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PATOLOGIA GENERALE

25/02/2020
I concetti fondamentali in patologia sono i seguenti:
- Eziologia: la causa. Ad esempio l’ischemia (condizione di ipossia ossia mancato apporto di ossigeno
ai tessuti) è causa di infarti e ictus.
- Patogenesi: meccanismi con cui si estrinseca una malattia. Nel tessuto colpito dall’agente eziologico
si instaura un’infiammazione o flogosi (che si indica con il suffisso -ite come faringite, nefrite,
polmonite) come ad esempio nell’infarto del miocardio.
- Alterazioni morfologiche (es. necrosi).
- Conseguenze funzionali, come ad esempio alterazioni elettriche del cuore con aritmie o fibrillazioni;
o altro esempio è l’edema (compare sugli arti inferiori quando il cuore non funziona bene).
- Diagnostica.

Il meccanismo patogenetico di molte malattie è l’alterazione delle emostasi come la trombosi (eccessiva
emostasi, strettamente legata all’infiammazione) e l’emorragia (non avviene emostasi). L’emostasi è un
meccanismo con cui si tampona una perdita di sangue attraverso la formazione di un tappo primario
(piastrine) e di un tappo secondario (deposizione di fibrina sulle piastrine); tutto questo grazie alla
coagulazione.

Concetto di salute: stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non meramente l’assenza di
malattia o infermità. La salute è un fondamentale diritto umano e il conseguimento del più alto livello; la
salute inoltre è il più importante obiettivo sociale del mondo intero la cui realizzazione richiede l’azione di
molti altri settori sociali ed economici oltre al settore della salute (OMS, 1978).
Obiettivi per lo sviluppo sostenibile sono l’assicurazione per il benessere di tutti. In Italia, l’articolo 32 della
Costituzione (1948) dichiara la tutela della salute.

Concetto di malattia: si tratta di un’alterazione strutturale e funzionale di una cellula, di un tessuto o di un


organo. Si ripercuote cullo stato generale dell’organismo, modificandone l’equilibrio o l’omeostasi ed
alterandone il suo stato normale. Si tratta quindi di un processo dinamico. Tra le malattie, definiamo la
sindrome come una situazione caratterizzata da sintomi e segni clinici dovuti a diverse malattie
(manifestazioni cliniche di una o più malattie) indipendentemente dall’eziologia che la contraddistingue.
Lo stato di malattia è generato dall’agente patogeno ma anche l’ospite deve essere ricettivo per ammalarsi: il
ruolo dell’ospite nell’andamento della malattia è fondamentale.

Classificazione delle malattie:


- Durata
o Malattie acute. Sono le infiammazioni come ad esempio le trombofibriti (gonfiore agli arti
inferiori, età anziana, associata ad un’alterazione del processo di emostasi ossia a trombosi. I
segni delle infiammazioni acute sono: dolore, arrossamento, gonfiore, aumento della
temperatura.
o Malattie croniche
- Topografica: localizzazione della malattia (addome, torace, sistema nervoso, etc…). Ad esempio la
gotta ha sia una fase acuta che una fase cronica (tofi, tumefazioni piccole).
- Anatomica: tessuto o organo.
- Funzionale: respiratoria, circolatoria, metabolica.
- Patologica: infiammatoria, neoplastica, degenerativa.
- Eziologia: cause infettive, cause virali, cause batteriche
- Epidemiologia: professionali, stagionali, occasionali.

La malattia ha poi una sua evoluzione che può portare a vari scenari:
- Completa guarigione con restitutio ad integrim
- Guarigione con esiti (alterazioni anatomiche o funzionali)
- Cronicizzazione (rimane la malattia che può acutirsi a momenti)
- Morte

Le principali cause di malattia a livello globale sono le malattie cardiache (infarto, ictus), le malattie
respiratorie (malattie polmonari/respiratorie o malattie polmonari croniche), diarrea, malattie infettive
(tubercolosi, HIV), tumori, incidenti.

L’agente eziologico induce un danno e l’organo o la cellula è in grado di adattarsi. Se l’adattamento non
avviene, il danno persiste e può essere reversibile o irreversibile (punto di non ritorno). Il passaggio da danno
reversibile a irreversibile è dato principalmente dalla formazione di radicali liberi e da un aumento del calcio
soprattutto quello liberato a livello intracellulare (equilibri ionici e cellulari). Un danno irreversibile porta
alla morte cellulare che è classicamente la necrosi. Oltre alla necrosi la morte cellulare può avvenire anche
per apoptosi o per autofagia (anche se l’autofagia è discussa principalmente come meccanismo di
sopravvivenza.
Tutti gli agenti di danno, quando entrano in contatto con il tessuto o la cellule possono innescare una risposta
di tipo adattativo. Ad esempio, possono aumentare la propria attività tissutale aumentando il numero di
cellule e in questo modo si generano fenomeni di iperplasia (aumento del numero delle cellule e quindi
aumento dell’organo) o ipertrofia (aumento delle dimensioni delle cellule e quindi aumento dell’organo).
A parità di intensità di danno, un tessuto che non è in grado di andare incontro ad una maggiore produzione
cellulare si adatterà con l’ipertrofia mentre uni tessuto in grado di proliferare andrà incontro a iperplasia.
L’iperplasia compensatoria viene messa in atto dal fegato, che ha la capacità di rigenerarsi; l’iperplasia
endocrina invece la osserviamo nell’aumento delle ghiandole mammarie durante l’allattamento e vediamo
che quando lo stimolo cessa il tessuto smette di proliferare.
In caso di neoplasie l’agente cancerogeno stimola continuamente la proliferazione del tessuto.
Un esempio di ipertrofia è anche l’utero in gravidanza; nel caso dell’ipertrofia prostatica si tratta in realtà di
un’iperplasia in cui aumenta il o numero delle cellule della prostata.
Altro esempio di risposta adattativa che determina ipertrofia/atrofia si ha in casi di ridotto apporto in O2 e
nutrienti.
Un fenomeno adattativo è anche la metaplasia che si verifica in casi di esposizione cronica a stimoli lesivi e
irritativi; essa è un cambiamento della differenziazione di un tessuto e si associa spesso alla risposta
infiammatoria. Ad esempio, la metaplasia squamosa a livello bronchiale è determinata da uno stimolo
irritativo che inducendo metaplasia trasforma l’epitelio da pluriciliato a squamoso. Altro esempio si ha
nell’esofago di Barrett in cui il reflusso causa metaplasia e l’epitelio da squamoso diventa mucosa intestinale
(esso può evolvere anche in adenocarcinoma).

Esempi di adattamenti cellulari: danno persiste e la cellula non riesce ad adattarsi, la cellula subisce il danno
che da reversibile diventa irreversiibile. Meccanismi principali sono radicali liberi dell’ossigeno generati dal
mitocondrio che attaccano le membrane e danneggiano anche il DNA. Il secondo meccanismo è la
liberazione di calcio che aumenta il danno mitocondriale e attiva una serie di enzimi che determinano la
morte cellulare.

27/02/2020
Esistono diversi agenti di danno, possibili cause di malattia, possono essere classificati in diverso modo. Una
cellula/tessuto se sente uno di questi danni mette in moto meccanismo difensivo ossia un adattamento; certe
volte l’adattamento però non c’è e si ha danno. L’adattamento può avere a che fare con le dimensioni
cellulare, la morte apoptotica di alcune cellule del tessuto (ipotrofia, atrofia, ipoplasia). Altro fenomeno di
adattamento è la metaplasia: modificazione della differenziazione cellulare da una tipologia all’altra (spesso
simile ossia rimane mesenchimale o rimane parenchimatica). Ad esempio, il fumo di sigaretta causa un
danno tale che l’epitelio ciliato cilindrico diventa squamoso pluristratificato; altro esempio, se le cellule della
mucosa esofagea subiscono un insulto da parte di HCl esse si adattano diventando XX. Spesso in questo caso
si ha neoplasia ossia carcinoma squamoso rispettivamente nel bronco o nell’esofago.

Altro adattamento è l’accumulo intracellulare di materiale a varia natura chimica. Il più frequente prevede
l’accumulo di trigliceridi ed è detto steatosi. Il metabolismo dei lipidi parte dalla dieta; il cibo che arriva a
livello intestinale (enterociti) viene processato e si formano i
chilomicroni che trasportano i lipidi attraverso il sangue fino
ad arrivare al fegato, sede più frequente per la steatosi (si può
avere anche nel cuore ma è meno probabile). Il fegato, oltre ai
chilomicroni riceve anche ormoni contra-insulinici
(adrenalina, noradrenalina, cortisolo, glucagone, ormone della
crescita, etc...) che stimolano lipolisi (contrariamente
all’insulina che stimola lipogenesi) ossia la rottura del legame
tra glicerolo e acidi grassi dei trigliceridi. Gli acidi grassi
liberi o FFA (Free Fatty Acid) sono trasportati grazie
all’albumina fino al fegato. Il fegato quindi riceve
chilomicroni e FFA. Gli FFA che arrivano al fegato sono
metabolizzati tramite β-ossidazione con la generazione di
acetil-CoA che, in presenza di ossalacetato, entra nel ciclo di
Krebs. In assenza di ossalacetato due molecole di acetil-CoA
si condensano e formano aceto-acetil-CoA e parte la via dei corpi chetonici.
Per effettuare la β-ossidazione è necessaria la presenza di O2 e di specifici enzimi. Alcuni trigliceridi che il
fegato riceve non sono ossidati e vengono montati nelle VLDL (proteine, colesterolo, fosfolipidi) che poi
diventano IDL e LDL (perdono trigliceridi e aumentano la percentuale di colesterolo). Il colesterolo arriva al
fegato tramite le HDL che hanno il compito di trasportare il colesterolo dai tessuti al fegato.
Motivi per cui il fegato accumula grassi possono essere:
[1] Aumento dei chilomicroni, causato da una dieta squilibrata con troppo apporto lipidico e carenza di
proteine.
[2] Aumento di FFA causato da una mancanza di insulina. Si verifica nelle situazioni di diabete, infatti tra
le varie manifestazioni del diabete, dell’insulino-resistenza e della sindrome metabolica si ha anche la
steatosi.
Il diabete di tipo I è caratterizzato da iperglicemia e mancanza assoluta di insulina. Esso è detto anche
insulino-dipendente perché per sopravvivere i pazienti necessitano di insulina. Oltre il 90% dei casi di
diabete sono detti diabete immuno-mediato poiché il sistema immunitario distrugge le cellule β del
pancreas che producono insulina. La distruzione di tali cellule è mediata dai linfociti Tc (CD8+). Il
diabete immuno-mediato è detto anche diabete giovanile e spesso si manifesta dopo un’infezione virale.
In questo tipo di diabete si ha sicuramente steatosi.
Il diabete di tipo II invece è detto diabete dell’anziano ed è determinato da una mancanza dell’effetto
dell’insulina o dall’alterazione del meccanismo di secrezione delle cellule β del pancreas e pertanto è
detto insulino-resistente.
[3] Manca O2 al fegato per fare la β-ossidazione. Si tratta di una situazione di ipossia.
L’ipossia può essere di vario tipo: ipossica, anemica, da stasi, istotossica, stagnante.
Nel sangue arterioso la pressione parziale di ossigeno (pO2) è circa 98 mmHg mentre nei tessuti è
minore, in media 20 mmHg; questa differenza fa sì che l’ossigeno sia rilasciato dall’emoglobina. Dal
punto di vista chimico-fisico la curva di dissociazione è spostata a destra. Tuttavia, se nei tessuti la
pressione parziale di ossigeno scende sotto 10 mmHg si ha una situazione ipossica.
Nell’ipossia ipossica si ha una situazione in cui la pressione arteriosa è minore di 98 mmHg che può
succedere se ad esempio il polmone non ventila (l’ossigeno non passa nei globuli rossi) o ad alta quota.
Nell’ipossia anemica i globuli rossi che portano l’ossigeno non funzionano e quindi si ha una
situazione di anemia. Questa situazione si ha perché non sono prodotti globuli rossi a sufficienza (il
midollo non riesce) oppure per mancanza di ferro (l’ossigeno quindi non si lega) oppure perché i
globuli rossi prodotti sono distrutti prima del previsto. I globuli rossi hanno una vita media di 120
giorni, essi vengono distrutti dalla milza, organo linfoide II che distrugge anche le piastrine (esse
hanno emivita di 20 giorni).
Nell’ipossia ischemica l’ossigeno non arriva ai tessuti perché non vi arriva nemmeno il sangue: si ha
un’ostruzione che impedisce al sangue di arrivare. In questo caso, l’ostruzione non solo impedisce
l’arrivo dell’ossigeno ma anche dei nutrienti.
L’ipossia stagnante è un’ipossia dovuta al ristagno del circolo sanguigno nel tessuto e tale ristagno a
sua volta è dovuto al fatto che il circolo venoso non funziona bene e questo può avvenire se il cuore non
pompa bene. L’ipossia stagnante infatti si verifica in situazioni di scompenso cardiaco, di fibrosi, di
embolia polmonare. Se il polmone è duro e non areato si ha una situazione di fibrosi e il ventricolo
destro non pompa bene il sangue al polmone pertanto si ha lo scompenso. Magari si può verificare
anche in situazioni di ipertrofia cardiaca in cui il cuore si ingrandisce (e si sfianca) per la legge di
Starling: più il cuore si riempie meglio la pompa funziona e pertanto più il cuore sinistro di riempie,
meglio esso pompa.
Nell’ipossia istotossica si inibiscono i processi che consentono la respirazione cellulare con sostanze
tossiche o veleni (es, cianuro, che in grandi quantità può causare la morte).
In tutte le situazioni di ipossia descritte si ha stenosi. La forma più grave comunque è l’anemia e lo
scompenso cardiaco.
[4] Mancanza di proteine per fare VLDL. Si ha questa situazione in caso di digiuno o malnutrizione
(iponutrizione o carenza proteica della dieta), Molti farmaci (soprattutto antibiotici come rifampicina)
agiscono inibendo la sintesi proteica sia nei microrganismi che nell’uomo.
[5] Danno delle membrane interne (RER o REL). Ci sono diverse sostanze tossiche, come il tetracloruro di
carbonio dei vecchi ferri da stiro, che causano stenosi. Tuttavia, anche in caso di tumore al fegato si
possono generare sostanze radicaliche che causano danni alle membrane e quindi causano stenosi.
La generazione di radicali deriva anche dall’uso e l’abuso di alcol, infatti la steatosi ha spesso cause
alcoliche, tuttavia la steatosi alcolica è diversa da quella non-alcolica.
Di tutte queste cause, la più frequente nelle steatosi non-alcoliche è l’insulino-resistenza.
La steatosi comunque si presenta come un accumulo di trigliceridi nelle cellule epatiche sotto forma di gocce
lipidiche vuote, quindi il preparato sembra a “bolle”.
Sebbene tale patologia sia un adattamento essa può evolvere anche in una NASH (Non-Alcoholic Steato-
Hepatitis). Ad esempio, se una steatosi si sovrammette ad una situazione infiammatoria si origina una
situazione patologica irreversibile, la cirrosi epatica. La cirrosi è una situazione infiammatoria cronica con
fenomeno di riparazione che depone tessuto fibroso causando fibrosi. Dunque, si ha la riparazione per
cicatrizzazione che determina fegato fibroso, detto cirrotico, e pertanto non più funzionante. Si perdono così
moltissime funzioni fondamentali poiché la cirrosi determina insufficienza epatica.
La steatosi in che modo è diversa nella situazione di adattamento e di malattia? La steatoepatite è un
infiammazione con una faccia positiva (difese) e una negativa (generazione del danno e quindi generazione
della malattia).
Ad esempio, uno dei meccanismi con cui si instaura il danno
è la generazione di radicali liberi dell’ossigeno (O2-, H2O2, -
OH) e ingresso (?) di calcio. Ci sono sistemi che eliminano
specie radicaliche ossia meccanismi di detossificazione come
superossido dismutasi (O2- → H2O2 → H2O) per cui sono
importanti glutatione iperossidasi e le catalasi (H2O2 →
H2O). Il radicale -OH è molto reattivo e danneggia le
membrane in quanto i fosfolipidi subiscono perossidazione
lipidica: le membrane così perdono il controllo
dell’omeostasi (ionica) perché si formano buchi nella
membrana. Inoltre -OH altera anche le proteine, in
particolare quelle con molti legami S-S e quindi con molte
Cys (quindi le proteine del citoscheletro). Oltre a ciò, -OH danneggia anche il DNA con un meccanismo
simile a quello di sostanze cancerogene chimiche e fisiche (es. radiazioni ionizzanti).

Il danno da ROS è danno sulle membrane con perdita dell’omeostasi ionica. L’omeostasi ionica a livello
della cellule è mostrata in figura seguente.

Quando l’ATP cala, il primo sistema danneggiato è la pompa Na/K e quindi si sballa l’equilibrio di K e Na
tra interno e esterno. Il calo di ATP è dovuto al blocco del ciclo di Krebs e delle vie cataboliche, quindi con
danno ipossico e ischemico la pompa si blocca.
Il potenziale ai lati della membrana fa sì che essa sia impermeabile al Na (che quindi non entra) e permeabile
al K che esce seguendo il potenziale chimico, attraverso i canali di leak; la fuoriuscita di K (carico
positivamente) determina una carica negativa all’interno della membrana e questo movimento avviene finché
non si raggiunge un valore elettrochimico di 70 mV, che corrisponde al potenziale di equilibrio del potassio,
dopo il quale il potassio smette di uscire dalla cellule poiché è trattenuto dalle cariche negative generate
all’interno della membrana.
Se la pompa Na/K-ATPasi manca o se la membrana è resa permeabile a Na, allora Na entra secondo
gradiente e si ha la depolarizzazione di membrana. Se si hanno grandi cicli regolari si ha lo spike o il
potenziale d’azione cardiaco.
Se si ha perossidazione lipidica, Na entra: la cellula ripolarizza e a circa -20 mV entra il calcio in grandi
quantità poiché esso ha una differenza di concentrazione di circa 104 tra fuori e dentro. Quando Na entra
porta con se anche H2O e Cl-, quindi la cellula gonfia anche tutti i suoi organelli.

Quando si ha un danno cellulare (ad esempio un danno ipossico ischemico) la prima cosa che succede è il
calo di ATP, la seconda cosa è la mancata funzione di Na/K-ATPasi, infine l’ingresso di Na porta anche Cl-
e H2O e quindi la cellula si gonfia.

L’attivazione della glicolisi determina danno perché il piruvato si trasforma in lattato, un acido debole che
diminuisce il pH intracellulare, danneggiando ulteriormente le membrane interne e la cromatina, già
danneggiate dal rigonfiamento.
Se questa situazione non è rapidamente sanata si arriva alla situazione di morte cellulare per necrosi con
ulteriore rigonfiamento, pignosi (condensazione cromatina nucleare e riduzione della dimensione del nucleo)
e cariolisi (dissoluzione cromatina), spesso preceduta da carioressi (disgregazione e frammentazione).
Già la morfologia del tessuto danneggiato può indirizzare sul tipo di morte e quindi sul tipo di danno. Infatti
si differenzia la necrosi (dissoluzione organuli, alterazione nucleo) dalla apoptosi (diminuzione volume
cellulare, regolare condensazione della cromatina, mitocondrio attivo e organuli mantenuti e racchiusi in
vescicole apoptotiche estruse dalla cellula) che determina un corpo cellulare frammentato circondato da corpi
apoptotici (bleps). L’apoptosi è stata scoperta nel timo, esso viene perso nello sviluppo senza causare danni.
Perché? La necrosi evoca una risposta infiammatoria (rubor, dolor, tumor, calor e functio lesa) mentre
l’apoptosi è silenziosa perché non evoca una risposta di tipo infiammatorio.

INFARTO DEL MIOCARDIO


Si tratta di una situazione di morte cellulare per necrosi provocata da un danno ischemico. L’ischemia è un
mancato apporto di sangue al tessuto che causa un mancato apporto di ossigeno e nutrienti; questo determina
un calo di ATP e quindi il blocco della funzione della pompa Na/K-ATPasi che viene compensato dalla
cellula con la glicolisi che porta alla produzione di lattato, acidificando la cellula; a questo punto nella cellula
entra Na seguito da Cl- e H2O che rigonfiano il tessuto; nella cellula entra anche il calcio e la cellula muore
per necrosi. A questa morte su base ischemica con un meccanismo necrotico, diamo il nome di infarto.
La necrosi ischemica acuta (“acuta” poiché è veloce) può verificarsi anche nel cervello (ictus), nell’intestino
e nel rene. Solitamente si ha l’occlusione di un vaso coronarico, situazione alla quale ci riferiamo col nome
di necrosi coagulativa: la forma del tessuto rimane tal quale ma le cellule sono tutte coagulate. Si può avere
anche necrosi colligativa ad esempio nell’infarto a livello cerebrale: si formano buchi che alla lunga sono
visibili.
Nei preparati istologici in caso di necrosi si ha un aumento della colorazione (iperesinofilia), inoltre si notano
alcune macchie arancioni che sono i vasi all’interno del tessuto. Dopo alcune ore dall’infarto, i vasi si
dilatano causando iperemia (aumento di sangue nel tessuto senza rottura del vaso) e si riconoscono
granulociti neutrofili e globuli rossi. Dopo altre ore si vedono i nuclei dei polimorfonucleati neutrofili (il
nucleo si vede con eosina-ematossilina). Dopo altre ore si vedono di nuovo i vasi e il tessuto più chiaro, poi
molte cellule normali o polimorfonucleate (infiltrato di cellule). Dopo altre o tempo si ha un miocardio
normale con una parte centrale chiara (corrisponde alla necrosi) con pochi nuclei e molta matrice
(caratterizza la fibrosi). Nelle ore successive si ha un infiltrato di iperemia e polimorfonucleati neutrofili. Poi
si forma il tessuto di granulazione e ancora dopo si ha una fibrosi ossia una cicatrice.
Queste sono le fasi dell’infiammazione che non cronicizza ma si ripara con tessuto cicatriziale.
L’infiammazione può essere messa in atto per ogni caso: parte con scopo difensivo ma proprio per come essa
è fatta, causa lei stessa un danno ulteriore. Nel nostro caso, il miocardio con tessuto cicatriziale non si
contrae più bene e si possono instaurare molte altre malattie a partire da questa risposta.

03/03/2020
Nella metaplasia viene cambiato l’aspetto differenziativo di un tessuto. I due esempi visti sono la metaplasia
squamosa sull’epitelio del bronco e dell’esofago, entrambe situazioni precancerose.
Altro adattamento è l’accumulo intracellulare di sostanze, abbiamo visto per questo la steatosi. In condizioni
di steatosi dovuta a ipossia l’adattamento è basato su HIF (Hypoxia Inducible Factor). Prima di andare in
contro ad ipossia l’organismo cerca di mettere in moto vari meccanismi che sono molto peculiari. Il danno
iniziale si ha quando la pressione di ossigeno cala al di sotto dei 10 mmHg e le cellule si adattano con vie di
segnalazione intracelllulare mediate da fattori di trascrizione specifici detti HIFs; di questi ne esistono
almeno tre diversi (HIF1, HIF2, HIF3). La proteina più frequentemente espressa nei tessuti è HIF1 (anche se
nel tumore del colon si ha moltissima HIF2): esso è una proteina composta da 2 subunità, una α e una β. La
subunità β è espressa costitutivamente nel nucleo mentre la subunità α è una proteina citoplasmatica sensibile
alla concentrazione di ossigeno. Normalmente la subunità α, in presenza di ossigeno viene idrossilata e
cambia la propria conformazione
in modo da poter essere
riconosciuta da un’altra proteina
citoplasmatica detta vHL (von
Hipper Lindau, codificata da un
gene oncosoppressore, mutazioni
in questo gene determinano
l’aumento della probabilità di
comparsa del tumore soprattutto
il tumore a cellule chiare del
rene poiché tale proteina è
molto espressa nel rene dove si ha il controllo della pressione parziale di ossigeno) e in questo modo subisce
l’ubiquitinazione che ne determina la degradazione da parte del proteasoma. Quindi la subunità α in presenza
di ossigeno non c’è nel citoplasma perché e continuamente degradata; in queste condizioni anche HIF1β sta
inattivo nel nucleo.
In mancanza di ossigeno (ipossia) HIF1 α
non è più degradato e allora può traslocare
nel nucleo dove si combina con HIF1β,
recluta altre proteine per formare un
complesso multiproteico che si lega a
livello di sequenze regolatorie specifiche
sul DNA, dette HREs (Hypoxia
Responsive Elements), attivando la
trascrizione di geni bersaglio. Tra questi
geni ritroviamo i geni che mediano
angiogenesi e eritropoiesi (chiaro segno
dell’adattamento poiché in ipossia attivo
geni per produrre nuovi vasi o stimolano il midollo a produrre più globuli rossi) ossia i geni di VEGF, ang-1
(angiopoietina) e eritropoietina (stimola eritropoiesi). Anche GLUT1 e GLUT3 si up-regolano grazie a
questo meccanismo HIF-dipendente, come anche gli enzimi della glicolisi: questo serve per produrre più
ATP possibile dalla glicolisi (l’ipossia causa mancanza di ATP). Anche l’enzima iNOS (nitrossido sintasi,
“i” sta per “inducibile”) che catalizza la produzione di NO (monossido di azoto) il quale stimola la
vasodilatazione e si comporta da mediatore dell’infiammazione. Tuttavia, questo sistema avvia la via di
segnalazione di PI3K che fosforila Akt e un-regola BCR2, attiva le cicline e tutti questi elementi controllano
la proliferazione cellulare e quindi anche la trasformazione neoplastica. Questo meccanismo è rilevante nel
cancro, dove l’adattamento all’ipossia porta ad un’aumentata proliferazione cellulare (angiogenesi).
L’ipossia è un adattamento ma essa se non si risolve può determinare un danno che, come già detto
determina blocco della pompa Na/K-ATPasi, glicolisi (acidificazione), blocco dei ribosomi. Il danno
inizialmente è reversibile e successivamente può esistere in una vera e propria morte cellulare per necrosi.
Tale tipo di morte ha diversi aspetti, si può avere una necrosi coagulativa o colligativa, ma a prescindere da
questo una delle caratteristiche peculiari della morte per necrosi è il fatto che in queste condizioni viene
evocato un processo infiammatorio (contrariamente all’apoptosi).

Gli elementi istologici successivi all’infarto erano: necrosi coagulativa (non si riconosce il tessuto muscolare,
tutto è omogeneo); macchie arancioni che sono i vasi dilatati e quindi alterazione dei vasi con tante cellule
polimorfonucleati neutrofili. I due elementi istologici peculiari della risposta infiammatoria (infiammazione)
sono l’alterazione dei vasi e l’infiltrto cellulare rappresentato inizialmente dai polimorfonucleati neutrofili.
La prima volta che si parla di infiammazione risale a molti secoli a.C. E la descrizione del fenomeno
infiammatorio l’ha fatta per primo lo scrittore latino Aulo Cornelio Terzo che ha decritto le 4 caratteristiche
cardinali dell’infiammazione: tumor (tumefazione), rubor (arrossamento), calor (calore), dolor (dolore).
L’infiammazione è sicuramente uno dei meccanismi patogenetici che sottendono a gran parte delle malattie.
Inizialmente non si pensava fosse così, tuttavia venne fuori su Science un articolo che dimostrava che
nell’arteriosclerosi vi era una proliferazione delle cellule muscolari lisce della tonaca media dei vasi e
l’ipotesi fu quindi che era una malattia neoplastica. Oggi sappiamo che non è così, tuttavia grazie a quello
studio fu messo al centro uno dei punti fondamentali dell’arteriosclerosi ossia la proliferazione delle cellule
muscolari lisce: fu la prima volta che si vide che caratteristica peculiare della lesione arteriosclerotica era la
presenza nella tonaca intima di cellule muscolari, che però fisiologicamente non stanno lì bensì nella tonaca
media. Oggi sappiamo che le cellule muscolari lisce proliferano e si infiltrano nella tonaca intima come
conseguenza del processo infiammatorio. L’arteriosclerosi quindi è una malattia infiammatoria con aspetti
diversi.
L’infiammazione può essere anche purulenta ossia può avere la presenza di pus (es. tonsillite purulenta,
appendicite purulenta). Il pus è un accumulo di cellule neutrofili. La flogosi stressa può portare in questi casi
a necrosi.
In figura, si vede un paziente affetto da gotta,
caratterizzata dai segni tipici (tumefazione,
arrossamento, dolore, calore) con deformazione delle
mani. Si vede anche un’artrite reumatoide, flogosi
cronica caratterizzata da deformazione delle mani e si
vede il segno della fibrosi (uno degli aspetti delle flogosi
che cronicizzano).

Circa 10-15 anni fa comparvero dei lavori in cui si


dimostrava che anche gli eventi del parto (parto
fisiologico) era un processo infiammatorio. Infatti, nei
tessuti, fondamentalmente l’endometrio, durante i
fenomeni plastici del parto si osservavano alcune delle caratteristiche dell’infiammazione e cioè l’alterazione
dei vasi, la presenza di polimorfonucleati neutrofili e infine un’analisi al microarray evidenziò un’up-
regolazione genica di numerose citochine, soprattutto dei geni delle citochine infiammatorie. Le citochine
sono delle proteine a basso peso molecolare che regolano le risposte immunitarie, la risposta infiammatoria;
secondo la nuova classificazione anche alcuni fattori di crescita (es. eritropoietina) rientrano tra le citochine.
Una caratteristica delle citochine è la rapidità di produzione tramite un fenomeno di un-regolazione genica,
esse inoltre hanno una emivita molto breve. Esse possono essere anche molto pericolose, infatti le citochine
infiammatorie sono i mediatori principali della sepsi (situazione molto pericolosa e spesso mortale) perché
provoca lo shock settico. Le due principali citochine infiammatorie sono IL-1 (interleuchina 1) e TNF-α
(Tumor Necrosis Factor α).
Tuttavia, il parto non è un fenomeno patologico, quindi anche che l’infiammazione non è solo un
meccanismo patogenetico di malattia. Il chirurgo John Hunter, nel 1794, studiando le ferite delle armi da
fuoco osservò che l’infiammazione non deve essere considerata di per sé come una malattia ma come un
salutare processo che consegue a qualche violenza (ferita) o malattia. Quindi l’infiammazione, sebbene sia in
grado di causare malattia, parte come un processo difensivo.
Rudolf Virchow fu il primo a definire che nel pus dell’infiammazione ritroviamo delle cellule, quelle che lui
chiamò corpuscoli del pus, e cioè polimorfonucleati neutrofili. Il fatto che i neutrofili prendono parte
all’evento difensivo lo dimostrò Metchnikoff, ricercatore russo esiliato: egli scoprì’ che la funzione dei
corpuscoli del pus era quella di fagocitare gli elementi estranei, dunque egli scoprì la fagocitosi. Dunque, il
nostro sistema immunitario mette in atto sistemi di difesa che noi differenziamo in fenomeni dell’immunità
innata e fenomeni dell’immunità adattativa o specifica. In realtà i due fenomeno PI sono connessi tra loro e
l’immunità innata a sua volta prevede tra le sue funzioni, il processo infiammatorio.

L’immunità innata è rappresentata da tutte le barriere (cute, peli, muco, cilia) alcune barriere epiteliali sono
molto estese, basti pensare che la superficie
dell’albero alveolare dei bronchi è grande
come un campo di calcio. Oltre alle barriere
abbiamo anche i fagociti ossia i
polimorfonucleati neutrofili (cellule del
sangue che appaiono sullo striscio di sangue)
caratterizzate da nucleo plurilobato e da
numerose granulosità citoplasmatiche (infatti
essi sono detti anche granulociti neutrofili).
L’aggettivo neutrofilo deriva dal fatto che le
granulosità del citoplasma prendono un
colore neutro a contatto con i vari coloranti
acidi/basici. Dunque, i polimorfonucleati
neutrofili che Virchow ritrovò nel pus, sono fagociti ossia cellule in grado di operare la fagocitosi. L’altra
cellula a capacità fagocitica è il macrofago, che ha alta capacità fagocita. Il macrofago è una cellula che si
ritrova fissa nei tessuti, ad esempio i macrofagi alveolari o i macrofagi del fegato (detti cellule del Kuppfer)
o la microglia. Esso deriva dal midollo osseo (emopoiesi cellulare) e pertanto lo ritroviamo anche circolante
nel sangue ma sotto forma di monocito, con nucleo reniforme con la cromatina più lassa (rispetto al
neutrofilo e anche rispetto ai linfociti) e con citoplasma non granuloso che si colora di azzurro (“velo di
Madonna”). Le cellule monocitiche sono dotate di attività fagocitaria. La fagocitosi è molto complessa ed è
basato sulla presenza di un complesso enzimatico macromolecolare (formato da più proteine insieme) detto
NADPH ossidasi, presente solo su queste cellule. Il complesso è posizionato sulla membrana e ossida il
NADPH, in questo modo trasporta un elettrone sull’ossigeno molecolare generando ROS ossia anione
superossido, acqua ossigenata e radicale ossidrile. Come abbiamo visto, la generazione di ROS è uno dei
meccanismi di generazione di danno tissutale. Dunque, quando l’attività dei fagociti è alta anche la
produzione di ROS è alta e per quello si ha danno tissutale e quindi si ha un “circolo vizioso”: la flogosi si
innesca per riparare un danno ma poi determina essa stessa un danno.
Fra le cellule dell’immunità innata si hanno anche le le cellule dendritiche (DC), esse hanno alcune
caratteristiche simili a quelle dei macrofagi (derivano dallo stesso precursore del midollo osseo) ma il loro
citoplasma è allungato con protuberanze simili ai dendriti delle cellule nervose.
Altre cellule dell’immunità innata sono le cellule NK ossia cellule che derivano dal midollo osseo, dallo
stesso precursore dei linfociti. Tuttavia, a differenza dei linfociti, tali cellule non hanno recettori clonali. La
differenza è che mentre i linfociti riconoscono un agente estraneo attraverso un recettore specifico clonale, le
cellule dendritiche non hanno un recettore clonale (ossia recettore specifico per un certo antigene).
L’immunità innata prevede anche molecole solubili, tra cui uno dei più rilevanti è il sistema del
complemento.
L’immunità innata rappresenta la prima difesa dell’organismo e nell’arco di poche ore entra in funzione.
Affinché questo sistema entri in funzione deve innescarsi un fenomeno infiammatorio, che è innescato dagli
stessi elementi dell’immunità innata ed ha il compito di portare queste cellule/macromolecole fuori dal
sangue, nel tessuto. Dunque il fine ultimo dell’infiammazione è innescare un fenomeno che dilata i vasi, fa
uscire dai vasi il loro contenuto (vasopermeabilizzazione) e così in 6-12 ore le cellule e le macromolecole
dell’immunità innata arrivano dove c’è bisogno.

L’altra faccia dell’immunità è l’immunità adattativa ed è basata su cellule che sono caratterizzate da recettori
clonali per l’antigene. Secondo il tipo di recettore e secondo il meccanismo effettore che queste cellule
mettono in atto per eliminare l’agente esterno, distinguiamo linfociti T e linfociti B, entrambi riconoscono
con un recettore specifico. I linfociti B hanno un recettore grande detto BCR (B Cell Receptor) che è
un’immunoglobulina ossia un anticorpo (gli anticorpi rappresentano anche il meccanismo effettore con cui i
linfociti B eliminano l’agente esterno); i linfociti B stanno al 15-20% nel sangue e per la maggior parte
stanno negli organi linfociti secondari (linfonodi, tonsille, milza) e tutto il sistema linfoide si dice “associato
alle mucose”, tuttavia gli anticorpi (prodotti dai linfociti B) sono fortemente presenti nel siero.
L’altra categoria di linfociti sono i linfociti T, il cui recettore per l’antigene è TCR (T Cell Receptor), che
riconosce l’agente estraneo e attiva meccanismi effettori che sono diversi secondo i vari tipi di linfociti T;
fondamentalmente si riconoscono due tipi principali di linfociti T ossia: Th (“h” sta per helper) che hanno
recettore CD4; Tc (“c” sta per citotossico) che hanno recettore CD8. Secondo che sia Th o Tc il
meccanismo effettore è diverso; essi comunque aiuteranno i fagociti a svolgere la funzione fagocitica, oppure
aiuteranno i polimorfonucleati, oppure aiuteranno gli eosinofili… la distinzione quindi è fittizia poiché da
qui si ritorna all’immunità innata che diventa ancora più efficiente poiché i linfociti T aiutano l’immunità
innata. I Tc uccidono direttamente una cellula bersaglio, ad esempio distruggono una cellula infettata da un
virus.

La risposta infiammatoria è una risposta difensiva a un danno poiché senza di lei non si estrinseca né
l’immunità innata né l’immunità specifica. L’obiettivo della risposta infiammatoria infatti è portare in loco
(dove c’è l’agente di danno) cellule e macromolecole dell’immunità che svolgono la loro funzione difensiva.
Per fare questo i vasi si devono modificare per far sì che arrivi più sangue al tessuto in modo che il contenuto
del sangue (cellule/proteine) possano uscire per adempiere alla loro funzione. Senza l’infiammazione questi
complessi sistemi dell’immunità sarebbero inutili. Tuttavia, per come avviene la risposta infiammatoria,
inevitabilmente essa stessa genera un danno, ecco perché si associa l’infiammazione ad uno stato di malattia.
FLOGOSI ACUTA (parte 1)

10/03/2020
Aspetti generali dell’infiammazione
L’infiammazione si configura come una risposta di tutti i tessuti viventi nei confronti di uno stimolo che
chiamiamo stimolo flogogeno, proprio perché induce infiammazione o flogosi. Infiammazione vuol dire
rispondere in modo attivo a questo danno tissutale (o offesa) per superare le possibili conseguenze che un
danno può avere. L’infiammazione è un processo che si estrinseca nei tessuti connettivali vascolarizzati
(tessuti mesenchimali quindi tutti i tessuti vascolarizzati), ed è un processo localizzato e dinamico;
l’obiettivo finale del processo infiammatorio è difendere l’organismo dal danno, riparare eventuali effetti
citopatologici (danni che l’agente lesivo ha provocato nel tessuto) e indurre una risposta omeostatica finale
complessa che ripristini lo stato stazionario (condizione di partenza).
Nella figura si vede come, in termini generali, i nostri
tessuti rispondono ad un danno attraverso quello che
chiamiamo il meccanismo dell’immunità, la quale può
essere di tipo innato (naturale) o adattativa (specifica).
Le due tipologie di immunità si intersecano
profondamente e in entrambi i casi il processo
infiammatorio svolge un ruolo fondamentale affinché
esse si estrinsechino; in particolare, l’immunità innata
si può identificare con il processo infiammatorio
poiché i fagociti e gli elementi molecolari solubili (tra
cui il complemento) sono protagonisti fondamentali
della risposta infiammatoria.

Abbiamo però detto che la risposta infiammatoria (l’infiammazione) è un meccanismo patogenetico di


diverse tipologie di malattie umane:
a. Asma allergica k. Meningite
b. Orticaria l. Polmonite
c. eczema m. Appendicite
d. Artrite reumatoide n. Pleurite
e. Colite ulcerosa o. Glomerulonefrite post-streptococcica
f. Rigetto del trapianto p. Tubercolosi
g. Gotta q. Epatite cronica
h. Sclerosi multipla r. Epatite da virus C
i. Gastrite da Heliobacter pylori s. Cistite acuta
j. Ustione solare t. Aterosclerosi
dobbiamo capire come queste due cose vadano d’accordo.
Consideriamo l’epiglottite acuta, che è un esempio di come l’infiammazione può essere dannosa. Di fronte
ad un fenomeno infettivo delle prime vie respiratorie si evoca un processo infiammatorio acuto. Una delle
caratteristiche del processo infiammatorio acuto è la produzione di essudato o tumor, che in questo caso si
estrinseca nei tessuti molli della sottomucosa laringea provocando un grave restringimento delle vie
respiratorie. Infatti, il rigonfiamento dei tessuti molli di faringe e laringe determina il restringimento dei
normali processi di scambio respiratorio e se questi perdurano nel tempo o si approfondano alle basse vie
respiratorie, possono provocare anche morte per asfissia. Quindi con questo è chiaro come un processo
infiammatorio può evocare uno stato di malattia estremamente dannoso.
In situazioni ancora più gravi, il processo infiammatorio è esso stesso una causa di malattia, anzi di una
grave disfunzione, come ad esempio nella sindrome da risposta infiammatoria sistemica (SIRS). Questa
può evolvere e portare alla sepsi (condizione potenzialmente mortale) che porta alla morte con l’instaurarsi
di una situazione che prende il nome di shock settico. La SIRS parte da un’infezione spesso da batteri gram
negativi, in particolare da una diffusione dell’infezione batterica, detta batteriemia/setticemia, a seguito della
quale si attiva il sistema di immunità innata. Come vedremo, l’attivazione dell’immunità innata comporta il
rilascio di molecole solubili dette citochine, ossia peptidi di basso peso molecolare, che vengono suddivise in
base alla funzione e alla struttura chimica; tra di esse, alcune sono dette citochine infiammatorie poiché
sono caratteristiche delle reazioni infiammatorie, e di queste fanno parte interleuchina 1 (IL-1), Tumor
Necrosis Factor α (TNFα), interleuchina 6 (IL-6). Le prime due (IL-1 e TNFα) sono le principali citochine
infiammatorie e quando sono rilasciate ad alte concentrazioni hanno un’attività molto potente sull’endotelio
(uno dei protagonisti della risposta infiammatoria) e causano vasodilatazione generalizzata (uno degli aspetti
fondamentali dell’infiammazione), aggregazione piastrinica (le piastrine si trovano in circolo e sono piccoli
frammenti di cellule del midollo osseo, le megacariociti; quando le piastrine non rimangono solubili ma si
aggregano tra loro formano una sorta di core su cui si attiva la coagulazione e quindi il processo trombotico),
trombosi. Quindi durante una seria setticemia/batteriemia da batteri gram negativi si ha un rilascio massiccio
di citochine infiammatorie, che provoca un’attivazione a livello sistemico (contrariamente all’infiammazione
“poco malefica” che è un processo localizzato, qui si diffonde a tutto l’organismo) dell’endotelio con una
profonda vasodilatazione e quindi caduta della pressione, aggregazione piastrinica e trombosi. Di questo
processo ne risentono i principali organi: rene, polmoni, fegato, cuore. La SIRS, la sepsi e lo shock settico
(andamento con gravità sempre maggiore) sono il quadro “nero” dell’infiammazione, cioè il quadro super
negativo.
In figura vediamo come le due citochine
“malefiche” IL-1 e TNFα abbiano effetti su
diverse cellule, che poi analizzeremo. In ogni caso,
già da adesso è importante sapere che sia
l’infiammazione sia i suoi effettori molecolari
principali (ossia le citochine infiammatorie) se
rilasciate a concentrazioni controllate hanno un
effetto positivo, cioè servono a difendere
l’organismo (che è il compito principale
dell’infiammazione) mentre se queste citochine
sono rilasciate a livello sistemico (piuttosto che
locale) in concentrazioni molto elevate, si ha
l’aspetto più dannoso del processo infiammatorio
ossia la SIRS che può evolvere in sepsi e poi in
uno shock settico che porta alla morte.

Nella figura a fianco è riassunto


quello che abbiamo visto fino ad
adesso. Nel momento in cui una
cellula del nostro organismo è
sottoposta ad un agente di danno
(noxa), la cellula può rispondere
andando incontro ad una lesione
biochimica: se il danno è lieve e la
lesione biochimica conseguente è
lieve, la cellula può adattarsi
(ipertrofia, iperplasia, trofia,
diminuzione delle attività cellulari e
delle esigenze, steatosi con
accumulo della sostanze in
eccesso); se la noxa continua, il
danno è forte e la lesione
biochimica a livello cellulare è forte
allora questo danno può esitare in una morte cellulare. Se la morte cellulare avviene attraverso il processo
della necrosi ne consegue l’innesco del processo infiammatorio che invece non si ha se la morte avviene
tramite il processo di apoptosi. Abbiamo visto infatti con l’esempio dell’infarto del miocardio come una
morte per necrosi (nell’esempio, necrosi coagulativa del miocardio) è seguita da particolari aspetti istologici
e caratterizzata da: un aumento della quantità di vasi e quindi di sangue nel tessuto (iperemia), un aumento
nel tessuto di cellule plurinucleate dette polimorfonucleati neutrofili (la presenza nel tessuto dei
polimorfonucleati, che normalmente stanno nel sangue, è detta infiltrazione neutrofila), l’instaurarsi del
processo di riparazione che in questo caso particolare è rappresentato dalla produzione di tessuto riparativo
fibroso.

In figura è mostrato un tessuto (in questo caso si tratta di un tessuto muscolare che potrebbe essere il
muscolo scheletrico o il muscolo cardiaco) che subisce l’azione di un agente di danno (tossina, batterio,
ischemia tissutale che causa la morte e quindi la perdita di tessuto). Che succede? Il tessuto danneggiato
emette dei segnali chimici detti mediatori chimici che vanno ad agire sui vasi dove inizia un processo che
porta alla fuoriuscita dai vasi di liquido e cellule; il liquido e le cellule insieme costituiscono l’essudato.
L’essudato è formato dal liquido plasmatico che sta nei vasi, che quindi è ricco di proteine, anticorpi, fattore
del complemento (che complementa l’azione degli anticorpi), e dalle cellule che si trovano nel sangue ossia
principalmente i polimorfonucleati neutrofili e successivamente anche i monociti. L’essudato ha la
potenziale funzione di eliminare l’agente di danno e di riparare il danno (compito ultimo del processo
infiammatorio) ma, come abbiamo visto nell’esempio dell’epiglottite acuta, può essere esso stesso causa di
un danno o di lieve fastidio poiché provoca uno degli aspetti macroscopici dell’infiammazione ossia il tumor.
Tutto il “gioco” dell’infiammazione sta nella relazione tra il tessuto danneggiato e i vasi, in modo che dai
vasi fuoriesca l’essudato che deve svolgere la sua funzione di controllo del danno e riparazione del danno.

Come abbiamo già visto per il caso dell’infarto, analizziamo le figure seguenti. L’immagine mostra un vaso
(vasellino) con le sue cellule endoteliali; si tratta di un vaso capillare poiché la tonaca intima, la tonaca media
e la tonaca avventizia non sono evidenti, esso ha evidente solo il rivestimento endoteliale. Si tratta comunque
di un vaso grosso, infatti solitamente i vasi capillari sono quasi invisibili all’interno di un tessuto, mentre
questo si vede perché è più ampio del dovuto e perché si riconoscono tutte le cellule al suo interno,
fondamentalmente eritrociti (in arancione) e polimorfonucleati (di cui riconosciamo bene il nucleo) che poi
si ritrovano anche a passare tra le cellule endoteliali (indicato dalla freccia grande) e possono uscire dal vaso
e si ritrovano nel tessuto (freccia piccola).

Questo è un tessuto in cui vediamo solo l’essudato di cellule polimorfonucleate all’interno del tessuto,
vediamo anche i vasi. Dunque, il concetto fondamentale è che durante il processo infiammatorio, causato da
una noxa ossia uno stimolo dannoso che in questo caso chiamiamo stimolo flogogeno poiché in questo caso
genererà flogosi, partono dei segnali che agiscono sui vasi modificandone il calibro (diventano più ampi), la
permeabilità e inducendo la fuoriuscita prima di liquido e poi delle cellule (ovviamente le cellule sono più
complesse quindi è prevedibile che impieghino più tempo a fuoriuscire) che vanno a svolgere la loro
funzione. Si tratta di fagociti (polimorfonucleati e monociti) ossia cellule che hanno la capacità peculiare di
svolgere un processo specifico, la fagocitosi, e quindi vanno a “mangiare” l’agente di danno, il tessuto
necrotico e il microrganismo (se simo in una situazione infiammatoria evocata da un microrganismo
patogeno).

Le stesse cause che provocano un danno tissutale sono anche le cause dell’infiammazione acuta. Pertanto,
l’ipossia (ischemia) è una causa di danno ma anche di infiammazione e agenti fisici, chimici e biologici sono
una causa di danno ma anche agenti flogogeni cioè in grado di evocare una risposta infiammatoria acuta. Le
cause di danno cellulare possono essere così classificate:
a. Interne o endogene
o Errori genetici che possono causare difetti enzimatici
o Depauperamento di sostenze essenziali come ad esempio ormoni e vitamine
o Diminuita irrorazione sanguigna (ischemia)
o Danni immunomediati
b. Esterne o esogene
o Fisiche: alte e basse temperature, traumi, radiazioni ionizzanti, pressione atmosferica, suoni
e ultrasuoni
o Chimiche: veleni, solventi, acidi e basi forti, variazioni di pH
o Microbiologiche: virus, batteri, protozoi, metazoi

Nella figura seguente vediamo riassunto quello che abbiamo detto finora. Partiamo da uno stimolo (o noxa o
agente flogogeno) che arriva al tessuto; a seguito di questo il tessuto manda dei segnali che alterano in
qualche modo la funzione dei vasi (fondamentalmente vasi capillari detti anche vasi del circolo terminale) e
pertanto consentono la fuoriuscita delle cellule ematiche: inizialmente i polimorfonucleati, successivamente i
monociti e ancora dopo i linfociti. Quindi alla fine si svolgerà anche la risposta immunitaria specifica, infatti
solo consentendo ai linfociti di uscire nel tessuto si potrà avere la risoluzione del danno (ad esempio, la
completa eliminazione dell’agente patogeno).
In figura sono riportati tutti gli elementi cellulari fondamentali nella risposta infiammatoria.

a. Elementi propri del sangue:


o Globuli rossi (qui non disegnati)
o Globuli bianchi: polimorfonucleati neutrofili, eosinofili e basofili; linfociti; monociti
o Piastrine, ossia frammenti cellulari derivati da megacariociti (cellule molto grosse del midollo osseo).
Le piastrine sono fondamentali anche per un altro processo omeostatico, l’emostasi, che serve a
mantenere l’integrità del vaso, a evitare la perdita del sangue in vasi non integri e a mantenere una
normale fluidità del sangue.
b. Cellule endoteliali, protagoniste del processo infiammatorio
c. Cellule del tessuto connettivo
o Mastociti, grandi cellule residenti ferme nei tessuti e che presentano nel citoplasma grosse
granulazioni. Hanno una capacità istochimica peculiare per cui fanno virare i coloranti e invece di
colorarsi in blu (come il nucelo) o rosa-arancio (strutture acidofile), si colorano in rosa carminio.
Questo fenomeno è detto metacromasia ed è riconducibile alle granulazioni interne di queste cellule
che contengono istamina, un mediatore chimico dell’infiammazione (uno tra i più potenti).
o Macrofagi, sono le cellule che ripuliscono il tessuto che è andato incontro a infiammazione. Nel
ripulire il tessuto, essi mandano anche segnali per la riparazione del tessuto danneggiato richiamando
così i fibroblasti.
o Fibroblasti, sono le cellule della riparazione tissutale
La flogosi acuta è detta anche angioflogosi in quanto si svolge in circolo e infatti i vasi sono i protagonisti
del processo acuto (“angio-” vuol dire “vasi”). I vasi del circolo capillare durante il processo infiammatorio
acuto vanno incontro a:
• Modificazioni vascolari: si modifica il diametro e il tono dei vasi.
• Modificazioni della permeabilità: si modificano i normali scambi che avvengono tra sangue e
interstizio (tessuto interstiziale) quindi si provoca l’aumento e la conseguente fuoriuscita dai vasi di
acqua, sali e macromolecole del plasma, in questo modo si determina la formazione di essudato.
• Migrazione degli elementi figurati (cellule) dal sangue (circolo) all’interstizio.
Questi tre elementi caratterizzano l’angioflogosi e devono avvenire senza che il vaso si danneggi: una lesione
del vaso determinerebbe l’instaurarsi dell’emostasi, fenomeno atto a prevenire la fuoriuscita del sangue dal
vaso, tuttavia questo fermerebbe anche la possibilità di migrazione degli elementi figurati dall’interno del
sangue all’interstizio e quindi la risoluzione del processo infiammatorio.

Cellule coinvolte nell’infiammazione che si trovano all’interno del sangue


In tabella è mostrato l’esame emocromocitometrico che ci mostra le cellule contenute le sangue: eritrociti (o
globuli rossi, cellule di piccole dimensioni senza nucleo), leucociti (o globuli bianchi poiché sono di colore
bianco) e piastrine (piccoli frammenti di megacariociti). Il numero di leucociti (migliaia) è decisamente
inferiore a quello degli eritrociti (milioni). La formula leucocitaria, ossia la percentuale delle varie tipologie
di leucociti presenti nel sangue periferico è riportata nell’ultima colonna della tabella.
VALORE ASSOLUTO
CELLULE DIMENSIONI 3 FORMULA (%)
(numero di elementi per mm )
Eritrociti 7-8 m 4.200.000-5.400.000/mm3
Leucociti 4500-8500/mm3
- PMN neutrofili 8-10 m 2700-6000/mm3 60-70%
- PMN eosinofili 8-10 m 45-260/mm3 1-3%
- PMN basofili 8-10 m 20-85/mm3 0.5-1%
- Monociti 10-15 m 135-510/mm3 3-6% (fino al 10%)
- Linfociti 8-10 m 900-3000/mm3 20-35%
Piastrine 2-3 m 200.000-400.000/mm3
(accettabile anche 150.000/mm3)

L’altra componente del sangue è il plasma, liquido ricco di sali, glucosio e anche proteine. La quantità totale
di proteine nel plasma è pari a 7,5 g/dl. Se facciamo una corsa elettroforetica delle proteine plasmatiche
possiamo dividerle in gruppi che si rivelano alla corsa elettroforetica con dei picchi ben distinti. Il primo
picco è dell’albumina (e della prealbumina), proteina plasmatica di dimensioni relativamente piccole (60
kDa) ma estremamente rappresentata tra le proteine plasmatiche. Poi
abbiamo dei picchi che si riconoscono e si chiamano con varie sigle:
a. α-1 (1-4 g/l): α-1antitripsina, α-1glicoproteina acida, α-
lipoproteine (HDL)
b. α-2 (5-9 g/l): α-2macroglobulina, aptoglobina, ceruloplasmina,
pre-β-lipoproteine (VLDL)
c. β (6-11 g/l)
▪ β-1: transferrina, β-lipoproteine (LDL)
▪ β-2: C3 del complemento, CRP
d. γ (6-15 g/l): immunoglobuline
Molte di queste proteine sono coinvolte nel processo infiammatorio
(più o meno direttamente), come ad esempio C3 del complemento; questi picchi si modulano durante il
processo infiammatorio in particolare nella fase acuta del processo infiammatorio. Il picco delle γ è molto
abbondante e sotto questo picco ci sono le immunoglobuline (anticorpi) quindi anche questo picco si
modulerà durante il processo infiammatorio, sicuramente si modula durante un processo infettivo dove si ha
un aumento della concentrazione plasmatica di certe classi specifiche anticorpali.
Vediamo adesso i singoli leucociti.

GRANULOCITI NEUTROFILI. Rappresentano circa il 60-70% dei


leucociti. Hanno nucleo plurilobato e hanno granulazioni
citoplasmatici. Nelle donne il nucleo può presentare un piccolo
addensamento di cromatina corrispondente al cromosoma X e detto
corpo di Barr. I granuli contengono diversi enzimi che svolgono azione
litica, battericida, microbico e che interverranno quando il granulocita
svolgerà la sua azione come grosso e potente fagocita; i granuli
possono essere suddivisi in:
a. Granuli specifici: enzimi a funzione antimicrobica, proteasi,
fosfolipasi, nucleasi e altri enzimi litici;
b. Granuli azzurrofili – lisosomi: idrolasi acide, lisozima, proteina battericida/che aumenta la
permeabilità (bactericidal/permeability-increasing protein, BPI);
c. Granuli terziari: gelatinasi (idrolizza la membrana basale).
I granulociti fondamentalmente hanno ruolo difensivo, per svolgere il quale il granulocita deve uscire dal
vaso e migrare nel tessuto bersaglio; la migrazione prevede diverse tappe perché il granulocito deve imparare
a muoversi nel tessuto e mutare per questo il suo aspetto citoscheletrico (movimento diverso da quello che ha
nel sangue), e tutto questo deve avvenire in modo che il vaso non si rovini e che il rivestimento endoteliale
dei vasi non si rompa. Le sue funzioni sono le seguenti:
• Penetrano nella regione infiammata aderendo inizialmente agli endoteli per mezzo di recettori
specifici;
• Tale adesione stimola la produzione di IL-1 e del TNF che inducono le cellule endoteliali ad
esprimere una molecola di adesione detta ICAM-1, alla quale si legano le integrine dei neutrofili;
• I neutrofili si bloccano, smettendo di migrare e attraversano l’endotelio invadendo il connettivo e
fagocitando microrganismi e altri agenti patogeni;
• Inducono la risposta infiammatoria rilasciando molecole denominate leucotrieni.

GRANULOCITI EOSINOFILI. Rappresentano meno del 4% dei leucociti


totali; si riconoscono poiché hanno evidenti granulazioni eosinofili (rosa
acceso-arancione) nel citoplasma che si suddividono in:
a. Granuli specifici: agenti proteici antiparassitari, neurotossina;
b. Granuli azzurrofili: lisosomi.
Grazie alla presenza di recettori specifici di membrana, la loro migrazione è
favorita dai seguenti mediatori rilasciati dai basofili e dai neutrofili: istamina, fattore chemiotattico
eosinofilo, leucotrieni. Hanno funzioni molto importanti poiché ci difendono dai parassiti e questa funzione
viene svolta perché questa cellula ha componenti proteici (agenti) particolari nei suoi granuli specifici che
perforando la parete dei parassiti riescono a distruggerli.

GRANULOCITI BASOFILI. Rappresentano meno dell’1% dei leucociti totali. Sono


caratterizzati dalla presenza di grosse granulazioni citoplasmatiche basofile (hanno una
colorabilità simile a quella del nucleo), che contengono granuli di vario tipo:
a. Granuli specifici (si colorano in blu scuro con il Giemsa): eparina, istamina (li
rende simili ai mastociti che però non si trovano nel vaso ma nel connettivo
circostante);
b. Granuli azzurrofili: lisosomi.
Il granulocita basofilo, proprio perché può rilasciare l’istamina contenuta nei suoi granuli, avrà una funzione
simile a quella del mastocita ossia può agire come “iniziatore” del processo infiammatorio: basta un po’ di
istamina per innescare tutti i fenomeni vascolari dell’infiammazione. Inoltre, sulla membrana di queste
cellule (e anche sulla membrana dei mastociti) esistono recettori per il frammento cristallizzabile Fc ossia il
frammento costante delle immunoglobuline E o IgE. La possibilità di avere un recettore per Fc delle IgE
innesca una serie di reazioni per cui quando le IgE si legano al granulocita basofilo, esso rilascia il contenuto
dei granuli (questo processo avviene anche nei mastociti). Se, a seguito del legame delle IgE, dai granuli dei
basofili (o die mastociti) si libera istamina, questa provoca una reazione anafilattica che nei casi più gravi
può portare allo shock anafilattico.

MONOCITI MACROFAGI. Rappresentano il 3-8% dei leucociti totali. Quando


sono in circolo nel sangue sono detti monociti; tendono a migrare nei tessuti anche
in situazioni non infiammatorie, ma questa tendenza aumenta molto in situazioni di
infiammazione. Nel tessuto queste cellule si trasformano in cellule aderenti dette
macrofagi. Ha dimensioni maggiori dei polimorfonucleati e dei globuli rossi (come
si vede nell’immagine); il citoplasma è azzurro (“a velo di Madonna”) mentre il
nucleo è reniforme. Il monocito ha granulazioni che servono per il processo di fagocitosi dette granuli
azzurrofili – lisosomi che contengono idrolasi acide, proteasi neutre, lisozima, arginasi, attivatore del
complemento. Inoltre, il monocito può secernere sostanze che rappresentano mediatori dell’infiammazione:
a. Citochine: interleuchine
b. Componenti del complemento
c. Altre molecole: metaboliti dell’acido arachidonico (eicosanoidi) e radicali liberi dell’ossigeno.
Dunque, i monociti (soprattutto quando escono dal circolo e si stabilizzano/fermano nei tessuti dove si
trasformano in macrofagi) sono cellule in grado di produrre numerose sostanze che si comportano da
mediatori dell’infiammazione.

I monociti macrofagi sono essenzialmente macrofagi che fagocitano qualunque materiale estraneo e sono in
grado di produrre mediatori dell’infiammazione (soprattutto citochine coinvolte nel sistema infiammatorio e
immunitario). Alcuni macrofagi, detti cellule che presentano l’antigene (APC), possono presentare
l’antigene ed è proprio in questo passaggio che alcune flogosi possono cronicizzare. Grazie a questa funzione
i macrofagi possono presentano l’antigene ai linfociti T. Infatti, i linfociti T hanno un recettore clonale
specifico per l’antigene, che però è piuttosto piccolo e che per legare l’antigene ha bisogno che questo sia a
lui “presentato”: senza l’intervento dei macrofagi i linfociti T non riconoscerebbero (né legherebbero)
l’antigene.
In presenza di particolari antigeni i macrofagi iperattivati si trasformano in cellule epitelioidi o, associandosi
fra loro, in cellule giganti polinucleate.

LINFOCITI. Rappresentano il 20-25% dei leucociti totali. Sono piccole cellule “tutte nucleo” con cromatina
abbastanza addensata, esse infatti sono tutte cellule differenziate che comunque possono andare incontro a
proliferazione e in questo caso il nucleo si ingrandisce e la cromatina diventa più lassa. Nel sangue
periferico, il linfocito è la classica cellula della fase G0 del ciclo cellulare.
Si suddividono in tre tipi che tuttavia non sono distinguibili dal punto di vista funzionale, ma solamente
mediante tecniche di immunoistochimica che evidenziano marker di superficie diversi.
a. Linfociti T (80%). Sono responsabili della risposta immunitaria cellulo-mediata e possono essere
suddivisi in due grandi tipologie
o linfociti T citotossici, T CD8+ (riconosciuti dall’espressione del co-recettore CD8),
responsabili dell’uccisione di cellule estranee o trasformate da virus o di cellule autologhe.
o linfociti T helper o T CD4+ (riconoscibile per l’espressione del co-recettore CD4),
coinvolti nella cooperazione e modulazione fra risposta immunitaria di tipo umorale e
cellulare per mezzo della produzione di molecole segnalatorie dette linfochine.
b. Linfociti B (15%). Sono responsabili della risposta immunitaria di tipo umorale (branca della
risposta immunitaria adattativa) dove umorale significa che il meccanismo effettore con cui
eliminano l’antigene si basa sulla produzione di sostanze solubili che si ritrovano negli umori e che
sono fondamentalmente anticorpi. I linfociti B di per sé non secernono anticorpi contro l’antigene,
ma ne diventano capaci quando differenziano in plasmacellule.
c. Null cells o Natural Killer (5%) ossia cellule che non hanno recettore clonale per l’antigene. Sono
composte da due distinte popolazioni cellulari:
o Cellule staminali che circolano e sono capaci di dare origine a tutti gli elementi figurati del
sangue. In questo caso saranno cellule riconoscibili per la presenza di un marcatore di
staminalità ossia il CD34.
o Cellule Natural Killer che sono in grado di uccidere cellule estranee o trasformate
(neoplastiche), senza l’intervento del timo o dei linfociti T. Esse non riconoscono l’antigene
in modo specifico (come avviene per i linfociti T) ma per riconoscerlo utilizzano recettori
diversi dal recettore clonale DCR oppure si avvalgono dell’aiuto delle immunoglobuline
(anticorpi). Quindi essi possono fare una citotossicità diretta o mediata da anticorpi.

Fasi dell’infiammazione
Per capire cosa succede durante un’infiammazione dobbiamo ora focalizzarci sui due elementi principali: il
letto vascolare terminale (cos’è? cosa succede al suo interno?) e il microambiente infiammatorio
caratterizzato da ciò che viene chiamato “Inflammatory soup” ossia una “zuppa infiammatoria” di mediatori
solubili e di cellule.
Già da tempo si sapeva che durante l’infiammazione succedesse qualcosa nel letto vascolare terminale del
microcircolo, infatti numerosi studi erano stati condotti per analizzare le reazioni dei vasi. Per questi studi si
usavano vari modelli sperimentali tra cui la lingua della rana, che una volta esposta all’aria andava incontro
ad un fenomeno di infiammazione; altro modello sperimentale era il mesentere (foglietto che collega la
parete addominale posteriore e che ricopre l’intestino) soprattutto dei roditori perché era molto semplice
alterarlo e determinare una reazione di infiammazione. Utilizzando uno tra questi due modelli sperimentali,
si osservarono macroscopicamente le alterazioni dei vasi e del circolo. Nel mesentere era stato osservato
quanto segue:
La prima cosa che si nota nei vasi esposti -bastava esporre all’aria il tessuto e i suoi vasi per far
succedere qualcosa- è una dilatazione che interessa specialmente le arterie, poi anche le vene e, meno
di tutti, i capillari. Con il graduale svilupparsi della dilatazione, che di solito raggiunge considerevoli
valori nell’arco di 15-20 minuti (spesso superando di due volte il diametro originario), nel mesentere
si stabilisce un’immediata accelerazione della corrente ematica, estremamente impressionante, ancora
una volta, nelle arterie... Però, questa accelerazione non dura mai a lungo; infatti, dopo mezz’ora o
un’ora invariabilmente è seguita da un netto rallentamento e la velocità della corrente cade più o meno
sotto i valori normali.
Quindi le alterazioni dei vasi, già descritte fin dal secolo scorso, consistono in una dilatazione
(vasodilatazione), che interessa principalmente le arterie, seguita dall’accelerazione della corrente ematica a
livello delle arterie (iperemia) seguita da un rallentamento della velocità della corrente (rallentamento del
flusso).
Altro modello sperimentale della flogosi fu usato per studi del 1927. Il Dr. Sir Thomas Lewis, studiando la
cute, vide che un piccolo sfregamento della cute produce una linea bianca che in seguito diventa una linea
rossa (più o meno evidente secondo il dermografismo della persona, cioè quanto la cute è reattiva ossia
quanto i mastociti nel sottocute sono reattivi); dopo 15-30 secondi compare un alone rosso intorno alla linea
rossa e dopo qualche minuto la linea rossa ridiventa bianca e rilevata per l’accumulo di liquido nello spazio
extravascolare. Richiama un po’ quello che accadeva nel mesentere del ratto perché la linea rossa rende
conto della vasodilatazione e dell’aumento del flusso mentre la linea che da rossa diventa bianca rende conto
del rallentamento del flusso e poi quello che accade a seguito del rallentamento del flusso ossia l’accumulo
di liquido nello spazio extravascolare (tumor). Questo esperimento detto triplice risposta di Lewis fu puoi
eseguito dallo stesso Lewis con un ulteriore passo avanti poiché egli riuscì ad ottenere la stessa risposta
senza sfregamento ma solo iniettando istamina sottocutanea e così riuscì a dimostrare che la triplice risposta
era dovuta al rilascio di un mediatore chimico, l’istamina, che adesso sappiamo avvenire ad opera dei
mastociti che si trovano nel tessuto sottocutaneo.

