chiave-
serratura; è un legame altamente specifico e innesca una risposta cellulare, che può essere diversa da cellula a
cellula e che prevede l’attivazione di proteine strutturali o enzimatiche.

La maggior parte delle cellule nervose sono formate da un epitelio di tipo ghiandolare, ma ci sono dei casi in cui
possono essere formate da un tessuto neurosecernente, ovvero dei semplici neuroni che però producono dei
messaggi chimici; questi messaggi chimici anziché essere riversati nello spazio sinaptico (come di norma avviene
per quanto riguarda il sistema nervoso) vengono riversati anch’essi nel sangue. In questo caso, anziché prendere il
nome di neurotrasmettitore, prende il nome di ormone. Ad esempio, la noradrenalina è un neurotrasmettitore del
sistema nervoso; quando questa è rilasciata da un neurone e diffonde nella fessura sinaptica andandosi poi a
legare a dei recettori presenti sul neurone post-sinaptico, allora si parla di un neuro trasmettitore, mentre se la
stessa noradrenalina diffonde prima nel sangue e poi si lega a un recettore presente nella cellula bersaglio, allora si
parla di ormone.

L’apparato endocrino è costituito da una serie di ghiandole che sono distribuite


in maniera diffusa nel corpo umano e ci sono sempre nuove scoperte in
endocrinologia (medicina che si occupa di ghiandole endocrine e ormoni) che
allungano la lista di tessuti in grado di produrre ormoni. Gli ormoni sono
sostanze che in genere agiscono a concentrazioni molto basse, di fatti le
ghiandole endocrine non sono organi con grandi dimensioni, si pensi all’ipofisi
che si trova alla base del cranio e produce un gran numero di ormoni, ma che è
molto piccola. Il concetto classico di ghiandola endocrina come entità
morfologica formata da più cellule si è via via andato modificando e allargando
col tempo; infatti, sono state identificate delle cellule, quindi ghiandole
endocrine unicellulari, che sono distribuite un po’ dappertutto, in particolare nel
tratto gastrointestinale. Queste cellule endocrine unicellulari producono
sostanze che agiscono da veri e propri ormoni e l’insieme di tutte queste cellule
forma quello che è definito come sistema endocrino diffuso. Ad esempio, nella
mucosa gastroenterica e nel pancreas, è stato identificato un gran numero di
cellule in grado di produrre sostanze di natura ormonale.
Le ghiandole endocrine pluricellulari sono l’ipofisi, l’epifisi, la tiroide, le paratiroidi, gli isolotti pancreatici, le
ghiandole surrenali, la ghiandola interstiziale del testicolo e le formazioni endocrine dell’ovaio. Queste ghiandole
presentano un’organizzazione strutturale che può essere diversa tra loro.
Per quanto la classificazione strutturale, da un punto di vista morfologico, le ghiandole endocrine si possono
distinguere nelle seguenti categorie:
• Le ghiandole a struttura compatta sono costituite da cordoni o da nidi cellulari, come l’ipofisi
• Il tessuto ghiandolare si può organizzare a costituire delle strutture follicolari, in cui le cellule vanno a
circoscrivere delle cavità centrali che contengono il prodotto di secrezione, come la tiroide
• Le ghiandole interstiziali sono formate da gruppi di cellule endocrine che si trovano all’interno di un
organo che non è endocrino, come le ovaie e i testicoli.

Per quanto riguarda la classificazione degli ormoni prodotti dalle ghiandole o cellule endocrine, si possono
classificare in vari modi. Una prima classificazione si basa sulla struttura chimica di queste sostanze:
• Gli ormoni steroidei sono quelli sintetizzati dalle cellule endocrine, a partire dalla molecola del colesterolo,
ovvero un lipide molto importante. Gli steroidi, essendo derivati dal colesterolo, sono sostanze solubili nei
lipidi, quindi sono in grado di attraversare la membrana cellulare delle cellule bersaglio. Alcuni esempi di
ormoni steroidei sono i glicocorticoidi, i mineralcorticoidi, gli androgeni, gli estrogeni e i porgestinici.
• Gli ormoni di natura proteica o glicoproteica sono formati da catene di amminoacidi, come l’insulina e il
glucagone, prodotti dalle isole pancreatiche. Si parla di glicoproteine quando alle catene di amminoacidi si
legano anche i gruppi di carboidrati, come ad esempio l’FSH, l’LH e il TSH; questi sono ormoni ipofisari
rispettivamente follicolostimolante, luteinizzante e tireostimolante.
• Le catecolamine derivano da amminoacidi, come l’adrenalina e la noradrenalina, che derivano
dall’amminoacido triptofano e che sono prodotte dalla midollare del surrene.
• Le sostanze iodinate, che contengono iodio, sono ad esempio gli ormoni tiroidei.
• I peptidi a breve catena sono sempre formati da catene di amminoacidi, ma più brevi, formate quindi da
pochi amminoacidi; sono quindi piccole sostanze ormonali e un tipico esempio sono gli ormoni ipotalamici
stimolanti e inibenti l’ipofisi (ipotalamo fa parte del sistema nervoso, che attua la neurosecrezione).

Gli ormoni possono essere anche classificati in base alla loro funzione generale in ormoni tropici, le cosiddette
tropine, che hanno come organi bersaglio altre ghiandole endocrine; ci sono gli ormoni sessuali, che hanno come
organi bersaglio quelli della riproduzione, ci sono gli ormoni anabolici, che vanno a stimolare l’anabolismo nelle
cellule bersaglio, ovvero la sintesi di sostanze complesse.

Quando più ormoni lavorano per avere lo stesso effetto su una stessa cellula bersaglio, si parla di sinergismo o
effetto sinergico; invece, quando due ormoni agiscono in modo tale che uno abbia un effetto opposto rispetto
all’altra, allora si parla di ormoni antagonisti, quindi di antagonismo. L’antagonismo è un fenomeno molto utilizzato
in natura, perché consente di regolare con estrema precisione l’attività delle cellule bersaglio.

Il legame tra ormone e recettore può determinare meccanismi di azione differenti in base al tipo di ormone.
In questa immagine è rappresentato il meccanismo di azione degli
ormoni proteici, che sono quindi idrosolubili. Essendo idrosolubili non
sono in grado di attraversare la membrana cellulare fosfolipidica e
quindi si legheranno a recettori presenti sulla membrana della cellula
bersaglio. Questo legame tra l’ormone e il recettore specifico innesca
una cascata di reazioni, che ha come effetto finale l’attivazione di una
proteina presente nel citoplasma cellulare; queste proteine attivate
innescano delle reazioni che portano alla risposta finale fisiologica.

Gli ormoni steroidei sono liposolubili e quindi in grado di attraversare la


membrana cellulare, per andare a legarsi a recettori presenti all’interno
della cellula bersaglio, nel citoplasma o nel nucleo. Quelli che finiscono
nel nucleo hanno un’azione diretta nella sintesi del DNA. In questo caso,
il legame tra ormone e recettore ha come risultato finale la sintesi di una
nuova proteina specifica, che andrà a modificare l’attività della cellula.

Gli ormoni sono sostanze in grado di agire a concentrazioni molto piccole, quindi i meccanismi di regolazione
devono essere molto sofisticati per mantenere queste concentrazioni all’interno di un range ottimale. Di
conseguenza, l’attività delle ghiandole endocrine viene controllata in maniera costante da una serie di sistemi che
hanno il compito continuo di adeguare i livelli ormonali alle esigenze dell’organismo. Il principale tra questi
meccanismi di regolazione è quello a feedback, cioè retroattivo. Questo significa che la secrezione ormonale è
regolata dalla stessa concentrazione dell’ormone o dalle funzioni che sono legate ad esso. In pratica, il controllo
della secrezione ormonale fa parte di un circuito a feedback negativo, cioè che in questo modo si tende ad
eliminare ogni deviazione che riguardi l’ambiente interno, deviazione che allontani rispetto a un punto ottimale di
funzionamento, da un certo valore programmato. In alcuni casi molto più rari, la secrezione ormonale è regolata da
un feedback positivo; in questo caso la deviazione rispetto a un certo valore programmato, anziché essere ridotta
come nel feedback negativo, viene amplificata. In pratica, il circuito a feedback negativo si ha quando il prodotto
finale di una via agisce interrompendo o rallentando la via stessa; al contrario, un circuito a feedback positivo è
coinvolto quando il prodotto finale di una via deve stimolare ulteriormente l’attività di quella via. Ad esempio, il
paratormone secreto dalle paratiroidi, che produce delle risposte da parte delle sue cellule bersaglio che sono gli
osteoclasti del tessuto osseo, ovvero fa rilasciare ioni calcio nel sangue, facendo innalzare la calcemia; quando
questa concentrazione supera il valore ottimale, le cellule delle paratiroidi vengono avvertite e per via riflessa
riducono la secrezione di paratormone. Ci sono feedback più lunghi come quello di alcune ghiandole endocrine che
sono regolate nella loro attività da un ormone prodotto da un’altra ghiandola endocrina, come l’ipofisi; questa
regola altre ghiandole endocrine, compresa la tiroide producendo l’ormone TSH (tireotropina) il quale agisce sulla
tiroide, stimolandola a produrre i suoi ormoni. Ci sono processi di feedback ancora più lunghi, perché anche la
secrezione dell’ipofisi è regolata a sua volta dall’ipotalamo, che svolge attività di neurosecrezione e che fa parte del
sistema nervoso.
Tutti questi sistemi di controllo esercitati da questi circuiti a feedback più o meno lunghi, consentono una
regolazione molto precisa della secrezione ormonale, quindi una più precisa regolazione dell’ambiente interno
dell’organismo.

Esempio:
Le paratiroidi sono sensibili alle variazioni di calcio
nel plasma. Quando una donna allatta e quindi
produce latte per il suo bimbo, si ha un grande
consumo di calcio e di conseguenza la
concentrazione di calcio nel sangue si abbassa. Le
paratiroidi rilevano questa riduzione e rispondono
aumentando la secrezione dell’ormone che esse
producono, cioè il PTH (paratormone); questo ha il
compito di stimolare l’attività di quelle cellule del
corpo che sono gli osteoclasti, i quali erodono la
matrice ossea, rimuovono il calcio in esse
depositato e come conseguenza si ha un aumento
della calcemia, fino a ripristinare la concentrazione
iniziale. In pratica, si può paragonare questo circuito
a feedback negativo al termostato di una casa.

Esempio:
Il processo di rilascio del latte è regolato con
un feedback positivo. Quando il bambino
succhia il latte produce uno stimolo iniziale
che invia degli impulsi nervosi a un organo
nervoso, che è l’ipotalamo, che produce
l’ormone ossitocina. Questa viene rilasciata nel
sangue a livello dell’ipofisi posteriore
(neuroipofisi). L’ossitocina agisce sulla
ghiandola mammaria stimolandola a liberare il
latte. Fino a quando il latte è rilasciato, il
bambino continua a succhiare, continuando a stimolare l’ipotalamo; più il bambino succhia, più il latte viene
prodotto e il processo continuerà finché il bambino non smette di succhiare o finché tutto il latte non viene
secreto. Un feedback positivo è quindi un processo che accelera quello originario, assicurando che questo continui
nel tempo e che ne sa aumentata l’attività.
Sono tantissime le patologie che colpiscono il sistema endocrino, perché le ghiandole endocrine sono molto
numerose; spesso si tratta di patologie anche molto serie. Di solito forme tumorali causano una secrezione in
eccesso o in difetto degli ormoni; si parla di ipersecrezione quando si ha una produzione ormonale in eccesso,
mentre si parla di iposecrezione quando è in difetto. In certi casi alcuni disordini endocrini che in prima analisi
sembrano riferirsi ad un problema di iposecrezione, in realtà potrebbero essere causati da dei difetti a carico delle
cellule bersaglio che rispondono a quel determinato ormone; potrebbero essere danneggiati i recettori,
potrebbero essere scarsi o presentare qualche anomalia e in tutti questi casi le cellule non possono rispondere in
maniera adeguata a quell’ormone. In altre parole, la mancata risposta delle cellule bersaglio può anche non essere
dovuta a un’iposecrezione dell’ormone, bensì ad una certa insensibilità delle cellule bersaglio stesse. È il caso del
diabete di tipo 2 non insulino dipendente, in cui l’aumento della glicemia può essere dovuta ad un effettivo deficit
di secrezione di insulina o da un’insulino-resistenza, tipica del diabete adulto, che consiste proprio nell’incapacità
di certi organi di rispondere all’insulina. L’insulina è un ormone prodotto dal pancreas, il cui compito è quello di far
entrare il glucosio all’interno delle cellule e quando ci sono dei difetti recettoriali nella cellula, il glucosio non riesce
a entrarvi, restando nel circolo sanguigno con conseguente aumento della glicemia. Il pancreas cerca di superare
quest’insulino-resistenza producendo più insulina e questo fa sì che nel tempo, questa iperproduzione provochi
una sorta di esaurimento funzionale, per cui il pancreas tende a produrre sempre meno insulina; infatti, spesso
l’evoluzione del diabete di tipo 2 è caratterizzato da un peggioramento dell’iperglicemia, il che comporta che si
debba rivalutare nel tempo anche il programma terapeutico. Per eliminare l’eccesso di glucosio nel sangue, il
soggetto diabetico presenta un’aumentata perdita di acqua, quindi un’elevata escrezione di urina, con glicosuria.

Ipofisi
L’ipofisi è una ghiandola molto piccola, ma ciò nonostante è
importantissima; pesa meno di un grammo ed è grande
all’incirca come un cece. È in grado d regolare l’intero
organismo, quindi è stata definita come la direttrice del
sistema endocrino. È localizzata all’interno della scatola
cranica, alloggiata all’interno di una cavità della base
cranica, in particolare nella cavità dell’osso sfenoide; questa
cavità prende il nome di sella turcica. La parte superiore
della sella turcica presenta una sorta di tetto, formato dalla
duramadre, cioè la meninge protettiva più esterna; la
duramadre forma una piega a questo livello, che prende il
nome di diaframma della sella, che separa l’ipofisi dalle
formazioni dell’encefalo. Il diaframma della sella presenta
un’apertura attraverso cui passa una formazione, ovvero il peduncolo ipofisario dell’ipofisi, detto anche
infundibolo. Questo peduncolo connette l’ipofisi all’organo del sistema nervoso situato superiormente, cioè
l’ipotalamo, che è quindi la porzione ventrale
anteriore del diencefalo (parte tra due emisferi
cerebrali) e che è delimitato anteriormente dal
chiasma ottico. In questa immagine l’ipofisi è
colorata di due colori diversi, perché può essere
considerata come formata da due ghiandole
distinte. Queste due parti hanno una diversa
derivazione embriologica; la parte anteriore
dell’ipofisi prende il nome di adenoipofisi, mentre
quella posteriore si chiama neuroipofisi. La prima
si sviluppa come evaginazione verso l’alto della
volta della cavità buccale ed è formata da un
tessuto ghiandolare endocrino; invece, la
neuroipofisi si sviluppa da un’evaginazione della
base del cervello ed è costituita da tessuto nervoso a funzione secernente. Ne consegue che anche i numerosi
ormoni prodotti dalle due parti, presiedono a funzioni molto diverse tra loro.

L’adenoipofisi è più grande rispetto alla neuroipofisi o


ipofisi posteriore. L’adenoipofisi può essere distinta in
diverse parti che presentano diversi gruppi di cellule: la
parte più consistente è quella anteriore, poi c’è una parte
addossata alla neuroipofisi, chiamata parte intermedia e
poi ce n’è un’altra addossata al peduncolo ipofisario e
prende il nome di parte infundibolare o tuberale. I vari
gruppi di cellule secernenti presentano una certa ricchezza
di capillari sanguigni e in base alle diverse affinità tintoriali
nei confronti dei coloranti usati in istologia, le diverse parti
dell’adenoipofisi possono essere classificate sulla base del
tipo di secrezioni prodotte.
Qui sono rappresentati i nomi di tutti gli ormoni
prodotti dall’ipofisi (adenoipofisi rosa, neuroipofisi
azzurro) e l’indicazione della sede primaria delle
rispettive cellule bersaglio. Il GH o ormone
somatotropo è l’ormone della crescita, la cui funzione
primaria è quella di promuovere l’accrescimento,
inducendo la sintesi a livello epatico di un fattore di
crescita, che stimola la sintesi proteica; questo
processo di sintesi proteica è particolarmente attivo a
livello delle cartilagini di accrescimento e delle masse
muscolari.
Il PRL o prolattina o ormone lattogeno ha funzione di
stimolare la produzione di latte da parte della
ghiandola mammaria, durante il puerperio; durante
la gravidanza, questo ormone insieme agli ormoni
estrogeni, al progesterone e ad altri, prepara la ghiandola mammaria, ma la sua azione vera e propria si manifesta
soltanto a parto avvenuto, facendo sì che produca effettivamente il latte, in seguito a una caduta degli estrogeni
circolanti. Nelle fasi successive l’allattazione è un processo che viene mantenuto dal riflesso di suzione. La
prolattina probabilmente va a anche a influenzare il comportamento materno dopo il parto e in alcuni casi causa
una situazione definita come depressione postpartum.
Un altro ormone prodotto dall’ipofisi è l’MSH o ormone melanostimolante, che agisce sui melanociti della cute,
stimolando la sintesi della melanina; secondo alcuni studiosi, questo ormone è sintetizzato dalle stesse cellule che
producono l’ACTH. Poi ci sono una serie di ormoni che possono essere definiti tropici, detti anche tropine, perché il
loro effetto è quello di andare a stimolare altre ghiandole endocrine.
L’ACTH o ormone adrenocorticotropo stimola il surrene, così come il TSH stimola l’attività della ghiandola tiroide.
Ci sono altre due tropine che vengono indicate più propriamente col termine di gonadotropine, perché agiscono
sulle gonadi e sono responsabili della produzione di due ormoni, cioè l’FSH e l’LH.
L’ADH o ormone antidiuretico o vasopressina e l’OT o ossitocina sono ormoni prodotti dalla neuroipofisi; in realtà,
le cellule della neuroipofisi non producono effettivamente questi due ormoni, ma vengono sintetizzati a livello
dell’ipotalamo, più precisamente in alcuni nuclei di esso. I neuroni dell’ipotalamo hanno un assone che trasporta gli
ormoni fino alla neuroipofisi e a questo livello sono rilasciati nel sangue.

L’ormone antidiuretico previene un’eccessiva perdita di acqua e la


formazione di eccessivi volumi di urina, quindi aiuta il corpo a conservare
l’acqua; quando si va incontro a disidratazione ci sono dei recettori a
livello dell’ipotalamo in grado di rilevare l’aumento di osmolarità nel
sangue, producendo quindi ADH, con funzione di riassorbire l’acqua a
livello dei tubuli renali, riportandola all’interno del sangue. Quando
l’osmolarità è ridotta viene inibita la produzione di ADH. L’alcool inibisce
la produzione di ADH, che agisce anche sulle ghiandole sudoripare e sulle
arteriole, determinando vasocostrizione con conseguente aumento della
pressione arteriosa (ecco perché viene chiamato anche vasopressina).
Quindi, la quantità secreta di ADH dipende dalla pressione osmotica e dal
volume di sangue.
L’ossitocina ha due azioni: da una parte stimola le contrazioni della muscolatura liscia uterina al momento del
parto, quindi stimola le contrazioni; in secondo luogo stimola le cellule mioepiteliali delle ghiandole mammarie,
che permettono l’eiezione del latte. Una volta che cominciano le contrazioni, queste stimolano una maggior
produzione di ossitocina e aumentano le contrazioni fino al parto, che continuano anche dopo al parto; questo è
indispensabile per consentire il secondamento, cioè l’espulsione della placenta (feedback positivo).

In questa parte del sistema nervoso sono presenti dei neuroni secernenti,
anche detti magni-cellulari (dimensioni maggiori rispetto ad altri neuroni
ipotalamici), e si localizzano nel nucleo sovraottico e paraventricolare. Questi
neuroni sono dotati di assoni che raggiungono la neuroipofisi, dove vanno a
contattare direttamente i capillari presenti in essa e immettono direttamente
nel sangue il loro secreto. Questi assoni formano il fascio ipotalamo-
ipofisario, che termina a ridosso dei capillari della neuroipofisi.

Accanto ai neuroni magno-cellulari, si possono osservare anche altri neuroni


secernenti più piccoli, chiamati parvi-cellulari; anche questi presentano assoni in cui
il prodotto di secrezione sta viaggiando, ma si portano verso l’ipofisi anteriore.
Questi neuroni con i loro assoni immettono le loro sostanze ormonali in un
complesso di vasi, che va a costituire il sistema portale ipotalamo-ipofisi. Si capisce
quanto ipotalamo e ipofisi siano un centro di regolazione cruciale e come siano
collegati tra loro attraverso l’infundibolo, attraversato sia da vasi sanguigni che da
assoni.

