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Farmacocinetica

Sviluppo dei farmaci


Questo semestre affrontiamo:
- Farmacologia generale (inclusi gli antibiotici)
- Farmacologia cardiovascolare
Farmacologia generale
La farmacologia si divide in due parti: la farmacologia generale e la farmacologia speciale, ovvero
d’organo. Con la farmacologia generale è possibile comprendere il meccanismo d’azione dei
farmaci, una volta che questi vengono somministrati al soggetto. La farmacologia d’organo si
dedica, invece, allo studio dei farmaci utilizzati nel trattamento di uno specifico organo. La
farmacologia generale viene a sua volta divisa in:
- Farmacodinamica: studia le interazioni tra il farmaco e i suoi recettori, e l’insieme di eventi relativi
alla trasduzione del segnale che deriva dall’interazione farmaco-recettore.
Il farmaco è una sostanza che viene utilizzata nella profilassi, nella terapia e nella diagnosi
di specifiche malattie. Il recettore di un farmaco è una macromolecola capace di legare in modo
specifico il farmaco (grazie a una sequenza specifica per esso) e di trasdurre il segnale evocando il
cosiddetto effetto farmacologico, che nell’uomo si concretizza nell’efficacia clinica del farmaco.
Tutto questo viene studiato dalla Farmacodinamica.
- Farmacocinetica: studia il destino del farmaco una volta che esso viene somministrato in un
organismo vivente, quindi tutto quello che succede al farmaco fino alla sua eliminazione.

In particolare, la farmacocinetica serve per:


1) Determinare la posologia: i dati che ci arrivano con la farmacocinetica, insieme ad altri, ci servono
a determinare la posologia di un farmaco. La posologia è la dose del farmaco e la definizione
dell’intervallo tra le dosi.
2) Via di somministrazione: scegliere tra le diverse modalità di somministrazione. Posso
somministrare un farmaco per bocca, intramuscolo, per via endovenosa. Lo posso decidere grazie ai
dati provenienti dalla farmacocinetica.
3) Interazione tra farmaci: i dati della farmacocinetica ci aiutano a comprendere l’interazione tra
farmaci. Questo è importante quando faccio una politerapia, ovvero quando somministro più
farmaci al paziente. È molto comune, questo succede quando una terapia prevede l’utilizzo di più
farmaci o quando il paziente ha patologie concomitanti e quindi prende farmaci diversi per le varie
patologie. Questi farmaci all’interno dell’organismo possono interagire tra di loro e quest’interazione
può produrre effetti sulla terapia, sull’efficacia del farmaco e quindi sulla sicurezza del farmaco e
quindi effetti sul paziente.
4) Farmaci equivalenti: la farmacocinetica è essenziale per poter mettere in commercio i farmaci
equivalenti, ovvero i farmaci generici.
Abbiamo detto che la farmacocinetica è importante per determinare la posologia. Non sono solo
questi dati che ci permettono di determinarla, ma abbiamo anche bisogno:
 Degli studi di efficacia del farmaco;
 Dei risultati di studi di sicurezza nell’uomo;
 Degli studi di tossicità nell’animale.
I farmaci, quindi, non apportano solo dei benefici, ma rappresentano anche dei rischi per il paziente.
Il rischio di un farmaco è rappresentato dagli eventi avversi che sono indotti dal farmaco nel
soggetto che lo assume. Perché un farmaco possa essere approvato e messo alla
commercializzazione, i benefici devono superare i rischi, perché altrimenti non sarebbe
vantaggioso. Quindi il rapporto beneficio/rischio deve essere positivo.
Non esiste una definizione di rischio ritenuta accettabile perché varia in funzione della:
- gravità della patologia;
- disponibilità di farmaci efficaci alternativi alla cura della stessa patologia.
Per un tumore con prognosi infausta sono disposto ad accettare farmaci efficaci che mi allunghino
la sopravvivenza del paziente in modo significativo anche a costo di effetti avversi, cioè di un
profilo di sicurezza più problematico. Questo perché siamo di fronte ad una patologia che mette in
pericolo di vita e siamo di fronte ad un farmaco che prolunga la vita a fronte di eventi avversi
significativi. Se invece io ho un farmaco per la cura del raffreddore o per il bruciore di stomaco è
ovvio che in questi casi non sono disposto ad accettare effetti avversi significativi. Al di là di queste
considerazioni il rapporto beneficio/rischio deve essere sempre positivo.
Sviluppo di un farmaco
Farmacocinetica e farmacodinamica servono, essenzialmente, per sviluppare nuovi farmaci. Lo
sviluppo di nuovi farmaci è in sé un processo estremamente lungo, che richiede un arco di tempo
che va dai 10 ai 15 anni in media, costellato di fallimenti.
In questo tipo di studio si parte in genere da una molecola, che in genere possiamo trovare nelle
cosiddette librerie di sostanze, ovvero un insieme di molecole con struttura simile, isolate o
sintetizzate nel tempo. È possibile parlare dello sviluppo (sintesi) vero e proprio dei farmaci solo a
partire dal XIX secolo, prima si utilizzavano rimedi naturali. I primi farmaci vennero ottenuti
attraverso l’estrazione di specifiche sostanze dalle piante, come ad esempio l’oppio. Al giorno
d’oggi esistono moltissimi farmaci derivanti dall’oppio, i cosiddetti oppiacei, potentissimi
analgesici. Successivamente si è arrivati a utilizzare strutture di base di vari farmaci estratti da
piante e modificarle per ottenere farmaci migliori, sia come efficacia clinica che come gestione del
paziente, quindi più facili da utilizzare (per esempio farmaci somministrabili per bocca e non per
via iniettiva, oppure farmaci con una durata di azione più lunga).
Attraverso la chimica combinatoriale è possibile, a partire da due o più sostanze, svilupparne di
nuove. Per fare ciò vengono utilizzati specifici programmi al computer capaci di immagazzinare ed
elaborare dati, e strumenti che permettano di manipolare su scala industriale tali sostanze. Questo
tipo di approccio ha rappresentato un grande progresso nello sviluppo dei farmaci. Oggi i farmaci
vengono ricercati attraverso una combinazione di reazioni chimiche: in questo modo si moltiplica
enormemente la velocità di sintesi di nuove sostanze, le quali vanno a formare delle librerie. Queste
librerie contengono farmaci che, avendo la stessa struttura, possono avere applicazioni simili.
Altro step fondamentale, che precede la sintesi o il recupero di uno specifico farmaco è lo studio
della patologia contro la quale cerco di sviluppare un farmaco. Questo perché è fondamentale
individuare un buon target.
I target dei farmaci possono essere molteplici: un enzima (molto frequente), canali e altre strutture
rinvenibili sulla membrana cellulare che siano in grado di attivare o inibire l’attività di specifiche
cellule. Una volta identificato il target è importante studiarne la conformazione tridimensionale,
per comprendere quale regione del target andrà a legare il mio farmaco. Questa prima parte dello
studio sarà uno studio condotto al computer che consenta di vedere la conformazione
tridimensionale del target e capire quale tipo di struttura dovrà avere il mio farmaco. Una volta
individuata la struttura, bisognerà ricercare, nelle librerie, le molecole compatibili (cioè molecole
con una struttura adeguata a legare la regione specifica del target), che saranno molteplici,
identificando il cosiddetto HIT.
HIT è la struttura molecolare di partenza che identifico in base al mio target, individuata
all’interno delle librerie di sostanze con le prime modifiche introdotte in base ai diversi saggi ai
quali sottopongo le molecole comprese nell’HIT.
I saggi sono le cosiddette procedure di screening. Lo screening è la valutazione di moltissime
sostanze a struttura simile per identificare quelle che hanno una struttura adatta al mio target.
Lo screening che si usa oggi è l’High Throughtput Screening (HTS). Per comprendere al meglio
cosa sia l’HTS facciamo un esempio pratico: in laboratorio, in genere, vengono utilizzate delle
piastre che hanno molteplici pozzetti: all’interno dei pozzetti si mettono le sostanze e si studia la
reazione chimica che vogliamo analizzare. HTS è al giorno d’oggi una procedura automatizzata,
che consente addirittura di analizzare 300-400 reazioni contemporaneamente.
Questo aumenta la velocità di screening, quindi di selezione. Con tale procedura arriviamo a
selezionare i composti lead, cioè le molecole perfezionate, più avanzate rispetto all’HIT, essendo
andate incontro a questa fase di screening ad elevato rendimento (HTS).
I composti lead devono avere delle caratteristiche:
a. Deve essere possibile sintetizzarlo ad alta/massima purezza;
b. Deve essere capace di legare il target in modo selettivo;
c. Deve essere originale, ovvero non deve essere mai stato messo in commercio in precedenza
(parliamo infatti di nuovi farmaci).
È possibile migliorare ulteriormente il lead (inserendo o rimuovendo legami), in maniera tale da
ottenere molecole utilizzabili negli studi di preclinica. Gli studi di preclinica sono studi utili per
comprendere se la sostanza lead, di cui abbiamo determinato il meccanismo di azione sul suo target,
sia adatta o meno a entrare in fase clinica, in quanto nella fase clinica verranno condotti studi
sull’uomo. Gli studi preclinici sono utili per comprendere se la sostanza in questione possa essere
utilizzata in sicurezza nell’uomo e sia capace di agire efficacemente. Questi parametri vanno
valutati prima di iniziare la somministrazione nell’uomo.
Studi preclinici
Gli studi preclinici sono studi in vitro e sugli animali, ed entrambi sono necessari nello studio del
farmaco. Così facendo si cerca di individuare:
- meccanismo d’azione;
- sicurezza del farmaco;
- farmacocinetica.
Il meccanismo d’azione è quello che abbiamo chiamato precedentemente farmacodinamica, quindi
le interazioni farmaco-recettore e la trasduzione del segnale associata.
Per quanto riguarda la sicurezza è bene distinguere tra tollerabilità e sicurezza. Sono due termini
distinti.
 sicurezza: studio di tutti gli eventi avversi che possono mettere in pericolo la vita del paziente.
Quindi per sicurezza si intende il rischio causato dal farmaco, misurato attraverso eventi avversi
indotti dal farmaco, esame obiettivo, alterazione dei parametri vitali, test di laboratorio, etc.
 tollerabilità: studio degli eventi avversi che non mettono in pericolo la vita del paziente. Sono
eventi che, purtroppo, si manifestano in seguito all’assunzione di quasi tutti i farmaci. Quindi si
tratta dello studio del grado in cui un evento avverso è tollerato dal paziente. Non solo c’è
l'evento avverso, ma questo può essere tollerato in modo diverso da un paziente all'altro.
Purtroppo, dagli studi che si fanno per portare all’approvazione di un farmaco nella maggior parte
dei casi noi avremo molte informazioni sul profilo di sicurezza, ma scarse informazioni sulla
tollerabilità. Questo è un problema perché la tollerabilità impatta direttamente sulla compliance
del paziente alla terapia, ovvero la disponibilità di un paziente a seguire la terapia come gli è stata
prescritta. Se io prescrivo una terapia e il paziente non la segue, ad esempio perché ogni volta che
prende il farmaco gli si presenta un effetto collaterale che per lui è troppo fastidioso, ma che negli
studi clinici è considerato maneggevole. Ad esempio, se il paziente sviluppa un rush cutaneo sul
volto molto evidente, lui non lo tollera perché si sente fortemente invalidato da questo evento
avverso anche se, il rush, è considerato un effetto avverso maneggevole. La tollerabilità per il
paziente è molto bassa e questo porta ad una scarsa aderenza alla terapia. Per questo la tollerabilità
deve essere sempre indagata, bisogna cercare di capire come posso ovviare gli effetti poco tollerati.
Sulla tollerabilità ci vengono date poche informazioni e dobbiamo capire caso per caso durante la
terapia. La scelta del profilo di tollerabilità varia a seconda del paziente che si ha davanti. Non
esiste alcun farmaco che abbia esclusivamente effetti benefici sul paziente, ogni farmaco ha un
rischio e questo rischio rappresenta gli eventi avversi che questi farmaci possono indurre. Gli
eventi avversi possono essere di diversa entità, possono essere responsabili di eventuali
malformazioni nel nascituro se somministrati in donne in gravidanza, di gravi disabilità o dar luogo
a eventi più lievi e conseguentemente possono essere compatibili con la messa in commercio del
farmaco, in quanto non rappresentano un pericolo per la vita del paziente. È importante che la
terapia sia sempre mirata per lo specifico caso clinico, ed è importante in tal senso la scelta del
profilo di tollerabilità di un determinato paziente.
I primi studi di sicurezza di un farmaco che si fanno sono gli studi di tossicità, i quali vengono
eseguiti seguendo linee guida internazionali. Tra queste possiamo annoverare:
- GMP (Good Manufacturing Practice): linee guida relative alla produzione della sostanza, del
farmaco. Sono obbligatorie.
- GLP (Good Laboratory Practice): linee guida obbligatorie da seguire negli studi di preclinica,
condotti in laboratorio. Sono regole che riguardano il tipo di strumenti da utilizzare negli studi in
vitro, il tipo di animali da utilizzare in relazione alla patologia studiata, come vanno registrati i dati,
in modo da renderli accessibili. Anch’esse sono obbligatorie.
- GCP (Good Clinical Practice): linee guida da seguire nella sperimentazione nell’uomo. Queste
sono linee guida relative alla parte etica, riguardano lo stato del paziente e il consenso informato (il
paziente deve essere informato riguardo ai possibili rischi e i benefici relativi all’assunzione del
farmaco). Vi sono dei comitati etici che danno l’assenso relativo alla sperimentazione dell’uomo ed
ancora una parte pratica relativa alle modalità in cui dovranno essere svolte le procedure per cercare
di evitare eventuali errori, o quantomeno ridurli il più possibile.
Quando un farmaco prodotto da un’industria farmaceutica ha già passato la fase preclinica e quella
clinica, prima di entrare in commercio deve essere approvato da specifiche autorità. Queste autorità
hanno il potere di effettuare dei controlli presso le sedi dell’industria farmaceutica in cui hanno
luogo sia la fase preclinica sia la fase clinica, per verificare che le procedure vengano svolte
secondo le linee guida (ispettori).