Quindi le modificazioni a cui va incontro il microcircolo durante l’infiammazione hanno la seguente


sequenza:

Prima di analizzare le varie fasi una ad una dobbiamo contestualizzare dove avviene l’infiammazione.
Il microcircolo è quella parte del circolo che parte dalle
arteriole pre-capillari, quindi l’ultimo braccio del
circolo arterioso, si continua nei capillari (metarteriole)
e soprattutto nel canale preferenziale (freccia rossa in
figura) e termina poi nelle venule. Dal canale
preferenziale si dipartono perpendicolarmente i
capillari veri e formano una specie di “racchetta da
tennis” del circolo terminale. Inoltre, dal canale
preferenziale al capillare vero, si ritrovano delle
strutture grigiastre che circondano anche tutta
l’arteriola: si tratta di cellule muscolari lisce. Quindi si hanno: cellule muscolari lisce (tonaca media) che
circondano l’arteriola e piccoli aggregati di cellule muscolari lisce che si trovano sia nel punto di partenza
dei capillari veri dal canale preferenziale, dove il sangue predilige scorrere sia nel punto di distacco; tali
aggregati prendono il nome di sfinteri precapillari.
In condizioni normali il sangue dall’arteriola entra nel canale preferenziale e continua a fluire in questo
perché gli sfinteri sono chiusi (le cellule muscolari lisce sono contratte) e si riversa direttamente a livello
della venula. Il tono delle cellule muscolari lisce periarteriolari più rilassato o più contratto fa sì che il
diametro dell’arteriola sia rispettivamente
maggiore o minore e questo condiziona
quanto sangue arriverà ad entrare nel canale
preferenziale.
Si osserva anche un calo di pressione fra il
versante arteriolare del letto capillare (30-32
mmHg) e il versante venulare, dove si ha un calo profondo della pressione (12 mmHg ca.).
In condizioni di esercizio dell’organo o in
condizioni infiammatorie (infiammazione)
il letto capillare diviene pervio per avere
una maggiore irrorazione e si chiude il
canale preferenziale.

Quindi durante il processo infiammatorio si assiste a due fenomeni: il


rilascio della muscolatura liscia che forma il manicotto intorno
all’arteriola così l’arteriola si dilata e aumenta il suo calibro; il rilascio
della muscolatura liscia che si trova a livello degli sfinteri precapillari
perciò il sangue invece che andare nel canale preferenziale prende la
via del letto capillare. Questi due step determinano l’aumento della
quantità di sangue che arriva all’arteriola e a tutto il letto vascolare
terminale e in figura è mostrato un altro schema del letto vascolare
terminale in condizioni normali (in alto) e durante un processo
infiammatorio (in basso).

Quindi abbiamo descritto che a seguito dell’infiammazione arriva più


sangue al tessuto ossia si assiste ad una situazione di iperemia che è
legata alla vasodilatazione cioè al rilascio della muscolatura liscia
perioarteriolare e degli sfinteri capillari.

Per capire i motivi per cui si ha aumento del flusso sanguigno durante il fenomeno infiammatorio,
dobbiamo ricordare che nel circolo terminale il flusso sanguigno è un flusso laminare. Il flusso laminare fa sì
che la porzione di liquido più vicina alla parete abbia velocità v=0 e via via che ci spostiamo verso il centro
del vaso, il fluido aumenta di velocità fino a raggiungere il centro del vaso dove la velocità è massima.

Quando il sangue scorre attraverso un lungo vaso dalle pareti lisce, le linee di flusso sono rettilinee e
mantengono la stessa distanza dalle pareti del condotto lungo tutto il percorso. Quando si verifica questo tipo
di scorrimento (flusso laminare) le diverse linee di flusso creano un profilo parabolico lungo la sezione del
vaso. Questa forma nasce dal fatto che l’attrito con la parete vascolare si oppone allo scorrimento delle
molecole del fluido, mantenendole quasi ferme. Lo strato successivo scorre sul presedente, fino ad arrivare
alla linea centrale di flusso, in cui si misura la più alta componente di velocità.
Se un liquido si muove di flusso laminare si può applicare la legge di Poiseuille che stabilisce che la velocità
di scorrimento del fluido è direttamente proporzionale alla quarta potenza del raggio e alla differenza di
pressione del fluido ed è inversamente proporzionale alla lunghezza del condotto e alla viscosità del fluido.
Quindi si ha:
𝜋 ∙ 𝑟 4 ∙ ∆𝑝
𝑄=
8∙𝜂∙𝐿
dove Q=portata del condotto (es. vaso) ed esprime la quantità di sangue portata dal condotto che quindi
corrisponde alla velocità con cui il sangue fluisce; p=pressione del fluido (es. pressione esercitata dal
sangue); r=raggio del condotto (es. raggio del vaso); L=lunghezza del condotto (es. lunghezza del vaso);
η=viscosità del fluido (es. viscosità del sangue).
Quindi secondo la legge di Poiseuille ogni volta che si ha un fenomeno per cui il raggio aumenta la portata
del condotto aumenta secondo la quarta potenza del raggio; per questo motivo, dato che il flusso è laminare e
la velocità è massima al centro del condotto, il fluido vicino alla parete che fluisce con velocità v=0 andrà a
pesare sempre meno. Nella flogosi aumenta sia il raggio dell’arteriola (per il rilascio della muscolatura liscia
periarteriolare) sia il raggio di tutto il letto vascolare terminale (perché il sangue fluisce anche in tutti i
capillari veri): l’amento del raggio del letto vascolare terminale ci spiega perché aumenta la portata e quindi
perché aumenta la velocità del flusso con cui il sangue fluisce all’interno del tessuto.

Di seguito sono riportati i principali meccanismi che regolano il calibro, e pertanto il flusso, dei vasi; tali
meccanismi possono essere neurogeni o non neurogeni.
a. Regolazione neurogena del calibro/flusso dei vasi innervati (arteriole e vene muscolari)
o Vasocostrizione: fibre simpatiche vascocostrittrici: noradrenalina (tessuto muscolare)
o Vasodilatazione, che osserviamo durante un processo infiammatorio può essere regolata
tramite l’inibizione del tono simpatico (fibre vasodilatatrici):
▪ fibre parasimpatiche (ghiandole salivari, tessuti erettili)
▪ fibre simpatiche colinergiche (tessuto muscolare)
▪ fibre amieliniche per stimoli nocicettivi (es. cute, sierose)
b. Regolazione neurogena del calibro/flusso dei vasi non innervati (microcircolo vero e proprio)
o Pressione transmurale
o Fattori umorali
▪ Vasocostrittori: catecolamine, Ca2+;
▪ Vasodilatatori: istamina, chinine, Mg2+, K+, Na+, AMP, ADP, ATP; diminuzione
del pH, diminuzione di pO2, aumento di pCO2; metaboliti dell’acido
arachidonico (prostaglandine, endoperossidi ciclici, trombossani). Tra questi alcuni
(in grassetto) sono fondamentali, tra questi l’istamina. Quindi nel momento in cui,
per un danno, si ha un minimo rilascio di istamina la prima cosa che si osserva è la
vasodilatazione con aumento della quantità di sangue nel tessuto e un aumento della
velocità con cui il sangue fluisce nel tessuto.

11/03/2020
Vediamo adesso in cosa consiste l’aumento della permeabilità capillare e venulare all’acqua e ai sali.
Normalmente a livello del letto capillare
avvengono gli scambi di gas e di liquido tra il
letto vascolare e il tessuto interstiziale ossia tra i
vasi ed il tessuto perivascolare.
Fondamentalmente il liquido (sali, glucosio, e
tutte le molecole presenti a livello del plasma)
esce a livello del versante arteriolare (in rosa in
figura) che lo cede ai tessuti e da qui il liquido
viene riassorbito dal versante venulare (in blu in
figura); in tutto questo sono presenti anche i
capillari linfatici (in bianco in figura), fondamentali per trattare scambi ematotissutali (scambi tra sangue e
tessuti). Non tutto il liquido che esce dall’arteriola rientra nei capillari venulari e questa differenza tra il
liquido uscente e liquido entrante è tamponata dalla funzione dei capillari linfatici che impediscono
l’accumulo di liquido a livello interstiziale.
Gli scambi ematotissutali avvengono seguendo la legge di Starling:
𝐽𝑣 = 𝐾𝑓 [(𝑃𝑐 − 𝑃𝑖 ) − 𝜎(𝑃𝜋 − 𝜋𝑖 ]
dove Jv=movimento del liquido (ml/min), Kf=conduttanza idraulica o coefficiente di filtrazione
(ml/(min*mmHg)), Pc=pressione idrostatica del capillare (mmHg), Pi=pressione idrostatica interstiziale
(mmHg), σ=coefficiente di riflessione, Pπ=pressione oncotica del capillare (mmHg), πi=pressione oncotica
interstiziale (mmHg). La legge di Starling dice che esistono quattro forze principali che regolano lo scambio
di liquido tra due compartimenti: la pressione idrostatica del capillare (Pc), la pressione idrostatica
interstiziale (Pi), la pressione oncotica del capillare (Pπ) e la pressione oncotica interstiziale (πi). Queste forze
esitano in effetti diversi secondo la zona del letto terminale considerata.
Consideriamo la figura a fianco e consideriamo il lato arterioso. Abbiamo:
a. La pressione idrostatica capillare Pc =
35 mmHg (freccia rossa) che tende a
portare il liquido dall’interno del vaso
verso l’interstizio (esterno del vaso);
b. La pressione oncotica (colloide
osmotica) intravascolare Pπ = 25
mmHg (freccia blu) è rappresentata
fondamentalmente dalle proteine
plasmatiche che tendono a trattenere il
liquido, infatti questa forza tende a
portare il liquido dall’esterno
all’interno del vaso;
Considerando adesso il lato venoso si ritrovano le stesse due forze ma, mentre la pressione oncotica
intravascolare ha un valore Pπ = 25 mmHg e ha una freccia piuttosto consistente (quindi significa che qui è
prevalente e tira l’acqua dentro il vaso), il valore della pressione idrostatica capillare è nettamente inferiore
Pc= 15 mmHg ed è rappresentato da una freccia piccola.
Le altre due forze della legge di Starling sono:
c. La pressione colloide osmotica interstiziale πi che è rappresentata da tutte le componenti proteiche
dell’interstizio che tendono a trattenere l’acqua per questo motivo la freccia che rappresenta questa
forza ha direzione dal vaso all’interstizio. Il valore assoluto di questa pressione è πi = 8 mmHg e
poiché questo non cambia tra lato venoso e arterioso è stata posizionata centralmente rispetto al letto
vascolare terminale.
d. La pressione idrostatica interstiziale Pi è molto piccola e ha valore negativo Pi = -2-5 mmHg per cui
il vettore che rappresenta questa forza ha direzione dall’interno del vaso all’interstizio.
Quindi nel lato arterioso abbiamo la pressione idrostatica capillare Pc (valore grande), la pressione colloide
osmotica interstiziale πi e la pressione idrostatica interstiziale Pi che tendono a portare il liquido fuori dal
capillare, l’unica forza che si oppone a questo movimento è la pressione oncotica intracapillare Pπ. Tuttavia,
pressione oncotica intravascolare Pπ ha un valore piccolo quindi non riesce a bilanciare il resto e perciò dal
lato arterioso l’acqua tende ad uscire dal vaso verso l’interstizio.
A livello del lato venoso invece abbiamo la pressione idrostatica capillare Pc (valore piccolo), la pressione
colloide osmotica interstiziale πi e la pressione idrostatica interstiziale Pi che tendono a portare il liquido
fuori dal capillare, a questo movimento si oppone la pressione oncotica endocapillare Pπ. La pressione
oncotica endocapillare Pπ numericamente prevale sulle altre e quindi a livello del lato venoso l’acqua rientra
nel capillare.
Quindi il calcolo dei valori assoluti delle quattro forze considerate nella legge di Starling, la loro direzione e
il loro bilanciamento totale fanno sì che il liquido fuoriesca dal lato arterioso del capillare e vi rientri dal lato
venoso.
In figura ci sono i calcoli
matematici riguardanti le
forse appena trattate.
All’estremità arteriolare
del capillare, facendo la
differenza tra le forze
che tendono a muovere il
liquido verso l’esterno e
quella che muove il
liquido verso l’interno, si
calcola una forza netta
verso l’esterno pari a
13,3 mmHg.
All’estremità venulare
del capillare, facendo la
differenza tra la forza
che tende a muovere il
liquido verso l’interno e
quelle che muovono il
liquido verso l’esterno (in valore assoluto cambia solo la pressione idrostatica capillare), si calcola una forza
netta verso l’interno pari a 6,7 mmHg. Quindi questo calcolo rende ragione di quello che abbiamo detto
prima. Questo ovviamente ha anche un senso fisiologico perché per nutrire un tessuto c’è bisogno di avere
un sistema che faccia fuoriuscire nell’interstizio il liquido ricco di nutrienti come quello che arriva attraverso
il letto arterioso, e che permetta di raccogliere il liquido contenente i prodotti di scarto a livello venulare.
o Se Pc – Pi = Pπ – πi si ha scambio capillare = 0 quindi la filtrazione non avviene
o Se Pc – Pi > Pπ – πi lo scambio capillare procede verso l'esterno quindi avviene la filtrazione
o Se Pc – Pi < Pπ – πi lo scambio capillare procede verso l'interno quindi avviene il riassorbimento
Analizzando i numeri in tabella, vediamo però che i valori assoluti delle forze risultanti sono diversi:
idealmente per 13,3 unità di liquido che escono ne rientrano 6,7. Dunque, ci sono 6,6 (=13,3-6,7) che
avanzano: questa parte rimasta fuori in condizioni non patologiche non rimane nell’interstizio (in condizioni
patologiche può succedere che si accumulino liquidi formando il cosiddetto edema) ma viene assorbito dai
capillari linfatici.
Il capillare linfatico ha una struttura per cui le sue cellule
endoteliali non sono proprio congiunte tra loro e inoltre sono
ancorate a fibrille di collagene. L’accumulo di liquido a livello
interstiziale determina un rigonfiamento del tessuto che provoca
uno stiramento delle fibrille di collagene; dato che le cellule non
sono saldamente congiunte tra loro, un lieve stiramento delle
fibrille di collagene discosta tra loro le cellule endoteliali e così il
liquido dall’interstizio entra nel capillare linfatico.
Nel grafico è mostrata la
curva che rappresenta la funzionalità dei linfatici. Si vede che con
l’aumentare della pressione interstiziale, che passa da valori negativi a
valori via via sempre maggiori, piano piano aumenta il flusso linfatico
all’interno del capillare. L’aumento maggiore di flusso linfatico si ha
quando il valore di pressione interstiziale è intorno allo 0, fino a
raggiungere il plateau quando la pressione interstiziale è 4, dopodiché
se si accumulasse ulteriore liquido i vasi linfatici non riuscirebbero a
sopperire ed eliminare il liquido in eccesso.
Quindi durante l’infiammazione si ha: dilatazione dell’arteriola,
espansione di tutto il letto capillare terminale, aumento del
flusso ematico. Queste condizioni fanno si che la pressione
idrostatica intracapillare (Pc) aumenti molto a livello del versante
arteriolare del letto vascolare terminale e in questo modo si
accumula liquido nell’interstizio poiché sovrasta la capacità dei
capillari linfatici di drenare il liquido in eccesso. Quindi nel
processo infiammatorio si ha un accumulo di liquidi nel tessuto
interstiziale per sbilanciamento delle forze di Starling (aumento
della pressione idrostatica capillare), secondario alla
vasodilatazione, al rilascio degli sfinteri pericapillari con
espansione del letto capillare e all’aumento del flusso ematico.
Tutto questo dipende dal fatto che il flusso sanguigno aumenta e
in questo modo esce più liquido di quanto succede normalmente,
tanto che supera le capacità di rientro sia a livello venulare
(questo avviene anche in condizioni fisiologiche, lo abbiamo
visto nella tabella a pagina precedente) sia a livello linfatico
formando così un trasudato, cioè un edema (accumulo di liquidi
nei tessuti). Nella flogosi non ci si ferma qui e l’edema (tumor)
non è solo un trasudato secondario alla vasodilatazione ma
qualcosa di più accade poiché qualcosa di più accade rispetto
alla permeabilità delle proteine plasmatiche.
Normalmente, alcune proteine possono passare attraverso i capillari in vari modi:
a. Per diffusione (piccole quantità) tramite giunzioni intercellulari. L’albumina nell’interstizio è 4 volte
inferiore a quella del plasma, ma poiché la quantità interstiziale assoluta deve essere uguale alla
quantità plasmatica, il volume di liquido interstiziale deve essere 4 volte il volume del liquido
plasmatico.
b. Per la formazione di vescicole pinocitosiche (citopempsi)
c. Grazie ad aperture intermittenti fra le giunzioni
d. La maggior parte delle proteine che in condizioni fisiologiche passano dal circolo
nell’interstizio viene recuperata grazie ai linfatici
Per capire cosa avviene durante un processo infiammatorio e quali sono i costituenti dell’edema (tumor) che
caratterizza l’infiammazione (che non è
un semplice trasudato) abbiamo fatto
ricorso all’uso di animali da
esperimento. Si tratta di un esperimento
classico su un coniglio bianco che è stato
depilato lasciando integra la cute; sulla
cute è stato applicato un irritante cutaneo
disegnando la lettera “W” e
contemporaneamente al coniglio è stato
iniettato in circolo un colorante
particolato (TripanBlue). Normalmente
le piccole particelle di colorato non
escono dai vasi, qui invece si infatti dopo 5 minuti la lettera “W” diventa colorata di blu: dove è stato
evocato il processo infiammatorio e quindi dove avviene il cambiamento del circolo (vasodilatazione, etc..),
è uscito un po’ di colorante dal vaso che ha colorato la cute del coniglio.
Quindi il messaggio è questo: tutte le volte che causiamo il processo infiammatorio nei vasi succede
qualcosa, che non è solo la dilatazione arteriolare e l’aumento della velocità del flusso ma i vasi diventano
lichi ossia perdono qualcosa (coloranti, carbone colloidale, etc..) quindi si ha un aumento della
permeabilità del vaso che accompagna la vasodilatazione e l’iperemia. in questo modo il vaso è più
permeabile alle macromolecole e alle proteine, che normalmente fuoriescono a livello del letto capillare ma
solo in minima parte.
Per capire bene il meccanismo di vasopermeabilizzazione, che porta alla fuoriuscita di materiale di discrete
dimensioni (macromolecole, proteine del plasma) sono stati fondamentali gli studi del Professor Maino. Per
gli esperimenti sono stati utilizzati ratti ed è stato applicato un colorante, il carbone colloidale (per colorare il
tessuto), e un mediatore dell’infiammazione, l’istammina (Cfr. triade di Lewis). Osservando i vasi di un
tessuto infiammato, a seguito dell’iniezione di istamina, il Professor Maino vide quello che è mostrato in
figura (microscopia elettronica):
a. In basso è mostrato un vaso normale
con due cellule endoteliali (freccia
azzurra) unite tra loro e nelle quali si
notano, sul versante che guarda
l’interno del vaso, dei puntini bianchi
che sono vescicole pinocitosiche. Le
due cellule sono unite tra loro e il
punto di giunzione è indicato dalla
freccia bianca; si vede come le due
cellule siano strettamente congiunte
tra loro e si nota una zona più scura
dove si localizzano le tight junction.
All’interno del vaso si vedono i
globuli rossi (freccia rossa) che
appaiono scuri.
b. In alto la freccia azzurra indica le
cellule endoteliali che non sono più
stese ma si vedono più gonfie e
raggrinzite, tecnicamente ci si
riferisce a questa situazione come una
contrazione della cellula endoteliale.
La freccia bianca, che indicava il
punto di giunzione adesso indica uno
spazio piuttosto ampio dove si vedono
puntini neri che sono puntini di
carbone colloidale. La freccia rossa indica i globuli rossi che sono impacchettati tra loro, il termine
tecnico per definire questa situazione è emoconcentrazione. Cosa è successo in questo tessuto? Si è
avuta un’infiammazione indotta da istamina che ha provocato: vasodilatazione, aumento della velocità del
flusso, fuoriuscita di liquido dal tessuto in quantità maggiore di quello che i linfociti possono sopportare
ma ha anche causato un distacco delle cellule endoteliali causandone la contrazione e permettendo così la
fuoriuscita di carbone ossia delle macromolecole proteiche contenute nel plasma (ad es. albumina).
Dunque,tra le forze di Starling aumenta la pressione colloido-osmotica interstiziale πi che avevamo detto
valore costante che invece adesso aumenta (raddoppia, triplica), e questo significa che aumenta tantissimo
la forza che tende a fare uscire ulteriormente liquido dal vaso, il liquido quindi si accumula ulteriormente
nel tessuto interstiziale sottraendone all’interno del vaso e provocando così emoconcentrazione.

Quindi riassumiamo quali sono le fasi della risposta vascolare in un processo infiammatorio:
1. Vasocostrizione arteriole precapillari, non è costante poiché non sempre c’è comunque se c’è dura
pochi secondi ed è transitoria;
2. Dilatazione delle arteriole, quindi delle venule e successivamente dei capillari (circa 10 minuti -
qualche ora). Si ha il conseguente aumento del diametro dei capillari pervi e quindi l’accelerazione
della velocità di scorrimento del sangue (iperemia attiva) che porta all’aumento della pressione
idrostatica con formazione di trasudato. Contemporaneamente si ha l’inizio delle modificazioni della
permeabilità endoteliale (principalmente a livello delle venule post-capillari) tali che la permeabilità di
queste cellule aumenta e così le proteine plasmatiche escono aumentando la pressione oncotica
interstiziale, richiamando ulteriore liquido dal sangue. Si crea così un circolo vizioso per cui esce
sempre più liquido dal vaso e si ha la formazione dell’essudato (fase caratteristica del processo
infiammatorio);
3. Progressivo rallentamento della velocità di scorrimento del sangue, iperemia passiva e quindi stasi. In
questa fase si hanno modificazioni a carico della modalità di scorrimento della componente cellulare:
il perdurare delle modificazioni della permeabilità endoteliale porta all’impacchettamento dei globuli
rossi e quindi alla marginazione dei leucociti (venule post-capillari). Questa fase è attivata
dall’aumento della permeabilità dei vasi (nella fase 2), che tuttavia causa emoconcentrazione ossia
aumento della viscosità, quindi per la legge di Poiseuille si ha un progressivo rallentamento della
velocità di scorrimento del sangue (iperemia passiva) e quindi stasi.

La terminologia degli eventi vascolari della flogosi è precisa, quindi sono riportati in seguito le situazioni in
cui si usano determinati termini.
a. Il trasudato è un liquido che fuoriesce dai vasi e che ha basso contenuto di proteine ed un peso
specifico inferiore a 1012.
b. L’essudato è un liquido infiammatorio extravascolare (fuoriuscito dai vasi che si raccoglie
nell’interstizio) ed ha con elevata concentrazione proteica, contenente detriti cellulari e con peso
specifico superiore a 1020. In realtà può contenere anche cellule, ovvero le cellule che si trovano nel
sangue e che fanno parte del contingente cellulare del processo infiammatorio. L’essudazione invece è
il passaggio di liquidi, proteine e cellule dal sistema vascolare verso i tessuti interstiziali o le cavità
sierose.
c. L’edema è l’accumulo di liquido extravascolare nei tessuti interstiziali o nelle cavità sierose come
essudato o trasudato
In figura inoltre sono riportate le principali differenze tra un trasudato e un essudato. Tra questi valori
notiamo la prova di Rivalta, essa è una prova che riesce a distinguere il trasudato dall’essudato: nel solvente
l’essudato non si mischia e precipita.
TRASUDATO ESSUDATO
Aspetto Chiaro Opaco
Prova di Rivalta Negativa Positiva
Colore Giallo paglierino Giallo paglierino, ematico o giallastro
pH 7,4 < 7,4
Peso specifico < 1012 > 1020
Concentrazione proteine < 25 gr/l > 35 gr/L
Rapporto proteine liquido/ siero < 0,5 > 0,5
Rapporto albumina siero / liquido > 1,2 < 1,2
Rapporto LDH liquido / siero < 0,6 > 0,6
Fibrinogeno assente o tracce talvolta presente
Colesterolo < 45 mg/dl > 45 mg/dl
Glucosio Come nel sangue Spesso diminuito
(65-100 mg/dl) (<60 mg/dl)
3 3
Elementi cellulari / mm scarsi <1000/mm presenti talvolta >50.000/mm3
Monociti/Macrofagi Neutrofili, Monociti/Macrofagi Cellule
Cellule mesoteliali mesoteliali, Emazie
Quindi fino ad ora abbiamo visto che nel processo
di infiammazione avvengono due fenomeni attivi
principali: vasodilatazione e
vasopermeabilizzazione. La vasodilatazione
permette la dilatazione della muscolatura liscia
periarteriolare e degli sfinteri, aumenta il diametro
del letto vascolare terminale e aumenta la velocità
del flusso (iperemia attiva) che a sua volta fa
aumentare la pressione idrostatica intracapillare che
inizia a far fuoriuscire in modo massiccio il liquido
dal vaso con la formazione di un iniziale essudato.
La vasopermeabilizzazione consiste in una
contrazione delle cellule endoteliali che si staccano
tra loro (prevalentemente a livello del versante venulare del circolo terminale) e in questo modo fuoriescono
proteine plasmatiche che fanno aumentare la pressione oncotica interstiziale la quale richiama ulteriormente
liquido dal vaso nell’interstizio creando un circolo vizioso per cui si accumula essudato (liquido sempre più
ricco di proteine, tipico delle situazioni infiammatorie) nell’interstizio e soprattutto si perde liquido nel vaso
determinando emoconcentrazione con rallentamento della velocità di flusso e stasi.
Questo è il primo step per avere la fuoriuscita delle cellule dotate di attività fagocitica (polimorfonucleati
neutrofili e i monociti macrofagi) che dal sangue migrano nell’interstizio.

L’essudato ha vari meccanismi con cui può essere formato:


a. Per aumento della permeabilità endoteliale
I. Tipo immediato-transitorio (inizio rapido e scomparsa dopo 45 min). Avviene nel versante
venulare del circolo terminale (a livello delle venule) e consiste in un allargamento giunzioni
inter-endoteliali per contrazione attiva delle cellule endoteliali stesse (Cfr. Professor Maino).
Questo processo è mediato da particolari mediatori chimici dell’infiammazione, tra cui
istamina, bradichinina, PAF e leucotrieni (entrambi metaboliti dell’acido arachidonico); esso
è inoltre inibito da antiistaminici.
II. Tipo ritardato-prolungato. Inizia dopo un intervallo di tempo di 2-4 ore e scompare dopo 24-
48 ore o più (spesso è preceduto da fase transitoria). Avviene sempre a livello delle venule
ma anche a livello dei capillari e comporta un allargamento abbastanza stabile delle
giunzioni inter-endoteliali con delle modificazioni degenerative reversibili. Questo
meccanismo è indotto da citochine (non solo le interleuchine), raggi X, ultravioletti, tossine
batteriche (il batterio producendo tossine scaturisce il meccanismo della flogosi che ha
l’obiettivo di eliminare il batterio stesso, quindi “si dà la zappa sui piedi”), trementina.
III. Tipo immediato-prolungato. Ha un inizio
rapido e scomparsa dopo molte ore o
giorni. Comprende tutto il letto vascolare
terminale (arteriole, capillari, venule) ed
è mediato da processi processi
degenerativi che si configurano nei
meccanismi di rigonfiamento cellulare
che poi esitano con la morte per necrosi.
Questo meccanismo è indotto da agenti
irritanti forti (tossina colerica, tossine dei
clostridi, etc...), citochine (IL-8), VEGF.
VEGF è un fattore di crescita che ha una
triplice funzione poiché induce aumento
della permeabilità vascolare ma essendo
un fattore di crescita delle cellule
endoteliali sarà uno dei più importanti
mediatori della neoangiogenesi ossia
della produzione di nuovi vasi da parte
delle cellule endoteliali ed è anche un
induttore dei precursori endoteliali dal
midollo che quindi si muovono dal
midollo osseo e vanno a formare nuovi vasi dove c’è richiamo mediato da VEGF.
b. Per contrazione endoteliale. Riguarda le venule, è un
processo immediato indotto da mediatori vasoattivi
come istamina e leucotrieni.
c. Per danno indotto dai leucociti. Riguarda le venule, è
un processo tardivo e duraturo ed è innescato dal
rilascio di citochine.
d. Per danno diretto. Coinvolge l’intero
microcircolo, è un processo prolungato
ed è innescato da tossine, agenti fisici e
chimici.
e. Per aumento della transcitosi.
Riguarda le venule, è un processo
immediato prolungato ed è innescato dal
rilascio di VEGF.
f. Per la fuoriuscita di liquidi da vasi neoformati (angiogenesi). Coinvolge l’intero microcircolo, è
un processo immediato prolungato innescato dal rilascio di citochine e di VEGF.

12/03/2020
Nella figura seguente è riassunto quello che succede nell’infiammazione. Abbiamo visto che durante il
processo infiammatorio, a livello del microcircolo terminale, osserviamo modificazioni profonde che sono
modificazioni del calibro: inizialmente (non sempre) avviene vasocostrizione seguita da vasodilatazione che
provoca un aumento della velocità del flusso. Stiamo infatti parlando di vasi dove valgono le leggi della
microfluidica, e in particolare la legge di Pouiselle per le condizioni di flusso laminare per cui aumentando le
dimensioni del vaso aumenta la velocità del sangue. abbiamo anche modificazioni strutturali che portano
all’aumento della permeabilità dell’endotelio (con i vari meccanismi già visti) che determina fuoriuscita di
fluidi e di proteine dal plasma; le proteine si accumulano nell’interstizio e hanno diversi effetti, uno è quello
di aumentare la pressione oncotica interstiziale richiamando sempre più liquido, un altro è provocare, a causa
della fuoriuscita di ulteriore liquido, emoconcentrazione nel vaso che produce una stasi, il terzo effetto sarà
portare in loco proteine a funzione difensiva. La stasi (iperemia passiva) ossia il rallentamento del flusso che
si instaura in questa fase è il trigger che innesca i fenomeni cellulari dell’infiammazione: marginazione,
adesione e migrazione dei leucociti (leucocitaria).

I fenomeni che avvengono a livello dei vasi (fenomeni vascolari) associati ai fenomeni cellulari (cioè la
fuoriuscita di cellule dal sangue e il loro arrivo nell’interstizio) cooperano a formare l’essudato
infiammatorio che abbiamo detto essere chiamato anche edema, tipico dell’infiammazione, diverso dalla
trasudazione e da qualsiasi tipo di liquido non infiammatorio, non ricco di proteine e cellule
dell’infiammazione.

Dunque, dopo la formazione di essudato, cominciano ad uscire dal


vaso le cellule (lo avevamo già visto per l’infarto miocardico):
inizialmente escono i neutrofili (dal giorno 1 al 3 rispetto alla
noxa), poi iniziano ad uscire i monociti e ad accumularsi nel tessuto
i macrofagi (dopo il giorno 3), e poi vedremo come i macrofagi
contribuiranno o alla risoluzione completa del processo
infiammatorio, o alla risoluzione con riparazione del processo
infiammatorio (ad esempio con la formazione di una cicatrice a
livello cutaneo o cardiaco) o all’instaurarsi di un fenomeno
infiammatorio di tipo cronico.
Qualunque sia la cellula che fuoriesce in circolo durante il
fenomeno infiammatorio (leucociti ossia moniciti o
polimorfonucleati neutrofili o altri polimorfonucleati in certe
particolari condizioni), gli eventi cellulari sono sempre gli stessi:
inizialmente abbiamo un fenomeno di marginazione cioè il
leucocita si avvicina sempre più all’endotelio, poi comincia a
rotolare (rolling) sull’endotelio ossia sulle cellule endoteliali,
quindi aderisce (adesione) in modo stretto alle cellule endoteliali e
si ferma. L’adesione e il fatto che si ferma significa che inizia a
passare in mezzo alle cellule endoteliali, secondo il fenomeno di
diapedesi. Quindi il leucocita si trova appena fuori il rivestimento endoteliale, dove comincia a muoversi
verso il sito di lesione. Per muoversi è stimolato da un gradiente chimico (stimolo chimico) e questo
movimento innescato da un gradiente chimico è detto chemiotassi. Quindi il leucocita si attiva perché in
qualche modo riconosce l’agente lesivo (noxa) che ha indotto il processo infiammatorio e dopo essersi
attivato lo fagocita, infine induce un danno tissutale (dovuto un po’ al fato che “mangia” tanto e “rigurgita” e
un po’ per altri motivi), che abbiamo detto essere una delle caratteristiche del processo infiammatorio,
sebbene si possa trattare di un danno lieve o di uno più sostanzioso.

Nelle tre figure seguenti si vedono vasi capillari con endotelio (senza lamine) più o meno dilatati e
riconosciamo dentro i vasi la presenza di: globuli rossi molto concentrati (dovuto all’emoconcentrazione),
cellule nucleate con un nucleo non perfettamente tondeggiante né centrale che si vedono via via vicino
all’endotelio vascolare, qualcuna che passa tra le cellule endoteliali (terza figura, freccia nera grande) mentre
altre sono fuori (terza figura, freccia nera piccola). Da queste immagini si rende visivo il fenomeno della
marginazione (il rolling non si vede in una sezione istologica fissata perché è un fenomeno attivo),
dell’adesione, della diapedesi e degli effetti della chemiotassi perché queste cellule si trovano fuori dal
tessuto endoteliale.

La marginazione è l’avvicinamento del leucocita alla


cellula endoteliale ed è una conseguenza del flusso
laminare che tende a tenere i globuli rossi al centro del
vaso e a spostare i leucociti (più pesanti e lenti) verso la
periferia; durante il processo infiammatorio, con
l’emoconcentrazione si ha un rallentamento del flusso e
una stasi, in questa situazione è ancora più facile che il
leucocito si trovi addossato alle cellule endoteliali e
quindi a marginare.
Successivamente il leucocita rotola (rotolamento), si stende sulle cellule endoteliali (attivazione) e infine
passa tra due cellule endoteliali (adesione) entrando nel tessuto dove si muove per chemiotassi. Tutte queste
fasi, a differenza della marginazione, sono
fenomeni attivi che richiedono
l’intervento di molecole presenti sulla
membrana plasmatica dei leucociti e delle
cellule endoteliali. Si tratta di molecole
chimiche (mediatori) che agiscono
principalmente sulle cellule endoteliali.
Nel rotolamento i recettori coinvolti
appartengono alla categoria delle
selectine (P, E, L); la fase di attivazione e
di adesione è mediata da integrine (LFA
1, MAC 1, VLA-4) e da recettori di tipo
immunoglobulinico (ICAM 1, VCAM
1); la diapedesi è fondamentalmente
mediata da un recettore che prende il
nome di PECAM-1.

Nella seguente tabella sono indicate tutte le molecole che mediano le interazioni tra endotelio e leucociti;
sono suddivise, in funzione della loro espressione, sull’endotelio (recettori endoteliali) o sui leucociti
(recettori leucocitari), oppure in funzione del loro ruolo. Quindi ad esempio, il rotolamento è mediato dalla
P-selectina (che si trova sull’endotelio), dalla E-selectina (che si trova sull’endotelio) e in parte dalla L-
selectina (che si trova sul leucocita).
Molecole endoteliali Recettori leucocitari Ruolo
Sialil Lewis-X
P-selectina (oligosaccaride sialilato) Rotolamento
(lectine) PSGL-1 (neutrofili, monociti, linfociti T)
(glicoproteina mucino-simile)
Sialil Lewis-X (oligosaccaride
E-selectina Rotolamento, adesione all'endotelio attivato
sialilato) PSGL-1, ESL-1
(lectine) (neutrofili, monociti, linfociti T)
(glicoproteina mucino-simile)
GlyCAM 1, CD34 Rotolamento dei neutrofili e dei monociti
L-selectina (lectina)
(glicoproteine mucina-simili) Adesione tessuto-specifica dei linfociti
VCAM-1 VLA-4, LPAM-1 Adesione
(immunoglobulina) (integrine) (neutrofili, monociti, linfociti T)
ICAM-1 CD11/CD18, LFA-1, Adesione, arresto, passaggio attraverso
(immunoglobulina) MAC-1 (integrine) l'endotelio (tutti i leucociti)

Le selectine sono proteine appartenenti alle lectine di tipo C (Ca-dipendenti) e, sia a livello endoteliale sia a
livello leucocitario, sono recettori che, oltre a promuovere l’aggancio durante la marginazione, svolgono il
ruolo predominante durante il processo di rotolamento dei leucociti sulle cellule endoteliali. Sono presenti
anche sulle piastrine, dove mediano il processo di rotolamento delle piastrine sulle cellule endoteliali. L’altro
ruolo fondamentale delle selectine, soprattutto della L-selectina (che è quella leucocitaria) è di mediare
l’homing dei linfociti verso gli organi secondari. Infatti, normalmente i linfociti ricircolano nel nostro
organismo dal sangue alla linfa e agli organi linfoidi secondari: l’extravasazione dei linfociti, ossia il loro
passaggio dal circolo nel tessuto dell’organo linfoide secondario (ad es. nel tessuto del linfonodo), è mediata
dall’interazione di questi recettori, le L-selectine, con il loro contrarecettore.

Le selectine sono proteine composte da: un singolo


dominio N-terminale di tipo C-lectina (Lectina), un
singolo dominio di tipo EGF (Epidermal Growth
Factor), diversi domini regolatori del complemento
(CRP), domini transmembrana (TM) e una corta coda
citoplasmatica C-terminale.
L’adesione cellulare tra due cellule provocata dalla selectina è data dal riconoscimento di carboidrati da parte
della lectina Ca-dipendente presente nella selectina. I ligandi della L-selectina (che si trova sui leucociti) si
trovano sulle cellule endoteliali mentre i ligandi per le E- e P-selectine (si trovano sulle cellule endoteliali) si
trovano sui leucociti. I tre tipi di selectina riconoscono glicoproteine e/o glicolipidi che contengono il
tetrasaccaride sialil-Lewis-X (SleX). Il tetrasaccaride SLeX è presente in tutte le cellule circolanti della serie
mieloide (sulle membrane delle cellule epiteliali per legare la L-selectina e sulle membrane dei leucociti per
legare la E- e P-selectina) ed è composto da: acido sialico, galattosio, fucosio, N-acetil-galattosamina.
In tabella ci sono alcuni nomi di carrier che contengono recettori per le varie selectine, tra questi sono
rilevanti il PSGL-1 e CD44.

Come abbiamo già detto prima le selectine si classificano in:


- P-selectine, originariamente individuate nelle piastrine attivate ma espresse anche sull’endotelio
attivato (attivato da mediatori quali istamina). Essa è espressa costitutivamente nei megacariociti, nei
granuli alfa delle piastrine e anche nelle cellule endoteliali dove è presente sotto forma di proteina
preformata in alcuni granuli che prendono il nome di granuli/corpi di Weibel‐Palade, contenenti
anche il fattore di von Willebrand (VWF), che media l’adesione delle piastrine al sottoendotelio.
Proprio perché la selectina è preformata in questi granuli, rapidamente dopo la
stimolazione/attivazione (mediata quasi sempre da fattori chimici quali l’istamina) viene traslocata
sulla superficie cellulare e diventa operativa. Il principale ligando della P‐selectina è il “P‐selectin
glycoprotein Ligand 1” (PSGL‐1) o CD162, sialomucina espressa dai leucociti in proiezioni simili a
microvilli (cellule mieloidi e linfociti T attivati); la P‐selectina lega debolmente alcune forme di
eparina e di eparan- solfato e glicoproteine che portano la struttura SLeX.
- E-selectine, inducibili nell’endotelio vascolare (attivato) dopo stimolazione con citochine (IL-1 e
TNFα). Si trova nelle cellule endoteliali dove è sintetizzata de novo (quindi richiede un pochino più
di tempo per essere presente sulla membrana delle cellule endoteliali) per attivazione trascrizionale
dovuta alla stimolazione da parte di citochine infiammatorie; la coda citoplasmatica della E-selectina
interagisce con il citoscheletro. I suoi principali recettori sono glicoproteine su leucociti che portano
il gruppo SLeX, incluso PSGL‐1. Quando non è più necessaria, la selectina E viene internalizzata in
fossette rivestite di clatrina
- L-selectine, sono solitamente espresse da quasi tutti i leucociti; esse mediano in parte il rotolamento
dei leucociti sull’endotelio mentre la maggior parte media l’homig linfocitario. Tra tutte le selectine è
la più corta; è la selectina leucocitaria infatti è espressa costitutivamente (quindi non va incontro a
modulazione e regolazione) nei microvilli dei leucociti. Il dominio extracellulare si lega a PSGL‐1 e
a glicoproteine che si trovano su cellule endoteliali, ed in particolare su cellule endoteliali
specializzate che si trovano prevalentemente nelle venule del tessuto linfoide periferico/secondario
(ad es. nei linfonodi); tali cellule endoteliali, invece di essere stese e schiacciate, sono cellule
cubiche tanto che le venule che le posseggono vengono dette venule a endotelio alto e sono venule
ricchi di recettori per L-selectina: l’interazione tra questi recettori e l’L-selectina media l’homing dei
linfociti ossia l’ingresso dei linfociti negli organi linfoidi secondari. I livelli di L‐selectina sono
regolati da scissione enzimatica (metallopoteinasi) del dominio extracellulare e dal legame in seguito
all’attivazione dei leucociti
In figura si ha uno schema riassuntivo di quello
che succede durante la fase del rotolamento
leucocitario sull’endotelio. Le selectine
interagendo con il loro recettore inducono una
blanda e saltuaria adesione del leucocita
all’endotelio, rallentando il fluire del leucocita nel
flusso ematico e inducendo così un ulteriore
rallentamento tale che i leucociti cominciano a
rotolare sull’endotelio.

Quindi finora abbiamo analizzato due fasi del


movimento dei leucociti:
- Marginazione: fase iniziale conseguente alle
modificazioni del flusso laminare nei piccoli
vasi
- Rotolamento: i leucociti iniziano a rotolare
formando interazioni transitorie con le
selectine espresse sulla membrana cellulare;
le selectine riconoscono e legano gli
oligosaccaridi sialilati o fucosilati (Siali Lewis-X) delle glicoproteine di superficie (PSGL-1, ligando
1 per P-selectina, P-selectin
- glycoprotein ligand-1). Si hanno E-selectine sulle cellule endoteliali, P-selectine su cellule
endoteliali e piastrine, L-selectine sui leucociti.

In figura un altro schema riassuntivo. Nella fase 1 il leucocita è ancora distante dalle cellule endoteliali.
Nella fase 2 il leucocita inizia il rotolamento sulle cellule endoteliali. Nella fase 3 il leucocita aderisce alle
cellule endoteliali e qui i recettori che entrano in gioco sono le integrine e i loro contrarecettori, ICAM e
VCAM, che appartengono alla superfamiglia delle immunoglobuline.

Le integrine sono recettori eterodimerici ossia formati


da due subunità, una subunità α (in giallo a destra) e una
subunità β (rossa a sinistra). Sono entrambi grandi
proteine transmembranali, che hanno una porzione
transmembrana (bianca in figura), una piccola porzione
citoplasmatica e una grande porzione extracellulare che
fondamentalmente o media l’adesione a molecole della
matrice extracellulare (le integrine riconoscono il
collagene, la fibronectina, la vitronectina, la laminina e
tutte le principali molecole della matrice extracellulare)
o media l’adesione cellula-cellula riconoscendo dei
contrarecettori su altre cellule.
Sono molecole recettoriali fondamentali per la
sopravvivenza cellulare poiché, come dice il nome,
integrano segnali che provengono dal microambiente (in
primis dalla matrice extracellulare) con tutto il corredo di molecole segnalatorie e con l’actina del
citoscheletro, innescando processi di segnalazione che poi esitano nel controllo della proliferazione cellulare,
della sopravvivenza, della migrazione, etc... Quindi le integrine sono rilevanti nel processo infiammatorio,
nell’emostasi, nel tumore, nella differenziazione cellulare e in qualunque evento dove esiste una profonda
interazione tra le cellule e l’ambiente che circonda le cellule.
Le integrine sono di diverse famiglie: secondo il tipo di subunità α e soprattutto secondo il tipo di subunità β,
si riconoscono diverse tipologie di integrine.
In figura al centro sono mostrate le integrine contenenti la subunità β1 che sono la parte predominante e
possono avere come subunità α diverse tipologie
di subunità α. Le integrine contenenti la subunità
β1 sono quasi tutti recettori per il collagene o per
la laminina, quindi per le proteine della matrice
extracellulare. Altre integrine importanti che
riconoscono la matrice extracellulare sono quelle
che contengono subunità β3 e di queste sono
importanti: β3/αV, recettore per la vitronectina,
che è una proteina del plasma della matrice
extracellulare, l’osteopondina, esso inoltre è
fondamentale per lo sviluppo e la funzione degli
osteoclasti; αIIb/β3, che è espressa sulle piastrine
(ed è fondamentale per il fenomeno di
aggregazione delle piastrine) e media
l’aggregazione piastrinica legando il fibrinogeno.
Esiste anche una categoria di interine espressa
esclusivamente nei leucociti, che contengono tutte la subunità β2 e possono legare vari tipi di subunità α
come αL, αM, αX.
Ad oggi, si adotta una nomenclatura soprattutto legata all’utilizzo di FAX per identificare queste molecole
di superficie; FAX utilizza anticorpi che vengono chiamati CD: in tabella sono riportati i sinonimi di questi
recettori usando la nomenclatura con “CD”. La vecchia aLb2 CD11a/CD18 LFA-1
nomenclatura di queste stesse integrine, che però in alcuni testi aMb2 CD11b/CD18 MAC-1/CR3
viene ancora usata, identifica le tre integrine principali espresse aXb2 CD11c/CD18 CR4
sui leucociti con i nomi mostrati nella terza colonna della
tabella.

Le integrine β2 sono specifiche del leucocita, i leucociti però non hanno solo le integrine β2 ma contengono
anche le β1. Le abbiamo viste anche prima e abbiamo visto che sono molto promiscuepoichè si possono
legare a vari tipi di subunità α, tuttavia è più facile ricordarsi le diverse nomenclature poiché ad esempio
α4β1 diventa VLA-4, α5β1 diventa VLA-5, etc... Quello che emerge dalla figura è che i contrarecettori per le
integrine, presenti sulle cellule endoteliali, appartengono alla superfamiglia delle immunoglobuline detta
CAM. Le ICAM (Intracellular CAM) legano fondamentalmente le integrine β2 e LFA-1 mentre le VCAM
(Vascular CAM, ossia dell’endotelio dei vasi) legano le integrine β1, soprattutto VLA-4.

Quindi per semplificare ricordiamo che LFA-1 dei leucociti lega ICAM-1 sull’endotelio mentre VLA-4 sui
leucociti lega VCAM-1 sull’endotelio. Mac-1 lega un po’ ICAM-1 e un po’ VCAM-1, ma il suo ruolo
principale non è questo e lo analizzeremo in seguito.

Quindi a questo punto vediamo cosa succede realmente all’endotelio del vaso e alle cellule leucocitarie.
A seguito del processo di rotolamento, le integrine che si trovano sull’endotelio (fondamentalmente LFA-1)
subiscono un processo di attivazione. L’attivazione avviene grazie a dei segnali che “solleticano i piedi” alle
interine interagendo con il dominio intracellulare delle stesse. Quindi il meccanismo di rotolamento cellulare
mediato dalle selectine porta, fondamentalmente attraverso recettori a 7 eliche transmembrana accoppiati a
proteine G, all’innesco di meccanismi segnalatori intracellulari che attivano le integrine. Le integrine attivate
legano con maggiore affinità il ligando ossia ICAM sull’endotelio, e qui si fermano. ICAM, pur essendo
costitutiva, durante il processo infiammatorio è fortemente upregolata.
Dunque, l’endotelio attivato iperesprime prima P-selectina e E-selectina e poi anche ICAM e VCAM; ICAM
e VCAM, che adesso sono iperespressi, legando il loro contrarecettore sui leucociti (rispettivamente β2-
integrine e β1-integrine) mediano una ferma adesione del leucocita all’endotelio e così il leucocita si ferma
legandosi in modo stretto alla cellula endoteliale. Ma la cellula endoteliale intanto ha subito delle
modificazioni che hanno staccato le giunzioni interendoteliali perciò la cellula leucocitaria oltre a fermarsi
comincia a sentire gli stimoli chemiotattici e così comincia ad andare incontro al processo di diapedesi
(passaggio tra le cellule endoteliali).
Riassumendo, nel processo infiammatorio si hanno dei processi continui di attivazione dell’endotelio e dei
leucociti.
- Attivazione dell’endotelio con ridistribuzione delle molecole
di adesione sulla superficie cellulare endoteliale. Si svolge in
pochi minuti e inizialmente significa aumentata espressione
delle selectine e le P-selectine (dai corpi di Weibel-Palade)
sono upregolate dall’istamina dalla trombina e da PAF.
- Successivamente l’attivazione della cellula endoteliale porta
all’induzione di molecole di adesione sulla superficie
cellulare endoteliale. Il processo richiede una neosintesi
proteica pertanto inizia dopo 1-2 ore, si ha la sintesi di E-
selectina indotta da TNFα, IL-1, IFNs (rilasciati da mastociti,
macrofagi residenti), endotossine (LPS Gram-) e detriti di
cellule morte. Dopo questa fase si ha la upregolazione della
sintesi di V-CAM ed I-CAM (indotta da TNF e IL-1) e dei
recettori GPCRs leucocitari (G protein-coupled receptors o
"seven transmembrane receptors") grazie all’espressione e al
rilascio di chemochine, in particolare delle citochine
infiammatorie (TNFα, IL-1).
- Si ha infine l’attivazione leucocitaria che porta all’aumento
dell’affinità ed avidità di legame. Si ha l’attivazione di
GPCRs operata da chemochine, LTB4, C5a, TNFα, che porta
all’attivazione delle integrine leucocitarie (fondamentalmente LFA-1, VLA-4, Mac-1). L’attivazione
delle integrine provoca una profonda modificazione sia del citoscheletro di actina sia delle
interazioni tra molecole di adesione (della famiglia delle integrine) del leucocita, il quale alla fine di
questo processo passerà attraverso le cellule endoteliali e si recherà all’interno dell’interstizio.

13/03/2020
Riprendiamo dall’immagine la cronologia degli eventi
dell’infiammazione. Inizialmente si ha la formazione
dell’edema ossia la fuoriuscita di un liquido di tipo
essudatizio ricco di proteine, che si accumula
nell’interstizio vascolare (fuori dai vasi) e che è seguito
dalla fuoriuscita dal vaso dei neutrofili e dei
monociti/macrofagi che poi vanno a svolgere la loro
attività nel tessuto.

La figura mostra cosa succede ai leucociti e quali sono i meccanismi che portano lentamente il leucocita a
passare dal circolo all’interstizio, passando attraverso le cellule epiteliali; si vede quindi il rolling,
l’aumentata affinità dei recettori integrinici e inoltre si vede come tutto è innescato dai macrofagi o dai
meccanismi dell’immunità innata, che una volta inglobato il microrganismo, inducono la produzione di
citochine (TNF-α e IL-1), inducono l’attivazione dell’endotelio. Una volta attivato, l’endotelio entra in
congiunzione con i leucociti e, attraverso questo continuo cross-talk tra endotelio e leucociti si innescano
tutti i processi.
Nel sito di infezione i macrofagi che hanno incontrato microbi iniziano a produrre citochine (TNF e IL-1), le
quali attivano le cellule endoteliali dei vasi circostanti a produrre selectine, ligandi per le integrine e
chemochine. Le selectine promuovono un debole legame sui leucociti (neutrofili) circolanti facendoli
rotolare sulla parete; le integrine invece mediano una adesione più forte dei neutrofili e le chemochine ne
aumentano l’affinità di legame, e stimolano la migrazione delle cellule dall’endotelio verso il sito di
infezione. Neutrofili, monociti e linfociti T attivati circolanti usano essenzialmente questi stessi meccanismi
per raggiungere il sito di infezione.
CHEMIOTASSI

Una volta uscito dal vaso (diapedesi), il leucocita si muove


con movimento attivo nel tessuto interstiziale, grazie al
processo di chemiotassi. Il leucocita viene attratto dal
gradiente chimico nel sito dove c’è l’agente patogeno
(noxa patogena) o in generale dove c’è l’infiammazione,
richiamato da uno stimolo chemiotattico, grazie ai
mediatori chemiotattici ossia le chemochine che attivano
l’endotelio (TNF-α e IL-1). Oltre alle chemochine, anche
un altro fattore che è rilasciato nel sito di infiammazione
richiama i leucociti nel sito di infiammazione ed è il C5a,
un prodotto che deriva dall’attivazione del complemento.

Osservando la parte a destra in basso, ritroviamo nuovamente le chemochine e anche un polimorfonucleato


attorniato da fibrille che sono fibrina e fibronectina. Una volta uscito dal vaso e dopo aver risentito
dell’attrazione da parte delle sostanze chemiotattiche, il polimorfonucleato deve trovare una superficie su cui
spostarsi per arrivare al sito dell’infezione: le “rotaie” sono rappresentate da molecole generalmente presenti
nella matrice extracellulare, come ad esempio la fibronectina, ma anche dalla fibrina, prodotta dal clivaggio
del fibrinogeno. Il fibrinogeno normalmente sta in circolo, tuttavia esso fuoriesce in seguito alla
vasopermeabilizzazione e infatti esso è presente nell’essudato. Quindi il clivaggio del fibrinogeno, tra le
varie funzioni, ha anche la produzione di fibrina e quindi di “rotaie” su cui si muovono i neutrofili per
arrivare al punto dell’infezione.

Il termine chemiotassi dal greco chemeia = chimica e taxis = schieramento, è il fenomeno con cui i corpi
cellulari, batteri ed altri organismi uni- o multi-cellulari direzionano i loro movimenti a seconda della
presenza di alcune sostanze chimiche nel loro ambiente. Il termine chemotaxi fu introdotto da Pfeffer nel
1884 per chiamare tutte quelle manifestazioni di sensibilità che gli esseri inferiori presentano verso gli agenti
chimici: definì chemotaxi positiva o negativa a seconda che l'individuo fosse rispettivamente attratto o
respinto.
La chemiotassi è il movimento
leucocitario non casuale ma polarizzato
in direzione del focolaio flogistico.
La chemiotassi quindi è il movimento
direzionato secondo un gradiente di
concentrazione “reazione a mezzo della
quale la direzione della locomozione
cellulare viene determinata da sostanze
presenti nell'ambiente” (Mc Cutcheon,
1946); al contrario, la chemocinesi è un
movimento non polarizzato ma casuale,
“reazione attraverso la quale la velocità
e la frequenza dei movimenti dellulari vengono indotte da sostanze presenti nell'ambiente”.
Il movimento cellulare presuppone 3 requisiti: disporre di un apparato contrattile citoplasmatico; accoppiare
la contrazione alla propulsione in avanti grazie ad interazioni adesive con il substrato; essere in grado di
controllare che la successione dei contatti con il substrato avvenga lungo il fronte del movimento, ovvero che
il movimento sia polarizzato in una determinata direzione.

I principali fattori chemiotattici sono:


• Chemochine. Sono delle citochine (piccole proteine con emivita breve) che mediano segnali tra
cellule e che hanno attivita di tipo chemiotattico. Le principali sono IL-8, MIP (Macrophage
Inflammatory Peptide), MCP (Monocyte Chemotactic Protein), RANTES (Regulated on Activation,
Normal T cell Expressed and Secreted). Si hanno 4 sottofamiglie caratterizzate da 2 a 4 residui di
Cys altamente conservati nella sequenza della molecola:
o CXC-chemochine o α-chemochine, con 2 residui Cys NH2-terminali tra loro separati da un
aminoacido non conservato (X)
o CC-chemochine o β-chemochine, con 2 residui Cys giustapposti
o C-chemochine o γ-chemochine, con 1 residuo Cys in posizione NH2-terminale
o CX3C-chemochine o δ-chemochine, con 2 residui Cys tra loro separati da 3 amminoacidici
La maggior parte delle chemochine umane appartiene alla famiglia delle CXC e CC-chemochine
• Citochine. In particolare, IL1 e TNF che sono prevalentemente citochine infiammatorie ma possono
avere anche attività chemiotattica.
• Componenti derivati dalla cascata complementare e dalla coagulazione-fibrinolisi. Tra questi
abbiamo rispettivamente C5a, C3a, C4a e trombina (enzima chiave della coagulazione),
fibrinopeptidi.
• Metaboliti dell’acido arachidonico. Tra tutti i derivati si ricorda HETE, LTB4 (Leuco-Triene B4),
PAF (Platelet Activating Factor). Il PAF ha anche una funzione molto importante poiché è una
molecola che viene rilasciata dalle membrane delle cellule epiteliali attivate ed è in grado, legandosi
ad un recettore espresso sulla membrana dei leucociti, di attivare i meccanismi di segnalazione che
“fanno il solletico” ai piedi delle integrine. Anche il PAF quindi è una molecola pleiotropica ossia
una molecola con diverse e notevoli funzioni.
• Prodotti della parete batterica. Tra questi si hanno alcuni peptidi formilati ossia formil-peptidi, come
N-formilmetionil-leucil-fenilalanina (fMPL), oppure LPS, lipopolisaccaride o un endotossina.
• Altri componenti. Ad esempio, le sostanze rilasciate dalle cellule morenti ossia i DAMPs (Damage
Associated Molecular Patterns); tra questi abbiamo visto come si instaura un processo infiammatorio
a seguito di un infarto ossia di una morte cellulare per necrosi.

Vediamo adesso i principali fattori chemiotattici e i principali meccanismi che mediano l’induzione del
movimento. I fattori chemiotattici, legandosi a specifici recettori sulla membrana dei polimorfonucleati o dei
monociti/macrofagi o delle cellule leucocitarie, attivano dei meccanismi di segnalazione che impattano sui
meccanismi di assemblaggio del citoscheletro di actina. Tutti questi meccanismi, che mediano il movimento
cellulare e i meccanismi di segnalazione che mediano il rimodellamento dello scheletro di actina, non sono
materia di patologia ma più di biochimica/biologia cellulare.
Il legame della sostanza chemiotattica con i rispettivi recettori della superficie cellulari innesca una serie di
eventi intracellulari che attivano l'apparato citoscheletrico. La cellula leucocitaria acquista una morfologia
polarizzata caratterizzata dall'estensione nella porzione apicale di un lamellipodio, ricco di actina, e nella
porzione caudale da un uropodo ricco di miosina. Queste modifiche complesse comportano l'alternanza dei
seguenti cicli: protrusione di filopodi e lamellipodi in corrispondenza della porzione apicale; adesione al
substrato in corrispondenza di porzioni specializzate dei lamellipodi (focal adhesion plaques); attivazione del
citoscheletro di actina e miosina; distacco in corrispondenza della porzione caudale.

FAGOCITOSI
La fagocitosi (deriva dal greco “phago” = mangiare e “kytos” = cellula) è un processo di ingestione cellulare
di particelle o sostanze estranee di diametro superiore a 0.5 µm, potenzialmente dannose per l’organismo,
operato dai fagociti. I fagociti si distinguono in base alle capacità fagocitarie:
- Fagociti professionali: neutrofili, eosinofili, monociti/macrofagi, cellule dendritiche(?)
- Fagociti non professionali: fibroblasti, cellule endoteliali, cellule epiteliali. Si tratta di cellule in cui,
a differenza dei fagociti professionali, la principale funzione non è la fagocitosi.
Noi ci focalizziamo sui fagociti professionali ossia neutrofili, eosinofili e monociti/macrofagi. I fagociti
professionali sono capaci di fagocitare batteri, miceti, protozoi, corpi estranei, frammenti di fibrina, materiale
necrotico e perfino intere cellule (per es. gli eritrociti). Durante la fagocitosi, i fagociti professionali liberano
sostanze, ad esempio le citochine pro-infiammatorie che, oltre a potenziare la flogosi, possono anche
innescare la risposta immunitaria reclutando i linfociti, in quanto possono presentare l’antigene ai linfociti T.
La presentazione di antigeni derivati dalle particelle ingerite è un’altra funzione dipendente dalla fagocitosi:
quando un macrofago (APC professionale) fagocita un microrganismo/antigene, potenzia i meccanismi che
gli permettono di diventare un’ottima APC.
I fagociti professionali fagocitano anche i globuli rossi invecchiati e i residui apoptotici. In corso di
ingestione di residui apoptotici, i fagociti professionali non emettono segnali proflogistici, ma liberano
mediatori antinfiammatori, impedendo così ulteriori danni ai tessuti. La fagocitosi dei residui apoptotici è
operata anche dai fagociti non professionali (epiteli, endoteli) che contribuiscono all’omeostasi tissutale.

Il processo di fagocitosi
prevede diverse fasi:
riconoscimento ed adesione
(può riguardare materiale
inerte o essere mediato da
recettori); ingestione del
materiale adeso (invaginazione
della membrana che
circondano l’oggetto da
fagocitare e formano vescicole,
trasporto delle vescicole e
fusione con i lisosomi a
formare fagolisosomi);
uccisione o degradazione del
materiale ingerito (con
meccanismi ossidativi e non
ossidativi).
In figura si vede che nel vacuolo che si forma, si riversano i granuli del polimorfonucleato e in particolare
vengono prodotti dei radicali dell’ossigeno (O2- e H2O2), prodotti dall’attività della NADPH-ossidasi.
Successivamente, grazie alla formazione di ulteriori radicali (ad. esempio alogenati) si ha la distruzione del
microrganismo.
FASE 1 - RICONOSCIMENTO ED ADESIONE. Il riconoscimento da parte del fagocita del materiale che
deve essere ingerito, non è un riconoscimento specifico; i fagociti non hanno recettori specifici per l’antigene
e quindi non hanno recettori specifici per ogni microrganismo da fagocitare. Quindi si sfruttano altri
meccanismi, più generici, che consentono di “riconoscere” l’antigene e quindi di effettuare l’adesione.
Il riconoscimento può avvenire con opsonizzazione (fagocitosi con opsonizzazione o riconoscimento
indiretto) o senza tale meccanismo e quindi tramite recettori non classificabili come opsonizzanti
(riconoscimento diretto). Nel riconoscimento indiretto i recettori presenti sulla superficie dei fagociti
riconoscono proteine legate sulla superficie di diversi organismi patogeni (assenti sulle cellule dei
Mammiferi). Nel riconoscimento diretto, i recettori sulla superficie del fagocita riconoscono proteine che si
trovano sulla superficie del patogeno, dette opsonine.

L’opsonizzazione è un processo che “riveste” l’oggetto da fagocitare per renderlo più “riconoscibile” e la
fagocitosi con opsonizzazione può essere mediata da opsonine:
- Mediata da immunoglobuline (anticorpi). Le immunoglobuline sono di varie classi e sono formate da un
frammento Fab, che riconosce l’antigene, e un frammento Fc, che è la parte “fissa”; le immunoglobuline
agiscono da opsonizzanti perché sulla membrana dei fagociti esistono recettori che legano il frammento
Fc dell’immunoglobulina. Le opsonine principali sono le IgG, che sono riconosciute dai recettori FcγR
(Fc = recettori per la porzione Fc; γ = immunoglobulina IgG; R = recettore) presenti sui fagociti.
- Mediata dal complemento (C3b e iC3b). In
particolare, i recettori (CR) per i frammenti
C3b e iC3b del complemento sono: CR1
(CD35) per iC3b e CR3 (CD11b/CD18) o
Mac-1 (Macrophage 1 antigen), un’integrina
αMβ2 implicata anche nella adesione
leucocitaria ad ICAM-1 endoteliale
- Mediata da opsonine non specifiche. Le
opsonine non specifiche sono il fattore XII
della coagulazione, la
fibronectina/vitronectina, la proteina serica P
dell'amiloide (SAP), la proteina C reattiva
(PCR o CRP).
Le due principali opsonine sono IgG, riconosciute da un recettore per Fc, e C3b, riconosciuto da recettori
specifici per il complemento.
In tabella seguente, vediamo l’elenco dei recettori.

Tra questi dobbiamo ricordarci CR1 (CD35) ma soprattutto CR3, integrina presente anche nei meccanismi di
diapedesi leucocitaria. Tale recettore media l’adesione dei leucociti all’endotelio ed è un recettore del
complemento, quindi diventa fondamentale in questa fase quando il fagocita, dopo essere uscito dal vaso e
dopo essere stato richiamato per chemiotassi al sito di danno, mette in atto il meccanismo primario della
fagocitosi ossia inizia a riconoscere il patogeno.