Il GH è sintetizzato dalle cellule somatotrope dell’adenoipofisi e la sua funzione primaria è quella di promuovere
l’accrescimento, perché a livello epatico induce la sintesi di un fattore di crescita, che stimola la sintesi proteica,
particolarmente a livello delle cartilagini di crescita e delle masse muscolari. Inoltre stimola il metabolismo dei
lipidi, mobilitandoli dai loro depositi e stimolandone l’utilizzo da parte delle cellule. Nel caso di ipersecrezione di
GH durante il periodo della crescita, prima che si sia avuta l’ossificazione delle cartilagini di accrescimento delle
ossa lunghe, la conseguenza è una rapida ed esagerata crescita scheletrica; questa condizione è definita col
termine di gigantismo. Se l’ipersecrezione di GH aumenta dopo che si è avuta l’ossificazione delle cartilagini di
accrescimento, allora si ha una condizione nota col termine di acromegalia (dal greco άκρος, akros "estremo" o
"estremità" e μεγάλος, megalos "grande"); in questo caso la cartilagine rimasta a livello dello scheletro costituisce
il nuovo osso e questa crescita anomala può causare delle deformità, come ingrandimento delle mani, dei piedi,
della mascella, della faccia e un ispessimento della pelle. Quando al contrario, durante gli anni di crescita si ha
un’iposecrezione di GH, la crescita corporea è ridotta e questa situazione prende il nome di nanismo ipofisario,
caratterizzato da una ridotta crescita corporea, ma che è armonica; nel nanismo ipofisario lo sviluppo scheletrico
non è adeguato all’età del soggetto, ma avviene in maniera proporzionata. Somministrando GH prima della
pubertà, per un certo numero di anni, si possono avere dei miglioramenti dell’altezza, anche se limitati.
Gli ormoni tropici, anche dette tropine, sono quelli che stimolano altre ghiandole endocrine, stimolano cioè lo
sviluppo delle rispettive ghiandole bersaglio e ne influiscono la secrezione. Tra le tropine il TSH è anche chiamato
tireotropina ed è una glicoproteina che agisce sulla tiroide, promuovendo e mantenendo l’accrescimento e lo
sviluppo della tiroide, stimolandola a secernere gli ormoni tiroidei.

L’ormone adenocorticotropo o ACTH, è chiamato anche corticotropina perché agisce sulla corticale del surrene,
stimolandone la secrezione ormonale.

Le gonadotropine agiscono sulle gonadi, ovvero ovaio e testicoli; in particolare sono l’ormone follicolostimolante o
FSH e l’ormone luteinizzante o LH. Questi due ormoni stimolano la crescita e mantengono le funzioni di ovaio e
testicoli. Durante l’infanzia l’adenoipofisi secerne quantità non significative di gonadotropine; la quantità di queste
aumenta a partire da qualche anno prima della pubertà, per poi raggiungere livelli massimi di secrezione al
momento della pubertà, in cui si ha lo sviluppo delle gonadi e l’inizio delle loro normali funzioni. In particolar modo
l’FSH stimola i follicoli primari contenuti nell’ovaio a crescere e a giungere a maturazione; ogni follicolo ovarico
contiene una cellula uovo in via di sviluppo, che verrà poi rilasciata durante l’ovulazione. Questo stesso ormone,
nei testicoli, ha l’azione di stimolare lo sviluppo dei tubuli seminiferi, mantenendo la spermatogenesi, ovvero la
produzione degli spermatozoi. L’LH stimola nell’ovaio la formazione e l’attività del corpo luteo, che può essere
considerato come una ghiandola endocrina; corpo luteo significa letteralmente “corpo giallo”, cioè ciò che resta del
follicolo ooforo dopo che questo si è rotto e ha rilasciato la cellula uovo che conteneva. Il corpo luteo ha un’intensa
attività di secrezione e sintetizza progesterone ed estrogeni, in risposta all’LH. Nel sesso maschile l’LH stimola
cellule presenti nello stroma dei tubuli seminiferi, dove sono presenti le cellule di Leydig e sono responsabili della
produzione di testosterone.

I neuroni parvi-cellulari producono ormoni peptidi a breve catena, che vengono


sempre immessi nel sangue. Questi ormi si chiamano fattori rilascianti RH
(liberine) o inibenti IH (statine) viaggiano attraverso un complesso di vasi che
forma il sistema portale ipotalamo-ipofisi. Questi ormoni vengono rilasciati nei
capillari dell’ipotalamo che si trovano nel peduncolo ipofisario, che sono legati
con i capillari dell’adenoipofisi, dove trovano subito le loro cellule bersaglio,
inducendo o inibendo la produzione dei diversi ormoni. Il sistema portale è
dato da una particolare organizzazione dei vasi sanguigni, in cui il sangue che
proviene dai capillari di un tessuto viene trasportato direttamente a capillari di
un altro tessuto, anziché essere immesso nel circolo sistemico generale.
Questo sistema fa sì che l’ipotalamo regoli direttamente la secrezione
dell’adenoipofisi, le cui funzioni sono subordinate all’ipotalamo; per descrivere
questa situazione in cui l’ipotalamo controlla l’ipofisi, si utilizza sovente il
termine asse ipotalamo-ipofisi. Non sempre effettivamente sono noti fattori sia
rilascianti che inibenti per le stesse
cellule bersaglio; sono noti fattori rilascianti e inibenti per le
gonadotropine e la prolattina. Attraverso dei meccanismi a feedback
negativo, l’ipotalamo è in grado di regolare la secrezione dell’adenoipofisi,
che a sua volta regola la secrezione delle diverse ghiandole su cui agisce,
le quali a loro volta vanno a regolare le attività dei tessuti bersaglio. In
effetti, ciò che fa l’ipotalamo con questi fattori rilascianti non è altro che
trasformare degli impulsi nervosi in secrezioni di tipo ormonale.
L’ipotalamo è quindi una sorta di anello di connessione tra sistema
nervoso e sistema endocrino, poiché integra l’attività di questi due
importanti sistemi, che sono alla base del coordinamento delle funzioni di
tutto l’organismo.
Tiroide
La tiroide si trova nella parte anteriore e inferiore del collo, appoggiata
alla cartilagine cricoidea della laringe e ai primi anelli tracheali. Forma e
dimensioni della tiroide possono cambiare, in quanto è un organo molto
sensibile alle condizioni fisiologiche del soggetto e al tipo di
alimentazione, in particolar modo per quanto riguarda l’apporto dello
iodio. Lateralmente e posteriormente prende rapporti con la trachea, in
quanto si trova all’incirca a livello del secondo/terzo anello tracheale e
con la cartilagine cricoidea. Da un punto di vista macroscopico si può
dire che la tiroide è formata da due lobi, connessi con una bretella
centrale, che prende il nome di istmo; è sovente in molto soggetti che
sopra all’istmo può essere presente una parte più sottile e allungata che
si porta verso l’alto, detta lobo piramidale. I lobi tiroidei sono coperti
anteriormente dai muscoli sottoioidei, mentre superiormente dalla
cartilagine tiroidea.

La cartilagine cricoide rappresenta il punto di repere


dell’istmo della tiroide. La tiroide è un organo molto
vascolarizzato, infatti vi giungono rami sia provenienti
dalla carotide esterna, che dall’arteria succlavia;
proprio per questa grande quantità di vasi e nervi,
l’accesso chirurgico alla tiroide è molto difficile. La
tiroide è un organo pieno rivestito esternamente da
una capsula di tessuto connettivo, che ne consente il
movimento durante la deglutizione e che invia
all’interno dei setti di natura connettivale, che
dividono il parenchima ghiandolare in porzioni più
piccole detti lobuli. Ogni lobulo è formato da dei
follicoli tiroidei, ovvero delle cavità chiuse di forma più
o meno circolare e di dimensioni differenti, che sono
formate da un singolo strato di cellule follicolari o
tireociti, che costituiscono un epitelio cubico semplice. Questa cavità centrale contiene una sostanza gelatinosa che
prende il nome di colloide, ovvero il modo in cui vengono immagazzinati gli ormoni tiroidei T3 (triiodotironina, tre
atomi di iodio) e T4 (tetraiodotironina, quattro atomi di iodio). I tireociti sono delle cellule in grado di sintetizzare la
tireoglobulina e di captare ioni iodio dal sangue, che si va a legare alle tiroxine presenti sulla tireoglobulina; ogni
tiroxina può legare due atomi di iodio e si può legare ad un’altra doppiamente iodata, formando il T4. Dal T4 si può
poi staccare un atomo di iodio, formando il T3, che è cento volte più attivo del T4. Le cellule parafollicolari o cellule
C sono più grandi e chiare delle altre e producono un altro ormone, con funzioni completamente diverse a quelli
nei follicoli; questo ormone è la calcitonina. I follicoli possono avere aspetto diverso a seconda delle diverse fasi di
attività: quando i follicoli presentano un epitelio più alto e cilindrico, vuol dire che la ghiandola sta producendo, è
in attività, mentre quando la ghiandola è a riposo perché i follicoli sono già pinei di colloide, le cellule diventano più
basse e cubiche.
Gli ormoni T3 e T4 accelerano il metabolismo energetico, aumentando il consumo di ossigeno e di ATP. La
calcitonina è un ormone ad azione ipocalcemizzante, ha cioè il compito di favorire l’accumulo degli ioni calcio
all’interno del tessuto osseo, quindi attiva gli osteoblasti che fabbricano la matrice ossea, sequestrando il calcio
dal sangue (aumenta la mineralizzazione ossea). La calcitonina ha anche un’azione a livello renale, perché
aumenta anche l’eliminazione renale del calcio. La calcitonina lavora in antagonismo con un ormone prodotto
dalle paratiroidi, che ha azione ipercalcemizzante, agendo sugli osteoclasti che smantellano la matrice ossea,
rendendo disponibile il calcio nel torrente ematico.

L’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide culmina con la


produzione degli ormoni tiroidei T3 e T4. Questi
vengono secreti dalla tiroide, in risposta all’ormone
ipofisario TSH, la cui produzione a sua volta è regolata
dall’ormone ipotalamico TRH. Quando T3 e T4 hanno
raggiunto determinate concentrazioni ematiche, si ha
un’azione a feedback negativo, inibendo la produzione
di TRH e quindi del PSH.

In linea generale gli ormoni tiroidei regolano lo sviluppo cerebrale del feto e del lattante e sono necessari per lo
sviluppo dello scheletro fetale; durante la vita embrionale e fetale, gli ormoni tiroidei stimolano la maturazione del
sistema nervoso centrale e dello scheletro. Nell’adulto regolano l’attività metabolica, influenzando la funzione di
tutti gli organi e tessuti; hanno anche un’azione termogenetica, cioè di innalzamento della temperatura corporea.
L’azione termogenetica consiste nel fatto che venga aumentato il consumo di ossigeno a riposo, quindi viene
innalzato il metabolismo basale, di conseguenza anche la temperatura corporea e quindi il fabbisogno calorico
quotidiano. Nel cuore aumentano la contrattività del miocardio e quest’azione viene definita col termine effetto
inotropo positivo; innalzano anche la frequenza cardiaca e questo effetto viene identificato col termine cronotropo
positivo.

Posteriormente ci sono quattro formazioni a forma di


lenticchia che si poggiano sui lobi tiroidei, due superiori e
due inferiori, anche se c’è una certa individualità rispetto
a numero e dimensioni. Questi sono le ghiandole
paratiroidi. Le cellule ghiandolari delle paratiroidi si
organizzano a formare delle formazioni a forma di nidi, di
cordoni, tra cui decorrono i capillari sanguigni. Le cellule
delle paratiroidi producono il PTH, ovvero il paratormone,
che è l’ormone antagonista della calcitonina; il
paratormone quindi regola l’omeostasi degli ioni calco e
fosforo. Agisce a tre livelli:
• A livello delle ossa stimola la mobilizzazione del
calcio, stimolando l’azione degli osteoclasti,
favorendo l’aumento della calcemia
• A livello renale aumenta il riassorbimento degli
ioni calcio, quindi diminuendo l’eliminazione di
esso
• A livello intestinale aumenta il riassorbimento del calcio che è stato introdotto con gli alimenti
Quindi il livello di concentrazioni di calcio nel
sangue è un parametro che viene mantenuto per
interazione della calcitonina e del paratormone. È
importante mantenere questo parametro entro
limiti piuttosto ristretti, perché l’eccitabilità
neuromuscolare, la coagulazione del sangue, il
funzionamento di alcuni enzimi e la permeabilità
delle membrane cellulari sono tutte funzioni che
dipendono dalla concentrazione di calcio nel
plasma.

I principali effetti determinati da difetti in eccesso o in


difetto di T3 e T4 e queste condizioni vengono indicate con i
termini di ipertiroidismo e di ipotiroidismo. Quando la
tiroide produce ormoni in eccesso, l’organismo produce
energia più velocemente del dovuto, mentre se sono in
minor quantità si ha un minor consumo energetico. Spesso
alla base dell’ipertiroidismo c’è una causa comune, per la
quale l’organismo produce autoanticorpi contro la tiroide,
che accendono in maniera inappropriata la funzione della
ghiandola; se gli anticorpi prodotti erroneamente contro la
tiroide vano a distruggerla, interferiscono sulla produzione di ormoni, creando la condizione di ipotiroidismo.
L’ingrossamento del collo viene definito col termine di gozzo; la causa più comune di gozzo è la carenza di iodio,
cioè l’elemento che la tiroide utilizza per produrre i suoi ormoni. Ancora oggi, nonostante le varie campagne, molte
persone non assumono abbastanza iodio con la dieta; si può ovviare a questa situazione consumando sale iodato e
questo costituisce una prevenzione importante a molte patologie tiroidee. Non essendoci iodio della dieta
l’organismo produce più TSH, perché non ci sono gli ormoni tiroidei, con conseguente formazione di più colloide, i
follicoli si ingrossano, ma senza la produzione di ormoni tiroidei. L’esoftalmo indica una condizione di occhi
sporgenti, che sembrano uscire dalle orbite. L’ipotiroidismo è particolarmente frequente nel sesso femminile.
Ghiandola surrenale
Le ghiandole surrenali sono chiamate anche surreni
e hanno la tipica forma di piramide irregolare. Sono
situate sul polo superiore dei reni a mo’ di berretto
frigio e sono quindi accolte all’interno della loggia
renale. Il surrene di destra è ovviamente in
rapporto con il rene destro, con il fegato e con la
vena cava inferiore, mentre il surrene di sinistra è
in rapporto con lo stomaco e con l’aorta. Dalle
arterie renali si staccano le arterie surrenali che
portano ai surreni; il sangue venoso refluo si scarica
direttamente nella vena cava inferiore. Il pancreas
viene a trovarsi davanti al surrene di sinistra, mentre la vena cava inferiore davanti al surrene di destra. Ogni
surrene è avvolto da una capsula connettivale, che invia all’interno della ghiandola delle trabecole che vanno a
costituire lo stroma dell’organo. In realtà i surreni sono formati da due parti completamente diverse tra loro, sia
per struttura che per funzione; queste due parti sono dette corticale (più esterna) e midollare (più interna).
Queste due parti, anche se fanno parte della stessa ghiandola, sono talmente diverse tra loro che si pensa a loro
come due ghiandole separate. Le cellule della corticale somigliano di più a delle cellule epiteliali, responsabili di
secernere ormoni steroidei; mentre le cellule della midollare somigliano di più a cellule nervose, in particolare
simili alle cellule dei gangli del simpatico, quindi è neurosecernente.

Questa è una sezione sagittale del tronco. Si capisce bene che la


ghiandola surrenale, poggiandosi sopra al rene, si trova in una
posizione extraperitoneale (parte grigia è la cavita peritoneale).

Questa è una sezione della ghiandola surrenale. L’80% è costituita dalla parte
corticale, chiamata anche corteccia surrenalica, mentre la zono circoscritta da
questa è la midollare, che rappresenta circa il 20% del parenchima.

La corticale è costituita da zone che hanno un aspetto diverso dal punto di vista
morfologico: sono formate da cellule secernenti che si organizzano in maniera
diversa, andando a formare tre zone, una glomerulare, una fascicolata e una
reticolare. Nella zona glomerulare le formazioni cordonali organizzano dei gomitoli,
nella zona fascicolare le cellule formano delle strutture allungate, mentre in quella
reticolare le cellule si anastomizzano formando una specie di reticolo. Tutte queste
cellule sono formate da una grande quantità di vasi sanguigni, che tendono ad
assumere un andamento simile a quello delle tre diverse zone. Queste tre zone
producono ormoni diversi, anche se sono tutti steroidei.
La zona glomerulare produce ormoni mineralcorticoidi, che regolano il metabolismo
minerale, ovvero il contenuto degli elettroliti; tra questi ormoni è importante
l’aldosterone, che mantiene l’equilibrio degli ormoni sodio e potassio. A livello dei tubuli renali, in particolare nel
tubulo distale e del dotto collettore, l’aldosterone aumenta il riassorbimento del sodio, favorendo
contemporaneamente all’eliminazione del potassio; siccome riassorbire ioni sodio vuol dire anche riassorbire
una certa quantità d’acqua, ne consegue che l’aldosterone fa sì che l’acqua sia trattenuta dal corpo.
La fascicolare produce ormoni glucocorticoidi, che agiscono sul metabolismo dei carboidrati; questi ormoni
stimolano la gluconeogenesi, cioè la trasformazione in glucosio degli amminoacidi provenienti dalla degradazione
delle proteine, favorendo l’utilizzo dei lipidi. Il risultato di queste azioni ha un effetto iperglicemizzante. Tra questi
ormoni è presente il cortisolo, quindi hanno anche effetto di diminuire le risposte infiammatorie immunitarie,
consentendo la guarigione in seguito ad eventuali danni provocati da agenti infiammatori. La produzione di
cortisolo, o ormone dello stress, aumenta in situazioni di stress psico-fisico, quindi servono ad aumentare la
disponibilità di glucosio nel sangue, in modo che possa essere utilizzato dai muscoli nei momenti in cui ce n’è
bisogno, quindi in risposte di attacco e fuga; in pratica vengono prodotti quando viene chiesto al corpo di spendere
energia perché bisogna far fronte ad un evento stressante in cui il corpo dev’essere immediatamente attivo. Il
cortisolo inibisce le funzioni che non sono indispensabili nel breve periodo e garantisce un più alto sostegno agli
organi vitali, quindi nel cuore aumenta la gittata cardiaca, aumenta la glicemia, incrementa la gluconeogenesi a
livello epatico, stimola la secrezione del glucagone, riduce le difese immunitarie riducendo le risposte
infiammatorie e favorisce il catabolismo proteico, stimolando la conversione in glucosio delle proteine. La
produzione del cortisolo in particolare, segue un chiarissimo ritmo circadiano, quindi si ha una nettissima
variazione giornaliera per quando riguarda le concentrazioni plasmatiche; si ha il suo picco al mattino, quando è
indispensabile che il nostro organismo sia pronto ad affrontare la giornata. È uno di quegli ormoni che ha uno
spostamento dei valori più alti tra i soggetti mattutini, che presentano un picco di cortisolo molto presto la
mattina, piuttosto che nei serotini, che avviene più tardi.
La zona reticolare produce ormoni gonadocorticoidi, quindi sono ormoni sessuali che mimano l’azione degli ormoni
maschili, quindi sono ormoni steroidei anabolizzanti, che stimolano la sintesi proteica.