Studi di tossicità
La sicurezza viene valutata in analisi preclinica con studi di tossicità. Questi studi sono sempre
obbligatori e vengono condotti sugli animali. Possono essere distinti in:
- Tossicità acuta: necessitano di almeno due specie di animali (sempre), di cui almeno una è quasi
sempre rappresentata dalla specie dei roditori, l’altra invece varia in relazione alla patologia. Ci
sono infatti degli animali non roditori che presentano maggiore somiglianza con le caratteristiche
d’organo dell’uomo, riproducendo in modo più simile all’uomo la patologia.
- Tossicità subacuta e subcronica
- Tossicità cronica
La differenza tra queste tossicità è il tempo di osservazione del soggetto tra la somministrazione di
un farmaco e la manifestazione dell’evento avverso. Tale intervallo di tempo aumenta procedendo
dalla fase acuta a quella cronica.
Ci sono una serie di regole per la scelta degli animali. Oggi si fanno poco gli esperimenti sui cani e
sulle scimmie ancora meno perché, per motivi etici, si cerca di utilizzare meno queste specie
superiori, arrecandogli meno danno possibile.
Modalità di svolgimento degli studi di tossicità:
 Lo studio di tossicità acuta viene svolto tramite una singola somministrazione del farmaco in una
singola dose, a cui segue un periodo di osservazione per valutare la comparsa di effetti avversi. I
tempi di osservazione sono di 7-14 giorni e sono così lunghi perché, nonostante si stia studiando la
tossicità acuta, bisogna caratterizzare l’effetto avverso anche nell’ambito della reversibilità: l’effetto
avverso si potrebbe manifestare e poi scomparire oppure potrebbe manifestarsi e permanere. Quindi
per osservare un’eventuale reversibilità dobbiamo aspettare un po' di tempo.
 Gli studi di tossicità subacuta e subcronica (o studi a dose multipla) vengono svolti tramite
somministrazione di dosi multiple. Ad ogni animale viene somministrata una dose di farmaco per
volta per 7 giorni. Al termine dei quali inizia il periodo di osservazione che dura: 1 mese per la
tossicità subacuta, invece 3 mesi per la tossicità subcronica. Si devono testare almeno 3 dosi del
farmaco, in altre parole: per ogni dose vanno fatti 7 giorni di terapia poi 1 e 3 mesi di osservazione.
Le dosi che voglio provare sono:1 mg, 10 mg, 100 mg. Comincio dando 1 mg per 7 giorni. Se
l’animale muore o sviluppa degli effetti avversi molto gravi non salgo di dose.
 Lo studio di tossicità cronica viene svolto tramite somministrazione di almeno 3 dosi per 7 giorni
consecutivi al termine dei quali inizia il periodo di osservazione che dura, almeno per i roditori, in
quanto corrispondente piu o meno al loro ciclo vitale, dai 18-24 mesi. C’è corrispondenza tra i 18-24
mesi di vita del roditore e la terapia cronica nell’uomo (per quelle patologie che una volta che si
sono manifestate impongono al paziente di fare una terapia a vita).
Con il termine di tossicità cronica si riferisce ad una tossicità che compare non immediatamente,
bensì dopo anni dall’inizio della terapia. Ci sono alcuni farmaci che, con una frequenza molto bassa,
possono dare delle patologie gravi: molti farmaci oncologici (e non) possono causare tumori
secondari dopo anni.
Il rischio degli effetti collaterali evidenziati da questo studio ovviamente aumenta all’aumentare del
periodo di somministrazione del farmaco e quindi all’aumentare della durata della terapia
nell’uomo; ad esempio, per farmaci quali analgesici utilizzati per una lieve cefalea, si studia
principalmente la tossicità acuta o subacuta a differenza, invece di farmaci dove la terapia sarà
necessariamente prolungata e che quindi necessiterà dello studio della tossicità cronica.
Come si sceglie la dose da testare negli animali? Si sceglie in base a:
A. Studi di farmacodinamica (studio del meccanismo d’azione)
B. Studi di farmacocinetica (quello che succede al farmaco quando lo inserisco nell’organismo)
Per motivi etici nell’animale da esperimento si cerca di non superare la dose di 1g/Kg per ridurre
il male che potremmo fargli in quanto all’aumentare della dose somministrata aumenta la
probabilità che l’animale possa avere degli effetti avversi.

Dagli studi di tossicità subacuta e subcronica svolti su un animale si ricava la massima dose
tollerata (MTD, Maximum Tollerated Dose), ovvero la dose massima che nell’animale abbia
effetto terapeutico (dose farmacologicamente attiva) senza però indurre effetti avversi in grado
di ridurre la sua speranza di vita (dose tollerata). Si oggetivizza che un effetto avverso riduca la
speranza di vita dell’animale quando:
1) Si ha una riduzione del peso corporeo dell’animale superiore al 10%, indipendentemente dalla
specie animale in considerazione.
2) Si ha un danno d’organo, come nel caso in cui venga indotta una insufficienza cardiaca (o renale o
epatica) di tipo irreversibile.
3) Si ha una variazione delle funzioni vitali: frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, pressione.
Se l’effetto avverso è tale da causare almeno una di queste condizioni allora sappiamo di aver
superato la MTD e bisogna quindi scendere di dose. Ad esempio, se si inizia con una dose di 1
mg/Kg per la quale alla somministrazione non seguono effetti avversi e si sale a 10 mg/Kg dopo i
quali si osserva invece una riduzione del peso corporeo superiore al 10% possiamo dire che la MTD
è di 1 mg/Kg.
Non possiamo somministrare all’animale dosi elevatissime alla cieca. Solitamente le GLP
contengono regole anche di tipo etico. Eticamente non è possibile, in genere, superare la dose di
1g/kg al giorno (nel roditore).
Per motivi di sicurezza ci deve essere sempre la differenza di almeno 10 volte tra la dose
massima sperimentata nell’animale e quella sperimentata nell’uomo, nell’uomo deve essere 10
volte più bassa. Quindi SOLO nel caso in cui nel corso della sperimentazione, in base ai dati che
ho, presumo di dover salire di dose nell’uomo allora posso superare un 1g e arrivare fino a 2g/kg
per mantenere questa differenza di 10 volte. Non si fa quasi mai, in genere il massimo accettato è
1g.
Dopo aver ottenuto la MTD nell’animale da esperimento dobbiamo trasferirla all’uomo perché
dagli studi di preclinica devo ricavare delle informazioni così da poter poi iniziare, con ragionevole
sicurezza, la sperimentazione nell’uomo e devo quindi avere un’idea di quella che è la massima
dose tollerata nell’uomo (perché non devo salire di piu nell’uomo!). Per trasportare la MTD
all’uomo mi devo liberare del peso corporeo (visto che il peso corporeo dell’animale non è
paragonabile a quello dell’uomo). Quello che è paragonabile è la superficie corporea. Quindi
devo passare da una dose espressa in peso corporeo a una espressa in termine di superficie corporea,
parlerò allora in termini di esposizione al farmaco (espressa in termini di quantità di farmaco x
superficie corporea). A seconda della specie animale il passaggio avviene attraverso fattori
moltiplicativi differenti che dipendono dall’animale, dalla sua grandezza e dalla sua massa
corporea.
Esempio: la MTD identificata in un topo è di 30 mg/Kg. Questa MTD deve essere, specificamente a
partire dal topo, moltiplicata per 6 in modo da passare da 30 mg/Kg a 180 mg/m2 che
rappresentano la MTD del topo. Nell’uomo, per applicare il principio di cautela (così da essere
sicuri di non somministrare una dose troppo elevata che possa dare effetti tossici), dobbiamo poi
dividere la MTD dell’animale per 10. Tornando all’esempio, nell’uomo non dovrò superare
l’esposizione di 18 mg/m2 di superficie corporea. Questa divisione per il fattore 10 (= margine di
sicurezza) si fa per ragioni di sicurezza e ulteriore cautela.
In realtà il range precauzionale va da 1/10 ad 1/50. Bisogna individuare una dose che sia da 1/10
ad 1/50. Si può scendere fino ad 1/50, 1/10 è il minimo accettabile. Questo dipende dal tipo di
molecola, dal tipo di effetti avversi che ci aspettiamo che dipendono dal meccanismo d’azione.
Alcuni effetti avversi sono infatti causati dal meccanismo d’azione del farmaco, quindi ce li
possiamo già immaginare. Questo perché, di solito, i farmaci, per evocare i loro effetti, si legano a
determinati recettori e non sono in grado di distinguere i recettori presenti sull’organo target (che ha
la patologia) da quelli presenti in altri organi; si legano a tutti quelli che incontrano indistintamente.
Questo può portare ad effetti avversi che io posso prevedere perché so dove sono presenti quei
recettori all’interno del corpo umano. Quindi posso immaginare che sia più prudente somministrare
una dose più bassa di 1/10. In ogni caso 1/10 MTD espressa in mg/m2 è la dose massima a cui
posso arrivare nell’uomo.

Il dato che otteniamo è quindi un’informazione di partenza; in seguito, verrà determinata in modo
specifico la massima dose tollerata per l’uomo, tuttavia per evitare problemi di sicurezza, prima di
iniziare la sperimentazione nell’uomo dobbiamo sapere in che range di dosi ci possiamo muovere.
Dagli studi di tossicità cronica svolti su un animale si ottiene la NOAEL (Non Observed Adverse
Effect Level), ovvero il livello di dose di farmaco farmacologicamente attiva nell’animale al
quale non si osservano effetti avversi. Questa dose la ricavo dagli studi di tossicità cronica perché
questi mi permettono di vedere sia gli effetti avversi acuti che quelli che si manifestano più
tardivamente. La NOAEL è la dose che somministriamo nel primo studio del farmaco nell’uomo
(first in human study) a cui deve sempre comunque precedere, analogamente a quanto visto per la
MTD, la conversione in esposizione e poi la divisione, per il principio cautelativo, dalle 10 alle 50
volte. Questa è una dose molto bassa quindi probabilmente non sarà efficace a livello
terapeutico. Procedo nello stesso modo, passo all’esposizione e divido per 10.
Questa mi serve per determinare la prima dose nell’uomo nel primo studio sull’uomo (dose del first
in human study). Da questa dose poi ovviamente devo salire e posso arrivare, al massimo, fino
alla dose massima tollerata MTD che ho calcolato.
Esempio: la NOAEL identificata in un topo è di 1 mg/Kg di peso corporeo. Questa NOAEL deve
essere, specificamente a partire dal topo, moltiplicata per 6 in modo da passare da 1 mg/Kg a 6
mg/m2. NB: devo sempre passare per l’esposizione altrimenti non posso paragonare le varie
specie animali! Applicando il principio di cautela, dividiamo questa esposizione per 10 volte = 0,6
mg/m2 = NOAEL.
Nel first in human study per la prima volta prendo la sostanza alias futuro farmaco e la provo
nell’uomo. Utilizzo una dose che mi dà nell’animale la NOAEL perché occorre essere
assolutamente sicuri di non arrecare danno nell’uomo. La dose sarà così bassa che molto
probabilmente non avrà nessun effetto clinico nell’uomo. Poi salirò di dose. Il first in human study
fa parte degli studi clinici di fase 1 che si fanno nell’uomo.
Gli studi clinici nell’uomo vengono infatti distinti in 4 fasi:
 Studi clinici di fase 1
 Studi clinici di fase 2
 Studi clinici di fase 3
 Studi clinici di fase 4
Tutti gli studi fino a quelli di fase 3 vendono definiti studi pre-registrativi perché devono essere
svolti prima di ricevere l’autorizzazione alla commercializzazione del farmaco. Gli studi di fase 4
vengono invece svolti dopo l’immissione in commercio del farmaco.
Studi clinici di fase 1
Gli studi clinici di fase 1 coinvolgono volontari sani cioè individui che non presentano la patologia
per la quale si sta realizzando il farmaco. Sarebbe infatti eticamente poco corretto sperimentare per
la prima volta un farmaco in pazienti che hanno già la patologia perché potremmo arrecare loro
ulteriori danni. Questi primi studi inoltre vengono svolti a partire dalla NOAEL = dose così bassa
da non generare né un effetto terapeutico, ma neanche effetti avversi nell’uomo.
Queste condizioni valgono per tutte le patologie ad eccezione di quelle oncologiche per le quali
non si parte dalla NOAEL e non si utilizzano volontari sani per la valutazione del farmaco bensì
direttamente pazienti oncologici. I volontari sani sono infatti indifferenti all’effetto clinico del
farmaco perché non ne necessitano, mentre sono interessati alla manifestazione degli effetti avversi
che non vi deve essere: viene per questo utilizzata la NOAEL che ha come principio di base la
sicurezza. Non sarebbe invece etico somministrare dei farmaci oncologici nei volontari sani perché
tutti i farmaci oncologici non sono mai assolutamente selettivi per il tumore, ma danneggiano anche
tutta un’altra serie di cellule dell’organismo generando molti effetti avversi.
Questi effetti avversi, perché il farmaco venga approvato, devono essere bilanciati da altrettanti
benefici ma, avendo i farmaci oncologici di base una quantità di effetti avversi maggiore nella
media rispetto ai farmaci per patologie non oncologiche, non è ritenuto etico sperimentare nel
volontario sano un farmaco oncologico: non avendo egli alcun tumore non riceverebbe alcun
beneficio, acquisendo invece tutti i rischi potenziali. Per i farmaci oncologici quindi, anche negli
studi di fase 1, vengono coinvolti direttamente pazienti con patologie tumorali in modo da garantir
loro una probabilità di efficacia del farmaco in prova. Proprio per questo motivo non sarebbe etico
neanche utilizzare la NOAEL in quanto sappiamo che questa, per il principio di cautela, non
darebbe alcun effetto terapeutico (non è ritenuto etico nel paziente oncologico somministrare un
farmaco che non sia alcun beneficio): nei pazienti oncologici si parte da una dose più alta.