La fagocitosi di superficie senza opsonizzazione può avvenire grazie al fatto che i fagociti sono dotati di
recettori che riconoscono sequenze ripetute/conservate, sulla superficie di diversi microrganismi. Ad
esempio, riconoscono: i recettori del mannosio, come MBL e lectine che legano i residui di mannosio e
fucosio delle glicoproteine e dei glicolipidi della parete batterica (E. coli); il recettore CD11/CD18,
appartenente alle β2 integrine e posseduto da vari microrganismi (S. aureus, Streptococco gruppo B,
Bordetella pertussis, Histoplasma capsulatum, Leishmania, Zymosan presente nella parete dei lieviti); TLRs
(Toll like receptors); recettori scavenger.
La fagocitosi diretta può avvenire anche per pinocitoci in fase fluida o per assunzione diretta (?).

I TLR sono recettori coinvolti nell’immunità innata. Le principali cellule coinvolte nell’immunità innata
sono i fagociti (polimorfonucleati neutrofili e monociti/macrofagi) e le cellule NK.
Nella tabella seguente invece vediamo le differenze tra immunità innata e immunità adattativa, anche se per
adesso ci interessa solo l’immunità innata.

Le cellule principali dell’immunità innata sono fagociti e cellule NK; i meccanismi dell’immunità innata
impiegano pochi minuti ad entrare in atto e perdurano per alcune ore. L’immunità innata non ha memoria
(contrariamente all’immunità adattativa), anche se può essere più o meno “allenata”.
I recettori dell’immunità innata rientrano nella categoria dei Pattern Recognition Receptors o PRR, che non
sono recettori clonali e differiscono dai recettori per l’antigene dell’immunità adattativa che hanno come
caratteristica peculiare elevata affinità e specificità insieme alla variabilità: i PRR infatti non hanno alta
specificità né alta affinità tuttavia diversi tipi di PRR possono essere espressi sulla stessa cellula.
I PRR possono essere localizzati sulla
membrana o nel citosol delle cellule
dell’immunità innata, oppure possono essere
rilasciati nell’ambiente extracellulare e ritrovarsi
nel sangue e/o nei liquidi biologici. Quindi i
PRR possono essere suddivisi come in tabella:
recettori solubili, recettori di membrana e
recettori citoplasmatici.
Tra i recettori solubili troviamo i fattori del
complemento e in particolare quelli che
derivano da C3 (terzo fattore del complemento),
le collectine (in particolare MBL), le ficoline e
le pentrassine (in particolare la proteina C
reattiva). La proteina C reattiva sarà coinvolta
anche negli effetti sistemici della flogosi e nella
diagnostica di laboratorio del processo
infiammatorio. Essa, oltre ad avere significato
diagnostico, ha anche un importante significato
biologico in quanto è uno dei recettori solubili
dell’immunità innata.
I recettori di membrana sono i recettori lettinici come il recettore per il mannosio (il mannosio è molto
espresso sulla membrana di certi patogeni), i recettori scavenger, i recettori per i peptidi formilati (molti
microrganismi sono molto ricchi di formil peptidi che non si trovano nelle cellule dei Mammiferi) e i TLR.
I recettori citoplasmatici appartengono alla famiglia NOD (che entrano a far parte dell’inflammosoma) e
RIG. In figura seguente si vedono le proteine citosoliche della famiglia NLRs (NOD-Like Receptors) come
NOD1 e NOD2 e il recettore NALP3, che forma l’inflammosoma.
In figura è schematizzata la localizzazione dei recettori dell’immunità innata (solubili, di membrana e
citoplasmatici). Si nota che i TLR possono essere anche citoplasmatici, in particolare TLR3,7/8,9, mentre
TLR1,2,4,5,6 sono recettori di membrana. Dalla figura si vede anche che un meccanismo segnalatorio
comune ai TLR di membrana e ai TLR citoplasmatici è rappresentato dalla proteina MyD88: essa stessa
impatta sulla regolazione del fattore di trascrizione NF-kB. Quindi questa via è estremamente importante
perché va a regolare diversi effetti sulle cellule dell’immunità innata.

Nella figura seguente invece si vedono i recettori per i peptidi formilati che si distinguono in recettori ad alta
affinità, che legano esclusivamente i peptidi formilati (caratteristici di alcuni microrganismi patogeni), e in
recettori a bassa affinità, che oltre ai peptidi formilati possono legare anche le lipossine, la proteina serica A
dell’amiloide e il β-amiloide.

Entrando nel dettaglio dei TLR abbiamo già detto che si tratta di una famiglia piuttosto numerosa infatti
nell’uomo sono stati identificati 10 geni che codificano per diversi TLR (13 in generale), che attivano i
leucociti in risposta a differenti componenti microbiche. Essi mediano le risposte cellulari a lipopolisaccardi
batterici (LPS o endotossine), proteoglicani, batterici, nucleotidi CpG non metilati, RNA a doppia elica
virale. Il meccanismo di azione si basa su chinasi associate al recettore che stimolano la produzione di
citochine e sostanze microbicide. In figura sono anche ripostati i principali ligandi dei TLR.
I TLR, come già detto sopra, appartengono ai PRR ovvero recettori capaci di legare particolari molecole
espresse sui microrganismi, i cosiddetti PAMP. I PAMP (Pathogen- o Parasite- Associated Molecular
Pattern), corrispondono a caratteristiche molecolari della superficie dei microrganismi patogeni (miceti,
batteri) che non sono presenti nelle cellule dell'organismo. I PAMP possono essere: composti della parete
batterica come LPS, mannosio; acidi nucleici (DNA o RNA virale o batterico); peptidi batterici (es.
flagellina); peptidoglicani batterici (Gram-) e glicani fungini N-formilmetionina; lipoproteine.
Oltre ai PAMP i TLRs legano anche i DAMP (Danger- o Damage- Associated Molecular Pattern) ossia
ligandi endogeni prodotti durante il danno. Tra i DAMP troviamo proteine extracellulari (fibronectina,
eparansolfato, acido ialuronico e suoi frammenti, fibrinogeno), proteine intracellulari (tenascina, miosina
cardiaca, proteina S-100, HSPs), molecole inorganiche (es. cristalli di urato monosodico). I DAMP
normalmente non interagiscono con i TLRs ma in condizioni patologiche (es. flogosi, morte cellulare) i
ligandi endogeni possono essere liberati passivamente dalle cellule oppure secreti dalle cellule stimolate e
resi quindi disponibili per i TLRs. Ecco perché quando si ha un danno cellulare o una necrosi cellulare, si
evoca un processo infiammatorio, perché durante il danno solo liberati i DAMPs, che verranno riconosciuti
dalle cellule dell’immunità innata e scateneranno un meccanismo atto a liberare certi mediatori
dell’infiammazione.
Il legame dei TLRs induce la sintesi e la liberazione di peptidi con proprietà antimicrobiche nei mammiferi la
risposta ai TLR consiste sia nella produzione di peptidi antimicrobici (per esempio, le difensine leucocitarie)
sia nella produzione di citochine che amplificano la risposta infiammatoria. I TLRs, grazie alle cascate
segnalatorie da essi innescate, parteciperebbero cosi non solo alla difesa contro le infezioni, ma anche al
reclutamento di cellule immunitarie, all’induzione della flogosi e al processo riparativo. L’infiammazione
mediata dai TLRs anche in assenza di batteri potrebbe essere importante in diverse patologie, quali il danno
da ischemia-riperfusione, le malattie autoimmunitarie, ARDS, l’aterosclerosi e perfino lo sviluppo dei tumori
maligni.

In figura è mostrato cosa succede


quando un TLR lega un PAMPs
(nell’esempio è LPS). Le vie di
trasduzione del segnale sono diverse
secondo dove il recettore è espresso
(monocito o cellule epiteliale) tuttavia
le vie convergono a livello di MyD88
e sulla regolazione di NF-kB. Si ativa
qualcosa nella cellula dell’immunità
innata. Cosa?
Un esempio di ciò che si attiva è
l’inflammosoma.
Abbiamo detto che l’inflammosoma è un insieme di proteine citosoliche appartenenti alla famiglia NLR; il
più studiato (in quanto estremamente
rilevante) è NALP3. La composizione
molecolare di NALP3 è complicata e non
importa ricordarla. Ricordiamo però che
l’inflammasoma NALP3 è attivato da
microrganismi patogeni (riquadro a sinistra
in figura) o da altri composti (riquadro a
destra in figura). L’attacco di gotta,
estremamente doloroso, è scatenato dalla
precipitazione di sali di acido urico a livello
delle piccole articolazioni; la precipitazione
di acido urico innesca un fenomeno a
cascata che attiva l’inflammosoma.
L’inflammosoma attivo, attiva una caspasi
che cliva e attiva alcune citochine (vedi
figura).
L’inflammosoma, rappresentato da diversi complessi multiproteici oltre che NALP3, attiva la Caspasi 1 e
induce la maturazione di IL-1β con la maturazione delle cellule dell’immunità innata che secernono
anch’esse IL-1β e così si ha un loop. La molecola di IL-1β recluta nuove cellule dell’immunità innata e le fa
fuoriuscire dal circolo sanguigno poiché attiva l’endotelio, attiva il rolling e l’adesione. Tali cellule arrivano
nel locus interessato poiché si sono verificati i fenomeni che hanno portato alla vasodilatazione, all’iperemia,
alla vasopermeabilizzazione e alla stasi. Si tratta quindi di un circolo virtuoso (che ci protegge) o vizioso (se
determina stati di malattia) che configura il complesso fenomeno dell’infiammazione.

FASE 2 – INGESTIONE DEL MATERIALE ADESO.


Il fagocita estende delle estroflessioni di membrana intorno al
microrganismo che si chiudono a cerniera attorno ad esso,
formando una vescicola intracellulare detta fagosoma. Il
fagosoma neoformato si fonde con vescicole citoplasmatiche
note come "early endosome" e si trasforma in fagosoma
immaturo. La fusione con altri compartimenti membranari
(MVB, multivesicular body, LE, late endosome) dà origine al
fagosoma maturo. Infine, la fusione con i lisosomi origina il
fagolisosoma. Nella formazione del fagolisosoma si ha accumulo
di ATPasi che provvede a concentrare idrogenioni nel fagosoma.
All’interno del fagolisosoma i vari enzimi collaborano per
operare la digestione del patogeno formando il corpo residuo. Il
materiale residuo viene poi eliminato mediante esocitosi.

FASE 3 – UCCISIONE. L’uccisione del microrganismo può


avvenire per meccanismi vari:
- Meccanismi indipendenti dall’ossigeno ossia ossigeno indipendenti. In questo caso l’uccisione avviene
tramite diverse sostanze contenute nei lisosomi ossia:
o Lisozima. Si tratta di un enzima che scinde il legame tra N-acetilglucosamina e acido muramico del
polisaccaride costituente la parete dei batteri Gram+.
o Enzimi idrolitici. Ad esempio protesi, fosfolipasi, nucleasi, attivi contro alcuni batteri Gram+.
o Defensine. Costituiscono dei modelli per la sintesi di nuove molecole anti-infettive. Sono piccoli
peptidi anfifilici (5 kDa) con potente azione battericida contro numerosi batteri, miceti e virus.
Formano legame elettrostatico alle membrane batteriche seguito dalla formazione di pori oppure
formano legame a particolari strutture della superficie batterica quali il lipide II.
o Proteina aumentante permeabilita batterica, BPIP (Bacterial permeability increasing protein). Essa
è attiva contro i batteri Gram-, inoltre è dotata di molte cariche positive, pertanto reagisce con le
superfici batteriche dotate di carica negativa.
o Proteine cationiche. Ad esempio, la proteina cationica degli eosinofili, ECP (Eosinophil cationic
protein) che ha ruolo preminente contro i metazoi ma ha anche attività battericida (aumento della
permeabilita).
o Peptidi antimicrobicidi e citotossici. Ad esempio, la lattoferrina agisce principalmente legando il
ferro, fattore di crescita indispensabile per i batteri.
- Meccanismi ossigeno-dipendenti (si parla di burst respiratorio). Si può avere produzione di radicali
attivi dell’ossigeno (ROS) o produzione di acido ipocloroso HOCl e cloroamine RNHCl.
I fagociti professionali derivano la loro energia prevalentemente dalla glicolisi. Durante la fagocitosi
tuttavia l’aumento del consumo di ossigeno cosiddetto “burst” respiratorio o esplosione respiratoria, non
è sfruttato per la produzione di ATP e inoltre è insensibile agli inibitori della respirazione, quali CN.
Infatti, il burst respiratorio non serve per la produzione di ATP, ma per la produzione di potenti agenti
ossidanti. Il burst respiratorio è quindi caratterizzato da: aumentato consumo di glucosio ed ossigeno,
attivazione dello shunt dei pentoso-fosfati (produce NADPH), produzione di radicali ossidanti.
L'enzima chiave è la NADPH ossidasi, specifica dei fagociti. Il complesso molecolare NADPH ossidasi
è costituito da 5 subunità. Si hanno 2 molecole proteiche di membrana dette p22phox (subunità α) e
gp91phox (subunità β) che formano il complesso denominato citocromo b558, inserito sulla membrana
cellulare e su quella di specifici granuli e vescicole secretorie del granulocita neutrofilo; il citocromo
b558 contiene due gruppi eme e due gruppi FAD necessari per il trasporto degli elettroni dall’NADPH
citoplasmatico all’O2 contenuto nel fagosoma. Si hanno poi 3 molecole proteiche presenti nel
citoplasma, dette p47phox, p67phox e p40 phox (coinvolta nella stabilizzazione del complesso
p47/p67phox). Infine, si ha anche una G proteina citosolica a basso peso molecolare (rac-1 o rac2).
In seguito all’attivazione cellulare, indotta da vari stimoli (microorganismi o peptidi batterici
opsonizzati, frazione C5a del complemento, ecc.) le proteine citosoliche p40, p47 e p67phox vengono
fosforilate, e quindi traslocano sulla membrana plasmatica, dove interagiscono con il complesso del
citocromo b558 determinando così il definitivo assemblaggio del complesso enzimatico NADPH
ossidasi.

In figura sono mostrate tutte le molecole sopra-citate. Alcune proteine, come p22 e gp91, stanno sulla
membrana in modo costitutive. Quando arriva uno stimolo infiammatorio, che induce la fagocitosi, le
proteine citosoliche traslocano sulla parte interna della membrana, si aggregano alle due proteine
transmembrana e ne attivano la funzione. L’effetto finale è che viene facilitato il trasporto di elettroni
attraverso il citocromo.
Una volta che la NADPH ossidasi è stata
attivata, a seguito della traslocazione delle
fosfoproteine citoplasmatiche, il citocromo
prende gli elettroni al NADPH (che così si
ossida) e li trasferisce ad una molecola di
ossigeno generando l’anione superossido.
Dunque, l’attivazione del complesso
NADPH ossidasico porta alla generazione
dell’anione superossido per trasferimento di
elettroni da NADPH all’ossigeno
molecolare.
Quindi si avrà:

Dall’acqua ossigenata che si forma, in presenza di mieloperossidasi MPO (contenuta nei lisosomi) viene
riversata nel fagolisosoma e questa, in presenza di alogenuri (cloruro, bromuro o ioduro) forma altre
molecole ossidanti come acido ipocloroso HOCl, acido ipobromoso HBrO, acido ipoiodoso HIO,
cloroamine e ossigeno singoletto 1O2. La cloroamina e l’ossigeno singoletto sono generati
indirettamente a partire rispettivamente dall'interazione di HOCl con le amine o con il perossido di
idrogeno:
In figura si vede il fagocita (in questo caso un
neutrofilo), che grazie al burnst respiratorio e
all’attivazione della NADPH ossidasi genera
anione superossido e grazie alla SOD
(superossido dismutasi) genera acqua
ossigenata. A partire dall’acqua ossigenata in
presenza di ferro, tramite la reazione di
Fenton, si genera radicale idrossilico. Inoltre,
grazie alla cooperazione di mieloperossidasi
e alogenuri si generano altre sostanze ad
azione battericida come acido ipocloroso
(HOCl), che insieme a OH∙ induce la
demolizione del batterio fagocitato.

- Meccanismi azoto-dipendenti. Si ha la produzione di specie reattive dell’azoto come NO (monossido di


azoto) mediata dell’enzima iNOS (sintetasi inducibile da ossido nitrico) che catalizza la conversione
dell’arginina a citrullina. I fagociti attivati (es. macrofagi) esprimono elevati livelli di NOS (sintetasi
dell'ossido nitrico) che sintetizza NO (ossido nitrico) a partire dall’arginina.

NO è anche un potente mediatore dell’infiammazione in quanto è uno dei più potenti vasodilatatori.

18/03/2020
Da non molti anni è stata identificata una nuova attività microbicida ossia la formazione, da parte dei
neutrofili, dei NETs (Neutrophil Extracellular Traps), “reti” formate da acidi nucleici, istoni ed enzimi, che
immobilizzano i batteri formando una barriera fisica che impedisce l’ulteriore diffusione dei batteri,
facilitandone l’uccisione. I neutrofili attivati rilasciano fibre extracellulari composte da cromatina, serino
proteasi che si sono dimostrate in grado di uccidere batteri e funghi.
La formazione di queste maglie è un processo attivo che può essere provocato da diversi stimoli (PMA, IL-8,
LPS, batteri) ed è caratterizzato dalle seguenti fasi: cambiamento della forma cellulare, condensazione
dell’etero- ed eu-cromatina, disintegrazione della membrana nucleare, rottura della membrana plasmatica
con rilascio di NETs. Le specie reattive dell’ossigeno prodotte dall’attivazione del complesso NADPH
ossidasi sembrano coinvolte nella formazione dei NETs.
I NETs sono formati principalmente da cromatina (15-17 nm di diametro), costellata da una serie di
strutture globulari di circa 50 nm di diametro. I filamenti di cromatina sono composti da DNA e istoni e
rappresentano circa il 70% del totale delle molecole cha vanno a formare queste trappole. La composizione
dei filamenti comprende strutture globulari, formate dai granuli primari e secondari dei neutrofili.
Sorprendentemente, i NETs possono avere anche una struttura non classica (allungata), infatti può assumere
la struttura cloud-like, aumentando anche di 15 volte le dimensioni iniziali della cellula.
L’attivazione e la generazione del processo NETotico si sviluppa attraverso diversi passaggi: la generazione
di radicali dell’ossigeno da parte di NADPH ossidasi, la traslocazione della mieloperossidasi dai granuli
citoplasmatici dei neutrofili ai nuclei, la conversione dei residui di arginina in citrullina tramite l’azione di
PAP4 (necessaria per la decondensazione della cromatina prima del rilascio di NET), infine la rottura della
membrana plasmatica cellulare. La formazione di NETs da parte di neutrofili non dipende solo dall’attività
della NADPH ossidasi, con produzione di superossido (necessario sia per la distruzione dei patogeni, sia
per la risoluzione del quadro infiammatorio), ma anche dal meccanismo di autofagia. In NETs quindi sono
composti da cromatina nucleare, associata principalmente a istoni H3, a granuli proteici antimicrobici e
anche da altre proteine citoplasmatiche.
Gli effetti antimicrobici dei NETs consistono nell’intrappolare i patogeni e successivamente distruggerli e
degradarli attraverso la liberazione delle sostanze come ROS, mieloperossidasi ed elastasi. Questa rete di
filamenti ricchi di sostanze in grado di distruggere microbi viene prodotta dai neutrofili in risposta a stimoli
infiammatori (TNF-α, IL-8, LPS) o microrganismi patogeni (batteri, funghi, protozoi) che possono
modificare la struttura cellulare e produrre sostanze (es. DNAsi) che inattivano questo meccanismo di difesa
immunitaria.
La formazione dei NETs può avvenire attraverso due differenti pathway (vedi figura seguente). La NETosi
classica, un processo di morte cellulare lenta, caratterizzato da un iniziale disassemblaggio dell’envelope
cellulare seguito dalla depolarizzazione cellulare e dalla decondensazione della cromatina che
consentiranno la formazione della struttura finale del NET, che potrà essere rilasciata soltanto dopo la lisi
della membrana plasmatica del neutrofilo. Esiste anche un meccanismo non-litico di NETosi, quindi
indipendente da fenomeni di morte cellulare, caratterizzato dalla rapida espulsione della cromatina
nucleare, in concomitanza al processo di degranulazione, che consentirà l’assemblaggio della struttura
finale del NET ossia l’assemblaggio si fibre, cromatina e proteine dei granuli a livello dello spazio
extracellulare, lasciando una cellula anucleata ma ancora vitale e capace di fagocitare il patogeno

Ad oggi, i NET son considerati un’arma a doppio taglio poiché, oltre al ruolo principale di difesa
antibatterica, molti studi hanno associato i NETs a vari tipi di malattie, come ad esempio i disordini
alimentari autoimmuni, metastasi, vasculiti, disordini metabolici, patologie cardiovascolari. Secondo recenti
evidenze, il targeting di specifiche componenti coinvolte all’origine del processo di NETosi potrebbe
rappresentare una valida strategia terapeutica nell’ambito di queste patologie.
Recentemente, vari studi hanno sottolineato il ruolo dei NETs nei fenomeni di immuno trombosi; i NETs
infatti oltre a rappresentare uno scaffold che può favorire la formazione di trombi, contengono elementi che
sono in grado di attivare in modo diretto/indiretto le piastrine e la coagulazione. Le fibre di NETs possono
contenere o intrappolare vari fattori che le renderebbero strutture extravasali ad azioni pro-coagulante; tra
questi fattori troviamo fibronectina, vWF, TFPI, il fattore tissutale (si deposita sulle fibre dei NETs), gli
acidi nucleici (RNA lega sia XII che XI). Inoltre, microparticelle, complessi immunitari, citochine e
chemochine, piastrine, varie cellule del sistema immunitario ed altre molecole sono in grado di attivare
meccanismi che determinano il rilascio di NETs.
La sindrome di Behcet è stata recentemente definita come un modello di trombo-infiammazione. Tale
sindrome è definita come una vasculite sistemica ossia uno stato infiammatorio a carico dei vasi di vari
distretti anatomici; essa è caratterizzata da manifestazioni a vari livelli extravascolari (gastrointestinali,
oculari, neurologiche e cutanee) e ciò consente una diagnosi. Tuttavia, sono proprio le manifestazioni
extravascolari a definire la morbidità e la mortalità associata alla sindrome. Nell’ambito di questa
patologia i neutrofili hanno ruolo centrale, tuttavia sono i due meccanismi principali di killing dei neutrofili
(produzione di ROS e il processo di NETosi) a determinare la comparsa di eventi trombotici nei pazienti
determinando la diatesi trombotica. In uno studio effettuato a Firenze, è stato visto che pazienti affetti da
tale sindrome hanno livelli di ROS molto più elevati dei controlli, insieme ad un aumento dell’attività della
NADPH ossidasi. In questi pazienti quindi si definisce uno stato di stress ossidativo che, secondo questo
lavoro, è associata alla modificazione ossidativa (carbossilazione) e quindi strutturale del fibrinogeno. Tale
modificazione è alla base dell’aumentata resistenza della digestione del coagulo operata della plasmina.
In un altro studio, si investiga il ruolo dei NETs nei pazienti affetti da sindrome di Behcet; si vede come le
componenti principali dei NETs sono aumentati nei pazienti rispetto ai controlli sani e tali componenti
aumentano proporzionalmente allo stato di avanzamento della patologia.
Quindi le due principali vie di killing dei neutrofili sono in grado di determinare la diatesi trombotica dei
pazienti e pertanto il rilascio di NETs è davvero un’arma a doppio taglio.
Andiamo adesso ad analizzare come mai la fagocitosi talvolta può essere dannosa per l’ospite. Durante la
fagocitosi infatti può avvenire un “rigurgito dei prodotti ingeriti” infatti talvolta, soprattutto se il rapporto
particelle/fagociti è elevato, si verifica la liberazione degli enzimi lisosomali (e radicali dell’ossieno) prima
della chiusura del fagosoma, per cui parte di essi si riversano nell’ambiente extracellulare.
Si può anche avere una situazione di fagocitosi frustrata che si verifica quando la particella da fagocitare è
troppo grande e non può essere fagocitato, per cui i fagociti vi aderiscono “bombardandola” con i propri
enzimi. Questo meccanismo accade nei macrofagi alveolari quando cercano di fagocitare fibre di amianto - si
ritiene che questo fenomeno possa essere alla base della cancerogenecità dell'asbesto.
Infine, si può avere anche la fagocitosi di superficie, dove il fagocita è facilitato nell'ingestione di un batterio
o di altro materiale estraneo “scivoloso” se lo costringe contro una superficie resistente (es. fibrina,
collageno). La fagocitosi di superficie è frustrata da biofilm batterici (mucillagine).

I microrganismi, per evitare la fagocitosi, possono mettere in atto vari meccanismi:


- Evitare il contatto con i fagociti
o Invasione o confinamento in regioni inaccessibili ai fagociti (il lume delle ghiandole o tessuti
superficiali come la pelle, che non sono pattugliati da fagociti);
o Indurre una risposta infiammatoria
o Inibire la chemiotassi. Alcuni esempi sono: la streptolisina streptococcica, che oltre ad uccidere
i fagociti inibisce la chemiotassi neutrofila, i prodotti del Mycobatterium tubercolosis che
inibiscono la migrazione di leucociti; la tossina del Clostridiu, che inibisce la chemiotassi
neutrofila.
o Mascherare gli antigeni di superficie. Alcuni patogeni possono coprire la superficie della cellula
batterica con un componente che è visto come “self” dai fagociti e dal sistema immunitario
- Evitare l’ingestione. Esistono varie strategie con cui i batteri possono evitare l’ingestione da parte dei
fagociti che hanno aderito alla loro superficie
o Presenza di sostanze che inibiscono l'ingestione. Queste sostanze sono: i polisaccaridi della
capsula di S. pneumoniae, Haemophilus influenzae, Treponema pallidum e Klebsiella
pneumoniae; la proteina M e le fimbrie di Streptococchi di gruppo A; polisaccaride prodotto da
Pseudomonas aeruginosa; antigene associato al LPS di E.Coli; antigene K di E.Coli e antigene
Vi di Salmonella typhi; proteina A di Stafilococco aureo.
o Fuga rapida dal vacuolo fagosomico. Si tratta di una strategia impiegata dalle Rickettsie, che
producono una fosfolipasi che lisa la membrana del fagosoma entro trenta secondi dopo
l'ingestione.
- Sopravvivere all’interno del fagocita. I parassiti intracellulari sopravvivono generalmente grazie a
meccanismi che interferiscono con l’attività battericida della cellula ospite.
o Indigeribilità ad opera del contenuto dei lisosomi. La formazione del fagolisosoma avviene ma i
batteri resistono all'uccisione ad esempio per la presenza di sostanze indigeribili della capsula
batterica o della superficie batterica (es. Bacillus antracis, Micobacterium tuberculosis,
Stafilococcus aureus)
o Impedire il rilascio del contenuto lisosomiale all'interno del fagosoma. L’inibizione della
formazione del fagolisosoma è operata da Salmonella, M. tuberculosis, Legionella e Clamidie.
In particolare, M. tuberculosis blocca l’acidificazione del lisosoma e lo obbliga a fondersi con
endosomi che contengono il recettore per la transferrina; inoltre, produce proteine e lipidi che
arrestano la maturazione del fagosoma. Grazie a questo meccanismo M. tuberculosis rimane
nella cellula e sviluppa le proprie caratteristiche patogenetiche.
o Induzione della lisi dei fagosomi. Il microrganismo L. Monocytogenes produce una tossina
formante pori e delle lipasi che insieme distruggono la membrana del fagosoma.
o Formazione di un vacuolo “privato”. Ad esempio, Chlamidya trachomatis si costruisce un
proprio vacuolo (cosiddetta inclusione) nella quale continua a replicarsi; T. gondii invade i
fagociti e risiede in vacuolo formato da plasmamembrana, ma che non si acidifica, il toxoplasma
poi, induce la formazione di un poro in questo vacuolo cosi da potersi approvvigionare di
nutrienti dal citoplasma.
Esistono alcune malattie (malattie rare) in cui si ha un deficit della fagocitosi perché i leucociti non
funzionano in modo adeguato. In particolare, si può avere una riduzione del numero di leucociti circolanti
(leucopenia) o un’alterazione dei leucociti. La leucopenia può essere rappresentata da una diminuzione del
numero di granulociti neutrofili quindi sarà una neutropenia, oppure può essere rappresentata da una
diminuzione del numero di linfociti quindi sarà una linfocitopenia. Le condizioni più “pericolose” sono
quelle di neutropenia poiché impediscono il primo attacco di difesa nei confronti di un patogeno ossia
l’immunità innata.
Ci sono alcune malattie genetiche, associate alla riduzione di funzionalità di leucociti, come ad esempio le
malattie da difetti della chemiotassi oppure le malattie da deficienza di adesione leucocitaria dette LAD-1,
LAD2, LADIv o LADIII (vedono alterazioni diverse secondo la tipologia).
Un’altra tipologia piuttosto rilevante è la malattia granulomatosa cronica in cui assistiamo ad un difetto
dell’attività microbicida dei fagociti dovuta a difetti genetici che colpiscono il sistema macromolecolare che
costituisce la NADPH ossidasi.
Infine, si possono avere difetti della funzione dei fagociti per difetti nella funzione dei lisosomi come ad
esempio nelle sindrome di Chèdiak-Higashi.
MEDIATORI CELLULARI DELL’INFIAMMAZIONE

18/03/2020
MEDIATORI CHIMICI DELL’INFIAMMAZIONE
L’infiammazione si innesca nel momento in cui si ha un danno dovuto alla presenza di un agente lesivo nel
tessuto (microrganismo, prodotto di un danno tissutale). Quando si ha una situazione che perturba l’emostasi
di un tessuto si ha la produzione di sostanze dette PAMPs o DAMPs, che attivano dei recettori PRR presenti
sulle cellule dell’immunità innata (fagociti mononucleati, macrofagi residenti nel tessuto, cellule dendritiche,
polimorfonucleati) e innescano il processo infiammatorio. Cominciano a essere prodotti mediatori chimici
che vanno ad alterare la permeabilità dei vasi, ad alterare il flusso sanguigno modificando il calibro ossia
provocano vasodilatazione, l’aumento della velocità del flusso, la vasopermeabilizzazione con fuoriuscita di
un liquido ricco di proteine ossia l’essudato infiammatorio. L’essudato provoca una emoconcentrazione che
induce un rallentamento del flusso grazie al quale le cellule del sangue (leucociti, neutrofili e monociti) si
avvicinano alle cellule endoteliali, che nel frattempo sono state attivate dagli stessi mediatori chimici
dell’infiammazione. Tra cellule e leucociti si innesca un’interazione che porta al rolling dei leucociti
sull’endotelio, all’adesione dei leucociti sull’endotelio, alla diapedesi (passaggio attraverso l’endotelio) e
infine alla fuoriuscita delle cellule dal vaso che contribuiscono alla formazione dell’essudato. Si innesca un
circolo vizioso poiché dai leucociti fuoriusciti dal vaso e dalle proteine fuoriuscite dal plasma si generano
ulteriori mediatori chimici che auto-mantengono il processo infiammatorio.
Queste sostanze chimiche di derivazione dal tessuto leso o di derivazione dalle cellule/proteine che
fuoriescono dal vaso formano l’inflammatory soup, ossia un microambiente infiammatorio ricco di sostanze
chimiche che mantengono e potenziano l’infiammazione sia nell’aspetto positivo sia nell’aspetto negativo.

I mediatori chimici dell'infiammazione possono essere suddivisi in 2 gruppi principali: mediatori di origine
cellulare, che derivano dalle cellule della flogosi, e mediatori plasmatici, la maggior parte dei quali è
sintetizzata a livello epatico). I mediatori di origine cellulare a loro volta si distinguono in: mediatori
preformati, immagazzinati nei granuli di secrezione, e mediatori di neo-sintesi.
Caratteristica generale di tutti i mediatori è la loro vita molto breve, essi infatti decadono rapidamente o
vengono inattivati da sistemi enzimatici specifici; il controllo dell'attività dei mediatori dell'infiammazione è
fondamentale allo scopo di limitare il danno che molti di essi potrebbero determinare a carico dei tessuti
dell'ospite.
MEDIATORI CELLULARI

Amine vasoattive: istamina e serotonina. L’istamina è la prima molecola che è stata identificata come
mediatore dell’infiammazione. Tale molecola media la triade di Lewis ed è contenuto fondamentalmente nei
granuli dei mastociti; i mastociti possono
rilasciare istamina in caso di freddo, di
alterazioni meccaniche, di attivazione con
meccanismo immunologico (legano IgE nei
fenomeni allergici). L’istamina ha varie
tipologie di recettori ma per quanto
riguarda il processo infiammatorio essa è
un potente vasodilatatore (rilascia la
muscolatura) e vasopermeabilizzatore
(promuove il rilascio della P-selectina).
L'istamina rappresenta spesso il primo mediatore chimico a indurre la risposta infiammatoria acuta; è
contenuta nei granuli dei mastociti presenti nel connettivo adiacente ai vasi sanguigni e nelle granulazioni dei
granulociti basofili e delle piastrine.
Viene liberata in risposta a vari stimoli lesioni fisiche (traumi, freddo, calore), legame degli anticorpi IgE
(tramite il recettore FceRI espresso sulla superficie dei mastociti e dei basofili e delle piastrine per il
frammento Fc delle IgE), legame dei frammenti del complemento C5a, C4a, C3a (anafilotossine),
neuropeptidi, citochine (IL-1, IL-8).
L’istamina viene metabolicamente inattivata da istaminasi (una diammina ossidasi, che genera acido
imidazol-acetico direttamente dall'istamina o dalla N1-metil-istamina), immidazol-N-metiltransferasi o N-
metiltransferasi (che genera N1-metil-istamina), monoamino-ossidasi (MAO; genera acido imidazol-acetico
da N1-metil-istamina).
L'istamina agisce mediante interazione con specifici recettori espressi sulle cellule/tessuti bersaglio:
- Recettori H. Sono recettori accoppiati a proteine G di membrana che inducono l'attivazione della
fosfolipasi C con formazione di diacilglicerolo (DAG) ed inositolo trifosfato (IP3), ne consegue
l’attivazione della trasduzione del segnale calcio-dipendente. Tali recettori sono espressi in:
intestino, bronchi, sistema circolatorio, SNC. Essi determinano contrazione della muscolatura liscia
bronchiale, vasodilatazione e vasopermeabilizzazione, mantenimento dello stato di veglia.
- Recettori H2. Sono recettori accoppiati a proteine G di membrana che attivano l'adenilato ciclasi con
incremento di AMP ciclico e quindi con l’attivazione della proteina chinasi A (PKA). Sono espressi
in: mucosa gastrica, sistema immunitario, sistema circolatorio. Determinano l’aumento della
secrezione acida dello stomaco e vasodilatazione.
- Recettori H3. Sono recettori accoppiati a proteine G inibitorie di membrana che riducono l'attività
dell'adenilato ciclasi; possono inoltre attivare o inibire alcuni canali ionici. Essi sono espressi
prevalentemente nel SNC dove controllano il rilascio di certi neurotrasmettitori.
- Recettori H4. Sono recettori accoppiati a proteine G inibitorie di membrana che riducono l'attività
dell'adenilato ciclasi. Nelle cellule midollari si accoppiano a proteine G15 e G16; se accoppiati a
proteine G0 regolano canali ionici per il K e attivano la proteina chinasi C. Sono espressi in: midollo
emopoietico, milza, eosinofili, mastociti, neutrofili. Il loro effetto è la modulazione della risposta
immunitaria.
L’istamina quindi può avere effetti locali ed effetti sistemici. Gli effetti locali dell'istamina sono:
• Vasodilatazione arteriolare (per apertura degli sfinteri precapillari)
• Vasopermeabilizzazione dei capillari e delle venule post-capillari (per contrazione cellule
endoteliali)
• Adesione e rotolamento leucocitario (per l’aumento delle selectine su cellule endoteliali) ossia
rolling
• Chemiotassi per i granulociti eosinofili
• Secrezione di muco (per stimolazione delle cellule mucipare)
• Prurito (per stimolazione delle terminazioni nervose sensitive)
Gli effetti sistemici dell'istamina invece sono i seguenti:
• Ipotensione. In caso di rilascio massivo si ha vasodilatazione arteriolare a livello sistemico (shock
anafilattico)
• Ipertensione. Vasospasmo delle arterie di grosso calibro per interazione con recettori H1 e per
interazione con recettori H3 localizzati in corrispondenza terminazioni nervose con conseguente
rilascio di noradrenalina
• Emoconcentrazione
• Leucopenia
• Abbassamento della temperatura corporea
• Stenosi delle vie aeree con dispnea (contrazione cellule muscolari lisce a livello bronchiale)
• Vomito, diarrea, salivazione

La serotonina o 5-idrossitriptamina (5-HT) ha azione simile all’istamina. Essa è contenuta nelle piastrine, in
neuroni serotoninergici del SNC, nelle cellule enterocromaffini dell'apparato gastrointestinale.
Viene liberata in risposta a vari stimoli: aggregazione piastrinica per contatto con collagene, trombina, ADP
e complessi antigene-anticorpo; stimolazione con PAF, metabolita dell'acido arachidonico, rilasciato dai
mastociti attivati.
Essa viene degradata tramite deaminazione ossidativa, catalizzata dalle monoaminossidasi (MAO) e da
aldeide deidrogenasi. Tale reazione prevede ossidazione ad acido 5-idrossiindolacetico (5-HIAA) che poi
viene eliminato dalla solfo-trasferasi con la formazione di triptamina-O-solfato.
La serotonina agisce mediante interazione con specifici recettori espressi sulle cellule/tessuti bersaglio. Si
conoscono ben 7 recettori per la serotonina: 5-HT1, 5-HT5 (accoppiati a protei G inibiscono i livelli di
AMPc); 5-HT2, 5-HT4, 5-HT6, 5-HT7 (accoppiati a protei G aumentano i livelli di AMPc); 5-HT3 (canali
ionici del Na+ e del K+ inducono la depolarizzazione della membrana). La serotonina ha i seguenti effetti:
aggregazione piastrinica (recettori 5-HT2a), vasodilatazione se l'endotelio è integro, vasocostrizione se
l'endotelio è danneggiato, vasocostrizione dei grossi vasi arteriosi e venosi e in particolare vasocostrizione
dei grandi vasi intracranici (recettori 5-HT1D), aumento della motilità intestinale e della secrezione di fluidi
(effetto diretto o effetto indiretto di tipo eccitatorio sui neuroni enterici), stimolazione delle terminazioni
nervose sensoriali nocicettive (recettori 5-HT3), eccitazione o inibizione di alcuni neuroni del SNC,
inibizione del rilascio di neurotrasmettitori a livello presinaptico.

Enzimi lisosomiali. I lisosomi contengono vari enzimi litici che in generale sono poco attivi a pH neutro - se
tali enzimi vengono rilasciati nel citosol, il cui pH è fra 7.0 e 7.3, la degradazione dei componenti citosolidi
avviene in modo ridotto. All'interno dei lisosomi il pH = 4.8, il pH acido aiuta a denaturare le proteine
rendendole più facilmente idrolizzabili delle idrolasi acide: sulla membrana dei lisosomi esiste una pompa
ionica per H+ che, idrolizzando ATP, fa entrare H+ nel lisosoma ed un canale per Cl- che fa entrare Cl-.
Gli enzimi lisosomiali sono:
o Proteasi neutre. Degradano vari componenti extracellulari (collageno, fibrina, elastina), determinano
danno tessutale, possono attivare il complemento;
o Proteasi acide. Degradano batteri e detriti cellulari all’interno dei fagolisosomi;
o Nucleasi. Degradano RNA e DNA in mononucleotidi;
o Fosfatasi. Rimuovono i gruppi fosfato da mononucleotidi, dai fosfolipidi ed altri composti;
o Altri enzimi degradano polisaccaridi e lipidi complessi.
Derivati dell’acido arachidonico: prostaglandine, leucotrieni e fattore attivante le piastrine (PAF).
Sono importanti mediatori dell’infiammazione, derivano dalle membrane plasmatiche delle cellule
endoteliali, delle piastrine e delle cellule leucocitarie; esse sono vasodilatatori, vasopermeabilizzatori,
chemiotattici e in generale sono attivanti della risposta leucocitaria.
La stimolazione delle cellule durante il processo infiammatorio
induce un rimodellamento dei lipidi di membrana che porta alla
formazione di mediatori lipidici biologicamente attivi rappresentati
dai metaboliti dell'acido arachidonico (AA). L’acido arachidonico è
un acido grasso essenziale a 20 atomi di carbonio con 4 doppi
legami che deriva per conversione dell'acido oleico che deve essere
assunto con la dieta; esso non esiste libero nelle cellule, ma si trova
esterificato nei fosfolipidi di membrana (fosfatidilinositolo, fosfatidilcolina). L’acido arachidonico viene
rilasciato dai fosfolipidi della membrana cellulare per attivazione della fosfolipasi A2 (inibita dai
glicocorticoidi es. cortisone) o della fosfolipasi C. Una volta che l’acido arachidonico è liberato dai
fosfolipidi si rende disponibile come substrato per 2 vie biosintetiche che porteranno alla sintesi dei suoi
metaboliti (eicosanoidi): via ciclossigenasica, catalizzata dall'enzima ciclossigenasi (COX) che è prevalente
nelle cellule endoteliali e nelle piastrine, tale via porta alla formazione di trombossani (TX) e prostaglandine
(PG); via lipossigenasica, catalizzata dall'enzima lipossigenasi, che è molto attiva nei leucociti e porta alla
formazione di leucotrieni (LT) e lipossine (LX).

In figura si ha lo schema dei metaboliti dell’acido arachidonico. Attraverso la via ciclossigenasica, che vede
COX come enzima chiave, vengono prodotti tre tipi di mediatori: prostaciclina (potente vasodilatatore,
prodotta nell’endotelio, inibisce l’aggregazione piastrinica), trombossano A2 (nelle piastrine, vasocostrittore,
promuove l’aggregazione piastrinica), prostaglandine PGD2 e PGE2 (vasodilatatori, aumento della
permeabilità vascolare). Le prostaglandine sono sostanze algogene e pirogene ossia mediatori
rispettivamente del dolore e della febbre.
Attraverso la via lipossigenasica, che vede partecipe la 5-lipossigenasi, si forma il 5-HETE e LTB4; si
formano anche i leucotrieni LTC4, LTD4, LTE4, che invece sono potenti vasopermeabilizzatori e hanno
un’attività di bronco- e vaso- costrizione che è coinvolta nel processo allergico. L’altro enzima coinvolto in
questa via è la 12-lipossigenasi che porta alla formazione delle lipossine (lipossina A e lipossina B) che sono
regolatori negativi del processo infiammatorio poiché inibiscono l’adesione leucocitaria e la chemiotassi e
pertanto contribuiscono a inibire il sistema infiammatorio.
La COX è un potente target farmacologico di farmaci detti FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei):
- I FANS inibitori della COX-1, come indometacina, ibuprofene, naprossene, ma anche acido acetil-
salicilico (aspirina), hanno una maggiore probabilità di scatenare broncospasmo in soggetti asmatici
rispetto ai FANS che inibiscono preferenzialmente COX-2: l’inibizione della COX indotta dai FANS
si traduce in un’aumentata sintesi di leucotrieni attraverso la via lipossigenasica; le LTB inducono
broncocostrizione, ipersecrezione ed edema delle vie respiratorie.
Il paracetamolo (tachipirina) è l’inibitore preferenziale di COX-3 che media la sintesi di PG a livello
del SNC, e quindi ha azione antipiretica (antifebbrile), azione analgesica (antidolorifica) a livello
centrale e non induce broncospasmo.
- I FANS COX-2 selettivi possono indurre ipertensione e trombosi per effetto prevalente di TXA2
come vasocostrittore e pro-aggregante piastrinico.
I FANS non selettivi, inibendo sia COX-1 che COX-2, sono privi di effetti vascolari avversi.

L’ultimo mediatore lipidico, metabolita dell’acido arachidonico, che vediamo è il PAF (fattore attivante le
piastrine). Il nome della struttura chimica è
β-acetil-γ-O-esadecil-L-α-fosfatidilcolina oppure
1-o-alkyl-2-acetyl-sn-glycero-3-phosphorylcholine.
Esso viene sintetizzato per azione della fosfolipasi
A2 citosolica dai fosfolipidi di membrana di:
neutrofili, piastrine, monociti, basofili, cellule
endoteliali. Agisce sulle cellule bersaglio
interagendo con recettori specifici e stimola la produzione di ulteriori mediatori (es. prostaglandine).
Gli effetti che esso media sono: vasodilatazione, aumento della permeabilità vasale (100-1000 volte più
potente dell’istamina), facilita l’adesione dei leucociti attraverso modificazioni conformazionali delle
integrine, chemiotattico, induce la degranulazione leucocitaria, induce “l'esplosione” respiratoria (burst
ossidativo), broncospasmo... e ovviamente è attivatore piastrinico!
The platelet-activating factor
(PAF) pathway. Activated
cytosolic phospholipase A2
(cPLA2) catalyzes the cleavage of
the arachidonoyl (AA) ester group
at the 2-position of ether
glycerophospholipids to form free
arachidonic acid (AA) and lyso-
PAF, which is rapidly re-
incorporated into the phospholipid
via an acyl transferase enzyme, or
is acetylated by a lysophospholipid
acyltransferase enzyme (LPLAT)
to form PAF. Deactivation of PAF
takes place via the acetyl group
hydrolysis and re-acylation,
followed by reuptake into the
membrane phospholipids. PAF is
short lived and exerts potent
actions via its GPCR presynaptic
receptor (PAFR).

Il monossido di azoto, che deriva dall’attivazione dei monociti/macrofagi, attraverso l’attivazione della
nitrossido sintasi è un potente vasodilatatore. Da esso si generano specie radicaliche fortemente reattive,
anche se NO rimane il più potente. Esso è sintetizzato a partire dalla L-arginina mediante l’azione della
ossido nitrico sintetasi (NOS):
L-arginine + O2 + NADPH → NO + L-citrullina +NADP+
Ci sono varie tipologie di NOS: eNOS (endoteliale), inducibile dalle citochine infiammatorie; nNOS
(neuronale), con espressione costitutiva; iNOS, inducibile nei fagociti.
La molecola di NO è rilasciata da: cellule endoteliali attivate, neuroni (alcuni tipi), fagociti. Gli effetti che
determina sono: potente vasodilatazione (rilasciamento muscolatura liscia), inibizione aggregazione
piastrinica, inibizione reclutamento dei leucociti, funzione antimicrobica (utilizzato per la sintesi di
perossinitrito ONOO-, radicale con forte attività microbicida)

Citochine. Le citochine infiammatorie “per eccellenza” sono IL-1 e TNF-α, a esse si aggiunge anche IL-6,
che media alcune reazioni della fase acuta. Le citochine sono un categoria molto eterogenea e rilevante.
Sono messaggeri polipeptidici prodotti da vari tipi cellulari: linfociti (linfochine, mediano le azioni delle
cellule linfocitarie), macrofagi attivati (monochine), cellule endoteliali, cellule epiteliali e cellule
connettivali. Le citochine si legano a recettori specifici e agiscono a livello autocrino, paracrino ed
endocrino. Il loro meccanismo di
secrezione si attiva quando la cellula
è attivata e deve essere rapido: la
secrezione di citochine si basa su un
aumento dell’espressione genica. GFs
Hanno un’emivita relativamente
breve.
Si possono classificare come
mostrato in figura.
In particolare, interleuchine e TNF-α
possono essere indicate come
citochine infiammatorie.
Analizziamo ora le citochine infiammatorie ossia
fondamentalmente: TNF-α, IL-1. Altre citochine
importanti sono anche IL-6, IL-10. Nell’immagine è
riportata la cinetica di secrezione indotta da LPS, uno dei
più potenti stimolatori. Si vede che TNF-α, IL-1 sono
quelle che vengono prodotte in primis, seguite da IL-6,
IL-10.
Per questo motivo TNF-α, IL-1 sono chiamate citochine
primarie: le altre sono regolate dalle prime due e possono
essere considerati mediatori secondari.
Nella figura seguente si vede che le citochine primarie
provocano il reclutamento e l’attivazione dei leucociti e il reclutamento delle cellule dell’immunità specifica.
Fanno da ponte tra immunità naturale e immunità specifica, infatti grazie alla loro azione sono prodotte altre
citochine (es. IL-12, IFN-γ, IL-4, IL-13) che poi reclutano e attivano le cellule dell’immunità specifica. Tutto
questo è mostrato in figura:

Le citochine primarie inoltre hanno


diversi effetti e funzioni, anche secondo
la quantità rilasciata. In piccole quantità
hanno la funzione di attivare i leucociti e
le cellule endoteliali per favorire
l’adesione dei leucociti e la chemiotassi;
le cellule endoteliali attive produrranno
IL-1 e chemochine. In quantità
maggiori, sempre moderate, inducono
gli effetti sistemici dell’infiammazione
(febbre, produzione delle proteine di
fase acuta come la proteina C reattiva,
leucocitosi a livello del midollo
emopoietico). In quantità elevata,
diventano mediatori dannosi (agiscono
su cuore, vasi, fegato) e mediano la
risposta infiammatoria sistemica che può
esitare in uno shock settico.
MEDIATORI PLASMATICI

Sistema complementare o complemento. Il termine complemento è stato coniato da Jules Bordet. Grazie a
questa scoperta, Bordet vinse il premio Nobel nel 1919. Bordet aveva osservato che il siero fresco contenente
anticorpi specifici verso un Batterio X (siero immune), se era aggiunto ad una coltura del Batterio X, era in
grado di distruggerli (lisarli). Ma se lo stesso siero immune veniva riscaldato a 56° C, prima di essere
aggiunto alla coltura batterica, perdeva la capacità di lisare i Batteri X. A 56° C gli anticorpi non vengono
danneggiati, allora Bordet dedusse che doveva esserci qualche altra molecola in grado di complementare la
funzionalità degli anticorpi. La dimostrazione della presenza delle proteine del complemento nel siero venne
ottenuta da Bordet in seguito all’osservazione che aggiungendo alla coltura batterica e al siero immune
preriscaldato a 56° C un siero fresco non immune e quindi non contente gli anticorpi verso i Batteri X i
batteri venivano nuovamente lisati. Nel siero erano pertanto contenute delle proteine termolabili che
aiutavano gli anticorpi nella lisi dei batteri; queste proteine vennero così chiamate da Bordet proteine del
complemento o sistema del complemento.
Si tratta di un sistema a cascata formato da più di 30 proteine sintetizzate nel fegato. Le proteine del
complemento sono presenti come precursori inattivi in circolo ed indicate con la lettera “C” seguita da una
numerazione che va da 1 a 9. La loro produzione è principalmente costitutiva ma può essere indotta da IL-6,
che stimola la sintesi di alcune componenti del complemento (in particolare C3). Le componenti C1, C2, C3
e C4 sono anche prodotte dai macrofagi e la loro produzione in queste cellule è indotta dalle citochine IL-6,
TNF ed IFN.
L’attivazione del complemento procede secondo un meccanismo a cascata.; il sistema di attivazione a
cascata è basato sull’attività proteasica dei suoi stessi membri che agiscono tagliando, per idrolisi enzimatica,
le componenti proteiche successive del sistema. Dall'idrolisi enzimatica di ciascun componente deriva:
- un frammento più grande indicato con la lettera “b” che di solito rimane legato al componente
complementare precedente, dotato di attività attivante, spesso proteolitica, nei confronti del
componente complementare inattivo successivo;
- un frammento più piccolo indicato con la lettera “a” che si libera in soluzione e dotato di altre
attività biologiche
Spesso la terminologia dei prodotti di attivazione del complemento non corrisponde con quella usata per il
componente C2: il frammento piccolo diffusibile di C2 è attualmente denominato C2b e quello più grande
C2a. In letteratura si trovano altri immunologi che, in accordo con la restante nomenclatura del
complemento, indicano il frammento piccolo come C2a e quello grande come C2b.

Le vie di attivazione sono tre:


1) Via classica, attivata dal legame con complessi antigene-anticorpo, prodotti batterici e virali,
proteina C reattiva, proteasi, cristalli di urato, polianioni (polinucleotidi);
2) Via alternativa, attivata dal contatto con componenti della superficie microbica (endotossine),
polisaccaridi, veleno di cobra, virus, alcune cellule tumorali, parassiti (tripanosomi); tale via parte
direttamente dalla proteina C3, saltando la prima parte della via;
3) Via della lectina, attivazione da parte della lectina legante il mannosio o MBL che si lega ai
carboidrati della parete batterica.
Indipendentemente dalla via di attivazione, i tre processi convergono sul fattore C3, che viene clivato della
parte C3a, per formare il C3b che si deposita sulla superficie del microrganismo da eliminare. La C3b è
un’opsonina, quindi quando è riconosciuto da un recettore specifico rende il microrganismi riconoscibile e
innesca il fenomeno della fagocitosi. Successivamente si attiva un’altra componente ossia C5, che viene
clivato del frammento C5a, diventando C5b. Le molecole C3b (già legate al patogeno) e C5b (che si lega al
patogeno) mediano le ultime fasi che portano alla formazione di MAC (Membrane Attak Complex) che
opera la lisi: si forma come un “canalino” sulla membrana plasmatica dei patogeni che permette l’innesco
della lisi osmotica.
Quindi surante l’attivazione del complemento si generano componenti che svolgono ruoli molto importanti
nel processo infiammatorio stesso: C3b (opsonina), MAC (lisa), C3a (insieme a C4a ha attività
vasodilatatoria e vasopermeabilizzatoria e per questo C3a è detto anaflotossina ossia tossina che genera
anafilassi) e C5a (fattore chemiotattico).

Tutte le vie di attivazione portano


in ultima analisi alla formazione del
cosiddetto “complesso di attacco
alla membrana” o MAC che
determina la lisi della
particella/patogeno.
L'attivazione del sistema
complementare genera nel suo
complesso una serie di prodotti che
si comportano da mediatori
dell’infiammazione e causano:

aumento della permeabilità


vascolare (frammenti C5a, C4a e
C3a),

chemiotassi (C5a),

opsonizzazione (frammenti C3b e


C4b),

lisi della particella (cellula)


bersaglio (MAC),

rimozione dei complessi antigene-


anticorpo.

L’attivazione del complemento può essere anche dannosa, ecco perché è importante un meccanismo di
regolazione/inibizione. Di seguito sono elencati gli inibitori, l’attivazione del complemento è inibita da
proteine sia plasmatiche sia di membrana espresse dalle cellule dell’ospite ed assenti sulla parete dei batteri.
Proteine plasmatiche:
- C1 INH o Inibitore di C1, proteina solubile che inibisce l’attività di C1r e C1s mimando il loro
substrato e formando un legame covalente (C1r e C1s si staccano da C1q); inibisce anche altre
serino-proteasi quali callicreina e fattore XII della coagulazione. Esiste una malattia,
l’angioedema ereditario, in cui si ha un deficit di questo inibitore pertanto si ha la formazione
sregolata delle proteine anaflotossiche e quindi si ha un edema incontrollato, in particolare a livello
del volto e delle alte vie aeree (che può essere estremamente dannoso).
- Fattore H, proteina solubile che lega l’acido sialico si associa a C3b in modo che non possa legare
Bb (inibisce soltanto la via alternativa).
- Fattore I, serina proteasi in presenza di MCP, CR1, Fattore H e C4BP idrolizza C4b e C3b (si
generano i frammenti iC3b C3d e C3dg che possono legarsi a CR2 e CR3).
- C4BP (C4 Binding Protein), lega C4b bloccando la formazione del complesso C4b2a fungendo da
cofattore del Fattore I nella proteolisi di C4b.
- Proteina S (vitronectina) e Sp40 (clusterina o CLI "Complement Lysis Inhibitor") legano i complessi
C5b, C6, C7 con inibizione della formazione del MAC.
Proteine di membrana:
- MCP (proteina cofattoriale di membrana).
- CR1 recettore ad alta affinità per C3b e per C4b.
- DAF o CD55 (fattore accelerante il degrado), presenti soltanto sulle membrane delle cellule di
mammifero, si associano a C3b e/o C4b in modo che non possano legare Bb o C2a a formare la C3
convertasi dunque inibiscono la C3 convertasi della via classica e della via alternativa. Proteggono
dall’attivazione che potrebbe riversarsi verso le cellule “self”. In alcune patologie queste proteine
mancano e quindi si ha un’attivazione incontrollata del complemento con formazione di MAC e lisi
delle cellule in particolare gli eritrociti (sono le cellule più sensibili all’osmosi); tale patologia è
emoglobinuria parossistica notturna.
- MIRL/CD59 (inibitore di membrana della reazione di lisi/MAC-inhibitory protein) e HRF (fattore di
restrizione omologa) legano il complesso C5b-8 e bloccano il legame del C9 dunque inibisce la
formazione del MAC sulle cellule autologhe.

Sistema della coagulazione. Il sistema della coagulazione è implicato fortemente nella risposta
infiammatoria, oltre che nell'emostasi, infatti la cascata coagulativa comprende i seguenti fenomeni, associati
al processo infiammatorio:
• Attivazione del sistema delle chinine. Le chinine sono piccoli peptidi che si generano da un sistema
multiproteico. Esse hanno forte attività vasopermeabilizzante e tra queste, la bradichinina è un
algogeno ossia un mediatore del dolore.
• Produzione di fibrinopeptidi, peptidi che derivano dal fibrinogeno, da cui si genera il reticolo di
fibrina. I fibrinopeptidi sono anche potenti chemiotattici e mediano la chemiotassi dei leucociti.
• Attivazione della plasmina (fibrinolisi).
• Attivazione del complemento. Dalla coagulazione si generano intermedi che sono in grado di
attivare la fibrinolisi ma che sono in grado anche di attivare il complemento.
• Effetti flogogeni della trombina. La coagulazione è finalizzata all’attivazione della trombina, che
agirà sul fibrinogeno generando fibrinopeptidi e reticolo di fibrina; la trombina ha essa stessa effetti
flogogeni e tra questi si ricorda la capacità di attivare le cellule epiteliali (in senso flogogeno).
La coagulazione è un sistema di serino proteasi a cascata composto da 13 fattori plasmatici che si trovano in
circolo in forma inattiva e che vengono attivati per idrolisi enzimatica dai componenti/fattori della cascata
che li precedono come avviene per la cascata complementare.
EMOSTASI
23/03/2020
Abbiamo parlato di processo infiammatorio acuto, mediatori del processo (che consta di fasi che prevedono
modificazioni del microcircolo e fasi cellulari che terminano con la fagocitosi).
L’emostasi tende a mantenere un equilibrio nel nostro organismo e consta di una serie di reazioni che
avvengono una di seguito all’altra però sono molto intersecate tra loro (sequenziali ma sinergiche).
L’obiettivo finale del processo è impedire la perdita di sangue dai vasi. Ma l’emostasi non è solo questo, va
vista come un equilibrio tra il mantenere il sangue più fluido possibile e contemporaneamente impedire la
perdita di sangue dai vasi. Si vede bene dalla bilancia tra la formazione del trombo e la prevenzione: tutto
deve mantenersi fisiologicamente
all’equilibrio. La bilancia vede o l’attivazione
dell’emostasi (formazione del trombo) o la
mancanza di emostasi (prevenzione del
trombo).
Un aumento di emostasi anche in situazioni
in cui non si ha danno è detto trombosi. La
trombosi è una vera situazione patologia, una
situazione seria con conseguenze gravi,
dovuta ad una attivazione incongrua del
processo emostatico. Viceversa, se ho una
riduzione dell’emostasi ho una situazione di
tipo emorragico. L’emostasi dunque è in
realtà fisiologicamente un equilibrio tra meccanismi che tendono ad attivarla, detti meccanismi
protrombotici, e meccanismi che tendono ad evitarla, meccanismi anti trombotici. Questo bilanciamento ha il
fine di mantenere la corretta fluidità del sangue all’interno dei vasi. Quindi un concetto importante, oltre al
classico concetto secondo cui l’emostasi serve per evitare la perdita di sangue in caso di ferita, è che
fisiologicamente noi abbiamo un equilibrio tra meccanismi che tendono a favorire l’emostasi (protrombotici)
e meccanismi che tendono a impedire l’emostasi e prevenire la formazione del trombo (fenomeni anti
trombotici). In figura si vengono anche gli elementi cellulari che entrano in gioco (endotelio e piastrine) e gli
elementi molecolari ossia i fattori della coagulazione, i fattori della fibrinolisi e molecole anticoagulanti
(inibitori della coagulazione). Se tutti questi elementi sono in equilibrio il sangue scorre alla corretta fluidità
nei nostri vasi.

L’emostasi viene suddivisa didatticamente in 4 fasi, anche se queste fasi in realtà si embrecano tra loro
funzionalmente e nel tempo.
La fase vascolare consta nella contrazione della muscolatura vasale e che ha lo scopo di ridurre il lume
vascolare, quindi serve ad impedire la perdita di sangue a seguito di una lesione vascolare.
La fase piastrinica prevede che le piastrine vadano incontro a vari fenomeni: adesione (alle cellule endoteliali
e soprattutto al connettivo sotto-endoteliale quindi la membrana basale sotto le cellule endoteliali), risposta
biochimica (attivazione del segnale) che porta ad una modificazione della forma delle piastrine (shape
change: da piccoli dischetti concavi diventano “strizzate”) e grazie a questo si assiste alla loro
degranulazione ossia liberano il contenuto dei granuli che è essenziale per l’aggregazione delle piastrine
(ultima sottofase della fase piastrinica dell’emostasi). Aggregandosi tra loro (mentre sono adese al sotto-
endotelio in corrispondenza della lesione vascolare) formano il tappo piastrinico o tappo emostatico
primario, che chiude la lesione del vaso e impedisce la perdita di sangue; su di esso si attiva la terza fase.
La fase coagulativa prevede la messa in opera del processo di coagulazione, che quindi è una fase
dell’emostasi; essa si attiva nel momento in cui si forma il tappo piastrinico e quindi quando le piastrine sono
attive e si aggregano. Questa fase consiste nell’attivazione sequenziali di proteasi del plasma e termina con
l’attivazione della trombina (proteasi plasmatica cruciale della fase coagulativa) che stacca dal fibrinogeno i
fibrinopeptidi (toglie due cappucci dal fibrinogeno) e le zone libere del fibrinogeno sono molto adesive tra
loro, pertanto ogni molecola di fibrinogeno scappucciata, detta fibrina, si attacca con altre fibrine formando
una rete, detta reticolo di fibrina o coagulo di fibrina. Il coagulo di fibrina dunque si forma sopra le piastrine
aggregate, proteggendole ulteriormente e migliorando il tappo piastrinico: una volta formato il coagulo di
fibrina si forma il tappo emostatico secondario. Questo tappo si è formato dentro il vaso quindi, per quanto
utile, non può essere tenuto a lungo poiché sarà un’escrescenza che altera la normale struttura vascolare,
allora contemporaneamente o immediatamente dopo alla formazione del coagulo di fibrina si attiva la quarta
fase, ossia la fase fibrinolitica. La fase fibrinolitica consta di un sistema di proteasi plasmatiche e tissutali che
dissolvono il coagulo di fibrina e pertanto iniziano la fase di ripristino delle normali condizioni di flusso
sanguigno a cui segue la riparazione vera e propria della lesione del vaso.

STRUTTURA DEI VASI


Analizziamo adesso la struttura di arterie, vene, capillari e dell’endotelio.