La midollare del surrene è formata da elementi neurosecernenti, ovvero dei neuroni un po’ modificati che
riversano il loro prodotto nel sangue. Effettivamente queste cellule endocrine della midollare si possono
considerare come una sorta di neuroni post-gangliari, ovvero neuroni del simpatico che sono innervati da fibre di
neuroni pre-gangliari. Quando viene attivato il simpatico in condizioni di stress, le cellule della midollare secernono
i loro ormoni nel sangue con grande rapidità; questi ormoni sono le catecolamine, ovvero l’adrenalina e la
noradrenalina. L’adrenalina rappresenta l’80% del secreto della midollare. La noradrenalina è anche il
neurotrasmettitore che viene liberato dalle fibre post-gangliare del simpatico, per cui organi come il cuore, la
muscolatura liscia e le ghiandole presentano dei recettori per questo ormone. Le azioni di queste catecolamine
sono legate a situazioni di stress, in quanto vengono messe in circolo con estrema rapidità in seguito ad una
stimolazione nervosa diretta; questo ogni qualvolta serve a preparare l’organismo a sforzi sia psichici che fisici,
perché questi ormoni aumentano la pressione arteriosa, la forza di contrazione del cuore e la frequenza cardiaca.
Nell’ipotalamo ci sono altri nuclei che contengono neuroni che inviano delle fibre, che vanno ad agire sulla
midollare, stimolandola a produrre le catecolamine. Sono composti che contengono un anello benzenico e due
gruppi ossidrilici, oltre che ad una catena amminica. La noradrenalina viene convertita in adrenalina che
effettivamente è la sostanza che viene liberata definitivamente dalla midollare del surrene. l’immissione di questo
ormone non è continua ma è legata a situazioni di stress, cioè quando l’organismo si sente minacciato sia
fisicamente che psicologicamente.
La regione midollare del surrene ha la funzione controllata dal sistema nervoso centrale in maniera diretta
attraverso degli impulsi nervosi. Questo meccanismo di controllo consente di liberare rapidamente le
catecolamine, che aumentano la pressione arteriosa, dilatano i bronchi, aumentano la frequenza cardiaca, fanno sì
che il glicogeno venga degradato in glicogeno aumentando la glicemia ed accelerano gli atti respiratori; inibiscono
la peristalsi intestinale. Questi ormoni intervengono in un’azione generalizzata legata al sistema simpatico,
chiamata reazione fight and flight.
Pancreas
Se confrontato alla colonna vertebrale, il pancreas si
trova a livello delle prime due vertebre lombari L1
L2. Il pancreas è un organo a forma allungata in
direzione orizzontale; presenta una testa, un corpo
e una coda che lambisce la milza. La testa del
pancreas è in stretto rapporto con il duodeno, in
particolare con la C duodenale, quindi è alloggiata
nella concavità del duodeno. Sulla faccia anteriore
del pancreas è poggiata la radice del mesocolon
trasverso, ovvero una piega peritoneale del colon
trasverso. La radice del mesocolon divide l’addome in una porzione sovramesocolica e una sottomesocolica. Il
pancreas si trova in una porzione molto profonda nella cavità addominale, pertanto l’approccio chirurgico a
quest’organo è piuttosto complicato. Il pancreas appartiene anche all’apparato digerente e la parte endocrina è
quantitativamente inferiore e si trova sparsa nella parte esocrina; la parte endocrina del pancreas prende quindi il
nome di isole pancreatiche o isole di Langerhans, che sono circondate dagli acini ghiandolari esocrini.

Nell’immagine una parte di pancreas è stata demolita per far


vedere i dotti che si trovano al suo interno, dotti annessi alla
parte esocrina. Il dotto pancreatico principale è quello più
lungo, che percorre tutto il pancreas e si scarica nel duodeno
insieme al dotto coledoco; il dotto accessorio sfocia sempre
nel duodeno ma un po’ più in alto. Il dotto coledoco o dotto
biliare comune proviene dal fegato portando la bile; questo
passa attraverso la tesa del pancreas e si unisce al dotto
pancreatico principale, sfociando nella papilla duodenale
maggiore. Il dotto principale drena la maggior parte del
pancreas esocrino, mentre una parte della testa del
pancreas esocrino è drenata dal dotto pancreatico
accessorio o di Santorini. Nell’immagine al microscopio si
nota una parte più scura e dei piccoli agglomerati più chiari; sezionando il pancreas è molto difficile imbattersi
nella parte endocrina (parte chiara), perché la maggior parte del parenchima pancreatico è formato da tessuto
esocrino. Le isole del Langerhans secernono insulina e glucagone, che vengono rilasciati direttamente nei capillari
sanguigni che circondano gli isolotti pancreatici. Ogni isolotto pancreatico è costituito da dei cordoni cellulari
separati dal restante tessuto esocrino per mezzo di una capsula connettivale. Ci sono circa un milione di aggregati
cellulari sotto forma di isole pancreatiche.
Gli isolotti pancreatici sono formati da diversi tipi
cellulari, in particolare da cellule α, che rappresentano
circa il 20% della popolazione cellulare del pancreas
endocrino e producono un ormone chiamato glucagone;
l’altro 80% è costituito dalle cellule β, responsabili della
produzione dell’insulina. Entrambi gli ormoni
intervengono nella regolazione della glicemia, ovvero la
concentrazione del glucosio nel sangue. L’insulina ha
effetto ipoglicemizzante e promuove il passaggio del
glucosio dal sangue verso le cellule, favorendone
l’utilizzo; viceversa il glucagone è iperglicemizzante,
stimolando nel fegato la conversione del glicogeno
(forma di accumulo a livello epatico del glucosio) in
glucosio e stimola la gluconeogenesi, ovvero la
conversione di amminoacidi e lipidi in glucosio.
Diabete è un termine che deriva dal greco διαβήτης, diabètes e significa passare attraverso; uno dei segni di questa
patologia è la presenza di glucosio delle urine, perché passa attraverso il filtro renale quando la sua concentrazione
nel sangue supera un certo valore soglia. Al diabete è associato anche l’aggettivo mellito, che vuol dire che le urine
sono dolci come il miele, proprio perché nelle urine è presente dello zucchero; anticamente uno dei criteri che
consentivano di diagnosticare la malattia era proprio l’assaggio delle urine. La presenza di zuccheri nelle urine in
termini tecnici viene indicato come glicosuria, perché il glucosio in eccesso viene appunto eliminato con le urine. In
condizioni normali l’insulina rilasciata dal pancreas funziona come una chiave che serve a far sì che il glucosio possa
entrare nelle cellule, che poi a seconda delle richieste metaboliche lo utilizzano o lo depositano come riserva. Nel
diabete insulino-dipendente di tipo 1 (giovanile) si ha una diminuita o una mancata produzione da parte delle
cellule β (si verifica in soggetti che sono predisposti geneticamente); il trattamento di questi soggetti richiede la
somministrazione giornaliera di insulina. Nel diabete di tipo 2 non-insulinodipendente ci può essere una riduzione
del rilascio di insulina, ma anche una riduzione dell’effetto di questa a livello dei tessuti periferici; è il tipico diabete
dell’adulto e l’obesità svolge un ruolo molto importante del suo sviluppo. Un’altra forma di diabete è quello
gestazionale, che si può manifestare nella seconda parte di gravidanza e che può causare danni al feto e dare
complicazioni al momento del parto.

Ghiandola interstiziale dei testicoli


Fa parte dell’apparato riproduttivo, ma rientra anche nell’apparato
endocrino, perché è responsabile della produzione di sostanze di
natura ormonale, così come l’ovaio che vedremo dopo. Il testicolo è
un organo pieno formato da uno scheletro fibroso, ovvero la tonaca
albuginea (rosa), e da un parenchima formato da dei tubicini
aggrovigliati tra loro, che sono i tubuli seminiferi (azzurro). Nello
stroma che circonda questi tubuli si trova anche delle cellule che
hanno un’attività endocrina, ovvero le cellule interstiziali di Leydig.
Quindi si può dire che i testicoli sono organi in formati dai tubuli
seminiferi, in cui vengono prodotti gli spermatozoi, e tra cui sono
presenti le cellule interstiziali che producono gli ormoni androgeni
(ormoni sessuali maschili tra cui testosterone), responsabili della
crescita e del mantenimento delle caratteristiche sessuali maschili e
della produzione degli spermatozoi. La secrezione del testosterone è sotto il controllo dell’ipofisi; le gonadi
vengono quindi controllate dall’ipofisi attraverso i livelli ematici delle gonadotropine, in particolar modo dai
livelli di LH.

Questa è una sezione di testicolo, con


all’esterno la tonaca albuginea e all’interno delle
formazioni circolari che sono i tubuli seminiferi;
questi sono formati da cellule spermatogeniche
o spermatogenetiche che producono gli
spermatozoi. I tubuli sono circondati da dei setti
dove sono presenti le cellule interstiziali di
Leydig, responsabili della produzione degli
ormoni sessuali maschili.

Gli ormoni androgeni derivano dal colesterolo


e regolano la spermatogenesi, determinando
anche la comparsa e la permanenza dei caratteri
sessuali tipici dei maschi. Gli androgeni agiscono
sulle vie spermatiche e sulle ghiandole annesse
all’apparato genitale maschile, agiscono sulle cartilagini di coniugazione delle ossa lunghe, determinando
l’ossificazione durante la pubertà; promuovono la mascolinizzazione, cioè sviluppo e mantenimento dei caratteri
secondari maschili e agiscono sugli organi genitali accessori, come la prostata, le vescichette seminali e influenzano
il comportamento sessuale tipico del maschio. Il testosterone è anche un ormone anabolizzante, cioè stimola la
sintesi proteica, promuovendo la crescita delle ossa e dei muscoli scheletrici (da qui maggior forza del maschio).

L’ormone FSH favorisce la spermatogenesi, agendo sulle cellule dei tubuli seminiferi, mentre l’ormone LH agisce
sulle cellule di Leydig facendo produrre testosterone e prendendo quindi il nome di ICSH.

Formazioni endocrine dell’ovaio

Le ovaie sono organi pari la cui forma e


dimensione ricorda quella di una
mandorla. Sono poggiate sulla faccia
laterale della piccola pelvi più o meno a
livello dell’articolazione sacroiliaca, più o
meno nel punto in cui i vasi iliaci si
biforcano in arterie iliache esterne ed
interne.

L’ovaio è un organo pieno che ospita nella sua


parte periferica (corticale) una gran quantità di
formazioni rotondeggianti; queste formazioni sono
i follicoli oofori, che contengono una cellula uovo.
Nell’immagine sono rappresentati follicoli a vari
stadi di maturazione. Durante la pubertà questi
follicoli sono formati da una grande ovocita
primario, rivestito dalle cellule follicolari; dopo la
pubertà i follicoli si possono presentare in vari
stadi di maturazione. La arte centrale dell’ovaio
prende il nome di midollare ed è formato da connettivo lasso e sono presenti molti vasi sanguigni che entrano a
livello dell’ilo.

Alla nascita i follicoli presenti nella corticale dell’ovaio sono circa un milione; ogni follicolo è formato da un ovocita
primario che ha già subito la prima divisione meiotica durante la vita fetale e viene circondato da uno strato di
cellule follicolari. Fino alla pubertà i follicoli rimangono in uno stato di quiescenza e in parte alcuni degenerano; alla
pubertà inizia la secrezione dell’ormone FSH follicolostimolante dell’ipofisi, per cui sotto la stimolazione di questo
ormone, alcuni follicoli in maniera ciclica iniziano il processo di maturazione che dura 14 giorni. Siccome alla
nascita gli ovai contengono solo ovociti, è chiaro che la formazione degli ovociti maturi, cioè la gametogenesi
femminile, è destinata ad interrompersi quando non ci saranno più ovociti in grado di maturare, cosa che si ha
intorno ai cinquant’anni con la menopausa.

Il primo giorno del ciclo ovarico corrisponde all’inizio della maturazione del follicolo, sotto lo stimolo dell’ormone
FSH; l’ovocita primario diventa man mano ovocita secondario e il follicolo comincia a produrre gli ormoni
estrogeni. Dopo circa 14 giorni finisce la fase di maturazione, quindi il follicolo maturo scoppia e espelle l’ovocita,
quindi si ha l’ovulazione. Una volta avvenuta l’ovulazione, il follicolo si trasforma e diventa un corpo luteo, che
letteralmente significa corpo giallastro; questo, sotto l’azione dell’ormone LH lutenizzante, continua a produrre
estrogeni, ma produce anche il progesterone. Il corpo luteo può essere considerata come una vera e propria
ghiandola endocrina, seppur temporanea. Al 28esimo giorno il corpo luteo cessa la sua attività, a meno che non si
sia presentata una gravidanza, e degenera trasformandosi in una sorta di cicatrice, chiamata corpo albicante. Al
28esimo giorno la produzione di LH si riduce e riprende quella dell’FSH, quindi il ciclo ricomincia. Tutta questa
sequenza è quella che viene definita ciclo ovarico, che a partire dalla pubertà si ripete più o meno ogni 28 giorni,
fino a quando non interviene una gravidanza. Il ciclo ovarico è strettamente legato al ciclo uterino, costituendo il
cosiddetto ciclo mestruale. Il progesterone mantiene la mucosa dell’utero nelle condizioni ottimali perché possa
avvenire l’impianto dell’uovo e quindi che possa esserci una gravidanza.

L’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi esita quindi nella formazione degli ormoni sessuali.

Epifisi
Detta anche ghiandola pineale ed è più piccola
dell’ipofisi. È situata nell’encefalo, sopra ai tubercoli
quadrigemini superiori. La ghiandola pineale è una
formazione che appartiene al diencefalo, in
particolare è annessa all’epitalamo e quindi
appartiene al sistema nervoso, perché riceve stimoli
dalla retina, ma anche del sistema endocrino perché
in risposta a questi stimoli produce l’ormone
melatonina. Questo ormone regola le funzioni del
nostro orologio biologico, insito nel corpo umano e
che regola i ritmi circadiani; questo orologio
biologico induce una serie di variazioni cicliche di
molte variabili ormonali e altre funzioni. Influisce
anche sul comportamento durante il giorno. L’epifisi
ha quindi una funzione di sensore delle variazioni di luce provenienti dall’ambiente e registra le variazioni luce-
buio; la melatonina è un induttore del sonno e la sua secrezione viene quindi inibita dalla luce solare. Di
conseguenza è un ormone che presenta un evidente ritmo circadiano, quindi si ha una produzione massima
alla sera e minima durante il giorno.

Apparato digerente
È un apparato della vita vegetativa e per svolgere le sue funzioni necessita del contributo del sistema nervoso,
endocrino, circolatorio e respiratorio. Il compito principale dell’apparato digerente è quello di mantenere la
concentrazione costante dei nutrienti nell’ambiente interno; questo compito è possibile riducendo i materiali
alimentari introdotti, in nutrienti più semplici, che poi possono essere assorbiti. È chiaro che l’apparato digerente
deve disporre di mezzi di assorbimento, presenti nelle cellule assorbenti della mucosa intestinale. Le sostanze
assorbite sono immesse nel sangue e distribuite a tutte le cellule. Non tutto ciò che introduciamo con gli alimenti
può essere ridotto a molecole assorbibili, quindi una parte viene eliminata con le feci; l’apparato digerente elimina
anche sostanze tossiche prodotte dal nostro stesso catabolismo.

L’apparato digerente è formato da una serie di organi cavi,


prevalentemente impari, rappresentati dal lungo tubo
digerente che attraversa dapprima il collo, passa nel
torace, nell’addome, nella pelvi e si apre all’esterno con
l’orificio anale. Pertanto, si può dire che gli organi
dell’apparato digerente sono tutti organi in continuità
l’uno con l’altro, dove il cibo procede a senso unico, in
modo tale che cibi e bevande subiscano via via una
digestione sempre più completa, grazie ai secreti delle
ghiandole annesse a questi organi.
La parola digestione è un termine piuttosto generale e comprende sia processi chimici che meccanici; entrambi
servono a ridurre i cibi complessi in nutrienti semplici e quindi assorbibili. Per digestione meccanica si deve
intendere tutti quei movimenti che hanno il risultato di ridurre i grossi pezzi ingeriti in particelle più piccole; questo
aiuta la digestione chimica. La digestione meccanica comprende il fatto anche di poter agitare il contenuto nel
lumo gastro intestinale, di poterlo rimescolare ai succhi gastrici digestivi, in modo che tutte le parti entrino bene in
contatto con la superficie della mucosa, facilitando l’assorbimento. La digestione meccanica comincia a livello della
bocca con la masticazione e durante questa si ha il rimescolamento dei cibi con la saliva, in modo tale che si possa
avere anche la deglutizione, che consiste in diverse fasi: la prima fase è la formazione del bolo e poi il suo
spostamento dalla bocca allo stomaco. In realtà la deglutizione richiede la cooperazione di diversi muscoli e deve
essere molto rapida, circa due secondi, perché durante questa fase la respirazione viene inibita; una volta che il
bolo raggiunge la parte inferiore dell’esofago, la responsabilità della sua progressione è assunta dalla muscolatura
liscia del tratto gastrointestinale. Quindi fino alla parte intermedia dell’esofago si trova della muscolatura striata,
perché la deglutizione è un atto volontario, che man mano viene sostituita da muscolatura liscia.

Quindi il cibo viene immesso nella cavità orale dove avviene la masticazione ad opera dei denti (digestione
meccanica), viene poi impastato con la saliva che è una soluzione acquosa prodotta dall’attività delle ghiandole
salivari e la lingua rimescola il cibo partecipando alla deglutizione. Nello stomaco e poi nell’intestino avviene in
vero e proprio processo di digestione chimica, a cui partecipano due grosse ghiandole extramurali, che sono il
pancreas e il fegato che producono sostanze fondamentali per il processo digestivo. Nell’intestino tenue si realizza
il processo di assorbimento delle molecole semplici, mentre nell’intestino crasso si ha il riassorbimento dell’acqua.
Nell’intestino crasso la flora intestinale utilizza i residui non digeriti e produce vitamine utili all’organismo. Infine le
feci sono evacuate all’esterno attraverso l’ano.

I movimenti del tratto gastrointestinale possono essere di due


tipi: movimenti di propulsione o peristaltici e movimenti di
mescolamento, ovvero di segmentazione. Entrambi questi
movimenti sono coinvolti nella digestione meccanica, quindi
permettono da una parte di agitare il contenuto del canale
alimentare per mescolarlo ai succhi gastrici e consentono di farlo
progredire lungo tutto il tratto gastrointestinale. La peristalsi è un
movimento simile ad un’onda e sposta il bolo alimentare in
avanti lungo tutto il tratto gastrointestinale. La segmentazione è
un movimento di rimescolamento che permette di miscelare i cibi
con i succhi gastrici e digestivi prodotti, in modo da frammentarli ulteriormente.
Nella peristalsi i muscoli circolari presenti nella tonaca muscolare si contraggono, in modo da restringere il canale e
spingere il bolo.

La parete del tratto gastro intestinale, in


generale, presenta quattro tonache.
All’interno c’è una tonaca mucosa,
procedendo verso l’esterno c’è una
sottomucosa, poi c’è la tonaca muscolare e
infine una tonaca fibro-sierosa, che a
seconda dei diversi organi può essere
formata da connettivo piuttosto che da
peritoneo. Nonostante i diversi tratti del
canale alimentare siano formati da questi
quattro strati, l’organizzazione può variare a
seconda delle varie porzioni; possono esserci
differenze a livello di epitelio.
Cavità orale
L’immagine è uno spaccato del cranio per evidenziare la cavità orale,
che si localizza in quella parte del cranio che viene identificato come
splancnocranio (parte antero-inferiore). La cavità orale comunica
all’esterno attraverso la rima buccale, delimitata dalle labbra. La cavità
orale si presenta un po’ modificata rispetto all’aspetto a tubo dei tratti
successivi, perché presenta quegli organi che hanno la funzione di
assumere ed elaborare il cibo. La bocca presenta una parte più
anteriore che prende il nome di vestibolo della bocca e la cavità orale
propriamente detta. Il vestibolo della bocca è una sorta di fessura a
forma di ferro di cavallo che si trova tra la mucosa delle labbra, le
guance e la faccia anteriore delle arcate gengivo-dentarie. Annessa al
vestibolo della bocca c’è una delle ghiandole salivari maggiori, ovvero
la parotide, il cui dotto escretore si apre nel vestibolo della bocca a
livello del secondo molare superiore. Le labbra formano quindi la parte esterna del vestibolo della bocca,
delimitano la rima buccale e sono rivestite all’esterno da cute e all’interno da una muscosa; il passaggio da cute a
mucosa si ha a livello del margine libero delle labbra. Anche le guance hanno la stessa costituzione e nello spessore
delle guance si può trovare il corpo adiposo, cioè un accumulo di grasso con funzione di riempimento, anche se con
l’età si riduce. Le arcate gengivo-dentarie sono formate dai processi alveolari delle ossa mascellari superiormente e
delle ossa mandibolari inferiormente; queste arcate sono rivestite da una spessa mucosa che aderisce al periostio
delle ossa mascellari e della mandibola. Negli alveoli sono infissi 32 denti nell’adulto, mentre nel bambino la
dentizione decidua prevede solo 20 denti.