La prima dose di farmaco nel paziente oncologico viene scelta a partire dalla STD10 (Severely
Toxic Dose) che è la dose farmacologicamente attiva che causa un effetto tossico di intensità
severa nel 10% degli animali ai quali è stata data la dose (parlerò di “STD 10%”). Quindi
STD10 = Dose Tossica Severa 10  dose che nel 10% dei roditori ai quali è stato somministrato il
farmaco ha causato una tossicità severa, una tossicità che ha messo in pericolo la vita o ha generato
un evento avverso irreversibile. Per capire meglio questo concetto dobbiamo distinguere i termini
legati ad un effetto avverso. L’intensità di un effetto avverso viene normalmente classificata in:
 Lieve
 Moderata
 Severa, che è quindi l’intensità più elevata
 Molto grave
Serious = serio  la serietà (o gravità) di un effetto avverso identifica una condizione per cui
l’effetto avverso corrisponde alla morte del paziente, alla messa in pericolo della vita del
paziente, ad una invalidità permanente o non permanente, ma comunque rilevante, all’insorgenza
di malformazioni nel feto (congenite) o nell’adulto che ha assunto il farmaco (acquisite).
L’effetto serio può avere poi diversi gradi di intensità:
- Moderata
- Severa
Ad esempio, un paziente può avere un mal di testa severo, o meglio di intensità severa, che però
non ha rilevanza clinica nel momento in cui si risolve e non mette a rischio la vita del paziente o
non causa alcuna eventualità suddetta. L’intensità di un effetto avverso non ha quindi nulla a
che fare con la pericolosità dell’evento avverso, per cui capiamo che la severità di un evento
avverso è diversa dalla serietà dello stesso.
Per definire l’intensità del dolore ci sono delle scale che si fanno vedere al paziente, ce ne è una
molto semplice che va da 0 a 10 e al paziente si chiede di valutare il suo dolore da 0 (assenza di
dolore) a 10 (dolore fortissimo).
Tornando alla STD10, una volta che questa è stata ricavata dagli studi di tossicità subacuta e
subcronica negli animali, deve essere sempre trasformata in esposizione e divisa per 10: ottengo
così la prima dose che utilizzo nel paziente oncologico nel first in human study.
Gli studi di tossicità si fanno però in almeno due specie:
I. La prima specie è normalmente il roditore in cui calcolo l’STD10. È una dose comunque bassa
perché è 10 volte più bassa di quella usata con i roditori, ma è più alta della NOAEL ed è dotata di
un effetto terapeutico.
II. La seconda specie può essere anche il cane, dal quale non posso però calcolare la STD10 per motivi
etici: non siamo propensi ad accettare il male su di un cane quanto lo siamo su di un roditore. Non
vogliamo arrivare a dare una dose che possa dare una tossicità severa nel 10% dei cani. Nel
cane determiniamo la HNSTD (Highest Non Severely Toxic Dose), cioè la dose
farmacologicamente attiva più elevata possibile che non induca una tossicità severa (può indurla
lieve e moderata). Di questa ne prendiamo 1/6 e poi la convertiamo sempre in esposizione, senza
però dividere per 10 in modo da evitare una riduzione eccessiva: verrà successivamente
somministrata al paziente oncologico.
Una volta ottenuti questi due valori, a partire da STD10 e HNSTD, si sceglie il valore più basso da
somministrare al paziente oncologico nel first in human study.
Il concetto importante è che col paziente con tumore si utilizza una dose che abbia una potenziale
efficacia verificata sugli animali, senza partire da dosi troppo basse. Si cerca una via di mezzo tra
una dose che abbia un minimo di effetto terapeutico e una più alta anche se ha un certo grado di
tossicità accettabile.
Prima di passare alla sperimentazione nell’uomo è obbligatorio svolgere i seguenti studi di
tossicità negli animali (oltre a quelli di tossicità acuta, subacuta, subcronica e cronica):
 Studi di tossicità d’organo appartenenti al:
- Sistema cardiovascolare
- Sistema respiratorio
- Sistema nervoso
- Studi di tossicità sul sistema immunitario
- Studi di tossicità riproduttiva che si indaga attraverso: studi di fertilità, sia nel maschio che nella
femmina: bisogna valutare se il farmaco impatta negativamente sulla fertilità dell’animale di sesso
femminile o sulla fertilità dell’animale di sesso maschile, studi sulla tossicità embrionale, studi
sulla tossicità fetale, che individuano la teratogenicità di un farmaco cioè la capacità del farmaco
in sperimentazione di indurre delle malformazioni sul feto che siano però compatibili con la vita.
Non vi è un aborto, ma il neonato avrà delle malformazioni che, eventualmente, possono essere
eliminate chirurgicamente dopo la nascita, tossicità perinatale, che si ha nel feto pochi giorni prima
della nascita o nel neonato pochi giorni dopo la nascita.
Un altro elemento che permette di definire una reazione avversa come grave (o seria) è
l’ospedalizzazione: se la reazione avversa del farmaco causa l’ospedalizzazione del paziente che lo
assume, per almeno 24h (ospedalizzazione de novo) oppure prolunga il tempo di ospedalizzazione
di un paziente già ricoverato, viene definita reazione avversa grave.
Dal punto di vista pratico la differenza fondamentale tra reazione avversa severa e reazione avversa
grave/seria, sia durante la fase la sperimentazione clinica, ma anche nel post marketing (cioè nella
fase successiva all’autorizzazione all’immissione in commercio del medicinale, dopo la sua
approvazione) è il tempo di segnalazione: le reazioni avverse gravi devono essere segnalate più
velocemente di quelle di minore entità, entro le 24h, durante la fase di sperimentazione (di pre-
marketing). Sarà l’operatore, che si occupa del paziente, a segnalare la reazione alla persona che si
occupa di elencare e studiare le reazioni avverse. Anche durante la fase di post-marketing è
necessario segnalare le reazioni avverse, e quelle gravi devono essere segnalate sempre più
velocemente rispetto a quelle di minore entità, per esser poi inserite nel catalogo generale di tutte le
reazioni avverse di quel farmaco. Esistono due cataloghi generali delle reazioni avverse, uno
nazionale e uno europeo. La differenza pratica tra reazioni gravi e non gravi risiede, quindi, anche
nella velocità d’inserimento nel catalogo generale delle reazioni avverse.
Terminati gli studi di preclinica obbligatori (che devono essere fatti necessariamente in precedenza,
a differenza di quelli non obbligatori che possono essere effettuati anche dopo o durante la
sperimentazione nell’uomo) si inizia la sperimentazione nell’uomo.

Studi clinici
Organizzazione dello studio clinico
Si ha uno sponsor, di solito una casa farmaceutica, che finanzia, organizza e sovrintende la
sperimentazione clinica. I grandi studi clinici, spesso già avviati alla fase I o alla fase II, sono
multicentrici, quindi svolti in diversi ospedali e centri clinici, e ogni centro ha il suo investigatore
principale.
Ogni investigatore è responsabile della condotta della sperimentazione nel suo sito e si accerta che
lo studio venga svolto rispettando il protocollo che è stato dettato dallo sponsor. Se le GCP non
vengono rispettate, lo studio è invalidato. Nel momento in cui sono determinati gli studi clinici,
se i risultati sono positivi le case farmaceutiche vogliono far approvare il loro farmaco. Affinché
questo avvenga bisogna sottomettere tutti i dati che sono stati collezionati nel corso dei diversi studi
a un’agenzia che provvederà all’elaborazione dati.
Oltre alla valutazione, l’agenzia si occupa anche di inviare eventualmente degli ispettori nei luoghi
dove sono stati effettuati gli studi clinici per controllare le aderenze alle linee guida. La non
aderenza al protocollo, soprattutto su alcuni punti fondamentali, sia che questa sia volontaria che
involontaria, può invalidare lo studio anche se questo ha avuto risultati positivi.
Gli studi clinici sono di 4 tipi: i primi 3 (Fasi 1-2-3) sono studi pre-marketing, quindi prima
dell’approvazione e della commercializzazione del farmaco.
Studi di fase 1
Consiste nel first in human study, in cui per la prima volta si somministra il farmaco all’uomo. A
questa fase appartengono gli studi di sicurezza del farmaco (fino ad ora applicati solo negli
animali). Se si osservano effetti avversi gravi e non tollerabili o che comunque non sono compatibili
con la patologia che si vuole curare, si interrompe la sperimentazione. Seguono poi gli studi di
farmacocinetica.
Nella fase 1 la sperimentazione si fa in volontari sani, ad eccezione dei farmaci oncologici, che
hanno molti effetti collaterali e che quindi vengono somministrati direttamente nei pazienti con
tumore; negli studi di fase 1 i pazienti oncologici non devono necessariamente essere affetti da un
solo tumore, ma possono presentarne anche più tipi che, compatibilmente con il meccanismo
d’azione del farmaco, è possibile curare.
Si tratta di studi a braccio singolo, indicati con l’acronimo SAT (single arm trial), nei quali non è
presente un gruppo di controllo: tutti i partecipanti allo studio, quindi, riceveranno il farmaco che si
sta sperimentando. In fase 1 vengono arruolati tra i 50-80 pazienti.
Negli studi di sicurezza della fase 1 l’obiettivo è determinare la MTD direttamente nell’uomo.
La MTD è la Maximum Tolerated Dose e dopo averla determinata nell’animale, va individuata
anche nell’uomo. Per determinarla ci si basa sul concetto di livello di dose tossica nell’uomo:
vengono effettuati degli Studi 3+3, nei quali si somministra una prima dose a 3 pazienti e si osserva
se qualcuno di loro sperimenta la Dose Limiting Toxicity DLT, cioè una tossicità così elevata da
limitare la dose che può essere somministrata, in questo caso la dose è troppo alta perché evoca
effetti avversi non tollerabili. Se nessuno dei tre pazienti, che ricevono la prima dose, sperimenta
la dose limiting toxicity (DLT) si sale di dose: ad esempio, si somministra una prima dose di 10
mg/kg e non si osserva nessuna tossicità rilevante, tale da non permettere di utilizzare quella dose;
si può quindi aumentare via via la dose fino a quando almeno 1 dei 3 pazienti sperimenta una
tossicità non tollerabile (ovvero una tossicità di grado 3 e 4, rispettivamente “molto grave” e
“morte”). A questo punto vengono selezionati altri 3 pazienti e si somministra loro la stessa dose
che aveva provocato la tossicità in almeno uno dei 3 pazienti precedenti. Quindi se si verifica una
DLT in 1 paziente su 3, si somministra la stessa dose in altri 3 pazienti e, se anche in questo
caso, si verifica una DLT in almeno 1 paziente su 3, questo significa che è stata raggiunta la
DLT. In totale la dose limiting toxicity viene osservata in almeno 2 pz su 6 e rappresenta la dose
che non può essere somministrata all’uomo perché induce effetti avversi non tollerabili. A partire
dalla DLT, scendendo di una dose, può essere calcolata la MTD, cioè la massima dose tollerata:
la MTD è la dose immediatamente precedente la DLT ( Dose Limiting Toxicity). Nelle fasi
successive non potrà essere somministrata una dose più alta della Massima Dose Tollerata (MTD).
Quanto detto finora riguarda gli studi di sicurezza della fase 1.
Gli studi di farmacocinetica della fase 1 sono gli studi che seguono il destino del farmaco
all’interno dell’organismo in cui è stato somministrato e si dividono in:
- studi sull’assorbimento
- studi sulla distribuzione del farmaco nell’organismo
- studi sul metabolismo del farmaco
- studi sull’eliminazione o escrezione del farmaco.
I dati che si ricavano da questi studi servono a determinare la posologia del farmaco. Quindi, lo
studio di fase 1 serve a raccogliere le dosi per la fase 2, ma non è detto che arrivati a questo punto
si passi subito alla fase 2. La percentuale di successo di un farmaco è piuttosto basso in media,
solo il 50% superano la fase 1, quindi per ragioni di sicurezza vista la tossicità del farmaco e
l’assenza di efficacia, non si prosegue con lo studio. Se la fase 1 è positiva si passa alla fase 2.
Che cos’è la posologia di un farmaco? Essa comprende:
 la dose o le dosi del farmaco
 l’intervallo di somministrazione tra le dosi (l’intervallo è variabile, ad esempio in alcuni casi è di 4
ore, in altri casi, quando il farmaco è a lento rilascio, può essere di una settimana o addirittura alcuni
farmaci vengono somministrati una volta al mese)
 la via di somministrazione (es. per bocca; per iniezione intramuscolare etc.).
Oltre agli studi di farmacocinetica, anche gli studi di farmacodinamica (che riguardano il
meccanismo d’azione del farmaco) e gli studi di sicurezza concorrono a determinare la posologia
del farmaco.
Molto spesso ad uno stesso paziente non viene somministrato un solo farmaco: la patologia può
richiedere la somministrazione di più farmaci oppure il paziente è affetto da più patologie e
quindi assume più farmaci. La pluriterapia è infatti una condizione abbastanza comune e per
questo bisogna conoscere le interazioni tra farmaci dati allo stesso paziente; esse sono studiate
dalla branca della farmacocinetica che si occupa del metabolismo. Sono possibili diverse
interazioni:
 i farmaci non interagiscono tra loro;
 il loro effetto può sommarsi o addirittura moltiplicarsi;
 un farmaco può inibire l’azione dell’altro;
 un farmaco può aumentare gli effetti avversi dell’altro.
Questo tipo di interazioni avviene principalmente a livello farmacocinetico, cioè durante il
metabolismo del farmaco: ad esempio, alcuni farmaci sono metabolizzati dello stesso enzima, per
cui si verificherà competizione tra i due per essere metabolizzati, oppure alcuni farmaci possono
indurre o inibire alcuni enzimi (es. se viene somministrato un farmaco A, metabolizzato da un certo
enzima, e un farmaco B che inibisce quello stessa enzima, allora il metabolismo del farmaco A sarà
influenzato dal secondo farmaco). Nella maggior parte dei casi, quindi, l’interazione è di tipo
metabolica (di pertinenza farmacocinetica).