ARTERIE. Si distinguono arterie di grosso calibro (diametro > 7 mm), di medio calibro (diametro 7 -2.5
mm) e di piccolo calibro (diametro < 2.5 mm). Le ultime diramazioni, le arteriole, presentano un diametro
spesso < 100 µm. Quando un’arteria si divide la somma delle superfici di sezione delle due branche è
superiore alla superficie di sezione del tronco originario; secondo la legge di Bichat la capacità del letto
arterioso aumenta a mano a mano che ci si allontana dal cuore. La parete è costituita da tre strati concentrici,
con struttura e spessore variabili secondo le dimensioni del vaso: a) la tunica intima, formata da endotelio
che aderisce sulla membrana basale e dalla membrana elastica limitante interna; b) la tunica media,
costituita da cellule muscolari lisce (prevalenti nelle arterie di medio e di piccolo calibro) e da fibre elastiche
(arterie di grosso calibro). È delimitata esternamente dalla membrana elastica limitante esterna; c) la tunica
avventizia, di natura connettivale e contenente sottili vasi sanguigni (vasa vasorum) e fibre nervose (nerva
vasorum).
VENE. Inizialmente sono di piccolo calibro (venule), quindi si riuniscono in tronchi sempre più voluminosi
(vene di medio e di grosso calibro), ricalcando più o meno fedelmente l’organizzazione delle arterie. Nella
parete sono presenti tre tuniche come nelle arterie e la loro struttura varia in rapporto alla dimensione del
vaso. In genere le pareti venose sono più sottili di quelle arteriose. Nella tunica media prevale la componente
muscolare nelle vene di tipo “propulsivo”, presenti nelle zone declivi del corpo e dove il sangue defluisce in
senso contrario alla forza di gravità; il tessuto fibro-elastico prevale invece nella tunica media delle vene di
tipo “ricettivo”, caratteristiche delle parti più alte del corpo. Nelle vene di tipo propulsivo la tunica intima
può estroflettersi a formare pieghe con funzione di valvole, che hanno la funzione di impedire il reflusso del
sangue, facilitandone il ritorno al cuore. In particolare, le vene degli arti inferiori presentano valvole
dislocate ad intervalli regolari, mentre le vene ricettive ne sono completamente prive (vene polmonari, vena
cava superiore).
CAPILLARI. Rappresentano una rete di sottili vasi sanguigni interposti tra arteriole e venule, garantendo la
continuità dell’albero circolatorio. Si valuta che nell’organismo siano presenti circa 10 miliardi di capillari,
che presentano un diametro medio di circa 8-10 µm, con una superficie totale di circa 700 m2; in certi organi
(fegato, surrene, ipofisi, ecc.) hanno calibro irregolare, adattandosi alla disposizione delle lamine o cordoni
cellulari epiteliali (sinusoidi). La parete dei capillari è costituita da endotelio, che riposa su una sottile
membrana basale, rinforzata spesso da una delicata guaina di fibre reticolari, nel cui spessore sono situati i
periciti, o “cellule avventiziali”, la cui funzione non è ben definita (probabile regolazione del calibro dei
capillari per un meccanismo contrattile o per liberazione di sostanze vasomotrici).
ENDOTELIO. Le cellule endoteliali e il sistema endoteliale sono apparentemente semplice ma esso è
estremamente complesso e importante. L’endotelio è un tessuto semplice da un punto di vista strutturale, ma
molto complesso da un punto di vista funzionale. È costituito da un singolo strato di cellule (cellule
endoteliali) che rivestono omogeneamente la parte più interna dei vasi. È particolarmente importante nel
processo emostatico in quanto è a contatto diretto con il sangue e rappresenta una barriera, che ha un ruolo
metabolicamente attivo, fra sangue circolante e tessuti.
Le cellule endoteliali hanno forma allungata o poligonale e presentano vescicole pinocitotiche che
rappresentano la principale modalità di trasferimento di nutrienti dal lato luminale a quello abluminale
(trans-citosi). Contengono nel loro interno i granuli di Weibel-Palade, organelli di deposito del fattore di von
Willebrand (vWF), che le identifica da un punto di vista citochimico. Le EC esprimono sulla loro superficie
una serie di marcatori specifici che sono utili per distinguere queste cellule da quelle circostanti. Le singole
cellule endoteliali sono legate fra loro ed alla matrice extracellulare da strutture adesive. Inoltre, nelle EC si
possono distinguere una membrana apicale (superficie luminale) ed una membrana basolaterale (superficie
abluminale), che differiscono sia nella funzione che nell’espressione di alcune proteine di membrana. Sulla
superficie luminale sono espresse molecole adesive per le cellule circolanti, come immunoglobuline e
selettine, mentre sulla superficie abluminale sono espresse molecole adesive per le proteine della ECM, quali
le integrine. Infine, fra le EC adiacenti esiste un sistema adesivo intercellulare (le giunzioni strette, adherens
e tight junction) a livello del quale sono espresse delle specifiche molecole adesive intergiunzionali, fra cui
ed es. PECAM-1 o CD31.
L’endotelio veniva considerato, in passato, come una semplice barriera passiva, la cui unica funzione
consisteva nel trasferimento di nutrienti e nel regolare gli scambi di ossigeno e anidride carbonica tra sangue
e tessuti. L’endotelio è, invece, un tessuto metabolicamente attivo, che, a seconda del suo stato funzionale,
può favorire o inibire l’emostasi. Costituisce una superficie che modula il tono vascolare e regola il sistema
emostatico, mantenendo il sangue in stato di fluidità. Questa proprietà si basa su numerose attività presenti
sull’endotelio o secrete in circolo in condizioni fisiologiche, che nel loro insieme definiscono la cosiddetta
“bilancia emostatica endoteliale”. Le CE sono le principali protagoniste della bilancia emostatica. Le cellule
endoteliali integre servono, in primo luogo, ad inibire l’adesione piastrinica e la coagulazione del sangue. Il
danno e l’attivazione delle cellule endoteliali stimola l’espressione di un fenotipo pro-trombotico, che
sbilancia l’assetto emostatico dell’endotelio a livello locale.
Deve essere chiaro che questa in bilancia è disegnata la cellula endoteliale quindi è lei che riesce a mantenere
in equilibrio (o spostarlo in caso di necessità) la bilancia emostatica determinando/favorendo le attività
antitrombotiche (vasodilatatorio) o protrombotiche (vasocostrittorie). Quando l’emostasi deve attivarsi, si
attivano le attività protrombotiche dell’endotelio, mentre quando c’è il rischio che il sangue non fluisca bene
si innescheranno le attività antitrombotiche dell’endotelio. Le cellule endoteliali sono quindi le protagoniste
della bilancia emostatica e contribuiscono a tutte le fasi dell’emostasi per mantenere in equilibrio la bilancia
emostatica (che serve per mantenere la fluidità del sangue nei vasi).

FASE VASCOLARE
La fase vascolare è la prima fase dell’emostasi e consta di
una vasocostrizione. Il senso della vasocostrizione è
contenere la perdita di sangue dai vasi ma ha valenza anche
più ampia perché tutti i vasi vengono mantenuti in uno stato
di equilibrio tra vasocostrizione e vasodilatazione. Quindi
questa fase e i meccanismi che la mediano sono importanti
al momento in cui si innesca un processo emostatico a causa
di una lesione vascolare ma sono anche importanti per mantenere la bilancia emostatica. Infatti, le cellule che
mediano questa fase, sono le cellule endoteliali. I meccanismi della vasocostrizione iniziale sono:
- Risposta diretta (miogenica): contrazione delle cellule muscolari lisce della tonaca media come risposta
allo stiramento provocato dal trauma
- Contrazione come conseguenza di un riflesso neurodegenerativo vasomotore, mediato dai nerva
vasorum
- Rilascio dell’endotelina da parte dell’endotelio.
- Rilascio serotonina da piastrine e dai tessuti danneggiati (se c’è un danno ci sarà risposta di tipo
infiammatorio).

Ci focalizziamo adesso sull’endotelina-1 (ET-1). Essa è un peptide di 21 amminoacidi, prodotto


costitutivamente in basse concentrazioni ad opera delle cellule endoteliali (ma anche dalle cellule muscolari
liscie). Tale peptide è molto importante per mantenere le funzionalità dell’endotelio e lo stato di contrazione
della muscolatura liscia vascolare (tomo vascolare). Viene sintetizzata a partire da un precursore inattivo, la
pre-pro-endotelina, e con successivi tagli proteolitici si arriva alla endotelina matura e biologicamente attiva.

Essa ha diverse funzioni (proliferazione cellulare, attivazione delle piastrine e dei leucociti, produzione di
citochine e fattori di crescita, induzione della secrezione e della deposizione di matrice extracellulare,
vasocostrizione) ma a noi interessa la sua potente attività di vasocostrizione.
Essa reagisce poiché si lega a ETa e ETb, entrambi recettori a 7 domini transmembrana e associati a proteine
G, che mediano diversi effetti secondo dove sono espressi (cellule endoteliali o cellule muscolari lisce).
Le cellule endoteliali stesse secernono endotelina,
che con meccanismo autocrino si lega ai recettori di
tipo B sull’endotelio. Questa attivazione diretta è
importante nel processo infiammatorio perché
contribuisce all’extravasazione leucocitaria ma
provoca anche la produzione di due mediatori
dell’infiammazione ossia NO e prostaciclina
(derivato dal metabolismo dell’acido arachidonico
tramite via ciclossigenasica) che entrambi sono
potenti vasodilatatori.
Si ha un meccanismo di equilibrio: l’endotelio
secerne endotelina che si lega ai recettori sulle
cellule endoteliali che attivano la produzione di NO
e PGI2 inducendo il rilasciamento della tonaca
media del vaso e quindi vasodilatazione. Ma la
stessa endotelina può legare direttamente un
recettore B presente sulle cellule muscolari lisce
della tonaca media: l’attivazione diretta di questo recettore provoca la contrazione delle cellule muscolari e
quindi vasocostrizione. In condizioni fisiologiche quindi vi è un equilibrio dinamico tra vasocostrizione e
vasodilatazione. In tale equilibrio l’endotelina gioca un ruolo importante mediante la sua azione sui recettori
specifici: l’interazione con i recettori presenti sulla membrana delle cellule muscolari lisce della parete
vascolare determina la contrazione di queste cellule e conseguentemente vasocostrizione che controbilancia
l’effetto di vasodilatazione dovuto all’azione di NO e PGI2 prodotte dalle cellule endoteliali.
In condizioni patologiche l’endotelio viene attivato, ad esempio in condizioni di lesione vascolare. Cosa
succede? Quando l’endotelio è attivato i recettori dell’endotelina, in particolare ETb, che si trovano sulle
stesse cellule endoteliali, sono down-regolati quindi si ha ridotta produzione dei fattori vasodilatatori (NO e
PGI2). Al contrario i recettori ETb sulle cellule muscolari lisce sono up-regolati: l’endotelina attiva la
contrazione e/o la proliferazione delle cellule muscolari lisce (nel nostro caso, la contrazione) che esita in
una vasocostrizione.
Quindi con un danno all’endotelio avviene lo sbilanciamento dei recettori e prevale l’azione dell’endotelina
vasocostrittoria ossia l’azione diretta dell’endotelina sulle cellule muscolari lisce della tonaca media dei vasi.
Contemporaneamente, l’endotelina ha meno effetto sul recettore delle cellule endoteliali e quindi non ha più
azione indirettamente vasodilatatoria. Pertanto, essa riduce l’attività vasodilatatoria e potenzia quella
vasocostrittoria.
Questo avviene per mediare la fase vascolare dell’emostasi quando si ha danno vascolare. Tuttavia, stiamo
parlando di endotelio attivato. L’endotelio viene attivato in situazioni molto varie, anche in condizioni in
cui non si ha una franca lesione endoteliale (es. ipertensione, aterosclerosi, vasculite) in questo caso si parla
di un’attivazione patologica dell’endotelio che squilibra anche il meccanismo di controllo del tono vascolare
favorendo vasocostrizione piuttosto che la vasodilatazione. Tale vasocostrizione può portare alla riduzione
del flusso ematico contribuendo ad una situazione di ischemia, ossia il mancato apporto di sangue ad un
tessuto (qui entriamo nella franca patologia).

Ogni volta che l’endotelio viene


perturbato si possono alterare
anche le attività anti-
trombotiche delle cellule
endoteliali; tra queste attività
anti-trombotiche delle cellule
endoteliali si hanno le funzioni
anti aggreganti delle cellule
endoteliali. Per capire questo
concetto di “anti-aggregante”
dobbiamo passare alla seconda
fase dell’emostasi, che è la fase
piastrinica.

FASE PIASTRINICA
La fase piastrinica dell’emostasi prevede l’adesione dalle piastrine al sotto-endotelio. La reazione biochimica
con attivazione di un meccanismo di segnalazione intracellulare (intra-piastrinico) che prevede lo shape
change, che determina degranulazione delle piastrine e quindi la loro aggregazione.
Le piastrine sono piccoli frammenti cellulari derivati da una grande cellula, il megacariocito del midollo
osseo. Il megacariocito perde “pezzi”, piccoli frammenti (piastrine mature) escono dal midollo e si ritrovano
in circolo. Il megacariocito granuloso deriva da un megacarioblasto che a sua volta deriva dal pro-
megacarioblasto, che si forma dalla BFU-Mega. La BFU-Mega è una staminale già commissionata,
caratterizzata dalla presenza del recettore CD34.
I megacariociti sono cellule molto grandi, fino a 100 µm di diametro, con nucleo grande poliploide (da 4n a
64n). Quando maturano perdono questi frammenti e rimane poco più del nucleo che viene eliminato tramite
la fagocitosi ad opera dei macrofagi residenti nel midollo. Il megacarioblasto quindi è continuamente ri-
fornito da cellule BFU-Mega. La maturazione da pro-megacarioblasto a megacariocito granuloso avviene ad
opera della trombopoietina. Essa è un fattore di crescita per le BFU-Mega che fa maturare tali cellule in
megacariociti difatti talvolta viene classificata tra le citochine (citochine con attività di crescita).
Indipendente dal nome essa è fondamentale per la piastrinopoiesi a livello midollare.

Le piastrine sono “dischetti” ellissoidi, dello spessore di circa 1 µm con diametro maggiore di circa 4 µm
mentre il diametro minore è circa 1 µm. Il numero delle piastrine è variabile, da 150'000/ µl a 400'000/ µl;
sotto 100’000-80’000/ µl ci può essere
rischio emorragico mentre sotto le 20’000/
µl ci sono le emorragie spontanee. Quindi
quando si ha perdita delle piastrine,
distruzione di esse o mal funzionamento
della piastrinopoiesi nel midollo, tale che si
producono meno di 20.000, si ha rischio
emorragico.
Le piastrine non hanno nucleo ma hanno
una membrana molto attiva e un sistema
canalicolare aperto, connesso alla superficie
delle piastrine e ai granuli (di cui sono
ricche). Le piastrine possiedono due
tipologie di granuli: alfa (tante proteine,
fattori di coagulazione, etc..) e delta (calcio,
ATP, etc..) detti anche corpi densi per la
presenza di Ca, fattore fondamentale per
l’emostasi e la coagulazione. Infatti, ad esempio nelle provette per i prelievi di sangue deve essere messo un
chelante del Ca (di solito EDTA) perché chelando il calcio si impedisce la coagulazione del sangue, quindi il
Ca è fondamentale nella coagulazione del sangue. Il Ca è contenuto nel citoplasma delle piastrine ma
soprattutto è contenuto in grande quantità nei granuli delta delle piastrine; per liberarlo, il modo più semplice
è farlo arrivare a livello del sistema canalicolare che è connesso sulla superficie.

Le proteine della superficie piastrinica con funziona adesiva, ossia quelle importanti nella fase piastrinica
dell’emostasi sono riassunte nella tabella di seguito:
FUNZIONE Classificazione elettroforetica Classificazione integrinica
Recettore del Collageno GpIa/IIa α2/β1
Recettore della Fibronectina GpIc/Iia α5/β1
Recettore della Vitronectina αV/β1
Recettore del Fibrinogeno GpIIb/IIIa αIIb/β3
Recettore della Laminina GpIc/IIa α6/β1
Recettore del vWF GpIb/IX/V Non integrinica
Recettore del Collageno o
GpIV Non integrinica
trombospondina

La GpIa/IIa è molto importante, è un’integrina che fa da recettore per il collagene. Un altro recettore per una
molecola importante nella fase di adesione delle piastrine è il GpIb/IX/V, un recettore non integrinico che è
il recettore per il vWF (fattore di von Willebrant). Il vWF è contenuto in granuli delle cellule endoteliali,
detti granuli di Weibel-Palade che spesso contengono anche la selectina P; essi rilasciano vWF che viene
riconosciuto da GpIb delle piastine. Altro importante recettore delle piastrine, importante nella fase
piastrinica dell’emostasi, è il recettore GpIIb/IIIa che è un’integrina ed è il recettore per il fibrinogeno.
Mentre GpIa e GpIb entrano in azione nella fase di adesione piastrinica (prima sottofase della fase piastrinica
dell’emostasi), GpIIb/IIIa entra in azione nella fase di aggregazione piastrinica (ultima sottofase della fase
piastrinica dell’emostasi), nella quale ha un ruolo fondamentale.

I granuli piastrinici contengono varie sostanze:


- I lisosomi contengono gli enzimi lisosomiali
- I granuli delta (o corpi densi) contengono gli agonisti dell’aggregazione piastrinica ossia (ADP, ATP
e serotonina) e il calcio, che serve per l’aggregazione e per la coagulazione piastrinica; le serotonina
media anche la vasocostrizone.
- I granuli alfa contengono vari tipi di molecole:
o Proteine “specifiche” piastriniche: fattore piastrinico 4 (PF4), β-tromboglobulina
o Proteine adesive: fibrinogeno, vWF, trombospondina, fibronectina, vitronectina
o Modulatori di crescita: PDGF, TGF-β, trombospondina
o Fattori di coagulazione: fattore V, HMWK e inibitori della coagulazione e della fibrinolisi
(come C1-inibitore, Fibrinogeno, fattore XI, proteina S, PAI-1).
Tali proteine sono fondamentali per l’adeguata funzionalità delle piastrine e per la regolazione e la
funzionalità della fase coagulativa dell’emostasi. Quindi attivando la fase piastrinica in realtà si
attiva anche la fase coagulativa, che quindi si embrica con la fase piastrinica.

Le fasi della risposta piastrinica sono le seguenti:


1 – ADESIONE al sottoendotelio
2 – ATTIVAZIONE PIASTRINICA con innesco delle vie di trasduzione del segnale
3 – CAMBIAMENTO DI FORMA (SHAPE CHANGE) con emissione di pseudopodi
4 – SECREZIONE PIASTRINICA ossia rilascio del contenuto dei granuli piastrinici
5 – AGGREGAZIONE PIASTRINICA PRIMARIA (reversibile) che forma il tappo emostatico primario
6 – AGGREGAZIONE PIASTRINICA SECONDATIA (irreversibile) che forma il tappo emostatico
secondario.
Quando si forma l’aggregazione piastrinica primaria si ha il tappo emostatico primario, quando si aggiunge il
reticolo di fibrina, si ha il tappo emostatico secondario.

ADESIONE PIASTRINICA. Le piastrine fluiscono nel sangue con i loro recettori, in figura sono evidenziati
i più significativi per la coagulazione ossia GpIa (recettore diretto per il collagene) e GpIb (recettore per il
vWF). Normalmente, tra piastrine ed endotelio si
ha repulsione in virtù delle loro cariche negative.
La perdita dell’endotelio dovuta ad una lesione
espone il collageno, che prima era coperto dalla
cellula endoteliale, inoltre la cellula endoteliale
rilascia vWF poiché danneggiata. Allora la
piastrina utilizza GpIa per legare il
collagene con GpIa e utilizza GpIb per legare
vWF, in questo modo così aderisce al
sottoendotelio. Entrambi i recettori sono
importanti, pertanto basta che uno dei due legami
non avvenga e non si ha adesione piastrinica.
Esiste una patologia, in cui si ha una mancata espressione e produzione di vWF, la cosiddetta “malattia di
von Willebrant”. Si tratta di una malattia emorragica in cui manca l’adesione piastrinica e quindi l’adesione
piastrinica dell’emostasi, si hanno quindi emorragie continue.
ATTIVAZIONE PIASTRINICA. In seguito all’adesione si attivano
dei meccanismi di trasduzione che determinano il cambiamento di
forme e la reazione di degranulazione ossia la liberazione del
contenuto dei granuli piastrinici.
Ogni volta che si attiva la via di segnalazione piastrinica attraverso
PLC, IP3 e liberazione di Ca, si attivano MLCK che determinano la
contrazione del sistema contrattile interno, provocando la
degranulazione dei granuli piastrinici.
Tra gli agonisti di questa via
segnalatoria si ha ADP, che può
direttamente attivare PLC con lo
schema già detto, oppure può attivare
PLA2 che libera l’acido arachidonico
dalla membrana, il quale viene
processato da COX che rilascia TXA2
che è rilasciato dalle piastrine e in
modo autocrino interagisce con un
recettore GP che attiva PLC e potenzia
ulteriormente la via di trasduzione e
quindi la degranulazione di piastrine.
Quindi si mantiene questo meccanismo
(feedback positivo).
Quando attivo IP3 e la liberazione di Ca
nelle piastrine, si attiva anche la proteina
GpIIb/IIIa, che fa da recettore per il
fibrinogeno. Le integrine si attivano
poiché stimolate dal lato intracellulare e
potenziano la loro affinità per il ligando
(in questo caso il fibrinogeno).
Quindi ho ottenuto un sistema di
segnalazione biochimica complicata e
amplificata da ADP, che esita in una
degranulazione delle piastrine ed
un’attivazione del recettore integrinico
per il fibrinogeno quindi ho generato
tutte le situazioni migliori affinché
avvenga l’aggregazione piastrinica.

AGGREGAZIONE PIASTRINICA. Nelle


precedenti fasi si è avuto attivazione di GpIIb/IIIa e
rilascio del fibrinogeno dai granuli alfa delle
piastrine, che quindi grazie allo shape change si
trova tutto intorno alle piastrine. Il fibrinogeno
quindi fa da ponte tra due piastrine adiacenti che già
hanno subito shape change e attivazione, e le tiene
insieme. Il fibrinogeno agisce da collante tra le
piastrine precedentemente attivate, con recettori per
il fibrinogeno attivi e con il fibrinogeno a
disposizione nei punti necessari (shape change).
Tutto questo avviene in una piastrina adesa
all’endotelio dove c’è la lesione vascolare.
Alla fine di queste tre fasi ho ottenuto l’aggregazione piastrinica sul sottoendotelio, dove queste piastrine si
sono fermate e dove hanno aderito a causa di una lesione vascolare.

In figura sono mostrati gli agonisti e gli


antagonisti dell’aggregazione piastrinica.
Tra questi sottolineamo PAF (potente
vasopermeabilizzatore che abbiamo trovato
nell’infiammazione), un side-effect di PLA2 e
la trombina (che non è un attivatore
potentissimo ma comunque essenziale). La
trombina inoltre è un elemento essenziale per
la fase coagulativa dell’emostasi.

27/03/2020
FASE COAGULATIVA
La fase coagulativa comprende quella che viene chiamata cascata della coagulazione; essa è un grande
sistema multiproteasico dell’organismo (gli altri due del nostro organismo sono il sistema del complemento e
il sistema fibrinolitico che costituisce la 4° fase dell’emostasi). Il sistema di proteasi (serinoproteasi) è detto
cascata coagulativa (o si coagulazione) perché è fatto in modo che le proteasi si attivino a cascata,
conseguentemente l’una sull’altra; gli enzimi esistono anche inattivi nel plasma (ci sono alcuni fattori che
non sono plasmatici ma tissutali) e il fine della coagulazione è rendere attivi tali fattori. Il sistema di
coagulazione è organizzato spazialmente e funzionalmente in fasi solide ossia superfici cellulari: la
superficie cellulare è fondamentale; i fosfolipidi delle cellule coinvolte nella coagulazione subiscono una
modificazione per cui la coda negativa viene esposta sulla superficie quindi le cellule acquisiscono cariche
negative. Questa carica negativa spiega il ruolo del calcio, che si mette a ponte tra fosfolipidi e (co-)fattori
della coagulazione mediando l’interazione enzima-substrato ossia la formazione dei complessi con cui si
organizza la cascata coagulativa.

Il fine della coagulazione è portare alla formazione del reticolo di fibrina che si forma a partire dal
fibrinogeno. Quindi la coagulazione si basa sul clivaggio del fibrinogeno: il taglio di piccoli peptidi
(fibrinopeptidi) dal fibrinogeno porta alla formazione del monomero di fibrina (fibrinogeno senza
fibrinopeptidi) che diventa estremamente reattivo/appiccicoso: più monomeri si legano tra loro e formano il
reticolo di fibrina. Il reticolo di fibrina si forma sulla superficie cellulare più coinvolta nel processo di
coagulazione cioè sulle piastrine (che nel frattempo hanno aderito al sottoendotelio, si sono attivate, hanno
fatto shape change, hanno liberato il contenuto dei loro granuli e si sono aggregate = sono andate incontro
alla fase piastrinica) che, una volta aggregate, tengono fermo il fibrinogeno. Il fibrinogeno infatti fa da ponte
alle piastrine e media la loro aggregazione, ecco il senso per cui è necessario far avvenire il clivaggio in tale
sede.
L’enzima chiave per fare il clivaggio è la trombina quindi la coagulazione ha come fine ultimo l’attivazione
della trombina in modo che questa esegua il taglio proteolitico del fibrinogeno, generando monomeri di
fibrina estremamente appiccicosi e in grado di legare altri monomeri di fibrina, costituendo così una rete che
copre il tappo piastrinico primario ossia il tappo formato dalle piastrine aggregate.

In figura sono riassunti tutti i fattori della coagulazione. Essi sono identificati con un numero romano o, in
alcuni casi, con un nome (es. fibrinogeno).
La protrombina è la
trombina inattiva.
L’azione di questi fattori
è principalmente nel
fegato, eccetto il fattore
III che è un fattore non
propriamente plasmatico.
Le altre cellule da cui
originano sono i
megacariociti da cui ad
esempio origina il fattore
V. Il fattore V è
immagazzinato e
rilasciato dai granuli α
delle piastrine quindi è
intuitivo che esso sia
prodotto anche dai
megacariociti.
Il fattore VIII è il
cosiddetto fattore
“antiemofilico” perché nell’emofilia si ha mutazione o perdita di funzione/espressione

L’obiettivo finale della coagulazione è clivare il fibrinogeno e generare la fibrina, che prima come
monomero e poi come polimero formerà la rete di fibrina che andrà a costituire il tappo emostatico
secondario. Il clivaggio del fibrinogeno a fibrina è operato dalla trombina, enzima chiave della cascata della
coagulazione. La trombina è un enzima molto attivo e potenzialmente molto pericoloso: esso oltre a clivare il
fibrinogeno ha molti altri substrati, è una serino-proteasi molto potente (attiva l’endotelio, permette
l’adesione leucocitaria all’endotelio, attiva il complemento, ect...). Per questo non possiamo permetterci di
avere la trombina attiva (la “a” significa “attiva” quindi: fattore II =inattivo; fattore IIa= attivo) nel plasma o
nei tessuti quindi questa è fisiologicamente inattiva ossia fattore II o protrombina. Quindi lo scopo della
coagulazione è attivare la protrombina a trombina.
Dove e come succede? Si attiva su una superficie cellulare (nell’emostasi fisiologica i fosfolipidi di
superficie appartengono alle piastrine) e viene attivata quando sulla superficie cellulare delle piastrine si
forma un complesso, detto complesso protrombinasico, con fosfolipidi, fattore V attivato (Va, che si attiva
legandosi ai fosfolipidi), calcio e fattore X che è l’enzima che realmente attiverà il fattore X. Quindi la
trombina è resa attiva da questo complesso che si forma sui fosfolipidi delle membrane piastriniche che è
stabilizzato dal calcio e che comprende il fattore Va e il X. Il Va non è un enzima ma un cofattore della
coagulazione, il vero enzima attivo è il fattore X che infatti è la serino-proteasi responsabile del taglio della
protrombina.
Quando il fattore X sta
con i fosfolipidi, il Va e il
calcio allora può tagliare
e quindi attivare la
protrombina che diventa
trombina. Normalmente il
fattore X è inattivo, esso
per entrare nel complesso
e poter clivare la
protrombina deve essere
attivato (Xa) e i
meccanismi che lo
attivano possono derivare
sia da fattori totalmente
plasmatici, ossia dalla via
intrinseca della
coagulazione, sia da
fattori tissutali, ossia dalla
via estrinseca della
coagulazione.

La coagulazione è stata scoperta inizialmente con la via intrinseca della coagulazione, che si attiva nel
momento in cui si mette il sangue in una provetta di vetro. Per decenni si pensava che questa fosse la via più
importante di attivazione del fattore X e quindi quella fisiologica. Successivamente è stata identificata la via
estrinseca della coagulazione e questo ha portato a dubbi su quale fosse la via fisiologica tra le due.
Effettivamente, se l’emostasi entra in gioco in caso di lesione vascolare è più probabile che entri in gioco la
via che prevede la liberazione di fattori dai tessuti, per questo si è iniziato a pensare che in realtà la via
fisiologica fosse la via estrinseca dandogli sempre più peso. Le due vie comunque sono state sempre
considerate separate, fino a qualche decina di anni fa, quando si è capito che esistevano punti di contatto tra
le due vie (punti di crossover) che hanno fatto capire che le due vie lavorano insieme per attivare il fattore
X. Dall’attivazione del fattore X in poi non esiste più la distinzione tra le due vie tutto ciò che avviene dopo è
la via comune della coagulazione.
La divisione è comunque utile ai fini didattici ma le due vie in realtà interagiscono fortemente tra loro.

Entrambe le vie attivano il fattore X ma lo fanno con due vie attraverso due diversi complessi.
- Nella via intrinseca il complesso è detto complesso tenasico (ten-ace complex, “ten” riferito al fattore
X, “ace” poiché lo taglia) ed è formato da fosfolipidi delle piastrine, calcio, e il cofattore VIIIa. Quindi
questo si forma sulle piastrine pertanto è una delle fasi solide della cascata coagulativa. Il fattore VIII
agisce come cofattore, il fattore X è il substrato e il fattore IX che è l’enzima in grado di clivare il
fattore X. Quindi il fattore IX è un elemento chiave (in realtà in entrambe le vie perché è punto di
crossover) e per questo non può essere sempre tenuto attivo, infatti esso è attivato a IXa da un
complesso più semplice, che prevede l’azione del fattore XI, che in presenza di calcio attiva IX a IXa.
Una volta attivato, IXa entra nel complesso ten-asico e cliva fattore X facendolo diventare Xa.
Chi attiva XI? SPAC (Sistema Plasmatico Attivabile da Contatto). Lo SPAC è un complesso
multiproteico che si attiva quando le proteine si legano ad una superficie carica negativamente. La sua
attivazione rappresenta la prima tappa della via intrinseca. La via intrinseca quindi inizia quando il
sangue viene a contatto con superfici cariche negativamente, come in seguito a danno delle cellule
endoteliali con conseguente esposizione delle molecole trombogeniche del sottoendotelio.
Lo SPAC è formato dal fattore XII, una grossa proteina HMWK (High Molecular Weight Kininogen,
chininogeno ad alto peso molecolare) e la pre-callicreina (PK). Quando il XII sente una superficie carica
negativamente (nell’emostasi fisiologica è collagene o mentre nelle provette è il vetro della provetta) il
fattore XII si attiva e attiva la pre-callicreina che è legata a HMWK e che, una volta attivata a
callicreina, è in grado di attivare ulteriormente il fattore XII a XIIa. Il XIIa attiva XI che a sua volta è
posizionato in una tasca del HMWK. Quindi il XI è la quarta proteina che entra a far parte dello SPAC.
Quando si attiva la pre-callicreina in callicreina, essa oltre ad attivare il XII determina il distacco da
HMWK di piccoli peptidi (deca- e nona- peptidi detti rispettivamente callidina e bradichinina),
entrambe comprese nel gruppo delle chinine, che sono mediatori dell’infiammazione (mediano dolore,
vasopermeabilizzazione, vasodilatazione). Quindi lo SPAC non si attiva solo con l’emostasi ma può
attivarsi anche in altre condizioni: sono fondamentalmente condizioni flogogene, ma si attiva anche
tutte le volte in cui si forma il complesso tra HMWK, PK e XII, ossia quando c’è una superficie carica
negativamente. Un esempio sono i cristalli di urato (la cui precipitazione è alla base del fenomeno
flogistico acuto che caratterizza l’attacco gottoso) che sono forti attivatori della formazione dello SPAC
e quindi per questo si generano chinine ed ecco perché l’attacco gottoso è così doloroso e flogistico
(caratterizzato da iperemia e dalla formazione essudato infiammatorio).
- La via estrinseca è molto più corta poiché ha solo la formazione di un primo complesso tra il fattore
tissutale (o tromboplastina tissutale), una proteina transmembrana presente sulla plasmamembrana di
tutte le cellule, in particolare fibroblasti, cellule endoteliali e monociti/macrofagi. Le cellule endoteliali
e i monociti/macrofagi possono modularne l’esposizione sulla propria superficie: quando tali cellule
sono attivate espongono più fattore tissutale e così sono in grado di attivare la coagulazione (ossia
generare la fibrina). Il fatto che fattore tissutale può essere modulato dalla cellula endoteliale spiega il
loro ruolo fondamentale pro-/anti- trombotico delle cellule endoteliali; inoltre, il fatto che il fattore
tissutale sia over-espresso sui macrofagi attivati è importante e lo capiremo nella flogosi cronica che ha
come elemento cellulare centrale l’attivazione del macrofago. Ad esempio, l’emostasi dovuta alla
lesione del vaso attiva l’endotelio spesso comporta una rottura del tessuto connettivo (mesenchima)
circostante al vaso con liberazione del fattore tissutale dai fibroblasti (cellule mesenchimali). Il fattore
tissutale forma un complesso con il fattore VII e in presenza di calcio, attivando il fattore VII a VIIa,
che è in grado di attivare il fattore X trasformandolo il Xa. Il fattore tissutale, il Ca e il fattore VIIa
formano il complesso tenasico della via estrinseca.
Il crossover tra le due vie vede il fattore VII della via estrinseca andare ad attivare direttamente il fattore IX
della via intrinseca, senza bisogno del fattore XI e dello SPAC. Le due vie quindi cooperano tra loro e hanno
come elementi molecolari tipici: nella via intrinseca si ha SPAC, XII, HMWK, pre-callicreina, mediatori
dell’infiammazione (fattori algogeni e fattori vasopermeabilizzanti), XI, IX, complesso tenasico, X e VIII; la
via estrinseca, attiva molto fortemente il fattore X (è quella più attiva tra le due vie) e vede come elementi
fattore tissutale, VII, X.
In figura si vede la struttura
semplificata del fibrinogeno,
con le 2 catene α, 2 catene β e
2 catene γ, che si
giustappongono nelle loro
porzioni N-terminali. La
trombina agisce a livello
delle porzioni N-terminali
della catena α e β dove taglia
piccoli peptidi che prendono
il nome rispettivamente di
fibrino peptide A e fibrino
peptide B. Essi saranno dei
mediatori chemiotattici
dell’infiammazione. Il
fibrinogeno, una volta tagliati
i fibrino peptidi diventa
“scappucciato”, e la sua zona
centrale diventa più
appiccicosa. In figura seguente è mostrata la molecola del fibrinogeno in modo diverso, con tre “palline” che
rappresentano i domini del fibrinogeno, i quali sono congiunti tra loro. Il dominio E è la parte centrale, che
corrisponde alla parte in
cui sono stati eliminati i
fibrino peptidi mentre i
domini D corrispondono
alle parti laterali.
La zona E, una volta
avvenuto il taglio,
diventa molto
“appiccicosa” nei
confronti dei domini D di
altre molecole di fibrina,
(ossia molecole di
fibrinogeno che però
devono aver subito il
clivaggio operato dalla
trombina). I domini E
diventano quindi pro-
adesivi con i domini D di
diverse molecole di
fibrina, formando una
rete di fibrina, ossia un polimero di fibrina che ha la struttura di una rete. Finché la rete è composta dai vari
monomeri di fibrina legati assieme è instabile: qui interviene il fattore XIII della coagulazione, che si attiva a
XIIIa grazie alla trombina; il XIIIa a sua volta catalizza la formazione di legami trasversali tra i monomeri di
fibrina formando così un polimero di fibrina stabile che rappresenta il tappo secondario.

FASE FIBRINOLITICA
L’ultima fase dell’emostasi è la fibrinolisi. Una volta dopo aver fatto tutti i processi per attivare la trombina e
formare la fibrina è importante evitare di lasciare attiva la trombina per troppo tempo poiché è “senza
controllo” e interviene in punti importanti; inoltre è importante non tenere il tappo emostatico secondario
(coagulo di fibrina) troppo a lungo nel vaso poiché questo sta crescendo nel vaso e quindi potrebbe alterare
la fisiologia del flusso sanguigno. Pertanto, mentre si forma la fibrina ci deve essere contemporaneamente un
sistema che degrada la fibrina formata (NON DEGRADA PERÒ IL FIBRINOGENO!); tale sistema di
controllo è il sistema fibrinolitico, che lisa la fibrina. Il sistema fibrinolitico lisa la fibrina e vede come
enzima chiave la plasmina, che agisce
direttamente sulla fibrina, degradandola. La
plasmina è un enzima pericoloso quanto la
trombina, quindi non può rimanere attiva,
essa infatti è presente sottoforma di
plasminogeno. Il sistema fibrinolitico quindi
si basa su un meccanismo che trasforma il
plasminogeno in plasmina; tale meccanismo
prevede l’intervento degli attivatori del
plasminogeno (PA, Plasminogen Activator)
che si dividono in t-PA (attivatore del
plasminogeno tissutale) e u-PA (attivatore del
plasminogeno urochinasico). Il t-PA è un
attivatore fisso tissutale, si trova sulle cellule
dei tessuti e si attiva nel momento in cui si
forma il primo reticolo di fibrina; il u-PA è
anch’esso piuttosto ubiquitario ed è simile
all’attivatore del plasminogeno prodotto da
alcuni microrganismi. Tali molecole oltre ad
attivare il plasminogeno hanno attività
proteasica anche su altre cellule e pertanto sono necessari inibitori degli attivatori ossia i PAI (Plasminogen
Activator Inhibitor) che si dividono in PAI-1 e PAI-2. Solo l’equilibrio tra PAI e PA porta ad un’attivazione
regolamentata del plasminogeno in plasmina. Tale punto di controllo è molto delicato e pertanto esistono
anche molecole inibitrici della plasmina, α-2-antiplasmina e α-2-macroglobulina, che bloccano l’attività della
plasmina e contribuiscono a mantenere questo sistema in equilibrio.
Il fatto che il sistema fibrinolitico sia attivato solo in caso di necessità è importante poiché la plasmina,
tagliando la fibrina, porta alla formazione di prodotti di degradazione della fibrina, detti FDP (Fibrin
Degradation Products). Tra gli FDP,
quello quantitativamente più
importante è il D-dimero (DD).
Gli FDP sono potenti anticoagulanti,
quindi se ce ne sono troppi si ha
emorragia; inoltre gli FDP (i DD in
particolare) sono usati a scopo
diagnostico per identificare quelle
situazioni in cui si ha un’attivazione
incontrollata del processo coagulativo e
una conseguente attivazione
incontrollata del processo fibrinolitico.
Quindi gli FDP saranno importanti
marker diagnostici di situazioni
trombotiche e in particolare della
coagulazione intravascolare
disseminata (CID), quasi sempre
mortale.
Quindi gli FDP sono marcatori di
situazioni francamente patogene e
francamente dannose.
04.In figura, vediamo un concetto importante. Il sistema fibrinolitico è anche interconnesso con il sistema
plasmatico attivabile da contatto (SPAC). Infatti, lo SPAC (in particolare la callicreina attivata e complessata
a XIa e XIIa) è in grado di attivare, oltre alla via intrinseca della coagulazione, anche la fibrinolisi clivando
direttamente il plasminogeno e attivandolo a plasmina oppure convertendo la pro-urochinasi (forma inattiva
di u-PA) in urochinasi, che quindi cliva il plasminogeno e lo attiva a plasmina.

30/03/2020
Già parlando di fase fibrinolitica abbiamo introdotto il concetto che tutto il sistema coagulativo ed
emostatico devono essere tenuti sotto controllo quindi si hanno inibitori fisiologici della coagulazione e della
fibrinolisi poiché gli enzimi coinvolti nella fase coagulativa e nella fase fibrinolitica (rispettivamente
trombina e plasmina) sono potenzialmente dannosi e pericolosi. Dei sistemi di controllo della fibrinolisi ne
abbiamo già parlato, ci focalizziamo quindi sugli inibitori fisiologici della coagulazione.

INIBITORI DELLA FASE COAGULATIVA


La coagulazione è un processo controllato e mantenuto circoscritto nel punto dove avviene la lesione
vascolare. I meccanismi di controllo possono essere non specifici (non mediati da inibitori specifici della
coagulazione), ad esempio lo stesso flusso ematico può controllare la cascata coagulativa diluendo i fattori
della coagulazione che sono stati attivati. I fattori della coagulazione attivati possono essere eliminati in
maniera attiva dalle cellule del sistema monocitico/macrofagico, in particolare le cellule del Kupffer (cellule
macrofagiche residenti fisse nel fegato) o tutto il sistema monocito/macrofagico o reticolo endoteliale
distribuito a livello vascolare. La fibrina stessa, una volta formata tende a trattenere la trombina tuttavia
esistono inibitori attivi che sono messi in funzione quando c’è bisogno di controllare la coagulazione e sono
inibitori attivi specifici. Gli inibitori della coagulazione possono essere classificati in tre gruppi principali:
- Serpine (inibitori di serino-proteasi): antitrombine, cofattore eparinico II (HCII), α1-antitripsina, C1-
inattivatore, inibitore proteinaZ-dipendente (ZPI).
- Altri inibitori di proteasi (non appartenenti alla famiglia delle serpine): TFPI (Tissue Factor Pathway
Inhibitor), α2-macroglobulina.
- Inibitori di cofattori attivati (Dynamic inhibitory system): sistema proteina C/proteina
S/trombomodulina. I cofattori della coagulazione sono fondamentalmente il fattore V (nel complesso
protrombinasico della via comune) e il fattore VIII (nel complesso tenasico della via intrinseca).
Gli inibitori su cui noi ci concentreremo sono l’antitrombina III e il complesso tra proteina C/proteina
S/trombomodulina: questi sono inibitori estremamente importanti e sono monitorati a livello plasmatico
poiché fungono da marcatori diagnostici dello stato in cui si trova la coagulazione del nostro organismo ossia
per monitorare lo stato trombofilico ed evidenziare eventuali situazioni di trombofilia, ossia predisposizioni
allo sviluppo di trombosi.
Tra le serpine, la più importante è l’antitrombina III, che ha come bersaglio principale la trombina anche se
riesce a bloccare i fattori Xa, IXa, XIa, VIIa e la callicreina, quindi ha uno spettro d’azione rilevante. Un
deficit dell’antitrombina III è spia di uno stato di trombofilia.
In figura è mostrato il
meccanismo di azione
dell’antitrombina III ed è
indicato il meccanismo di tale
inibitore nei confronti della
trombina. Quando inattiva,
l’antitrombina III ha un sito
catalitico che non ha affinità
per la trombina. In figura,
vediamo che l’antitrombina III
ha nella sua struttura un
elevato numero di siti Lys che
possono legare l’eparina, uno
dei più potenti anticoagulanti
(non è solo un farmaco, ma
esiste anche fiosiologicamente
sottoforma di eparansolfati
che costituiscono il glicocalice
delle cellule, ad esempio
cellule endoteliali). Quando l’eparina lega i siti lisinici dell’antitrombina III, subisce un cambiamento
conformazionale che determina la velocizzazione del legame della trombina all’antitrombina III, inibendo la
così trombina. Quindi il meccanismo inibitorio della trombina è legato all’eparina e quindi a tutti i composti
contenenti eparina (es. eparansolfati), presenti a livello cellulare (cellule endoteliali).

Un altro importante sistema inibitorio è il sistema proteina C/proteina S/trombomodulina che rappresenta il
prototipo degli inibitori dei cofattori della coagulazione (ossia V e VIII).
In figura si vede come tutto il
sistema sia innescato dalla
presenza di trombomodulina
sulla superficie endoteliale e
come tutto il sistema sia regolato
dalla stessa trombina.
Le cellule endoteliali esprimono
trombomodulina che riesce a
legare la trombina e a modularne
l’attività e la specificità tanto che
la trombina riesce ad attivare la
proteina C. La proteina C si trova
libera a livello plasmatico e, una
volta attivata dalla trombina sulle
cellule endoteliali, si sposta a
livello piastrinico dove lega i
cofattori della coagulazione V o
VIII (essi infatti formano i complessi sulla superficie piastrinica). Anche la proteina S si associa alla
superficie piastrinica grazie al legame con il calcio (che si trova sulla superficie delle piastrine). La proteina
C, attivata dalla trombina, viene stabilizzata dall’associazione con la proteina S e così riesce a degradare i
fattori V o VIII e quindi riesce a inibire la coagulazione.
Nella cascata della coagulazione, andando ad analizzare i tre complessi coinvolti (due complessi tenasici e il
complesso protrombinasico), sappiamo che questi complessi si formano sulla superficie delle piastrine
(fosfolipidi) e si formano grazie al calcio. In particolare, i fosfolipidi espongono le proprie cariche negative,
che attraggono il calcio. Il calcio tuttavia è bivalente, quindi oltre ai fosfolipidi cosa lega? L’altra carica
positiva del calcio lega i fattori di coagulazione (soprattutto IX, X, VII, II), carichi negativamente. Qui
interviene un meccanismo post-traduzionale che avviene a livello del fegato ed è dipendente dalla vitamina
K; tale meccanismo aggiunge COO- ossia carbossili carichi negativamente agli acidi glutammici che si
trovano nella sequenza proteici di questi fattori della coagulazione. I fattori infatti sono prodotti dal fegato e,
in presenza di vitamina K, si attiva questo meccanismo di carbossilazione che rende i fattori abbastanza
negativi e così essi possono legarsi al calcio sulla membrana della piastrine formando complessi
funzionalmente stabili e attivi.
Questo è uno dei ruoli principali della vitamina K e una delle importanti funzioni del fegato: se il fegato non
funziona non si ha la carbossilazione dell’acido glutammico e quindi non funziona la coagulazione. Ecco
perché nei casi di fisiopatologia da carenza epatica, una delle carenze principali quando il fegato non
funziona (es. cirrosi epatiche, tumori del fegato, metastasi al fegato, etc...), oltre alla mancanza della sintesi
dei fattori di coagulazione, è proprio la carenza coagulativa con conseguenti emorragie.
Inoltre, i farmaci detti “anticoagulanti orali” o “dicumarolici”, di cui il capostipite è il warfarin, sono
anticoagulanti poiché bloccano il processo vitamina K-dipendente che porta alla carbossilazione dell’acido
glutammico nei fattori della coagulazione, impedendo il loro reclutamento nella formazione dei complessi
della cascata coagulativa. L’eparina, o calciparina, è un farmaco che invece viene iniettato per endovena,
quindi non rientra nei farmaci dicumarolici.
In alcuni pazienti anziani con fibrillazione a livello atriale (il cuore non si contrae perfettamente), con
formazione di trombi in quelle aree: tale fenomeno è tenuto sotto controllo con terapia a base di farmaci
dicumarolici. La terapia è comunque molto delicata in quanto il passaggio da una situazione trombotica ad
una situazione emorragica può essere rapido, quindi la terapia deve essere monitorata. Proprio per questo
motivo, tali pazienti quotidianamente, prima di assumere il farmaco, devono monitorare lo stato della loro
coagulazione effettuando uno dei test per studiare lo stato coagulativo.

BILANCIA EMOSTATICA ENDOTELIALE


Come già detto all’inizio, le cellule endoteliali sono fondamentali per mantenere bilanciato il sistema
emostatico affinché non sia né
carente (rischio di emorragia) né
troppo efficace (rischio di
trombosi).
In figura sono elencate tutte le
attività della cellula endoteliale
che favoriscono la funzione
antitrombotica o protrombotica.
In alto sono mostrate le attività
vasodilatatorie e vasocostrittorie
dell’endotelio: le vasodilatatorie
sono basate sulla produzione di
NO e prostaglandine; le
vasocostrittorie invece sulla
produzione di endotelina che,
agendo sulle cellule muscolari
lisce della tonaca media dei vasi
arteriosi, ne provoca la
contrazione.
Le altre attività anti- e pro-
trombotiche invece si svolgono sulle diverse fasi dell’emostasi. Nella fase piastrinica le cellule hanno attività
anti-aggreganti (es. PGI2, NO, ecto-ADPasi che agisce all’esterno della cellula degradando ADP, uno dei più
portenti induttori dell’aggregazione piastrinica) e pro-adesive (es. PAF, vWF). Nella fase coagulativa
l’endotelio ha fasi anti-coagulanti poiché esprime sulla superficie la trombomodulina che attiva il sistema
proteina C/proteina S/trombomodulina (inibitore della coagulazione) ed esprime anche eparansolfato che può
attivare l’antitrombina III (inibitore della coagulazione); nella fase coagulativa si hanno anche attività pro-
coagulanti dell’endotelio che sono legate principalmente alla capacità dell’endotelio di esprimere fattore
tissutale rilasciandolo o over-esprimendolo in superficie (attivando la via estrinseca) e alla capacità di legare
fattori e cofattori (V, IXa, Xa), aumentando il ruolo dei fosfolipidi piastrinici infatti i fosfolipidi di
membrana della cellula endoteliale vengono ribaltati in modo da avere l’esposizione delle code idrofobiche
così le membrane delle cellule epiteliali diventano esse stesse ligandi per i fattori della coagulazione.
Nella fase fibrinolitica le cellule endoteliali hanno attività fibrinolitiche intrinseche, poiché esprimono t-PA e
u-PA attivando il plasminogeno a plasmina e quindi attivano la fibrinolisi, ma hanno anche attività anti-
fibrinolitiche poiché possono esprimere e modulare l’espressione di PAI (inibitore del plasminogeno e quindi
della fibrinolisi).

DIAGNOSTICA DELL’EMOSTASI
La diagnostica dell’emostasi non si applica solo per le emorragie ossia di “diatesi emorragica” ma in
generale consente una valutazione più ampia della capacità emostatica di un paziente. Il riconoscimento di
una diatesi emorragica e/o la valutazione della capacità emostatica di un paziente si basa sull’accurata
anamnesi (storia di vita e delle malattie del paziente), un esame obiettivo (stetoscopio, osservare la cute, gli
occhi, la persona) e infine sulle indagini di laboratorio.
Le malattie emorragiche possono essere difetti vasculo-piastrinici legati ad alterazioni dei vasi e/o a difetti
delle piastrine, oppure difetti plasmatici (non funziona la coagulazione). Ci sono delle differenze anche nella
manifestazione clinica di queste malattie emorragiche, nella tabella seguente sono riassunti i criteri clinici di
orientamento diagnostico delle malattie emorragiche.

Difetti plasmatici Difetti vasculo-piastrinici


Petecchie + +++
Ecchimosi ++ +++
Ecchimosi vaste +++ ++
Ematuria +++ ++
Epistassi ++ +++
Gengivorragia + ++++
Emartri ++++ +
Ematomi profondi ++++ +
Emorragie cerebrali + +
Sanguinamenti apparato digerente ++ +
Altre emorragie ++ ++
Precocità dell’emorragia post-operatoria o post-traumatica + ++++
Sanguinamento da ferite superficiali + +++
Effetto sul sanguinamento della compressione e della sutura + ++++
Pazienti di sesso maschile +++ ++
Pazienti di sesso femminile ++ +++
Storia familiare +++ +

Fondamentalmente il sanguinamento precoce e il sanguinamento dalle mucose (gengivorragia), evidenziati


in tabella, sono specifici della malattie emorragiche da difetti vasculo-piastrinici; al contrario, le
caratteristiche principali delle malattie emorragiche dovute a difetti della coagulazione (difetti plasmatici)
sono rappresentati da emartri (accumuli di sangue coagulato a livello delle articolazioni come ad es. il
ginocchio) e ematomi profondi (accumuli di sangue negli organi interni).
Si considerano due cugini: uno con un’emorragia dovuta alla malattia di von Willebrant (difetto vasculo-
piastrinico) per cui le piastrine non aderendo al sottoendotelio non completano nemmeno la fase piastrinica
dell’emostasi; l’altro con emofilia classica dovuta a carenza di fattore VIII, cofattore del complesso tenasico
della via intrinseca (difetto plasmatico). Erano entrambi ricoverati nel reparto di ematologia e gli fu
regalato un solo giocattolo (trenino) che dovevano condividere e i due cominciarono a litigare per averlo.
Nel fare a botte cascarono entrambi, battendo entrambi le ginocchia e ferendosi nel cadere. Il bambino con
malattia di von Willebrant cominciò a sanguinare (precocità dell’emorragia post-traumatica) e la sua
emorragia continuava poiché non riusciva a formare il tappo emostatico primario. Allora, l’altro bambino
approfittò del momento per rubare il giocattolo e ci giocò finché, la mattina seguente, non ebbe emartri ed
ematomi profondi alle ginocchia (le cavità articolari si erano riempite di sangue e non potevano muoversi) e
pertanto fu messo a letto. A quel punto il primo paziente stava già meglio poiché era riuscito a coagulare, e
quindi andò a riprendersi il giocattolo.
La storiella sottolinea la diversità clinica delle emorragie da difetto vasculo-piastrinico (es. piastrinopenia,
malattia di vWF), in cui si ha un “allungamento” del sanguinamento, rispetto alle situazioni da difetti
plasmatici (es. emofilie o situazioni in cui si ha difetto del sistema vitamina-K dipendente o casi di eccessiva
assunzione di anticoagulanti orali), in cui il quadro clinico è completamente diverso e si manifesta con una
latenza nel tempo.

Le indagini di laboratorio prevedono test specifici che indagano le varie fasi dell’emostasi e servono a
convalidare un’ipotesi clinica o, in mancanza di ipotesi, a definire la causa dell’alterazione del processo
emostatico. Si hanno tre test:
- Studio della funzione vascolare. La fase vascolare è studiata con prove di fragilità vascolare
(petecchiometro) ma non è un vero e proprio esame di laboratorio.
La fase vasculo-piastrinica è studiata eseguendo il test “tempo di sanguinamento” (TS) o “test di Ivy” o
“tempo di emorragia” (TE): in seguito ad una ferita cutanea standardizzata viene cronometrato il tempo
di arresto del sanguinamento e quindi si ha l’espressione della formazione del tappo piastrinico. In caso
di ferita sulla faccia polare dell’avambraccio il valore normale è di 3-6 minuti mentre se si esegue una
puntura nel lobo dell’orecchio il valore normale è di 3-5 minuti.
- Studio delle piastrine: numero e funzionalità. Ci può aiutare la conta piastrinica in cui i valori normali
sono di 150’000-350'000 elementi/mm3 pertanto si parla di piastrinopenia se il numero di piastrine è
inferiore a 100'000 elementi/mm3, si ha “rischio emorragico” se il numero di piastrine è inferiore a
50'000 elementi/mm3 ed infine si hanno emorragie spontanee se il numero di piastrine è inferiore a
20'000 elementi/mm3.
Oltre alla conta piastrinica ci sono studi qualitativi che esaminano la funzionalità piastrinica (adesività
piastrinica, aggregazione piastrinica, agglutinazione in presenza di ristocetina, reazione di liberazione
del contenuto dei granuli, retrazione del coagulo, sopravvivenza piastrinica) e tra questi quello da
ricordare è lo studio dell’aggregazione piastrinica. Per tale studio viene utilizzato l’aggregometro di
Born, uno spettrofotometro modificato che registra in continuo le modificazioni della trasmittanza del
fascio di luce, correlate a variazioni della
torbidità di un campione di plasma ricco di
piastrine (PRP), mantenuto a temperatura
costante di 37° C, sotto agitazione. Il PRP
ha un valore di trasmittanza di base che
viene registrato e in seguito all’aggiunta di
sostanze aggreganti (trombossano, ADP,
ristocetina, trombina, etc...), si formano
aggregati piastrinici che recipitano sul
fondo della provetta riducendo la torbidità
e quindi aumentando la trasmittanza del
plasma in esame. L’entità dell’aggregazione viene espressa come variazione percentuale della
trasmittanza in funzione del tempo.
- Studio della coagulazione. Esistono tre tipologie di test:
o Tests globali. Valutano il tempo che impiega il sangue intero o il plasma a coagulare in provetta:
forniscono una prima rapida informazione dell’eventuale esistenza di un deficit di uno o più
fattori della coagulazione. Il tempo di coagulazione del sangue ha come valori di riferimento 5-10
minuti mentre il tempo di ricalcificazione del plasma ha come valori di riferimento 80-120
secondi.
o Tests fattoriali. Quantificano uno specifico fattore della coagulazione, ad esempio il fattore V,
oppure gli inibitori della coagulazione.
o Tests di fase o di gruppo. Studiano le varie tappe della cascata coagulativa (via estrinseca, via
intrinseca e via comune). Indicano in quale fase della coagulazione esiste un difetto. Vengono
effettuati sul plasma e valutano il tempo necessario per la formazione del coagulo di fibrina
quando il plasma viene incubato con sostanze in grado di attivare specificatamente la via
intrinseca, estrinseca o comune della coagulazione. Si distinguono 3 test di gruppo:
▪ Tempo di tromboplastina parziale attivata (APTT). Valuta la via intrinseca di
attivazione del fattore X (oltre ai fattori della via comune V, II e fibrinogeno). Il plasma
viene incubato con caolino (attivazione del sistema plasmatico attivabile da contatto) e
con un eccesso di cefalina (equivalente dei fosfolipidi piastrinici) che forzano la via
intrinseca della coagulazione; al termine del tempo di attivazione si effettua la
ricalcificazione e si misura il tempo di coagulazione. I valori normali di APTT sono di
28-40 secondi. I valori di APTT aumentano: in situazioni in cui si hanno difetti dei
fattori della via intrinseca e/o della via comune (es. difetto del fattore VIII o del fattore
X o del XII o del IX), in situazioni di terapia eparinica (si valuta l’efficienza di
attivazione dell’antitrombina), in condizioni in cui aumenta la concentrazione dei
prodotti di degradazione del fibrinogeno (FDP sono anticoagulanti), in presenza di
sostanze inibitorie (es. anticorpi acquisiti contro fattori della coagulazione).
▪ Tempo di protrombina (PT) o tempo di Quick. Valuta la via estrinseca di attivazione del
fattore X, oltre ai fattori della via comune. Il plasma viene preincubato a 37°C con un
estratto tissutale (generalmente cervello di coniglio) e cioè con tromboplastina tissutale,
quindi si ricalcifica e si registrano i tempi di coagulazione. I valori normali di PT sono
12-14 secondi. Questo test serve per testare se c’è diminuzione del fattore VII o dei
fattori della via comune, per evidenziare un deficit di vitamina K o danni epatici o
deficit di fibrinogeno, per monitorare la terapia con anticoagulanti orali (inibiscono il
meccanismo di carbossilazione dell’acido glutammico operato dal fegato), per valutare
la presenza di prodotti di degradazione del fibrinogeno. Se i valori superano i 12-14
secondi si può avere una di queste situazioni.
Le tromboplastine in commercio sono diverse quindi si aveva una differenza di valori
tra un laboratorio e l’altro, è stato introdotto il metodi INR (International Normalized
Ratio) che serve per standardizzare i valori di PT in funzione della media dei controlli
per un certo laboratorio di analisi e per un certo lotto di tromboplastina.
𝑃𝑇 (𝑝𝑎𝑧𝑖𝑒𝑛𝑡𝑒) 𝐼𝑆𝐼
Il valore di INR si calcola come: 𝐼𝑁𝑅 = ( )
𝑃𝑇 (𝑚𝑒𝑑𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜𝑙𝑙𝑖)
dove ISI (International Sensivity Index) è un valore di sensibilità assegnato alle
tromboplastine in commercio e il valore ISI della tromboplastina di riferimento è 1.
Tanto più il valore di INR si avvicina a 1, tanto più il sistema è sensibile/preciso.
▪ Tempo di trombina (TT). Misura il del tempo di coagulazione del plasma citratato
(significa che si tolgono alcune molecole, es. ioni calcio) in presenza di una quantità
standard di trombina. Questo test permette quindi di esplorare la fibrinoformazione. I
valori normali di TT sono 17-24 secondi. In ambito terapeutico i valori cambiano
leggermente: con la terapia eparinica si hanno valori 2-3 volte maggiori mentre con la
terapia trombolitica si hanno valori 3-4 volte maggiori.
In ambito non terapeutico, l’aumento dei valori di riferimento indica anomalie del
fibrinogeno (sia qualitative che quantitative), esaltata attività antitrombinica nel plasma,
la presenza in circolo di anticoagulanti (es. eparina) o di sostanze che sono in grado di
inibire la polimerizzazione dei monomeri di fibrina (es. FDP).
- Studio della fibrinolisi. Ci sono vari test, tra questi analizziamo il dosaggio nel siero dei prodotti di
degradazione del fibrinogeno e della fibrina (FDP), in particolare dei D-dimeri. Questo test monitora la
fibrinolisi e indirettamente una situazione pro-coagulativa che attiva in modo spropositato il processo
fibrinolitico. In una popolazione sana l’ambito di riferimento è di 0-5 µg/ml. Un moderato aumento di
FDP (10-15 µg/ml) indica la presenza di un’attivazione moderata della fibrinolisi; quando gli FDP
superano 15 µg/ml e contemporaneamente si hanno anche elevati livelli di D-dimero significa che siamo
in presenza di una situazione patologica della fibrinolisi, e questo avviene ad esempio in uno stato
estremamente pericoloso e patologico detto coagulazione intravascolare disseminata (CID).
NB. I fibrinopeptidi D e E sono prodotti terminali della degradazione del fibrinogeno, dei monomeri di
fibrina e del polimero di fibrina non stabilizzato. I dimeri D-D sono i prodotti terminali della
degradazione della fibrina stabilizzata per azione del fattore XIIIa. I fibrinopeptidi A e B sono derivati
dall’azione della trombina sulle catene α e β del fibrinogeno (sono indice di attività coagulativa) e sono
importanti fattori chemiotattici e quindi riconducono alla flogosi.
FLOGOSI ACUTA (parte 2)
30/03/2020
L’infiammazione è un fenomeno che consta nell’attivazione di un meccanismo di lesione tissutale (un agente
di danno che provoca una lesione
tissutale). Gli elementi del danno
sono riconosciuti dai PRR che
attivano la risposta dell’immunità
innata e determina la produzione di
mediatori dell’infiammazione che
vanno a d alterare il microcircolo in
modo da produrre vasodilatazione,
aumento del flusso,
vasopermeabilizzazione (con
fuoriuscita di liquidi e proteine
plasmatiche) e rallentamento del
flusso. La vasopermeabilizzazione e
il rallentamento del flusso sono anche
il primo trigger per fare fuoriuscire le
cellule dal flusso, che insieme a
liquidi e proteine vanno a formare
l’essudato infiammatorio.
Nell’essudato quindi troviamo
liquido, proteine e cellule della
risposta infiammatoria (nella flogosi acuta i polimorfonucleati neutrofili).

Tutto è orchestrato da mediatori chimici che possono essere di origine cellulare o plasmatici.

Detto questo, possiamo affermare che non tutte le flogosi sono uguali poiché gli essudati, pur avendo
componenti comuni (liquido, proteine, cellule), hanno un equilibrio diverso di questi elementi determinando
varie tipologie di flogosi acuta. Si possono avere:
- Flogosi sierosa. L’essudato è rappresentato da liquidi e proteine plasmatiche (con concentrazione simile
a quella fisiologica)
- Flogosi fibrinosa. L’essudato infiammatorio contenete molto fibrinogeno che quando fuoriesce dal vaso
e viene subito clivato a fibrina e si forma un reticolo di fibrina (formerà una “rotaia” per la chemiotassi).
La fuoriuscita di molto fibrinogeno si ha nelle flogosi da elevato danno vascolare.
- Flogosi purulenta. L’essudato è molto ricco di polimorfonucleati neutrofili quindi si forma il PUS.
- Flogosi siero-fibrinosa. L’essudato contiene molto siero e molta fibrina
- Flogosi catarrale o mucosa
- Flogosi emorragica o necrotico-emorragica

Tipo e costituzione Principali agenti Principali meccanismi


Tipo di flogosi
dell’essudato eziologici patogenetici
Sieroso, scarsi sia il Ustioni lievi, Modesta alterazione
Sierosa contenuto in fibrina che Tubercolosi (pleurite della permeabilità
in cellule tubercolare) capillare
Siero-fibrinoso o ricco Alterazione delle
Siero-fibrinosa in fibrina, povero in Vari microrganismi permeabilità capillare di
cellule media entità
Alterazione della
Diversi batteri, in
Fibrinoso, molto ricco permeabilità capillare
particolare
Fibrinosa in fibrina ma povero in per consentire il
Pneumococcus e
cellule passaggio del
Corynebacterium
fibrinogeno
La flogosi interessa
Catarrale, appare mucose con ghiandole
Catarrale o mucosa vischioso perché ricco Numerosi virus e batteri mucipare che versano il
in muco loro secreto
nell’essudato

Il problema delle flogosi fibrinose è che, quando la flogosi si estrinseca in alcune cavità, può non risolversi
rapidamente ma portare al passaggio di tessuto fibroso sulla fibrina (collagene al posto della fibrina) e così si
forma un tessuto fibroso cicatriziale che sovrasta la fibrina e provoca grandi alterazioni funzionali. Se
avviene tra i due foglietti pericardici o tra i due foglietti pleurici o nel peritoneo, si formano aderenze/fimbrie
che quindi alterano il normale scorrimento dei foglietti che ricoprono le cavità sierose; si hanno quindi
sfregamenti e, ad esempio, a livello intestinale le adesioni intrappolano le anse e difatti sono una delle cause
di volvoli e di peritonite con addome acuto.
Le flogosi purulente sono caratterizzate da una massiccia presenza di polimorfonucleati neutrofili e possono
essere caratterizzati da un’infiltrazione di neutrofili diffusa nel tessuto, o possono dare origine ad una
raccolta di neutrofili in una cavità che si è formata proprio a causa dell’infiammazione e del danno che
l’infiammazione fa. Quando il neutrofilo mette in atto la fagocitosi adempie al suo dovere ma determina
anche un danno nel tessuto, ad esempio se il neutrofilo produce radicali dell’ossigeno tramite NADPH
ossidasi o acido ipocloroso, si ha un danno tissutale; se il danno tissutale porta alla formazione di una cavità,
in tale cavità si può raccogliere l’essudato purulento e i neutrofili con formazione di un ascesso (pus). Se il
pus si forma all’interno di un organo (es. pleura, colecisti) si parla di empiema. Un altro termine che si usa è
flemmone, che indica una situazione in cui l’infiammazione purulenta non rimane circoscritta e la raccolta di
pus si sviluppa negli interstizi di un tessuto (con erosione).
La flogosi purulenta è estremamente pericolosa quindi il pus va sterilizzato con l’uso di antibiotici (che a
volte non arrivano poiché si può formare una capsula che circonda e isola l’ascesso) o, se impossibile, con la
chirurgia.