Nella cavità orale il cibo è unito alla saliva che è una soluzione acquosa prodotta dalle ghiandole salivari; in
particolare è formata da una miscela di acqua per il 97%, da muco e da ptialina, ovvero un’amilasi salivare (enzima)
che è in grado di trasformare l’amido in maltosio. Quindi comincia già a livello della bocca la trasformazione degli
amidi. Nella saliva è anche contenuto un altro enzima a funzione antibatterica, ovvero il lisozima. Quindi la saliva
ha sia il compito di umidificare le mucose e di preparare gli alimenti per la digestione, ma ha anche un compito
antisettico e di proteggere l’esofago dopo che il bolo è stato deglutito.
La cavità boccale propriamente detta si trova tra il vestibolo della
bocca e l’istmo delle fauci, cioè l’apertura di comunicazione tra cavità
orale e faringe. La cavità orale ha una forma più o meno ovoidale con
un asse maggiore antero-posteriore e quando le arcate dentali sono
chiuse (occlusione) è occupata interamente dalla lingua. Nel vestibolo
della bocca si trova l’orifizio di sbocco della parotide, mentre a livello
della cavità orale sboccano le altre due ghiandole salivari maggiori,
cioè la sottomandibolare e la sottolinguale. La cavità orale ha uno
scheletro osseo con un tetto formato dal palato duro e in parte dal
palato molle, mentre la parte inferiore è formata dalla lingua; la parete
posteriore è incompleta ed è data dal palato molle che col suo margine
delimita l’istmo delle fauci. Il pavimento della bocca è formato dai
muscoli sopraioidei e dai muscoli linguali. La lingua è un organo
muscolo-mucoso e molto mobile, perché presenta una grande
componente muscolare che in superficie è rivestita da
una mucosa. Nella lingua si distingue un corpo, che è la
parte libera, una base che prosegue nella radice, ovvero
la parte della lingua che non è visibile e attraverso cui si
connette agli attacchi ossei. Al limite tra il corpo e la
base è visibile il solco terminale a forma di V aperta in
avanti, nel corpo della lingua si distingue l’apice che è
più sottile, un dorso convesso e un po’ depresso al
centro, una faccia inferiore, anch’essa con un solco
mediano che giunge fino al frenulo della lingua. La base
della lingua volge verso la faringe, l’epiglottide e l’istmo
delle fauci. La superficie della lingua presenta dei rilievi,
ovvero le papille, che possono essere filiformi,
fungiformi e vallate; le papille vallate o circumvallate si
trovano davanti al solco terminale, si possono vedere
anche ad occhio nudo e si chiamano così perché intorno alla papilla c’è una specie di
solco circolare chiamato vallo. I diversi tipi di papilla sono tutti in grado di percepire le
sensazioni di base, quindi il dolce, l’acido, l’amaro e il salato, ma le diverse papille sono
distribuite in maniera piuttosto diversa sulla lingua e rispondono con diversa intensità
ai diversi stimoli; ci sono quindi delle zone della lingua particolarmente sensibili ad un
determinato gusto, piuttosto che ad un altro. In questa sezione frontale della lingua si
nota bene come quest’organo abbia una grossissima componente muscolare,
supportata internamente da uno scheletro fibroso; si può notare all’interno anche la
presenza di ghiandole linguali.
Va considerato quindi che tutta la parete della cavità orale è rivestita da una mucosa
ricca di ghiandole salivari intramurali, che secernono saliva. Lubrificando la cavità
orale, la saliva ha anche un compito nel favorire la fonazione. Oltre alle ghiandole
intramurali ci sono tre grosse ghiandole salivari maggiori annesse alla bocca, ovvero
le parotidi, le sottomandibolari e le sottolinguali.
La parotide (1) è accolta nella loggia parotidea nella regione
laterale del collo al di sotto del padiglione auricolare, dietro il ramo
della mandibola e davanti al muscolo sternocleidomastoideo (un
po’ più spostata rispetto all’immagine). Le ghiandole
sottomandibolari (2) sono accolte da logge sottomandibolari a
livello della mandibola e le ghiandole sottolinguali (3) accolte nel
pavimento nella cavità orale. Queste ghiandole sottolinguali sono
in realtà formate da un agglomerato di piccoli lobuli, piuttosto che
da un’unica ghiandola, queste tre ghiandole sono pari, mentre
quelle intramurali sono sparse nel palato, nella lingua, ecc. Queste
tre coppie di ghiandole sono in genere tubulo acinose, con una
secrezione un po’ più sierosa (fluida) per la parotide ed un po’ più
mucosa (viscosa) per le altre due. Il dotto parotideo perfora il
muscolo buccinatore e il suo sbocco si viene a trovare a livello del secondo molare superiore.

La parotite, meglio conosciuta col termine


orecchioni, è una malattia dell’infanzia e altro non è
che una malattia infettiva di origine virale che
preferenzialmente interessa le prime vie aeree, in
particolar modo le ghiandole salivari. Tipicamente si
presenta come un ingrossamento della ghiandola
parotide. La parotite può anche colpire gli adulti e
diventa un’infezione più seria, perché oltre alla
parotide può colpire anche tessuti; negli uomini ad
esempio nei maschi può causare anche l’orchite
(infiammazione dei testicoli).

La deglutizione si articola in tre fasi, una orale che scatena il processo, in cui il bolo viene spinto nella parte
posteriore della bocca in maniera volontaria; alla fase orale segue la fase faringea fino all’esofago. Questa fase
dura circa due secondi, perché in questo tempo la respirazione viene interrotta per la chiusura dell’epiglottide.
L’ultima fase è quella esofagea in cui il bolo viene spinto grazie alla contrazione della muscolatura esofagea in
direzione dello stomaco.
Faringe
La faringe l’abbiamo già osservata nell’apparato respiratorio. Per quanto
riguarda l’apparato digerente, fa seguito all’istmo delle fauci per continuare
con l’esofago. È principalmente un organo muscolare, con muscoli costrittori
ed elevatori, quindi si dilatano quando devono accogliere il bolo alimentare,
mentre in condizioni di riposo ha un lume più ristretto. Il bolo alimentare
passa attraverso un’onda peristaltica, quindi attraverso una serie di
contrazioni e rilasciamenti dei muscoli. La tonaca muscolare è costituita da
una serie di muscoli striati che formano intorno a questo condotto un
involucro continuo. Per quanto riguarda la mucosa, presenta caratteristiche
diverse a seconda che si tratti della rinofaringe, piuttosto che dell’orofaringe
o della laringofaringe. A livello della parte nasale, la mucosa ha tutti i
caratteri osservati nelle vie respiratorie, quindi c’è un epitelio ciliato con
cellule caliciforme mucipare; nell’orofaringe e nella laringofaringe c’è un
epitelio pavimentoso stratificato che da protezione a questo organo.

Nel tetto della faringe è presente la tonsilla faringea. Nell’immagine è ingrossata e quando
questo accade ostruisce le vie respiratorie, motivo per cui nel caso delle adenoidi il
bambino respira male o con la bocca.

Le tonsille palatine vengono anche chiamate amigdale per la somiglianza con delle
mandorle e si trovano tra i due archi palatini. Quando sono ingrossate possono dare
ostruzione e quindi causare disturbi della deglutizione.

Esofago
L’esofago è un viscere cavo che si trova tra
faringe e stomaco, attraversa il collo, il
mediastino, il diaframma e si spinge nell’addome,
per un’estensione da C6 a T10. Il suo passaggio
attraverso l’orifizio del diaframma avviene sotto il
processo xifoideo dello sterno. Il decorso è
verticale, è lungo più o meno 25 cm. Presenta tre
piccoli restringimenti, uno superiore, uno medio
e uno inferiore (indicati dalle freccine in
immagine). Siccome l’esofago attraversa varie
regioni, si possono distinguere parti differenti: c’è
una parte cervicale, una parte toracica, una
diaframmatica e una piccola parte addominale.
Nel suo decorso l’esofago non è perfettamente verticale, ma descrive
delle leggere curvature. All’inizio scende molto addossato alla colonna
vertebrale seguendone la convessità anteriore, poi se ne discosta
spostandosi più avanti. La parte cervicale dell’esofago è in rapporto
con la trachea, la parte toracica decorre nel mediastino posteriore,
quindi dietro al cuore, ed è sempre in rapporto con la trachea. A livello
di T4 c’è il punto di biforcazione della trachea, quindi l’esofago tende a
portarsi un po’ più anteriormente; l’aorta si trova sempre dietro
l’esofago e spostata a sinistra. La porzione diaframmatica si incunea
all’interno dello iato esofageo del diaframma, mentre il tratto
addominale è in rapporto con il fegato. L’esofago è un segmento di
transito piuttosto veloce, quindi il bolo alimentare passa rapidamente
dopo la deglutizione, giungendo allo stomaco. Quindi a questo livello il
cibo non presenta modificazioni di rilievo.

La sezione trasversa dell’esofago in condizioni di riposo risulta


piuttosto appiattita e la sua parete presenta l’organizzazione
tipica del canale alimentare, con quattro tonache sovrapposte.
Dall’interno verso l’esterno è presente una tonaca mucosa, una
sottomucosa, una muscolare e una avventizia. La tonaca mucosa,
che continua con quella della faringe, si solleva in pieghe
longitudinali ed è formata da un epitelio pavimentoso
pluristratificato non cheratinizzato; questo epitelio poggia su una
lamina propria di connettivo denso ed è presente una
muscolatura della mucosa. Questo tipo di epitelio riflette la
necessità di resistere alle abrasioni e quindi deve essere in grado
di proteggere l’esofago da lesioni di tipo meccanico. Nella
sottomucosa, formata da connettivo lasso, si trovano le
ghiandole esofagee a secrezione mucosa. La tonaca muscolare è
formata da fibre striate nella parte più craniale e vengono via via sostituite da fibre muscolari lisce; per cui nel
tratto medio sono presenti sia fibre muscolari striate che lisce. La tonaca muscolare è organizzata a formare due
lati: uno circolare più interno, in cui i fasci assumono un decorso circolare, ed uno longitudinale più esterno. La
tonaca avventizia è anch’essa di natura connettivale, riveste l’esofago e si pone in rapporto con gli organi contenuti
nel mediastino, in particolare continua col connettivo della
parete posteriore della trachea.
Questa è una sezione frontale dell’esofago e dello stomaco,
quindi siamo a livello della giunzione gastroesofagea. Al
passaggio dell’esofago attraverso il diaframma, la loro
muscolatura va a costituire lo sfintere esofageo inferiore; si
tratta di un anello di muscolatura che tende ad impedire il
reflusso del succo gastrico (molto corrosivo poiché
contiene acido cloridrico) nel lume dell’esofago. Sarebbe
più corretto definirlo un complesso anatomico costituito da
diverse strutture, ovvero la tonaca muscolare dell’esofago,
il diaframma e la tonaca muscolare dello stomaco.

L’esofago termina con una valvola chiamata cardias, la quale permette al cibo di passare nello stomaco; questa
valvola in condizioni normali si apre e si chiude per consentire il passaggio del bolo alimentare in un’unica
direzione. Il diaframma con la sua pressione favorisce questo meccanismo, comprimendo lo sfintere.
L’ernia iatale è una condizione causata del passaggio
anomalo di una porzione di stomaco dall’addome verso
il torace, attraverso l’orifizio esofageo del diaframma.
Questo orifizio in condizioni normali consente il
passaggio dell’esofago verso la cavità addominale, ma
in caso di ernia iatale una parte più o meno consistente
dello stomaco può risalire attraverso lo iato. È una
patologia piuttosto diffusa e legata all’età, infatti negli
over 80 la percentuale di soggetti con questa patologia
è veramente alta. Il deterioramento organico legato all’invecchiamento, associato alla ripetizione continua dei
movimenti della deglutizione, finisce con l’alterare l’elasticità della giunzione gastroesofagea e dello iato
esofageo, favorendo il fenomeno di erniazione.

Col termine di reflusso gastroesofageo ci si riferisce in particolare a


episodi ripetuti di risalita del contenuto gastrico in direzione
dell’esofago. Il sintomo più comune legato al reflusso gastroesofageo
è il bruciore avvertito in posizione retro-sternale e questa condizione
può alla lunga dar luogo a esofagite, a lacerazioni. L’epitelio esofageo
non è abbastanza protetto nei confronti di queste secrezioni acide,
quindi va incontro a irritazione e infiammazione. L’esofagite da
reflusso è particolarmente frequente in soggetti in sovrappeso e in
soggetti che presentano l’ernia iatale; in questi casi il consiglio è quello
di evitare il consumo di cibi piccanti, eccessive quantità di caffeina, ecc. perché queste potrebbero peggiorare il
quadro clinico.

Stomaco
Lo stomaco rappresenta il tratto più dilatato del canale
digerente ed è interposto tra esofago e intestino. Qui gli
alimenti si accumulano e sostano per un certo tempo per
essere sottoposti all’azione digestiva del succo gastrico.
Nello stomaco i cibi vengono impastati con i succhi gastrici
e con enzimi litici tipo la pepsina, che danno l’avvio alla
digestione delle proteine. Poiché nello stomaco si ha una
grande acidità, questo è protetto da uno strato di muco; se
non ci fosse muco, i succhi gastrici potrebbe provocare una
gastrite o un’ulcera. Nello stomaco inizia anche la
digestione dei grassi, in quanto sono presenti degli enzimi,
ovvero le lipasi gastriche. Lo stomaco e il fegato sono legati
mediante un legamento, detto epatogastrico. Lo stomaco si trova nella parte alta sinistra della cavità addominale,
subito sotto il diaframma, ed è quasi appoggiato sull’intestino; è a contatto con il fegato che si trova sul lato destro
dell’addome e con il pancreas che si trova al di sotto dello stomaco. Da un punto di vista topografico, si può dire
che lo stomaco occupa la regione addominale che corrisponde all’ipocondrio sinistro e dell’epigastrio. Le
dimensioni dello stomaco possono variare in relazione all’età, al sesso (nei maschi tende ad essere più grosso), alle
attitudini alimentari (più grande nei vegetariani e nei grossi mangiatori). Anche la forma può variare, in relazione
alla costituzione dell’individuo: tende ad avere un allungamento verticale dell’asse longitudinale nei soggetti
longitipi, che presentano quindi uno stomaco a sifone, si orienta più orizzontalmente nei brachitipi dove lo
stomaco assume una forma a corno di torello. Il cibo parzialmente digerito nello stomaco viene trasformato in
chimo.
lo stomaco ha una forma a sacco allungato, con un’estremità
prossimale, che si espande a cupola in alto verso sinistra, e
una distale un po’ più conica, che si trova in basso verso
destra. Lo stomaco presenta una concavità volta a destra e
occupa uno spazio delimitato in alto dal muscolo diaframma,
in basso dal colon trasverso, lateralmente dal diaframma e
dalla parete toracica e davanti dalla parete toracica e
addominale. Lo stomaco è un organo mobile rivestito quasi
completamente da una membrana sierosa chiamata
peritoneo. La faccia anteriore dello stomaco è in rapporto con
la gabbia toracica e con il fegato, mentre la faccia posteriore
entra in rapporto con il pancreas, rene e surrene sinistro e con
il colon trasverso.

Le due facce dello stomaco sono delimitate da due


margini: il margine destro è quello concavo e prende il
nome di piccola curvatura, mentre il margine sinistro è
molto più ampio, convesso e prende il nome di grande
curvatura. Mediamente la piccola curvatura ha una
lunghezza di circa 10 cm, mentre la grande curvatura ha
una lunghezza di 40 cm. Nello stomaco sono presenti
due orifizi: il cardias o orifizio esofageo e il piloro o
orifizio duodenale. Il piloro rappresenta la
comunicazione con la prima parte dell’intestino, ovvero
il duodeno. Nello stomaco si riconoscono inoltre tre
parti: una regione posta superiormente, che prende il
nome di fondo e se la si volesse delimitare basterebbe tracciare una linea orizzontale a partire dall’incisura
cardiale; si può considerare come limite convenzionale tra corpo e fondo proprio il piano orizzontale che passa per
il cardias. Nelle immagini radiologiche, la regione del fondo corrisponde alla parte dove si trova la bolla gastrica,
ovvero quella parte dello stomaco che si presenta piena d’aria; i gas che si generano dalla digestione del bolo
tendono a risalire e a concentrarsi in quella regione. La parte più
cospicua dello stomaco è il corpo, a forma cilindro-conica, che si porta
verso il basso quasi verticalmente ed è compreso tra la base del fondo
dello stomaco e la piega angolare o incisura angolare. La terza regione
è quella pilorica, dalla forma più o meno conica e che si porta verso
l’alto e verso destra; è costituita da due parti: la prima un po’ più
rigonfia è detta antro pilorico, poi segue il canale pilorico. Il piloro è
uno sfintere muscolare che collega lo stomaco col duodeno e si trova
nel punto in cui il canale pilorico si restringe; il piloro è formato da
fibrocellule muscolari lisce a decorso circolare, che si intrecciano con
alcune cellule muscolari oblique.

Il peritoneo avvolge lo stomaco e lo fa mediante due lamine, una anteriore e una posteriore, che formano pieghe
che uniscono lo stomaco agli organi vicini. Queste due lamine si accollano l’una all’altra a livello delle due
curvature, formando dei legamenti che collegano lo stomaco agli organi vicini. Nella grande curvatura, le due
lamine peritoneali si accollano e vanno a formare il legamento gastrocolico, ovvero un’ampia lamina che raggiunge
la flessura sinistra del colon, al colon trasverso e alla flessura colica destra, formando con il legamento
duodenocolico la radice anteriore del grande omento. Questo somiglia ad una specie di grande grembiule che
parte dalla grande curvatura dello stomaco per ricoprire gran parte delle anse intestinali; il grande omento è molto
ricco di tessuto adiposo, che rappresenta una riserva energetica e garantisce una protezione e un isolamento
termico agli organi che copre. Nei soggetti in sovrappeso, gran parte dell’adipe addominale, oltre ad occupare lo
strato sottocutaneo, va ad accumularsi a livello del grande omento, contribuendo a formare la pancia. Nella piccola
curvatura le due lamine peritoneali si accollano formando il legamento epatogastrico, che verso destra continua
con il legamento epatoduodenale, andando a formare il piccolo omento, che fissa stomaco, fegato e duodeno.

Configurazione interna:
La mucosa gastrica non è liscia, ma presenta delle pieghe, ovvero le
pliche gastriche; queste tendono a ridursi e scomparire quando lo
stomaco è disteso e sono dovute alla tonaca sottomucosa che si
solleva verso la mucosa. Queste pieghe sono meno sviluppate nella
parte a ridosso della piccola curvatura, parte che viene definita come
canale gastrico e che rappresenta la via preferenziale seguita dalle
sostanze liquide. Quando le pliche gastriche sono distese, è possibile
osservare sulla sua mucosa delle piccole aree che rappresentano lo
sbocco delle ghiandole gastriche (fossette gastriche).

Lo stomaco è tipicamente organizzato in quattro tonache, ovvero:


• la tonaca mucosa, costituita da un epitelio prismatico semplice
con microvilli e dalla muscularis mucosae
• la tonaca sottomucosa, che aderisce in maniera più stretta alla
mucosa e più lassa alla tonaca muscolare ed è ricca di vasi
sanguigni
• la tonaca muscolare è molto spessa ed è formata da tre strati:
uno obliquo, uno circolare e uno longitudinale
• la tonaca sierosa è formata dal peritoneo viscerale, costituito
quindi da un mesotelio

Le ghiandole gastriche abbondano nella lamina propria e possono essere diverse nelle tre zone dello stomaco, per
cui si chiamano ghiandole del cardias, costituite per lo più da cellule a secrezione mucosa (producono muco e
bicarbonato), ghiandole gastriche propriamente dette, che si trovano nel corpo e nel fondo dello stomaco e sono
costituite da molti tipi cellulari diverse, in particolare da cellule parietali, e ghiandole piloriche, che hanno una
secrezione mucosa e presentano in particolare cellule G, che producono l’ormone della gastrina, che stimola la
secrezione dell’acido cloridrico da parte delle cellule parietali. Le ghiandole sono responsabili della produzione di
enzimi e muco.

Il peritoneo rappresenta la tonaca sierosa dello stomaco. Tra le sierose è quella più cospicua dell’organismo, ma
come tutte le sierose è costituito da due foglietti: uno parietale, che riveste le pareti della cavità addominale, e uno
viscerale che aderisce alla superficie della maggior parte dei visceri addominali e pelvici. Tra i due foglietti c’è una
cavità con un liquido sieroso lubrificante.

La disposizione dei tre strati della tonaca muscolare è molto importante perché consente alle fibre muscolari di
incrociarsi tra loro e ciò permette all’organo una contrazione in ogni sua parte, per rendere efficiente il
rimescolamento del contenuto gastrico. I tre strati muscolari fanno sì che lo stomaco possa contrarsi con grande
forza, riducendo il calibro del lume e facendo avanzare il contenuto in direzione del duodeno. A livello del piloro la
tonaca muscolare costituisce lo sfintere pilorico, che periodicamente si apre per far defluire il chimo (alimenti
parzialmente digeriti dal succo gastrico) verso il duodeno.

La sottomucosa è ricca di vasi e costituita da connettivo lasso,


mentre la tonaca mucosa è piuttosto spessa, perché presenta molte
ghiandole gastriche, le quali sboccano nelle depressioni della
mucosa, ovvero le fossette gastriche. Le ghiandole gastriche
propriamente dette si trovano nel fondo e nel corpo dello stomaco,
sono ghiandole tubulari semplici e contengono diversi tipi cellulari:
le cellule principali o adelomorfe, che producono pepsinogeno, le
cellule parietali o delomorfe, che producono acido cloridrico e il
fattore intrinseco (assorbimento vitamine b12), le cellule
endocrine, che producono gastrina, e cellule a secrezione mucosa,
che si trovano in vicinanza dello sbocco delle ghiandole.