Un’interazione di tipo farmacodinamico può verificarsi invece quando i meccanismi d’azione dei
farmaci, in qualche punto, coincidono e quindi si verifica un’interferenza: può essere positiva, cioè
si ha un aumento, una facilitazione dell’effetto farmacologico, oppure negativa, cioè si ha un
blocco, un’inibizione dell’effetto farmacologico.
Gli studi di farmacocinetica studiano anche la fase di eliminazione del farmaco e possono fornire ad
esempio, indicazioni su come in pazienti diversi l’eliminazione del farmaco può variare: ad
esempio, se ad un paziente viene somministrato un farmaco che è escreto dal rene e il rene del
paziente funziona di meno, si può prevedere a priori un maggior rischio di effetti avversi; in questo
caso sarà opportuno diminuire la dose, dato che il farmaco rimarrà più a lungo nell’organismo.
(tutte queste informazioni sono disponibili e usufruibili dal medico, una volta che il farmaco viene
messo in commercio).
Terminati gli studi di fase 1, si procede con gli studi di fase 2.
Studi di Fase 2
A cosa servono? Sono studi di dose finding, che servono a determinare la dose o le dosi (di solito
almeno due) da testare poi negli studi di fase 3. Gli studi di fase 3 sono gli studi che maggiormente
riescono a dare informazioni sull’efficacia e sicurezza del farmaco: se sono compatibili con un
rapporto beneficio-rischio positivo ne determinano l’approvazione.
Quindi, gli studi di fase 3 sono quelli che permettono l’approvazione del farmaco, perché ne
determinano l’efficacia e la sicurezza, e se l’efficacia e la sicurezza determinano un rapporto
beneficio-rischio positivo, il farmaco potrà essere approvato e immesso in commercio. Cosa
significa rapporto beneficio-rischio positivo? I benefici sono gli effetti terapeutici del farmaco (un
miglioramento, l’arresto della progressione delle patologie, la guarigione, un rallentamento della
malattia, prevenzione o diagnosi, se si tratta di un farmaco diagnostico). I rischi sono gli effetti
avversi. Alla fine di tutto l’iter di sviluppo del farmaco, si valutano tutti i benefici e tutti i rischi e si
fa il rapporto beneficio-rischio che deve essere positivo per l’approvazione (i benefici sono al
numeratore, i rischi al denominatore, quindi quando i benefici sono maggiori dei rischi il rapporto è
positivo).
Questo rapporto si può ottenere soprattutto attraverso gli studi di fase 3, che studieranno solo alcune
dosi del farmaco, cioè quelle che dagli studi di fase 2 sono emerse come efficaci e sufficientemente
tollerate dal paziente, cioè sicure. Quindi gli studi di fase 2 (di dose finding) oltre alla sicurezza
studiano l’efficacia del farmaco, stabilendo così quali sono le dosi potenzialmente efficaci e
sufficientemente sicure. Questo si può fare perché la popolazione è numericamente maggiore (si
arriva a circa 100-200 pazienti), e soprattutto vengono reclutati soggetti che presentano la specifica
patologia, veri e propri pazienti. In media gli studi di fase 2 hanno il 30% di successo.
Come vengono svolti questi studi? Si conducono nei pazienti affetti dalla patologia per la quale si
sta sviluppando il farmaco. Normalmente prevedono un braccio di controllo (quindi hanno almeno
due bracci) e possono o non possono essere randomizzati.
La randomizzazione è la distribuzione casuale dei pazienti nei due gruppi (uno riceve
effettivamente il farmaco, mentre l’altro è un gruppo di controllo). Non tutti gli studi di fase 2 sono
randomizzati e non tutti hanno un braccio di controllo, anche se la maggior parte delle volte, quando
è possibile lo si preferisce. Normalmente nella fase clinica 2 vengono arruolati tra i 100-400
pazienti in tutto.
I criteri di inclusione sono: manifestazione della patologia in esame dimostrata con valori e analisi
di laboratorio, fascia d’età etc; mentre i criteri di esclusione sono: comorbidità, eventuali deficit
significativi, infezioni non controllate etc. In base a questi criteri il paziente è associato a diversi
bracci, oppure questa assegnazione può avvenire in maniera casuale e automatica.
La randomizzazione serve a bilanciare i diversi bracci della sperimentazione, evita che in un
braccio ci siano tutti pazienti con le stesse caratteristiche, e che i pazienti con responsività maggiore
al farmaco siano tutti nello stesso braccio, soprattutto se questo viene poi confrontato con un gruppo
di controllo.
In caso contrario i risultati ottenuti non sarebbero affidabili perché un braccio presenterebbe i
soggetti più responsivi o tutti potrebbero capitare nel gruppo di controllo e quindi i risultati
risulterebbero falsati.
Bisogna assicurarsi che i bracci siano equilibrati, che quindi i pazienti di diversi gruppi siano
paragonabili tra loro. La randomizzazione impatta fortemente sull’attendibilità dello studio.
Gli studi randomizzati, per il solo fatto di essere casuali, danno risultati più attendibili rispetto ai
non randomizzati, nei quali non si può escludere che ci siano fattori ignoti che hanno impattato sulla
risposta alla terapia di un determinato gruppo. Nel momento in cui si randomizza, questi fattori
continuano ad esistere, ma vengono suddivisi in modo bilanciato tra i due gruppi, quindi non
impattano più.
Per distinguere uno studio con gruppi randomizzati da uno con assegnazione determinata si
utilizzano le lettere: A non randomizzati o senza braccio di controllo e B randomizzati o con
braccio di controllo. Attraverso i dati ricavati nella fase 2 per la sicurezza e l’efficacia ci sarà la
cosiddetta “finestra terapeutica”, ossia l’intervallo tra la dose minima efficace e la dose massima
tollerata. Se lo studio di fase 2 è positivo, si può passare allo studio di fase 3.
Studi di Fase 3
Se il farmaco ha superato la fase 2 si passa agli studi di fase 3, che normalmente dovrebbero essere
degli RCT, cioè studi randomizzati e controllati, dove c’è un braccio di controllo al quale si da
un placebo o un altro farmaco già approvato per quella stessa patologia, mentre l’altro braccio
riceve il farmaco della sperimentazione. In base al numero di dosi da sperimentare ci sono un certo
numero di bracci. Gli studi RCT sono il gold standard, cioè il tipo di studi da preferire, che con la
maggiore certezza ci fornisce dati di efficacia e sicurezza di quel farmaco: questo è dovuto alla
presenza del braccio di controllo e della randomizzazione. La randomizzazione consente una
distribuzione più bilanciata dei pazienti nei diversi bracci. Bisogna considerare che ogni
paziente ha caratteristiche, sia di tipo demografico, che di tipo clinico diverse: le caratteristiche
demografiche comprendono l’età, il peso, l’altezza, il sesso e l’etnia (dal punto di vista patogenetico
in ogni etnia sono presenti diversi enzimi, che possono avere differente attività e quindi anche gli
effetti avversi causati da un farmaco potrebbero essere diversi, si osserva inoltre anche una diversa
prevalenza di alcune patologie); ogni paziente ha anche una diversa storia clinica (che comprende
quali patologie ha avuto prima di esser stato incluso nello studio, da quanto tempo si è manifestata
la patologia, se ha assunto farmaci o ha altre patologie). Bisogna assicurarsi, quindi, che i
pazienti arruolati siano distribuiti in termini di caratteristiche demografiche e cliniche in
modo bilanciato (perché se ad esempio, si inseriscono un maggior numero di pazienti anziani in
gruppo piuttosto che nell’altro, si possono verificare delle risposte al farmaco che non dipendono
dal farmaco stesso, ma ad esempio i maggiori effetti tossici potrebbero essere dovuti al fatto che
negli anziani il farmaco viene eliminato più lentamente; oppure in assenza di randomizzazione
potrebbero essere inseriti pazienti che hanno una malattia a decorso benigno e questo potrebbe
indurre ad attribuire un effetto benefico al farmaco, che in realtà non ha). Assegnando a caso un
numero sufficientemente elevato di pazienti nei due gruppi ci si assicura che siano bilanciati. La
randomizzazione permette di affermare che i risultati ottenuti dal trial siano, con ragionevole
certezza, attribuibili al farmaco e non ad altri elementi che potrebbero alterare il risultato.
I gruppi devono essere così numerosi perché l’obiettivo della fase 3 è quello di individuare
eventuali effetti avversi che hanno una frequenza medio-alta, che vanno da 1/200 a 1/800. Per
determinare il profilo di sicurezza di un farmaco bisogna unire i dati di sicurezza ottenuti da tutti i
gruppi e da tutti gli studi per valutare l’esposizione totale. Tuttavia, la popolazione della fase 3 che
prova il farmaco sarà diversa dalla popolazione che lo riceverà quando sarà messo in commercio,
sia per numerosità che per eventuali comorbidità.
Completati i primi studi, composto il dossier con tutti i dati, presentato e approvato il dossier dalla
comunità scientifica, si può procedere con l’autorizzazione del farmaco e soprattutto con la sua
commercializzazione per passare alla fase 4. Alcuni studi di fase 4 sono commissionati al momento
dell’autorizzazione del commercio. L’autorità che ha autorizzato il farmaco può determinare che
quel farmaco vada ancora sperimentato sulla popolazione generale per vedere ulteriori effetti. Gli
studi post-marketing non possono essere seguiti come quelli pre-marketing, ad esempio con un
braccio di controllo perché ormai il farmaco è in commercio, quindi sono studi soltanto
osservazionali.
Non sempre è possibile effettuare degli studi con il braccio di controllo (RCT). Quali sono i
casi in cui questo non è possibile e sarà obbligatorio un SAT (single arm trial)?
 farmaci per le malattie rare: queste malattie hanno una prevalenza molto bassa; nell’Unione
Europea, per definire rara una malattia deve avere una prevalenza inferiore a 5 su 10.000 soggetti.
I farmaci per le malattie rare prendono il nome di farmaci orfani ed hanno una legislazione
specifica. I problemi per lo sviluppo di questi farmaci sono: la fattibilità degli studi, perché possono
essere reclutati pochi pazienti, e i costi per l’industria farmaceutica, perché anche se il costo per lo
sviluppo di un farmaco qualunque, rispetto ad uno per una malattia rara sia lo stesso, il guadagno
economico ricavato dalla vendita del farmaco, in quest’ultimo caso, è molto minore, essendo pochi i
pazienti a cui serve. La legislazione ha introdotto dei benefici di tipo economico per far diventare
conveniente lo sviluppo di questi farmaci e per invogliare l’industria a fare questi studi. Per le
malattie rare, soprattutto quando hanno una prevalenza molto bassa, è difficile ottenere un braccio
di controllo, perché manca una numerosità sufficiente a dare validità statistica ai risultati; quindi, si
preferisce procedere con il SAT, piuttosto che con un RCT.
 farmaci per i pazienti oncologici all’ultimo stadio, cioè che hanno esaurito tutte le possibilità
terapeutiche esistenti. Con questi pazienti non si può fare un braccio di controllo, perché questo
implicherebbe selezionare alcuni pazienti, che non hanno nessun’altra speranza, da inserire nel
braccio che riceve il farmaco sperimentale e che quindi hanno qualche probabilità di trarne
beneficio, mentre gli altri sarebbero destinati a ricevere un placebo oppure un farmaco che hanno
già usato e che non ha funzionato. Per questo si procede con un SAT in modo che tutti i pazienti
possano ricevere il farmaco e trarne beneficio.
 farmaci pediatrici, questi non possono essere testati con gli RCT, perché è poco etico e perché i
genitori non accetterebbero mai che il bambino sia randomizzato, rischiando di ricevere il placebo.
In molti studi randomizzati controllati, dopo un certo periodo di tempo, è possibile il cross over,
cioè l’incrocio dei pazienti che hanno ricevuto il placebo e che possono essere trasferiti al gruppo
che riceve il farmaco sperimentale, quando lo studio finisce. Anche se esiste il cross over, è molto
difficile in pediatria organizzare uno studio randomizzato controllato, perché i genitori non sono
disposti ad acconsentire lo studio e perché non è considerato etico randomizzare un bambino in un
braccio di controllo.
L’industria farmaceutica tende ad evitare gli studi RCT, preferendo gli studi a braccio singolo SAT
anche per un motivo economico; l’industria tende quindi ad esagerare le difficoltà che
eventualmente riscontrerebbe nel condurre un RCT, per poter giustificare la scelta di fare un SAT.
Lo studio RCT, tuttavia, ci assicura maggiore certezza dei risultati, sia di efficacia che di
sicurezza.
Un’altra differenza tra studi randomizzati controllati e quelli a braccio singolo è nella scelta
degli End Point: è necessario essere in grado, quando si legge uno studio clinico, di capire cosa
realmente quello studio clinico ha o non ha dimostrato; non è sufficiente leggere i risultati, ma
bisogna capire com’è stato realizzato lo studio, quali parametri sono stati valutati e la sua rilevanza
clinica. I parametri valutati nello studio sono gli End Point (o misure di esito). Gli End Point
vengono suddivisi in base a due definizioni:
1. Primari e Secondari
2. Clinicamente rilevanti e Surrogati.
A cosa servono gli end point primari e come vengono scelti?