Il fenomeno infiammatorio, che nasce come sistema protettivo, può causare un danno dovuto all’essudato
(accumulo nei tessuti, evoluzione in flogosi fibrinosa, danno tissutale dovuto a essudato purulento che poi
diffonde).
EVOLUZIONE DELL’INFIAMMAZIONE ACUTA
Abbiamo visto che l’infiammazione si attiva in diverse circostanze, a causa di lesioni, di microrganismi, di
uno squilibrio dell’omeostasi (situazioni dismetaboliche, es. aterosclerosi).
L’infiammazione ha l’obiettivo di difenderci e di ristabilire una situazione di omeostasi, tuttavia può causare
un danno. Il danno può essere riparato, e così si ripristina l’omeostasi, tuttavia ci sono alcune situazioni in
cui l’infiammazione acuta non porta all’eliminazione completa dell’agente che ha causato la risposta
infiammatoria, e quindi alla risoluzione del processo con la restitutio ad integrum, ma per alcuni motivi
(ascessi, mancata eliminazione del patogeno, tessuti particolari che non hanno risoluzione, infezioni
persistenti, patologie autoimmuni) si passa da una situazione infiammatoria acuta ad una situazione
infiammatoria cronica.
L’infiammazione cronica ha come caratteristica la persistenza nel tempo (non si ha risoluzione). Essa inoltre,
oltre a mantenersi come infiammazione, quando guarisce lo fa con fenomeni di riparazione e cicatrizzazione
quindi ha un esito e un’evoluzione del tutto diverse da quelle dell’infiammazione acuta. Quindi si ha un
danno che si mantiene nel tempo per la presenza di fenomeni infiammatori persistenti e fenomeni di
guarigione che avvengono senza restitutio ad integrum ma con la riparazione/cicatrizzazione.
La riparazione/cicatrizzazione determina la formazione del tessuto cicatriziale, un tessuto di tipo
fibroso/collagenico che pertanto, se compare in un organo interno, è molto pericoloso (cfr. infarto del
miocardio).
FLOGOSI CRONICA
01/04/2020
Facciamo il riassunto delle lezioni precedentemente fatte.

Abbiamo visto come in presenza di un agente lesivo (es virus, microrganismo) o in presenza di una
perturbazione dell’omeostasi di un organismo si innesca un meccanismo difensivo, l’infiammazione acuta,
sostenuta da mediatori chimici che si generano in loco e che derivano dal plasma o dalle stesse cellule che
mettono in atto l’infiammazione acuta. Questa infiammazione si svolge in un tessuto che viene alterato
perché l’infiammazione porta ad un aumento del sangue che affluisce al tessuto (iperemia) e un aumento
della permeabilità dei vasi del tessuto con formazione di edema ricco di proteine (edema infiammatorio o
essudato). Questa infiammazione acuta ha come obiettivo
finale portare nel sito interessato dal fenomeno infiammatorio
le cellule con attività fagocitica importante che si trovano nel
sangue, ossia i polimorfonucleati neutrofili e poi i monociti
macrofagi. Ad un certo punto l’infiammazione acuta finisce, le
cellule con attività fagocitica mettono in atto la fagocitosi;
conseguentemente alla fagocitosi si ha un rigurgito dei fattori
(radicali dell’ossigeno, radicali derivati dal monossido di azoto,
radicali formatisi grazie all’intervento della neroperossidasi e
grazie alla presenza di alogenuri come il cloruro) e quindi si
crea un po’ di danno nel tessuto. Tale danno può andare
incontro a risoluzione che avviene perché, dopo che i neutrofili
sono usciti dal vaso e dopo aver svolto la loro funzione
fagocitica (dopo la quale sono morti), dal sangue fuoriescono
anche i monociti. I monociti sono cellule che circolano nel
sangue e dal sangue escono, si fermano nel tessuto; vanno
incontro ad un fenomeno di maturazione e differenziazione che
li porta a diventare macrofagi; il macrofago ha come compito
principale quello di “mangiare”, distruggere ed eliminare i
neutrofili apoptotici, i detriti cellulari (dovuti al fatto che il
danno è stato evocato da necrosi o si sono formati detriti a
causa dell’attività fagocitica dei neutrofili), fagocitano
l’essudato (soprattutto le proteine fuoriuscite dal plasma) che
non è stato completamente drenato dai vasi linfatici. A questo
punto l’ultima fase del processo infiammatorio acuto è
l’eliminazione del macrofago; quindi il macrofago gioca un ruolo fondamentale nella risoluzione
dell’infiammazione.
La risoluzione tuttavia è solo uno degli esiti possibili del processo infiammatorio perché nonostante il
tentativo di ripulitura da parte del macrofago persiste e si ha la formazione dell’ascesso, in alternativa può
succedere che il processo infiammatorio acuto e il danno tissutale sia stato talmente grande che nonostante la
ripulitura da parte dei macrofagi, il tessuto non torna come era e quindi va incontro al fenomeno di
guarigione (processo distinto dalla risoluzione). La guarigione è la fine del processo infiammatorio acuto ma
con un esito: il tessuto guarisce rigenerando o cicatrizzando ossia originando un tessuto nuovo che sostituisce
il tessuto originale in cui si è svolto il fenomeno infiammatorio acuto.
Anche nel processo di guarigione svolgono ruolo fondamentale i macrofagi, che hanno operato anche la
chiusura del processo infiammatorio acuto: sono i macrofagi che innescano la generazione del tessuto di
cicatrizzazione (tessuto di guarigione).
Infine, una quarta possibilità è l’infiammazione acuta cronicizzi, in questo modo si mantiene il fenomeno
infiammatorio e contemporaneamente l’organismo lotta per guarire quindi si esita in una situazione diversa,
sempre infiammatoria, ma una situazione infiammatoria cronica (il termine “cronico” ha un riferimento
temporale, nel senso che l’infiammazione dura più tempo e può durare molto a lungo) dove non cambia solo
la scala temporale ma sono cambiati anche i meccanismi che portano allo stato infiammatorio
(fondamentalmente cambia la tipologia di cellule protagoniste del fenomeno infiammatorio che qui sono
fondamentalmente i macrofagi e non più i polimorfonucleati neutrofili); all’infiammazione cronica segue un
fenomeno di guarigione (rigenerazione o cicatrizzazione). Quindi l’infiammazione cronica è un fenomeno in
cui il tessuto sente situazioni e fenomeni di pura infiammazione e fenomeni di guarigione (con
cicatrizzazione); in tutto questo il macrofago è protagonista ed orchestra il mantenimento dello stato
infiammatorio cronico. Una caratteristica dell’infiammazione cronica, oltre alla prevalenza di cellule di tipo
macrofagico, è il fatto che tutti i fenomeni vascolari descritti nell’infiammazione acuta (vasodilatazione,
vasopermeabilizzazione) qui non si osservano o non sono preponderanti, mentre sono preponderanti i
fenomeni di guarigione tissutale. Questo spiega perché in passato l’infiammazione acuta veniva chiamata
angioflogosi, perché l’infiammazione acuta era associata ad alterazioni dei vasi, mentre l’infiammazione
cronica era chiamata istoflogosi in quanto associata principalmente ad un’alterazione del tessuto.

Quali sono le cause di un’infiammazione cronica? Perché una flogosi acuta può cronicizzare? Un motivo può
essere perché siamo in presenza di infezioni persistenti, come nel caso del micobatterio della tubercolosi che
dà infiammazione cronica proprio perché rimane nel tessuto e in particolare, rimane all’interno dei macrofagi
che erano usciti durante la flogosi acuta per portare alla risoluzione. Possono essere i microrganismi stessi,
oppure le loro tossine, a rimanere nel tessuto e a non essere eliminati; oppure si può instaurare un fenomeno
autoimmunitario che mantiene attiva la stimolazione suulle cellule dell’immunità innata (monocito
macrofago).

Le malattie infiammatorie croniche sono:


- Infezioni (che perdurano): tubercolosi, lebbra, sifilide, brucellosi, leishmaniosi, actinomicosi, micosi
(criptococcosi, istoplasmosi, coccidiomicosi), infezioni da agenti batterici non-specifici in organi
particolari o in ospiti immunodeficienti, infezioni virali.
- Malattie da deposizione di corpi estranei: silicosi, asbestosi, berilliosi, corpi estranei inerti (fili di
seta, schegge, cheratina). In questo caso i corpi estranei si depositano nei tessuti, spesso all’interno
del macrofago. In particolare, con “fili di seta” ci si riferisce ai fili di sutura che in passato venivano
usati in chirurgia e non venivano riassorbiti causando infiammazione cronica e sineiche ossia fasci di
tessuto cicatriziale fibroso all’interno dell’addome dove possono provocare intrappolamento delle
anse intestinali con formazione di volvoli causando la patologia detta addome acuto (si tratta di una
peritonite acuta) in cui il contenuto fecale fuoriesce dalle anse intestinali e finisce nel peritoneo.
- Malattie autoimmunitarie: glomerulonefriti autoimmunitarie, artrite reumatoide, tiroidite, lupus
eritematoso sistemico. Nel lupus eritematoso sistemico si formano dei complessi antigene-anticorpo
contro antigeni nucleasi (DNA, dsRNA, nucleoproteine, etc...); i complessi antigene-anticorpo si
depositano a livello dei piccoli vasi (vasi cutanei e vasi del glomerulo) dove depositandosi innescano
un fenomeno infiammatorio cronico e causano glomerulonefrite.
- Malattie infiammatorie croniche ad eziologia ignota: sarcoidosi, malattia di Crohn. La sarcoidosi è
una malattia polmonare quindi spesso è messa in diagnosi con la tubercolosi. Il morbo di Crohn è
un’infiammazione cronica intestinale abbastanza presente; essa è estremamente studiata anche
perché è una patologia in incremento nelle popolazioni giovani.
Tra queste malattie fa parte anche la aterosclerosi ma di questa parleremo successivamente.

Oltre all’elemento temporale, cioè oltre alla scala temporale, gli elementi essenziali della flogosi cronica
sono:
o Il fatto che le cellule coinvolte e protagoniste del fenomeno infiammatorio cronico sono i fagociti
mononucleati, ossia i monociti macrofagi. Quindi si ha reclutamento e attivazione del sistema
fagocita mononucleato.
o In specifiche condizioni di flogosi cronica si ha reclutamento e attivazione dei granulociti neutrofili,
eosinofili e dei mastociti in specifiche condizioni di flogosi cronica. In particolare, gli eosinofili sono
frequenti nei fenomeni di flogosi cronica dove si instaura un meccanismo allergico (ipersensibilità di
I tipo) o in infezioni da elminti. I mastociti invece, si trovano nei tessuti connettivali vestiziali
perivascolari, sono “bombe ad orologeria” perché sono carichi di granuli di istamina e hanno delle
membrane estremamente vivaci in cui basta poco per fare attivare la PLA2 e far attivare il
metabolismo dell’acido arachidonico per le due vie canoniche (ciclossigenasi e lipossigenasi).
o Nelle infiammazioni croniche si ha reclutamento e attivazione delle cellule della risposta
immunitaria specifica (linfociti T e B) verso antigeni persistenti (antigeni endogeni, antigeni esogeni
solubili o liberati da microrganismi). Ricordiamo che esiste un cross-talk tra fagociti mononucleati e
linfociti T e B (soprattutto i linfociti T).
o Generazione del tessuto di “granulazione” con i suoi elementi caratteristici (endoteli vascolari,
fibroblasti, macrofagi). Quando ci si sbuccia solitamente si forma la “crosta” che è un coagulo di
fibrina seccato all’aria e aderente al tessuto lesionato da cui è fuoriuscito il sangue; quando si gratta e
si rimuove la crosta, sotto la crosta si vede un tessuto molto rosso e gelatinoso e spesso sanguina;
tale tessuto è il tessuto di granulazione che ha questo aspetto macroscopico. Il tessuto di
granulazione si forma per iniziare a riparare un danno tissutale, è formato da nuovi vasi (che
facilmente sanguinano), dai macrofagi che erano usciti dai vasi e si erano differenziati per ripulire il
tessuto, e da iniziali fibroblasti; il tessuto di granulazione è il primo step della formazione del tessuto
di riparazione ad un danno ed è anche il primo step nella riparazione di una ferita cutanea. La
formazione del tessuto di riparazione è tipica e peculiare sia delle ferite cutanee sia nei fenomeni
infiammatori cronici; ed è peculiare l’evoluzione del tessuto di granulazione verso un tessuto
fibroso. Quando la crosta va via da sola, sotto di vede il tessuto cicatriziale o tessuto fibroso
(possono essere considerati sinonimi) ossia un tessuto ricco di fibroblasti e di collagene secreto dai
fibroblasti stessi.

Analizziamo adesso le differenze istologiche e istopatologiche. In figura A vediamo cosa succede in una
flogosi acuta a livello
del miocardio
infartuato; qui si ha:
iperemia (vasi che si
dilatano), pertanto si
vedono i globuli rossi,
e si ha un richiamo di
polimorfonucleati
neutrofili nel vaso e in
generale
nell’interstizio (i
polimorfonucleati si
riconoscono perché il loro nucleo assomiglia alle foglie dei trifogli). Quindi nella parte A della figura si ha
edema e poi i neutrofili (tipici della flogosi acuta). In B invece abbiamo: i monociti che non solo fuoriescono
dal sangue ma rimangono lì poiché si sta evolvendo una forma infiammatoria cronica (i monociti macrofagi
si riconoscono perché sono cellule piuttosto grandi con un nucleo non fortemente basofilo e non plurilobato
ed ecco perché sono dette cellule mononucleate); i linfociti, cellule piccolo con pochissimo citoplasma e
praticamente “tutta nucleo”, con un nucleo bello tondo e molto basofilo; i fibroblasti (in figura se ne vede
uno solo quindi siamo in una fase non ancora avanzata di fibrosi da flogosi cronica); la formazione di nuovi
vasi (vediamo masserelle addossate tra loro), che poi sanguinano nel tessuto di granulazione sotto la ferita
cutanea, e da cui poi evolverà il tessuto cicatriziale vero e proprio.

Breve riassunto delle cellule monocito/macrofagiche.


In figura vediamo un’altra immagine
di confronto tra una flogosi acuta dle
polmone (in B) e un processo
infiammatorio cronico di un polmone
(in A). In B osserviamo che nei setti
intralveolari (freccia rossa) ci sono
tanti globuli rossi, quindi questi sono
segni di iperemia; abbiamo anche
presenza di polimorfonucleati neutrofili sia nei setti sia all’interno degli alveoli: si tratta di una flogosi
acuta polmonare (broncopolmonite – diversa dalla polmonite del coronavirus dove tale situazione istologica
si verifica negli interstizi piuttosto che negli alveoli), caratteristiche delle angioflogosi. In A invece non si
riconosce più bene il polmone ma quello che caratterizza il preparato è il fatto che non ci sono tanti spazi
vuoti ma c’è molto parenchima caratterizzato da accumuli di cellule infiammatorie (fondamentalmente
cellule linfocitarie e cellule monocito/macrofagiche) con segni di distruzione del parenchima e formazione di
tessuto fibroso. Ci sono quindi segni di istoflogosi: l’accumulo di cellule infiammatorie croniche
mononucleate e i segni della fibrosi.

I monociti sono cellule che si trovano nel sangue che derivano dal midollo osseo, dove riconosciamo la
presenza di cellule staminali ematopoietiche midollari, commissionate (committed) verso la linea
monocitaria e da cui derivano i monoblasti ossia i precursori dei monociti. I monociti nel sangue sono
cellule tonde, di circa 10 µm con un nucleo che presenta una tipica indentatura e detto reniforme poiché
ricorca la struttura del rene. Nel citoplasma ci sono molti organuli, i mitocondri e molte granulazioni che
sono poi i granuli che servono per la fagocitosi (per i lisosomi). Il fagocita esce dal vaso e si differenzia in
un macrofago ossia una cellula che aderisce al tessuto. I macrofagi possono essere fissi nei tessuti (es.
microglia, cellule di Kupffer, macrofagi alveolari nel polmone, osteoclasti deputati al rimodellamento
dell’osso) o possono andare incontro ad un fenomeno di attivazione che, come si vede in figura
nell’immagine a destra, prevede un aumento del numero di granulazioni, fondamentali per l’attività
fagocitica dle macrofago. Anche le cellule dendritiche hanno più o meno la stessa derivazione del
monocito/macrofago; le cellule dendritiche sono cellule dotate di tantissimi recettori (non clonali) come ad
esempio i TOR-like receptors, ossia i recettori che fanno parte della famiglia pattern-recognition receptors
(PPR). Le cellule dendritiche si trovano nei tessuti e sono una prima difesa poiché sono in grado di
riconoscere tante molecole presenti sui microrganismi patogeni (tramite i PPR).
Quali sono le funzioni dei macrofagi? Vediamone una lista:
- Ingeriscono ed uccidono microrganismi (ad esempio con la formazione di specie reattive di ossigeno e
azoto). Si tratta dei fagociti, nella flogosi acuta il protagonista è il polimorfonucleato neutrofilo mentre
nella risoluzione o nella flogosi cronica il fagocito principale è il monocito/macrofago.
- Ingeriscono cellule morte dell’ospite (ad esempio neutrofili morti dopo la flogosi acuta, cellule tissutali
morte, cellule apoptotiche, etc...).
- Secernono citochine (ad esempio per attivazione delle cellule endoteliali) e ne possono secernere tante.
Secernendo citochine infiammatorie, ad esempio IL-1, IL-6, TNF, possono attivare le cellule endoteliali
che sono coinvolte nei fenomeni di infiammazione (ricorda: fenomeni infiamatori in cui le cellule
endoteliali sono attive, ad es. rolling, adesione leucocitaria della diapedesi) ma anche nell’omeostasi.
Quindi il macrofago può fare da tramite tra il processo infiammatorio puro e un fenomeno
infiammatorio complicato dall’attivazione di un fenomeno emostatico.
- Secernono fattori di crescita (ad esempio angiogenesi, fibrosi, aterosclerosi, etc...). Ad esempio possono
secernere fattori di crescita che agiscono sulle cellule endoteliali ma stimolandone la proliferazione e
in questo modo si stimola la crescita di nuovi vasi ossia la neoangiogenesi; la neoangiogenesi dà poi
luogo al tessuto di granulazione. Il macrofago dunque secerne fattori di crescita, tra cui VEGF
(Vascular Endothelial Growth Factor) ol fattore di crescita vascolare, che è uno dei fattori di crescita
più attivi nell’indurre la crescita di nuovi vasi. I macrofagi possono produrre anche fattori di crescita
che stimolano i fibroblasti, tra cui FGF (Fibroblast Growth Factor), che è un forte stimolatore dei
fibroblasti, i quali possono proliferare e/o secernere collagene. Mettendo assiene la neoangiogenesi, la
crescita dei fibroblasti e la produzione di collagene, ritroviamo il tessuto cicatriziale che caratterizza
non solo la cicatrizzazione delle ferite ma anche le flogosi croniche.
- Agiscono come APCs (Antigen Presenting Cells). Una cellula presentante l’antigene è una cellula che
può presentare l’antigene alle cellule dell’immunità specifica o adattativa e in particolare può
presentare l’antigene alle cellule dell’immunità adattativa (principalmente linfociti T). I linfociti T
infatti presentano il recettore per l’antigene detto TCR (T-Cells Receptor) che è piuttosto piccolo e non
riesce a legare direttamente l’antigene e ha bisogno che questo gli sia presentato per legarvisi
stabilmente: le APC hanno il compito di presentare l’antigene. Queste APC poi le studieremo in altri
corsi più in dettaglio: esistono alcune molecole ossia le colecole del maggior complesso di
istocompatibilità (MHC) su cui si sono alloggiati gli antigeni (i peptidi antigenici) e il TCR del linfocito
T legherà in parte l’antigene e in parte la molecola MHC che presenta l’antigene. Comportandosi da
APC, è ovvio che i macrofagi richiamano le cellule dell’immunità adattativa/specifica.
- Esprimono TF (Tissue Factor), o fattore tissutale o tromboplastina tissutale, che è l’elemento cruciale
che innesca la via estrinseca della coagulazione. Una volta esposto, in presenza di ioni calcio e fattore
VII, il complesso fattore VII-fattore tissutale-ione calcio lega e cliva il fattore X ossia si comporta da
complesso tenasico della via estrinseca; il fattore X così attivato può andare a formareil compesso
protrombinasico che cliva e attiva la protrombina, la quale diventa trombina e cliva il fibrinogeno
portando così alla formazione del reticolo di fibrina. Quindi il macrofago è un forte attivatore della via
estrinseca della coagulazione. Quindi tutte le volte che c’è un’attivazione macrofagica, e quindi anche
tutte le volte che c’è una flogosi cronica, si può avere anche un’attivazione incontrollata (e
indesiderata) del processo coagulativo ed emostatico. Questo poi ci aiutera a capire come mai
nell’aterosclerosi (uno dei prototipi di infiammazione cronica dove si ha una forte attivazione del
macrofago) si ha una forte attivazione involontaria dell’emostasi per cui dall’aterosclerosi (ferita
aterosclerotica) si innesca un fenomeno trombotico.
Consideriamo adesso la figura a fianco.
Il monocito circola, aderisce al tessto
(usando gli stessi meccanismi dei
leucociti durante l’infiammazione), fa
diapedesi e -richiamato da stimoli
chemiotatici- si ferma nel tessuto.
Il macrofago può essere attivato per via
non immunologica (qui ricordare:
l’endotossina, e quindi i microrganismi
possono attivare il macrofago; i
chemical-mediators dell’infiammazione)
o per via immunologica (linfociti T).
Quali linfociti T possono attivare il
macrofago? I linfociti T che esprimono il
corecettore CD4 e che hanno funzione
helper (TH1). Infatti, tutti i linfociti T
esprimono il TCR e il recettore CD3,
solo alcuni invece esprimono il
corecettore CD4 (con funzione helper),
altri esprimono il corecettore CD8 (sono
i linfociti T citotossici); quelli che
collaborano con il macrofago cono
fondamentalmente i CD4 (helper) che riconoscono l’antigene presentato dal macrofago, il linfocito T così
attivato dal macrofago secerne delle citochine e se il linfocito è attivato in modo appropriato la citochina
secreta sarà IFN-γ (interferone gamma). Un linfocito T CD4+ a funzione helper, che secerne IFN-γ, è
chimato linfocito TH1.
Il macrofago attivato per via non immunitaria (quindi per via infiammatoria) o per via immunologica
(tramite linfocito TH1) diventa “fully activated” ed è in grado di secernere fattori dell’infiamazione
(metaboliti tossici dell’ossigeno, protesi, chemochine, citochine, fattori della caogulazione, metaboilti
dell’acido arachidonico, etc...) ma anche fattori di crescita in grado di indurre la riparazione tissutale quali
ad esempio: FGF, fattori inducenti l’angiogenesi, TGFβ (Transforming Growth Factor β).
Quindi il macrofago può danneggiare o riparare il tessuto: esistono stati differenziativi del macrofago che lo
rendono preferenzialmente un macrofago in grado di fare danno o un macrofago in grado di riparare
danno; si parla di polarizzazione
(differenziazione) M1 nel primo caso o di
polarizzazione (differenziazione) M2 nel
secondo caso. Questo si vede
nell’immagine a fianco. M1 è attivato da
TLR receptors, da endotossine batteriche,
da prodotti presenti su microrganismi
patogeni, da linfociti T (IFN-γ); tale
macrofago produce prevalentemente
radicali dell’ossigeno, monossido di
azoto ed enzimi lisosomiali quindi è un
macrofago microbicida e infiammatorio,
inoltre produce chemochine, IL-1, IL-12,
IL-23, che sono citochine infiammatorie.
Quindi M1 è prevalentemente un
macrofago infiammatorio.
M2 è attivato da IL-13 e IL-4
(nell’immagine è sbagliato) e produce
fattori di crescita che inducono
riparazione e fibrosi (TGF-β e poliammine di prolina) e citochine con effetto antinfiammatorio (IL-10 e
TGF-β) che contrastano la funzione di M1.
Tutto questo quadro ci dice che in un’infiammazione cronica dove i macrofagi fuoriescono, si attivano e si
produce un “tabulum citochinico”, pertanto si otteiene la polarizzazione del macrofago verso un macrofago
più infiammatorio (istolesivo) o un macrofago più riparativo e cicatriziale; secondo il bilanciamento di
queste due tipologie di macrofago si avrà una flogosi molto istolesiva o molto riparativa ma comunque una
flogosi cronica in cui coesistono fenomeni infiammaotri e fenomeni riparativi.
Quindi la caratteristica dell’istoflogosi (copresenza in contemporanea di fenomeni infiammatori e
riparativi), peculiare dell’infiammazione cronica, può essere ricondotta al ruolo centrale e fondamentale del
macrofago e dei suoi processi di attivazione grazie ai quali ritroviamo, nel tessuto sede di infiammazione,
macrofagi polarizzati in un senso o nell’altro, che sono disposti o a mantenere il danno e il richiamo
dell’infiammazione o a riparare il danno e generare un tessuto di riparazioe (fibrotico) che comunque in
questo contesto fa un danno.

La flogosi cronica è quindi una istoflogosi, in cui prevalgono gli elementi tissutali rispetto alle modificazioni
del calibro e della premeabilità dei vasi. Il termine “cronico” non ha solo significato temporale infatti tale
situazione è caratterizzata dalla co-presenza di fenomeni infiammatori e fenomeni riparativi (cicatriziali).
L’elemento fondamentale cellulare di questa fase è il macrofago e l’attivazione del macrofago spiega le
caratteristiche istologiche e funzionali delle flogosi croniche: la presenza di macrofagi attivati, la presenza di
cellule dell’immunità specifica (linfociti T e B) e la presenza del tessuto di granulazione e del conseguente
tessuto cicatriziale fibrotico. Tutto questo dipende infatti dal macrofago e da come esso viene polarizzato
verso una delle due possibili attivazioni, una più infiammatoria e una più riparativa: il bilanciamento (che
non esita in una risoluzione) fa sì che quella situazione ossia quel fenomeno infiammatorio, non risolva ma si
cronicizzi e mantenga lo stato di malattia. Solo svincolando questo circolo vizioso della continua
infiammazione-riparazione-reclutamento immunità specifica, si può porre la parola “fine” ad un processo
infiammatorio cronico che altrimenti è molto invalidante e potenzialmente mortale.

2/04/2020
Rivisitazione sui concetti principali dell’immunità specifica cellulo-mediata.
L’immunità specifica o adattativa viene distinta nelle due branche principali: immunità umorale e immunità
cellulo-mediata. La prima prevede il riconoscimento dell’antigene della sostanza estranea (not self)
attraverso anticorpi che svolgono la branca effettrice riconoscendo antigeni extracellulari, legandoli ed
eliminandoli attraverso tre meccanismi:
1) Neutralizzandoli (soprattutto per le tossine);
2) Attivazione del complemento. Il complemento è l’insieme di proteine plasmatiche che possono essere
attivate con una cascata simile a quella della coagulazione tramite via classica (parte dai primi
componenti del complemento, C1QRS che lega il frammento cristallizzabile delle immunoglobuline ossia
Fc degli anticorpi e partendo dal legame di Fc e C1QRS, parte l’attivazione della cascata), via alternativa
e via lectinica (queste due attivano un componente del complemento a valle di C1 ossia C3). In questo
meccanismo gli anticorpi legano l’antigene con il Fab e attivano il complemento con Fc; gli anticorpi
migliori per farlo sono IgM perché si trovano in circolo come pentameri di globuline e quindi hanno 5 Fc
vicini (anche le IgG sono comunque in grado di attivarlo).
3) Attivazione della fagocitosi. Si basa sulla capacità degli anticorpi di funzionare da opsonine cioè sulla
capacità di attivare la fase di riconoscimento del processo di fagociosi. In questo processo le
immunoglobuline migliori sono le IgG perchè sulla membrana dei fagociti (neutrofili e macrofagi) si trova
un recettore ad alta affinità per il frammento Fc delle immunoglobuline IgG.
4) Volendo possiamo torvare un quarto meccanismo che però è associato al primo. Si formano degli
immuno-complessi che neutralizzano e intrappolano l’antigene; tali immuno-complessi sono eliminati dal
sistema del complemento e dai recettori del complemento associati alle cellule fagocitiche.
Nell’immunità umorale quindi gli anticorpi fanno da recettore per l’antigene e mediano il meccanismo
effettore per eliminare l’antigene; gli anticorpi tuttavia “stanno” come i recettori sulla membrana delle
cellule e sono prodotti dalle cellule, ossia i linfociti B. Dunque è vero che l’immunità umorale è basata sugli
anticorpi ma non si deve disconoscere che in questo tipo di immunità entrano in gioco anche i linfociti B,
che presentano un recettore per l’antigene (un immunoglobulina ossia un anticorpo) e che, una volta attivati
differenziano a plasmacellule (pronte a metterre in atto la secrezione e l’esocitosi) che secernono gli
anticorpi, che vanno così a rimuovere patogeni e tossine extracellulari con neutralizzazione, attivazione del
complemento o attivazione della fagocitosi.
La seconda branca dell’immunità specifica è l’immunità cellulo-mediata, dove entrano in funzione le cellule
e tutto si svolge attraverso la loro attivzioe; tali cellule secernono anche delle molecole ma l’attivazione
cellulare e la messa in funzione di meccanismi cellulari è il “core” principale di questa branca. Le cellule
coinvolte in questa fase sono i linfociti T, che riconoscono l’antigene mediante il recettore TCR (che è
strutturalmente simile all’Ig ma più tozza, ossia una parte del Fab). L’immunità cellulo-mediata serve
principalmente a combattere organismi e microrganismi intracellulari e virus. Questo tipo di immunità
consta di tre fasi (che valgono anche per l’immunità umorale): 1) attivazione dei linfociti; 2)
differenziamento in linfociti T effettori; 3) reazioni immunitarie cellulo-mediate.
I linfociti T sono attivati da antigeni che legano il recettore TCR; per avere una completa attivazione ci deve
essere un co-stimolo e quindi devono essere attivati recettori co-stimolatori, poi avvengono una serie di
eventi intracellulari di trasduzione del segnale ossia una cascata di attivazione di protein chinasi che esita
nell’attivazione di fattori di trascrizione che poi direzionano la funzione del linfocito T attivato.
Il focus della funzione del linfocito T attivato è il
riconoscimento dell’antigene: il recettore TCR
ha bisogno di una cellula presentante l’antigene
(APC). Grazie a recettori polimorfici MCH,
espressi sulla membrana plasmatica delle APCs,
che possono alloggiare peptidi diversi (che
riconoscono antigeni diversi); un epitopo del
peptide verrà riconosciuto in modo specifico dal
recettore della cellula T quindi si forma questo
rapporto tra linfocita T e APC, la cosiddetta
sinapsi immulogica. Tutto questo avviene negli
organi linfoidi secondari (linfonodi, milza).
Le APC migliori sono dette APC professionali e sono rappresentate dalle cellule dendritiche, dai macrofagi,
dalle cellule epiteliali timiche (nel timo) e dai linfociti B. Queste sono cellule che presentano un MHC
particolare, detto MHC di seconda classe (MHC II). In caso di necessità, tutte le cellule del nostro
organismo possono funzionare da APC ma queste usano un recettore MHC diverso da quello delle APC
professionali, detto MHC di prima classe (MHC I); il recettore MHC I lega peptidi diversi dal recettore
MHC II.
Su queste differenze si basa il meccanismo dell’immunità cellulo-mediata.
I linfociti T esprimono tutti il recettore TCR ma non sono tutti uguali tra loro:
Abbiamo una grande categoria che esprime il recettore CD8, queste cellule sono dette linfociti T citotossici,
e il recettore TCR di tali cellule lega MHC I (APC non professionali) e questo legame è una difesa
fondamentale contro i virus e porta all’uccisione della cellula infettata da virus; l’altra grande categoria
sono cellule T con recettore CD4, dette linfociti T helper, e tale recettore lega peptidi presentati su MHC II
(APC professionali). Quindi abbiamo linfociti T con CD4 o CD8, entrambi attivati da APC: il primo da APC
professionale perché il TCR e il co-recettore CD4 legano MHC II; il secondo interagisce con APC non
professionali perché con TCR e con il corecettore CD8 è in grado di legare MHC I.
Come avviene l’attivazione dei CD4? Abbiamo detto che CD4 riconosce l’antigene associato a MHC II;
sulla membrana plasmatica di MHC II vengono alloggiati antigeni (peptidi di antigeni) che derivano da un
processo di endocitosi che avviene nelle APC professionali e tali peptidi sono riconosciuti da un linfocita T
CD4+ (helper). Anche i mecrofagi possono partecipare ma in questo caso non si parla più di endocitosi ma
piuttosto di fagocitosi; tutte le volte che un macrofago fagocita l’antigene extracellulare carica peptidi del
batterio sui propri MHC II e qui saranno riconosciuti dai linfociti T CD4+. Questo meccanismo è
fondamentale per capire cosa avviene durante una flogosi cronica, ossia una flogosi in cui l’elemento
cellulare portante è il macrofago che fagocita l’antigene e quindi è in grado di attivare una cellula T CD4+,
specifica per uno dei peptidi caricati sugli MHC II, e quindi tale macrofago sarà in grado di attivare
l’immunità cellulo-mediata. A questo punto i CD4 si differenziano secondo i segnali ricevuti in TH1, TH2,
TH17 o Treg: sono tutte CD4+ attivate da un APC con MHC II e un peptide di derivazione extracellulare.
Secondo come il peptide viene presentato, secondo lo stimolo dato da APC e il legame tra MCH II e TCR, la
cellula è stimolata e polarizzata (sono attivati specifici fattori di trascrizione) il T helper a diventare TH1,
TH2, TH17 o Treg. Il CD4 polarizzato TH1 serve ad attivare i macrofagi ossia potenzia la funzione dei
macrofagi; la seconda funzione di TH1, nel caso in cui questo si formi nel linfonodo e in particolare nei
follicoli (per questo è detto TH1 follicolare), è quella di potenziare le cellule B nella produzione di anticorpi
IgG, fenomeno detto switch isotipico perché i B, di propria natura inizialmente secerne IgM, magrazie
all’aiuto delle cellule CD4+ TH1, può switchare la classe ed iniziare a secernere IgG. Questo meccanismo
molecolare è reppresentato dall’SD IFN-γ. La produzione di IFN-γ avviene ad opera dei linfociti TH1 ed esso
è capace di attivare i macrofagi e i linfociti B modulandone la funzione, quindi potenzia l’attività
microbicida dei macrofagi e fa produrre ai linfociti B degli anticorpi opsonizzanti perché le IgG sono delle
immunoglobuline in grado di mediare la fagocitosi da parte dei macrofagi; quindi praticamente tutta la
funzione di IFN-γ viene focalizzata sul macrofago, ecco perché è questa la cellula che stiamo analizzando:
essa viene attivata da una APC professionale che con il proprio MHC II media l’interazione con il linfocito
TH e lo polarizza TH1, lo induce a secernere IFN-γ e tale molecola andrà a riconoscere il macrofago,
potenziandone le funzioni.
In figura si vede che la cellula APC lega il
linfocito TH, esso prolifera e se ne formano molti
grazie alla produzione di IL-2. Successivamente,
se l’APC ha polarizzato la cellula a TH1,
quest’ultima produce IFN-γ, che attiverà i
macrofagi. Se la cellule produce IFN-γ ma si
trova nei follicoli dei linfonodi, andrà ad
attivare i linfociti B e a switcharne la classe.
Se invece il TH CD4+ non ancora polarizzato,
che chiameremo “naif”, viene attivato in modo
leggermente diverso dalle APC (lo stimolo è
diverso), si attivano fattori di trascrizioni diversi
e la cellula si polarizza TH2. Il TH2 secerne altre
citochine (IL-4, IL-5, IL-9, IL-13) e switchano la
classe delle immunoglobuline prodotte dai
linfociti B in modo che i linfociti B producano
IgE; quindi queste cellule sono coinvolte nelle
reazioni dove sono coinvolte le IgE ossia
fondamentalmente le reazioni contro gli elminti
e i parassiti. I linfotici CD4+ polarizzati TH2
sono coinvolti anche in reazioni
immunopatogene in cui entrano in gioco le IgE,
ossia le reazioni di ipersensibilità di I tipo (o reazioni di tipo allergico), quindi hanno anche una “faccia”
patologica. Oltre a switchare la classe dei linfociti B, i TH2, soprattutto tramite la secrezione di IL-5,
richiamano e attivano gli eosinofili (che sono fisiologicamente importanti per eliminare elminti e parassiti)
che patologicamente ritroviamo nelle ipersensibilità di I tipo (nelle allergie).
I TH17 sono anche loro CD4+ TH polarizzati a TH17; essi secernono IL-17 e attivano/richiamano e
potienziano i neutrofili: essi entrano nella regolazione dell’infiammazione e pertanto li ritroviamo coinvolti
in tante patologie su base infiammatoria cronica su cui essi vongono attivati e in cui noi ritroviamo
neutrofili. Ecco perché nelle flogosi croniche avevamo messo la possibilità di avere neutrofili: si ha
comunque il macrofago che recluta linfociti T, li attiva, ma se li polarizza TH2 o TH17 richiama in questa
flogosi cronica anche eosinofili o neutrofili. La colpa del richiamo dei neutrofili è nella presenza dei TH17;
alcune patologie (vasculiti, forme da immunocomplessi), che sono flogosi croniche con un forte
coinvolgimento dei TH17 e pertanto un forte coinvolgimento dei neutrofili, queste sono le patologie
immunoinfiammatorie.
Oltre a tutti i linfociti già elencati, il linfocito TH CD4+ si può polarizzare anche in un fenotipo regolatorio
Treg, che sopprimo la risposta delle cellule T (mettono fine a tutto questo “marasma”); sono quindi cellule
fondamentali.
Quindi la risposta immunitaria è un delicato equilibrio tra linfociti stimolatori e regolatori, i primi attivano
le risposte immunitarie mentre i secondi le sopprimono. Ecco perché in molte patologie (patologie croniche,
patologie autoimmuni, patologie neoplastiche, etc...) si ha una disregolazione dei Treg, se questi non vengono
prodotti in numero adeguato o la loro funzione non è ottimale si ha un perturbamento dell’equilibrio e
quindi sarà maggiore l’attività della parte stimolatrice, viceversa se ne vengono prodotti in eccesso, la
risposta immunitaria non sarà adeguata (ad esempio nei confronti di una cellula tumorale).

Ciò che interessa a noi, è la branca dell’immunità cellulo-mediata che funziona nel seguente modo: una
cellula APC professionale, che può esprimere MHC II e presentare l’antigene; l’APC può funzionare di per
sé oppure diventare più efficiente presentando più MHC II (ognuno con un diverso antigene) diventando
molto più efficiente, ad esempio se stimolata da IFN-γ; l’APC attiva una cellula naif CD4+ polarizzandola
TH1 che produce IFN-γ, grazie al quale si attivano i macrofagi e quindi la loro funzione di fagocitosi (che
può essere lo stesso macrofago che ha funzionato da APC). Questa branca quindi è fondamentale per capire
il meccanismo con cui si passa da una flogosi acuta ad una flogosi cronica o il meccanismo con cui si
generano flogosi croniche.

Dunque la flogosi cronica è un’infiammazione che non soltanto perdura nel tempo ma è caratterizzata da una
persistenza di fenomeni infiammatori con caratteristiche diverse dall’infiammazione acuta,
fondamentalmente la presenza di cellule monocito/macrofagiche e la co-presenza di fenomeni di
rigenerazione, guarigione, cicatrizzazione. Sia la componente infiammatoria sia la componente di
guarigione/cicatrizzazione sono orchestrate dal macrofago che è uno tra gli elementi essensiali della flogosi
cronico. Ricordando gli elementi essenziali si ha: reclutamento e attivazione dei sistema fagocita
monocitario; reclutamento e attivazione dei granulociti neutrofili, eosinofili e dei mastociti in specifiche
condizioni di flogosi cronica; reclutamento e attivazione delle cellule della risposta immunitaria verso
antigeni persistenti (il macrofago è una APC quindi può attivare la risposta cellulo-mediata); generazione del
tessuto di granulazione con i suoi elementi caratteristici; progressiva evoluzione verso la fibrosi (i fibroblasti
attivati producono collagene).

In figura viene riassunto tutto ciò


che è in grado di fare un
macrofago. Il macrofago produce
i radicali dell’ossigeno e i
superossidi, i metaboliti
dell’acido arachidonico,
mediatori dell’infiammazione
(liso-PAF e PAF), citochine
infiammatorie (IL-1, TNF),
fattori di crescita (VEGF, FGF)
per le cellule staminali
ematopoietiche, frazioni del
complemento, enzimi lisosomiali
e sa esprimere le MHC II sulla
propria membrana. Quindi si
trasforma in una potente APC in
grado di reclutare ed attivare le
cellule T CD4+ polarizzandole TH1.

La flogosi cronica può essere di vari tipi. Ci possiamo trovare in una situazione in cui si ha una flogosi acuta
che perdurando nel tempo si cronicizza, ad esempio nel caso dell’ascesso che è una flogosi acuta
suppurativa, dove si ha un forte richiamo di polimorfonuclaeti neutrofili, una forte attivazione di
polimorfonucleati neutrofili che svolgono la loro funzione di fagocitosi e nel farlo uccidono il
microrganismo patogeno, uccidono sé stessi e riversando i prodotti di fagocitosi (in particolare i radicali
liberi dell’ossigeno) nell’ambiente circostante e nei vacuoli di fagocitosi (fogolisosomi) provocano un danno
tissutale. Se nel corso di una flogosi acuta suppurativa (o purulenta) ossia con molti neutrofili, si ha una forte
lesione tissutale si può formare una perdita di sostanza (un buco) nel tessuto dove si accumulano i neutrofili,
vivi o morti, e così si accumula il pus (raccolta di neutrofili più o meno vivi). Quindi in caso di forti lesioni
del tessuto da parte dei neutrofili, con perdita di sostanza e formazione di pus, allora tale pus si accumula nel
buco dovuto alla perdita di sostanza e si genera un ascesso. Un ascesso è una raccolta di pus localizzata e
circoscritta in un tessuto leso e all’interno di una cavità neoformata; esso si contrappone invece all’empiema
che è la raccolta di pus in una cavità preformata ossia una delle cavità dell’organismo, ad esempio l’
empiema della pleura (quando il pus si raccoglie nella pleura). In una situazione in cui l’attivazione dei
neutrofili non porta alla completa distruzione del microrganismo e quindi il microrganismo rimane e
continuamente attiva la risposta dei neutrofili, allora l’ascesso piano piano si cronicizza. Ciò che nella
situazione di ascesso cronico ci dice che siamo in una flogosi cronica è il fatto che mentre l’ascesso perdura
si forma, all’interno della cavità ascessuale, una sorta di capsula fibrosa: la cronicizzazione di un ascesso
significa la formazione di una capsula fibrosa che isola l’ascesso dal tessuto circostante ma questo non va
bene perché il microrganismo rimane lì, assieme al neutrofilo attivato (che fa danno). Arrivano
continuamente nuovi neutrofili, che fagocitano il microrganismo e che formano nuovi radicali dell’ossigeno
che distruggono il tessuto; il fatto che ci sia una capsula fibrosa impedisce però l’arrivo di altri meccanismi
che portebbero portare alla distruzione del microrganismo, come ad esempio gli antibiotici, ecco quindi la
pericolosità di un ascesso cronicizzato: dove si è formata questa capsula di fibrosi quindi si deve eliminare
tagliandolo (rimuovendo anche la membrana piogenica ossia la membranella da cui si riforma continuamente
il pus) e mettendo antibiotici nella cavità, così da evitare che si riformi. Questo quindi è un esempio di
flogosi acuta cronicizzata: un ascesso che va incontro a cronicizzazione.
Una seconda tipologia può essere la flogosi cronica detta ab initio, in realtà vi è già una flogosi precedente
ma non si sono avute manifestazioni così eclatanti come nell’ascesso: c’è stata un po’ di flogosi acuta
sottotono anche se poi si hanno tutte le manifestazioni della flogosi cronica con reclutamento e attivazione
dei macrofagi, attivazione dell’immunità specifica cellulo-mediata, attivazione dell’aspetto riparativo del
macrofago (macrofagi M1 che mantengono la flogosi, macrofagi M2 che inducono la riparazione) anche se
l’attività del macrofago continua. Le flogosi croniche ab initio sono caratterizzate istologicamente da una
diffusa infiltrazione di macrofagi e cellule dell’immunità specifica e da una diffusa necrosi.
Un terzo tipo di flogosi è la flogosi granulomatosa, che è sempre una flogosi cronica quindi ha sempre le
stesse caratteristiche (macrofagi, immunità specifica, fibrosi) ma in cui tutto questo avviene in loci
circoscritti che prendono il nome di granulomi. I grnulomi hanno una struttura istologica precisa, con cellule
ben riconoscibili dal punto di vista istologico e con un danno spesso simile a quello dell’ascesso
cronicizzato, in quanto si tratta di un danno che rimane circoscritto anche se i granulomi via via si fondono e
il danno si ingrandisce fino a che si hanno delle grandi perdite di sostanza circondate da tesstuto fibrotico.
L’esempio tipico di flogosi granulomatosa è la tubercolosi, e l’esempio tipico di lesioni con grande perdita di
sostanza e fibrosi circostante sono le cosiddette caverne tubercolari.

Vediamo adesso alcune immagini delle flogosi croniche ab initio (o non-grnulomatose) e flogosi croniche
granulomatose.
Un esempio di flogosi cronica non granulomatosa è la cirrosi
epatica. In figura si nota l’aspetto macroscopico del fegato,
sede di cirrosi epatica, e si vede (oltre all’aspetto traslucido,
dovuta a steatosi e steopatite che precedono spesso la cirrosi)
dei piccoli bubboni grigiastri assieme a zone circostanti che
“fanno emergere” il “bubboncino” che sono le zone di fibrosi.

In figura invece si vede una sezione al microscopio del fegato


cirrotico sopra citato. Si vedono i “bubboncini” grigiastri
sono epatociti non ordinati a formare il lobulo epatico come
di norma, ma sono epatociti disorganizzati, disordinati e
analizzando più in dettaglio si vedrebbe che sono epatociti in
attiva proliferazione, ecco perché da questi noduli epatocitari
proliferanti, può partire anche una crescita neoplastica ossia
un epatoecarcinoma. Si tratta di un vetrino di sezione di
cirrosi epatica colorato con la reazione tricromica di
Mallory, in uci in blu vengono colorate le fibre collagene, e si
osservano in blu le numerose fibre di collagene che vanno a
circondare questi gruppi di epatociti. I gruppi di epatociti non sono ordinati come in condizioni normali a
formale lobuli epatici ma sono disordinati e arruffati. Questi lobuli epatici disordinati e disoranizzati sono
rappresentati da epatociti che sono anche in fase proliferativa, più o meno lenta, e proliferano in modo
disordinato per questo non meraviglia che in alcune condizioni di cirrosi epatica si sviluppa un
epatocarcinoma. La situazione in blu si riferisce agli spazi portali ossia quelle zone di tessuto connettivo
(che in condizioni normali è quasi “virtuale”) che separano i lobuli e che normalmente sono quasi invisibili,
qui invece c’è molto collagene negli spazi portali e va a circondare e “strizzare” le terminazioni
intraepatiche dei vasi biliari (che trasportano la bile e la portano alla cistifellea). La fibrosi dei vasi portali
e lo “strizzamento” delle terminazioni dei vasi biliari che si trovano nei vasi portali è della colangite
sclerosante (sclerosing cholangitis). Oltre ai canalicoli biliari sono strizzate anche le terminazioni del
circolo portale: negli spazi portali abbiamo solitamente gli ultimi capillari che derivano dalla vena porta
pertanto se ho uno strizzamento dei vasi terminali del circolo portale, ho un aumento della pressione in
questi vasi ossia un’ipertensione portale. L’aumento della pressione idrostatica all’interno dei vasi terminali
del circolo portale porta ad uno squilibrio delle forze di Starling con alla fuoriuscita di liquidi dal circolo
portale e generazione di un trasudato (edema) che si accumula all’interno del peritoneo, quindi si ha un
accumulo di trasudato in una cavità preformata del nostro organismo. Tale accumulo di trasudato, che
deriva dal circolo portale che deriva dall’ipertensione portale nel fegato, presende il nome di ascite. In
figura inoltre si possono vedere (freccia rossa) cellule che infiltrano gli spazi portali (con profonda
infiltrazione degli spazi portali oltre che la fibrosi negli spazi portali); tali cellule sono fagociti
mononucleati (macrofagi) e piccole cellule mononucleate che rappresentano linfociti (prevalentemente T ma
anche B) che sono la “spia” di un infiltrato dell’immunità specifica: questa infiltrazione di macrofagi e
linfociti negli spazi portali è l’indicazione della flogosi cronica che abbiamo nella cirrosi e si accompagna a
fenomeni di riparazione della fibrosi. L’infiammazione e la rigenerazione nella fibrosi caratterizza, in
generale le flogosi cronica, in particolare questa flogosi cronica che viene definita una flogosi cronica
granulomatosa.
In figura si ha un altro quadro di cirrosi epatica con una
colorazione ematossilina-eosina. Qui si vede l’aspetto irregolare
dei noduli epatici che rigenerano, si vedono i segni della fibrosi
(tessuto calagermico fibroso) colorato molto chiaro, infine si
vede una punteggiatura intensa blu negli spazi portali che sono i
nuclei delle cellule monocito/macrofagiche e linfocitarie che
costituiscono l’infiltrato linfo-monocitario o infiltrato
mononucleato, che è la caratteristica istopatologica delle flogosi
croniche non granulomatose come è la cirrosi epatica.

Analizziamo adesso le flogosi croniche granulomatose.


In figura si vede l’aspetto istologico di un
granuloma. In particolare si vedono due granulomi,
piccoli (probabilmente si stanno fondendo). Le
caratteristiche del granuloma sono la presenza di
cellule grandi con molti nuclei, dette cellule
giganti, esse sono caratteristiche delle flogosi
croniche granulomatose. Quando i nuclei delle
cellule giganti sono localizzati prevalentemente
alla periferia della cellula (come in figura), le
cellule sono dette cellule giganti di tipo Langhans
che sono tipiche dei granulomi e in particolare dei
casi con una forte attivazione dell’imunità cellulo-
mediata (??? di tipo immunologico). Oltre a due cellule giganti di tipo Langhans, in figura si hanno tante
cellule tutte simili e piuttosto grandi, con citoplasma piuttosto abbondante e un nucleo caratterizzato da
ispessimento della membrana nucleare (cerchio nero in figura) e nucleolo piuttosto evidente (cerchio rosso
in figura); spesso il nucleo non è tondo ma ovalare e i vecchi patologi chiamavano questo nucleo “nucleo a
suola di scarpa” o “nucleo a ciabatta”. L’aspetto della cellula con citoplasma abbondante, non fortemente
colorato ma solo colorato (con colorazione ematossilina/eosina) e un nucleo a ciabatta, è caratteristico
delle cosiddette cellule epitelioidi che sono macrofagi. Si tratta di macrofagi diversi da quelli dell’infiltrato
mononucleato (visti nella cirrosi), sono infatti un po’ specializzati e detti, appunto, cellule epitelioidi. In
realtà, anche le cellule giganti sono macrofagi che non sono riusciti a digerire completamente il
microrganismo (se la causa del granuloma è stato un microrganismo; in figura si tratta di un micobatterio
della tubercolosi visto che è un granuloma tubercolare) e tentano di potenziare le attività macrofagiche con
l’aiuto dei linfociti che forniscono tanto IFN-γ, ma tutto questo esita nella formazione di una cellula con
tanti nuclei (dove dentro rimane il microrganismo) e nella formazione di cellule epitelioidi. Viceversa,
mentre le cellule giganti sono macrofagi con fagocitosi compromessa, le cellule epitelioidi sono macrofagi
fortemente stimolati dall’immunità specifica e da IFN-γ prodotto dai linfociti quindi producono tutto ciò che
possono (citochine, fattori di crescita, etc..) – a questo è dovuto il citoplasma abbondante – e riempiono il
granuloma di un insieme di citochine e fattori di crescita che, da una parte richiamano i vasi e la formazione
del tessuto cicatriziale e fibroso, mentre dall’altra saranno fattori di crescita e citochine che potenzieranno
il danno tissutale.
Intorno a questi aggregati dei cellule giganti e cellule epitelioidi si ha un insieme di cellule di cui si
riconosce il nucleo piccolo, tondo e fortemente basofilo: si tratta di linfociti e questo è l’aspetto di un
infiltrato linfocitario che, come in questo caso, tende a circoscrivere le cellule epitelioidi e le cellule gigante.
Insieme a queste cellule si trovano anche qualche (molto pochi) neutofili e in alcuni granulomi qualche
sparuto eosinofilo. Quello che invece colpisce è l’abbondanza dell’infiltrato linfocitario.
In alto nel vestrino si vedono le fibre di collagene e i nuclei dei fibroblasti: questo è un primo tentativo di
riparazione ed è infatti l’aspetto di un tessuto cicatriziale o fibroso. Questo è come si presentano i granulomi
e le flogosi croniche granulomatose: flogosi croniche più circoscritte, caratterizzate dalla presenza di
granulomi che sono formati da cellule giganti, cellule epitelioidi, infiltrato linfocitario e leucocitario
(neutrofili ed eosinofili) e segni del tentativo di guarigione ossia segni di fibrosi.
Un’altra caratteristica del granuloma è che si ha, in
modo più o meno evidente, la presenza di tessuto
necrotico (danneggiato), detta necrosi e mostrat in
figura. Il tipo di necrosi caratterizza anche il tipo di
granuloma. In particolare, in figura si vede una
situazione di tubercolosi a livello del polmone e un
granuloma con una cellula gigante (freccia nera), le
cellule epitelioidi (freccia rosso), l’infiltrato
immunitario (freccia blu) e la fibrosi, che quasi
circonda il granuloma; la parte più amorfa (freccia
verde) è la necrosi. La necrosi è sostenuta
dall’attivazione delle cellule epitelioidi, dalla produzione di sostanze radicaliche dell’ossigeno da parte del
macrofago ma molto, soprattutto in situazioni di granuloma immunologico, dalla produzione da parte delle
cellule epitelioidi di citochine come il TNF. Il TNF l’abbiamo vista come citochina infiammatoria ma è una
citochina necrotizzante (il nome sta oer Tumor Necrosis Factor) ed è in grado di indurre danno tissutale e
necrosi.

Nelle figure si vede un


altro aspetto ancora e si
vede benissimo la
necrosi: la parte
evidenziata è una parte
necrotica.
Nel granuloma della tubercolosi la necrosi ha un aspetto A B
istologico amorfo e leggermente iper-eosinofila (poco più
roasta del tessuto circostante); l’aspetto macroscopico era
“simile al formaggio”, per questo essa viene detta necrosi
caseosa e per lo stesso motivo si parla di granuloma caseante.
La si vede in figura A va destra, dove è mostrato un polmone
con una lesione focale (in giallo al centro) ossia un insieme di
granulomi. Il polmone si riduce in questo stato e questo è
l’aspetto della caverna tubercolare.
In B invece è mostrata una milza con una necrosi caseosa e
tanti granulomi (tutti i pallini più chiari). In questo caso la
causa è sempre la tubercolosi ed è chiamata tubercolosi lineare.

Andiamo adesso ad analizzare perché si forma un granuloma. Il granuloma si forma perché si ha un


microrganismo, ad esempio un micobatterio, che viene riconosciuto e fagocitato da un macrofago (ad
esempio in un polmone dal macrofago alveolare) ma poi abbiamo un richiamo, da parte dell’infiammazione,
di altri macrofagi e altre cellule dendritiche (anch’esse cellule della linea monocito/macrofagica). I
macrofagi residenti e i macrofagi
richiamati dall’arrivo del micobatterio e
dalla succesiva flogosi, inglobano il
micobatterio ma non si ha un’appropriata
distruzione del microrganismo fagocitato.
Il micobatterio mette in atto molti
meccanismi per bloccare la fagocitosi,
esso inoltre è molto ricco di cere e viene
pertanto digerito con difficoltà, rimanendo
dentro i fagolisosomi: per questo motivo il
macrofago si attiva e iperesprime MHC II,
su cui carica il peptide antigenico, quindi
recluta linfociti T e lipolarizza TH1; i
linfociti T polarizzati TH1 attivano con
IFN-γ il macrofago e reclutano nuovi
macrofagi e questi si accumulano in loco
anche se continuano a non riuscire a
distrugere il microrganismo. In questa
situazione si forma un accumulo di
macrofagi e linfociti che può proseguire:
alcuni macrofagi diventeranno cellule
giganti, altri diventano cellule epitelioidi.
Se si produce sufficiente TNF, o altri
prodotti necrotizzanti, si ha la formazione
della necrosi caseosa all’interno del
grnauloma. Alcuni dei macrofagi verranno
polarizzati TH2 quindi contemporaneamente si attivano processi di riparazione quindi si attivano le cellule
fibroblastche che producono collagene e si ha la formazione di un tessuto fibroso (fibrosi).

Nella figura seguente viene indicato il ruolo del TNF, che può sia indurre la fusione delle cellule e portare
alla formazione delle cellule giganti nucleate, sia (se prodotto dalle cellule epitelioidi) indurre la fusione
cellulare per formare cellule giganti e indurre la necrosi caseosa tissutale da formazione del granuloma
complesso. Pertanto si avrebbe accumulo di macrofagi, differenziazione in cellule giganti e cellule
epitelioidi, attivazione della fibrosi da parte del macrofago con attivazione di cellule endoteliali, formazione
del tessuto di granulazione, attivazione e reclutamento dei fibroblasti e induzione di secrezione di collagene
da parte dei fibroblasti con formazione della capsula e formazione del granuloma complicato con fibrosi e
necrosi caseosa centrale.

Una classificazione dei granulomi può essere la seguente:


o Immunologici: tubersolosi, leprosi tubercoloide, sifilide, schistosomiasi, sarcoidosi, zircoidosi,
berilliosi.
o Non immunologici:
- Non tossici: sfere di plastica, particelle di carbonio, metalli non tossici (ferro).
- Tossici: silice, talco, asbesto.
- Attivazione di C3: carragenani, caolino, idrossido di alluminio.
Tra queste ritroviamo anche parte della classificazione delle flogosi croniche. Infatti alcune flogosi croniche
sono granulomatose e tra queste quelle causate da microrganismi o da sostanze inerti riconoscono comunque
l’attivazione di un meccasnimo immunologico ossia determinano l’attivazione dell’immunità cellulo-
mediata, che in questo caso fa un danno perché l’agente o la sostanza inerte non viene eliminata in modo
appropriato dai macrofagi pertanto si genera un circolo vizioso che porta alla formazione delle cellule giganti
multinucleate, cellule epitelioidi e infine formazione del granuloma non immunologico. Alcuni granulomi
possono essere non immunologici (es. talco, asbesto, schegge, fibre di sutura) poiché non si ha una forte
attivazione del sistema immunitario.
La gran parte dei granulomi si cui ci occuperemo sono i granulomi di tipo immunologico di cui l’esempio
più classico è rappresentato dalla tubercolosi.

6/04/2020
Ricapitolando, la flogosi cronica ha due caratteristiche oltre alla caratteristica temporale (perdura nel tempo):
si evidenziano fenomeni infiammatori svolti soprattutto dalle cellule della serie monocito/macrofagica e in
parallelo sono attivati e mantenuti fenomeni di tipo riparativo (generazione del tessuto di granulazione che
evolve in un tessuto cicatriziale fibrotico). Anche i fenomeni di tipo riparativo sono centrati sulla figura del
macrofago quindi l’elemento cellulare fondamentale del processo infiammatorio cronico è il macrofago.
Non tutte le flogosi croniche sono uguali, alcune evolvono da una flogosi acuta (es. ascesso) mentre altre
sono flogosi croniche ab initio (termine fuorviante perché flogosi acuta si ha comunque, anche se essa non dà
segni di se stesa). Le seconde si possono suddividere in non-granulomatose e granulomatose. Nelle prime si
osserva dal punto di vista istopatologico un’infiltrazione diffusa di cellule monocito/macrofagiche associate
a cellule linfocitarie (immunità specifica, in particolare linfociti T e alcuni B); anche in queste flogosi si ha il
bilanciamento tra processo infiammatorio e riparatorio quindi anche in queste osserverò il processo di
riparazione cioè la fibrosi. Di questa tipologia di flogosi abbiamo visto la cirrosi epatica, che evolve da
situazioni di epatite cronica, che possono istaurarsi da sole (virali) o essere susseguenti alla steatosi
(accumulo di trigliceridi nei tessuti, in particolare nel fegato) che accompagnata da un’infiammazione
diventa steatoepatite che può evolvere in una cirrosi.
Le flogosi croniche granulomatose prevedono la formazione di
granulomi ossia aggregati di cellule e natura
monocito/macrofagica. Nel granuloma si ritrovano due aspetti
differenziativi del monocitomacrofago ossia la cellula gigante
(plurinucleata) e la cellula epitelioide (singolo grande nucleo e
abbondante citoplasma). Il termine epitelioide deriva dal fatto
che queste cellule si uniscono strettamente tra loro, con gap
junction ossia struttrue specifiche che legano una cellula
epitelioide all’altra ricordando l’epitelio. L’interpretazione di
questa disposizione delle cellule, tutte attaccate tra loro, portò a
pensare che queste cellule stessero a contenere l’agente
patogeno; in realtà le cellule epitelioidi del granuloma hanno
funzione più complessa perché esse sono cellule fortemente
secernenti.

In figura si vede il nucleo grande, con la cromatina addensata alla periferia e il nucleolo centrale
(caratteristica istologica della cellula epitelioide); si nota inoltre la forte presenza di reticolo endoplasmatico
con localizzazione citoplasmatica ma vicina al nucleo. Dunque, la cellula epitelioide è una cellula in grado di
produrre e di secernere numerose sostanze ossia citochine (che attivano i linfociti T CD4+ polarizzati Th1
come IL-12), chemochine (IL-1, TNF). Il TNF è importante per la formazione di granuloma dove tende
anche a formarsi tessuto di tipo necrotico e la necrosi nel granuloma spesso è riconducibile alla secrezione,
da parte delle cellule epitelioidi, di TNF ( questo è stato comprovato soprattutto per il granuloma di tipo
tubercolare). Inoltre, le cellule epitelioidi possono produrre fattori di crescita che richiamano/attivano le
cellule epiteliali e i fibroblasi, contribuendo alla formazione del tesusto di riparazione (tessuto fibroso
formato da fibroblasti e fibre collagene) e preceduto dalla formazione del tessuto di granulazione (molto
ricco di vasi). Ecco perché è importante il richieamo delle cellule epiteliali operato dalle cellule epitelioidi:
attivando e facendo proliferare le cellule epiteliali, esse formano nuovi vasi e si innesca il processo di
guarigione con formazione del tessuto di guarigione (in realtà anche la fibrosi stessa fa danno). Dal tessuto di
granulazione, per ulteriore e progressiva attivazione dei fibroblasti, si genera la capsula fibrosa che spesso
circonda il ganuloma.
La presenza delle cellule epitelioidi spiega la presenza nel granuloma di linfociti e soprattutto del tessuto
fibroso, fibroblasti e fibre di collagene.
Il macrofago si differenzia anche in cellula gigante che è una cellula che ha tentato di fagocitare l’agente
estraneo patogeno ma, per caratteristiche peculiari del microrganismo e per l’innesco della continua
attivazione di macrofago che però non riesce a distruggere il macrofago, le cellule non trovano altra via di
sopravvivenza se non fondersi tra loro (rimangono più nuclei) a formare una cellula gigante dove rimane
vitale il patogeno che ha innescato tutta la formazione del granuloma.
Tuto questo è sempre vero ma risulta utile ai fini didattici associarlo ad una patologia come la tubercolosi.