La digestione del cibo nello stomaco prevede un’attività secretiva e una motoria. L’attività secretiva è data
dall’attività delle ghiandole gastriche che nell’insieme producono il succo gastrico, ovvero un liquido acido e
incolore, la cui secrezione aumenta in corrispondenza della suzione del cibo. Il succo gastrico contiene l’acido
cloridrico, enzimi come la pepsina, lipasi e mucina. Il pH molto basso del succo gastrico viene neutralizzato dal
muco prodotto dalle cellule mucipare e dal contenuto salivare che arriva col bolo alimentare. Quando il cibo arriva
nello stomaco vengono stimolati i recettori di stiramento che si trovano nella parete gastrica e i chemiocettori
posti nella mucosa; questo determina la contrazione riflessa della tonaca muscolare e la secrezione della gastrina
da parte delle cellule endocrine. A sua volta la gastrina stimola la secrezione gastrica e la motilità dello stomaco,
creando onde di mescolamento. Il tempo richiesto perché avvenga la digestione nello stomaco può variare sulla
base della natura del bolo alimentare; generalmente sono necessarie alcune ore perché lo stomaco si svuoti
completamente dopo un pasto bilanciato, mentre ci mette di più se il pasto è ricco di grassi. In seguito alla
digestione gastrica si forma il chimo (fluido), che viene trasferito nel duodeno poco per volta. Quindi lo stomaco
trattiene il cibo finché non è stato parzialmente digerito e quindi serve da organo di accumulo temporaneo; solo
dopo la trasformazione in chimo il cibo viene inoltrato in piccoli volumi nell’intestino tenue.

L’attività delle ghiandole gastriche è coordinata da un insieme di segnali nervosi ed ormonali. In generale già
l’odore del cibo è in grado di generare uno stimolo nervoso, che stimola le ghiandole a produrre i succhi gastrici;
quando le sostanze alimentari raggiungono effettivamente lo stomaco, stimola il rilascio di gastrina che stimola
ulteriormente la produzione dei succhi gastrici. Quando il contenuto dello stomaco è troppo acido, un meccanismo
a feedback inibisce l’ulteriore secrezione dei succhi gastrici.

Normalmente il chimo non può risalire dallo stomaco all’esofago, ma quando accade si parla di reflusso gastrico,
che determina la cosiddetta acidità di stomaco.
Intestino tenue
Allo stomaco segue l’intestino tenue, che rappresenta il tratto
più lungo e tortuoso del canale alimentare, raggiungendo la
lunghezza di circa sette/otto metri. L’intestino tenue è diviso in
due porzioni, il duodeno, piuttosto corto, e l’intestino tenue
mesenteriale, che forma numerose anse intestinali, occupa
gran parte della cavità addominale. L’intestino tenue
mesenteriale è a sua volta distinto in due parti, il digiuno e
l’ileo. L’intestino tenue mesenteriale è definito così perché a
differenza del duodeno viene avvolto dal mesentere; questo da
una parte lo fissa alla parete posteriore, dall’altra gli lascia
ampia possibilità di movimento. Data la sua notevole
lunghezza, l’intestino mesenteriale si ripiega su sé stesso costituendo le anse mesenteriali che formano la massa
mesenteriale. L’intestino tenue riceve il chimo dallo stomaco e
lo espone all’azione della bile, del succo pancreatico e del succo
enterico; questi completano la digestione dei materiali nutritizi.
L’intestino tenue assorbe i prodotti della digestione e infatti
può contare su una superficie assorbente molto ampia, di circa
100 m2. L’intestino tenue mesenteriale è avvolto dal peritoneo
e una piega peritoneale, ovvero il mesentere, ha una tipica
forma a ventaglio, lo unisce alla parete posteriore dell’addome.
Il mesentere è la piega peritoneale di maggiori dimensioni,
include tessuto adiposo che aumenta nei soggetti obesi e si
estende dalla parete addominale posteriore all’intestino tenue,
per poi tornare alla sua origine, formando una struttura a
doppio strato, tra cui decorrono i vasi e i nervi diretti
all’intestino.

Si definiscono intraperitoneali tutti gli organi che sono completamente avvolti nel peritoneo e sono lo stomaco, il
fegato e l’intestino. Il duodeno non è completamente circondato dal peritoneo, si trova dietro e quindi si può
definire come un organo retroperitoneale, così come il pancreas. La vescica è in rapporto con il peritoneo soltanto
superiormente, per cui si definisce come organo sottoperitoneale.

Duodeno:
Duodeno significa “della lunghezza di 12 dita”. È un
viscere cavo a forma di C ed è coperto solo
anteriormente dal peritoneo, pertanto è un organo
retroperitoneale; per questo è un organo piuttosto fisso
dotato di scarsa mobilità. Si trova a destra rispetto alla
colonna vertebrale, stendendosi più o meno a L2 e L3.
La testa del pancreas, che si trova all’altezza di L2, è
alloggiata all’interno della concavità del duodeno. La
concavità è rivolta verso sinistra e verso l’alto. Il
duodeno presenta quattro porzioni, ovvero il bulbo (giallo) o ampolla duodenale, che è la parte un po’ più mobile
perché è parzialmente rivestita dal peritoneo; al bulbo segue la parte discendente (rosa), la parte orizzontale
(viola) e poi la parte ascendente (verde) che risale fino al lato sinistro di L2, piegandosi a formare la flessura
duodeno-digiunale, ovvero il punto in cui il duodeno continua con la prima parte dell’intestino tenue mesenteriale.
Anteriormente il duodeno è in rapporto con il lobo destro del fegato, con la cistifellea, con la flessura destra del
colon e con le anse intestinali. Posteriormente ha rapporti con il rene, con l’uretere destro, con la vena cava
inferiore, con l’aorta e con i vasi renali.

Nella porzione discendente la mucosa è sollevata in


pieghe, che prendono il nome di pieghe circolari; in
questa porzione c’è la presenza di due rilievi,
quello inferiore corrisponde alla papilla duodenale
maggiore, che rappresenta lo sbocco del dotto
coledoco che porta la bile nel duodeno (verde) e
del dotto pancreatico principale (che porta il succo
pancreatico); il rilievo superiore è la papilla
duodenale minore e rappresenta il punto in cui
sbocca il dotto pancreatico accessorio, che drena
una parte della testa del pancreas.

Il duodeno presenta una parete la cui struttura è uguale a quella indicata nel canale digerente, dove sono presenti
le quattro tonache. La tonaca mucosa presenta dei villi che si estendono per tutto l’intestino tenue, ma nel
duodeno sono più grandi e piatti. La tonaca sottomucosa presenta delle ghiandole duodenali di Brunner, che
secernono una sostanza alcalina, per bloccare l’acidità gastrica. La tonaca muscolare ripresenta due strati, uno
circolare interno e uno longitudinale esterno. La sierosa è costituita dal peritoneo, che però lo riveste soltanto
anteriormente.

Nel duodeno vengono riversati ormoni ed enzimi


prodotti a livello pancreatico ed epatico e qui termina
la digestione degli alimenti. Quando il chimo arriva
nel duodeno è indotto il rilascio di due ormoni,
ovvero la secretina e la CCK (colecistochinina). La
secretina ha il compito di stimolare il pancreas
perché rilasci il succo pancreatico; il pancreas
produce quindi una soluzione basica ricca di enzimi
digestivi e contenente bicarbonato per neutralizzare
l’acidità del chimo gastrico. La CCK è un ormone
secreto dal duodeno, soprattutto dopo un pasto ricco di grassi, che determina il rilascio da parte della cistifellea
della bile e degli enzimi digestivi pancreatici. In generale la secretina e la CCK aumentano nel fegato la produzione
di bile, che si accumula nella cistifellea, bile che contiene Sali biliari con la capacità di emulsionare i grassi,
dividendoli in minute goccioline in modo da renderli più attaccabili da parte degli enzimi; questi due ormoni inoltre
inibiscono la produzione di gastrina e di succo gastrico, poiché lo stomaco si è svuotato.

Nell’intestino tenue mesenteriale si ha l’assorbimento delle sostanze nutritive; si estende dalla fine del duodeno
fino alla valvola ileocecale. È costituito da digiuno, che è lungo circa 2,5 m, e dall’ileo, lungo oltre 3,5 m. L’intestino
tenue mesenteriale, a differenza del duodeno, presenta un
mesentere a forma di ventaglio che lo fissa alla parete
addominale posteriore, dandogli una grande possibilità di
movimento. Tra digiuno e ileo non esiste un confine anatomico
netto, l’unica differenza è che il diametro tende a diminuire
spostandosi in direzione dell’ileo. Il passaggio dal duodeno al
digiuno è a livello della flessura duodeno-digiunale, dove
l’intestino tenue entra nella cavità addominale, diventando
organo intraperitoneale. Nel digiuno si ha la maggior parte della
digestione chimica e dell’assorbimento dei nutrienti. Anche l’ileo
è intraperitoneale e termina con uno sfintere, cioè la valvola
ileocecale, che protrude nel ceco, controllando il flusso di materiale dall’ileo alla prima parte dell’intestino crasso.

Data la sua grande estensione, l’intestino tenue mesenteriale entra in rapporto con tutti i visceri alloggiati nella
cavità addominale. Superiormente è in rapporto con fegato, stomaco e milza, con la vescica e con l’utero.
L’intestino tenue mesenteriale è circondato dal colon e posteriormente poggia sul peritoneo. Le anse intestinali
sono contenute all’interno del colon e quindi occupano lo spazio al di sotto del mesocolon, detto spazio sotto-
mesocolico.

L’intestino tenue mesenteriale è completamente avvolto dal


peritoneo, che lo tiene collegato alla parete addominale
posteriore, mediante una doppia piega peritoneale, detta
mesentere. Il mesentere è costituito da una doppia lamina
peritoneale e all’interno decorrono i vasi sanguigni e i nervi
diretti all’intestino. Grazie alla presenza dei mesi, gli organi
intraperitoneali sono in grado di muoversi molto più facilmente
rispetto a quelli extraperitoneali.

Per quanto riguarda la parete intestinale, questa presenta


all’interno delle pliche circolari, le quali presentano a loro
volta altri rilievi, ovvero i villi intestinali; questi sono
modificazioni molto importanti a livello della mucosa
dell’intestino tenue e sono alti circa 1 mm. Sono presenti
milioni di villi e la loro presenza conferisce un aspetto
vellutato alla mucosa intestinale. A loro volta i villi
intestinali sono costituiti da cellule dotate di microvilli. La
presenza di tutte queste strutture fa sì che aumenti
notevolmente la superficie assorbente. Ciascun villo
contiene nel suo asse un’arteriola, una venula e un vaso
linfatico, che prende il nome di vaso chilifero. Le cellule che
costituiscono i villi prendono il nome di enterociti. I
microvilli insieme formano il cosiddetto orletto a spazzola.

L’epitelio di rivestimento dell’intestino tenue è cilindrico semplice, formato da tre tipi di cellule. Gli enterociti sono
le cellule più numerose e sono dotate di microvilli; in mezzo a queste ci sono le cellule caliciformi mucipare e
cellule che fanno parte del sistema gastroenteropancreatico, responsabili della produzione di molti ormoni. La
lamina propria della tonaca mucosa costituisce l’asse dei villi, in cui sono presenti i rami terminali delle vene, delle
arterie e dei vasi chiliferi, che trasportano i lipidi che sono stati assorbiti a livello dell’epitelio intestinale. In seguito
alla demolizione degli alimenti, gli amminoacidi e gli zuccheri passano all’interno dei capillari sanguigni, mentre gli
acidi grassi e il glicerolo entrano nei capillari linfatici.
La parete intestinale è formata dalle solite quattro tonache, quella mucosa, quella sottomucosa, la tonaca
muscolare organizzata in due strati e infine la tonaca sierosa.
La lamina propria presenta molte ghiandole tubulari semplici, le quali presentano anche cellule di rimpiazzo per
rinnovare continuamente l’epitelio di rivestimento (ogni 3-5 giorni).
I due strati muscolari permettono i movimenti peristaltici intestinali grazie al loro orientamento circolare e
longitudinale.

A seguito dell’attività delle ghiandole intestinali, viene prodotto il succo enterico, che oltre a trasportare enzimi
contiene anche muco. I principali enzimi sono quelli che agiscono sugli amminoacidi, come le amminopeptidasi, le
carbossipeptidasi, enzimi che agiscono sugli amidi, come le maltasi e le lattasi, enzimi che scindono gli acidi
nucleici, come le nucleasi, enzimi che digeriscono i grassi, come la lipasi. I movimenti peristaltici dell’intestino
tenue fanno sì che le particelle alimentari vengano tenute a contatto con la parete intestinale, stimolando la
secrezione e la circolazione sanguigna locale. La digestione completa del chimo avviene grazie al succo enterico, al
succo pancreatico e alla bile. Lungo tutto l’intestino tenue si ha anche l’assorbimento dell’acqua e dei prodotti
terminali della digestione; attraverso gli enterociti i nutrienti raggiungono l’asse del villo, dove vengono raccolti dai
vasi sanguigni per poi raggiungere la vena porta. I lipidi vengono raccolti dai vasi chiliferi per poi essere riversati nel
circolo sanguigno. L’enzima dell’amilasi pancreatica continua l’azione della saliva sull’amido, mentre la tripsina
termina la digestione delle proteine trasformandole in amminoacidi.
Alla fine della digestione gli zuccheri sono ridotti in molecole di glucosio, le proteine in amminoacidi e i lipidi in
acidi grassi e glicerolo.

Intestino crasso
Le parti di cibo che non possono essere digerite
passano nell’ultima parte di intestino, ovvero l’intestino
crasso, dove saranno eliminate come feci. Il termine
intestino crasso significa letteralmente “intestino
grosso”, poiché il calibro di questa parte dell’intestino è
maggiore rispetto all’intestino tenue. Il grasso ha anche
un’azione di riassorbimento di acqua e sali minerali e la
produzione di vitamine a partire da pro-vitamine
presenti nei cibi. L’intestino crasso inizia con una tasca
a fondo cieco, che prende appunto il nome di cieco, per
terminare poi con l’ano per una lunghezza di circa 1,5
m. L’intestino crasso è diviso in diverse parti: la prima
parte prende il nome di cieco a cui è annessa l’appendice, al cieco segue il colon diviso in una porzione
ascendente e una porzione trasversa (quindi colon ascendente e colon trasverso); il colon trasverso ripiega e si fa
discendente, che continua con il colon sigmoideo (chiamato così per la sua forma a S) e con l’intestino retto, dove
vengono raccolte le feci prima della loro evacuazione. A livello dell’ano sono presenti due sfinteri che ne regolano
l’apertura.

A livello del passaggio tra intestino tenue e colon è


presente uno sfintere che prende il nome di
valvola ileocecale. L’ileo sbocca a d angolo retto
nell’intestino cieco; nel punto di innesto la
muscolatura che costituisce la tonaca muscolare si
organizza a formare una valvola sfinterica, che
serve a impedire il reflusso del chimo intestinale
dal cieco all’ileo. Il cieco presenta una
estroflessione, ovvero l’appendice vermiforme,
che è una struttura formata da tessuto linfatico,
tanto che viene anche definita tonsilla addominale.
A seguito di appendicite viene asportata con l’appendicectomia.

Nell’intestino è presente la cosiddetta flora batterica intestinale, costituita da diversi microrganismi, come i
lattobacilli (fermenti lattici), l’Escherichia coli; la flora batterica intestinale si definisce già poco dopo la nascita nel
lattante, come conseguenza del fatto di essere esposti all’ambiente e ai primi alimenti e nel corso degli anni si
modifica a seconda delle abitudini alimentari di ciascuno. Sulla flora batterica intervengono fattori ambientali e
salutari, l’ingestione di antibiotici (distruggono flora batterica, quindi in terapia antibiotica è consigliato prendere
anche fermenti lattici).

Attraverso la valvola ileocecale passa cogni giorno circa 1,5 L di materiale, ma la maggior parte dell’acqua e degli
elettroliti vengono riassorbiti, quindi con le feci viene eliminata solo una piccola quantità di acqua. Le feci sono
formate da una parte che contiene materiale solido, come batteri morti, materiale indigerito, componenti secchi
dei succhi digestivi, come i sali biliari, materiale inorganico e proteine.

L’intestino crasso ha un diametro che è circa tre volte maggiore rispetto all’intestino tenue. Presenta una superficie
piuttosto irregolare, sono presenti dei rigonfiamenti, delle gibbosità, che prendono il nome di haustra coli e che
sono separati l’uno dall’altro da delle flessure trasversali. In superficie si nota la presenza di nastri di muscolatura
liscia che prendono il nome di tenie del colon.

Nel suo percorso l’intestino crasso entra in rapporto con vari organi: con le anse dell’intestino tenue, con il fegato,
con il duodeno, con il pancreas, con lo stomaco, con la milza e nella piccola pelvi con la vescica, la prostata e le
vescichette addominali (se maschio) o con l’utero e con la vagina (nella femmina).

L’intestino crasso ha origine nella fossa iliaca sinistra a livello della valvola ileocecale. il casso si divide in sei regioni
successive viste prima. Per quanto riguarda il colon è diviso in quattro regioni: il cieco prosegue verso l’alto con il
colon ascendente, che si porta verticalmente in direzione del fegato rimanendo applicato alla parete addominale
posteriore (il peritoneo gli passa davanti); al livello della regione addominale indentificata come ipocondrio destro,
il colon ripiega medialmente e la piega prende il nome di flessura colica destra o flessura epatica, per poi dirigersi
trasversalmente verso sinistra come colon trasverso, che attraversa la cavità addominale, dove rimane inferiore e
posteriore rispetto allo stomaco. Il colon trasverso si stacca dalla parete addominale, ma resta legato a questa
attraverso una lamina peritoneale, ovvero il mesocolon trasverso. La presenza del mesocolon trasverso
contribuisce a suddividere la cavità addominale in due spazi, uno superiore detto sovramesocolico, che contiene
fegato, stomaco e milza, e uno spazio sottomesocolico, che contiene le anse intestinali del tenue, il colon
discendente e il colon ascendente. Una volta raggiunta la mila, il colon ripiega verso il basso e la piega prende il
nome di flessura colica sinistra o flessura splenica, si porta in posizione retroperitoneale e prosegue verso la
regione della fossa iliaca sinistra, diventando colon discendente. Giunto nella fossa iliaca sinistra, il colon assume
un aspetto a forma di Σ (sigma, S), per cui prende il nome di colon sigmoideo o sigma; questo si porta verso l’osso
sacro nel piccolo bacino, dove diventa nuovamente discendente e prende il nome di intestino retto, che attraversa
il pavimento pelvico e si apre all’esterno con l’apertura anale.

Le tenie sono tre nastri di muscolatura liscia e la loro presenza da


origine agli haustra coli.

Una delle caratteristiche dell’intestino crasso è la presenza di


molte ghiandole a secrezione mucosa, che producono un
liquido lubrificante che riveste le feci. Inoltre, le fibre muscolari
lisce non hanno una distribuzione uniforme, infatti le fibre
dello strato longitudinale formano appunto le tenie, mentre lo
strato circolare forma gli haustra coli.

Riguardare ultima slide intestino crasso!!


Fegato
È considerato una grossa ghiandola extramurale annessa
all’apparato digerente. Pesa oltre 1,5 kg, è la più grande
ghiandola del corpo umano e si trova nella regione
sovramesocolica, sotto le ultime 7-8 coste. Occupa la
regione dell’ipocondrio destro e dell’epigastrio. Il
legamento falciforme divide il fegato in due lobi anatomici,
lobo destro e lobo sinistro. Questo legamento è una doppia
piega del peritoneo parietale, che dalla parete anteriore si
estende distribuendosi nel fegato come peritoneo viscerale.
All’interno del margine libero del legamento falciforme si
nota la presenza del legamento rotondo del fegato, che
corrisponde alla vena ombelicale obliterata chiusa, che
prima della nascita decorre dall’ombelico al fegato.