Agli studi clinici si applica un’analisi statistica, che permette di asserire che la differenza di
efficacia, che si osserva nei due gruppi, abbia un significato statistico, cioè che sia statisticamente
significativa (ciò vuol dire che è attendibile). Quando si disegna uno studio clinico, è necessario
arruolare un certo numero di pazienti e per sapere quanti ne devono essere arruolati, bisogna
calcolare il numero necessario affinché il risultato dello studio che si ottiene sia
statisticamente significativo con una buona probabilità: lo studio deve avere una numerosità tale
da poter far prevedere che, la differenza osservata tra i due gruppi sia, con una buona probabilità,
statisticamente significativa (se non è statisticamente significativa, significa che lo studio non ha
dimostrato l’efficacia del farmaco). Per fare il calcolo del campione, bisogna trovare un end point
da misurare, che dovrà essere statisticamente differente tra i due gruppi; gli end point primari
corrispondono, quindi, a misure di esito di efficacia del farmaco, sulle quali viene fatta un’analisi
statistica, e che devono essere facilmente misurabili nel corso dello studio. Tutti gli studi hanno
durata limitata nel tempo, (altrimenti se lo studio fosse troppo lungo i pazienti lo abbandonerebbero
spontaneamente e avrebbe un costo troppo elevato) di solito di massimo 4 anni, e quindi, la misura
di esito che si sceglie come end point primario, si deve verificare nell’arco di tempo dello studio; ad
esempio se si sceglie la mortalità come misura di esito, si deve valutare la diminuzione della
mortalità in seguito all’assunzione del farmaco; tuttavia la morte del paziente si potrebbe verificare
in un lasso di tempo molto più lungo rispetto alla durata dello studio e diventa così difficile seguire
il paziente per così tanti anni; quindi, è poco possibile usare nella realtà la mortalità come end point
primario, anche se è clinicamente molto rilevante. Quindi gli end point primari non sono, nella
maggior parte dei casi, gli end point clinici più rilevanti per il paziente, perché quelli più
rilevanti richiedono molto tempo affinché si verifichino, e quindi richiederebbero uno studio
clinico molto lungo, e anche un’elevata numerosità del campione (in questo caso aumenterebbe
la probabilità che qualcuno muoia prima). Questi end point (morte), clinicamente molto rilevanti,
diventano end point secondari, che non vengono usati per il calcolo statistico e per il potere
dello studio (che rappresenta la probabilità dello studio di generare risultati statisticamente
significativi e che dipende dalla numerosità del campione). Gli end point primari, anche se
clinicamente meno rilevanti servono, quindi, per il calcolo della numerosità del campione e
per l’analisi statistica. La distinzione tra i primari e secondari consiste proprio nel fatto che i primi
(primari) servono a determinare la numerosità sulla quale fare analisi statistica.
Gli end point clinicamente rilevanti, come la riduzione della mortalità, comprendono tutti gli
eventi morbosi che si verificano nella storia clinica della malattia; ad esempio, ci sono patologie
che possono portare a infarto del miocardio, ictus, fratture ossee etc. Questi sono tutti eventi
morbosi che appartengono alla storia naturale della malattia, cioè allo sviluppo normale di questa
nella popolazione, in assenza di interventi terapeutici.
Gli end point surrogati sono delle variabili di tipo anatomico, fisiologico, ormonale che
vengono osservate e registrate attraverso degli esami di laboratorio o con indagini di imaging
(RX, RMN, TAC etc.); ad esempio, può essere misurata la variazione di pressione arteriosa, della
frequenza cardiaca, della frequenza respiratoria, dei livelli ormonali etc; un esempio di variazione
anatomica, nella sclerosi multipla, è rappresentata dalle lesioni che possono essere osservate con la
risonanza. Questi end point sono di tipo surrogato perché, ad esempio, il fattore che il farmaco deve
controllare non è la variazione della pressione in sé, ma i danni causati dall’aumento cronico della
pressione.
Affinché un end point surrogato possa essere, invece, utilizzato come end point clinico
primario, deve essere stabilita la relazione di tipo quantitativo tra endpoint surrogato ed
endpoint clinicamente rilevante. Ad esempio, è possibile utilizzare la variazione della pressione
come end point primario, solo se nei precedenti studi su farmaci simili e patologie simili si è
dimostrato che, al variare della pressione, corrisponde la variazione di un endpoint clinicamente
rilevante. In assenza di questa dimostrazione l’endpoint surrogato non può essere utilizzato. La
relazione deve essere di tipo quantitativo: ad esempio, bisogna sapere se ad una riduzione del
10% della pressione equivalga una diminuzione del rischio di mortalità a dieci anni del 20%, cioè
serve correlazione tra variazione dell’endpoint surrogato e variazione di quello clinico. Questa
dimostrazione di correlazione deve essere di tipo quantitativo e deve essere fatta
precedentemente: l’endpoint surrogato deve essere stato validato e la validazione si ha solo
quando si dimostra questa consistenza di tipo quantitativo nella variazione dei due endpoint
(surrogato e clinicamente rilevante). Molto spesso questa dimostrazione di tipo quantitativo non c’è,
ma è solo di tipo qualitativo; ad esempio, può essere del tipo: se diminuisce la pressione sotto certi
livelli migliora la speranza di vita del paziente. Se la relazione è solo di tipo qualitativo, vuole dire
che l’impiego di quell’endpoint surrogato sarà meno apprezzato.
Quindi, quando bisogna utilizzare gli endpoint surrogati come endpoint primari, i migliori benefici
si ottengono quando gli endpoint sono stati quantitativamente validati.
Questo discorso è valido per gli RCT. Per gli studi SAT esiste invece una differenza: non possono
essere usati gli stessi endpoint di un RCT. Negli RCT si hanno endpoint surrogati primari ed
endpoint secondari clinicamente rilevanti: questi ultimi, come la mortalità o altri eventi morbosi,
possono essere seguiti nel tempo anche quando lo studio è terminato.
Nel SAT, non possono essere usati endpoint tempo-correlati, come la mortalità, e questo
perché manca il braccio di controllo: non è possibile, in questo caso, escludere che alcune
caratteristiche intrinseche al paziente, principalmente correlate alla sua storia clinica, possano aver
influito sul risultato finale dello studio; potrebbe succedere che per qualche motivo vengano
arruolati pazienti che hanno una storia clinica tale che la patologia abbia un decorso favorevole, che
erroneamente potrebbe essere attribuito al farmaco (non si hanno termini di confronto per
paragonare l’azione del farmaco); nel caso della mortalità, end point tempo-dipendente, una sua
diminuzione può avvenire anche per caso: se ad esempio, dalla storia clinica di quella malattia si sa
che l’aspettativa di vita è di un anno, si arruolano pazienti, si somministra il farmaco e i pazienti
sopravvivono per più di un anno, non è possibile sapere se questo sia dovuto all’effetto del farmaco
o se sarebbero comunque vissuti un anno e mezzo, indipendentemente dalla terapia. Quindi, nel
SAT, non avendo un braccio di controllo, per alcuni end point, non si può stabilire se l’effetto sia
dovuto al farmaco o alla storia naturale della malattia di quel paziente.
Nel caso di un farmaco antitumorale viene usato un SAT, la mortalità quindi non è un end point
principale che può essere utilizzato, perché i dati ricavati dallo studio avrebbero scarso significato.
Si possono utilizzare end point che prendono in considerazione la risposta al farmaco del tumore.
La risposta al farmaco del tumore è la riduzione del carico tumorale. Il carico tumorale
comprende la grandezza del tumore primario, se sono coinvolti linfonodi e il numero di linfonodi
coinvolti. Il carico tumorale deve essere calcolato prima di iniziare la terapia, con studi di imaging
(principalmente risonanza) e successivamente deve essere misurato alla fine dello studio. Si potrà
vedere se il tumore è regredito, se è scomparso, se è rimasto uguale o è peggiorato: è questa la
risposta al farmaco del tumore, e si può utilizzare perché è impossibile che un tumore maligno
regredisca spontaneamente, senza intervento farmacologico. In questo caso, anche in assenza di un
braccio di controllo, se si osserva una riduzione del carico tumorale, si è ragionevolmente sicuri che
sia dovuta al farmaco, dato che la probabilità che regredisca da solo è estremamente bassa. Quindi
in un SAT, con ragionevole certezza, se si sceglie come endpoint primario la risposta del tumore al
farmaco, si può affermare che si è osservato un risultato e che questo sia dovuto al farmaco, anche
in assenza del braccio di controllo.
Utilizzare come end point primario, in un SAT, la risposta al farmaco del tumore è sufficiente
a determinare l’efficacia del farmaco su un tumore?
No, perché bisogna considerare per quanto tempo dura l’effetto del farmaco (è diverso avere un
farmaco che fa sparire un tumore, che non sarà rilevabile ai mezzi diagnostici, per un mese oppure
per un anno). Per questo, la risposta del tumore alla terapia deve essere accompagnata da un altro
end point, la durata della risposta: una volta osservata la risposta, bisogna determinare per quanto
tempo il tumore risponde alla terapia. Questi due end point sono i principali ad essere usati nei SAT
per i farmaci antitumorali, in quanto sono indipendenti dalla presenza di un braccio di controllo.
Una volta completati gli studi di fase 3 si può richiedere l’autorizzazione alla messa in commercio
del farmaco.
Studi di fase 4
Sono studi detti post-marketing, ovvero dopo l’immissione in commercio del farmaco; essi mirano
soprattutto a valutare la sicurezza a lungo termine di un farmaco; infatti, gli studi clinici pre-
marketing devono avere una certa durata, non possono essere troppo lunghi, tuttavia sappiamo che
ci sono alcuni effetti avversi che si manifestano anche dopo parecchi anni dall’inizio della terapia
che per questo non verrebbero rilevati negli studi pre-marketing.
Si tratta di studi di tipo osservazionale (non posso controllare o intervenire direttamente sul
paziente come negli studi di pre-marketing), osservando semplicemente cosa succede al paziente
dopo che ha assunto il farmaco e se si verificano eventi avversi. L’altro vantaggio (oltre osservare
gli effetti a lungo termine) è quello di poter osservare un gran numero di soggetti, in quanto una
volta che il farmaco è stato commercializzato il numero dei soggetti che lo assumono è nettamente
maggiore rispetto ai soggetti utilizzati negli studi clinici e questo consente di poter osservare se si
verificano effetti avversi rari.
Inoltre, si possono studiare sottopopolazioni di pazienti che magari precedentemente erano stati
esclusi perché presentavano più patologie o patologie più gravi e valutare gli effetti del farmaco in
presenza di queste ultime. Tutto ciò determina una maggiore conoscenza del profilo di sicurezza e si
ottiene un riassunto delle caratteristiche del farmaco.
Oltre alla sicurezza, gli studi di fase 4 permettono di valutare la cosiddetta effectiveness del
farmaco, diversa dall’efficacia, che si definisce come la capacità del farmaco di curare la
patologia nella pratica clinica. Ciò significa che durante uno studio clinico pre-marketing vengono
selezionati dei pazienti che sono affetti da quella specifica patologia, ma che non hanno altre
patologie concomitanti perché bisogna valutare il preciso effetto di quel farmaco sulla determinata
patologia, per non avere dei dati confusi da altre comorbidità.
Effectiveness = misura il grado di efficacia nel trattare la malattia, la tolleranza al farmaco e
l’adesione alla terapia nella pratica clinica.
La tollerabilità in uno studio clinico si misura con:
- eventi avversi indotti dal farmaco che portano ad interruzione permanente o a diminuzione
della dose;
- bisogno di terapie di supporto;
- ospedalizzazione.
La tollerabilità impatta sullo stile di vita del paziente e sulle attività quotidiane ed influenza la
compliance del paziente alla terapia.
La popolazione dello studio è ben selezionata e non coincide con la popolazione reale alla quale
viene applicato il farmaco. Per esempio, negli studi clinici di un farmaco per la sclerosi multipla si
evita di reclutare soggetti affetti da insufficienza cardiaca o altre patologie anche più diffuse. Nella
pratica però è molto probabile che il paziente manifesti entrambe le patologie, quindi si possono
avere effetti diversi. Per questo motivo lo studio di fase 4 non è di tipo interventistico, ma si
limita ad osservare questi eventuali effetti in soggetti inclusi nello studio quando il farmaco è già
stato approvato, messo in commercio e somministrato al paziente come terapia.
Il ricercatore non interviene per modificare la dose o effettuare esami perché sono compiti che
spettano al medico curante del paziente, ma osserva soltanto quello che al paziente viene fatto
durante il suo normale percorso di cura e registra i dati. Questa fase può durare molto tempo, anche
anni, soprattutto se si tratta di una patologia cronica e il paziente deve assumere il farmaco a vita. Si
osserva ogni variazione della terapia, evento avverso, eventuali modifiche delle dosi e si registra
ogni novità della pratica clinica. L’effectiveness valuta soprattutto anche l’adesione del paziente
alla terapia, e come modifiche di questa causino effetti sulla cura, la tolleranza del paziente per il
farmaco, l’efficacia reale etc.
In questa fase si possono reclutare anche solo alcune sottopopolazioni, per vedere come reagisce
un soggetto affetto dalla patologia contrastata dal farmaco e simultaneamente da un’altra specifica
patologia. Negli studi clinici questi soggetti sono esclusi, mentre ora vengono attivamente scelti per
lo studio osservazionale e per valutare l’efficacia del farmaco in queste sottopopolazioni.
La tolleranza si vede negli eventi avversi che portano alla prematura interruzione della terapia
oppure alla diminuzione della dose, eventi inediti che fino alla commercializzazione non si
conoscevano o infine a effetti collaterali che portano, ad esempio, a ospedalizzazione.
Il riassunto delle caratteristiche del farmaco è un documento redatto in seguito al processo di
approvazione di un farmaco e che include tutti i dati che sono stati ottenuti sul farmaco durante il
processo di sviluppo e dagli studi post-marketing. Un nuovo farmaco viene approvato in seguito ad
una richiesta dell’industria alle agenzie regolatorie.
In Europa abbiamo 4 modalità per approvare un farmaco:
 Approvazione nazionale: permette di approvare un farmaco solo in uno Stato e quindi il farmaco
può essere commercializzato solo in quello Stato.
L’industria deve fornire un dossier contenente tutte le informazioni sulla produzione del farmaco,
sulla qualità, sui dati di pre-clinica, sui dati degli studi clinici e infine su efficacia e sicurezza.
Il dossier presenta uno standard predefinito in cui sono presenti varie sezioni da compilare.