Tubercolosi. (PDF Robbins pp. 376-382)


Si tratta di una malattia comunicabile (mediata da organismi viventi), ed è una delle 10 principali causa di
morte a livello mondiale mentre è la 1° causa di morte da un singolo agente infettivo (fa più morte la
tubercolosi rispetto ad altre patologie, es. HIV). L’agente eziologico è il micobatterio della tubercolosi che è
un micobatterio che si diffonde nell’aria, attraverso le particelle di flug ed ha alta contagiosità nelgi
ambienti chiusi, sovraffollati, dove permangono queste particelle emesse con la tosse da soggetti affetti da
tubercolosi. Circa ¼ della popolazione mondiale è infettata con il micobatterio e quindi a richio di
sviluppare la malattia tubercolare; in questo caso quindi è importante la distinzione tra soggetto infetto e
soggetto malato. L’OMS ha lanciato una campagna di controllo della malattia tubercolare e i punti fondanti
fissati per il 2020 a partire dal 2015 (e ad oggi in parte raggiunti) sono: riduzione del 20% del tasso di
incidenza, riduzione del 35% della moralità, tutti i panzienti affetti non avrebbero dovuto più affrontare costi
esagerati, disponibilità di cure per 40 milioni di persone (tra 2018 e 2022), tratteamento di prevenzione per
almento 30 milioni di persone (2018-2022), fondi economici per la prevenzione di circa 13 miliardi di
dollari annuali (entro il 2022).
La maggioranza delle persone infettate ha una situazione in cui il micobatterio è sotto controllo, non ci sono
evidenze chiare di malattia, il micobatterio rimane contenuto nelle cellule giganti del granuloma dove si
replica poco e pertanto non si hanno evidenze lciniche di malattia. Questa è la situazione di infezione
latente, circa 1/3 della popolazione mondiale ha un’infezione latente da micobatterio della tubercolosi.
Come ci accorgiamo dell’infezione latente? Dalla ripsota immunitaria nei confronti degli antigeni del
micobatterio.
La risposta immunitaria di tipo umorale porta al rilascio di anticorpi nel siero, da parte delle cellule B
differenziate a plasmacellule. Gli anticorpi sono inizialmente immunoglobuline IgM (sono le prime che il
linfocito B secerne al primo contatto con l’antigene), che hanno latenza di circa un paio di settimane e
raggiungono il picco dopo 3-4 settimane per poi iniziare a decrescere dopo circa 4-5 settimane. Se
l’antigene è di tipo proteico (detto timo-dipendete) le IgM sono sostituiti da anticorpi IgG che rappresentano
gli anticorpi della risposta secondaria; essi sono detectabili nel siero dopo 4-5 settimame e la loro
concentrazione aumenta progressivamente, fino a raggiungere livelli molto elevati. Le IgG perdurano a
lungo ad alta concentrazione, dopodichè la loro concentrazione decresce, pur rimanendo a livelli elevati.
Quando abbiamo il plateau di concentrazione delgi anticorpi di IgG significa che siamo immunizzati nei
confronti di un organismo. Quindi per essere sicuri di avere una completa immunizzazione nei confronti di
un microrganismo basandoci sulla comparsa di anticopri del siero, dobbiamo: 1) considerare gli anticorpi
IgG, 2) aspettare almeno 5-6 settimane per essere sicuri (anche 4 potrebbe andare ma è meno sicuro). Ecco
perché, anche nel caso del coronavirus, i test sierologici saranno importanti successivamente per capire
quante persone si sono immunizzate. Le IgG comunque non sono diagnostici per un’infezione in atto; lo
sarebbro le IgM ma poiché queste vengono prodotte e secrete con una latenza di circa 2 settimane, si vedono
solo 2 settimane dopo l’infezione da coronavirus, e quindi solo sopo la positività del tampone (che rileva la
presenza dell’RNA virale nelle cellule e nelle secrezioni del faringe). Un altro aspetto siagnostico, che
riguarda la diagnosi sierologica dell’infezione è che man mano che si mantiene la risposta immunitaria
specifica (la memoria) aumenta anche l’avidità degli anticorpi quindi la determinazione dell’avidità
dell’anticorpo IgG ci dice anche da quanto tempo noi siamo stati in contatto o ammalati.
Dunque IgM segnala un’infezione in atto con memoria non ancora instaurata, IgG ad alta concentrazoine
segnala un’infezione pregrazza con immunità efficace con memoria, infine IgG con alta avidità segnala
un’infezione molto antecedente (1-2 anni prima del prelievo) e immunità francamente protettiva.
Nel micobatterio non si instaura questo tipo di immunità umorale quindi non si ricercano anticorpi contro il
micobatterio: la presenza di “immune responsiveness to mycobacterial antigens” non può essere effettuata
con test sierologici ma, poiché nei confronti del micobatteiro tubercolare (e altri numerosi organismi
intracellulari) viene evocata prevalentemente una risposta cellulo-mediata, mediata prevalentemente da
CD4+ polatizzati Th1, dobbiamo andare a ricercare come presenza di “immune responsiveness to
mycobacterial antigens” l’attivazione della risposta cellulo-mediata. Quindi non è una diagnosi sierologica
basata sull’identificazione di anticorpi specifici ma è una diagnosi che vede l’immunoità cellulo-mediata
contro il micobatterio e questo test diagnostico è detto “intradermo reazione di Mantoux” o “reazione alla
tubercolina” o “test alla tubercolina”. I mycobacterial antigens sono la tubercolina, che viene iniettata
intra-derma (di solito sull’avambraccio o sul braccio) con aghi sottilissimi: se si ha una “immune
responsiveness to mycobacterial antigens” sarà una piccola flogosi cronica (istoflogosi) quindi dopo un po’
di ore (2-3 giorni dopo l’iniezione) si cercherà al tatto, ossia toccando la zona, se nel punto dove è stata
iniettata la tubercolina si è formato un nodulo (istoflogosi) che sarà un aggregato di cellule
monocito/macrofagiche. L’unico modo per capire se una persona ha un’infezione latente o è stato in
contatto con il micobatterio della tubercolosi è evidenziare la presenza di una risposta immunitaria contro
la tubercolina e l’unico modo per farlo è vedere una positività alla intradermo reazione di Mantoux. Oltre
ad essere obbligatorio per tutti i medici, gli operatori sanitari, coloro che lavorano a contatto con gli
alimenti, tale test è necessario affinchè venga rilasciata la “sana e robusta costituzione” ai dipendenti
pubblici (loro devono fare test di reazione alla tubercolina e alla sifilide).
Solo in una piccola percentuale (5-10%) di persone infettate dal micobatterio, questa latenza e quindi
l’equilibrio tra risposta immunitaria e micobatterio che rimane latente a bassa attività replicativa, si rome e
si ha una malattia attiva. Soltanto quando la malattia è attiva (si hanno segni clinici) si ha l’infettività
poiché il bacterial burden (carica batterica) a questo punto è alto pertanto l’emissione all’esterno è alta e
quindi può avvenire il contagio.

Qual è la storia naturale della tubercolosi? Nel momento in cui un soggetto, stando in un ambiente chiuso
insieme a malati di tubercolosi attiva (es. centri accoglienza), si infetta con micobatterio della tubercolosi, si
ha un’infezione primaria. Il micobatterio finisce nelle vie aree dove viene fagocitato dai macrofagi residenti
negli alveoli, inizialmente dà un’alveolite (flogosi acuta a livello alveolare) e poi si innesca il fenomeno
infiammatorio croncio, si formano i granulomi nel polmone e poi anche nei linfonodi che si ritrovano a
livello dell’ilo polmonare. Se il soggetto ha una buona risposta immunitaria si forma il complesso primario
che va incontro alla cicatrizzazione (i microrganismi non sono più vitali e rimangono all’interno della
cicatrice) spesso all’interno dell’ilo polmonare; il linfonodo contenente batteri non vitali (dormineti) è detto
focolaio o complesso di Ghon. In alternativa, sempre a livello del linfonodo ilare o di lesioni parenchimali
nel polmone, se i microrganismi rimangono dormienti dentro i macrofagi, dentro le cellule giganti e dentro
il granuloma, si ha la situazione di lesione latente ossia tubercolosi latente.
Quindi normalmente l’infezione primaria porta al complesso primario e ad una prima malattia che si risolve
con cicatrizzazione e uccisione del microrganismo oppure il microrganismo rimane dormiente e rimangono
delle lesioni latenti. Questo avviene in un soggetto immunocompetente.
In un soggetto immunodepresso o in una situazione con alto bacterial burden, l’infezione primaria evolve
rapidamente in tubercolosi primaria progressiva con disseminazione massiccia attraverso la via ematogena
del micobatterio e il costituirsi della tubercolosi miliare, che ha localizzazioni multiple (polmone, fegato,
milza).
In una certa percentuale di casi di infezione latente, il micobatterio da dormiente diventa vivo e vegeto (ad
es. nel caso di un calo del controllo dell’immunità cellulo-mediata) oppure si ha una massiccia re-infezione
del soggetto con tubercolosi latente con la comparsa della cosiddetta tubercolosi secondaria che comporta
la formazione e crescita dei granulomi, la formazione di granulomi che si fondono tra loro con imponente
necrosi al loro interno e la formazione di lesioni caseose distruttive (prevalentemente a livello del polmone
ma anche extrapolmonari). Dal momento in queste lesioni compaiono, oppure direttamente dal momento
della tubercolosi secondaria, si può avere anche una tubercolosi secondaria progressiva con disseminazione
ematogena e tubercolosi miliare. In condizione di tubercolosi miliare o nella tubercolosi cavearia, il
micobatterio entra dal polmone nelle basse e nelle alte viee aree dove viene espulso con la tosse e quindi si
ha la situazione di alta contagiosità (che poi causa infezione primaria di un soggetto naive ossia che non ha
mai incontrato il micobatterio prima).

Cosa succede a livello cellulare? Nell’infezione primaria il micobatterio arriva negli alveoli dove viene
riconosciuto dai recettori non-opsonizzanti (es. mannosio, C3b ossia l’integrina o altre molecola TLR) dei
macrofagi alveolari. Il micobatterio sta dentro i fagosomi con una straordinaria capacità, grazoe alla sua
costituzione (cere, core factor), di alterare il processo di fagocitosi ossia alterando la maturazione del
fagosoma, impedendo la formazione del fagolisosoma, impedendo la formazione di vacuoli a pH acido dove
si può distruggere il micobatterio e in questo modo rimane nel macrofago e tende a proliferare. L’apparato
secretorio del micobatterio è importante e permette al microbo di crescere libero nel citoplasma dei
macrofagi. Se non si ha un’adeguata risposta immunitaria, il micobatterio fuoriesce dal macrofago
alveolare e va nel sangue causando batteriemia con disseminazione in sedi diverse (in tanti organi) e quindi
si ha la tubercolosi primaria progressiva.
Se però, mentre si ha questa situazione e prima di una grande disseminazione del batterio, il macrofago
alveolare si comporta da APC, overesprime MHC II e produce adeguata IL-12, il macrofago presenta
l’antigene a cellule T CD4+ del soggetto e riesce a polarizzarle a Th1, allora il Th1 si attiva e produce IFN-
γ che a sua volta attiva il macrofago, il quale riesce a distruggere il micobatterio (bypassando
l’impedimento alla maturazioen del fagolisosoma, riuscendo a produrre specie reattive dell’ossigeno e
ossido nitrico e attivando il processo di autofagia). Se non riesce ad ucciderlo proprio completamente si
intaura una convivenza tra micobatterio e macrofago attivato che è favorita anche dalla produzione di
chemochine e TNF da parte del macrofago attivato, con formazione de granuloma. Il granuloma per un
certo periodo di tempo può contenere il micobatterio in una lesione latente; in alternativa se viene meno il
controllo da parte di Th1 o se si ha una re-infezione, nel granuloma prevale la componente pro-
infiammatoria del macrofago e quindi gli M1 (questo bilanciamento tra macrofagi polarizzati M1 o M2 è
ancora in studio); il macrofago attivato produce TNF e chemochine, aumenta i granulomi e tali granulomi
sono continuamente mantenuti e viene mantenuta continuamente la necrosi caseosa dentro la quale viene
mantenuto un micobatterio dormiente con la formazione di una necrosi caseosa della tubercolosi
secondaria. Tale lesione fa dnno poiché erode il tessuto polmonare, quindi si va in una situazione di
insufficienza respiratoria, e contemporaneamente fa danno poiché fa diffondere il micobatterio rendendo il
soggetto infettante e quindi in grado di diffondere il micobatterio nella comunità ad altri soggetti.

La tubercolosi è molto interessante dal punto di vista biologico poiché solleva uno dei problemi maggiori
dal punto di vista dellì’immunità, ossia qual è l’interazione tra il batterio e la risposta immunitaria
dell’ospite, quanto questa interazione favorisce il micobatterio e quanto l’ospite. Infatti, è vero che il
granuloma contiene il micobatterio ed è tutto mediato da una risposta immunitaria efficiente, ma se il
cranuloma continua la necrosi caseosa è facile che si sviluppi un’infezione cavitaria: è l’immunità che
genera il granuloma ma si tratta di un’immunità che attraverso la formazione del granuloma provoca un
danno tissutale. Questo fenomeno immunologico è detto immunità-cellulo mediata ma più propriamente
ipersensibilità ritardata quindi rientra nelle situazioni immunopatogene poiché si ha una situazione in cui
l’immunità determina (indirettamente attraverso l’attivazione e la polarizzazione dei macrofagi) un danno
tissutale. Quindi con la necrosi caseosa si ha una di quelle situazioni immunopatogene che determinano un
danno tissutale nelle reazioni di ipersensibilità e in particolare nell’ipersensibilità ritardata (DTH, Delayed
Typer Hypersensitivity).
Mentre ceppi vitrulenti del micobatterio sopravvivono e si replicano all’interno dei macrofagi “resting”,
l’esposizione dei macrofagi a specifiche citochine può attivare i macrofagi in modo da renderli in grado di
uccidere il micobatterio:
- INFγ, prodotto dai linfociti T. Esso induce un’aumentata espressione della nitrossido sintasi 2, induce
la produzione di RNI (Reactive Nitrogen Intermediates) e incrementa la maturazione dei fagosomi e
l’autofagia.
- TNF contribuisce all’attivazione dei macrofagi, modula l’apoptosi delle cellule infettate, tuttavia un
eccesso di TNF contribuisce all’immunopatologia della TBC (tissue damage). Il micobatterio ha
sviluppato meccanismi per manopolare il TNF a suo vantaggio come ad esempio la secrezione di
adenilato ciclasi che aumenta la produzione di TNF da parte dei macrofagi.
- Vitamina D, interagisce con il proprio recettore nucleare e così media la trascrizione del gene che
codifica la catelicidina, il precursore di IL-37, una proteina in grado di uccidere direttamente il
micobatterio. Gli effetti della vitamina D nella protezione dell’infezione sono sotto studio, comunque
si pensa che essa, assieme a INFγ, contribuisca a modulare l’autofagia. Tuttavia la vitamina D si
attiva solo con irraggiamento solare quindi il ruolo della vitamina D nella tubercolosi era noto da
tempo in quanto, quando i malati di tubercolosi venivano portati al sanatorio (es. Pratolino) dove
stavano all’aria aperta e al sole, si potenziavano le risposte immunitarie dell’ospite e si conteneva la
malattia tubercolare (alcuni pazienti sono anche guariti).

Un modello nel quale si può studiare la storia natulare del granuloma tubercolare sono gli embrioni
trasparenti di Zebrafish. Negli altri organismi modello non si a lo sviluppo di un granuloma tubercolare ocn
le stesse caratteristiche del granuloma tubercolare umano mentre nello Zebrafish non solo si forma un
granuloma tubercolare simile a quello umano ma, poiché lo Zebrafish è trasparente, è possibile seguire i
movimenti.

SUMMARY POINTS: La tubercolosi va conosciuta poiché è una malattia estremamente importante,


frequente ed è la prima causa di morte per malattia infettiva ad agente singolo a livello mondiale. Si tratta
di una malattia peculiare nella cui storia naturale dobbiamo distinguere uno stato di tubercolosi latente ed
uno di malattia tubercolare. La latenza si ha perché si cosctituisce un tipo di flogosi cronica (flogosi cronica
granulomatosa) dove si costituisce il granuloma all’interno del quale si hanno micobatteri persistenti (più o
meno vitali) e cellule immunitarie; quindi si ha una situazione di bilanciamento tra l’ospite e il patogeno,
che è un bilanciamento favorevole ad entrabi poiché contiene il micobatterio, che così persiste, ma evita
anche la disseminazione del micobatterio evitando una disseminazione della malattia tubercolare ai diversi
organi. Tale bilanciamento è determinato da diversi fattori molecolari e cellulari. La comprensione dei
determinanti molecolari e cellulari che mantengono tale bilanciamento è ancora sotto studio.

Vediamo adesso il processo di riparazione della flogosi cronica (vedi la presentazione power point).
La rigenerazione di un tessuto, ad esempio la cute, si ha nel caso di un danno superficiale lieve con una
sofferenza delle cellule epiteliali ma senza che queste siano disstrutte o profondamente alterate, quindi il
tessuto epiteliale proliferando si rigenera e sostituisce le cellule epiteliali un po’ danneggiate. Se invece il
danno è grave e comporta una profonda perdita di sostanza, la rigenerazione del tessuto epiteliale non è
sufficiente a ricostituire l’integrità del tessuto e è necessario un fenomeno di riparazione o cicatrizzazione.
Il processo riparativo si distingue in 3 fasi:
- Fase infiammatoria. Tutte le volte che si ha un danno si
ha anche una prima risposta infiammatoria.
- Fase proliferativa. Si forma il tessuto di granulazione
quindi tale fas epuò essere suddivisa in tre ulteriori fasi:
1) formazione di nuovi vasi sanguigni (angiogenesi)
possibile poichè i vasi preesistenti producono
gemmazioni da cui germogliano i nuovi vasi (quindi si
ha proliferazione e migrazione profonda delle cellule
epiteliali); 2) migrazione e proliferazione dei
fibroblasti; 3) deposizione della matrice extracellulare.
- Fase del rimodellamento. Prevede la maturazione e
l’organizzazione del tessuto fibroso.
Si forma il tessuto di granulazione, un tessuto di tipo
connettivale che si forma ex novo, altamente vascolarizzato
e composto da capillari neoformati, fibroblasti proliferativi e
cellule infiammatorie (derivano dalla fase precedente e sono
prevalentemente monociti/macrofagi).
Nel tessuto cicatriziola vero e proprio scompaiono le
gemmazioni dei vasi, le cellule infiammatorie e gran parte
dei fibroblasti mentre rimangono alcuni fibrociti maturi e
fibrille prevalentemente di collagene.
Il processo di angiogenesi non lo trattiamo, poiché è già
stato fatto molte volte nei corsi, comunque ricordare che è
importante il VEGF, uno dei prodotti delle cellule
monocito/macrofagiche.
Nel processo di fibrosi, il TGFβ è il fattore più importante nella formazione del tessuto cicatriziale e nella
formazione del tessuto fibroso poiché esso è in grado di indurre la migrazione e la proliferazione dei
fibroblasti oltre che la produzione e la secrezione di collagene e fibronectina (da parte dei fibroblasti
attivati); esso inoltre è anche in grado di ridurre la degradazione della matrice ad opera delle metallo
proteasi. Quindi il TGFβ è il fattore pro-fibrogenico per eccellenza.
In realtà, il TGFβ è anche il fattore che caratterizza i macrofagi di tipo M2, ossia quelli riparatori e pro-
fibrogenici, che chiudono la risposta infiammatoria (quindi “anti-infiammatori”), e che sono stimolati
soprattutto da IL-4 e IL-13. Quindi il TGFβ in questa fase della fibrosi conferma il ruolo fondamentale del
macrofago nell’indurre il tessuto di riparazione e la successiva fibrosi, focalizzando l’attenzione sul
macrofago M2.
I macrofagi M2 sono un argomento di studio molto attuale in diverse patologie infiammatorie, in malattie infettiva, malattie
neoplastiche, malattie infiammatorie di cui non si pensava avessero patoenesi infiammatoria.
L’ultima fase del processo di riparazione, ossia la fase del rimodellamento consta della scomparsa del tessuto
di granulazione che viene sostituito da tessuto cicatriziale connettivale e ciò comporta un rimodellamento
della matrice extracellulare. In primis si ha una forte degradazione del collagene e di altre proteine della
matrice extracellulare ad opera di metalloproteinasi (MMP), ossia proteasi e collagenasi della matrice
extracelllare, dell’interstizio e della matrice legata alla membrana basale. Le tipologie di MMP sono prodotte
soprattutto da fibroblasti ma anche da macrofagi e neutrofili quindi tali proteine sembrano coinvolti anche in
molti fenomeni che canonicamente non vengono classificati come infiammazione.
La sintesi delle MMP è inibita dal TGFβ, esse infatti devono essere inibite perché, una volta attivate la loro
attivazione deve essere regolamentata in quanto sono proteasi e quindi potenzialmente molto dannosi. Quindi
si hanno sia inibitori delle metalloproteasi grazie a molecole prodotti dai fibroblasti e cellule mesemchimali
(TIMP) ma si ha anche un’inibizione attiva da parte del macrofago grazie alla produzione di TGFβ.

Vediamo adesso alcune immagini istologiche.


In figura si ha il tessuto di granulazione, in
cui si riconoscono i nuovi vasi e un tessuto
molle (si deduce dal fatto che è un tessuto
molle con tanti spazi chiari) con qualche
sparuta cellula dell’infiammazione (nuclei più
scuri). Quindi si ha un tessuto neoformato
caratterizzato da nuovi vasi, tessuto
connettivale lasso con pochi fibroblasti e
qualche cellula dell’infiammazione. Questo
tessuto di granulazione si forma in un
miocardio infartuato quindi fa parte delle
immagini viste all’inizio delle lezioni
dell’infiammazione in cui si analizzava cosa succedeva in seguito a danno ischemico in un tessuto come il
miocardio (iperemia, flogosi acuta con infiltrazione di neutrofili e infine formazione del tessuto di
granulazione). Il tessuto di granulazione sanguina facilmente, quindi nel caso particolare di infarto del
miocardio, se il miocardio continua a contrarsi il tessuto ri-sanguina; farmaci specifici (es. β-bloccanti)
riducono la frequenza di contrazione.

In figura si ha un maggiore ingrandimento in


cui si riconoscono i nuovi vasi, si nota la lassità
del tessuto e si riconoscono i macrofagi
(freccia rossa) ossia cellula grande con
citoplasma piuttosto abbondante, nucleo grosso
vescicoloso (cromatina addensata in periferia e
nucleolo ben evidente e spesso “a ciabatta”)
In figura si ha il confronto
tra un tessuto di
granulazione all’inizio
della sua formazione e un
tessuto praticamente
fibrotico. Anche il questo
caso il collagene è
evidenziato dalla
colorazione tricromica di
Mallory, in cui il collagene si colora di blu: nella prima fase è poco presente mentre con la maturazione la
quantità di collagene aumenta, costituendo il tessuto cicatrizioale e/o la fibrosi.

Vediamo il processo di guarigione delle ferite cutanee. In figura si ha la distinzione tra ferite/guarigioni che
avvengono per prima
intensione e ferite/guarigioni
che avvengono per seconda
intenzione.
In generale quando si ha una
ferita, nella prma giornata si
forma il coagulo di fibrina
che secca e forma la escara
(=crosta, che è fibrina con
sangue coagulato essiccato
all’aria); successivamente si
ha la flogosi con il richiamo
dei polimorfonucleati.
Dalla 3 giornata in poi, la
escara si riduce, e il coagulo
di fibrina rimane solo alla
superficie e si forma il tessuto
di granulazione, con
macrofagi, fibroblasti, nuovi
capillari e, nel caso specifico
delle ferite cutanee, le cellule
epiteliali dello strato basale
dell’epidermide cominciano a
proliferare (vanno incontro a
mitosi) rispristinando
l’integrità del rivestimento epiteliale. Questo avviene nella prima settimana, ecco perché durante questo
periodo non va eliminata la crosta.
Dalla prima settimana alle successive si ha la formazione della cicatrice, ossia tessuto fibroso cicatriziale nel
derma e riparazione dell’epidermide. Questa modalità ordinata accompagnata da una restitutio ad integrim
quasi completa, si ha nelle ferite di prima intenzione, quando la guarigione avviene per prima intenzione; per
prima intenzione si intendono tutte le ferite da taglio o nette in cui i lembi della ferita sono vicini tra loro
(ferita da taglio poco profonda o ferita da taglio profonda a cui abbiamo messo dei punti di sutura).
Nel caso di una ferita con grande perdita di sostanza e con lembi della ferita non vicini tra loro (e non è
possibile avvicinarli chirurgicamente) la guarigione avviene per seconda intenzione: le tappe sono le stesse
della guarigione per prima intenzione ma si ha la contrazione della lesione poiché molti fibroblasti, fina dalle
prime fasi si differenziano a miofibroblasti con forte capacità contrattile e contraggono la ferita (cercano di
avvicinare i lembi e poi comunque contraggono il tessuto fibroso). Quindi una guarigione di seconda
intenzione lascia sempre una cicatrice evidente.
Una guarigione di seconda intenzione avviene solitamente non per ferite da taglio ma ad esempio nella
cirrosi, in cui si ha una contrazione tale che i lobuli epatici sono proliferanti mentre il tessuto è “strizzato” tra
un lobulo e l’altro.
EFFETTI SISTEMICI DELLA FLOGOSI

Abbiamo detto che l’infiammazione è un fenomeno localizzato e tissutale, che ha ripercussioni sistemiche.
Gli effetti sistemici (ripercussioni sistemici) sono:
- Febbre (ipertermia febbrile): innalzamento della temperatura corporea;
- Leucocitosi (soprattutto neutrofila): innalzamento del numero dei leucociti circolanti;
- Aumento drammatico (talvolta centinaia di volte) della produzione di alcune proteine plasmatiche da
parte del fegato dette proteine di fase acuta;
- Aumento della velocità di eritrosedimentazione (VES);
- Modificazione della concentrazione plasmatica di alcuni cationi bivalenti (diminuzione di Fe2+ e Zn2+,
aumento di Cu2+);
- Aumento della proteolisi muscolare e dei processi catabolici;
- Risposta immunitaria (stimolazione e proliferazione cellule B, T e NK);
- Sonnolenza e mancanza di appetito, mialgia.
Sono quindi le classiche manifestazioni di un fenomeno infettivo e in generale di un fenomeno
infiammatorio. Questi aspetti non sono solo effetti sistemici ma sono anche aspetti diagnostici della flogosi.
Tutti questi effetti, per quanto in apparenza disparati, sono conseguenti alla produzione di TNF, IL-1 e IL-6
(pirogeni endogeni) da parte dei macrofagi a seguito della esposizione a pirogeni esogeni (endotossina).

FEBBRE
La febbre è un aumento della temperatura corporea al di sopra dei 37°C, che corrisponde alla nostra
temperatura interna che solitamente è misurata a livello della piega ascellare, della piega inguinale, alla
fronte, cavo rettale o cavo buccale. La misurazione a livello di cavo rettale e cavo buccale è quella più vicina
alla temperatura interna, nel cavo ascellare e nella fronte è sempre inferiore di 0.1-0.2°C: più è spesso il
pannicolo cutaneo e meno si sente la vera temperatura interna (ossia quella del sangue e dei tessuti profondi).
La temperatura corporea è strettamente controllata grazie all’attivazione di meccanismi di termogenesi o
termodispersione, che sono controllati da centri termoregolatori nervosi che sono localizzati nella regione
preottica ipotalamica (ipotalamo). La termogenesi è la produzione di calore da parte di tutte le cellule durante
il loro metabolismo che trasforma gli alimenti in calore, soprattutto carboidrati e lipidi (una parte di questa
energia viene anche immagazzinata sotto forma di ATP). A seguito dell’idrolisi dell’ATP in ADP da parte
delle ATPasi (attivate da diversi ioni calcio, sodio, potassio), viene rilasciato altro calore. La termogenesi è
stimolata dagli ormoni tiroidei, dall’adrenalina e dagli ormoni glicorticoidi: l’alterazione di questi ormoni
porta all’aumento della temperatura corporea, che però in questi casi non è febbre. Questa termogenesi è
detta ormonale o endocrina. L’organismo produce calore anche attraverso la contrazione dei muscoli
volontari (striati) in modo involontario (brivido); gli animali aumentano il calore anche con la piloerezione.
Altro modo in cui si può avere calore è anche la termoconservazione, che impedisce la termodispersione
grazie alla vasocostrizione (pallore).
La termodispersione avviene principalmente attraverso la cute con possibilità di dilatazione dei vasi
superficiali (rossore da riscaldamento). Il calore viene eliminato normalmente attraverso la perspiratio
insensibilis (evaporazione continua del sudore che riveste la cute) pertanto in condizioni di termodispersione
aumenta la sudorazione. La perdita di calore si ha anche per via respiratoria (aria) per via digerente (feci) e
urinaria (urina).

Quando si vuole aumentare la temperatura corporea il metodo più efficace è aumentare il metabolismo basale
ma i primi meccanismi messi in atto sono il brivido e la vasocostrizione. Questo infatti è ciò che avviene
durante la fase in cui la temperatura aumenta nel processo febbrile; il decorso dell’ipertermia febbrile consta
delle seguenti fasi:
- Fase di rialzo termico o fase prodromica: la temperatura inizia ad aumentare; l’individuo ha freddo,
aumentano la termoproduzione (brivido) e la termoconservazione (vasocostrizione-pallore).
- Fase stazionaria o del fastigio: la temperatura resta piuttosto costante (piccole variazioni giornaliere,
ritmiche o oscillanti); l’individuo ha caldo per elevata temperatura corporea.
- Fase della defervescenza: la temperatura diminuisce; l’individuo ha caldo e suda con aumento
termodispersione per sudorazione; questa fase può avvenire gradualmente (defervescenza per lisi) o
bruscamente (defervescenza per crisi).

L’ipotermia è la diminuzione della temperatura corporea al di sotto di 37°C (ad esempio a causa della
permanenza per lungo tempo in ambiente molto freddo).
L’ipertermia è l’aumento della temperatura corporea al di sopra di 37°C.
L’ipertermia in senso stretto (non febbrile) è l’aumento della temperatura corporea senza alterazione della
temperatura di riferimento; essa può avvenire per aumentata termogenesi ad esempio di origine endocrina
conseguente all’ipertiroidismo, a seguito di esercizio fisico, ipertermia maligna (da anestetici; malattia
ereditaria) oppure si ha anche iperemia in senso stresso da ostacolata termodispersione (es. colpo di calore).
Che differenza c’è tra febbre e ipertermia non febbrile? La differenza fondamentale è che nella febbre viene
alterato il meccanismo generale di regolazione della temperatura corporea. Si tratta di un meccanismo
neuronale in cui alcuni neuroni a livello dell’area preottica dell’ipotalamo che regolano la
dispersione/produzione del calore; questo meccanismo viene alterato. La velocità di scarica di questi neuroni
normalmente ha un valore di set point di 37°C; se questo set point viene alterato si ha la febbre.
Gli attori molecolari che cambiano il valore di set point sono i pirogeni esogeni he vanno ad agire sul centro
termoregolatore ipotalamico, alterando il centro termoregolatore; i pirogeni sono sostanze che aumentano la
temperatura e possono essere endogeni ossia si formano nel nostro organismo prodotti dai macrofagi e si
tratta di citochine infiammatorie e interferoni (IL-1, IL-2, IL-6, IL-8, IFNα, IFNβ, IFNγ, TNFα).
Dunque, la febbre provocata da
un pirogeno esogeno (batteri,
virus, endotossine, complessi
antigene-anticorpo) attiva i
fagociti e i meccanismi
dell’immunità innata e della
flogosi; i fagociti producono
citochine infiammatorie e
interferoni che si comportano
da pirogeni endogeni i quali
alterano il “termostato”
ipotalamico. Come
conseguenza, a livello
ipotalamico si ha la produzione
di prostaglandine (PGE), in
particolare PGE2, le quali
mediano l’aumento del
metabolismo ossidativo (che
provoca la termogenesi) e
agiscono anche sulla parte posteriore dell’ipotalamo, dove c’è il centro vasomotore, dove inducono la
vasocostrizione: questi due meccanismi mediati dalle prostaglandine portano ad un aumento della
termogenesi e ad un contenimento della termodispersione con aumento della temperatura corporea.
Quindi quello che caratterizza la febbre è un’alterazione centrale del termostato ipotalamico, causata dalle
citochine infiammatorie ed altre citochine prodotte dai fagociti mononucleati (macrofagi) attivati da diverse
sostanze chiamate complessivamente pirogeni esogeni. L’alterazione del termostato ipotalamico attraverso la
mediazione delle prostaglandine porta ad un aumento della termogenesi, ad un contenimento della
termodispersione a cui consegue l’aumento della febbre; sia l’aumento della termogenesi sia il contenimento
della termodispersione sono meccanismi fisiologici che controllano la temperatura corporea. Quindi la febbre
non altera i meccanismi di controllo della temperatura corporea né altera gli ormoni della termogenesi, né
altera direttamente i vasi ma alter soltanto il termostato: il resto del sistema di termoregolazione funziona
come in condizioni normali ma solo con un valore di set point diverso. In tutto questo si hanno due ruoli
fondamentali: il macrofago e le prostaglandine (attivazione del metabolismo dell’acido arachidonico).
Quindi non ci meraviglia che il trattamento con farmaci che bloccano la ciclossigenasi e la produzione di
prostaglandine, portino ad una diminuzione della febbre e quindi della temperatura corporea.

AUMENTO DELLE PROTEINE IN FASE ACUTA


Si tratta di proteine plasmatiche, e si ha l’aumento di C3, di fibrinogeno, della proteina A amiloide del siero e
soprattutto aumento della proteina C reattiva (PCR).
NB. La proteina C reattiva non va confusa con la proteina C che insieme alla proteina S inibisce i fattori V e VIII di coagulazione.
Questa è la risposta di fase acuta, durante la quale si possono dosare alcune proteine del siero e vedere un
aumento che va da un raddoppio del fibrinogeno fino ad un aumento di circa 1000 volte della proteina C
reattiva. Dunque, nella diagnostica dell’infiammazione si usa prevalentemente il dosaggio della proteina C
reattiva poiché essa va da concentrazioni quasi indosabili (nel plasma normale) a concentrazioni anche 1000
volte superiori (e quindi
indiscutibili); questo
grosso range di
concentrazione è utile
anche per monitorare
l’andamento
dell’infiammazione e
monitorare la risposta ai
farmaci anti-
infiammatori.

AUMENTO DELLA VELOCITA’ DI SEDIMENTAZIONE


Altra diagnostica, molto più rapida ma meno specifica è l’aumento della VES,
che è una spia dell’aumento del fibrinogeno. Gli eritrociti normalmente
sedimentano ma impiegano più tempo poiché non tendono a formare i roleaux,
che sono pesi e quindi sedimentano tuttavia, con molto fibrinogeno (proteina
molto carica positivamente) l’allontanamento dei globuli rossi tra loro (guidato
dalla repulsione tra cariche negative) è impedito, quindi si ha la formazione di
roleaux e allora gli eritrociti vanno a fondo più facilmente e quindi sedimentano
più velocemente nel fondo della provetta (vedi figura).
L’aumento della velocità con cui gli eritrociti sedimentano, quindi un aumento
della velocità di eritrosedimentazione è una spia di “fase acuta” e quindi una spia
di processo infiammatorio in atto.

AUMENTO DEL NUMERO DI LEUCOCITI


EMATOLOGIA

Affrontiamo adesso il problema delle patologie ematologiche. Le malattie del sangue e del sistema linfoide si
riassumono nel termine di malattie del sistema emolinfopoietico, tra queste si hanno malattie primitive, che
colpiscono tutto questo complesso organo emopoietico (emolinfopoietico) come le anemie, le malattie
emorragiche (già inquadrate nell’emostasi), le malattie trombotiche e le malattie neoplastiche come
leucemie, linfomi, gammapatie monoclonali (ossia malattie neoplastiche dei linfociti B caratterizzate da
alterazione proliferativa e differenziativa dei vari stadi differenziativi della linea linfocitaria B e
caratterizzate da produzione anomala di immunoglobuline e secrezione/presenza anomala di anticorpi in
urine e nel plasma). Abbiamo anche malattie secondarie ad altre malattie, tra cui la leucocitosi. La
leucocitosi è un effetto sistemico del processo infiammatorio infatti tutte le volte in cui si ha una situazione
infiammatoria acuta, in particolare secondaria ad un’infezione batterica, osserviamo una marcata leucocitosi
neutrofila nel sangue periferico. Per leucocitosi si intende un aumento del numero di globuli bianchi
circolanti, sopra il limite di 10mila elementi per mml, inoltre si dice neutrofila in quanto caratterizzata da un
aumento dei polimorfonucleati neutrofili nel sangue periferico che dalla percentuale di 45-60% arrivano
nelle leucocitosi all’80-90%. Tra le malattie del sangue secondarie si hanno le anemie secondarie come
complicanza di una malattia primitiva spesso stati di insufficienza renale, quindi malattie renali croniche,
oppure anche a seguito di tumori (l’anemia dal punto di vista eziopatogenetico è dissociata dal tumore ma si
accompagna ad esso) o infezioni. Tra le malattie secondarie si hanno anche le malattie emorragiche da
insufficienza epatica; il fegato produce fattori della coagulazione ed opera su alcuni di questi un processo
post-traduzionale ossia la carbossilazione dell’acido glutammico (processo dipendente dalla vitamina K) che
rende tali fattori in grado di formare i complessi della cascata coagulativa e pertanto quando il fegato va in
insufficienza, i fattori della coagulazione non vengono prodotti né decarbossilati nell’acido glutammico
quindi si ha una situazione emorragica. Inoltre, tra le malattie secondarie, associato ai tumori si ha uno stato
di trombofilia, situazione in cui l’organismo è propenso a sviluppare un’emostasi eccessiva ossia una
situazione trombotica.

Per capire bene le malattie del sangue si devono conoscere i numeri delle componenti ematiche e soprattutto
si deve avere un’idea del turnover. Come si vede dalla tabella il numero di eritrociti si aggira intorno ai 4-5
milioni di eritrociti per mm3. Essi
devono essere prodotti in grande
numero tuttavia il loro turnover è
di circa 120 giorni e questo
consente una certa “tranquillità” al
midollo osseo. I neutrofili al
confronto sono molti meno, circa
3-3.5 mila per mm3 ma la loro vita
media è molto bassa, circa 12 ore:
quindi il midollo osseo è
fortemente focalizzato alla loro
produzione che fanno parte della
serie mieloide midollare. Un caso intermedio è rappresentato dalle piastrine che sono circa 150-400 mila per
mm3 e la loro vita media è di circa 10 giorni.
Per capire le patologie del sangue o in generale la fisiologia del sangue, è necessario avere chiaro che tutti gli
elementi figurati del sangue derivano dall’attività di cellule del midollo osseo, in particolare il midollo osseo
mette in atto la emolinfopoiesi secondo un’organizzazione gerarchica molto ben definita. Nel midollo infatti
esistono cellule staminali ematopoietiche (HSC), che sono cellule staminali pluripotenti che sono
accompagnate anche da cellule staminali mesenchimali che danno origine a diverse cellule mature
mesenchimali (fibroblasti, cellule adipose, cellule cardiache, secondo la nicchia staminale) e sia le staminali
ematopoietiche sia le mesenchimali sono pluripotenti e si trovano nei tessuti adulti quindi sono classificate
come cellule staminali adulte. Le staminali ematopoietiche nel midollo possono essere riconosciute poiché
esprimono marcatori di superficie che sono riconosciuti a loro volta e legati a loro volta da anticorpi detti
anti-CD (quindi queste cellule sono facilmente riconoscibili con la tecnica della citofluorimetria); il
marcatore che accomuna tutte le staminali ematopoietiche è CD34 insieme anche ad altri CD133, CD31,
CSA1, etc... Man mano che la staminale pluripotente si differenzia, diventa una cellula committed ossia
commissionata verso una linea piuttosto che un’altra diventando così multipotente, così si restringe il
pannello di marcatori di superficie che permettono di riconoscere la staminale committed da cui poi derivano
i precursori staminali.
In figura vediamo questa gerarchia. In cima si trova la staminale HSC pluripotente, che è sensibile a tutti i
fattori di crescita elencati accanto e come tutte le staminali va incontro a divisione asimmetrica grazie alla
quale la cellula genera una cellula uguale a sé stessa (che ripopola la nicchia staminale) e una cellula che
invece ha già caratteristiche si commissionamento verso una linea differenziativa piuttosto che un’altra. Il
primo split della HSC avviene tra una cellula staminale multipotente mieloide e una cellula staminale
multipotente linfoide. La staminale linfoide risiede nel midollo osseo e può dare origine alla linea
differenziativa B, generando i linfociti B, oppure migrare nel timo e lì diventare una staminale linfoide
ristretta per la linea T, finire nel timo la maturazione per dare poi origine alle varie classi di linfociti T.
La staminale mieloide, non ancora ristretta, è detta CFU-GEMM (Colony Forming Unit). Negli studi iniziali,
queste cellule venivano riconosciute perché, coltivate in un mezzo semisolido (continente metil-cellulosa)
mettendo cellule derivate dal midollo osseo di topo si osservavano dopo alcuni giorni non più le singole
cellule ma delle colonie che venivano fuori dalla crescita e differenziazione delle cellule seminate in
partenza, per questo fu coniato il termine di Colony Forming Unit. Secondo il medium e secondo i fattori di
crescita aggiunti, le colonie avevano caratteristiche morfologiche e funzionali diverse. Una di queste CFU
conteneva cellule che poi sembravano appartenere alla sede granulocitaria, eritroide, monocitaria e
megacariocitaria, a questa fu dato il nome di CFU-GEMM (GEMM, Granulocyte Erythroid Monocyte and
Megakaryocyte).

Dalla CFU-GEMM originano precursori sempre più ristretti nella loro capacità differenziativa infatti
originano precursori della linea eritroide, precursori della linea megacariocitaria (cioè piastrinica), precursori
della linea monocitaria, precursori della linea granulocitaria neutrofila, precursori della linea granulocitaria
eosinofila, precursori della linea granulocitaria basofila. Nella linea eritropoietica dalla CFU-GEMM
prolifera e si differenzia una cellula che nella gelatina dà origine a delle piccolissime colonie, che sono più
precisamente agglomerati di cellule, in inglese “bars” quindi queste cellule non saranno CFU ma BFU (Bars
Forming Unit), più in dettaglio BFU-E (E, Erythroid). In presenza di fattori differenziativi tra cui
l’eritropoietina, GM-CSF e IL-3, la BFU-E origina una cellula che stavolta darà colonie vere e proprie nel
mezzo semisolide e pertanto chiamata CFU-E; dalla CFU-E si originano poi, in presenza delle citochine
elencate in figura, la CFU-E origina i precursori eritroidi differenziati quasi completamente e già
morfologicamente riconoscibili. La storia della serie megacariocitaria l’avevamo in parte già vista: dalla
CFU-GEMM si forma una BFU-M (M, Megakaryocyte) da cui si origina la CFU-M; il cocktail di citochine
che induce questa differenziazione è simile a quello eritroide anche se manca completamente l’eritropoietina
e poi si aggiungono altri elementi come IL-6 e IL-11. La CFU-M, in presenza del più importante fattore di
crescita, la poietina più importante ossia trombopoietina (TPO), si differenzia in un megacarioblasto e poi in
un megacariocito che rimane sensibile all’attività differenziativa della trombopoietina e da cui poi si
originano le piastrine. Terzo elemento su cui poniamo l’attenzione è la linea granulocitaria e monocitaria,
messe insieme perché dalla CFU-GEMM si origina un progenitore committed CFU-GM (G, Granulocyte; M,
Monocyte), che ha una doppia specificità; questo avviene in presenza di IL-3, GM-CSF (GM, Granulocito
Monocitario) e G-CSF che è più specifico per la linea granulocitaria; dalla CFU-GM si originano due
progenitori committed, CFU-M e CFU-G, le quali saranno sensibili a fattori di crescita diversi. CFU-M è
sensibile a M-CSF e in presenza di un cocktail di fattori di crescita che contiene anche M-CSF la CFU-M dà
origine ai precursori sa cui deriva il monocito e poi il macrofago. CFU-G, in presenza di un cocktail di fattori
di crescita tra cui il G-CSF (CSF, Colony Stimulating Factor), dà origine ai precursori della serie
granulocitaria neutrofila.
Del processo emopoietico dobbiamo quindi ricordare che:
- Esistono staminali in grado di differenziare e proliferare (indifferenziate e differenziate) ed esistono
progenitori commissionati che proliferano e maturano. Le cellule staminali e i progenitori si
identificano in base all’espressione di molecole di membrana riconosciute da anticorpi monoclonali
(per esempio CD34). Esse risiedono nel midollo emopoietico o circolano nel sangue. Possono essere
pluripotenti, multipotenti o unipotenti (o committed per una specifica linea differenziativa) e
possono anche dare origine ad altri organi o tessuti.
- Esiste un microambiente midollare in cui tutto questo avviene e che è molto importante (il midollo
emopoietico di un adulto “pesa” circa 1000-1500 g). Esso è rappresentato dalla componente non
cellulare, lo stroma, e da componenti cellulari (fibroblasti, osteoblasti, adipociti, monociti/macrofagi,
cellule endoteliali, etc...). Il microambiente è molto importante e all’interno del midollo si generano
delle nicchie, ossia zone midollari in cui si ha lo stroma e dove le cellule staminali pluripotenti
entrano in contatto con vari fattori di crescita; grazie a questo contatto, che può essere fisico o
mediato da molecole che vengono rilasciate dalle stesse cellule o da proteine dello stroma, le
staminali pluripotenti subiscono l’induzione alla differenziazione ad esempio a progenitore linfoide o
a CFU-GEMM. Si possono
distinguere due tipi di
nicchie: una nicchia
osteoblastica, più vicina
all’osso, in cui le staminale
HSC (soprattutto quelle a
lunga vita, LT-HSC ossia
Long Term-HSC)
risiedono e dove possono
andare in contro a
fenomeni di mantenimento
(o anche di differenziamento) per mantenere il pool di staminali; nicchie perivascolari in cui le
staminali HSC (prevalentemente a breve vita) prendono contatto con l’endotelio vascolare e da esso
ricevono stimoli che inducono alla differenziazione principalmente per ricompensare perdite o
necessità, in un tempo relativamente breve (si ha un rapido rispristino differenziativo delle
componenti ematopoietiche che devono essere rispristinate).
In figura sono riportati dei recettori che permettono il cross-talk tra osteoblasto e LT-HSC. Tra
questi si trova un’importante citochina che è CXCL12 (Stem Cells Factor) che lega il recettore
CXCR4 sulle staminali HSC e questo è uno dei primi complessi individuato. Troviamo anche
caderine, il c-Kit, le VCAM, VLA-4.
Esiste, nella nicchia ematopoietica midollare e nella nicchia osteoclastica (qui è ben definito quello
che succede) un’interazione tra cellule staminali HSC e osteoblasti che induce/media la
proliferazione e la differenziazione delle cellule staminali.

- Esistono tanti fattori di crescita, come le citochine, che inducono la proliferazione, differenziazione e
maturazione delle cellule staminali nei vari precursori e progenitori e lo fanno legando specifici
recettori sulle cellule staminali. I fattori (positivi) di crescita e differenziazione possono essere
prodotti nel midollo osseo (G-CSF, GM-CSF, TPO) o altrove; ad esempio ormoni come
l’eritropoietina che è prodotta a livello dell’apparato juxtaglomerulare del rene – a questo livello
renale il controllo della concentrazione di ossigeno dipende solo dalla capacità dell’emoglobina dei
globuli rossi di rilasciare ossigeno, quindi è una zona privilegiata per percepire la concentrazione di
ossigeno e le cellule dell’apparato juxtaglomerulare sono in grado di sentire la pO2 e mettere in atto
il meccanismo di HIF-dipendente che porta alla trascrizione del gene che codifica l’eritropoietina
tutte le volte che pO2 diminuisce ossia tutte le volte che la cellula percepisce ipossia. I fattori positivi
regolano la proliferazione, inducono la differenziazione e controllano la maturazione. Altri fattori
controllano negativamente l’emopoiesi (linfochine, IFNα, INFγ, IL-1α, TGF-β, etc... prodotti in
corso di infezioni e tumori).

Nella seguente figura vi è uno schema riassuntivo della regolazione di tutto questo processo:

GRANULOCITOPOIESI
Rivediamo brevemente come avviene la granulocitopoiesi ossia la generazione, a partire dai precursori
fortemente polarizzati e commissionati, come avviene la produzione di granulociti neutrofili (cellule
terminali) attraverso step differenziativi che si associano a cellule facilmente riconoscibili e alle quali diamo
un nome specifico.

Quindi dalla CFU-G inizia la granulocitopoiesi e iniziamo a riconoscere il mieloblasto, una cellula grande e
ricca di cromatina (cromatina lassa) e un citoplasma poco abbondante e quasi del tutto privo di granulazioni.
Da questo deriva il promielocita, una cellula a sua volta molto grossa, con nucleo grande e cromatina (ancora
più lassa) e un citoplasma più abbondante e ricco di granulazioni azzurrofile (rappresentano i granuli
azzurrofili) che si colorano metacromaticamente (rosso carminio). Dal promielocito si differenzia poi il
mielocita neutrofilo, un po’ più piccolo, inizia ad avere nel citoplasma granulazioni specifiche ossia quelle
neutrofile e il nucleo è tondo (non perfettamente). dal mielocito neutrofilo si differenzia il metamielocita
neutrofilo, che è ancora più piccolo e ha un nucleo indentato (ricorda il nucleo del monocito) e un citoplasma
ricco di granulazioni specifiche neutrofile (quindi non si può confondere con i monociti che hanno
citoplasma completamente privo di granulazioni e color azzurro “a velo di Madonna”). Dal metamielocito
matura il neutrofilo a banda in cui comincia la segmentazione del nucleo, il citoplasma rimane granuloso con
molte granulazioni neutrofile e il nucleo inizia a segmentarsi. Infine si ha il granulocito neutrofilo maturo
con il nucleo francamente segmentato.
Importante è ricordare che in situazioni “normali” le forme immature NON si trovano in circolo ma si
trovano solo nel midollo osseo; in circolo si trovano solo i neutrofili segmentati e in alcuni casi (ad esempio
in casi di leucocitosi neutrofile secondarie ad una flogosi acuta) i neutrofili a bande. Quando tali cellule si
trovano nel sangue periferico significa che siamo in una chiara situazione patologica di leucemia mieloide
(mieloide poiché i granulociti fanno parte della famiglia dei mielociti) di tipo cronico.
Nella seguente tabella ci sono le caratteristiche più nel dettaglio:

Ricordiamo che il granulocito neutrofilo deriva da CFU-G, che deriva da CFU-GM che deriva da CFU-
GEMM che deriva dalla staminale HSC. Tutta la granulocitopoiesi descritta sopra, avviene grazie alla
sensibilità che la CFU-G e i suoi precedenti precursori ha per IL-3, GS-CSF e G-CSF.
Sulla base di questo cerchiamo di capire il meccanismo per cui, durante una situazione infettiva, nel sangue
periferico si ha una leucocitosi (un aumento totale del numero di globuli bianchi) tale che il numero di
globuli bianchi superano i 10mila elementi per mm3; oltre al fatto che la leucocitosi è neutrofila ossia
fondamentalmente aumentano molto i granulociti neutrofili.
In alcune situazioni infettive, ad esempio in un’appendicite acuta, si possono ritrovare 30-40 mila globuli
bianchi nel sangue periferico tra cui circa il 90% sono neutrofili. Perché accade questo? Inizialmente
vengono fatte uscire le cellule subito a monte rispetto ai granulociti neutrofili ossia il granulocito segmentato
e qualche metamielocito, poi si ha una vera e propria produzione endogena a livello midollare di G-CSF,
GM-CSF e IL-3 che stimola tutta la granulocitopoiesi a partire dalla CFU-GM e poi sempre più alla CFU-G
che poi dà origine al granulocito neutrofilo.

DOMANDA. Siamo in una flogosi che dà segni di sé negli effetti sistemici della flogosi. Si tratta di una
flogosi acuta in cui già cominciano ad essere reclutati i monociti dal sangue periferico e in tale flogosi
vengono prodotti più granulociti a livello midollare. Chi sarà la cellula che produce G-CSF e GM-CSF? Il
macrofago.

LEUCOCITOSI TRA GIL EFFETTI SISTEMICI DELL’INFIAMMAZIONE


Tra gli effetti sistemici dell’infiammazione si assiste ad una leucocitosi (soprattutto neutrofila) e adesso
possiamo capire perché.
Leucocitosi significa un aumento dei leucociti o dei globuli bianchi; il numero dei globuli bianchi è anche un
parametro per la lettura dell’emocromo. Normalmente il numero di leucociti circolanti è compreso tra 3’500
e 10'000. In realtà il range è molto ampio; i valori di riferimento dipendono dal laboratorio in cui vengono
svolte le analisi (ogni laboratorio ha i suoi valori di riferimento) e nel caso specifico dei globuli bianchi, i
valori di riferimento dipendono dai reagenti e dalle apparecchiature ma soprattutto dalla popolazione di
riferimento, quindi il laboratorio della Piastra avrà una popolazione di riferimento locale mentre un
laboratorio a Monaco avrà una popolazione di riferimento diversa. Quindi ci possono essere piccolo/grandi
differenze secondo la popolazione a cui ci riferiamo. Le differenze maggiori si hanno con etnie diverse,
all’interno dell’etnia caucasica ci sono solo piccole variazioni mentre se confrontiamo tali valori con l’etnia
asiatica osserviamo grandi differenze. Queste differenze le avevamo già analizzate nel test della
coagulazione per quanto riguarda il PT tanto che è stato introdotto il valore INR per standardizzare un po’ i
valori di riferimento. Nel caso INR i diversi valori erano legati più alla variazione del numero di lotto della
tromboplastina tissutale (reattivo principale).
In generale si parla di leucocitosi quando i valori sono sopra il limite massimo dei valori di riferimento,
mentre si parla di leucopenia se abbiamo valori al di sotto del limite minimo di riferimento. Questi termini
valgono per tutti i globuli bianchi anche se noi sappiamo che i leucociti sono rappresentati da neutrofili (55-
65% con valore medio di 60%), linfociti (30-35%), monociti (in media 4-5% anche se arrivano al 6-8%),
eosinofili (2-3%) e basofili (quasi indosabili, sotto 1%). La maggioranza dei linfociti, ossia 85-80%, sono
linfociti T; i linfociti B stanno nei follicoli degli organi linfoidi secondari dove hanno un minimo di
movimento e al più possono muoversi da un linfonodo all’altro. Un sangue periferico con un numero
aumentato di linfociti B può indicare una situazione neoplastica.
L’aumento del numero di leucociti sopra il limite massimo del valore di riferimento è una leucocitosi che
può essere di vario tipo. Si parla di neutrofilia o di leucocitosi neutrofila quando aumenta il numero assoluto
dei neutrofili; si parla di eosinofilia quando si assiste ad un aumento della percentuale degli eosinofili, essa si
ritrova in alcune infezioni da parassite o in alcune situazioni allergiche; si parla di basofilia quando
aumentano i basofili, essa è molto rara e si ha ad esempio una leggera basofilia nella leucemia mieloide
cronica. Si parla di linfocitosi quando si ha una leucocitosi in cui aumenta il numero assoluto dei linfociti;
tale situazione si ha in alcune infezioni croniche, alcune infezioni virali e talvolta durante la fase di
convalescenza di una forma infettiva. Si parla infine di monocitosi quando si ha un aumento dei monociti
circolanti, ad esempio in certe infezioni croniche come la tubercolosi, la sifilide, la brucellosi, la listeriosi
(infezione legata alla listeria che difatti si chiama Listeria Monocytogenes). Si può avere una falsa
monocitosi nella mononucleosi infettiva (o linfomonocitosi infettiva) anche se in realtà qui aumentano i
linfociti B; tali linfociti B sono infettati dal virus Epstein Barr, e dopo tale infezione proliferano e diventano
più grandi quindi hanno alterazioni del nucleo e diventano simili ai monociti o ai linfoblasti delle leucemie
linfoblastiche acute. Con i moderni strumenti per l’emocromo, i linfociti infettati nella mononucleosi
infettiva, un tempo detti linfomonociti, sono letti erroneamente come monociti. Quindi in una situazione in
cui si arriva al 16% di monociti nell’emocromo dobbiamo accorgerci che tale valore è troppo alto per essere
una malattia infettiva e quindi dobbiamo considerare l’ipotesi di una mononucleosi infettiva per cui i linfociti
B infettati, escono dalla fase G0 del ciclo cellulare ed entrano in S e sono letti come monociti.
In generale, la leucocitosi neutrofila è caratteristica della angioflogosi (flogosi acute) mentre la leucocitosi
linfocitaria o monocitaria è tipica della istoflogosi (forme croniche). La leucocitosi neutrofila, tipica delle
flogosi acute, e come abbiamo già detto si ha ad esempio nelle appendiciti dove si arriva ad avere anche
30’000-100'000 leucociti, con un’alta percentuale di neutrofili fino al 90%. Questo avviene con due
meccanismi:
1. Rilascio dei neutrofili che si trovano nel pool marginato. Il pool marginato è un pool che abbiamo
nel sangue circolante e a livello della barriera ematomidollare, quindi vengono rilasciati in circolo
questi neutrofili già maturi o in alternativa vengono rilasciati quelli con forma bandeggiata.
2. Meccanismo attivo di stimolazione della granulocitopoiesi con iperplasia midollare ossia aumento
dei precursori granulocitari nel midollo osseo. Questo potenziamento della granulocitopoiesi
midollare è operato dal rilascio massiccio di fattori di crescita CSF ad esempio aumenta la
produzione di GM-CSF e G-CSF e questi fattori vengono rilasciati dalle cellule
monocito/macrofagiche e dalle cellule endoteliali. Quindi rientrano in tutta questa stimolazione
sistemica che accompagna il processo infiammatorio e che in questo caso si fa sentire a livello
midollare.
ERITROPOIESI
Il sistema eritropoietico è composto da cellule progenitrici commissionate (ancora nella nicchia staminale) e
da precursori che proliferano ma sono ristretti nelle capacità differenziative (non vanno incontro a divisione
asimmetrica).
I progenitori di questa via sono BFU-E e CFU-E; successivamente nella gerarchia si hanno cellule che sono
già riconoscibili dal punto di vista morfologico. Tali precursori eritroidi riconoscibili dal punto di vista
morfologico prendono il nome di proeritroblasti, eritroblasti basofili, eritroblasti policromatofili, eritroblasti
ortocromatici, reticolociti ed eritrociti.

Questo è un eritroblasto basofilo. Si tratta di una cellula molto grossa,


con nucleo molto grande e cromatina lassa e un citoplasma fortemente
basofilo.

Questo è un eritroblasto policromatofilo. In figura ne vediamo due, tali


cellule derivano dall’eritroblasto basofilo che si divide e matura. Quindi
questo compartimento ha capacità proliferativa.
Il policromatofilo ha dimensioni minori dell’eritroblasto basofilo, un
nucleo con cromatina meno lassa e un citoplasma policromatofilo (un po’
basofilo e un po’ acidofilo)

In figura si ha un eritroblasto che ha nucleo con cromatina ancora più


addensata e citoplasma ancora più acidofilo. Quindi siamo già sulla via
dell’eritroblasto acidofilo o ortocromatico. Ortocromatico significa che
ha cromasia (colorazione) giusta ossia quella degli eritrociti.

In figura si ha un eritroblasto ancora più ortocromatico. Qui infatti siamo


quasi alla fine della maturazione. La cellula ha un nucleo che sta per
diventare picnotico (la cromatina è condensata) e il citoplasma, ancora
abbastanza abbondante, ha la stessa tingibilità di quella dell’eritrocito.

A questo punto l’eritroblasto ortocromatico perde il nucleo picnotico e


abbiamo quindi una cellula senza nucleo ma che ha ancora dei residui di
organuli, tale cellula è il reticolocita. Mentre l’eritroblasto ortocromatico
sta nel midollo, il reticolocita può anche uscire dal midollo anche se, ne
vengono immessi pochi in circolo perché si preferisce mettere in circolo
eritrociti maturi che hanno eliminato anche questi pochi residui di
organuli citoplasmatici. I reticolociti si riconoscono per la presenza degli
organuli che però sono visibili solo con la colorazione vitale di cristal-
violetto; con una colorazione di May Grünwald-Giemsa, il reticolocita
non si distingue ma in questi casi lo si può ugualmente riconoscere perché esso è molto più grosso
dell’eritrocito maturo (il reticolocito può arrivare ad essere il doppio di un eitrocito). L’eritrocito maturo
invece si riconosce perché è senza nucleo e inoltre essendo un disco biconcavo si riconosce una zona più
chiara dove le due membrane si avvicinano.
Nell’esame emocromo citometrico, uno dei parametri è la curva di distribuzione degli eritrociti che ci dice se
la curva di distribuzione del diametro degli eritrociti e se questa curva è ben organizzata (tutti gli eritrociti
sono maturi) si ha un valore del 14%; un valore sopra il 14% significa che ci sono eritrociti più grossi del
normale e questo è indice del fatto che il midollo immette fuori reticolociti in percentuale maggiore rispetto
alla norma.
Quindi nella via dell’eritropoiesi: i proeritroblasti, eritroblasti basofili e policromatofili proliferano e
maturano ossia mentre proliferano iniziano la sintesi dell’emoglobina, che poi accumulano nel citoplasma;
gli eritroblasti ortocromatici che stanno perdendo il nucleo non hanno capacità proliferativa mentre
continuano a sintetizzare emoglobina. La sintesi dell’emoglobina si completa nei reticolociti (il numero dei
reticolociti misura il grado e l’efficienza dell’eritropoiesi) e infine da questi si formano gli eritrociti.

Il primo fattore importante per l’eritropoiesi è l’eritropoietina. Essa è prodotta da cellule del sistema
monocito-macrofagico posizionate intorno ai tubuli prossimali nella corticale del rene (apparato
juxtaglomerulare). Infatti il flusso ematico renale è pari al 20% del totale e il consumo di O2 nella corticale
del rene è pressochè costante (proporzionale al riassorbimento del Na). Quindi non vi sono elementi locali
che modifichino la pO2. La pO2 dipende dalla quantità di O2 trasportata dagli eritrociti. Le cellule
peritubulari “sentono” la pO2 attraverso un sistema di proteine emiche la cui configurazione ossi/desossi
regola la sintesi di un fattore di trascrizione (Hypoxia Inducible Factor, HIF) che regola la sintesi di EPO: le
cellule juxtaglomerulari percepiscono un calo di pO2 e si attiva il meccanismo HIF-dipendente e così HIFα
non è più degradato dal proteasoma (con l’intervento della proteina VHL) e così trasloca nel nucleo dove si
unisce a HIFβ formando il complesso che poi lega gli elementi responsivi HRE (Hypoxia Responsive
Element) e regolano la trascrizione di diversi geni tra cui quello dell’eritropoietina.
Senza questa funzionalità del rene non c’è sintesi di EPO (anemia dell’insufficienza renale). La
concentrazione dell’EPO nel sangue è proporzionale alla concentrazione dell’emoglobina (emoglobina
normale!).
Senza EPO non c’è eritropoiesi: essa agisce su tutti i componenti (progenitori e precursori) dell’eritropoiesi.
Allo stesso modo se c’è troppa EPO si ha troppa eritropoiesi che determina un numero troppo elevato di
eritrociti nel sangue periferico, questa situazione è detta poliglobulia: un aumento del numero degli eritrociti
nel sangue periferico. Condizione più frequente rispetto alla poliglobulia è invece una diminuzione di tutto il
sistema dell’eritropoiesi e tale diminuzione è detta anemia.

ANEMIA
Si definisce anemia una situazione in cui abbiamo una diminuzione della concentrazione di emoglobina nel
sangue periferico. In particolare, nell’anemia diminuiscono i globuli rossi, l’emoglobina, i precursori, e tutto
questo complesso eritropoietico detto eritrone; tuttavia la situazione anemica, ossia la situazione di ipossia
anemica, è il fatto che non arriva ossigeno al tessuto perché l’emoglobina non riesce a trasportare ossigeno e
a farlo arrivare al tessuto. Quindi è il calo dell’emoglobina che mi avverte che siamo in una situazione
fisiopatologica di ipossia anemica (anemia). Ci sono alcune condizioni in cui il numero di eritrociti
diminuisce ma la quantità di emoglobina è normale e in questi casi non si può parlare di anemia; viceversa,
ci sono condizioni in cui il numero di globuli rossi è normale ma l’emoglobina cala e in questi casi si parla
comunque di anemie.
Il valore dell’emoglobina nell’emocromo si esprime in g/dl e i valori normali di emoglobina nel sangue
circolante sono molto diversi tra maschio e femmina (come molti parametri ematologici): uomo, 14-16 g/dl;
donna, 12-14 g/dl. Infatti, nell’uomo si inizia a parlare di anemia sotto i 12.5 g/dl mentre nella donna si inizia
a parlare di anemia sotto gli 11.5 g/dl. In realtà si definiscono vari livelli di anemie, ad esempio intorno agli
8-10 g/dl abbiamo una situazione di franca anemia (non più border-line) mentre sotto gli 8 g/dl siamo in una
situazione di grave anemia.
I meccanismi patogenetici che portano ad una situazione di anemia (ossia una situazione in cui diminuisce la
quantità di emoglobina circolante al di sotto dei valori soglia, diversi in maschio e femmina) possono essere:
1. Deficit nella produzione di globuli rossi (deficit dell’eritropoiesi) e/o nella produzione di
emoglobina.
2. Emorragia, sia da difetto piastrinico sia da difetto plasmatico sia da lesione vascolare; esse portano
una grave situazione anemica perché si perde proprio il sangue.
3. Eccessiva distruzione di globuli rossi.