Il fegato secerne la bile, ovvero un liquido di colore giallastro molto amaro, utilizzato durante la digestione perché
emulsiona i grassi. Tra un pasto e l’altro la bile prodotta dal fegato viene raccolta nella cistifellea o colecisti, che si
trova sotto il fegato; da qui, attraverso il dotto cistico, la bile viene riversata nel duodeno. Il dotto cistico si lega al
dotto epatico, si forma il dotto coledoco e sfocia nel duodeno.

nel fegato si distinguono due facce: a


sinistra c’è la faccia antero-superiore,
detta anche diaframmatica per il suo
esteso rapporto col muscolo
diaframma; la faccia postero-inferiore è
detta anche faccia viscerale, perché è in
rapporto con molti visceri che lasciano
numerose impronte. I rapporti della
faccia diaframmatica del fegato sono
mediati dal muscolo diaframma,
tramite cui si mette in rapporto con la
pleura e la base del polmone destro,
con il pericardio e con la faccia anteriore del cuore. il fegato è ricoperto dal peritoneo, il quale lo collega agli organi
vicini o alle pareti addominali, grazie alla presenza di legamenti. A livello del solco trasverso della faccia viscerale si
inserisce il piccolo omento, che è formato dall’insieme dei legamenti epatogastrico ed epatoduodenale.
La faccia diaframmatica è convessa poiché deve adattarsi alla concavità del diaframma; il lobo destro ha
un’estensione maggiore, mentre quello sinistro è più piccolo.
La faccia viscerale è caratterizzata dalle impronte lasciate
dagli organi che vi si trovano posteriormente, come lo
stomaco che lascia l’impronta gastrica, il rene e surrene
destro che lasciano l’impronta renale e surrenale, il
duodeno con l’impronta duodenale e l’intestino crasso con
l’impronta colica. Inoltre sono presenti tre solchi che
formano una specie di H e sono il solco trasverso e due
solchi sagittali destro e sinistro. Tra questi ultimi due solchi
sono presenti due piccoli lobi, ovvero il lobo quadrato
anteriormente e il lobo caudato posteriormente. Il solco
trasverso corrisponde all’ilo dell’organo e quindi i vasi e i
nervi che devono entrare nel fegato (vena porta, arteria
epatica, dotto epatico, ecc.) formano il peduncolo epatico,
che passa attraverso il piccolo omento per convergere
verso l’ilo epatico. Il solco sagittale destro si dilata
anteriormente per raccogliere la cistifellea, mentre
posteriormente accoglie la vena cava inferiore; nel solco
sagittale sinistro ci sono
residui di vasi fetali come il legamento rotondo.

Essendo un organo pieno è presente un parenchima epatico le cui cellule prendono il


nome di epatociti. All’interno il parenchima epatico non è suddiviso in lobi, ma gli
epatociti formano delle lamine ramificate e anastomizzate tra loro e negli spazi tra
queste lamine decorrono i capillari sinusoidi. Tutte queste strutture convergono
verso la vena centrolobulare, ovvero verso l’asse centrale del lobulo.

Le unità funzionali del rene sono proprio i lobuli


epatici, che nel fegato umano sono circa
50/100 mila unità. A livello degli angoli di
ciascun lobulo ci sono degli spazi connettivali,
detti portali o portobiliari, perché presentano
un ramo dell’arteria epatica, un ramo della
vena porta e un dotto biliare, che viaggia in
direzione opposta al sangue. Queste tre
formazioni insieme vengono definite come la
triade portale. Il sangue quindi giunge in
periferia del lobulo grazie all’arteria epatica e
alla vena porta, per poi immettersi nei sinusoidi per poi convergere nella vena centrolobulare. Le vene centrolobulari
si scaricano in un altro vaso di raccolta, il quale confluisce in una vena sottolobulare. Le vene sottolobulari si
raccolgono nelle vene epatiche, che si scaricano a loro volta nella vena cava inferiore.

Il fegato riceve il 20% del sangue arterioso dall’arteria epatica (ramo del tronco celiaco), che mantiene il trofismo
portando del sangue ossigenato; il restante 80% gli giunge attraverso la vena porta, che si forma per confluenza
delle due vene mesenteriche inferiore e superiore e della vena lienale e trasporta il sangue refluo che ha viaggiato
nel canale alimentare nella milza. Mediamente la pressione del sangue nella vena porta è di circa 8 mm di
mercurio, mentre la pressione nella vena epatica è di 0 mm di mercurio, il che fa sì che il sangue circoli
agevolmente per differenza di pressione attraverso il lobulo epatico.
Gli epatociti hanno una faccia in rapporto con un sinusoide
(capillare); questa faccia viene definita polo vascolare e
presenta dei piccoli microvilli. Le facce a contatto tra due
epatociti, vengono indicate come poli biliari; queste facce
presentano una doccia, che una in seguito all’altra tra i
vari epatociti costituisce il capillare biliare. Questa è
l’origine a fondo cieco delle vie biliari, che vanno a
formare i dotti epatici destro e sinistro, i quali
confluiscono tra loro a formare il dotto epatico comune. I
capillari sinusoidi sono tappezzati da cellule endoteliali,
cellule macrofage per allontanare la maggior parte dei
batteri che arrivano con il sangue della vena porta (batteri
della flora del colon).

Le vie biliari extraepatiche sono quei canali deputati al


trasporto della bile verso il duodeno; queste danno origine a
livello dell’ilo del fegato due rami, che escono dal parenchima
epatico e sono il dotto epatico destro e sinistro. Questi
confluiscono nel dotto epatico comune, che a sua volta riceve
il dotto cistico proveniente dalla cistifellea e si forma il dotto
coledoco.

A livello della papilla duodenale è presente un anello di


muscolatura liscia, che costituisce il cosiddetto sfintere di Oddi, che
serve a regolare il flusso di bile e succo pancreatico nel lume del
duodeno.

È un organo cavo a forma di pera che contiene la bile e che si trova


alloggiata nella fossa cistica presente sulla faccia viscerale del fegato,
la cistifellea presenta una parte più ristretta, ovvero il collo, che con
un aspetto un po’ tortuoso continua nel dotto cistico.

La bile è composta per l’80% di acqua e per il resto da sali biliari; questi vengono sintetizzati dalle cellule epatiche a
partire dal colesterolo endogeno. Nell’intestino i sali biliari hanno il compito di emulsionare le particelle di grasso
alimentare in modo da frammentarli in particelle più piccole, rendendole idorsolubili e quindi assorbibili.
Mancando i sali biliari, viene perduto dall’intestino una grossa percentuali di lipidi, che si portano dietro anche le
vitamine liposolubili. La secrezione giornaliera di bile è di circa 500/600 mL al giorno. Il fegato producono in modo
costante la bile, la quale fluisce nella cistifellea dove viene concentrata. Di norma lo sfintere di Oddi, che regola il
passaggio della bile nell’intestino, è chiuso, quindi la bile non viene riversata nel duodeno; quando arriva il chimo
nel duodeno e soprattutto quando è ricco di grassi, vengono stimolate le cellule endocrine a secernere l’enzima
della pancreozimina o colecitochimina, la quale ha tre effetti: da una parte induce la contrazione della muscolatura
della cistifellea, espellendo la bile, dall’altro viene rilasciato lo sfintere di Oddi; inoltre stimola il pancreas a
secernere gli enzimi digestivi, che vengono immessi nel duodeno.

Oltre che produrre la bile, il fegato può anche essere considerato come una sorta di filtro posto tra il tubo
digerente e il sistema circolatorio. Le sostanze che sono state assorbite a livello intestinale, attraverso il sangue che
giunge al fegato con la vena porta, dove vengono filtrate e trasformate. Le sostanze tossiche come l’alcool vengono
neutralizzate, mentre altre sostanze vengono accumulate a livello del fegato per poi essere rilasciate quando
saranno necessarie. Il glucosio viene immagazzinato nel fegato e trasformato in glicogeno; quando l’organismo ha
bisogno degli zuccheri, allora il glicogeno viene nuovamente trasformato in glucosio e immesso nel sangue.
Il fegato regola anche la coagulazione del sangue, poiché produce eparina, ovvero una sostanza anticoagulante che
permette al sangue di scorrere agevolmente.
IL fegato produce anche fibrinogeno, che si trasforma poi in fibrina e permette la coagulazione in presenza di
un’emorragia; durante la fase di coagulazione vera e propria si ha la formazione di un reticolo insolubile di fibrina,
che fa da tappo e blocca il fenomeno emorragico. La conversione del fibrinogeno, che è una proteina solubile, in
fibrina (insolubile) avviene per l’azione di un altro enzima, chiamato trombina, il cui precursore attivo è la
protrombina sintetizzata nel fegato.

Il fegato interviene nel metabolismo glucidico, dei lipidi, delle proteine, della bilirubina, dei farmaci e delle sostanze
tossiche; funge anche da deposito per le vitamine e il ferro. Il metabolismo glucidico consente di mantenere la
glicemia nel periodo interpranziale, mantenendo l’omeostasi glucidica attraverso l’immagazzinamento dei
carboidrati (gluconeogenesi e glicogenosintesi) e attraverso la mobilizzazione dai depositi (glicogenolisi).

Il fegato sintetizza le proteine plasmatiche come l’albumina, il fibrinogeno, la protrombina e altri fattori di
coagulazione. Le albumine hanno un importante compito osmotico, perché mantengono la pressione osmotica del
sangue e costituiscono circa il 60% di tutte le proteine plasmatiche. Si dice che le albumine siano un espansore del
volume plasmatico; le albumine trasportano ormoni e altre sostanze.
La bilirubina è prodotta dalla lisi dei globuli rossi e giunge al fegato legata all’albumina; le cellule epatiche la
catturano e la rendono solubile legandola a sostanze particolari, per poi venire secreta nei canalicoli biliari,
giungendo poi nel duodeno per essere espulsa con le feci.

Pancreas
È un’altra ghiandola extramurale e si trova in posizione retroperitoneale, all’altezza di L1 e L2. E disposto
trasversalmente, si trova quasi completamente nello spazio sovramesocolico ed è formato da una testa accolta
nella C duodenale, da un corpo che si estende trasversalmente dietro lo stomaco, e una coda che raggiunge la
milza verso sinistra. Il pancreas è in rapporto con l’arteria lienale, che decorre sul suo margine superiore.

Il pancreas ha funzione esocrina ed endocrina.


Il dotto coledoco passa attraverso la testa del
pancreas. Il dotto pancreatico principale inizia
a livello della coda, attraversa il corpo, si
introflette verso il basso, si avvicina al coledoco
e sfocia con questo nella papilla duodenale
maggiore. Il dotto pancreatico principale drena
la maggior parte del pancreas esocrino, mentre
solo una parte della testa del pancreas è
drenata dal dotto pancreatico accessorio, che
sbocca nella papilla duodenale minore.
Il parenchima pancreatico è costituito per la
maggior parte da acini pancreatici esocrini,
tra i quali sono presenti sporadicamente le
isole del Langerhans endocrine. La parte
esocrina del pancreas è responsabile della
produzione del succo pancreatico, che
contiene una serie di enzimi, come le amilasi
che trasformano l’amido alimentare in
zuccheri semplici, la chimotripsina, la tripsina
e la carbossipeptasi che trasformano le
proteine in singoli amminoacidi. Ci sono le
lipasi che coadiuvate dalla bile scindono i
trigliceridi nei loro componenti più
elementari; le ribonucleasi e le
desossiribonucleasi demoliscono RNA e DNA.
Oltre a questi importanti enzimi digestivi, il
succo pancreatico è molto ricco di ioni di carbonato, molto importanti per tamponare l’acidità del chimo
proveniente dallo stomaco e a garantire un ambiente leggermente alcalino, favorevole agli enzimi digestivi.

Apparato urinario
Il compito generale è quello di filtrare il sangue dai cataboliti che si sono accumulati e di eliminarli all’esterno; per
cui è costituito da organi principali, ovvero i reni con funzione emuntoria (capacità che i reni hanno di eliminare
dall’interno dell’organismo i prodotti di scarto derivanti dal catabolismo). Quindi i reni liberano il sangue dalle
scorie che man mano vi si sono accumulate, formando l’urina che viene eliminata dal corpo. L’urina deve quindi
essere trasportata all’esterno del corpo e a questo sono deputati altri organi che nel loro insieme costituiscono le
vie urinarie, ovvero i calici minori e maggiori, le pelvi, gli ureteri, la vescica e l’uretra. Gli organi che fanno parte
dell’apparato uropoietico (=urinario) sono tutti retroperitoneali.

Il rene destro si trova un po’ più in basso rispetto al sinistro, perché al di


sopra si trova il fegato; i reni sono organi pari e simmetrici che si trovano
nella parte posteriore e superiore della cavità addominale, in posizione
extraperitoneale. Dai reni hanno origine due condotti, che arrivano nella
pelvi e raggiungono gli angoli supero-laterali della vescica dove sboccano.
La vescica è un organo impari che si trova posteriormente alla sinfisi pubica.
Dalla vescica c’è un altro condotto che trasporta l’urina verso l’esterno,
ovvero l’uretra.

Funzioni:
L’apparato uropoietico elabora ed elimina l’urina, ma facendo questo
mantiene anche l’omeostasi del sangue e dei fluidi interstiziali, quindi ne
controlla l’equilibrio idrosalino. I reni sono anche responsabili della
produzione di ormoni, ovvero renina ed eritropoietina.
Reni
I reni hanno una caratteristica forma a fagiolo
con una consistenza piuttosto dura; sono
situati di lato alla colonna vertebrale e
occupano le fosse lombari in posizione
profonda. Posteriormente hanno rapporti con il
piano muscolari, con cui sono direttamente a
contatto; nella loro parte superiore sono
adagiati sul muscolo diaframma. A livello
dell’ilo poggiano sul muscolo grande psoas, sul
muscolo quadrato dei lombi e sull’aponeurosi
(lamina tendinea) del muscolo trasverso
dell’addome. Questa è la situazione normali,
ma può essere che abbiano forma diversa o che
siano spostati più in basso; ad esempio a causa
di anomalie morfologiche si può avere il rene pelvico, quindi spostato più in basso a causa di un difetto di
migrazione di quest’organo. Durante lo sviluppo i reni migrano dalla cavità pelvica alla cavità addominale, quindi si
parla di rene pelvico quando appunto non ha completato la migrazione. Un’altra anomalia morfologica può essere
data dal rene a ferro di cavallo, ovvero quando i due poli inferiori del rene sono fusi tra di loro, fusione che avviene
durante la migrazione.

I reni si estendono da T12 a L2 circa, anche se il rene destro è


spostato un paio di centimetri più in basso rispetto al sinistro. Il
polo superiore del rene sinistro è a livello dell’undicesima costa,
mentre quello del rene destro si trova tra undicesima e dodicesima
costa. Entrambi i poli superiori sono accolti all’interno della
struttura della gabbia toracica e quindi sono in rapporto con il
muscolo diaframma. Il polo inferiore si trova a circa 2/3 cm dalla
cresta iliaca. Al centro del margine mediale dei due reni si trova
una depressione, ovvero il punto in cui passano i vasi sanguigni, i
vasi linfatici, i nervi e l’uretere; questa depressione è l’ilo renale,
che immette in una cavità chiamata seno renale.

I reni sono accolti nella loggia renale, che è uno spazio connettivale pari e simmetrico extraperitoneale. Intorno al
rene ci sono vari strati di tessuto; dal più interno al più esterno sono:
• la capsula fibrosa e di natura connettivale, in particolare è costituita da connettivo denso, e ricopre la
superficie esterna del rene proteggendolo da eventuali traumi
• un guscio adiposo, ovvero il grasso perirenale o perinefritico, che è costituito da tessuto connettivo
adiposo
• la fascia renale è formata da connettivo denso e ha il compito di ancorare il rene alla parete addominale
posteriore
• un altro guscio adiposo detto pararenale o paranefritico
Il rene si trova quindi all’interno di una loggia renale che è delimitata da una fascia connettivale renale. Oltre alla
fascia connettivale, i reni sono tenuti nella loro sede naturale grazie alla presenza del peduncolo vascolare e dalla
pressione addominale positiva. In alcune situazioni patologiche i reni possono scendere verso il basso in maniera
permanente e questa condizione è definita come ptosi renale; è una condizione che si realizza nei soggetti
anoressici, per cui il tessuto adiposo che sostiene il rene viene utilizzato con funzione energetica.

Le due estremità sono arrotondate e sono chiamate poli, uno superiore e uno
inferiore. Presenta due facce, una anteriore più convessa e una posteriore più
appiattita. Ha due margini, uno mediale concavo e uno laterale convesso.
Medialmente è lungo 12 cm, largo 6 cm e profondo 3 cm. Ha un aspetto
solitamente liscio e piuttosto regolare, anche se a volte possono presenti dei
solchi, che corrispondono ai territori in cui si può suddividere il parenchima,
ovvero i lobi; quando sono presenti questi solchi si parla di rene lobato. Al
centro del margine mediale c’è l’ilo renale, attraverso cui passano l’uretere,
l’arteria e vena renale, i vasi linfatici e i nervi. Attraverso l’ilo renale si accede ad
una cavità presente nel rene, ovvero il seno renale.

La faccia anteriore del rene destro è in rapporto con il lobo destro del fegato, con la flessura destra del colon e con
il tratto discendente del duodeno. La faccia anteriore del rene sinistro è in rapporto con la milza, con la coda del
pancreas e con i vasi lienali che decorrono sul margine superiore del pancreas, con la flessura duodenodigiunale,
con quella colica sinistra e con la parete posteriore del corpo dello stomaco. Il margine laterale nel rene destro è in
rapporto con il fegato per quasi tutta la sua estensione; quello sinistro con la milza e con il colon discendente. Il
margine mediale è in rapporto a destra con la vena cava inferiore e a sinistra con l’aorta addominale. Lungo l’ilio
del rene destro decorre il tratto discendente del duodeno.

I reni attraverso la produzione di urina sono in gradi di eliminare sia sostanze attive fisiologicamente, come farmaci
e ormoni, sia di eliminare sostanze tossiche di vario tipo, che siano state introdotte nel nostro organismo o che si
formano a partire dai processi vitali che si realizzano. I reni quindi ci preservano da un’autointossicazione organica,
tant’è che una condizione di insufficienza renale è una condizione molto grave che può portare a problemi seri nel
giro di alcune ore e ad un esito fatale nel giro di pochi giorni.

I reni eliminano i cataboliti non più utilizzabili, in particolare prodotti che derivano dal metabolismo azotato,
ovvero derivanti dal metabolismo delle proteine (urea, acido urico, cheratinina), prodotti finali che derivano dalla
degradazione dell’emoglobina (urobilina), metaboliti e vari ormoni. Vengono eliminate anche sostanze estranee e
dannose (farmaci, additivi alimentari, pesticidi). I reni inoltre regolano il volume e la pressione del sangue,
regolando il volume di acqua eliminandola con le urine; regolano l’equilibrio idrico ed elettrolitico, quindi si ha una
eliminazione controllata degli ioni inorganici (cloro, sodio, potassio, ecc.), regolando le concentrazioni plasmatiche
degli ioni stessi. Contribuiscono alla regolazione del pH ematico attraverso la perdita io ioni idrogeno e bicarbonato
secretono ormoni come la renina e l’eritropoietina.
Questa è una sezione frontale del rene. Attraverso l’ilo si
accede a una cavità scavata nel rene, ovvero il seno renale,
dove si trovano le prime porzioni delle vie urinarie, ovvero i
calici minori e maggiori e parte della pelvi. Nel seno renale si
trovano anche tutte le diramazioni dell’arteria e della vena
renale. Le pareti del seno renale presentano delle
sporgenze, formate dalle papille renali, che corrispondono
all’apice delle piramidi renali. Tra le papille ci sono altre
sporgenze interpapillari, formate dalle colonne renali di
Bertin, che si trovano appunto tra le papille renali.
Tra la capsula fibrosa e il parenchima renale c’è un sottile
strato di fibrocellule muscolari lisce che costituiscono una
sorta di tonaca muscolare del rene. Il parenchima renale è
distinto in una zona più interna, chiamata zona midollare, e
una più esterna che prende il nome di zona corticale. La
zona midollare ha un colore più rossastro e ha un tipico
aspetto striato; si organizza in strutture coniche (in sezione
sono triangoli), che sono appunto le piramidi renali di Malpighi e che hanno un apice arrotondato puntato verso il
seno renale a formare le papille renali. Le papille renali presentano dei piccoli forellini, ovvero i forami papillari,
che rappresentano lo sbocco dei dotti papillari che portano l’urina a gocciolare nelle prime vie urinarie. La presenza
di questi dotti dà alle piramidi renali il tipico aspetto striato. Ogni papilla è in contatto stretto con la prima parte
delle vie urinarie, ovvero il calice minore, che sporge nel lume del calice minore.
La zona corticale è un po’ più giallastra e si trova compresa tra la base delle piramidi renali e la superficie del rene;
è corticale anche la parte di parenchima che si spinge tra le piramidi renali, dove la corticale va a formare le
colonne renali. Anche la corticale presenta una parte radiata, dovuta ai raggi midollari, che dalla base delle
piramidi renali si portano verso la superficie del rene; tra questi raggi si trova la parte convoluta, che riempie gli
spazi tra i raggi midollari. Le colonne renali non hanno però un aspetto striato, perché sono costituite da una pare
convoluta, così come una parte vicina alla capsula renale, prendendo il nome di Cortex corticis. La parte convoluta
è formata da una parte dei nefroni (unità elementare dei reni), in particolare dai corpuscoli renali, e da una parte ei
tubuli renali dall’aspetto contorto. La parte radiata è formata dai tubuli renali con andamento più rettilineo.