Questo dossier va quindi presentato all’autorità che si occupa di permetterne l’approvazione (in
Italia AIFA). L’AIFA analizza i dati e il rapporto beneficio/rischio: se il beneficio è maggiore del
rischio per quella malattia viene approvato. Una volta approvato, il farmaco, deve subire un ulteriore
passaggio e deve essere vagliato per l’eventuale inserimento all’interno dei farmaci rimborsabili
dal servizio sanitario nazionale. Per l’approvazione al rimborso dal servizio sanitario nazionale la
valutazione è effettuata da un’ulteriore commissione dell’AIFA che valuta non più il rapporto
beneficio/rischio, ma il rapporto costo/beneficio.
 Approvazione centralizzata europea: in cui la domanda viene presentata all’EMA (= Agenzia
Medicinali Europea). Se il medicinale viene approvato viene messo in commercio in tutti e 27 i
paesi dell’UE contemporaneamente; quello che cambia all’interno dei singoli Stati è la decisione
sulla rimborsabilità, infatti ogni Stato può decidere autonomamente se rimborsarlo o meno.
L’EMA è un’agenzia europea che precedentemente aveva sede a Londra, ma adesso che la Gran
Bretagna è uscita dall’UE è stata spostata in Olanda ad Amsterdam. L’EMA è costituita da 7
comitati:
- CHMP (= Committee for Human Medicine Products) è il comitato che valuta il dossier del
farmaco ed emana, alla fine della valutazione, un parere positivo o negativo, approvando o
meno la messa in commercio del farmaco;
- PRAC (= Pharmacovigilance Risk Assessment Committee) che si occupa del monitoraggio
della sicurezza, quindi vigilanza e valutazione del rischio per farmaci principalmente in post-
marketing.
- COMP: comitato per l’assegnazione dello stato di farmaco-orfano. Infatti, per i farmaci
per le malattie rare per incentivare le industrie a produrli ci sono delle agevolazioni. Ma
l’assegnazione dell’etichetta di farmaco-orfano non è automatica, bisogna infatti dimostrare
che la malattia è rara a un comitato specifico dell’EMA. Questo comitato non è responsabile
dell’approvazione del farmaco (per cui è sempre necessario il CHMP), ma solo della
definizione di farmaco-orfano. Se il farmaco viene indicato come farmaco-orfano ciò
permette di poter accedere alle agevolazioni economiche, vantaggiose visto il pubblico
ridotto a cui è rivolto. Questo comitato però non determina l’approvazione o meno a
commercializzarlo, di questo si occupa sempre il CHMP.
- CAT: comitato che valuta le terapie avanzate in cui con terapie avanzate si indicano le
terapie con cellule somatiche, le terapie geniche e le terapie di ingegneria tissutale. I
farmaci per le terapie geniche sono farmaci che consistono in porzioni di DNA e RNA; le
terapie cellulari con cellule somatiche consistono in farmaci che sono cellule somatiche
significativamente modificate in modo da avere una struttura, dei meccanismi biologici e
un’attività funzionale diversa, oppure sono cellule che vengono poi utilizzate, una volta
immesse nell’organismo, con scopi diversi rispetto a quelli che avevano originariamente
nell’organismo. Queste cellule possono originare o dallo stesso paziente o prese da donatori
o prese da specie animali diverse. Infine, le terapie di ingegneria tissutale sono cellule o
tessuti utilizzati per ripristinare cellule o tessuti danneggiati. Si tratta di farmaci molto
complessi e per questo queste terapie vengono sottoposte ad un organo specializzato e
competente in queste specifiche terapie. Il CAT dopo aver valutato emana un parere o
positivo o negativo che viene poi riportato al CHMP che dà il parere finale.
- PDCO: è il comitato pediatrico che approva i piani di investigazione pediatrica PIP (non
il farmaco che viene sempre approvato dal CHMP). I farmaci vengono sperimentati
nell’adulto in un primo momento e una volta che il farmaco è stato approvato l’industria
deve presentare al PDCO un PIP futuro. Molto spesso gli studi con braccio di controllo non
si possono fare con i bambini e inoltre tra bambini e adulti ci sono numerosissime
differenze: patologie diverse, gli enzimi metabolici dei bambini funzionano in modo
diverso, l’escrezione dei farmaci è diverso. Questo non consente quindi di trasferire
automaticamente il farmaco dagli adulti ai bambini, per cui il PIP è sempre richiesto (per i
farmaci rivolti anche al bambino) e necessario per l’autorizzazione del farmaco.
- CVMP: comitato per farmaci per uso veterinario.
- HMPC: (= Herbal Medicinal Product Commitee) comitato per i farmaci estratti dalle piante.
Se il farmaco è stato approvato dal CHMP allora la Commissione Europea approva o nega la messa
in commercio. La scelta della Commissione Europea si basa sempre sul parere positivo o
negativo del CHMP.
L’approvazione centralizzata determina l’AIC (= Autorizzazione Immissione in Commercio
nei paesi dell’UE) e determina che venga stabilito un nome di fantasia uguale per tutti i paesi
(diverso dal nome del principio attivo: Aspirina è il nome di fantasia dell’acido acetilsalicilico). Nei
vari paesi sono gli stessi pure gli stampati del farmaco, ovvero il RCP (= Riassunto delle
Caratteristiche del Prodotto).
RCP è un documento che ha valore legale e che prima di prescrivere un farmaco è necessario
conoscere in quanto contiene tutte le informazioni. Esso riassume tutti i dati al momento della
commercializzazione e viene continuamente aggiornato per aggiungere le informazioni derivanti
dagli studi di post-marketing. È quindi dinamico e viene aggiornato periodicamente.
RCP è diviso in sezioni le cui le principali sono:
1) Indicazioni (es. il farmaco è indicato per la cura del diabete mellito di tipo 2). Questo farmaco può
essere prescritto per quell’indicazione per il quale è stato approvato, in questo caso per il diabete di
tipo 2. Non è infatti possibile prescrivere questo farmaco per l’osteoporosi. Se infatti viene
prescritto alla persona sbagliata il medico è perseguibile penalmente, a meno che non si
verifichino due condizioni: 1) ci sono studi clinici almeno di fase 2 di fama internazionale che
dimostrano che il farmaco effettivamente funzioni anche per l’osteoporosi, in questo caso è possibile
prescriverlo anche se nelle indicazioni non è contenuta l’osteoporosi; 2) il paziente non ha altre
possibilità di cura in quanto le altre cure o sono inefficaci o sono accompagnate da effetti collaterali
che non sopporta.
Abbiamo quindi descritto una prescrizione on-label (in cui la responsabilità ricade sull’industria
farmaceutica) e una prescrizione off-label (in cui la responsabilità ricade sul medico curante).
Inoltre, per alcune patologie AIFA ha incluso una serie di farmaci che da off-label vengono sono
inclusi nelle liste on-label (e in questo caso la responsabilità è assunta dall’AIFA) e che vengono
anche rimborsati.
2) Posologia che quindi comprende la dose, l’intervallo tra dosi e la via di somministrazione;
3) Controindicazioni (sia osservate nello stadio di pre-marketing che post-marketing). Comprende i
casi di eventi avversi e i casi in cui il farmaco non possa essere usato. Comprende quelle
situazioni in cui gli eventi avversi superano i benefici. Per esempio, se un farmaco viene escreto per
via renale non può essere somministrato ad un paziente con una grave insufficienza renale. Se viene
dato comunque in situazioni di controindicazione il medico è perseguibile penalmente.
4) Avvertenze che possono essere sia delle ulteriori specificazioni delle controindicazioni e sono
vietate (medico perseguibile) o dei casi in cui il farmaco non è raccomandato (in cui il medico ha
la facoltà di decidere conoscendo la situazione specifica del paziente)
C’è differenza tra un farmaco non raccomandato ed uno non indicato: un farmaco non è indicato
quando il paziente per una certa caratteristica o condizione non può farne uso perché è stato
dimostrato che ci sono delle conseguenze (es. farmaci teratogeni in gravidanza); un farmaco non è
raccomandato se non è stata dimostrata una correlazione certa tra una certa condizione del paziente
e le possibili complicanze del farmaco, anche solo per mancanza di studi a riguardo, in questo caso è
il medico a valutare in base al singolo paziente.
5) Interazioni tra farmaci: principalmente di tipo metabolico;
6) Uso del farmaco in gravidanza: solitamente questi dati sono assenti perché non si sperimenta su
pazienti in gravidanza chiaramente, può capitare che alcune donne rimangano incinte durante il trial
clinico e allora in questo caso si valutano gli effetti, oppure si valutano su animali. Ci si basa quindi
sulla possibilità che il farmaco possa attraversare la placenta o meno.
7) Guida: infatti alcuni farmaci possono dare sonnolenza o disturbi dell’attenzione;
8) Effetti avversi: comprende le reazioni avverse al farmaco che vengono classificate in base alla
frequenza:
- Comune (maggiore o uguale 1/100, ma < 1/10)
- Non comune (maggiore o uguale 1/1000 ma < 1/100) o Rare (maggiore o uguale 1/10000
ma < 1/1000)
- Molto rare (< 1/10000)
Bisogna però studiare se le reazioni avverse sono correlate all’assunzione del farmaco e
quindi se c’è un nesso di casualità. Un evento avverso può essere:
 Privo del nesso di casualità: in cui si può escludere per il fatto che il paziente ha l’evento avverso
quando il farmaco è stato somministrato da tempo e perché è già stato eliminato dall’organismo.
L’informazione su quanto tempo il farmaco è presente nell’organismo deriva da studi di
farmacocinetica.
 Possibile: c’è un nesso temporale, quindi è possibile in base al tempo, che la reazione sia dovuta al
farmaco; tuttavia, esistono altri fattori di rischio che sono noti causare quello stesso evento avverso
(ad esempio il paziente usa altri farmaci che hanno tra gli effetti avversi lo stesso del farmaco nuovo)
 Probabile: in cui abbiamo il nesso temporale, ma ci sono altri fattori che hanno la stessa probabilità
nell’indurre l’effetto avverso. Inoltre, bisogna valutare il meccanismo d’azione del farmaco per
vedere se ci può essere una conferma.
 Certo: in cui abbiamo sia un nesso temporale positivo, sia un meccanismo d’azione che causa
l’effetto collaterale sia l’assenza di altri fattori di rischio che hanno la stessa probabilità. La
sospensione della somministrazione porta alla scomparsa dell’effetto avverso (AR), che si ripresenta
se si riassume il farmaco. In tal caso si parla di Reazione Avversa al farmaco = ADR.
End point (misure di esito) degli studi clinici
Gli studi clinici riescono a determinare l’efficacia e la sicurezza dei medicinali attraverso delle
misure di esito. Il termine misura di esito non è altro che la traduzione del termine inglese end
point. Si tratta di misure attraverso le quali si valuta l’efficacia, se si parla di efficacia di un
farmaco, e a volte se lo studio è solo di sicurezza, si valuta la sicurezza del farmaco stesso.
Ci sono diversi tipi di end point: una prima differenziazione riguarda gli end point cosiddetti
clinicamente rilevanti e gli end point surrogati.
Il primo (end point clinicamente rilevanti) significa che dal punto di vista clinico l’end point sia
un qualcosa di importante per il paziente e comprende: la mortalità, tutti gli eventi morbosi che
possono essere rilevati nel corso della storia naturale/post-terapeutica di una malattia. Se un
farmaco evita la mortalità o la ritarda molto è evidente che è un farmaco dal punto di vista clinico
molto importante. Per quanto riguarda gli eventi morbosi che si riscontrano nel corso naturale della
malattia, un esempio è dato da una malattia che riguarda un enzima digestivo che non funziona e
che si associa in alcuni pazienti allo sviluppo di pancreatite acuta (evento morboso). Oppure ci sono
eventi post-terapeutici che possono verificarsi, per esempio in un paziente che ha dei problemi
cardiaci un end point clinicamente rilevante può essere il fatto che il farmaco evita gli infarti o ne
riduce il numero o che evita gli ictus oppure se si ha una patologia a livello delle ossa delle
articolazioni che evita le eventuali fratture. Questi sono esempi di end point clinicamente rilevanti.
Il problema è che spesso gli end point clinicamente rilevanti sono difficili da misurare in un
trial clinico perché: (1) sono eventi rari, per esempio la pancreatite acuta in una patologia in cui è
mutato un determinato enzima digestivo non si manifesterà in tutti i pazienti: considerando la
pancreatite un end point clinicamente rilevante non è detto che si possa misurare nello studio perché
se si verifica in 5 pazienti su 1000 quindi sarebbe necessario arruolare molti più pazienti nello
studio; (2) oppure se occorre molto tempo prima che si verifichi un determinato evento, risulta
difficoltoso sia per i costi elevati e sia perché i pazienti escono dallo studio e questo poi perde
potere.
Per questo motivo entrano in gioco gli end point surrogati. Essi sono delle variabili che possono
essere fisiologiche, anatomiche, metaboliche come per esempio la variazione ematica dei livelli di
colesterolo, la densità minerale ossea se si parla di una malattia a livello del tessuto osseo, la
variazione della pressione arteriosa. La prima caratteristica è che tutte le variabili si possono
misurare (facilmente) con degli esami strumentali e con degli esami di laboratorio. Inoltre,
devono correlare con l’efficacia del trattamento sugli end point clinicamente rilevanti: vuol dire che
affinché si possa utilizzare un end point surrogato si deve essere ragionevolmente sicuri che
l’effetto del farmaco che si sta testando nello studio sull’end point surrogato poi si rifletta
anche sull’end point clinicamente rilevante. Esempio: il fatto che il farmaco riduca il livello di
colesterolo ci interessa perché la riduzione del colesterolo può ridurre ad esempio il numero di ictus,
quindi affinché si possa considerare il colesterolo come end point surrogato si deve essere sicuri che
effettivamente riducendo il livello colesterolo poi con il passare del tempo si riduce anche con quel
farmaco il numero di ictus. L’end point surrogato può essere adottato unicamente se c’è un nesso tra
questo e l’end point clinicamente rilevante e che si possa assumere che se il farmaco ha un effetto
sull’end point surrogato lo avrà anche sull’end point clinicamente rilevante. Una relazione di
questo tipo si può assumere validando l’end point surrogato (validazione end point surrogato): si
deve stabilire attraverso degli studi la relazione qualitativa e quantitativa, (in particolar modo
deve essere stabilita la relazione quantitativa), tra end point surrogato ed end point clinicamente
rilevante. Validare un end point vuol dire determinare, attraverso degli studi dedicati come
correla la variazione dell’end point surrogato alla variazione dell’end point clinicamente rilevante.