Anemia dovuta alla diminuzione della produzione di globuli rossi. Si possono avere alterazioni del
compartimento staminale che riguardano la staminale ematopoietica che può sfociare in situazioni di aplasia
midollare dove vi è anemia accompagnata da un deficit di tutte le altre componenti che derivano dalla CFU-
GEMM, o in situazioni di mielodisplasia patologie in cui la staminale ematopoietica non scompare ma altera
la propria capacità proliferativa e differenziativa quindi si hanno profonde alterazioni che riguardano tutte le
serie. Ad esempio, nel danno da radiazioni (es. bomba atomica) si ha un danno del midollo ossia aplasia
midollare per cui si ha un danno che compromette tutte le linee cellulari derivanti dalla staminale
ematopoietica; tra queste la prima linea a risentire del danno a livello clinico è la via della
megacariocitopoiesi: il primo danno quindi si ha a livello delle piastrine e si hanno delle emorragie profuse.
Successivamente si sente il danno a livello della serie granulocitaria, quindi si hanno gravi infezioni; e in
ultimo abbiamo l’anemia grave.
Si possono avere anche alterazioni riguardanti il compartimento dei progenitori (le cellule già più
differenziate). Questo si ritrova, ad esempio, nelle aneritroblastosi (malattie primitive in cui si ha un danno
dei precursori eritroidi a livello delle BFU-E e/o CFU-E) e nelle situazioni di insufficienza renale cronica,
ossia tutte le volte in cui si ha deficit della produzione di eritropoietina; dato che la EPO fa risentire il
proprio effetto a partire dalle BFU-E, non ci meraviglia che nell’insufficienza renale si abbia un’anemia da
deficit del compartimento dei genitori.
Se invece le alterazioni dell’eritropoiesi avvengono a livello dei precursori abbiamo altri tipi di anemie che
possono dipendere da turbe della sintesi del DNA. Infatti, i precursori per continuare a proliferare hanno
bisogno di vitamina B12 e folati, che sono entrambi donatori di metili e così permettono la generazione di
timidilato che poi entra nella reazione di sintesi del DNA. Quindi in carenza di B12 o di folati si ha
un’anemia: l’eritropoiesi non funziona poiché si ha alterazione della proliferazione dovuta all’alterazione
nella sintesi del DNA. In questo caso, le cellule progenitrici, come gli eritroblasti basofili, non ce la fa a
duplicarsi anche se continua a differenziarsi e così va incontro ad un ingrandimento della propria
componente citoplasmatica (come succede alle cellule che passano dalla fase G1 alla S alla G2) ma non entra
in fase M poiché non può duplicare il DNA e quindi non si divide. Quindi in queste situazioni si hanno
precursori più grossi del normale. Quindi in una classificazione che tiene conto delle dimensioni degli
eritrociti avremo eritrociti più grossi, detti megalociti, mentre a livello dei precursori midollari avremo
megaloblasti. La carenza di vitamina B12 è meno frequente poiché abbiamo dei depositi abbastanza efficienti;
tale vitamina assunta con la dieta viene assorbita nell’ileo terminale solo se complessata con il fattore
intrinseco che è prodotto dalle cellule parietali dello stomaco: se non c’è fattore intrinseco non si ha
assorbimento di B12. Quindi la carenza di tale vitamina si può avere per: malnutrizione; carenza della
produzione di fattori intrinseco da parte dello stomaco (es. gastrectomia in cui si rimuove lo stomaco); atrofia
gastrica, con il caso particolare dell’anemia perniciosa ossia una gastrite atrofica che si instaura con
meccanismo autoimmune e porta selettivamente alla distruzione delle cellule che producono fattore
intrinseco (e pertanto danno anemia); alterazione dell’ileo terminale o alterazione della flora batterica
dell’ileo, esso infatti è sito di assorbimento della B12, dove normalmente la flora batterica scinde la B12 dal
fattore intrinseco e ne permette l’assorbimento. Più frequente è la carenza di folati, che assumiamo
principalmente dalla dieta (verdure a foglia larga, etc..) quindi malnutrizione o alterazione della dieta porta
ad una carenza di acido folico e folati. Nelle malattie tumorali (neoplastiche), molti chemioterapici
inibiscono l’enzima folico reduttasi che serve per rendere disponibile l’acido tetraidrofolico, tale blocco
determina carenza di folati (infatti si aggiunge acido folinico a molti chemioterapici per bypassare questo
blocco del metabolismo dell’acido folico).
Si possono avere anche turbe nella sintesi dell’emoglobina. L’emoglobina è costituita da 3 componenti
(globina, gruppo eme e ferro): l’anemia si instaura in carenza di ferro o in casi di alterazione della globina.
L’alterazione della globina può essere un’alterazione quantitativa della sintesi della globina stessa (ad es.
nelle talassemie) o un’alterazione qualitativa per cui le globine hanno difetti, mutazioni puntiformi che ne
alterano la sequenza e quindi la struttura (ad es. emoglobinopatie, come anemia falciforme).
Talassemie. Nelle talassemie si ha un deficit quantitativo di una delle quattro catene di globina (la α o la β),
la più frequente è la β-talassemia in cui si ha un difetto della sintesi della globina β. Quindi i precursori
eritroidi non ce la fanno a produrre l’emoglobina corretta, quindi ne produrranno un po’ di tipo fetale
(α2β2) o useranno le globine γ, ma sicuramente non riusciranno a produrre l’emoglobina dell’adulto. Quindi
si avrà un’eritropoiesi inefficace e si avrà un’alterazione e una diminuzione nella produzione di globuli rossi
da turba della sintesi dell’emoglobina.
La talassemia però si ritrova anche nelle anemie con aumentata emolisi (distruzione dei globuli rossi
maturi), questo avviene perché i globuli rossi che si formano in una malattia talassemica da un midollo
talassemico, oltre ad essere malfatti, contengono dei tetrameri di α (α4) che precipitano all’interno del
precursore eritropoietico e all’interno del globulo rosso, quindi queste cellule vengono distrutte a livello
midollare. In tal modo si ha iperemolisi a livello midollare e a livello dei pochi (o tanti) eritrociti immessi
alla periferia.
Cosa succede nel midollo? Ho un’alterazione della produzione dei globuli rossi e dell’eritropoiesi; alcuni
globuli rossi o precursori vanno incontro ad emolisi intramidollare (quindi vanno persi dentro al midollo),
alcuni vanno incontro ad emolisi extramidollare (nel periferico): il midollo sente quest’alterazione e cerca
di lavorare al massimo. Quindi il midollo va incontro a iperplasia poiché aumenta l’eritropoiesi che tuttavia
non sarà portata a termine correttamente a causa della mancanza di globina matura e quindi
dell’impossibilità di realizzare un corretto assemblaggio dell’emoglobina. Quindi nelle talassemie molto
gravi si ha una situazione in cui il midollo continua a funzionare per provare a produrre molti eritrociti,
tuttavia non riesce a sintetizzarli correttamente, questi quindi moriranno un po’ nel midollo e un po’ nella
periferia; il midollo dunque continuerà a aumentare la sintesi, tanto da avere un aumento del midollo osseo
rosso all’interno delle ossa (questo causerà alterazioni anche scheletriche, soprattutto delle ossa piatte, che
possono essere individuate già dalla nascita dato che si tratta di malattie genetiche), il midollo è
emopoietico iperplastico ed erode la matrice ossea; in ogni caso, questa eritropoiesi midollare sarà
inefficace.
La patogenesi e la fisiopatologia delle talassemie è una patogenesi abbastanza complessa perché si ha sia
un’alterazione della sintesi dell’emoglobina a livello midollare, sia una componente di aumentata
distruzione: queste due caratteristiche messe assieme causano un potenziamento dell’eritropoiesi, che
comunque è un’eritropoiesi inefficace. Si instaura così un “circolo vizioso” che porta ad un’anemia sempre
più grave. Questa situazione è gravissima nelle β-talassemie, dette major (l’alterazione genetica nei geni che
codificano la globina avviene in omozigosi); nelle forme eterozigotiche o nelle forme con una penetranza
minore, sia hanno situazioni meno gravi; la forma meno grave è l’anemia mediterranea (o tratto
talassemico), in cui si ha una situazione di anemia ma il midollo riesce in parte a compensare, quindi si avrà
un numero di globuli rossi normale (o addirittura aumentato) e non si avrà una grossa emolisi periferica.
La clinica delle talassemie è molto varia, secondo l’alterazione genetica.
Noi analizzeremo solo le più gravi ossia le β-talassemie major in cui si ha un meccanismo fisiopatologico
complesso che associa un’alterazione dell’eritropoiesi, un’emolisi che causa una stimolazione
dell’eritropoiesi con conseguente iperplasia eritropoietica ma con eritropoiesi inefficace. Ecco perché le
talassemie si trovano sia tra le anemie per aumentata distruzione, sia per le anemie da turba di sintesi
dell’emoglobina.

Anemia da carenza di ferro. Le anemie da carenza di ferro sono le più frequenti, soprattutto nei bambini e
nelle donne giovani, e si accompagnano spesso a malattie neoplastiche. Esiste anche una situazione di
anemia da carenza di ferro “in senso lato” che osserviamo nelle malattie infiammatorie croniche e che però
ha una patogenesi più complessa e che per questo analizzeremo più attentamente.
Il ferro noi lo assumiamo con la dieta e ne abbiamo bisogno un apporto continuo. Noi conteniamo
complessivamente dai 4 ai 6 g di ferro, di questi circa 3.5 g stanno nell’emoglobina. Le perdite di ferro
avvengono attraverso il sudore, la desquamazione cellulare, le urine e le feci e ammontano a circa 1 mg al
giorno; maggiore è la perdita di ferro nelle donne fertili che, ad ogni ciclo mestruale, perdono 15-30 mg di
ferro (ecco perché le giovani donne in età fertile sono più a rischio di carenza di ferro). Il ferro che viene
perso quotidianamente, seppur sia una minima parte rispetto al totale, deve essere reintegrato, quindi in una
dieta equilibrata dobbiamo assumere quotidianamente almeno 10-30 mg di ferro, tenendo conto che al
massimo possiamo assorbirne il 10%. Il ferro che assumiamo con la dieta può essere sotto forma di ferro
eminico o eme (contenuto nella mioglobina, ad esempio quello contenuto nella carne rossa) o sotto forma di
ferro non-eminico o non-eme (ad esempio quello contenuto nei vegetali), le due forme vengono assorbite a
livello degli enterociti in modo differente. Il ferro eminico è assorbito rapidamente e con alta efficienza
attraverso un carrier detto HCP (Heme Carrier Protein) che, una volta legato il ferro, trasloca a livello del
citosol tramite vescicole endosomiali, all’interno delle quali libera il ferro (Fe2+) che, a sua volta, da queste
vescicole fuoriesce nel citoplasma tramite un trasportatore. Il ferro (Fe2+) può seguire due strade: legarsi
alla ferritina o legarsi alla ferroportina. La ferroportina porta il ferro nel sangue dove il ferro (Fe2+) è
trasformato in Fe3+ e come tale viene legato dalla transferrina che è la proteina di trasporto/trasferimento
del ferro, che porta Fe3+ ai tessuti (in primis al midollo osseo per sintetizzare emoglobina nell’eritropoiesi).
Il ferro non-eminico deve inizialmente essere ridotto da Fe3+ a Fe2+; una volta ridotto viene trasportato con
meccanismo pH-dipendente (viene trasportato insieme ai protoni) dal trasportatore DMT1 (Divalent Metal
Transporter) nel citoplasma.
Il ferro eminico è quello che viene assorbito più rapidamente. Il meccanismo del ferro non-eminico è molto
più complicato e meno efficiente quindi in realtà solo poco ferro non-emico viene assorbito; per migliorarne
l’assorbimento dobbiamo creare un ambiente acido a livello del duodeno e in questo ci aiuta l’acido
ascorbico (vitamina C), ecco perché alle ragazze che vanno in carenza di ferro si consiglia di prendere i
farmaci contenenti ferro insieme alla vitamina C (arancia, aranciata). Curiosità: un tempo le ragazze in
carenza di ferro mangiavano una mela nella quale era stato infilato un chiodo di ferro che quindi aveva
rilasciato un po’ di ferro nella mela.

Dunque, il ferro Fe2+viene immagazzinato sotto forma di ferritina e tale immagazzinamento avviene negli
enterociti e nelle cellule del sistema monocito/macrofagico (ossia nei macrofagi residenti) ai quali il ferro
arriva trasportato dalla transferrina. Si ha molta ferritina negli enterociti, nel sistema
monocito/macrofagico e un po’ nel sangue (quella nel sangue è in equilibrio con la ferritina che lega il ferro
all’interno delle due tipologie di cellule). Nell’enterocita il ferro è legato anche alla ferroportina in modo
che possa essere esportato nel sangue; tale processo avviene grazie all’elastina che permette tale rilascio e
grazie alla regolazione che l’epcidina esercita nei confronti della ferroportina. L’epcidina è sintetizzata a
livello epatico e espressa a livello dell’enterocita che ha un effetto inibitorio sull’attività della ferroportina.
Il ferro legato alla transferrina è quello che noi dosiamo come transferrina satura o sideremia (misura i
livelli ematici di transferrina legata al ferro). Si possono avere situazioni di carenza di ferro perché non se
ne assume abbastanza con la dieta, perché questo meccanismo, che permette il rilascio e il trasporto del
ferro dall’enterocita agli organi ematopoietici, è alterato o perché il ferro è sequestrato dalla ferritina e non
lasciato in circolo. La situazione in cui il ferro legato in grande percentuale alla ferritina si ha nelle
situazioni infiammatorie croniche dove abbiamo una stimolazione del sistema monocito/macrofagico;
dunque nelle situazioni infiammatorie croniche, uno dei meccanismi che portano all’anemia è un
“sequestro” del ferro da parte della ferritina e pertanto il ferro non viene rilasciato nel sangue e quindi
portato al midollo per formare i globuli rossi. Per questo motivo, l’anemia delle flogosi croniche è
un’anemia da carenza di ferro ma non è un’anemia carenziale (da carenza di ferro) ma è un’anemia da
storno del ferro (il ferro è stornato verso la ferritina piuttosto che verso la transferrina. Sapere questo è
importante e si hanno anche delle spie diagnostiche. Tutte le volte che si ha un’anemia da carenza di ferro
vera (dovuta da malnutrizione o da eccessiva perdita di ferro non reintegrata) si ha diminuzione della
sideremia (ossia diminuzione della transferrina satura di ferro) e tale meccanismo determina una
diminuzione forzata della ferritina che lega il ferro e poiché la ferritina dei tessuti è in equilibrio con quella
ematica, si avrà una diminuzione della ferritina plasmatica. Viceversa, nelle situazioni infiammatorie
croniche, in cui si ha un sequestro di ferro da parte della ferritina, aumenta la ferritina saturata di ferro nei
tessuti (soprattutto nelle cellule del sistema monocito/macrofagico) e di conseguenza aumenta anche la
ferritina ematica; quindi si avrà una situazione paradossa in cui diminuisce a transferrina satura
(sideremia) e aumenta la ferritinemia (quantità di ferritina nel sangue) e in queste condizioni pertanto si può
stabilire che si tratta di un’anemia da storno del ferro e quindi si può andare a cercare la situazione
infiammatorio-cronica che può avermi provocato una situazione di anemia complessa delle flogosi croniche
(un tempo detta anemia da storno).

Le anemie si possono classificare sulla base delle dimensioni del globulo rosso e sulla tingibilità del globulo
rosso. Sulla base delle dimensioni dei globuli rossi, si possono avere
o Anemie macrocitiche. In cui le dimensioni dei globuli sono più grosse della norma, con aumento del
volume. Queste anemie sono quelle da blocco della sintesi del DNA quindi quelle dovute a carenza
di vitamina B12 e folati, farmaci, mielodisplasie. Queste anemie possono essere ipercromiche (con
più emoglobine al loro interno).
o Anemie normocitiche. Il volume del globulo rosso non è alterato ad esempio anemie aplastiche,
anemie da deficit di eritropoietina nella IRC (Insufficienza Renale Cronica), anemie da stati
infiammatori o malattie croniche, anemia mieloftisica (da invasione di cellule tumorali nel midollo)
o anemia da deficit di ormoni tiroidei (endocrinopatie). Spesso queste anemie sono anche
normocromiche.
o Anemie microcitiche. Si ha una riduzione del volume del globulo rosso. Le due situazioni tipiche
sono le anemie da sideropeniche (da carenza di ferro) e le talassemie minor (o anemie mediterranee).
In queste condizioni spesso il globulo rosso è anche meno colorato perché si ha un’alterazione della
sintesi dell’emoglobina, quindi oltre che microcitiche anche ipocromiche.

Anemia da diminuita produzione di globuli rossi a patogenesi complessa. Si tratta di vari tipi di anemie,
tra queste:
- Anemie associate a difetti nutrizionali multipli quindi non solo una carenza di B12 o acido folico ma
piuttosto carenza multivitaminica o proteica;
- Anemie associate ad infiltrazioni midollari, ad esempio nei casi di tumore solido come il tumore
della mammella che infiltra il midollo osseo, in questi casi cresce la componente plastica non
ematopoietica e altera la possibilità di sopravvivenza della staminale ematopoietica e quindi di tutti i
compartimenti midollari (è una sorta di aplasia midollare ma non primitiva, piuttosto da infiltrazione
midollare neoplastica);
- Anemie dei disordini cronici (che abbiamo già differenziato dalle anemie da carenza di ferro pure)
che si hanno in situazioni di flogosi cronica dove si ha un aumento della funzionalità del sistema
monocito/macrofagico, che rilascia citochine infiammatorie: in tali situazioni il ferro si lega alla
ferritina piuttosto che alla transferrina quindi si ha un’iposideremia dovuta al sequestro intracellulare
del ferro. Esse si differenziano dalle anemie da carenza di ferro reali sia perché il volume dei globuli
rossi nelle anemie da storno è più grande che nelle anemie da carenza di ferro vere, sia perché la
sideremia è in entrambi i casi bassa ma nelle anemie da carenza di ferro pure si esaurisce anche la
ferritina mentre nelle anemie da storno si ha un aumento della ferritina circolante. Quindi nelle
anemie da ferro pure si ha microcitemia (globuli rossi con volume piccolo) e bassa sideremia con
bassa ferritina mentre nelle anemie da flogosi cronica (o da storno) si ha microcitemia o
normocitemia (al 20% microcitiche e all’80% normocitiche) e poi bassa sideremia ma ferritina alta.

Anemia da aumentata distruzione o perdita dei globuli rossi. Tale situazione si divide in cause
intrinseche (che riguardano il globulo rosso) e in cause estrinseche (che riguardano anticorpi, etc..)
Per cause intrinseche si intendono molte malattie genetiche che colpiscono il globulo rosso alterandone
membrana, metabolismo o l’emoglobina (emoglobinopatie).

Altra classificazione delle anemie è mostrata in seguito. Essa mette in relazione il volume dei globuli rossi
con il meccanismo fisiopatologico:
o Anemie in cui il meccanismo fisiopatologico determina la riduzione del volume di globuli rossi, anemie
microcitiche. Sono fondamentalmente quelle dovute ad una turba della sintesi dell’emoglobina, in
particolare: anemia sidropenica, anemia da infiammazione cronica (20%ACD), anemia sideroblastica,
talassemie.
o Anemie in cui il meccanismo fisiopatologico non determina alterazioni del volume, anemie
normocitiche. Si tratta di anemie in cui ho un deficit dovuto ad alterazione del compartimento staminale
e per alterazione del compartimento dei genitori, in particolare: ACD (80%), anemia aplastica, anemia
associata ad insufficienza renale cronica e altre forme particolari (anemia di Fanconi, anemia di
Diamond-Blackfan).
o Anemie il cui meccanismo fisiopatologico determina aumento del volume dei globuli rossi, anemie
macrocitiche. Si tratta di anemie dovute ad una turba nella sintesi del DNA, in particolare: anemie
megaloblastiche (in cui aumenta anche l’eritroblasto) e anemia perniciosa (dovuta ad atrofia gastrica che
porta alla distruzione autoimmune delle cellule parietali gastriche che normalmente secernono HCl e il
fattore intrinseco che lega B12 e la trasporta fino all’intestino dove ne permette il rilascio in modo che
B12 venga assorbita), anemie macrocitiche non megaloblastiche.
o Anemie da ridotta sopravvivenza media degli eritrociti, anemie emolitiche. In queste anemie aumenta la
curva di distribuzione degli eritrociti perché si immettono in circolo anche i reticolociti. Tra queste
abbiamo: anemie da deficit enzimatici (glucosio-6-fosfato deidrogenasi, piruvatochinasi); anemie da
deficit della forma eritrocitica (sferocitosi ereditaria, ellissocitosi); anemie in cui le catene globiniche
dell’emoglobina sono alterate in modo tale da precipitare all’interno del globulo rosso causandogli una
diminuzione della vita media, tra esse ci sono le emoglobinopatie (anemia falciforme) e le α-talassemie;
altre anemie (emoglobinuria parossistica notturna, anemie extraglobulari su base immune, anemie
extraglobulari meccaniche).

In figura (Pontieri) sono riportate le frequenze delle varie anemie: qui si vede il peso percentuale delle varie
forme di anemia. Le anemie sideropeniche e le anemie da
malattia cronica rappresentano più del 50% delle anemie.
Le anemie sideropeniche sono anemie da ridotto apporto
di ferro con la dieta o anemie da aumentata perdita di
ferro per stillicidio ematico che può presentarsi nelle
giovani donne per cicli mestruali abbondanti o per
situazioni secondarie a tumori. Un’anemia sideropenica si
ha anche in una fase iniziale del tumore al colon-retto
dove si ha una perdita di sangue causata dal tumore, il
sangue quindi si raccoglie nelle feci; infatti uno dei test
che viene adottato anche dal SSN per l’individuazione
del tumore al colon-retto è la ricerca del sangue occulto
nelle feci. Se tale ricerca è positiva c’è spesso anche
un’anemia sideropenica da accompagnamento.
Le altre anemie incidono percentualmente meno.

EMOCROMO
In figura sono riportati i valori di riferimento espressi come numero di cellule per litro.
Nell’emocrito abbiamo i seguenti parametri:
- WBC (White Blood Cells). Hanno un range da 3’500 a 10'000 elementi per µl.
- RBC (Red Blood Cells). Il range va da 3.5 milioni a 6 milioni, secondo il sesso dell’individuo. Se fosse
l’emocromo di una donna i RBC sarebbero quasi troppi, mentre se si trattasse di un uomo sarebbero
perfetti.
- HGB (Hemoglobin). Ha valori molto diversi tra uomo e donna. Nell’uomo il range è 14-16 g/dl, nella
donna invece 12-14 g/dl. Quindi se si trattasse di una ragazza sarebbe un valore quasi alto mentre per un
giovane uomo va bene. Questo valore è importante in relazione al fatto che abbiamo definito l’anemia
come una situazione in cui si ha un calo dei livelli di emoglobina circolante; questa definizione deriva
dal fatto che dal punto di vista fisiopatologico il danno che riscontriamo nell’anemia è un mancato
apporto di ossigeno ai tessuti, ossigeno che viene trasportato dall’emoglobina, quindi si ha un’ipossia
anemica.
- HCT (Hematocrit). Esso è il volume occupato dalle cellule del sangue, ossia fondamentalmente il
volume occupato dai globuli rossi, quando essi vengono fatti sedimentare in una provetta sottile; essi
normalmente occupano circa il 41-45% del volume totale (il plasma infatti è il 55%), qui espresso come
43.7%.
- MCV (Mean Corpuscular Volume). Esso è il volume globulare medio ossia il volume medio di ogni
singolo globulo rosso e si può calcolare dividendo l’ematocrito per il numero di globuli rossi; esso ha un
valore compreso tra 89 fL e 93-94 fL (in questo caso specifico è 92.4) anche se varia molto tra i vari
laboratori (intorno a 90 è accettabile) e solitamente il valore medio è 92 fL. La soglia (threshold) tra
normale e sottosoglia è considerato da alcuni autori 90 fL.
- MCH (Mean Corpuscular Hemoglobin). Esso è il contenuto medio di emoglobina per globulo rosso
ossia quanta emoglobina è contenuta in un globulo rosso; si calcola dividendo la concentrazione di
emoglobina per il numero di globuli rossi ed è espresso in picogrammi (pg); il range normale è 29-31
pg.
- MCHC (Mean Corpuscular Hemoglobin Concentration). Esso è la concentrazione di emoglobina per
ogni globulo rosso e si calcola dividendo la concentrazione di emoglobina per l’ematocrito; tale valore
ha un range medio di 30-32 g/dl e valuta anche le dimensioni volumetriche del globulo rosso (il MCH
invece considera il contenuto assoluto di emoglobina).
- RDW è l’ampiezza della curva di distribuzione dei globuli rossi e ci dà un’idea di quanti reticolociti
sono in circolo. Il valore medio normale è 14-15%; quando tale valore aumenta significa che la curva di
distribuzione è più ampia quindi ci sono elementi anche più grossi del normale. Non è tanto una spia
dell’anemia macrocitica piuttosto è una spia di aumento dei reticolociti in circolo; questa situazione si
verifica tutte le volte che il midollo è forzato a “buttare fuori” globuli rossi ed è classica nelle anemie
emolitiche, ossia dove si ha un’aumentata distruzione dei globuli rossi.
- PLT (Platelet) hanno un valore che varia da 100’000-150'000 piastrine per mm3, a 350’000-400'000
piastrine per mm3.

Nella formula leucocitaria abbiamo i seguenti parametri:


- NEUT (neutrofili). Il range normale è intorno al 60%.
- LYMP (linfociti). Il range normale è 30-35%.
- MONO (monociti). Il range normale è 5-8%.
- EOS (eosinofili). I valori normali sono inferiori al 2%.
- BASO (basofili). I valori normali sono inferiori a 1%.
- LUC. Sono cellule poco colorate non perfettamente mature. Esse sono normalmente presenti nel sangue
periferico ed aumentano in determinate situazioni come nelle flogosi e in alcune leucemie.

LEUCEMIE
Le leucemie sono malattie neoplastiche, solitamente dette tumori del sangue anche se in realtà è alterato il
sistema ematopoietico, quindi sono malattie del midollo osseo piuttosto che malattie del sangue. Esse si
evidenziano nel sangue periferico perché le cellule periferiche che maturano nel midollo osseo poi vengono
emesse nel sangue periferico. Ci sono alterazioni del compartimento staminale o dei progenitori a livello del
midollo osseo; secondo la linea colpita, mieloide o linfoide, riconosciamo leucemie di tipo mieloide o
leucemie di tipo linfoide. La grande differenza si ha tra le forme acute e le forme croniche. Si avranno forme
acute della linea mieloide (leucemia mieloblastica acuta) e della linea linfoide (leucemia linfoblastica acuta)
contrapposte alle forme croniche della linea mieloide (leucemia mieloide cronica) e della linea linfoide
(leucemia linfatica cronica). La distinzione tra acute e croniche è netta, consistono realmente in due malattie
diverse. Le leucemie croniche (linfoidi o mieloidi) sono caratterizzate da un’amplificazione del
compartimento staminale e da un’aumentata proliferazione delle cellule staminali progenitrici o della
staminale HSC mentre i progenitori e i precursori mantengono il normale pattern differenziativo. Quindi
nelle forme croniche si hanno tante cellule nel midollo e tante cellule nel sangue periferico, ma queste
arrivano alla maturazione: nella leucemia linfatica cronica avrò tante cellule nel midollo osseo ma soprattutto
tante cellule linfoidi nel sangue periferico. La cosa strana è che questi linfociti arriveranno ad essere il 70-
80%-90% ed inoltre essi saranno quasi sempre linfociti B (perché le leucemie linfatiche croniche sono quasi
sempre a carico delle cellule B). Allo stesso modo, nella leucemia mieloide cronica si hanno tante cellule
della serie mieloide proliferanti nel midollo e tante cellule nel sangue periferico; le cellule nel sangue
periferico saranno cellule mature come i granulociti neutrofili maturi. In aggiunta, nella mieloide cronica
sono immessi nel sangue anche precursori mieloidi (promielociti, mielociti, metamielociti, etc...) che
normalmente sono trattenuti nel midollo osseo. Questo determina anche una forte differenza con la
leucocitosi: nella leucocitosi neutrofila, in forma infiammatoria acuta, nel sangue periferico si trovano tutti
granulociti neutrofili e nessuna forma immatura (al massimo c’è qualche forma a banda), mentre la leucemia
linfatica cronica è caratterizzata da una grave leucocitosi (20’000-50'000 leucociti per µl) pertanto in circolo
si troveranno molti leucociti maturi ma in questo caso si trovano anche tante forme immature, che vengono
segnalate all’esame emocromo-citometrico e sono visibilissime alla visione microscopica dello striscio di
sangue. Nella linfatica cronica le cellule meno mature si riconoscono non perché siano linfoblasti ma perché
sono molto fragili e nel momento in cui si allestisce lo striscio di sangue, non si osservano classici linfociti
ma piuttosto “ombre” cellulari, dette ombre di Gumprecht, e sono tipiche della leucemia linfatica cronica.
Nelle croniche si ha un’espansione proliferativa del compartimento midollare e il mantenimento della
capacità differenziativa delle cellule staminali o progenitrici quindi si ritrovano in circolo forme mature:
nella linfatica cronica le forme mature sono da sole, mentre nella mieloide cronica le forme immature sono
insieme a precursori immaturi.
Viceversa, le leucemie acute sono caratterizzate da una trasformazione neoplastica delle staminali e dei
precursori midollari ma la trasformazione neoplastica colpisce e altera il patrimonio genetico (geni oncogeni
o oncosoppressori) causando un profondo disturbo della normale differenziazione delle cellule midollari. Se
l’insulto neoplastico colpisce la sede mieloide avrò un’alterazione della normale differenziazione mieloide,
se l’alterazione colpisce la serie linfoide avrò un’alterazione della normale differenziazione linfoide. Quindi
nelle leucemie mieloblastiche di tipo acuto si avrà un midollo pieno di cellule fortemente immature mentre
nel periferico verranno immesse tante cellule immature (leucocitosi con cellule SOLO immature) oppure
talvolta si avrà un periferico quasi privo di cellule e le poche cellule che si ritrovano sono immature, ossia
cellule più grandi con cromatina lassa, vacuoli nel nucleo talvolta anche citoplasmatici (specialmente nelle
linfoblastiche). Quello che, in generale, caratterizza le forme acute è la presenza nel midollo di tante cellule
tutte immature (dette blasti) e tutte uguali, mentre nel periferico si ritrovano le stesse cellule immature ma in
alcune situazioni se ne trovano pochissime: è quello che viene chiamato iatus leucemico, ossia la differenza
tra la situazione midollare e quella del periferico. In ogni caso, a prescindere dalla quantità, nel periferico si
avranno blasti mieloidi o blasti linfoidi, ecco perché le leucemie acute si chiamano leucemie mieloblastiche
acute o leucemie linfoblastiche acute. Nelle leucemie acute, si ha una soppressione quasi completa della
normale emopoiesi, quindi le linee non colpite dalla trasformazione neoplastica non crescono né
differenziano più nel midollo. Quindi in una leucemia mieloblastica acuta è espansa solo la linea mieloide
mentre la linea eritroide, megacariocitaria e in parte anche linfocitaria, sono completamente soppresse
(soprattutto la linea eritroide e quella megacariocitaria). Quindi nelle leucemie acute si ha una situazione
quasi paradossa poiché di troveranno tanti bianchi (leucocitosi) e una grave anemia da deficit midollare
(aplasia della serie eritroide midollare) e una piastrinopenia grave (emorragie spontanee) a causa di una
soppressione della normale differenziazione della linea megacariocitopoietica che dà origine alle piastrine.

ESEMPIO 1 DI EMOCROMO

Si tratta di una leucemia mieloide


cronica. Nello striscio periferico
si riconoscono i neutrofili maturi,
i neutrofili a banda, i
metamielociti, i mielociti e i
promielociti. La formula
leucocitaria è caratterizzata dal
più del 90% di neutrofili, anche
se ci sono metamielociti in
percentuale notevole, mielociti e
promielociti; l’unica altra linea
sono i basofili. Non ci sono né
linfociti, né eosinofili, né
monociti.
Quindi è tutto focalizzato sulla
linea mieloide con presenza di
tantissime cellule mature ma
anche tante cellule immature. Le cellule mature si ritrovano sia nell’aumentata percentuale di neutrofili sia
nell’aumentato numero assoluto di globuli bianchi: si ha una leucocitosi neutrofila ma con presenza in
circolo di cellule immature della serie mieloide. Questo è il quadro tipico della leucemia mieloide cronica.
Analizzando gli altri parametri osserviamo che i globuli rossi sono normali, l’emoglobina è normale,
l’ematocrito è normale e anche gli altri successivi sono normali quindi non abbiamo un’anemia. Le piastrine
sono leggermente aumentate (leggera piastrinosi o trombocitosi) e questo aspetto assieme alla presenza di
basofili in circolo, è tipico della leucemia mieloide cronica.
Infatti, molto probabilmente viene colpita dalla trasformazione neoplastica la CFU-GEMM o la HSC, per
questo oltre alla proliferazione e polarizzazione verso la linea mieloide, continua a proliferare più del dovuto
anche la linea meacariocitaria.

ESEMPIO 2 DI EMOCROMO
Si tratta di una leucemia mieloide acuta. Si riconosce dallo striscio e dalla formula leucocitaria, quest’ultima
infatti ci dice che in questa situazione si hanno pochi neutrofili e tanti blasti granulosi. I granuli in realtà si
percepiscono appena, essi hanno una forma a bastoncello, per questo sono detti bastoncelli di Auer; essi sono
tipici della leucemia mieloide acuta.
L’emocromo in questa situazione
è caratterizzato da un aumento
del numero dei globuli bianchi
(leucocitosi); l’esame dello
striscio ci dice che la leucocitosi è
dovuta alla presenza di cellule
immature (blasti), che sono blasti
granulosi.
Il numero di globuli rossi è
francamente diminuito;
l’emoglobina è diminuita quindi
siamo in una situazione di anemia
e in particolare, essendo sotto gli
8 g/dl, siamo in una situazione di
grave anemia; l’ematocrito è
diminuito moltissimo (la metà del
valore normale) anche se questo non deve meravigliare poiché i globuli rossi sono più che dimezzati.
Analizzando i parametri dei globuli rossi vediamo che il valore di MCV è normale (esso esprime un
rapporto, dimezzando i valori di entrambi i numeri, il risultato non cambia) e lo stesso vale per MCH e
MCHC (dato che esprimono anch’essi dei rapporti tra valori che sono praticamente dimezzati). Quindi si ha
un’anemia grave normocitica, ossia un’anemia da danno midollare in cui non funziona la HSC a causa di un
sovvertimento del midollo in cui prolifera (senza differenziare) solo la linea mieloide.
In questa situazione mi aspetto che nemmeno la serie megacariocitaria funzioni, quindi mi aspetto di trovare
poche piastrine in circolo; in effetti, guardando l’emocromo le piastrine sono diminuite e si ha una
gravissima piastrinopenia con rischio emorragico ma soprattutto emorragie spontanee (il limite per le
emorragie spontanee è 20'000).
Quindi si ha una leucemia acuta con leucocitosi, presenza in circolo di blasti, accompagnata da una severa
anemia normocitica e normocromica e da una gravissima piastrinopenia.

ESEMPIO 3 DI EMOCROMO

Il numero di globuli
bianchi è normale
(lievemente aumentati
rispetto ma normali). Il
numero di globuli rossi è
forse al limite inferiore
ma nemmeno troppo,
quindi li consideriamo
normali. L’emoglobina è
bassa, siamo in una
grave anemia (sotto i 10
g/dl è grave).
L’ematocrito è
francamente diminuito.
In questo caso vale la
pena analizzare i valori
di MCV, MCH, MCHC
perché si ha una
discrepanza tra la
quantità di emoglobina e
l’ematocrito che sono ridotti e il numero di globuli rossi che invece non sono diminuiti. In questa situazione,
MCV è diminuito, come anche MCH e anche MCHC (fortemente diminuito). Quindi è chiaramente
un’anemia ipocitica; inoltre si tratta di un’anemia ipocromica perché si ha meno emoglobina all’interno del
globulo rosso. Il valore RDW è normale, quindi non si ha marcata reticolocitosi. Le piastrine sono
leggermente diminuite ma comunque possiamo considerarle nella norma.
Si tratta quindi di un’anemia microcitica con numero di globuli rossi normale, diminuzione dell’emoglobina
e diminuzione dell’ematocrito.
L’esame dello striscio assieme alla formula leucocitaria (con le note aggiuntive) ci dice che la formula
leucocitaria è normale, in accordo anche con il numero di globuli bianchi dell’emocromo (anche se non
sempre è scontato). Il lettore dello striscio nota: un’anisopoichilocitosi ossia un’alterazione della forma e
delle dimensioni dei globuli rossi; le punteggiature basofile, all’interno dei globuli rossi; i corpi di Jolly, non
visibili in figura; emazie (globuli rossi) a bersaglio, in cui si nota una massa più scura al centro del globulo
rosso.
Per individuare il tipo di anemia si analizza la classificazione e si nota che tra le anemie microcitiche
ritroviamo le anemie sideropeniche, le anemie da infiammazione cronica, anemie sideroblastiche o
talassemie. Nelle anemie sideropeniche si può avere una situazione simile (globuli rossi normali con
diminuzione di emoglobina ed ematocrito) ma non sono quasi mai così marcate la diminuzione di
emoglobina ed ematocrito e soprattutto non si ha mai la presenza di anisopoichilocitosi, corpi di Jolly,
punteggiature basofile o emazie a bersaglio. Queste caratteristiche sono invece tipiche delle talassemie.
Quindi la situazione raffigurata è una situazione di talassemia.
15/04/2020
MALATTIE EMORRAGICHE

L’emorragia è la fuoriuscita di sangue dai vasi.


Le malattie emorragiche sono un gruppo eterogeneo di forme morbose diverse per eziologia, patogenesi,
epidemiologia ed incidenza, che hanno in comune il sintomo costituito dall’emorragia.
Le diatesi emorragia è una situazione di tendenza sistemica all’emorragia.

In tabella sono riportate le varie forme con cui si manifestano le emorragie:

Le malattie emorragiche vengono classificate in base alla loro patogenesi ossia in base alle fasi
dell’emostasi. Si hanno:
1- Malattie emorragiche da anomalie vascolari, spesso dovute ad aumentata fragilità vascolare. Tra queste
viene fatta rientrare anche la malattia di von Willebrant (alterazioni genetiche di vWF);
2- Malattie emorragiche da alterazione piastrinica, causate da: diminuzione del numero delle piastrine
(piastrinopenie); alterata funzione e/o struttura delle piastrine (piastrinopatie);
3- Malattie emorragiche da alterazione della coagulazione (coagulopatie);
4- Malattie emorragiche da e con iperfibrinolisi.

Le malattie da alterazioni vascolari sono un gruppo eterogeneo di malattie relativamente comuni, definite
anche porpore vascolari non trombocitopeniche. Esse sono dovute ad alterazioni della fase vascolare
dell’emostasi, senza coinvolgimento della fase piastrinica o dei fattori della coagulazione. Le alterazioni
vascolari (generalmente a livello del distretto capillare, soprattutto dell’ansa venulare) si verificano a livello
di: parete dei vasi e tessuto perivascolare di sostegno. Spesso queste malattia si manifestano clinicamente
con manifestazioni di tipo purpurico a livello della cute e delle mucose, che si arrestano spontaneamente e
che generalmente non sono gravi (eccetto la malattia di von Willebrant).

Le malattie da difetto piastrinico sono varie. Si possono avere piastrinopenie ossia alterazioni del livello
piastrinico, in particolare si ha la diminuzione, ereditaria o acquisita, del numero delle piastrine circolanti al
di sotto di 100.000/µl. Nelle piastrinopatie si hanno difetti, ereditari o acquisiti, della funzionalità piastrinica.
Nelle piastrinosi si ha l’aumento del numero delle piastrine al di sopra di 600.000/µl, queste sono situazioni
border-line che possono sia facilitare fenomeni trombotici sia facilitare fenomeni emorragici.
Per quanto riguarda le soglie del numero piastrinico ricordiamo che le situazioni patologiche sono
caratterizzate dalla riduzione numerica delle piastrine circolanti al di sotto di 100.000/mm3; la soglia critica
di “rischio emorragico” è di 50.000 piastrine/mm3; le emorragie spontanee si verificano con un numero di
piastrine inferiore a 20.000/mm3.
Le piastrinopenie possono essere legate ad una riduzione della produzione di piastrine (piastrinopoiesi
insufficiente), come ad esempio la sindrome di Fanconi (sindrome congenita), le forme di aplasia midollare,
le infiltrazioni del midollo (da emopatie e linfopatie maligne o tumori solidi), farmaci tossici, infezioni. Si
può avere anche un difetto legato all’alterazione del megacariocito e quindi un difetto della maturazione con
difetto della produzione delle piastrine.
Si può avere piastrinopenia anche da aumentata distruzione o perdita delle piastrine.

Ci sono alcuni farmaci che, con un meccanismo immune o non immune, possono causare piastrinopenia, in
particolare la piastrinopenia da eparina è piuttosto frequente.
Alcune piastrinopenie sono non immunologiche, in particolare sono rilevanti la porpora trombotica
trombocitopoietica (PTT) e la sindrome emolitico-uremica di Gasser (HUS). Queste sono due varianti della
stessa malattia, la PTT colpisce in prevalenza adulti, e ha un prevalente coinvolgimento neurologico, la HUS
colpisce in prevalenza bambini ed è prevalente il coinvolgimento renale. Si hanno 5 sintomi principali:
febbre, piastrinopenia, anemia emolitica, deficit neurologici transitori, insufficienza renale.
Una situazione in cui abbiamo una riduzione del numero di piastrine secondaria è la splenomegalia e le
situazioni di ipersplenismo; in questi casi funziona di più la milza o la milza ha dimensioni aumentate (es.
disordini proliferativi, cirrosi epatiche associate all’ipertensione portale, emopatie maligne) e quindi si ha un
maggiore sequestro splenico di piastrine, allora si ha piastrinopenia e talvolta esse sono presenti in numero
minore di 50'000 piastrine/µl anche se non si ha né perdita né distruzione.

Le piastrinopatie sono alterazioni funzionali delle piastrine e possono essere forme congenite. In particolare,
ricordiamo la sindrome di Bernard-Soulier, che è un deficit della glicoproteina 1B (GP1B), glicoproteina
piastrinica che lega il vWF (legato al collagene): si ha un deficit dell’adesività. Altra malattia rara di questo
tipo è la tromboastenia di Glanzmann che è un’alterazione di α2bβ3 (integrina) che fa da ponte tra due
piastrine legando il fibrinogeno e pertanto media l’aggregazione piastrinica: si ha un deficit
dell’aggregazione piastrinica.
Possono esservi anche piastrinopatie acquisite. Esse sono dovute soprattutto ai farmaci, in particolare
aspirina e FANS (farmaci infiammatori non steroidei) che bloccano la produzione di TXA2 e quindi si ha il
blocco della coagulazione. Tra le piastrinopatie acquisite, si considerano anche quelle dovute ad alcune
malattie ematologiche, come le sindromi mieloproliferative (es. leucemia mieloide cronica e la malattia di
Vaques o poliecitemia essenziale), e non ematologiche come ematopatie (es. cirrosi) o patologie renali (es.
uremia o insufficienza renale cronica).

Le coagulopatie (malattie emorragiche da difetto della coagulazione) possono essere su base ereditaria e
spesso riguardano un solo fattore della coagulazione, dette pertanto coagulopatie isolate, che spesso
riguardano l’emofilia (emofilia A, deficit del fattore VIII; emofilia B, deficit del fattore IX; emofilia C,
deficit del fattore XI).
Si hanno anche situazioni acquisite di deficit plasmatico e si può avere: una sintesi ridotta dei fattori di
coagulazione, nei casi di deficit del fegato (epatopatie, ipovitaminosi K, trattamenti farmacologici con blocco
del meccanismo epatico K-dipendente ossia dicumarolici); un consumo maggiore dei fattori di coagulazione,
situazione della CID (Coagulazione Intravascolare Disseminata), molto rara, può accompagnare sepsi, shock,
deficit multiorgano e pertanto quasi sempre mortale.

Le malattie emorragiche da e con iperfibrinolisi sono sindromi emorragiche caratterizzate da eccessiva


attivazione del sistema fibrinolitico (iperfibrinolisi). Ci sono sindromi iperfibrinolitiche primarie, condizioni
molto rare, dovute ad un eccesso di attivatori o ad un difetto dell’inibizione del sistema fibrinolitico; ci sono
anche sindromi iperfibrinolitiche secondarie come la CID, dove non si ha solo un consumo dei fattori di
coagulazione ma anche un attivazione della fibrinolisi.
TROMBOSI

La trombosi è un processo patologico che dà luogo alla formazione di una massa semisolida, chiamata
trombo, formata dai costituenti del sangue (soprattutto piastrine, fattori della coagulazione e fibrina),
all’interno del sistema vascolare. Tale massa aderisce alla parete del vaso in almeno un punto (detto testa del
trombo) e si forma quando l’individuo è ancora in vita. Esso infatti necessita che il sangue fluisca,
contrariamente al coagulo post-mortale; quando un individuo muore e il flusso ematico si ferma si ha la
coagulazione che si può distinguere dalla formazione del trombo poiché nel coagulo post mortem manca la
testa del trombo.
La trombosi rappresenta l’estensione patologica del normale processo emostatico, con un emostasi in
eccesso: il processo di trombosi è un’emostasi non necessaria e non innescata da danno vascolare, anche se
la trombosi comunque coinvolge gli stessi elementi che sono coinvolti nella coagulazione.

Secondo il meccanismo genetico e secondo la localizzazione del trombo si hanno:


• TROMBO BIANCO: costituito essenzialmente da piastrine. Detti così poiché avranno un colorito
biancastro. Si forma principalmente nelle arterie.
• TROMBO ROSSO: si forma in seguito all’attivazione della coagulazione con formazione di un
reticolo di fibrina stabile che trattiene globuli rossi e leucociti (ossia gli elementi figurati del sangue),
ecco perché il trombo risulta di un colorito più rossastro. Essi si forma in tutte le condizioni in cui il
flusso è rallentato ecco perché si forma principalmente nelle vene.
• TROMBO VARIEGATO: alternanza di strati di trombi bianchi e rossi, detta strie di ZAHN.
La formazione di trombo bianco, rosso o variegato dipende dalla localizzazione e dal flusso sanguigno: nelle
arterie, dove il flusso è rapido, si verifica una diluizione dei fattori della coagulazione. La coagulazione del
sangue è in questo caso “sfavorita” ed il trombo che si forma è costituito prevalentemente da piastrine
(trombo bianco). Nelle vene, invece, dove il flusso è lento, si ha un accumulo dei fattori della coagulazione
con formazione di fibrina che intrappola i globuli rossi (trombo rosso).
I trombi dunque si possono sviluppare in tutto “l’albero circolatorio”, sia a livello arterioso sia a livello
venoso sia a livello cardiaco.
I trombi murali rimangono attaccati alla parete del vaso mentre i trombi occlusivi occludono tutto il vaso.
Il meccanismo patogenetico per cui si formano i trombi arteriosi sono le alterazioni della superficie
endoteliale e l’alterazione del flusso ematico.
I trombi venosi se interessano le vene profonde degli arti inferiori si parla di trombosi profonda o malattia
tromboembolica. Infatti, spesso le trombosi venose degli arti inferiori danno origine al distacco di parte del
trombo e quindi alla formazione dei cosiddetti emboli; la pericolosità è legata alla formazione di trombi nelle
vene profonde. I trombi tuttavia si formano anche a livello delle vene superficiali e spesso si accompagnano
a reazione infiammatoria (tumor, rubor, calor) in una situazione detta tromboflebite; la tromboflebite può
essere la spia di una trombosi venosa superficiale ma va comunque controllato che non ci sia una trombosi
venosa profonda. In generale, dato che i trombi venosi sono quasi sempre occlusivi si può avere un ristagno
ematico e pertanto un edema (tumefazione in gamba e piede).
La causa più frequente di trombosi venosa è la stasi ematica che favorisce la formazione di trombi venosi se
si associa ad altre situazioni.

La patogenesi dei trombi è riassunta in tre meccanismi patogenetici individuati da Virchow nel 1856 e
pertanto è detta triade di Virchow.
[1] Fattori meccanismi legati ad alterazioni del flusso sanguigno.
Le selectine sulle cellule endoteliali possono favorire l’interazione tra piastrine e cellule endoteliali;
questo avviene in particolare con le P-selectine. Questo primo meccanismo della triade spiega perché
le trombosi avvengono soprattutto a livello delle vene, dove il flusso è già rallentato rispetto al flusso
nel circolo arterioso. Infatti, il flusso ematico a livello delle vene trae vantaggio soprattutto dalla
contrazione muscolare.
Oltre a questo, si deve valutare anche eventuali alterazioni del flusso laminare; un esempio è
rappresentato dalla formazione dei vortici dove il flusso da laminare diventa vorticoso e favorisce la
trombosi. Un flusso vorticoso si ha ad esempio se il sangue trova un ostacolo come ad esempio una
placca aterosclerotica. I vortici si hanno anche nelle
biforcazioni e nei restringimenti dei vasi; si hanno vortici
anche in caso di estroflessioni del vaso, ossia la parete del
vaso cede e si hanno i cosiddetti aneurismi. Gli aneurismi
possono essere fusiformi o sacciformi (vedi figura);
spesso i fusiformi si hanno a livello dell’aorta
addominale. Gli aneurismi sacciformi si estendono dalla
parete vascolare.
L’alterazione del flusso avviene in corrispondenza di un’alterazione della parete (es. placca
aterosclerotica) oppure a livello delle valvole venose, e questo spiega perché i trombi rossi venosi
spesso si formano a livello della valvole.
[2] Alterazioni dell’endotelio della parete vascolare.
Qui torna in auge la bilancia emostatica endoteliale: non ci meraviglia che un’alterazione strutturale
e/o funzionale della cellula endoteliale possa favorire le attività pro- o anti- trombotiche (pro- e anti-
aggreganti, pro- e anti- coagulanti, pro- e anti- fibrinolitiche).
Rappresenta il fattore principale nella patologia dei trombi nel cuore e nelle arterie. Danni a livello
endoteliale possono essere prodotti da una varietà di fattori, che portano come conseguenza finale al
distacco delle cellule endoteliali con esposizione del tessuto sottoendoteliale con conseguente
adesione, aggregazione piastrinica, attivazione della coagulazione e formazione di un trombo. È stato
dimostrato che alcuni fattori sono in grado di determinare alterazioni funzionali dell’endotelio tali da
favorire l’interazione piastrina-endotelio senza che vi sia stato necessariamente un danno endoteliale
(ad esempio l’esposizione al fumo di sigaretta provoca inibizione della sintesi di prostaciclina
prodotta dalle cellule endoteliali a livello dell’aorta). Inoltre, nelle trombosi venose, generalmente, la
parete vascolare si presenta integra da un punto di vista istologico e quindi fattori estrinseci
sembrano avere un ruolo patogenetico determinante nell’insorgenza di tali trombosi (ad esempio,
minore attività fibrinolitica endoteliale delle vene degli arti inferiori; riduzione del tono venoso;
ecc..). Si ha in ogni caso, in seguito a distacco o ad un’attivazione delle cellule endoteliali, uno
sbilanciamento in senso trombogeno della bilancia emostatica endoteliale.
Nelle situazioni di iperpressione di ha un’attivazione dell’endotelio da sfregamento e quindi tali
individui sono soggetti allo sviluppo di trombosi.
Ci possono essere anche cause chimiche come l’ipercolesterolemia o, in genere, l’aumento delle
LDL (che spesso vanno incontro ad ossidazione) danneggiando la cellula endoteliale; altra causa
chimica sono le AGE (Advantge Glycation End-Products) ossia prodotti della glicazione delle
proteine e questo si ha soprattutto nel diabete dove vengono prodotti molti AGE, che danneggiano
l’endotelio. Quindi non ci meraviglia sapere che nel diabete si ha la formazione di trombi e l’innesco
della malattia aterosclerotica che è sempre un’alterazione della cellula epiteliale.
Anche i NETs sono zone in cui si innesca facilmente un fenomeno trombotico
(tromboinfiammazione). Come i NETs, anche gli immunocomplessi possono causare danni alle
cellule endoteliali, quindi nelle malattie da immunocomplessi, dove si ha vasculite, si ha anche lo
sviluppo di trombosi (la flogosi di molte vasculiti è neutrofila quindi si ha formazione di NETs e
pertanto si favorisce il fenomeno trombotico).
La iperomocisteinemia è un aumento dell’omocisteina plasmatica, un amminoacido solforato che
deriva dal metabolismo della metionina, che può provocare un danno diretto oppure sbilanciare la
bilancia emostatica endoteliale favorendo l’esposizione del fattore tissutale. Il dosaggio
dell’omocisteina correla alla propensità dello sviluppo di trombosi.
[3] Alterazione dei componenti ematici dell’emostasi.
Un aumento della tendenza alla trombosi è associato ad alterazioni dei costituenti del sangue,
condizione in cui il sangue tende a coagulare più rapidamente in vitro, stato di ipercoagulabilità o
stato protrombotico o trombofilia.
Alti livelli dei fattori della coagulazione (soprattutto alterazioni genetiche del fattore V, in
particolare il fattore V di Leiden che comporta una minore degradazione del complesso
protrombinasico) sono stati descritti nel sangue di pazienti che sono andati incontro a trombosi o che
presentano uno stato pretrombotico, in donne in gravidanza o che fanno uso di contraccettivi. Questo
si ha anche con l’alterazione deli inibitori della coagulazione come l’antitrombina III e il complesso
proteina C/proteina S; un’alterazione degli inibitori determina propensità allo sviluppo di trombosi.
Anche il fibrinogeno risulta aumentato in varie situazioni in cui si è verificato un danno tissutale, in
seguito all’insorgenza di una reazione infiammatoria o in seguito ad un processo trombotico.
In tutti questi casi, tuttavia, non esistono evidenze che dimostrino una correlazione fra aumento dei
fattori della coagulazione e predisposizione all’insorgenza di trombosi: si tende a pensare che questo
incremento non rappresenti la causa, ma una conseguenza dell’evento trombotico. L’insorgenza di
trombosi è dovuta non tanto ad un aumento dei fattori della coagulazione, ma piuttosto ad un certo
grado di “attivazione” della coagulazione stessa che causa lo stato di trombofilia. Molti meccanismi
sono responsabili dell’attivazione della coagulazione e,
da un punto di vista clinico, gli stati di ipercoagulabilità possono essere classificati in primari (a
carattere ereditario, cfr. fattore V Leiden) e secondari (acquisiti). Una situazione di trombofilia
secondaria si può osservare in diverse malattie, acute o croniche, che alterano il sistema emostatico o
quello fibrinolitico e determinano una attivazione della coagulazione. Si tratta di un gruppo
eterogeneo di situazioni cliniche, o anche fisiologiche, nelle quali esiste un maggiore rischio di
trombosi in confronto alla popolazione normale e sono spesso associate ad altri fattori di rischio,
quali il fumo, l’obesità ed altri. In questi casi sono presenti più difetti dei componenti del sistema
emostatico (sistema della coagulazione e piastrine) ed in molti casi non è ancora chiara la
patogenesi. Spesso si ha un’aumentata propensità delle piastrine all’aggregazione e quindi
un’aumentata aggregabilità piastrinica.
Le trombofilie acquisite sono più frequenti di quelle su base ereditaria.
In alcune malattie si rilevano autoanticorpi, diretti contro i fosfolipidi delle membrane cellulari, che
portano ad uno stato pro-trombotico perché alterano sia le piastrine sia la cellula endoteliale. Si ha un
meccanismo patogenetico complesso: si ha un’aggregazione piastrinica (trombofilia da attivazione
delle piastrine) e un’alterazione della funzionalità endoteliale (danno endoteliale diretto, diminuzione
della produzione di acido arachidonico, diminuzione dell’fattore tissutale plasminogeno,
diminuzione dell’attività della trombina), in particolare della bilancia endoteliale.

Questi meccanismi patogenetici spesso si intersecano tutti tra loro e almeno due di questi elementi devono
essere concomitanti per lo sviluppo della trombosi.

Quali sono le evoluzioni di un trombo?


• Propagazione del trombo: si ha l’accumulo di quantità crescenti di piastrine e fibrina fino
all’occlusione del vaso
• Dissoluzione del trombo: rimozione ad opera dell’attività fibrinolitica (azione spontanea) o
attraverso farmaci (in situazioni acute, eparina ed eurochinasi, attivatori della fibrinolisi; in
situazioni croniche, anticoagulanti orali).
• Organizzazione del trombo e sue ricanalizzazione: il trombo rimane lì ma evolve in “guarigione” con
fibrosi e con ristabilimento del flusso sanguigno attraverso la formazione di canali neoformati. Il
nuovo flusso non è certamente laminare ma si avranno vortici, con rallentamento del flusso e quindi
una situazione ischemica e potenzialmente pro-trombotica.
• Embolizzazione: si tratta della complicanza più temibile della trombosi venosa profonda. Essa è
legata alla frammentazione del trombo con immissione in circolo di una massa intravascolare
(embolo) che dalle vene profonde della gamba, attraverso vasi di calibro sempre maggiore e poi
attraverso il cuore destro, viene trasportata al circolo polmonare. Ecco perché si parla di
tromboembolia polmonare: spesso l’embolia deriva da una trombosi venosa degli arti inferiori e
arriva al polmone. Una volta arrivato al polmone l’embolo può avere più conseguenze, secondo le
sue dimensioni: occludere l’arteria polmonare principale; fermarsi a livello della biforcazione
(embolo a sella); procedere fino alle arteriole più piccole.
Per emboli voluminosi o quando il 60% o più del letto vascolare polmonare è ostruito (5% dei casi)
si ha la morte improvvisa per insufficienza acuta del cuore destro, ipossia, collasso cardio-vascolare.
Emboli che ostruiscono arterie di piccolo e medio calibro possono causare un infarto (10-15% dei
casi). Molti emboli di piccole dimensioni sono clinicamente silenti (60-80%, la maggioranza dei
casi) e vengono rimossi dall’attività fibrinolitica; questi in alcuni casi sono “riorganizzati” e si ha
una fibrosi polmonare, che comunque altera la funzione del polmone e può dare origine ad uno
scompenso cardiaco cronico. La morte improvvisa da embolia polmonare si verifica quando la
trombosi venosa profonda si instaura in un malato politraumatizzato (molte fratture ossee, lesioni
con perdite di sostanza, etc...), che sviluppa molte trombosi e pertanto una malattia tromboembolica
polmonare; questo vale anche per le chirurgie e in particolare le chirurgie ortopediche (es. anca, con
sviluppo di trombi al 90%). Nel paziente chirurgico si sviluppano trombosi perché il danno tissutale
attiva il sistema emostatico e quindi la coagulazione, con danno endoteliale profuso e stasi (il
paziente poi rimane a letto): ecco perché si tende a far camminare velocemente il soggetto operato.
Va comunque fatta una terapia in acuto per impedire i trombi (quella per eccellenza è la calceparina
o eparina).
17/04/2020
ATEROSCLEROSI

Tra le malattie non comunicabili, tutte le patologie associate al processo aterosclerotico costituiscono la
prima causa di mortalità (cardiopatia ischemica, ictus, etc...). La mortalità per alcune malattie, es. infarto, è
in decremento grazie alle pratiche che portano alla dissoluzione della lesione aterosclerotica e alle terapie
farmacologiche; tutto questo è possibile poiché sono stati scoperti i meccanismi che portano all’aterosclerosi.

Cose da sapere:
- Definizione
- Fasi iniziali (LDL, Shear stress, Macrofagi/Flogosi)
- Evoluzione dell’ateroma (Macrofagi, Reverse Cholesterol Transport, Smoth
Muscle Cells, ECM)
- Evoluzione/complicazione dell’ateroma (trombosi, angiogenesi,
calcificazione)
- Conseguenze fisiopatologiche dell’aterosclerosi (rimodellamento, insabilità
della placca, rottura)

Il termine aterosclerosi deriva dal greco (“atheros” = poltiglia; “sclerosis” = indurimento) ed è un processo
patologico progressivo dei grossi vasi. La placca aterosclerotica è un misto tra una poltiglia e la sclerosi dei
vasi; il termine quindi va distinto dalle arteriosclerosi, patologie che invece comprendono patologie
caratterizzate dalla sclerosi (indurimento) dei vasi arteriosi: all’interno dell’arteriosclerosi abbiamo
l’aterosclerosi.
Il processo aterosclerotico interessa i grandi vasi; le lesioni di natura aterosclerotica dei vasi arteriosi
sottendono diverse patologie tra cui l’ictus e l’attacco ischemico transitorio (patologia cerebro-vascolare),
l’infarto del miocardio e la cardiopatia ischemica, e anche la claudicatio (poiché l’aterosclerosi colpisce
anche i vasi inferiori). Spesso le lesioni aterosclerotiche, oltre ad essere distribuite a livello di tutto l’albero
arterioso, spesso sono silenti, finché non arrivano ad una evoluzione/complicanza tale da dare segno di sé
con le patologie citate, che sono life-treating.

FATTORI DI RISCHIO
La malattia aterosclerotica prevede diversi fattori di rischio che possono essere distinti come segue:

NON MODIFICABILI MODIFICABILI


Fattori genetici Iperlipidemia (cfr. lipoproteine!)
Età Ipertensione
Sesso Fumo di sigaretta (uno dei fattori più importanti)
Diabete (effetti sui vasi di resistenza all’insulina,
iperinsulinemia e iperglicemia; danno endoteliale, aumento
Familiarità
dell’infiammazione, aumento dei fenomeni trombotici,
riduzione NO; associazione con dislipidemia)
Infiammazione
Obesità e stile di vita sedentario (cfr. sindrome metabolica:
obesità, dislipidemia e ipertensione; costituisce una
predisposizione alla malattia diabetica))

Come si vede nella figura seguente, il lipide più coinvolto come fattore di rischio è il colesterolo. In
particolare, in figura si vede anche il rischio percentuale stimato a 10 anni per donne e uomini, in presenza di
1 o più fattori di rischio. Ovviamente se i fattori di rischio sono tutti presenti si ha un rischio percentuale
superiore al 50% di sviluppare la malattia aterosclerotica. Nello studio si è valutata la pressione arteriosa
sistolica, il colesterolo (si valutano le LDL; ripassa il trasporto del colesterolo con VLDL, IDL, LDL, HDL),
le HDL-C (C perché sono legate all’apolipoproteina C), diabete, fumo di sigaretta, IVS/ECG (Ipertrofia
Ventricolare Sinistra valutata all’ElettroCardioGramma).

Questi sono fattori di rischio pesanti che alzano il rischio di sviluppare malattia aterosclerotica; essi poi si
aggiungono ai fattori di rischio non modificabili.
Ci sono anche fattori di rischio non convenzionali ossia fattori di rischio identificabili (precocemente) come
biomarcatori diagnostici di tendenza allo sviluppo della malattia aterosclerotica. Essi sono:
• Marcatori di infiammazione e di trombosi. Ad
esempio, la valutazione della concentrazione
plasmatica della proteina C reattiva (hs-PCR, hish
sensivity Protein C Reactivity). In figura si vede un
grafico relativo ad un famoso studio in cui è stato
valutato il rischio in un arco temporale di 10 anni in
funzione della concentrazione (mg/L) di proteina C
reattiva: si vede che il richio aumenta in funzione
della quantità di proteina C reattiva sierica.
• Troponina I. La troponina è sempre un segno
plasmatico/circolante di danno cardiaco. La troponina
cardiaca è anche un biomarcatore di ischemia miocardica e infarto del miocardio.
• Iperomocistinemia. L’aumento dell’omocisteina si associa ad un danno dell’endotelio e ad una
situazione protrombotica, e si associa anche all’aumento dell’ossidazione LDL (meccanismo iniziale
patogenetico di trigger della lesione che caratterizza l’aterosclerotica ossia la formazione della
placca).
• Adipochine. In particolare, l’aumento della leptina (coinvolta in obesità e diabete) e la risuzione
dell’adiponectina (riduzione); anche la resistina rientra tra queste.
• Infezione da alcuni microrganismi (es. Chlamydia pneumoniae, Helicobacter pylorii,
citomegalovirus). Si associano in particolare all’infarto del miocardio poiché l’aterosclerosi è la base
della cardiopatia ischemica.

L’aterosclerosi è un processo patologico progressivo: si ha sviluppo progressivo della lesione aterosclerotica


(placca aterosclerotica), che inizia in età giovanile come una lesione di I grado caratterizzata dall’accumulo
di cellule ricche di lipidi (foam cells); evolve (in età giovanile) in modo asintomatico in una “stria lipidica”
(fatty streak) ossia una lesione di tipo II; essa può evolvere in una lesione di grado III in cui si ha sempre il
fatty streak ma l’accumulo di grasso non è più limitato all’interno delle cellule ma coinvolge anche
l’ambiente extracellulare e si forma il cosiddetto “core lipidico” (lesione di grado IV). Quindi non ci
meraviglia che l’iperlipidemia e l’accumulo di lipidi (in particolare il colesterolo e gli esteri del colesterolo)
siano l’elemento portante della lesione aterosclerotica. Il passaggio dalle lesione di grado 4 a quelle di grado
5-6, prevede il passaggio da una lesione caratterizzata da solo core lipidico, ad una lesione più complessa,
una placca fibro-lipidica: si ha la comparsa di fibrosi. Questa fibrosi avvolge il core lipidico e qui
cominciano ad esserci le manifestazioni cliniche (non sempre) poiché si assoste ad una riduzione del calibro
del vaso quindi si hanno alterazioni circolatorie, che sono più evidenti se la placca si complica diventando
una placca complicata; a questo livello si ha a rottura ed emorragia della placca con trombosi e pertanto si
parla di aterotrombosi.

L’aterotrombosi è la fase in cui si hanno manifestazioni cliniche poiché con la crescita del core lipidico, se
sulla placca si instaura anche un trombo, si ha la complessa occlusione del vaso arterioso. L’evento chiave
dell’evoluzione della lesione aterosclerotica è, sia la formazione del tessuto fibroso che circonda la placca
che rende instabile la placca facendola rompere/frammentare e sulle rotture si forma il trombo che va ad
occludere il vaso prima parzialmente e poi completamente. Se il flusso ematico non è ripristinato
rapidamente (rapidamente o con angioplastica e immissione di stent) si ha necrosi su base ischemica ossia
infarto del tessuto a valle del vaso occluso.
Dunque, gli elementi centrali della lesione aterosclerotica ossia della placca aterosclerotica sono: una zona
centrale lipidica e la formazione di un cappuccio fibroso che circonda il core lipidico. Nel core lipidico
spesso si accumulano e precipitano sali di calcio, ecco perché spesso le placche calcificano.

Capiamo adesso qual è il meccanismo patogenetico. La placca si forma nella tonaca intima vasale e notiamo
che qui si trovano cellule muscolari lisce che di solito si trovano nella tonaca media. La placca quindi è una
nuova struttura con core centrale lipidico e necrotico (oltre i lipidi e i cristalli di colesterolo si trova anche
tessuto necrotico) circondato da un cappuccio fibroso in cui si ritrovano cellule muscolari lisce che di norma
troviamo nella tonaca media. Si ritrovano inoltre cellule con citoplasma colmo di gocce lipidiche che sono
macrofagi; quindi non ci meraviglia che nel meccanismo patogenetico entri come protagonista rilevante il
processo infiammatorio cronico. I processi fondamentali sono i tre seguenti:
- Proliferazione delle cellule muscolari lisce (SMC) nell’intima dei vasi insieme a macrofagi e linfociti T
- Formazione di matrice extracellulare (collageno, fibre elastiche e proteoglicani)
- Accumulo di lipidi, come esteri del colesterolo e colesterolo libero, all’interno delle cellule e della
matrice extracellulare.