La conformazione particolare tra corticale e midollari fa sì che nel


rene si possano distinguere dei territori più piccoli, quindi in lobi e
lobuli. Per lobo si intende la piramide renale più il corrispondente
strato di corticale sovrastante e lo strato di corticale tra una
piramide e l’altra; per tanto il numero di lobi è pari al numero delle
piramidi renali (vedi figura). Un lobulo si riferisce solo alla corticale
ed è dato da un raggio midollare e dalla parte convoluta intorno ad
esso; i limiti sono dati dalle arterie e dalle vene interlobulari, che
decorrono radialmente nella zona corticale. Dalle arterie
interlobulari si staccano dei piccoli vasi a formare un gomitolo, che è il glomerulo renale. I glomeruli si
trovano quindi nella zona corticale e nelle colonne renali, mentre non sono presenti nella regione midollare.
Per la loro funzione emuntoria, i reni devono
ricevere molto sangue; circa il 20% della
gittata cardiaca entra nei reni. L’arteria renale
entra nell’ilo, dove si divide subito in rami più
piccoli, dapprima in arterie segmentali e poi in
arterie interlobali, che entrano nelle colonne
lobari, che entrano nelle colonne renali. Le
arterie interlobari risalgono verso la base delle
piramidi renali, dove si incurvano, decorrono
parallelamente alla base della piramide e
diventano arterie arciformi o arcuate; dalla
convessità di queste arterie nascono le arterie
interlobulari, che segnano il confine dei lobuli,
si portano verso la periferia del rene e
decorrono tra i raggi midollari. Dalle arterie
interlobulari si staccano ad angolo retto dei
piccoli vasellini, ovvero le arteriole afferenti; queste vanno a costituire i glomeruli che appartengono al corpuscolo
renale. In seguito alla formazione del glomerulo si formano le arteriole efferenti, che emergono dal glomerulo per
andare a formare una serie di capillari intorno ai tubuli renali.

Il parenchima renale è costituita da nefroni e da dotti escretori. L’unità funzionale elementare del rene è appunto
il nefrone. Un’unità funzionale è la più piccola parte dell’organo in grado di svolgere la funzione dell’organo stesso;
quindi i nefroni hanno funzione urinopoietica, a cui si aggiungono i dotti escretori che trasportano l’urina verso
l’apice delle papille renali. I nefroni si trovano nella zona corticale del rene, mentre i dotti escretori si trovano nei
raggi midollari della corticale e nelle piramidi renali.

Il nefrone è formato da una porzione tubulare e da


una corpuscolare. L’85% dei nefroni sono definiti
corticali e hanno un corpuscolo piuttosto piccolo e
un tubulo breve; il restante sono definiti nefroni
juxtamidollari (in prossimità di) e hanno un
corpuscolo più grande con un tubulo più lungo. I
nefroni sono circa un milione per ogni rene. Il
nefrone è quindi costituito da due parti: una
porzione filtrante, ovvero il corpuscolo renale del
Malpighi, e da una parte con funzione assorbente e
secernente, ovvero il tubulo renale. Il tubulo renale
si immette poi nel sistema di dotti escretori, che
fanno gocciolare l’urina nei calici minori attraverso i
forami papillari.
Il corpuscolo renale è costituito da un gomitolo di capillari, che si
sono formati dall’arteria afferente; questo gomitolo in anatomia
viene chiamato glomerulo. Il glomerulo viene abbracciato tutto
intorno da una capsula di natura epiteliale, ovvero la capsula di
Bowman. In ogni corpuscolo si distinguono due poli: il polo
vascolare rappresenta il punto di ingresso dell’arteriola afferente
all’interno del corpuscolo e il punto in cui esce l’arteriola
efferente. Al polo vascolare è contrapposto il polo urinario, che
corrisponde al punto in cui la capsula di Bowman si continua
direttamente con la prima parte del tubulo renale. A livello del
glomerulo si forma quella che in anatomia viene definita come
rete mirabile arteriosa, ovvero una serie di capillari interposti tra
due arterie, in questo caso tra arteriola afferente ed efferente.

Questi capillari presentano un endotelio fenestrato, perché sono presenti dei pori.
Prima che l’arteriola afferente entri nel corpuscolo, presenta una differenziazione
nella tonaca media, per cui sono presenti delle cellule iuxtaglomerulari. All’interno
del glomerulo sono sparse delle cellule del mesangio intraglomerulare intercapillari;
si trovano quindi tra i capillari, soprattutto nei punti in cui le anse si ramificano. Le
cellule del mesangio hanno forma stellata e con i loro prolungamenti si
approfondano nella lamina basale dei capillari e sono particolarmente numerose
vicino al polo vascolare, dove hanno rapporti con cellule del mesangio
extraglomerulare. Queste cellule del mesangio hanno un’attività fagocitaria e
servono a mantenere pulito il filtro renale.

La capsula glomerulare è costituita da un foglietto parietale esterno e da un foglietto interno aderente ai capillari
del glomerulo, chiamato viscerale. Tra foglietto parietale e viscerale si viene a trovare uno spazio capsulare. Il
foglietto parietale è formato da un epitelio pavimentoso semplice, che poggia su una membrana basale e che in
prossimità del polo urinario si fanno leggermente più alte per andare ad assumere i caratteri tipici delle cellule
cilindriche. Il foglietto viscerale continua direttamente col foglietto parietale a livello del polo vascolare; è
costituito da cellule simili a neuroni, perché sono dotate di prolungamenti che prendono il nome di podociti; i
prolungamenti dei podociti vengono chiamati pedicelli.

Il corpuscolo renale rappresenta dunque un ultrafiltro per il sangue che circola all’interno dei capillari glomerulari.
La barriera di filtrazione o barriera sangue urina è costituita dell’endotelio che costituisce i capillari e dai podociti.
Nel glomerulo sono quindi presenti tre tipi di cellule: le cellule endoteliali che costituiscono l’endotelio dei capillari,
le cellule epiteliali parietali e i podociti. Lo spazio capsulare si continua direttamente col tubulo renale, quindi
quello che si forma dall’ultrafiltro passa nella capsula di Bowman e poi direttamente nel tubulo renale. La lamina
basale è lo strato più spesso della barriera sangue urina e si trova tra i podociti e l’endotelio.
La barriera normalmente consente il passaggio di acqua e ioni ed è impermeabile agli elementi corpuscolari del
sangue e alle sostanze ad alto peso molecolare, come le proteine plasmatiche. L’albumina può passare per la
barriera sangue urina e trovarsi nel filtrato glomerulare, ma poi viene riassorbita nel tubulo prossimale. La lamina
basale è molto spessa è presenta una zona centrale chiamata lamina densa.

La filtrazione glomerulare avviene perché nei capillari glomerulari il sangue presenta una pressione idrostatica
intorno ai 55/60 mmHg, a cui si oppone la pressione presente nello spazio capsulare (15 mmHg) e la pressione
oncotica dovuta alla presenza nel plasma delle proteine plasmatiche (30 mmHg); la risultante è una pressione utile
alla filtrazione, per cui si forma la pre-urina. Si formano circa 180 L di urina primitiva (=pre-urina) in 24h, quindi nei
nefroni ogni giorno sono filtrati circa 1800 L di sangue. L’urina primitiva è successivamente modificata e
trasformata per diventare urina definitiva, di cui ne sono prodotti circa 1,5 L al giorno.

Passando attraverso il filtro renale, l’acqua, gli ioni, molecole piccole come gli amminoacidi, il glucosio e le vitamine
raggiungono la capsula di Bowman; il passaggio di molecole con un determinato ingombro, forma o con un peso
maggiore a 40 mila Dalton è impedito, quindi le proteine plasmatiche non riescono a superare il filtro. Le molecole
che riescono a passare lo fanno anche in relazione alla loro carica elettrica.

Successivo al glomerulo c’è la parte tubulare, dove si realizzano i processi di


riassorbimento e secrezione. Nel tubulo renale l’urina primitiva è
trasformata in urina definitiva, con il riassorbimento di oltre il 99%
dell’acqua dal filtrato glomerulare. Nel passaggio nel tubulo renale alcuni
costituenti del filtrato glomerulare vengono assorbite e altre vengono
immesse. Il tubulo renale è costituito da tre parti distinte: il tubulo
prossimale (giallo), l’ansa del nefrone o di Henle (verde) e il tubulo distale
(blu).
Il tubulo prossimale nella sua origine presenta una parte più ristretta, ovvero
il colletto, per poi assumere un decorso molto tortuoso e a questa parte si
da il nome di segmento convoluto; le sue anse si trovano nella zona
convoluta della corteccia, da qui il nome. Successivo al segmento convoluto
c’è una parte rettilinea, detto segmento rettilineo, che prosegue
direttamente con l’ansa del nefrone. Il tubulo prossimale è formato da un
epitelio cilindrico semplice; in sezione le cellule hanno forma piramidale, con
la base che poggia sulla lamina basale e con l’apice che presenta dei microvilli. Questi fanno capire
che il tubulo prossimale ha funzione assorbente.
L’ansa di Henle è un tubo ripiegato a U, in cui quindi si distingue una porzione discendente, un’ansa e una parte
ascendente parallela a quella discendente, per poi proseguire nel segmento rettilineo del tubulo distale. L’ansa del
nefrone presenta un epitelio pavimentoso semplice. A questo livello la pre-urina viene ancora modificata, in
particolare nel braccio discendente viene concentrata, grazie al riassorbimento di acqua.
Il tubulo distale è l’ultima parte del tubulo renale e presenta una prima parte rettilinea, poi risale da un braccio
midollare verso la parte convoluta e arriva vicino al corpuscolo renale di origine, ponendosi tra l’arteriola afferente
e quella efferente. In questo punto il tubulo renale presenta una struttura modificata, ovvero la macula densa.
Successivamente il tubulo si fa tortuoso, per poi terminare nel piccolo tratto reuniente, che termina in un dotto
collettore. Il tubulo distale presenta un epitelio cubico, mentre nel punto in cui si trova vicino al polo vascolare le
sue cellule si modificano a formare la macula densa.

Intorno ai tubuli ci sono delle reti capillari che raccolgono le sostanze riassorbite dal tubulo, quindi questi capillari
sono detti peritubulari.
Oltre ai nefroni, il parenchima renale è costituito anche da dei dotti escretori,
dati dai dotti collettori e dai dotti papillari di Bellini, i quali fanno gocciolare
l’urina dai forami papillari, presenti sull’apice delle papille renali. I dotti collettori
decorrono rettilinei nei raggi midollari della corticale, per poi portarsi nelle
piramidi renali, dove convergono a formare i dotti papillari. La parete dei dotti
collettori è composta da epitelio cubico semplice, che si fa più cilindrico nei dotti
papillari. Nei dotti collettori si ha un riassorbimento di acqua facoltativo, sotto
l’azione dell’ormone antidiuretico ADH. In assenza di questo ormone i dotti
collettori sono impermeabili all’acqua.

La formazione dell’urina deriva dunque da tre processi che si attuano in porzioni diverse del nefrone. Questo
processi sono:
1. l’ultrafiltrazione glomerulare, che porta alla formazione di un ultrafiltrato raccolto all’interno dello spazio
capsulare
2. riassorbimento tubulare, ovvero un passaggio di sostanze dal liquido tubulare al sangue
3. secrezione tubulare, dal sangue al liquido tubulare

Nel tubulo prossimale viene riassorbito circa l’80% del filtrato glomerulare, quindi tutto ciò che è stato prodotto
come preurina a livello del corpuscolo renale. Oltre all’acqua e agli elettroliti sono riassorbiti anche il glucosio, gli
amminoacidi, l’albumina. Il riassorbimento degli ioni sodio avviene mediante il trasporto attivo (pompa sodica) da
parte delle cellule che formano il tubulo prossimale; l’assorbimento degli ioni cloro e dell’acqua avviene in maniera
passiva, quindi con un riassorbimento obbligato. Il riassorbimento del glucosio e degli amminoacidi avviene a livello
dei microvilli.

Nel tubulo distale, nella parte rettilinea, avviene un ulteriore riassorbimento di ioni sodio, per cui si crea un
aumento della pressione osmotica che richiama ancora acqua. Nel segmento convoluto del tubulo distale può
venire riassorbita altra acqua, ma è un riassorbimento facoltativo influenzato dall’ormone antidiuretico ADH, per
cui si ha un ulteriore concentrazione delle urine. A questo livello c’è anche l’azione dell’ormone aldosterone, che
determina un riassorbimento attivo di ioni sodio che vengono sostituiti da altri cationi.

L’arteriola afferente all’ingresso nel polo


vascolare presenta una specializzazione
della parete. Oltre a queste ci sono altre
formazioni presenti nel polo vascolare e
prendono il nome di apparato
iuxtaglomerulare (= in prossimità del
glomerulo). Questo apparato è quindi
composto dalle cellule iuxtaglomerulari
appartenenti all’arteriola afferente, le
cellule della macula densa appartenenti al
tubulo distale e le cellule del mesangio
extraglomerulare.
Le cellule della macula densa sono più
povere di citoplasma, con nuclei più vicini, che danno l’idea di densità. La macula densa è sensibile alle variazioni
del contenuto del tubulo, soprattutto per quanto riguarda il contenuto di ioni sodio; queste cellule fungono quindi
da osmocettori. La concentrazione di ioni sodio nel tubulo è uno stimolo che viene trasferito alle cellule
iuxtaglomerulari, che producono renina. Le cellule iuxtaglomerulari sostituiscono la muscolatura liscia della tonaca
media dell’arteriola, sono un po’ più voluminose e sono completate dalle cellule del mesangio extraglomerulare,
che si trovano nell’angolo tra arteriola afferente ed efferente. Quindi gli stimoli recepiti dalla macula densa
arrivano alle cellule iuxtaglomerulare attraverso il mesangio extraglomerulare; le cellule del mesangio si
comportano quindi come degli elementi mediatori tra la macula densa e le cellule iuxtaglomerulari. Le cellule
iuxtaglomerulari sono dei pressocettori e quindi rilevano la pressione all’interno dell’arteriola afferente. Un
abbassamento della pressione del sangue induce la produzione di renina, che ha un’azione ipertensiva indiretta,
perché agisce su un globulina prodotta dal fegato, ovvero l’angiotensinogeno, che viene trasformato in
angiotensina 1. Questa sotto l’azione di un enzima di conversione viene trasformata a sua volta in angiotensina 2,
che ha l’azione di riducendo il calibro delle arteriole, quindi agisce sulla muscolatura liscia aumentando la pressione
arteriosa e agisce anche inducendo il rilascio di aldosterone da parte della corticale del surrene, con conseguente
assorbimento di sodio e acqua all’interno dei tubuli contorti distali.

Il rene è anche responsabile di alcune funzioni endocrine, perché nel rene viene anche prodotta l’eritropoietina (=
fare le cellule del sangue), che stimola l’eritropoiesi. Secondo alcuni studiosi, la regolazione dell’ematocrito, ovvero
la percentuale di elementi corpuscolati del sangue, richiede una coordinazione tra il volume del plasma e la massa
degli eritrociti; quindi il rene, controllando la produzione degli eritrociti attraverso l’eritropoietina e il volume
plasmatico attraverso l’escrezione di sale e acqua, è in grado di regolare l’ematocrito.
La corticale del rene ha un elevato metabolismo aerobico, quindi è molto sensibile all’apporto di ossigeno con il
sangue che arriva al rene; una condizione di ipossia fa sì che le cellule del rene immettano nel sangue
l’eritropoietina (EPO), prodotta dai fibroblasti peritubulari della corticale del rene. L’eritropoietina arriva la midollo
osseo e lo stimola ad aumentare la produzione di globuli rossi; più eritrociti in circolo vuol dire maggiore possibilità
di trasportare ossigeno.

Il paratormone stimola il rene a produrre un’idrossilasi (enzima), che attiva la vitamina D prodotta dalla pelle e la
trasforma nel suo metabolita attivo, ovvero il calcitriolo, il quale stimola il riassorbimento di calcio a livello del
tubulo contorto distale. Riassorbire calcio vuol dire innalzare la calcemia, ovvero il tasso di ioni calcio nel sangue.

La terminologia clinica associata alla composizione anomala dell’urina è la seguente:


• glicosuria, ovvero la presenza di zuccheri nelle urine
• ematuria, ovvero la presenza di sangue nelle urine; questo indica che nel tratto urogenitale ci può essere
una fonte di emorragia, che più essere a carico dei reni o dei condotti che trasportano l’urina o della
prostata o della vescica
• disuria, ovvero la difficoltà nella minzione (=urinare); questa può essere dovuta a infezione da parte di
microrganismi che colpiscono l’apparato urinario. Una patologia caratterizzata da disuria è la cistite, che
colpisce soprattutto le donne, perché hanno un’uretra più corta rispetto agli uomini, il che espone a un
maggior rischio di infezioni
• poliuria, ovvero con una consistente emissione di urina; alcune tra le malattie legate alla poliuria sono il
diabete o l’ipertrofia prostatica
• oliguria, cioè una scarsa quantità di urina eliminata; può essere data da insufficienza renale
• anuria, cioè assenza di urina o comunque quantità veramente minima; può essere data da insufficienza
renale

i calcoli renali sono minerali cristallizzati, per lo più calcio e acido urico, che formano dei sassolini, che si trovano
nei calici renali e nella pelvi renale. La formazione dei calcoli renali prende il nome di nefrolitiasi. Di norma l’urina
contiene sostanze che impediscono la formazione di questi
agglomerati cristallizzati, ma a volte può capitare che si aggreghino
ugualmente e questo può avvenire se si supera il grado di solubilità
di certe sostanze nell’urina. Può capitare che i calcoli si blocchino e
succede soprattutto a livello dell’uretere, causando un’ostruzione
urinaria che causa forte dolore e che riduce la filtrazione a livello
renale. Di solito i calcoli si vedono ai raggi X. Quando sono piccoli
possono scendere lungo gli ureteri e lungo l’uretra, venendo
eliminati con l’urina; quando sono più grandi possono andare ad
ostruire la pelvi renale, causando la colica renale, che è
caratterizzata da dolori molto forti lungo il decorso degli ureteri.
Questo dolore è causato dal fatto che l’uretere si contrae molto
per cercare di eliminare il calcolo; se anche questi movimenti
peristaltici non sono in grado di eliminare i calcoli, questi vanno
rimossi chirurgicamente. I crampi si estendono lungo la regione
lombare e inguinale. L’uretere, nel tentativo di spingere fuori il
calcolo, può infiammarsi, creando anche un problema di ematuria.

A livello del seno renale l’urina va a gocciolare dai forellini presenti


all’apice delle papille renali, per immettersi nei calici minori, ovvero
delle coppette che abbracciano le papille renali. Dai calici minori
l’urina si sposta verso i calici maggiori, per arrivare alla pelvi o
bacinetto renale, ovvero una formazione cava, di forma conica e
ricurva verso il basso, che occupa gran parte del seno renale. La
pelvi renale fuoriesce dall’ilo e si continua con un lungo canale,
ovvero l’uretere. I calici e la pelvi rappresentano quindi la prima
parte delle vie urinarie. Sono organi cavi e la loro mucosa presenta
un epitelio di transizione, in grado di adattarsi a grandi variazioni di
volume e di proteggere questi organi dall’azione aggressiva
dell’urina. i calici minori sono circa una decina, sono condottini
piuttosto piccoli con un’estremità più slargata che si fissa all’apice della papilla renale e con l’altra estremità che
continua con i calici maggiori. I calici maggiori di solito sono tre, uno superiore, uno medio e uno inferiore, e si
aprono separatamente nella pelvi. A volte i calici maggiori possono anche mancare e in questo caso i calici minori
sboccano direttamente nella pelvi renale; in questo caso si parla di pelvi ampollare. Se i calici maggiori sono molto
lunghi si parla di pelvi ramificata o dendritica.

L’uretere ha una lunghezza di circa 30 cm che giunge fino alla vescica, che funge da
serbatoio di accumulo dell’urina. Gli ureteri si inseriscono nella vescica e l’ultimo
tratto delle vie urinarie è costituito dall’uretra.
Queste formazioni deputate al trasporto dell’urina hanno la tonaca mucosa rivestita dell’epitelio di transizione, che
consente notevoli modificazioni di volume della parete, oltre a proteggere l’organi dall’azione aggressiva dell’urina.
Quest’epitelio è quindi impermeabile all’urina ed è composto da più strati di cellule, dove le cellule che lo
costituiscono possono presentare diverso spessore per adattarsi al grado di distensione dell’organo. La tonaca
mucosa forma delle pieghe, che scompaiono al passaggio dell’urina.

La tonaca muscolare è piuttosto spessa ed è composta da due strati di muscolatura liscia e nella vescica si
arricchisce di uno strato in più. Nella vescica le fibrocellule muscolari si dispongono a formare uno strato circolare
interno, uno longitudinale esterno e in più c’è uno strato intermedio di fibre oblique. Nella vescica questi tre strati
vengono denominati come muscolo detrusore della vescica.