Ad esempio: se si diminuisce il colesterolo del 10% con il farmaco, bisogna chiedersi: a questa
variazione quale variazione corrisponde nell’end point clinicamente rilevante? La riduzione del
numero di ictus dell’1% per esempio. Questa è la validazione di tipo quantitativo, sono dei
numeri e delle percentuali. Diversa è la validazione solo di tipo qualitativo: questa dice che al
variare del colesterolo varia la frequenza degli ictus, ma non dice quanto. Ad esempio: il paziente
vuole sapere di quanto riduce il rischio di ictus se dell’1% oppure del 50% e non in modo generico.
Quindi negli studi clinici affinché gli end point surrogati possano essere adottati nello studio devono
essere validati in termini quantitativi, ma non tutti gli end point surrogati lo sono, anzi a volte si
commettono degli errori. Ad esempio: alcuni anni fa si utilizzavano in terapia nei pazienti con
insufficienza cardiaca dei farmaci cosiddetti inotropi positivi, ovvero dei farmaci che aumentano la
forza di contrazione del cuore, sul presupposto che se il paziente ha insufficienza cardiaca vuol dire
che il cuore pompa di meno. Sono stati costruiti degli studi in cui veniva misurata la forza di
contrazione del cuore in termini di svuotamento ventricolare, pensando che maggiore fosse lo
svuotamento ventricolare il che significava che il cuore aveva pompato in modo efficace. In seguito
con grandi studi che avevano arruolato tanti pazienti si è visto che in realtà i farmaci che aumentano
la forza di contrazione del cuore dati in prima linea (dati come primo farmaco nei pazienti con
insufficienza cardiaca), non migliorano la prognosi, ma la peggiorano perché si era scelto un end
point surrogato, cioè la variazione dello svuotamento ventricolare, al posto dell’end point
clinicamente rilevante ovvero la morte per insufficienza cardiaca pensando che i due correlassero e
invece poi si è visto che non è così. Oggi i farmaci inotropi positivi non sono adoperati in prima
linea, sono adoperati solo in linee molto successive. Il rischio che si può incontrare è di prendere un
end point surrogato che non correli e di accorgersene più avanti.
Gli end point surrogati sono vantaggiosi per vari motivi:
- riducono la durata dello studio quindi la cosiddetta durata del follow up che è il periodo in cui
osservo il paziente e si vede quello che succede.
- riducono le dimensioni del campione: si possono fare degli studi con un numero più piccolo di
pazienti reclutati.
- riducono i costi dello studio.
Lo svantaggio è: il rischio di non-correlazione.
La seconda differenza è tra end point primario ed end point secondario  l’end point primario
dello studio serve per il calcolo del campione, ovvero per sapere quanti pazienti bisogna arruolare
nello studio per far sì che lo studio sia dal punto di vista statistico potente per poter dare con
attendibilità un certo risultato. È possibile anche fare uno studio con pochi pazienti, solo che poi i
risultati non sono con confidenza trasferibili e generalizzabili a tutti i pazienti perché la variabilità
su un numero piccolo di pazienti è enorme; si deve calcolare il numero esatto e congruo di pazienti
che deve esserci nello studio e si calcola in funzione del tipo di end point che si deve misurare.
L’end point primario serve per fare il calcolo della stima del campione, ci sono delle formule che si
applicano, si deve conoscere la storia naturale della malattia, si deve conoscere in una determinata
malattia con quale frequenza si manifesta l’evento che si vuole misurare per il farmaco e in base a
tutti questi dati si procede con il calcolo del campione. Sull’end point primario si imposta il
calcolo del campione e su di esso si imposta anche la statistica, ad esempio se lo studio è
risultato statisticamente significativo significa che l’end point primario è risultato statisticamente
significativo perché su quello si è fatto il calcolo del campione e quella è la misura attendibile dal
punto di vista statistico.
Tutte le altre misure e gli altri effetti del farmaco che si vogliono conoscere, ma che non
rappresentano l’end point primario perché non sono stati scelti come tale, rappresentano l’end point
secondario. Su tutti gli altri end point non si fa il calcolo del campione, e i dati che si possono avere
su questi altri end point sono molto importanti e significativi però se l’end point primario non risulta
statisticamente significativo gli altri end point non sono attendibili (quindi i risultati sugli end point
secondari, terziari, se non è venuto statisticamente significativo l’end point primario gli altri non
servono o al limite posso ragionarci per costruire un altro studio e cambiare l’end point primario
con uno degli end point secondari che sembra funzioni meglio dai risultati che si possiedono). La
differenza tra i due end point è una differenza di potere dello studio e di calcolo del campione.
Questo significa che, come end point primario posso adoperare un end point surrogato e
proprio per questo l’end point surrogato serve a far si che si abbia un campione accettabile,
quindi non eccessivamente numeroso perché altrimenti lo studio è difficile da svolgere sia per i
costi e sia perché è richiesto molto tempo per reclutare i pazienti e tenerli nello studio. Si sceglie
l’end point primario ponendosi diverse domande: riesco a misurarlo? L’end point primario, che
nella maggior parte dei casi sarà un end point surrogato, è stato validato? Correla quantitativamente
con gli altri end point che si misurano nello studio clinicamente rilevanti e magari li metto come
end point secondari? (perché se non correla quantitativamente la relazione che se viene l’end point
primario sono veri anche gli end point secondari non funziona più se non c’è la correlazione,
perché l’unica cosa che regola l’end point primario agli end point secondari è il fatto che l’end
point primario correli altrimenti lo studio mi dimostra solo l’end point primario). Spesso un
end point primario è un end point surrogato che deve essere accettato e spesso tra gli end
point secondari vi sono end point clinicamente rilevanti come, ad esempio, la morte o eventi
morbosi che si verificano nel corso della malattia.
Integrazione libro. La definizione dell’end-point primario (e di quelli secondari) nel protocollo di
studio rappresenta una dichiarazione d’intenti e un vincolo, nel senso che è sulla differenza di quel
parametro che saranno valutate l’efficacia e/o la sicurezza di un trattamento sperimentale e non su
altri parametri. È importante valutare criticamente la natura dell’end-point primario di efficacia,
perché non sempre si tratta di reali indicatori di efficacia clinica.
Domanda sulla definizione di end point: ad esempio c’è un farmaco antiaritmico e si vuole vedere
se funziona in una determinata patologia, e si vede se il farmaco riduce il numero di aritmie o se lo
annulla e quello è l’end point. Oppure si vuole un farmaco che agisca sui livelli plasmatici di lipidi
e in questo caso si prenderà come end point primario i livelli di colesterolo e come end point
secondario si possono considerare l'infarto del miocardio, ospedalizzazione per infarto del
miocardio, l’ictus.
Un end point è fortemente correlato, come si vedrà per i farmaci oncologici per la terapia del
carcinoma polmonare. Per esempio, c’è un end point surrogato che si chiama progressione libera
da malattia che misura il tempo in cui il paziente rimane senza progressione di malattia che è un
end point accettato come end point surrogato di efficacia. Quindi molti studi cinici di farmaci
antitumorali utilizzano la sopravvivenza libera da malattia e mettono la mortalità come end point
secondario.
Caratterizzazione della sicurezza
Gli studi clinici sono studi di efficacia e di sicurezza, quindi, avranno come end point sia le misure
di efficacia che le misure di sicurezza ovvero il numero di eventi avversi che si verificano
durante la terapia con il farmaco. Definizione di evento avverso: l’evento avverso è qualsiasi
evento medico non desiderato che si manifesta in un paziente incluso in uno studio clinico
quando il paziente riceve il farmaco. Dal momento che si può manifestare “qualsiasi evento” ciò
indica anche qualcosa che non è correlato al farmaco, quindi si potrebbe avere anche un evento
indipendente dal trattamento con il farmaco. La definizione di evento avverso non include il nesso
di causalità: il fatto che sia stato il farmaco effettivamente a indurre l’evento avverso. Tutti gli
eventi avversi in un trial clinico che si manifestano in un paziente trattato con il farmaco devono
essere osservati e devono essere studiati in termini di nesso di causalità e in termini di intensità
dell’evento avverso.
L’intensità si classifica in quattro gradi:
I. Lieve: un evento avverso di questo tipo vuol dire che non richiede un intervento medico, non
richiede una terapia e normalmente si risolve da solo.
II. Moderato: può essere necessario un qualche tipo di intervento.
III. Severo: è sempre necessario un intervento medico e spesso c’è l’ospedalizzazione.
IV. Molto grave: c’è un’ospedalizzazione prolungata e un intervento terapeutico importante.
Diversi sono i cosiddetti SAE: ( = Serious Adverse Event) in italiano si traduce come serio e non
severo, perché severo è un termine utilizzato per l’intensità. Si tratta di eventi avversi come la
morte improvvisa, un evento che mette in pericolo di vita il paziente, un evento che richiede una
ospedalizzazione maggiore di 24 h oppure un prolungamento dell’ospedalizzazione se il
paziente è già ospedalizzato, un evento che determina una disabilità permanente o che determina
delle anomalie congenite se la madre è in gravidanza. Gli eventi avversi seri devono essere
immediatamente comunicati dall’investigatore principale dello studio (che controlla lo studio nel
singolo centro) allo sponsor (che sovraintende a tutto lo studio di tutti i centri). La notifica
immediata dovrebbe essere effettuata entro un termine molto breve, che non deve in ogni caso
superare le 24 ore (entro 24 h).
Poi si deve studiare il nesso di causalità: capire se sia stato il farmaco a causare l’evento avverso
oppure no. La classificazione del nesso di causalità è una classificazione non molto utile, perché
nella realtà ciò che interessa sapere è se sia stato il farmaco oppure no senza varie declinazioni,
mentre il nesso di causalità è presentato attraverso varie declinazioni.
Innanzitutto, c’è l’assenza di causalità: nel momento in cui manca il nesso temporale allora non
può essere stato il farmaco e questo indica l’assenza di causalità. L’indicatore più importante per
l’assenza di causalità è la relazione temporale tra l’assunzione del farmaco e il manifestarsi
dell’evento avverso: se il lasso temporale che intercorre tra farmaco ed evento avverso è tale, in
base alle caratteristiche che si conoscono dagli studi di farmacocinetica, da non permettere di
concludere che ci sia causalità diciamo assenza di causalità. Ad esempio: l’evento avverso si
manifesta prima che il paziente abbia preso il farmaco, prima che abbia iniziato la terapia allora in
questo caso si esclude automaticamente. Oppure ad esempio si è all’inizio della terapia e si sa che il
farmaco impiega un certo tempo per essere assorbito, arrivare in circolo etc, ma l’evento si
manifesta prima, quindi anche in questo caso non può essere stato il farmaco perché ancora non si è
distribuito nell’organismo.
È necessario distinguere il termine probabile e il termine possibile.
Probabile vuol dire che ci sono molti dubbi, non dà molte informazioni e non ci sono dei dati sul
nesso temporale così forti da poterlo determinare. Possibile vuol dire che non si può escludere, ci
sono più dati a favore del nesso temporale di quanti dati ce ne siano a sfavore.
Per causalità improbabile significa che c’è la connessione temporale: effettivamente il farmaco è
presente nell’organismo nel momento in cui il paziente ha avuto l’evento avverso (quindi esiste la
connessione temporale), ma contemporaneamente nel paziente è presente un altro fattore che,
invece, è una probabile causa dell’effetto avverso. Ad esempio: ci sono due farmaci di cui uno è
quello che è oggetto di studio, mentre l’altro farmaco è già stato approvato e il paziente lo assume
per una determinata patologia. L’evento avverso si sa che è tra gli eventi avversi del farmaco
approvato, ma siccome il paziente in questione sta assumendo anche il farmaco sperimentale
bisogna comunque per la definizione di evento avverso, studiare l’evento avverso. Se esiste la
contemporanea presenza di un altro fattore che ha una probabilità più elevata di indurre
quell’evento avverso allora si dice che la causalità è improbabile.
Per causalità possibile: vuol dire che c’è il nesso temporale a favore, ma ci sono altre cause che
ugualmente possono essere responsabili. Si tratta di un caso un po’ diverso dall’improbabile
perché sia il farmaco sperimentale che l’altro farmaco approvato hanno la stessa probabilità di
aver causato l'effetto avverso. Ad esempio: il farmaco sperimentale per il suo meccanismo d’azione
poiché si lega a dei recettori che oltre a trovarsi sull’organo che è il problema di una determinata
patologia, si trovano anche su altri organi e quindi il farmaco con lo stesso meccanismo d’azione
può sia curare la patologia, ma anche agire su altri organi dove non dovrebbe agire. L’evento
avverso che si osserva è probabilmente causato dall’azione del farmaco attraverso il suo
meccanismo d’azione sugli altri organi. C’è una probabilità abbastanza importante e per questo si
dice che la causalità è possibile.
Poi abbiamo la causalità probabile è che sia il nesso temporale e sia il meccanismo d’azione del
farmaco oggetto di studio indicano che quell’evento avverso è dovuto al farmaco.
Infine, per causalità certa: quando si sospende il farmaco sperimentale e l’evento avverso
scompare. Si risomministra il farmaco e l’evento avverso si manifesta di nuovo. In questo caso si ha
la prova certa che sia stato il farmaco sperimentale a causare l’evento.
Tutte queste diverse declinazioni del nesso di causalità in realtà ci servono poco, perché si ascrive
un evento avverso come causato dal farmaco quando si ha una causalità probabile oppure quando
si ha una causalità certa. Quando si è studiato il nesso di causalità e ci troviamo in queste due
sottospecie allora l’evento avverso cambia nome, viene ascritto al farmaco e viene indicato come
reazione avversa al farmaco = ADR.