Perché si forma questa struttura? Parlare di aterosclerosi come patologia infiammatoria significa pensare che
l’aterosclerosi sia una risposta ad un danno: la flogosi è un meccanismo di risposta quindi anche
l’aterosclerosi è una situazione patologica di risposta al danno. Il danno si estrinseca a livello delle cellule
endoteliali e i fattori che possono contribuire al danno endoteliale sono: l’aumento di pressione (shear stress),
il fumo (e i composti nel fumo che provocano danno ossidativo di proteine, strutture citoscheletriche), il
diabete (e l’iperglicemia, con formazione di AGE), le LDL. Le LDL fisiologicamente si ossidano ma se sono
tante o in particolari condizioni vanno incontro ad un’ossidazione aumentata, che determina nel circolo e nel
tessuto del vaso la presenza oxLDL (LDL di tipo ossidato), facilitate anche dal diabete (che in generale
facilita l’ossidazione delle proteine e dei lipidi).
Cosa succede quando l’endotelio si danneggia? Il danno all’endotelio determina l’aumento dell’espressione
delle molecole di adesione sulla
superficie cellulare (ICAM,
VCAM e tutte quelle che
mediano il processo di adesione
dei leucociti e in particolare dei
monociti). Si ha quindi il
richiamo e adesione di cellule
dell’infiammazione, con
produzione di fattori di crescita,
e la migrazione delle SMC dalla
media all’intima. Si ha
proliferazione delle SMC e
produzione di matrice
extracellulare.
Questi macrofagi diventano
cellule schiumose e fagocitano i residui lipidici.
Oltre ai monociti, aumentando la permeabilità delle cellule endoteliali, passano anche le lipoproteine che
possono essere ossidate già in circolo o ossidabili quando passano nell’intima vascolare, aiutate anche dal
macrofago (che facilita l’ossidazione delle lipoproteine LDL).
Quindi nel meccanismo di formazione della placca aterosclerotica si ha un danno (danno o disfunzione
dell’endotelio) che facilita la migrazione della tonaca intima delle cellule monocitarie e di LDL; il danno può
essere indotto da iperlipidemia, ipertensione (che causa continuo stress meccanico ed emodinamico
dell’endotelio), da fumo, da fenomeni microbiologici, de reazioni immunitarie e anche auto-immunitarie (es.
vasculiti da immunocomplessi). Nell’intima del vaso il macrofago si attiva e si innesca un fenomeno che è
tendenzialmente progressivo: il macrofago contribuisce alla genesi di oxLDL, il macrofago produce
citochine che continuano ad attivare l’endotelio, il macrofago richiama le cellule dell’immunità adattativa in
primis CD4+ polarizzati Th1, che producono citochine attivanti il macrofago ossia TNF-α (si sono trovarti
anche linfociti T con TCRγδ mentre solitamente sono TCRαβ quindi sono indice di disregolazione del
sistema immunitario). Il macrofago diventa poi cellula schiumosa, contribuendo all’accumulo di lipidi; il
macrofago inoltre produce fattori di crescita che richiamano le cellule muscolari lisce dalla media, le fa
migrare nell’intima e qui le fa proliferare moltissimo. Esse inoltre vanno incontro a transdifferenziazione e
producono matrice extracellulare ossia matrice collagenica: in questo caso la funzione del fibroblasto è
svolta dalla cellula muscolare liscia (solitamente cono i fibroblasti che quando risentono dell’effetto del
macrofago attivato iniziano la formazione del tessuto di granulazione).

In figura si nota anche un efflusso di colesterolo tramite HDL. Se normalmente ho un certo trasporto di
colesterolo al fegato attraverso le HDL, se il flusso è carente (es. diminuiscono le HDL) si accumula sempre
più colesterolo si accumula e ingrandisce il core lipidico della placca.

Piano piano i lipidi si accumulano, nel macrofago e nelle cellule muscolari lisce, si formano le foam cells che
non sono più solo macrofagi ma anche cellule muscolari lisce colme di lipidi. Quando le cellule muscolari
lisce depositano matrice collagenica si forma il vero e proprio ateroma fibro-lipidico. Questa è la vera lesione
aterosclerotica. Successivamente, sia per la crescita del core e della placca sia per il fenomeno infiammatorio
in atto, si ha la rottura della placca. La rottura della placca evoca un processo trombotico che è favorito anche
dal fatto che l’endotelio è già alterato/disfunzionale fin dall’inizio (es. alterazioni emodinamiche, condizioni
umorali che provocano vasocostrizione).
La storia naturale aterosclerotica e della cardiopatia ischemica è cambiata negli ultimi 25-30 anni con
l’utilizzo dell’angioplastica (schiaccia la placca). Un ulteriore evoluzione dell’angioplastica è l’introduzione
dello stent medicato (cilindretto con sostanze anti-mitotiche) che mantiene a lungo la placca schiacciata e
che, essendo medicato evita la proliferazione delle cellule endoteliali che altrimenti determinerebbero una
nuova formazione di trombo. Oltre a questo, si somministrano anche farmaci che determinano l’inibizione
dell’aggregazione piastrinica e quindi evitano la formazione di un altro trombo occlusivo.
DIABETE MELLITO
21/04/2020

Il diabete mellito è un esempio di malattia a patogenesi complessa.


Il termine diabete fu coniato da Areteo di Cappadocia (81 - 133 d.C.). In greco antico il verbo diabainein
significa "attraversare" (dia: attraverso; baino: vado) alludendo al fluire dell'acqua, come in un sifone, poiché
il sintomo (elemento clinico) più appariscente è l'eccessiva produzione di urina. Il suffisso mellito (dal latino
mel, ossia “miele”, “dolce”) è stato aggiunto dall'inglese Thomas Willis nel 1675 per il fatto che il sangue e
le urine dei pazienti diabetici avevano un sapore dolce, caratteristica peraltro conosciuta da lungo tempo
dagli Indiani, Greci, Cinesi ed Egiziani. Nel Medioevo in tutta Europa i medici facevano diagnosi di diabete
mellito assaggiando letteralmente le urine dei pazienti, questa pratica può essere ancora apprezzata in una
grande varietà di opere d'arte del periodo Gotico.
Mentre il primo accenno scritto su un qualcosa assimilabile al diabete lo si ritrova verso il 1500 a.C. su un
papiro egiziano di Ebers, fu invece Areteo di Cappadocia nel 100 d.C. circa a descrivere i particolari della
patologia. Galeno (129-200) la descriveva come una malattia che provocava danni ai reni.
La prima divisione per quanto riguarda i due tipi principali di diabete (il tipo 1 e il tipo 2) è stata eseguita da
Avicenna (980-1037) intorno all'anno 1000: si era già capito che non tutte le situazioni diabetiche erano
uguali, adesso infatti sappiamo che esistono diversi tipi.
Nel mellito (tipo 2) il sangue e le urine dei pazienti avevano sapore dolce mentre; nei pazienti con poliuria
ma senza che le urine avessero sapore dolciastro avevano diabete insipido (di tipo 1).
Nel 1774, grazie a Matthew Dobson (1732-1784) si scoprì che il sapore dolce delle urine era dovuto al
glucosio in esse contenuto.
La scoperta del ruolo del pancreas nel diabete mellito è da ascriversi a Joseph von Mering (1849-1908) e a
Oskar Minkowski (1858-1931), ricercatori tedeschi che nel 1889 osservarono che nel cane, a cui era stato
asportato sperimentalmente il pancreas prima della morte, insorgevano i segni e i sintomi del diabete mellito.
Nel 1910 Sir Edward Albert Sharpey-Schafer da Edimburgo (1850-1935) suggerì che le persone affette da
diabete mellito in realtà fossero carenti di una particolare sostanza prodotta dal pancreas: egli la battezzò
insulina poiché prodotta dalle isole (a quei tempi dette “insule”) di Langerhans localizzate appunto nel
pancreas.
L'insulina, grazie al lavoro dei ricercatori canadesi Frederick Grant Banting (1891-1941) e Charles Herbert
Best (1899-1978), venne isolata nel 1921, portando alla deduzione che il diabete era una malattia
endocrinologica dovuta alla deficienza di insulina. Banting e Best cambiarono la storia della medicina e
salvarono la vita a milioni di persone scoprendo che la condizione di diabete mellito nel cane
pancreatectomizzato poteva essere risolta somministrando insulina estratta dalle isole di Langerhans di un
cane sano. Nel 1921 il primo paziente fu trattato da loro e dal loro staff; nel 1923 Frederick Banting e John
Macleod ricevettero il Premio Nobel per la Medicina.

L’esistenza del diabete quindi è


nota da più tempo e si sa che è
riconducibile ad una deficienza
di insulina. Negli ultimi anni
però è emerso che la prevalenza
del diabete mellito sta
aumentando e si prevede che
nel 2025 la malattia diabetica,
in certe aree (soprattutto nel
mondo occidentale), aumenterà
molto.
L’OMS ha raccolto i dati
elencati qui a fianco sul diabete
mellito.
Le complicanze del diabete sono: macro- e micro-angiopatia, aterosclerosi, malattia coronarica, stroke,
neuropatia diabetica (amputazioni!), insufficienza renale, retinopatia (cecità!). La macroangiopatia diabetica
è riconducibile ad una situazione di aterosclerosi vascolare. La neuropatia è la sofferenza dei nervi periferici
che provoca, insieme all’ischemia (conseguente all’angiopatia), la perdita di tessuti e le amputazioni
“spontanea” a causa di necrosi (sono una delle complicanze che causano molta morbidità).
Tali complicanze esitano in un aumento della disabilità, riduzione della aspettativa di vita e un enorme
aumento della spesa sanitaria. Il diabete sarà (è) sicuramente il maggior problema sanitario nel XXI secolo.

Per Diabete Mellito (DM) si intende una sindrome caratterizzata da elevate concentrazioni di glucosio nel
sangue (iperglicemia) e da altre alterazioni metaboliche conseguenti ad un deficit assoluto (diabete tipo 1) o
relativo (diabete tipo 2, a causa di difetti nella secrezione e/o di resistenza periferica) di insulina, ormone che
rappresenta il principale regolatore del metabolismo del glucosio, consentendone l’ingresso nelle cellule per
fornire l’energia necessaria alla loro attività.
Il diabete mellito può essere classificato come segue:
• Diabete Mellito tipo 1: caratterizzato da carenza assoluta di insulina. Può essere riconducibile ad un
meccanismo immunologico (diabete di tipo 1 immunomediato) o ad una situazione non
immunomediata ma comunque caratterizzato da mancanza assoluta di insulina (diabete di tipo 1 non
immunomediato). Si ha anche il diabete di tipo 1 idiopatico.
Questo era detto diabete insulino-dipendente o IDDM (Insulin-Dependent Diabetes Mellitus), detto
anche diabete giovanile. Questo deve essere trattato subito con la somministrazione di insulina,
poiché altrimenti i pazienti non sopravvivono. Questa patoogia si manifesta principalmente nei
giovani e per questo era detto anche “diabete giovanile”.
• Diabete Mellito tipo 2: con prevalente resistenza all’insulina e/o con prevalente deficit di insulina.
Questo era detto anche Diabete non insulino-dipendente o NIDDM (Non Insulin-Dependent
Diabetes Mellitus). Questa forma si manifesta prevalentemente in età adulto-anziana e pertanto era
detto anche “diabete dell’adulto associato ad obesità”. Esso viene controllato con una dieta sana e un
mantenimento del peso corporeo.
• Altri tipi di Diabete o Diabete secondario: ad esempio situazioni come pancreatiti (patologie
infiammatorie acute del pancreas; nelle pancreatiti croniche si sente molto la carenza di produzione
endocrina del pancreas e quindi anche la carenza dell’insulina), malattie endocrine (es.
ipersecrezione di ormoni che antagonizzano l’insulina ossia gli ormoni contra-insulinici come
adrenalina, noradrenalina, cortisolo e ACTH, ormone della crescita e glucagone), chirurgia del
pancreas (già complessa poiché il pancreas sta vicino ai grandi vasi), etc...
Alcuni considerano anche il MODY (Maturity Onset Diabetes of Youth), ossia una forma che si
sviluppa in età giovanile che però ha le caratteristiche del diabete che si manifesta nell’adulto.
Adesso il MODY viene detto “diabete genetico” poiché sappiamo che questo è riconducibile ad
alcune e precise alterazioni genetiche.
• Diabete Gestazionale. Si manifesta in gravidanza e spesso scompare al momento del parto, anche se
a volte si mantiene o ricompare a distanza di anni.

L’insulina è prodotta dalle cellule β del


pancreas che fanno parte delle isole di
Langerhans. Essa è prodotta come pro-
insulina e viene immagazzinata in granuli;
viene secreta con un meccanismo di esocitosi
indotto dall’aumento di livelli ematici di
glucosio. La secrezione avviene in due fasi
temporali: una prima fase rapida (in pochi
minuti si ha il picco di secrezione), che è
seguita da una fase lenta in cui si raggiungono
alti livelli di insulina che perdurano nel tempo
per 120 minuti circa).
A livello delle cellule β del pancreas la
produzione di insulina avviene come segue.
Il principale induttore (secretagogo) è il
glucosio: esso arriva alle cellule β dove viene
internalizzato grazie ad un trasportatore
apposito. Si tratta di GLUT2, che è espresso
costitutivamente sulle cellule β ed è
internalizzato. Entrano poi in gioco alcuni
fattori importanti, il primo è la gluchinasi
(GK) che permette di metabolizzare il
glucosio per formare piruvato; il piruvato
entra nel ciclo di Krebs e si produce ATP. La
gluchinasi è un rate limiting step per il
metabolismo del glucosio.
Inoltre, l’aumento della concentrazione intracellulare di ATP e la conseguente alterazione del rapporto
ATP/ADP chiude i canali del potassio ATP-dipendenti presenti sella membrana plasmatica.

Il canale del potassio di queste cellule è formato da 4 subunità, ognuna formata da due domini
transmembrana; la sigla che
identifica la porzione
canale è Kir6.2 (K Ion
Rectifier). La struttura
Kir6.2 è circondata dal
complesso di 4 proteine
dette SUR1, che hanno 2
lunghe code
citoplasmatiche. Le code
citoplasmatiche contengono
domini NBD (Nucleotide
Binding Domain) che legano i nucleotidi, in particolare ADP o ATP.
Quando il rapporto ATP/ADP si sconvolge, aumentando ATP, le code di SUR1 sono tirate “da sotto”, e così
i SUR si avvicinano (si stringono intorno a Kir6.2) e chiudono il canale. Quindi si ha una depolarizzazione
fino a che non si arriva ad una soglia e si ha lo spike.

N.B.: Il valore -65 mV è il potenziale del potassio; tb sta per tiolbiutamide

Le cellule β del pancreas sono molto eccitabili e ogni spike corrisponde ad una depolarizzazione del
potenziale di membrana.
Quando si arriva ad un certo valore di depolarizzazione si aprono i canali voltaggio-dipendenti del calcio,
quindi aumenta la concentrazione di calcio libero vicino alla membrana; il calcio stimola l’esocitosi dei
granuli contenenti insulina che viene secreta all’esterno della cellula β.
Il nome SUR sta per Sulfonyl-Urea Receptor infatti i sulfonilurea sono farmaci anti-diabetici. Tra questi
farmaci, si ha anche la tiolbiutamide che va a regolare/migliorare la funzionalità del complesso tra SUR e
Kir6.2, rendendo più frequenti i potenziali di azione a livello dei recettori. La tiolbiutamide facilita quindi il
meccanismo di secrezione dell’insulina e quindi aiuterà il ristabilirsi di un’appropriata secrezione di insulina.

Anche gli acidi grassi stimolano la produzione di insulina con un meccanismo simile, sempre basato sul
canale K-ATP. Vedi figura.

Si ha anche un altro meccanismo che stimola la produzione di insulina ed è detto effetto incretinico ossia
Incretin (INtestin seCRETion of INsulin) effect: noi sappiamo che la secrezione di insulina è molto maggiore
dopo una somministrazione orale di glucosio che non dopo una somministrazione endovenosa. Infatti, il
glucosio somministrato per OS (Oral Somministration) stimola la produzione di due ormoni gastrointestinali
ossia GLP-1 e GIP, che potenziano la produzione di insulina stimolando una via segnalatoria diversa da
quella di K-ATP, mediata da cAMP. Con la formazione di cAMP, si attiva PKA che stimola ulteriormente la
secrezione di insulina.
Come decide la cellula β di secernere insulina? Tale cellula riceve i segnali riassunti nella figura seguente:

Tali segnali (secretagoghi) possono stimolare/inibire la secrezione di insulina. Che effetto ha poi l’insulina?
• Aumenta l’utilizzazione periferica del glucosio;
• Aumenta la sintesi del glicogeno (glicogenosintesi) nel fegato e nel muscolo;
• Aumenta la sintesi dei trigliceridi nel tessuto adiposo;
• Aumenta l’utilizzazione di aminoacidi da parte del muscolo e la sintesi proteica;
• Inibisce la glicogenolisi, la lipolisi e il catabolismo proteico;
• Inibisce la produzione epatica di glucosio (gluconeogenesi) e la chetogenesi.
In mancanza di insulina il glucosio rimane nel sangue e aumentano glicogenolisi, lipolisi, gluconeogenesi e
chetogenesi. Si liberano acidi grassi dall’adipe che sono trasportati al fegato e si ha β-ossidazione con
chetogenesi e si ha la possibilità di un accumulo di trigliceridi nel tessuto epatico, ecco perché nelle
condizioni di diabete e di sindrome metabolica si ha la steatosi del fegato (causata dall’accumulo di
trigliceridi).
Abbiamo detto che ciò che caratterizza il diabete è un aumento della concentrazione ematica di glucosio
(iperglicemia). Attualmente si hanno due tipi di criteri per diagnosticare il diabete; oltre a questi i sintomi
clinici sono: poliuria (urinare frequentemente), polidipsia (sete frequente), chetoacidosi (aumento dei
chetoacidi che sposta il pH sotto 7.4 N.B.: Il pH ematico è 7.4 ± 0.02); oltre a questi si aggiungono
complicanze legate a possibili altre patologie in corso.

IFG (Impair Fasting Glucose) = Intolleranza al glucosio/carboidrati o pre-diabete.


OGTT (Oral Glucose Tolerance Test) = Test orale di intolleranza al glucosio. Si somministrano 75g di
glucosio e si valuta dopo 2 ore. In teoria il metabolismo dopo120 minuti dovrebbe esaurirsi e la glicemia
dovrebbe tornare a livello basale.

Il livello normale di glucosio plasmatico è di 126 mg/dl.


Assieme alla misurazione della glicemia a digiuno (FPG) e all’OGTT (2-h PG) si associa un test diagnostico
detto HbA1C (emoglobina glicata). Secondo la percentuale di emoglobina glicata sul totale si può dire che
siamo in una situazione di diabete o pre-diabete. L’emoglobina glicata fa parte degli AGE, e la sua presenza
in circolo è una stima sia della concentrazione di glucosio nel sangue sia del tempo che il glucosio è rimasto
nel sangue e quindi di quanto tempo il glucosio ha avuto a disposizione per glicare le proteine plasmatiche
(danno post-traduzionale).

(22/04/2020)
Questo vale per tutti i tipi di diabete; mentre nel tipo 2 si può avere anche una freccia che torna indietro dal
pre-diabete mentre nel diabete di tipo 1 questo non è possibile.
Le due categorie a rischio che ci configurano una situazione di pre-diabete sono un’alterata glicemia a
digiuno (IFG) e l’intolleranza al glucosio (IGT).

DIABETE DI TIPO 1
Caratterizzato da iperglicemia e dall’assenza di insulina. Perché l’insulina manca? Perché si ha una
distruzione (non) immuno-mediata delle cellule β del pancreas, per più dell’80%; spesso questa è legata
all’autodistruzione quindi si ha una patogenesi auto-immunitaria nella maggior parte dei casi (infatti si parla
di diabete mellito immunomediato, la forma più comune).
Questa forma di diabete (IDDM) ha una certa predisposizione genetica (HLA DR3/DR4), anche se la vera
associazione genetica è più nel diabete mellito di tipo 2, qui è meno forte ed è confinata ad alcuni geni ossia
quelli che codificano le proteine del maggior complesso di istocompatibilità come le proteine HLA della
classe DR3/DR4 (con aplotipo DQ3/DQ8) che fanno parte del maggior complesso id istocompatibilità di tipo
2 (MHC II) che presentano l’antigene ai linfociti T CD4+. Questo i ci dice che il diabete è correlato ad un
fenomeno auto-immune in cui sicuramente viene coinvolto il meccanismo di presentazione dell’antigene.
Questo è importante per capire la patogenesi immunologica: sappiamo che si ha la distruzione delle cellule β,
sostenuta dai linfociti Tc (CD8+) ma sappiamo anche che contemporaneamente la presentazione
dell’antigene ai CD4+ è disregolata, come anche disregolata è la funzionalità dei linfociti B con la presenza
di auto-anticorpi contro antigeni peculiari delle cellule β: si ha la comparsa di anticorpi anti citoplasmatici
delle cellule insulari (ICA), anti insulina (IM), anti decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD64A), anti
tirosin fosfatasi (anti IA2). Quindi si ha un complesso di auto anticorpi che ci dice che si ha disregolazione
della risposta B-mediata.
Ho una situazione di alterata risposta dei Th2 che impatta sull’alterata risposta delle cellule B, che producono
auto anticorpi, e ha alterata risposta delle cellule CD8+ che distruggono le cellule pancreatiche. Queste sono
elementi che riconducono a un’ipotesi auto-immunitaria.
Ad avvalorare l’ipotesi di risposta auto-immune si ha anche il fatto che spesso il diabete ha un’associazione
con altre malattie autoimmuni (tiroiditi ed ipotiroidismo, celiachia, artrite reumatoide, vitiligo, etc…) e
inoltre nella storia naturale di un malato di diabete si ha un “immunologic trigger” ossia un evento spesso
infezione virale, febbre che, a distanza di tempo, comporta il diabete con esordio improvviso con poliuria,
polidipsia, calo di peso, disidratazione e talvolta coma chetoacidosico (dovuto a forte chetoacidosi). Quindi
l’altro elemento eh sostiene l’ipotesi di una patogenesi auto immunitaria è la storia naturale di questi giovani
(questo diabete è pediatrico o del giovane, sotto 30-35 anni) poiché nella storia naturale si hanno
patologie/infezioni/stress (es. di stress: nascita, pubertà – stress ormonale, metabolico) ossia eventi scatenanti
che spesso sono concomitanti. Questa situazione anticipa loop sviluppo del diabete e le manifestazioni
cliniche del diabete.

Quindi nella patogenesi (presunta) del diabete mellito di tipo 1 si ha una predisposizione genetica che
comporta una peculiare presentazione dell’antigene su MHC II. Un evento scatenane (immunologic trigger)
porta all’alterazione del tessuto pancreatico e delle proteine presenti nel tessuto pancreatico, un alterazione
della processazione post-traduzionale delle proteine e tutto ciò provoca, in un soggetto predisposto, la
presentazione di antigeni modificati. Tali auto antigeni sono presentati alle cellule T e si ha la presentazione
o di un antigene modificato o di un antigene self che solitamente non era presentato (verso il quale si aveva
una tolleranza periferica ossia un’anergia della risposta immunologica).
Verso i nostri antigeni self noi abbiamo una tolleranza che si instaura durante la maturazione dei linfociti T
nel timo (detta tolleranza centrale). Nel timo, i linfociti T che subiscono una forte stimolazione da parte delle
cellule nutrici (cellule epiteliali chimiche che fungono da APC per antigeni self) e che casualmente hanno
sviluppato (ricombinazione VDJ) un TCR in grado di riconoscere l’antigene self, se effettuano il
riconoscimento con la cellula nutrice sono stimolati in modo fortissimo, tanto forte che muoiono (apoptosi).
Si ha una selezione negativa a da over-stimolazione. Nel timo quindi vengono salvati tutti i linfociti T che
hanno la capacità di riconoscere MHC self e quindi i peptidi antigenici in modo moderato (intermedio) che
induce la sopravvivenza; questa è detta selezione positiva. La tolleranza centrale quindi è la capacità del
timo di distruggere i linfociti che riconosco antigeni self.
I linfociti T selezionati positivamente entrano in circolo; tra questi ci saranno TCR in grado di riconoscere
antigeni self, allora per evitare una reazione auto-immunitaria ci sono meccanismi di tolleranza periferica.
Questi meccanismi comportano un’anergia del linfociti T ossia stanchezza, che evita l’attivazione di tale
linfocito. Uno di questi meccanismi è la mancanza di co-stimolazione. Ad esempio, CD4+ deve essere
stimolato per legare l’antigene, ma deve ricevere anche segnali co-stimolatori, i migliori di questi arrivano
attraverso recettori presenti sulle APC (B7.1 B7.2) che legano il linfocito. Se non ho B7, CD28 non si lega e
quindi il linfocito T, anche se il TCR aveva riconosciuto l’antigene, non si attiva (anergia).
Tutte le volte che si ha una situazione infiammatoria i macrofagi sono attivati e un-regolano MHC II e le
molecole co-stimolatorie. Quindi quello che sembra succedere nelle patogenesi di molte malattie auto
immuni (tra cui il diabete mellito) è che i virus, gli accenti tossici, gli stimoli immunitari, lo stress, causano
flogosi. Questa situazione infiammatoria fa sì che si abbia un’attivazione del linfocito T sulle cellule
pancreatiche; inoltre le stesse cellule pancreatiche diventano APC poiché presentano sul proprio MHC neo-
antigeni (modificati o auto-antigeni es. insulina) in condizioni di forte co-stimolazione e allora si monta una
risposta auto-immunitaria CD4-mediata che stimola i linfociti B a produrre anticorpi e stimola i CD8+ a
potenziare le attività citotossiche e distruggere le cellule β. Mentre il linfocito Tc è patologico poiché
determina il danno (distrugge le cellule), gli auto anticorpi secreti dalle cellule T stimolati da CD4 stimolate
da MHC, tali anticorpi non sembrano avere attività pati genetica (non distruggono le cellule). Comunque,
gli autoanticorpi fanno un danno poiché mantengono l’attivazione del sistema immunitario in direzione
autoimmune. Gli anticorpi ci servono anche per scopi diagnostici poiché si ha la presenza di questi anticorpi
prima dello sviluppo dell’intolleranza al glucosio, della mancanza di insulina, ossia prima dello sviluppo del
diabete conclamato (anche prima dei segni diagnostici tipici del diabete conclamato).

Il paziente con questo tipo di diabete deve essere trattato con insulina per la sopravvivenza, non per la cura
del diabete! L’insulina inoltre, contribuisce anche al rallentamento del passaggio dal pre-diabete al diabete;
l’insulina richiesta per il “survival” ma anche per controllare lo sviluppo della malattia diabetica.
Quindi il danno cellulare a livello del pancreas viene effettuato dalle cellule CD8+ anche se il difetto
immunologico avviene a livello delle CD4+. Questo associato a “pabulum infiammatorio” pancreatico che
stimola la presentazione delle APC al CD4+ che produce auto anticorpi che spesso precedono lo sviluppo del
franco diabete e che spesso si hanno mentre la massa di cellule β diminuisce. Il diabete poi si manifesta
quando la quantità di β cellule e quindi la quantità di insulina secreta raggiunge un livello minimo dopo il
quale non ho più il controllo della glicemia e l’aumento di glucosio nel sangue comincia a fare danni legati
alla glicazione delle proteine (emoglobina glicata) e danni legati al disturbo dismetabolico (il glucosio non è
usato a livello periferico). Queste alterazioni a livello del metabolismo glucidico si associano anche ad
alterazioni del metabolismo lipidico (chetogenesi) e quindi si ha la stimolazione della lipolisi a livello del
tessuto adiposo e la generazione di molti acidi grassi liberi in circolo i quali, oltre ad accumularsi nel fegato,
provocheranno un danno aggravando la situazione epatica e stimolando la chetogenesi ossa la β-ossidazione
degli acidi grassi ma senza ciclo di Krebs quindi si hanno i corpi chetonici. Gli acidi grassi in parte sono
accumulati (steatosi epatica) mentre alcuni sono rimontati a livello del fegato per formare VLDL, LDL, IDL,
con aumento di lipoproteine (LDL) che si ossidano o si glicano le apolipoproteine, si provoca un danno
endoteliale (da LDL ossidate) e si genera così una situazione precoce di malattia aterosclerotica.

Il tempo tra l’evento (supposto) scatenante, la presenza id auto anticorpi e il progressivo aumento della
glicemia (progressiva perdita del controllo glicemico) può essere lungo da settimane ad anni.

EPIDEMIOLOGIA
Il diabete mellito di tipo 1 rappresenta solo il 5-7% di tutte le forme di diabete mellito.
• Prevalenza: 0,03 - 0,05% (cioè 30-50 su 100.000 giovani di età < 20 anni)
• Incidenza: 12-18/anno su 100.000 giovani di età < 20 anni)
Il diabete mellito di tipo 2:
• Prevalenza: 3-5% in Italia (15% oltre 65 anni)
0.1-0.3% in Africa
0.2-1.2% in Cina
35% Indiani Pima e Nauru
• Incidenza: 3-5 casi/anno/1000 pers. tra 40-60 anni
Il diabete mellito di tipo 2 quindi è un’altra malattia, anche dal punto di vista clinico.

DIABETE MELLITO DI TIPO 2


L’esordio è lento, spesso asintomatico, e la diagnosi spesso viene fatta per un esame di routine (glicemia a
digiuno) dopo i 40 anni. Ciò che deve far “insospettire” è: sovrappeso o obesità franca (nell’80% dei casi),
vita sedentaria, ipertensione arteriosa, dislipidemia (trigliceridi elevati, colesterolo HDL diminuito). La triade
composta da aumento di grasso viscerale (aumento del girovita) ossia obesità, ipertensione arteriosa e
dislipidemia configura la sindrome metabolica.
Oltre a questo, anche l’anamnesi familiare positiva per diabete mellito è un forte indizio poiché nel diabete
mellito di tipo 2 si ha una forte componente genetica. Allo stesso modo, devono essere tenute sotto controllo
le donne che hanno avuto una Pregressa diagnosi di diabete gestazionale o un parto macrosomico (peso del
bimbo > 4000 g).
Spesso il diabete mellito di tipo 2 è preceduto da pre-diabete ossia intolleranza ai CHO o IFG. Spesso si ha
una condizione di pre-diabete asintomatica diagnosticabile con analisi apposite (glicemia a digiuno, OGTT,
2h, emoglobina glicata).
In questo tipo di diabete si può anche “tornare indietro” nello sviluppo della patologia.

La patogenesi è totalmente diversa rispetto a quella del diabete di tipo 1. Anche qui si ha la concomitanza di
fattori genetici (molto gravi ma per lo più sconosciuti es. geni per la secrezione dell’insulina o per GLUT4 o
per i recettori dell’insulina) e fattori acquisiti (obesità, sedentarietà, etc…) che concorrono a instaurare
insulinoresistenza, per cui il soggetto non sente più l’effetto dell’insulina.
In figura si vede cosa succede nello sviluppo di diabete mellito di tipo 2. Si ha un soggetto A che
progressivamente sviluppa resistenza all’insulina e pertanto aumenta la secrezione della stessa, tuttavia
l’insulina non ha alcun effetto a causa della resistenza. Si può quindi sviluppare un’intolleranza al glucosio
(situazione C) che se persiste determina lo sviluppo di diabete mellito di tipo 2 (situazione D).

Nelle fasi iniziali del diabete mellito di tipo 2, il soggetto mantiene un’alta concentrazione di insulina. Nelle
fasi tardive invece il pancreas si esaurisce poiché negli anni il pancreas ha prodotto tanta insulina durando
fatica; quindi nella fase tardiva anche il soggetto affetto da diabete mellito di tipo 2 necessita di insulina
(poiché il pancreas non riesce più a produrla). Dunque, in una prima fase si può controbattere
l’insulinoresistenza con dieta e controllo del peso corporeo; nella seconda fase invece si combatte
farmacologicamente la resistenza all’insulina (es. farmaci modulatori della secrezione dell’insulina come gli
anti diabetici orali come solfoniluree o altri che migliorano la secrezione dell’insulina e la rendono adeguata
alle condizioni di resistenza e/o bypassano la resistenza); nelle fasi tardive il soggetto deve essere controllato
con l’insulina.
23/04/2020
La storia naturale del diabete di tipo 2 è caratterizzata da un esordio lento.
Si ha una fase eu-glicemica con glicemia normale o near-normal (deve insospettire l’obesità).
Successivamente si ha una fase di
intolleranza al glucosio che prosegue
negli anni fino a diventare una
condizione di iperglicemia
incontrollata (a digiuno e post-
prandiale).
In figura ci sono i due meccanismi
patogenetici fondamentali del diabete
di tipo 2, che però variano nel tempo:
l’insulinoresistenza che si stabilisce
abbastanza precocemente e che si
mantiene nel tempo; la diminuzione
della secrezione di insulina.

SINDROMI DIABETICHE TIPO 2-SIMILI MONOGENICHE (geneticamente determinate). Forme di


diabete genetico, che si manifestano nel bambino ma che hanno
le caratteristiche del tipo 2 (alterazione della secrezione
dell’insulina). Il MODY (Maturity Onset Diabetes of Youth) è
un gruppo di disordini eterogeneo dovuto a mutazioni
monogeniche (di singoli geni) che si stabiliscono in eterozigosi.
Esso ha manifestazione clinica molto precoce, nel bambino,
nell’adolescenza; è autosomico dominante e vede come difetto
primario il meccanismo di secrezione dell’insulina. I geni
identificati finora son quelli mostrati in figura; tra essi ricordiamo
la gluchinasi, enzima che consente di trasferire il fosfato al
glucosio per iniziare il metabolismo del glucosio. Gli altri geni
sono fondamentalmente fattori di trascrizione per il gene dell’insulina.
La cura di queste forme non è facile da gestire, un possibile sviluppo sarebbe una terapia genica.

In alcune situazioni, correlabili a situazioni in monozigosi di geni che sono MODY-related ossia fanno parte
dei geni MODY oppure codificano proteine correlate al meccanismo di secrezione dell’insulina. Se alcune
mutazioni avvengono in monozigosi si ha il diabete neonatale persistente (PND); tra i geni mutati si ha
KCNJ11 codifica per la subunità canale del canale ATP-dipendente espresso sulle cellule β pancreatiche,
ossia Kir6.2, e si ha anche ABCC8 che codifica una delle subunità di SUR1. In una situazione di diabete
persistente, l’insulina non è secreta quindi il canale KCNJ11 non si chiude al momento del segnale del
glucosio e pertanto la membrana non si depolarizza, non si aprono i canali del calcio e non si ha l’esocitosi
del calcio.

Nel 2015 è uscito un lavoro in cui uno studioso fece tutti gli -omics possibili (genoma, trascrittoma,
metabolomica, proteina, auto antibodoma) nelle cellule bianche del sangue periferico (linfociti e monociti).
Lo ha seguito per circa 400 giorni durante il quale ha anche misurato altri parametri medici classici
(complete medical exams) e ha tenuto conto della propria storia naturale (aveva avito infezione da Rotavirus
e infezione da virus respiratorio sinciziale). Tra i geni alterati in questo soggetto, rilevati dalla genomica,
sono emersi diversi varianti di geni potenzialmente associati alla malattia diabetica e tra tutti c’era la variante
del gene KGNJ11, che codifica ilKir6.2 del canale K-ATP. Aveva anche alcune alterazioni nel signaling
dell’insulina. Inoltre, i livelli di glucosio e i livelli di emoglobina glicata dopo l’infezione da virus
respiratorio sinciziale egli sviluppò iperglicemia che mantiene a lungo e difatti sviluppa diabete di tipo 2.
Quindi lo studio di varianti genetiche si geni che codificano canali ionici fu rilevante poiché tale soggetto
effettivamente ha sviluppato diabete di tipo 2.
Non solo grazie a questo lavoro, si sono trovati sempre più geni associati ad alterazioni della produzione
dell’insulina, geni associati ai canali ionici. Non solo KCNJ11 e ABCC8 ma anche altri come KCNJ15,
CACNA1E (proteina CaV2.3), KCNQ1 (proteina Kv7.1).

CANALOPATIE. Sono un gruppo di patologie associate ad alterazioni dei canali ionici. Possono essere
alterazioni dovute a mutazioni che cadono su geni che codificano canali ionici, alterazioni dei meccanismi
che controllano la regolazione genica dei geni dei canali ionici, alterazioni dei meccanismi di regolazione dei
canali ionici, oppure possono essere dovute alla presenza di autoanticorpi.
La prima patologia su base genetica associata ad un’alterazione dei geni e dei meccanismi di trasporto della
proteina di membrana, ossia la prima canalopatia scoperta, è stata la fibrosi cistica. Nella fibrosi cistica si
hanno alterazioni del gene della proteina è la Cftr. Si tratta di una patologia genetica estremamente rilevante,
che altera il trasporto di cloro, acqua e sodio (o emostasi cronica) nell’epitelio bronchiale dove causa la
maggior parte die danni (o comunque gli eventi patologici iniziali).
Anche le epilessie sono canalopatie, molte sono mutazioni dei canali del sodio.
Molte canalopatie sono aritmie cardiache con sindrome del lungo QT (si allunga l’intervallo tra l’onda Q e la
T); tra queste si ha la sindrome di Brugada, che porta a fibrillazione ventricolare. Anche nelle altre si ha
fibrillazione ventricolare preceduta da torsione di punta.
Secondo lo stato di apertura del canale (sempre chiuso o sempre aperto) si possono avete condizioni che
colpiscono le β cellule e alterano la secrezione di insulina determinando diabete o predisposizione allo
sviluppo del diabete o sindromi iperinsulinemiche che causano gradi ipoglicemie.

INSULINORESISTENZA. La funzione principale dell’insulina è quella di stimolare la fase sintetica del


metabolismo, promuovendo l’assunzione di glucosio e di amminoacidi da parte delle cellule di numerosi
tessuti periferici (soprattutto a livello muscolare) e stimolando la sintesi di glicogeno, degli acidi grassi (e dei
trigliceridi) e delle proteine. La capacità dell’insulina di stimolare l’utilizzazione (soprattutto a livello
muscolare) del glucosio risulta di fondamentale importanza nel determinare l’omeostasi del metabolismo
glucidico. Le condizioni in cui questa capacità è patologicamente ridotta, tra le quali spicca il diabete mellito,
sono globalmente definite come insulino-resistenti e l’insulino-resistenza del metabolismo glucidico ha un
enorme impatto socio-sanitario essendo alla base del diabete di tipo 2, la cui incidenza sta assumendo
proporzioni epidemiche nel mondo occidentale e nei paesi in via di sviluppo.
I processi cellulari regolati dall’insulina dipendono dal legame dell’ormone con i suoi recettori presenti sulle
membrane cellulari degli organi bersaglio (fegato, cellule muscolari e tessuto adiposo).
Il numero di recettori di superficie può diminuire o per diminuita sintesi o per aumentata demolizione, o
ancora per internalizzazione. Questa possibilità di variazione del numero dei recettori di membrana con i
quali interagisce l’insulina, costituisce il fattore di controllo più importante della sensibilità delle cellule
all’insulina. L’insulino-resistenza è infatti spesso determina tra da una eliminazione del numero di recettori
di membrana. Anche uno stato di iperinsulinemia può indurre una riduzione del numero di recettori di
membrana senza tuttavia alterare il numero totale dei recettori cellulari (quando manca insulina nella cellula
si aumenta la sua produzione a livello del pancreas, arrivando in iperinsulinemia, tuttavia l’iperinsulinemia
determina la riduzione del numero di recettori di membrana). Si tratta del fenomeno della downregolation.
Questo meccanismo quindi può instaurare
insulina-resistenza ossia una condizione
nella quale una determinata quantità di
insulina evoca una risposta biologica
anormale. Possiamo avere diversi
meccanismi che instaurano l’insulina-
resistenza, riassunti in tabella.
Quindi si ha insulina resistenza anche nel
diabete mellito di tipo 1 quando si
trovano gli anticorpi anti-insulina. Ecco
perché è spesso difficile la gestione dei
pazienti.
Il meccanismo dell’insulino-resistenza è una riduzione della capacità dell’organismo di eliminare un carico
di glucosio dal circolo in risposta all’azione esercitata dall’insulina. L’insulina, stimolando il trasporto di
glucosio dal sangue ai tessuti, come il muscolo scheletrico, regola la concentrazione di glucosio nel sangue.
L’insulina, un ormone chiave nella regolazione del metabolismo, stimola energicamente il trasporto di
glucosio dal sangue ai tessuti, come il muscolo scheletrico, che esprimono il GLUT4, il trasportatore del
glucosio regolato dall’ormone. A causa della elevata reattività del muscolo scheletrico all’insulina e la
grande massa complessiva muscolare, la maggior parte del glucosio che viene eliminato dal sangue in
risposta all’insulina negli esseri umani è immagazzinato come glicogeno nel muscolo scheletrico. Quando il
trasporto di glucosio stimolato dall’insulina nel muscolo scheletrico diminuisce, come avviene nelle persone
con diabete, il risultato è l’incapacità di mantenere la glicemia entro valori normali. Così, il muscolo
scheletrico gioca un ruolo primario nel mantenimento di normali concentrazioni di glucosio nel sangue, tanto
che si parla di insulina-resistenza muscolo-scheletrica.
Come abbiamo già visto il ruolo dell’insulina è quello di favorire la contrazione di glucosio a livello del
fegato, dove GLUT2 è presente in modo costitutivo. A livello del muscolo scheletrico e del tessuto adiposo il
meccanismo è diverso poiché il legame dell’insulina attiva una segnalazione intracellulare che esita
nell’esocitosi del trasportatore GLUT4 che poi agisce da trasportatore i glucosio.

Il meccanismo di segnalazione dell’insulina vede la fosforilazione in tirosina di alcune molecole (IRS1) e


quindi la fosforilazione della PDK-1 che attiva PKB che porta alla fosforilazione (inibitoria) della GSK3 che
normalmente inibisce la glicogenosintasi, quindi il glucosio che entra verrà immagazzinato come glicogeno.

Oltre a questo, si ha anche l’attivazione di altre vie, come si vede in figura seguente. Si ha l’inibizione della
via di mTORC, l’attivazione della CREB e della
via ERK; la via ERK ha il compito di attivare la
sopravvivenza e la crescita cellulare. Questo
complesso meccanismo di segnalazione
dell’insulina ha portato anche a molti studi
correlati con l’oncologia. I recettori
insulinoresistenza-simili sono overespressi nei
tumori e impattano la via di segnalazione ERK.
Inoltre, sembra che un’alterazione di queste vie
possa essere coinvolta anche nel meccanismo di
insulina-resistenza: quando ho insulina-resistenza
posso avere uno sbilanciamento di queste vie
Coin la prevalenza della via della MAPK che
porta ad una proliferazione delle cellule muscolari
lisce che si trovano nella media dei vasi arteriosi
e che, se proliferano e migrano nell’intima
determinano il meccanismo di genesi della placca
aterosclerotica. L’altra associazione allo
sbilanciamento di queste vie è che si ha uno sbilanciamento tra endotelina e NO endoteliale: No era un
potreste vasodilatatore mentre l’è dote Lina è più un vasocostrittore. Nelle alterazioni di questo sistema si
spiegano alcune caratteristiche come la predisposizione alla formazione della placca aterosclerotica e una
prole disposizione ad un alterato controllo del tono vascolare che può portare ad alterazioni dell’endotelio e
quindi può portate a situazione pro-trombotica.

Quindi tutti questi meccanismi descritti come meccanismi separati sono in realtà connessi tra loro:

L’azione lesiva dello stress ossidativo è implicata nel meccanismo di insulina-resistenza e nel meccanismo di
danno dell’iperglicemia (che si estrinseca nell’endotelio). Inoltre, quando gli acidi grassi si accumulano ne
legato determinando steatosi epatica (steatosi non-alcolica) quindi si ha anche la correlazione ta steatosi e
insulina-resistenza. Quindi l’insulina-resistenza, il diabete di tipo 2 e la sindrome metabolica spompo una
delle situazioni in cui più frequentemente si origina una steatosi di tipo non-alcolico che può anche regredire
(adeguati trattamenti farmacologici, dieta, allenamento) ma se qui si instaura una flogosi (steatoepatite)
allora evolve in una epatite cronica che può evolvere in una cirrosi epatica.

L’insulina-resistenza nelle cellule dei muscoli scheletrici è associata ad aumento degli acidi grassi liberi
(aumento della lipolisi) circolanti, con un conseguente aumento dell’uptake lipidico.
Diversi studi hanno dimostrato l’associazione tra obesità., diabete, livelli di acidi grassi liberi circolanti,
ceramidi e trigliceridi intramuscolari: sembra che ci sia un’alterazione o degli acidi grassi liberi circolanti o
di alcuni metaboliti che alterano negativamente il signaling dell’insulina. Quindi si ricade nel meccanismo
dell’insulino-resistenza ossia un’alterazione della via di segnalazione innescata dal legame tra l’insulina e il
proprio recettore.

Nell’interazione tra metabolismo lipidico e insulina-


resistenza entra in gioco anche l’alterazione dell’equilibrio
ossidativo degli acidi grassi. Quindi mentre nel muscolo
sano i lipidi vengono assorbiti e vengono ossidati, nel
muscolo insulina-resistenza aumentano gli acidi grassi e
alcuni intermedi diminuendo invece l’ossidazione e quindi
lo smaltimento degli acidi grassi.
In tutto ciò è fondamentale il ruolo dell’esercizio fisico,
che contiene l’insulina-resistenza e mantiene
un’appropriata insulina-sensitività del muscolo scheletrico.

In figura si vede come nel soggetto allenato (trained) si ha


un aumento della sensibilità all’insulina, specialmente se
paragonato al soggetto obeso o al soggetto affetto da
diabete di tipo 2. Si ha un’associazione tra obesità e
insulina-resistenza, che può essere sovvertita con
l’esercizio fisico che fa perdere peso e migliora anche la
sensibilità all’insulina.
Nella figura seguente si nota come il tessuto adiposo è centrale per lo sviluppo di profonde alterazioni
metaboliche (meccanismo dismetabolico), tra cui l’insulina-resistenza a livello del muscolo scheletrico.
Consideriamo una situazione di obesità: si ha aumento del tessuto adiposo e quindi aumenta il rilascio di
acidi grassi liberi che nel fegato determina un aumento del metabolismo e della produzione di VLDL;
l’aumento di VLDL provoca un’aumento della produzione di LDL con conseguente riduzione della
concentrazione di HDL.
L’aumento di acidi grassi
liberi riduce anche la
sensibilità all’insulina nel
muscolo scheletrico e quindi
diminuisce l’uptake del
glucosio; ciò determina
aumentata glicemia che induce
l’aumento di secrezione di
insulina da parte del pancreas.
L’iperinsulinemia può, essa
stessa, tramite la stimolazione
del controllo
nervoso/simpatico e l’aumento
del riassorbimento del sodio,
contribuire all’aumento della
pressione arteriosa
(ipertensione).
In figura si ha anche un altro “protagonista”: il tessuto adiposo è metabolicamente molto attivo e risente della
condizione di insulina-resistenza, di iperinsulinemia e ciò crea un pabulum infiammatorio per cui lo stesso
tessuto adiposo può produrre citochine infiammatorie e i monociti. Quindi si ha una flogosi, indotta dal
tessuto adiposo (oltre che dal microambiente) con produzione di IL-6 e TNFalfa che da una parte aumentano
l’insulina resistenza e dall’altra aumentano la funzionalità epatica per cui il fegato aumenta la produzione di
glucosio e LDL, determinando un circolo vizioso. Questa è una possibile ipotesi patogenetica della relazione
tra obesità e insulino-resistenza.
La correlazione tra insulino-resistenza e obesità configura la sindrome metabolica, ossia una situazione
clinica che predispone fortemente allo sviluppo del diabete mellito di tipo 2, anche se è una patologia
complessa già di suo. Essa è caratterizzata da: aumento della circonferenza del girovita (obesità centrale)
associata ad aumento dei livelli di trigliceridi circolanti (ipertrigliceridemia con aumento degli acidi grassi
liberi circolanti), diminuzione del colesterolo HDL (aumento delle LDL e diminuzione del reverse
cholesterol transport), aumento della pressione arteriosa (ipertensione), situazione di dismetabolismo
glicidico (che può essere rappresentato da aumento del glucosio a digiuno o da un’intolleranza ai
carboidrati).
Nella patogenesi della sindrome metabolica si ritrovano tutti gli elementi discussi: insulino-resistenza,
metabolismo dei lipidi, trasporto del colesterolo, triggering della placca aterosclerotica, flogosi del tessuto
adiposo (flogosi sistemica pro-flogistica), alterazione della funzionalità del fegato (causata dalla flogosi) con
aumento del glucosio, delle LDL, della produzione di fattori delle coagulazione e di fibrinogeno che quindi
instaurano uno stato pro-trombotica.

La patogenesi del diabete mellito di tipo 2, del meccanismo da insulino-resistenza e della sintesi metabolica
mettono insieme molti concetti di base della patologia.
26/04/2020
SHOCK

Lo shock è una sindrome clinica, che si instaura tutte le volte che abbiamo una perfusione tissutale
inadeguata. Ciò che caratterizza lo shock è un equilibrio tra la cessione di ossigeno/nutrienti da parte del
sangue e le richieste tissutali di ossigeno e di substrati; questo porta ad una profonda disfunzione a livello
cellulare. Dato che l’inadeguato apporto di ossigeno e substrati induce un danno tissutale, e il danno poi
provoca la produzione e il rilascio di DAMPs e di mediatori dell’infiammazione, si ha un’ulteriore
compromissione della perfusione tissutale e cellulare poiché si altera il microcircolo.
Il bilanciamento tra perfusione e richieste tissutali, causando un danno a livello cellulare, provochi un
ulteriore aggravamento della perfusione (poiché aggrava il microcircolo), porta ai “circoli viziosi” dello
shock. Questi circoli viziosi alla fine portano ad un danno multiorgano, detto MOF (multiple organ failure),
che è la causa della morte del paziente con shock – se ovviamente non si interviene in modo adeguato.
Lo shock dunque è una sindrome clinica caratterizzata da una compromissione del circolo che esita in
un’alterazione dell’utilizzazione periferica dell’ossigeno. Si tratta di una condizione piuttosto comune in
terapia intensiva e circa 1/3 dei pazienti in terapia intensiva vanno incontro allo shock.

La diagnosi si fa basandoci su segni clinici, emodinamici e chimici che sono riassumibili in 3 componenti:
• Il calo della pressione arteriosa sistemica (ipotensione); si deve stare attenti poiché pazienti che
soffrono di ipertensione cronica possono “mascherare” questo calo pressorio. Si osserva una
pressione inferiore a 70 mmHg associata ad una tachicardia.
• Segni della ipoperfusione tissutale si osservano: a livello della cute, che è fredda e viscida con
vasocostrizione e cianosi, a livello renale con decremento della diuresi (> 0.5 ml per peso corporeo
per ora) e a livello neurologico.
• L’iperlattacidemia: i livelli sierici di lattato normali sono circa 1 mmol/L mentre in situazioni acute
di shock il lattato aumento oltre 1.5 mmol/L e questo causa l’acidosi metabolica che si accompagna
alle situazioni di shock. L’acidosi è una situazione in cui il pH ematico (7.4 ± 0.02) tende
all’acidemia, anche se non arriva ad essere acidemico (es. 7.2); quando invece il pH ematico tende
ad avere valore più alcalino ossia tende all’alcalinia si parla di alcalosi (in questa dizione rientrano
tutti i meccanismi che si instaurano che fanno virare il pH verso l’alcalinia). Dunque, si tratta di un
segno chimico poiché il lattato ematico è una spia del calo di ossigeno nei tessuto ossia di ipossia
cellulare; in queste condizioni il metabolismo da ossidativo diventa glicolitico e si ha maggiore
produzione di acido lattico.
NB. Anche alcuni tipi di tumori producono lattato anche in presenza di ossigeno. Tuttavia, non è il
malato neoplastico che per la sua patologia va incontro ad acidosi metabolica, questa si ha nello
shock, nel come chetoacidosico del paziente con diabete di tipo 1 e nel paziente con paziente con
diabete scompensato (diabete di tipo 1 o di tipo 2 nella fase tardiva).

Si parla di shock batterico in una situazione di shock in cui si sovrammette un’infezione batterica o in caso di
una grave infezione batterica che è essa stessa la prima causa di shock.

La sintomatologia dello shock dipende in larga misura dagli organi e dai sistemi coinvolti (quindi non è
possibile usare dei criteri standard per fare diagnosi ma è necessario analizzare tutte le variabili prese dal
paziente e anche molto velocemente):
➢ Sistema nervoso centrale: confusione mentale, coma
➢ Cuore: tachicardia, pallore, debolezza, ipotensione
➢ Polmoni: dispnea, ipossiemia
➢ Rene: insufficienza renale acuta (oligouria-anuria)
➢ Apparato gastrointestinale: ileo, gastrite erosiva, pancreatite, colecistite litiasica, emorragie,
sofferenza epatica, alterazioni della coagulazione
➢ Sangue: trombocitopenia, CID (coagulazione intravascolare disseminata), anemia emolitica
microangiopatica
➢ Sistema immunitario: alterazione della funzione dei leucociti, febbre-brividi (shock settico)
➢ Metabolismo: iperglicemia, ipertrigliceridemia, ipoglicemia (fase avanzata), acidosi metabolica,
ipotermia

L’elemento che accomuna tutti i tipi di shock è l’alterazione della gittata cardiaca (equazione della gittata
cardiaca: CO = SV * HR con CO, gittata cardiaca – SV, gittata sistolica – HR, frequenza cardiaca) e una
situazione di ipovolemia (diminuzione della pressione).
La resistenza vascolare è un concetto altrettanto importante e dipende da vari fattori fisici: è inversamente
proporzionale al raggio del vaso, direttamente proporzionale alla lunghezza del vaso ed alla viscosità del
sangue. Per comprendere il concetto di resistenza è necessario sapere il concetto di flusso.
La resistenza dipende anche da fattori umorali mediati dai fattori vasodilatatori ossia eicosanoidi, istamina, le
citochine infiammatorie (IL-1, TNF-α) e NO, e dai fattori vasocostrittori ossia eicosanoidi, derivati dal
sistema renina/angiotensina, endotelina, noradrenalina.

I principiali meccanismi patogenetici dello shock determinano anche


la classificazione dei vari tipi di shock. Tutto il difetto sta nel sistema
circolatorio che possiamo vedere come costituito da: pompa (cuore),
fluido (sangue) e tubi (arterie e vene) fra loro connessi dalla rete
microvascolare. Si ha lo shock quando:
- Si perde il fluido contenuto nel sistema vascolare (perdita di
liquidi dal sistema vascolare); si parla di shock ipovolemico.
- La pompa non funziona; configura lo shock cardiogeno.
- La microcircolazione, che connette i vasi del sistema
circolatorio, si altera con aumento della componente
microcircolatoria (vasodilatazione e vasopermeabilizzazione
sistemica del microcircolo); si ha vasodilatazione periferica e
la situazione di shock distributivo.
Questo terzo tipo può essere sostenuto da situazioni di sepsi,
e allora si parla di shock settico, situazioni di ipersensibilità
di primo tipo (anafilassi) e dunque si ha lo shock anafilattico,
oppure alterazioni del controllo nervoso del sistema
periferico (alterazioni del controllo neurogeno) e dunque shock neurogenico.
In base a questo si può classificare lo shock come mostrato in figura seguente.

Nella parte B della figura si vede come il tipo più comune tra tutti gli shock (oltre al 60% dei casi) è lo shock
distributivo di natura settica ossia una situazione con vasodilatazione periferica.

Lo shock cardiogeno può essere causato da un infarto del miocardio e tutte le volte in cui si ha
un’insufficienza cardiaca per cui il ventricolo non funziona; caratteristiche ecocardiografiche daranno un
allargamento del ventricolo e una bassa contrattilità cardiaca. Esso può essere causato da insufficienza
cardiaca, aritmie gravi infarto.
Lo shock ipovolemico è invece legato alla perdita di sangue e liquidi (es. emorragie, ustioni); in questi casi il
cuore continua a funzionare e tende ad aumentare la propria capacità contrattile. Esso è causato da perdite
esterne di liquido (emorragia, vomito e diarrea, poliuria, ustioni estese, colpo di sole o di calore) e/o perdite
interne di liquidi (ascite, torsione gastrica, ostruzione intestinale, emotorace, emoperitoneo).
Lo shock ostruttivo si ha quando l’alterazione della pompa o dei vasi è legata ad un’ostruzione degli stessi
(es. pericardite, dilatazione vena cava inferiore, embolia polmonare) o un tamponamento cardiaco. In questi
casi il mantenimento della contrattilità cardiaca dipende dalla causa, se si ha tamponamento pericardico il
cuore diminuisce mentre le vene cave si dilatano, mentre se si ha embolia polmonare come causa allora il
ventricolo destro è dilatato mentre il ventricolo sinistro è diminuito. Esso può essere causato da embolia
polmonare, pneumotorace, tamponamento cardiaco, trombosi intracardiaca.
Nello shock distributivo si preserva la contrattilità cardiaca. Esso può essere causato da varie situazioni, che
determinano il tipo di shock: lo shock neurogeno è causato da farmaci (anestetici, baribiturici), lesione del
midollo spinale, ipotensione ortostatica, amozioni violente (s. emozionale); lo shock settico è causato da
tossine batteriche; lo shock tossico è causato da sostanze tossiche.

TUTTI I TIPI DI SHOCK PASSANO DALLA FASE DI DIMINUZIONE DELLA GITTATA CARDIACA,
QUALUNQUE SIA LA CAUSA DELLO SHOCK!

NETs
Qualunque sia lo shock, se è vero che il meccanismo ipotensivo è centrale, per compensare a questo
meccanismo, i vari meccanismi di compenso provocano l’instaurarsi di circoli viziosi che mantengono e
aggravano le condizioni di shock.
Consideriamo la figura e prendiamo come
esempio l’ipovolemia. si ha diminuzione
del ritorno venoso e della gittata cardiaca
con calo di pressione sistemica
(caratteristica costante di tutti i tipi di
shock). Il calo pressorio viene percepito e il
primo meccanismo di compenso è mediato
dai recettori dell’arco aortico del seno
carotideo che provocano vasocostrizione e
aumento della frequenza cardiaca, ecco
perché tra i segni clinici dello shock
abbiamo anche la tachicardia.
La seconda risposta è un compenso neuro-
endocrino che determina la produzione di
vasopressina (ormone antidiuretico), la
stimolazione del sistema
renina/angiotensina, la stimolazione di
ACTH (ormone adenocorticotropo) e tutto
questo determina l’aumento della
produzione di aldosterone da parte del
surrene. La risposta surrenale porta anche
all’aumento delle catecolammine. Dunque,
la risposta neuroendocrina ha l’obiettivo di mantenere la volemia, di aumentare la volemia e di mantenere un
circolo adeguato.
Per l’organismo è fondamentale, in questa situazione, mantenere un appropriato flusso cerebrale e mantenere
un appropriato flusso cardiaco, ecco perché l’aumento della frequenza cardiaca, che ha come fine l’aumento
della gittata cardiaca, si estrinseca in una ridistribuzione della gittata cardiaca, per cui diminuisce il flusso a
livello cutaneo (pallore), a livello muscolare (debolezza) e a livello renale. Oltre ad avere un compenso neo-
umorale e cardiaco si ha anche un compenso gastrointestinale poiché si tende a mantenere una volemia
costante riassorbendo fluidi dal tratto intestinale e dallo spazio interstiziale quindi si ha un compenso
gastrointestinale e un compenso periferico (atto a ridistribuire i fluidi nella microcircolazione).

Questi meccanismi compensatori


innescano essi stessi un circolo
vizioso. Infatti, si ha comunque una
diminuzione della gittata cardiaca,
un’ipoperfusione (per mantenere
perfusi alcuni organi altri sono
ipoperfusi), l’ipossia. Inoltre, la
disregolazione del sistema
simpatico e l’attivazione del
compenso neuroendocrino portano
comunque all’attivazione
endoteliale e all’alterazione
microvascolare che determina
l’innesco di un fenomeno
trombotico e qui entra in gioco la
coagulazione intravascolare
disseminata (CID): tutte le volte in
cui si ha danno endoteliale, in particolare se ho l’innesco di fenomeno infiammatorio che potenzia la stasi e
l’arrivo di leucociti e la loro adesione all’endotelio (con formazione di aggregati leucocitari e NETs), si
favorisce il fenomeno trombotico che a questo punto è sistemico, ossia distribuito a tutto il microcircolo
(microtrombosi diffusa). La stimolazione trombotica stimola la fibrinolisi, che produce FDP e sostanze
anticoagulanti: la microtrombosi diffusa, la fibrinolisi e la CID porta a consumo dei fattori della
coagulazione, all’intrappolamento e al consumo delle piastrine e quindi porta ad una condizione emorragica
Infatti, la morte per CID è dovuta all’emorragia poiché in caso di microtrombosi associata a stasi, a
iperadesività leucocitaria allora i microtrombi intrappolano i fattori di coagulazione e portano da una parte
all’attivazione della fibrinolisi, che produce sostanze anticoagulanti, e dall’altra piastrinopenia (intrappolate
e/o degradate). La CID è una situazione emorragica innescata da microtrombosi diffuse/disseminate
nell’organismo; le microtrombosi sono una
conseguenza delle risposte
adattative/compensatorie dello shock. Se
primariamente si ha una situazione infiammatoria
(shock settico) o secondariamente al danno
vascolare si innesca una risposta infiammatoria,
questa ulteriormente porta al danno endoteliale e
provoca un auto-mantenimento del circolo vizioso
che induce ulteriore danno cellulare, danno
vascolare, ipossia, ipoperfusione e attivazione del
sistema trombotico.
L’insieme di circoli viziosi (che tentano di
compensare l’ipoperfusione degli organi ma alla
fine la diminuiscono ulteriormente) determinano un
danno che si fa risentire in tutti gli organi,
principalmente a livello polmonare e renale, e
quindi si ha l’instaurarsi del danno multiorgano.
Nei vari organi cosa succede?
o Cuore. Inizialmente viene protetto e perfuso correttamente. Nelle fasi successive, la bassa perfusione
riduce la funzione miocardica, con ulteriore riduzione della gittata cardiaca.
o Pancreas. La riduzione della perfusione pancreatica induce la produzione di peptidi (es. myocardial
depressant factor (MDF)) che ulteriormente deprimono la funzionalità cardiaca. Inoltre, se il pancreas
risente del danno dell’ipoperfusione si va incontro a pancreatite acuta con liberazione degli zimogeni dal
pancreas esocrino.
o Fegato. La ridotta perfusione epatica fa sì che il fegato diventi un forte produttore di lattato (ne produce
moltissimo) con conseguente acidosi. Inoltre, il fegato non è più capace di inattivare i mediatori
dell’infiammazione e le sostanze tossiche (v. dopo)
o Intestino. La ridotta perfusione altera la barriera mucosale causando disseminazione batterica e ulteriore
perdita di fluidi e di sangue. Quindi anche se lo shock iniziale non è uno shock settico, lo può diventare
a causa della liberazione di batteri dovuta alla ridotta perfusione intestinale.
o Rene. La ridotta perfusione del rene impedisce la funzionalità renale con ulteriore acidosi. Se viene
colpita la porzione glomerulare si ha una riduzione dell’urina, successivamente nelle fasi tardive la
necrosi tubulare renale con un profondo deficit di riassorbimento e conseguente poliuria.
o Polmone. La ridotta perfusione contribuisce alla genesi del “polmone da shock” con ulteriore deficit di
ossigenazione del sangue. Infatti, se un elemento cardine dell’ipovolemia è l’ipossia, il danno
polmonare aggrava ulteriormente l’ipossia.

Quindi nello shock, indipendentemente dalle cause abbiamo un iniziale deficit pressorio, una serie di
compensi che tendono a mantenere la pressione a livelli accettabili; questi meccanismi però a lungo andare
diventano dannosi determinando circoli viziosi che impattano sulla microcircolazione e sulla ipoperfusione
tissutale e che quindi evocano una risposta infiammatoria aggravano ulteriormente il danno
microcircolatorio: a causa dei circoli viziosi si instaura quindi il danno multiorgano.
La sindrome da danno multiorgano o MOFS (Multiple Organ Failure Syndrome) è la comparsa in modo
sequenziale e progressivo di più insufficienze d’organo in pazienti che hanno subito un grave trauma.
Classicamente la MOFS segue ad eventi traumatici (politraumi con o senza shock ipovolemici) e/o settici, in
organismi che hanno mantenuto per un periodo piuttosto prolungato una profonda ristrutturazione metabolica
nel tentativo di difendersi dalla noxa patogena.
La MOFS viene definita sindrome e non malattia, in quanto non è dovuta ad una causa specifica quindi non
sempre è legata allo shock ma è conseguenza di una qualsiasi malattia acuta (sepsi, trauma, pancreatite) che
produca una grave e persistente alterazione dell’omeostasi. La MOFS è caratterizzata dall’esaurimento da
parte dell’organismo di molte capacità di difesa, dall’indebolimento dei sistemi di ossidazione di substrati
energetici, dalla produzione e messa in circolo di metaboliti anomali (es. DAMPs), lesivi per organi vitali,
frutto di errori metabolici. L’insieme di questi fattori portano all’instaurarsi di necrosi.

Dunque, la patogenesi dello shock prevede l’intervento di vari mediatori chimici: istamina, serotonina,
chinine, NO, prostaglandine e leucotrieni; l’attivazione del complemento; attivazione del sistema della
coagulazione e della fibrinolisi (cfr. CID); endorfine (vasodilatatori) (cfr. uso degli antagonisti degli oppiacei
in terapia); citochine infiammatorie come TNF e IL-1 (soprattutto nello shock settico).

Molti dei mediatori dell’infiammazione costituiscono biomarcatori umorali di shock (come ad esempio il
lattato, di cui abbiamo parlato ad inizio lezione). Ad esempio, si ha la CRP che è una proteina di fase acuta
e che raggiunge alti livelli in corso di shock; altri esempi importanti sono BNP IL-1ra e i recettori I e II del
TNF.

Ciò che sostiene la MOFS, ossia il danno multiorgano innescato dai circoli viziosi, è il danno
microvascolare. Il danno del microcircolo è innescato dal danno endoteliale ma anche dall’ostruzione da
parte dei leucociti (conseguente alla loro aumentata adesività) e dall’ostruzione da parte dei microcoaguli
(della CID). La CID causa l’ostruzione di vasi danneggiati dal danno endoteliale e ostruiti dai leucociti
pertanto aggrava la situazione.
Il danno del microcircolo è l’ultimo effetto biologico dello shock e provoca un profondo danno cellulare da
ipoperfusione tissutale e cellulare con l’innesco di un fenomeno di tipo necrotico.

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