L’uretere convoglia l’urina verso la vescica e questo lo fa


attraverso contrazioni peristaltiche. Dalla pelvi renale scende
nell’addome aderente alla parete posteriore e nel far questo
sono ricoperti dal peritoneo parietale; quindi gli ureteri si
possono definire organi retroperitoneali. Siccome l’uretere ha
un tragitto piuttosto lungo, di circa 30cm, lo si può
suddividere in tre parti: una addominale, una pelvica e una
che si inserisce nella vescica. Durante questo tragitto presenta
tre restringimenti a tre livelli: nel punto dove ha origine, nel
punto in cui scavalca i vasi pelvici e nel punto in cui si incunea
nella parete della vescica; in questi tre punti è più facile che i
calcoli renali possano fermarsi, andando a occludere il lume,
provocando la contrazione spastica molto dolorosa della colica renale. Nel punto in cui gli ureteri sfociano nella
vescica, lo strato muscolare forma una sorta di valvola muscolare che serve a prevenire il reflusso dell’urina dalla
vescica verso gli ureteri. Tra la parte addominale e quella pelvica l’uretere viene incrociato dalla vena e
dall’arteria genitale.

La vescica è un organo prevalentemente muscolare, cavo e impari, posto in posizione mediana; può contenere fino
a 600/700 mL di urina, un po’ di più nel sesso femminile. Lo stimolo della minzione si ha già con un riempimento
vescicale intorno ai 200 mL e nelle donne in gravidanza, proprio per la pressione esercitata dall’utero che si trova
posteriormente alla vescica, lo stimolo sia ha con un riempimento ancora più scarso. La vescica è una specie di
sacco muscolare, con una parete piuttosto spessa; si trova nel piccolo bacino, ma quando è piena viene a sporgere
anche nella grande pelvi. La parte superiore della vescica è coperta dal peritoneo addominale parietale, per cui la
vescica è un organo sottoperitoneale. La presenza del peritoneo consente alla vescica di spostarsi verso l’alto,
consentendole di sporgere dietro la sinfisi pubica. La forma della vescica si modifica molto a seconda del grado di
riempimento: se vuota ha la forma di una specie di coppa con la parte superiore che si affloscia, mentre se è piena
è totalmente distesa. La vescica presenta all’interno molte pieghe, tranne che alla base, dove c’è una specie di
triangolo, dove si trova il trigono vescicale; i vertici superiori di questi triangolo corrispondono superiormente allo
sbocco dei due ureteri, mentre il
vertice inferiore corrisponde
all’orifizio interno dell’uretra. La
parete della vescica è
tappezzata dall’epitelio di
transizione, ma gran parte della
parete è muscolare. Nel punto
in cui gli ureteri entrano nella
vescica, si formano dei lembi
valvolari muscolari che servono
a impedire il reflusso dell’urina
in direzione degli ureteri.
A livello dell’orifizio uretrale interno si ha una muscolatura a decorso circolare, dove si forma quindi uno sfintere
che prende il nome di sfintere interno dell’uretra; questo essendo formato da muscolatura liscia involontaria è
sotto il controllo del sistema nervoso simpatico e quindi è involontario. La sua apertura si ha in rapporto al grado di
riempimento dell’organo. L’uretra, a livello del diaframma urogenitale, possiede un altro sfintere, detto esterno,
che è formato da muscolatura striata, quindi con un controllo volontario; questo controllo viene raggiunto intorno
a 2/3 anni di vita ed è il motivo per cui i bambini piccoli non riescono a trattenere l’urina, semplicemente perché il
suo sistema nervoso non è ancora abbastanza maturo per controllare lo sfintere esterno dell’uretra.

La vescica ha un rapporto diverso nei due sessi, per cui nelle


femmine poggia sul pavimento pelvico ed è separata
posteriormente dall’intestino retto, attraverso l’interposizione
del collo dell’utero e della vagina, formando il cavo
vescicouterino.

Nel maschio la vescica poggia sulla prostata ed è separata dall’intestino retto soltanto attraverso le vescichette
seminali e le ampolle dei dotti deferenti, formando il cavo vescico-rettale.

Quando l’urina si raccoglie nella vescica in notevole quantità, la parete dell’organo si distende, determinando il
riflesso della minzione; questo riflesso è causato dal fatto che vengono stimolati dei particolari recettori di tensione
posti nella parete vescicale, che provocano la contrazione della muscolatura e il rilasciamento degli sfinteri
vescicali.

L’epitelio della vescica è anche detto


uretelio o urotelio (in immagine: a vescica
vuota, b vescica piena). Lo strato più
superficiale è formato da cellule a
ombrello, quelle intermedie sono clavate e
quelle più in basso sono basali.
L’uretra è un canale membranoso che dalla vescica si porta verso l’esterno e presenta due sfinteri, uno volontario
e uno involontario. Nella femmina l’uretra attraversa il pavimento pelvico con un andamento obliquo e si viene a
trovare in posizione anteriore e parallelamente al canale vaginale, per poi aprirsi all’esterno. Nel maschio l’uretra
è molto più lunga, perché dopo aver attraversato la prostata, tratto che prende il nome di uretra prostatica,
attraversa anche in questo caso il pavimento pelvico, per poi entrare nel corpo cavernoso del pene
attraversandolo completamente, aprendosi poi all’esterno.
Quindi nella donna l’uretra è destinata esclusivamente a trasportare urina all’esterno durante la minzione,
nell’uomo si comporta sia come organo dell’apparato uropoietico che di quello riproduttivo, perché a livello della
prostata riceve gli spermatozoi, il secreto delle vescicole seminali e il secreto delle ghiandole prostatiche.
Quindi nell’uomo funge anche da canale che porta all’esterno il liquido spermatico.
A livello del diaframma pelvico, per entrambi i sessi è presente lo sfintere esterno dell’uretra.

Apparato genitale femminile


L’apparato genitale è formato dalle ovaie (gonadi femminili), dalle
tube uterine (tube di Falloppio), dall’utero, dalla vagina e dai genitali
esterni (vulva).
Le ovaie producono ovociti secondari e gli ormoni progesterone ed
estrogeni (ormoni sessuali femminili), oltre che inibina e relaxina. Le
tube uterine trasportano un ovocita secondario verso l’utero e sono la
normale sede della fecondazione.
L’utero è la sede di impianto di un uovo fecondato, dello sviluppo
del feto durante la gravidanza e del travaglio del parto. La vagina
riceve il pene durante il rapporto sessuale e viene percorsa dal feto
durante il parto.
Le ghiandole mammarie sintetizzano, secernono ed espellono il latte
per nutrire il neonato.

Ovaie
Le ovaie sono situate lateralmente all’utero e
mantenute in posizione dal legamento largo
dell’utero, dal legamento ovarico e dal legamento
sospensore.

In ogni ovaio si distinguono epitelio germinativo,


tonaca albuginea, corticale dell’ovaio e midollare
dell’ovaio. L’epitelio germinativo è uno strato
semplice di cellule epiteliali cubiche che rivestono la
superficie dell’ovaio. La tonaca albuginea è la capsula
di tessuto connettivo denso sotto l’epitelio
germinativo. La corticale dell’ovaio sta sotto la tonaca
albuginea ed formata da follicoli ovarici circondati da
tessuto connettivo denso e cellule stromali. La midollare dell’ovaio sta sotto la corticale, formata da tessuto
connettivo lasso e contiene vasi e nervi.

I follicoli ovarici sono situati nella corticale dell’ovaio e sono strutture formate da ovociti in varie fasi di
maturazione, circondati da cellule follicolari, che nutrono l’ovocita e secernono estrogeni.
L’ovogenesi è il processo di formazione degli
ovociti nelle ovaie e comincia prima della nascita.
Nel periodo fetale le cellule germinative
contenute nelle ovaie si differenziano in ovogoni
(cellule staminali diploidi, 2n); questi si dividono
per mitosi producendo milioni di cellule
germinative. Gli ovogoni si trasformano in ovociti
primari, che iniziano la meiosi I ma non la
completano fino dopo la pubertà; in questa fase
l’ovocita primario è circondato da un solo strato
di cellule follicolari, questa struttura prende il
nome di follicolo primordiale. Alla nascita in ogni ovaio sono presenti da 200.000 a 2.000.000 di follicoli
primordiali contenenti ovociti primari; di questi circa 40.000 saranno ancora presenti alla pubertà e circa 400
matureranno e verranno espulsi con l’ovulazione.

Ogni mese a partire dalla pubertà fino alla


menopausa, le gonadotropine ipofisarie (FSH e LH)
stimolano lo sviluppo di diversi follicoli primordiali in
follicoli primari e di tutti questi ogni mese solo uno
raggiungerà la maturazione completa che porterà
all’ovulazione. Il follicolo primario è formato da un
ovocita primario circondato da diversi strati cellulari
formati da cellule della granulosa. Le cellule che
circondano esternamente la membrana basale del
follicolo primario si organizzano e formano uno
strato chiamato teca del follicolo. Il follicolo primario
procede la maturazione e diventa follicolo
secondario. La teca del follicolo si differenzia in due
strati, ovvero nella teca interna, con cellule che
secernono ormoni androgeni, e in teca esterna, con
cellule stromali e fibre collagene. Le cellule della
granulosa secernono liquido follicolare che si
accumula in una cavità chiamata antro. Parte delle
cellule della granulosa circondano l’ovocita
formando la corona radiata. Il follicolo secondario cresce e diventa follicolo maturo di Graaf. Nel follicolo maturo
poco prima dell’ovulazione, l’ovocita primario (diploide) completa la meiosi I e produce 2 cellule aploidi (23c).
Queste due cellule sono il primo globulo polare, che è materiale nucleare di scarto e l’ovocita secondario, che una
volta formato inizia subito la meiosi II bloccandosi in metafase.
A questo punto la parete del follicolo maturo si rompe e con l’ovulazione rilascia l’ovocita secondario. Durante
l’ovulazione l’ovocita secondario viene espulso nella cavità pelvica ed entra nella tuba uterina. Se non c’è
fecondazione le cellule degenerano, mentre se c’è fecondazione ed uno spermatozoo riesce a penetrare
nell’ovocita secondario, c’è il completamento della
meiosi II con formazione della cellula uovo matura e
del secondo globulo polare. I nuclei dello spermatozoo
e della cellula uovo matura si uniscono e formano uno
zigote diploide.
Corpo luteo
Il corpo luteo è una ghiandola endocrina che si
sviluppa in seguito all’ovulazione, per
proliferazione delle cellule della granulosa che
formavano precedentemente il follicolo da cui è
stato espulso l’ovulo. La sua funzione principale
è quella di produrre progesterone e, in quantità
minori, estrogeni; produce anche inibina e
relaxina. Il mantenimento del corpo luteo è
sostenuto dall’ormone luteinizzante LH, dalla
prolattina e dall’estradiolo. Se non avviene la
fecondazione dell’uovo e l’impianto del
blastomero nell’utero, il corpo luteo vive per 14 giorni per poi degenerare rapidamente.

Tube uterine
Fanno parte delle vie genitali
femminili, ovvero un sistema di
canali percorso in salita dagli
spermatozoi e in discesa dall'ovocita
dopo l'ovulazione. Ne fanno parte
anche utero e vagina. Le tube
uterine, o salpingi o tube di
Falloppio, sono laterali all’utero e
hanno una lunghezza di circa 10 cm.
Sono percorse dagli spermatozoi e
trasportano gli ovociti secondari o la
cellula uovo fecondata dall’ovaio
all’utero. La parete delle tube è
formata da 3 stati: la tonaca mucosa è formata da epitelio composto da cellule cilindriche ciliate e da cellule a clava
con microvilli, che secernono fluido che dà nutrimento alla cellula uovo; la tonaca muscolare ha uno strato interno
di muscolatura liscia circolare e uno esterno di muscolatura liscia longitudinale, mentre la tonaca sierosa è strato
più esterno.

Utero
È la sede dell’impianto dell’uovo
fecondato, dello sviluppo del feto
durante la gravidanza e del parto.
Durante il periodo di vita fertile,
quando non c’è fecondazione, l’utero
determina il flusso mestruale. È
suddiviso in fondo, corpo e collo o
cervice uterine. Internamente
presenta la cavità uterina e il canale
cervicale. La parete dell’utero è
formata da tre tonache, ovvero
perimetrio, che corrisponde alla
tonaca sierosa, miometrio che è la
tonaca muscolare, e endometrio, ovvero la tonaca mucosa. L’angolo di antiflessione è l’angolo fra lasse del copro
dell’utero e del suo collo; nei soggetti normali è aperto anteriormente.
Il perimetrio è la tonaca sierosa esterna ed è parte del peritoneo viscerale.
Il miometrio è la tonaca muscolare intermedia, costituita da diversi strati di cellule muscolari lisce la cui
disposizione permette a quest'organo di aumentare notevolmente dimensioni e volume. Durante il parto diventa
sensibile all’ossitocina, che favorisce la contrazione della muscolatura del fondo e del corpo. L’endometrio è la
tonaca mucosa interna dell'utero, molto vascolarizzata e ricca di ghiandole. Comprende tre componenti:
• Strato interno: epitelio cilindrico semplice
• Stroma endometriale: tessuto connettivo lasso
• Ghiandole endometriali: si sviluppano come invaginazioni dell’epitelio di rivestimento e si estendono fino
quasi al miometrio.

Inoltre l’endometrio è formato da due strati, uno funzionale che si stacca durante la mestruazione e uno basale,
che genera un nuovo strato funzionale dopo ogni mestruazione.

Le ovaie e l’utero sono caratterizzati da modificazioni cicliche che si ripetono ogni mese, regolate da ormoni secreti
dall’ipotalamo e dall’ipofisi. Il ciclo ovarico si svolge nelle ovaie e comprende una serie di eventi che avvengono
durante e dopo la maturazione di un ovocita.
Il ciclo uterino o mestruale è un insieme di
modificazioni dell’endometrio dell’utero per
renderlo idoneo ad accogliere un uovo
fecondato. Se non c’è fecondazione, la
secrezione di ormoni ovarici (progesterone)
si riduce determinando il distacco dello
strato funzionale dell’endometrio.

Si dice menarca il primo flusso mestruale che


si verifica alla pubertà. La menopausa è il
periodo in cui cessano i cicli ovarico e
mestruale.

Si definisce dismenorrea il disturbo legato ad


una mestruazione dolorosa, amenorrea
l’assenza della normale mestruazione e
sindrome premestruale la serie di sintomi
tipici della fase premestruale.

Vagina
È il canale fibromuscolare, lungo 10 cm, in cui avviene il passaggio del flusso mestruale e del feto durante il parto.
Si apre all’esterno tramite l’orifizio vaginale.
Apparato genitale maschile
Può essere diviso in quattro principali componenti funzionali:
❖ le gonadi (testicoli o didimi) sono organi pari posti nella borsa scrotale,
responsabili della produzione dei gameti maschili, gli spermatozoi, e
della secrezione degli ormoni maschili
❖ le vie spermatiche (tubuli retti e rete testis, epididimi, canali deferenti,
condotti eiaculatori, uretra comune) raccolgono, immagazzinano e
veicolano gli spermatozoi da ogni testicolo.
❖ I dotti eiaculatori convergono verso l’uretra, da cui gli spermatozoi
vengono espulsi
❖ le ghiandole annesse (vescichette seminali, prostata) secernono un
liquido, nutritivo e lubrificante, ovvero il liquido seminale, mediante il
quale gli spermatozoi sono convogliati verso l’apparato genitale
femminile. Liquido seminale e spermatozoi formano il liquido
spermatico
❖ i genitali esterni (pene, borsa scrotale)

Testicolo
Durante lo sviluppo, i testicoli si formano nella cavità addominale,
accanto ai reni. Successivamente, si spostano verso il basso
trascinandosi dotti, vasi e nervi, che formeranno il funicolo spermatico
e, poco prima della nascita o subito dopo, vanno a collocarsi nei sacchi
scrotali. Il testicolo è un organo parenchimatoso di forma ovoidale e
con superficie liscia. Presenta un polo superiore appiattito, un margine
mediale e un margine laterale. È strettamente associato ad una
struttura che lo sovrasta, l’epididimo. Ciascun testicolo è avvolto dalla
tonaca di connettivo fibroso denso che penetra in esso formando setti
fibrosi che lo suddividono in lobuli di forma piramidale, i lobuli
testicolari. I lobuli testicolari convergono verso la parte posteriore del
testicolo in una zona chiamata rete testis, occupata da vasi e dai dotti
che sono l’inizio delle vie spermatiche.
In ogni lobulo sono presenti da uno a quattro tubuli seminiferi molto convoluti, in cui sono prodotti gli
spermatozoi. I tubuli seminiferi contengono due tipi di cellule, ovvero le cellule del Sertoli e le cellule della serie
spermatogenica (che producono spermatozoi).
La rete Testis è la rete di tubuli originata dalla convergenza dei tubuli seminiferi, mentre i dotti efferenti sono circa
15-20 piccoli dotti che convogliano gli spermatozoi dalla rete testis all’epididimo.

Fra i tubuli seminiferi è presente il tessuto interstiziale, in cui sono localizzate le cellule di Leydig, responsabili della
produzione di ormoni sessuali maschili, principalmente testosterone; questo stimola la spermatogenesi e provvede
alla maturazione degli spermatozoi, controlla l’attività delle vie spermatiche e delle ghiandole annesse, determina i
caratteri sessuali secondari, ha un effetto anabolizzante sul metabolismo proteico e determina il comportamento
sessuale influendo sul SNC.
La spermatogenesi avviene nei tubuli seminiferi. Le cellule germinali
primitive del maschio, gli spermatogoni, sono presenti solo in piccolo
numero nelle gonadi maschili prima della maturità sessuale, mentre dopo
la maturità sessuale si moltiplicano continuamente per mitosi e
forniscono una riserva di cellule che, andando incontro a meiosi, formano
i gameti maschili. Il successivo sviluppo del gamete maschile in uno
spermatozoo mobile è definito spermiogenesi. Spermatogenesi e
spermiogenesi sono sincronizzati e avvengono sequenzialmente lungo il
tubulo. La maturazione finale degli spermatozoi avviene nell’epididimo.

Epididimo

È un tubulo contorto lungo 4-6 cm, si estende dalla parte posteriore del testicolo al
polo inferiore, dove si continua nel dotto deferente. Accoglie, accumula e fa
maturare gli spermatozoi che acquisiscono la mobilità. Presenta una testa, un corpo
e una coda, che si continua nel dotto deferente. L’epididimo è la sede della
capacitazione degli spermatozoi ovvero il processo (circa 14 giorni) con cui gli
spermatozoi acquisiscono la motilità e la capacità di fecondare un ovocita.

Dotto deferente
Conduce gli spermatozoi dall’epididimo all’uretra. È un tubo muscolare dalla parete spessa, formato da uno strato
interno e uno esterno di muscolatura longitudinale e da uno spesso strato intermedio di muscolatura circolare.
Durante l’eiaculazione si contrae fortemente, producendo onde peristaltiche che espellono il suo contenuto
nell’uretra.

Quindi gli spermatozoi durante il loro percorso attraversano rete testis, dotti efferenti, epididimo, dotti deferenti,
dotti eiaculatori e uretra. Le vie spermatiche raccolgono, contengono ed elaborano il liquido spermatico; hanno
inoltre un’attività motoria di spinta nell’uretra del liquido spermatico durante l’eiaculazione.

La produzione di spermatozoi a carico dei testicoli viene accompagnata dalla produzione di secreti da parte delle
ghiandole annesse all’apparato genitale maschile, ovvero le vescichette seminali, la ghiandola prostatica o prostata
e le ghiandole bulbouretrali. I loro secreti insieme agli spermatozoi formano lo sperma o liquido seminale.
Vescichette seminali
Sono organi pari, simmetrici, annessi all’ultima
parte del deferente e poggiate sul pavimento
pelvico sopra la prostata e sotto la vescica.
Producono un materiale denso a base di
fruttosio, prostaglandine e fibrinogeno con
funzione nutritiva per gli spermatozoi e si
mescola con essi al momento dell’eiaculazione.
Contribuisce per circa il 60% del volume totale
del liquido seminale.

Prostata
Circonda il collo della vescica e la prima parte dell’uretra. Ha la forma di una castagna appiattita e ha una struttura
ghiandolare, formata da circa 30 ghiandole separate che sboccano separatamente nell’uretra, immerse in un
connettivo ricco di muscolatura liscia. Il suo secreto viene emesso verso la fine della eiaculazione nell’uretra e
favorisce il movimento e l’attività degli spermatozoi; essendo alcalino serve a neutralizzare l’acidità vaginale.

Uretra
Inizia dalla vescica e continua nel pene. Si distingue in tratto prostatico o pelvico (3 cm), tratto membranoso o del
trigono, che passa attraverso il diaframma pelvico, e tratto o uretra cavernosa (18 cm) all’interno del pene.

Nella discesa dei testicoli si costituisce il funicolo o


cordone spermatico, che congiunge i muscoli
addominali con muscoli scrotali e che contiene un
dotto deferente, vasi, nervi. Il funicolo attraversa nella
discesa il canale inguinale, che connette lo scroto con
la cavità addominale.

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