Differenza tra ADR ed evento avverso: l’evento avverso può essere anche non causato dal
farmaco. La reazione avversa al farmaco vuol dire che l’evento avverso è stato studiato in termini di
nesso di causalità e la causalità è risultata probabile o certa. Bisogna studiare tutti gli eventi avversi
e classificarli come causati dal farmaco o non causati dal farmaco. Gli eventi causati dal farmaco
sono delle ADR.
Classificazione delle ADR: possono essere classificate in base al meccanismo d’azione: si
possono avere dei cosiddetti effetti collaterali. Gli effetti collaterali possono comparire anche a
dosi più basse, ma normalmente la loro caratteristica è che se si sale troppo di dose questi si
manifestano e sono collegati di solito al meccanismo d’azione del farmaco. Gli eventi tossici,
invece, sono degli eventi che possono essere anche indipendenti dal meccanismo d’azione del
farmaco e che si manifestano quasi esclusivamente per dosi tossiche, ovvero per dosi molto elevate
di farmaco anche se in qualche caso si possono manifestare per dosi più basse. Poi ci sono le
reazioni immunoallergiche che sono di quattro tipi; ci sono le reazioni idiosincrasiche, le quali
sono le più importanti perché sono quelle che vengono studiate nella farmacocinetica. Sono delle
reazioni causate dal farmaco a causa di alterazioni nella funzionalità di enzimi metabolici del
paziente. La maggior parte dei farmaci vengono somministrati, si distribuiscono nell’organismo,
evocano il loro effetto terapeutico e poi una grande percentuale di questi viene metabolizzata da
enzimi metabolici prima di essere escreta. Gli enzimi metabolici hanno delle caratteristiche che
variano da individuo a individuo. Una delle caratteristiche è la possibilità del polimorfismo: ci sono
soggetti che hanno degli enzimi che funzionano di più e soggetti che hanno gli stessi enzimi, ma che
funzionano meno. Un grande gruppo di reazioni avverse ai farmaci, quando questi sono
metabolizzati, è dato dal fatto che ad esempio il paziente ha un enzima metabolico che funziona di
meno: se il farmaco è metabolizzato da quell’enzima che funziona di meno sarà metabolizzato
meno e più lentamente, di conseguenza il farmaco rimane più a lungo nell’organismo ed è come se
si fosse somministrata una dose più elevata di farmaco e ciò determina un aumento del rischio degli
effetti collaterali. Ricadono in questo gruppo di reazione le interazioni tra farmaci. Molti
enzimi metabolici sono regolati da alcuni farmaci che, per esempio, riducono l’attività di
determinati enzimi e se questi enzimi funzionano di meno ugualmente se si danno
contemporaneamente al paziente un farmaco che è metabolizzato da questi enzimi questo farmaco
sarà metabolizzato di meno e quindi effetti avversi. Le reazioni idiosincrasiche non si verificano
nella stragrande maggioranza dei pazienti, ma si verificano nel paziente presente nello studio,
perché in quel paziente ci sono alterazioni nel profilo metabolico per varie cause. Se non si conosce
come viene metabolizzato quel farmaco o non si presta attenzione agli altri farmaci che il paziente
contemporaneamente assume si manifestano reazioni avverse. Le reazioni idiosincrasiche sono le
più comuni perché sono molti i pazienti che fanno politerapie e anche perché i polimorfismi genici
sono piuttosto comuni nella popolazione.
Tra le reazioni avverse c’è anche la farmacodipendenza che riguarda il fatto che alcuni farmaci,
come le sostanze d’abuso e come anche sostanze che non sono né droghe né farmaci come, ad
esempio, il cibo, danno dipendenza ed è un effetto avverso anche la dipendenza che deve essere
studiata. Poi ci sono gli effetti sia sull’embrione sia sul feto, quel tipo di tossicità su cui si conosce
meno perché questi dati si ottengono una volta che il farmaco è stato approvato ed è stato
somministrato alla popolazione generale.
Le ADR devono essere studiate in base alla frequenza: le ADR che vengono registrate negli
studi clinici poi entrano a far parte dei dati che costituiscono il dossier del farmaco ai fini
dell’approvazione. Tra le varie informazioni che vengono rese pubbliche nel momento in cui il
farmaco è stato approvato vi sono le ADR, le quali vengono presentate come lista di ADR, ma
anche in termini di frequenza e questo è obbligatorio perché è molto diverso se il farmaco induce
delle ADR con una frequenza di 1 ogni 10.000 soggetti o una frequenza di 1 ogni 10 soggetti.
Dunque, bisogna studiare la frequenza delle ADR e in base alla frequenza vengono suddivise come:
molto frequenti, frequente, non frequente, rara e molto rara. Le frequenze molto frequente è
più di 1 soggetto ogni 10 soggetti che prendono il farmaco quindi questo è un evento avverso che si
verifica quasi sempre. Frequente da 1 su 100 a meno di 1 su 10, fino a molto rara che è meno di 1
paziente ogni 10.000 trattati. Quelli molto rari non si vedono spesso nei trial clinici pre-marketing,
ma si vedono o nel momento in cui il farmaco è messo in commercio nella popolazione totale
oppure se si effettua uno studio di fase 4.
Finora si è parlato della reazione avversa che viene osservata durante uno studio clinico, ma le
reazioni avverse ai farmaci si osservano anche al di fuori di uno studio clinico nel momento in
cui il farmaco è approvato e un numero molto elevato di pazienti lo assume. È stato, quindi,
necessario fornire una definizione precisa di reazione avversa ad un farmaco ai fini della sua
segnalazione e del suo studio. Si possono verificare delle reazioni avverse non note quando il
farmaco viene messo in commercio e, quindi, queste reazioni avverse devono essere in qualche
modo intercettate e studiate altrimenti noi non lo sapremmo mai. Ci deve essere un sistema di
segnalazione delle reazioni avverse e affinché le reazioni avverse possano essere segnalate e
quindi poi conseguentemente studiate è stata proposta una precisa definizione di reazione
avversa, cioè quando si deve segnalare? Per reazione avversa si intende un effetto nocivo e non
voluto che consegue all’uso del medicinale, quindi c’è il nesso causa effetto già incorporato nella
reazione avversa ad un farmaco. Tale effetto nocivo e non voluto comprende anche quegli effetti
che derivano dall’uso non conforme alle indicazioni contenute nell’autorizzazione
all’immissione in commercio, ad esempio, un farmaco che è indicato per la terapia del
Parkinson e viene preso per la terapia di un’altra malattia (uso non conforme all’indicazione).
Il paziente che lo assume per un’altra malattia ha una reazione avversa e anche quella reazione
avversa al farmaco deve essere segnalata. Anche nel caso di errori terapeutici incluso un
sovradosaggio accidentale. Esempio: le gocce per dormire. Vanno segnalate anche le reazioni
avverse che derivano da un uso improprio che significa un uso sbagliato, ma non intenzionale del
farmaco o anche per abuso e qui si ritorna a quei farmaci che danno dipendenza per cui si è tentati
a prenderne di più. E anche le reazione avverse che si verificano in associazione all’esposizione
al farmaco per motivi professionali. Esempio: è il caso dei radio-farmaci, ovvero l’operatore che
viene esposto accidentalmente a un radio-farmaco che prende il paziente. Se c’è una reazione
avversa deve essere segnalata.
Dello studio delle segnalazioni delle reazioni avverse al farmaco se ne occupa la farmacovigilanza.
Le reazioni avverse al farmaco inaspettate sia per intensità che per tipo devono essere segnalate dai
medici, i farmacisti, le case farmaceutiche (se la reazione si verifica nel corso di studi) e gli stessi
pazienti. Si può segnalare online attraverso un portale elettronico che utilizza il sito in Italia
dell’agenzia nazionale che è l’AIFA oppure possono segnalare all’ASL di appartenenza.
Che cosa fa l’AIFA quando riceve queste segnalazioni? Le inserisce in quella che è chiamata la
rete nazionale di farmacovigilanza, cioè un database nazionale con tutte le reazioni avverse ai
farmaci che si manifestano sul nostro territorio. Poi da questo, lo deve trasferire in un database
europeo che si chiama Eudra Vigilance.
Esistono dei tempi precisi per l’inserimento delle reazioni avverse ai farmaci, cioè:
 Massimo 15 giorni per i SAE (Eventi Avversi Seri).
 Massimo 90 giorni per tutte le altre reazioni avverse.
Le case farmaceutiche possono direttamente segnalare la reazione avversa su Eudra Vigilance,
senza passare per il portale nazionale dell’AIFA, che serve per agevolare i pazienti, i farmacisti o i
medici. Quindi Eudra Vigilance riceve segnalazioni sulle reazioni avverse di tutti i farmaci
commercializzati sul territorio dell’UE. Una volta che queste informazioni sono dentro Eudra
Vigilance, bisogna studiarle. Quindi:
• Le ditte farmaceutiche (titolari dell’autorizzazione all’immissione in commercio AIC del farmaco),
e
• L’agenzia europea per i medicinali (EMA) e,
• Le agenzie nazionali (nel nostro caso AIFA)
monitorano regolarmente Eudra Vigilance e, quando un certo numero di reazioni avverse si
accumula per un certo farmaco (10-20 casi), le studiano. Nel momento in cui l’evento avverso è
stato caratterizzato, se si decide che è stato effettivamente causato dal farmaco, deve essere inserito
tra le informazioni del farmaco, ovvero nasce una nuova reazione avversa al farmaco ADR.
La segnalazione delle reazioni avverse è l’unico strumento che noi abbiamo per poter
completare lo studio della sicurezza del farmaco nella popolazione generale. Se non vengono
segnalate le reazioni avverse, non possono essere studiate. Quindi è estremamente importante
sensibilizzare sia i pazienti che i medici a segnalare.
Tipi di autorizzazione all’immissione in commercio AIC
Se io sono un industria farmaceutica e ho sviluppato un farmaco, ho sicuramente fatto tutti gli studi,
ho preso tutti i dati che ho accumulato sul mio farmaco (inclusi i dati del processo produttivo, cioè
quelli che vengono chiamati “dati di qualità”) e li ho inclusi in un dossier chiamato “dossier
registrativo” con lo scopo di farmi approvare il farmaco stesso. Il dossier registrativo è un dossier
unicamente elettronico che è formato da centinaia e migliaia di pagine che racchiude tutto quello
che si sa sul farmaco. Bene, a questo punto per far approvare il mio farmaco esistono diversi tipi di
autorizzazione (in Europa).
Autorizzazione Centralizzata
È un tipo di autorizzazione che avviene contemporaneamente in tutti i paesi dell’Unione
Europea e l’organismo che valuta è l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) cha ha un proprio
organo all’interno chiamato “Comitato per i Medicinali per Uso Umano”. Ovviamente la lingua
che si utilizzata all’EMA è l’inglese e il comitato si chiama CHMP (si eic em pi). Questo CHMP è
costituito da 1 rappresentante per ogni paese dell’Unione Europea + 1 sostituto (quando il
rappresentante non può andare). Quando il CHMP riceve il dossier autorizzativo, lo esamina, e
arriva ad un parere finale che sarà approvazione o NON approvazione.
Quali sono i vantaggi dell’autorizzazione centralizzata?
1. Il primo vantaggio è che quando il farmaco è approvato, l’approvazione avviene
contemporaneamente in tutti i paesi dell’UE. Avendo lo stesso nome di fantasia (esempio: l’aspirina
è il nome di fantasia. In realtà il nome del composto chimico che costituisce l’aspirina è l’acido
acetil-salicilico) e gli stessi stampati. Che cosa sono gli stampati? Sono tutte le informazioni che
abbiamo sul farmaco e che dobbiamo veicolare ai fruitori, quindi prescrittori e pazienti, dopo che è
avvenuta la sua approvazione.
- Il primo stampato è il Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto che in italiano si indica
con l’acronimo RCP e racchiude tutte le informazioni più importanti che hanno portato
all’approvazione del farmaco (comprese le indicazioni e le reazioni avverse). L’RCP è un
documento che ha un valore legale. Che significa? Se io prescrivo un farmaco seguendo le
indicazioni che sono contenute nell’RCP, lo prescrivo secondo un metodo chiamato “on label”
(secondo le indicazioni RCP) e se succede qualcosa al mio paziente io non sono perseguibile
legalmente (sempre se ho fatto la diagnosi corretta). Il medico può anche prescrivere “off label”,
cioè al di fuori delle indicazioni approvate, ma in quel caso deve assumersi le responsabilità.
- Il secondo stampato è il foglio illustrativo che si trova nella confezione che contiene il farmaco
ed è un insieme di informazioni per il paziente. Ovviamente, rispetto all’RCP, si tratta di
informazioni molto più semplici, ridotte e meno tecniche (non per il prescrittore, ma per il
paziente), infatti, molto spesso nella posologia si rinvia alla prescrizione medica. Sono presenti
gli effetti avversi, ma la lingua è comune e comprensibile.
- Il terzo stampato è la scatoletta. Se ci fate caso sulla scatoletta non c’è solo il nome del
farmaco ma c’è anche ad esempio la scadenza, il numero di lotto, il principio attivo, etc.
Quindi tutti questi stampati (RCP, foglio illustrativo e scatoletta), se il mio farmaco è
approvato per via centralizzata, saranno tutti identici in tutti i paesi dell’UE cambiando
ovviamente la lingua (informazione è la stessa).
2. Il secondo vantaggio dell’autorizzazione centralizzata è il tempo di valutazione, cioè il tempo che
intercorre nel momento in cui l’azienda sottopone il “dossier autorizzativo” all’esame del CHMP.
Questo tempo di valutazione è un tempo certo, cioè 210 giorni esclusi i cosiddetti “clocks top”.
Come si articola il processo di valutazione di un dossier per via centralizzata?
La ditta presenta il dossier per via telematica e viene inviato ai membri del CHMP che lo devono
valutare. C’è una prima fase di valutazione che dura 80 giorni, quindi parte esattamente dal
momento in cui inizia la procedura (giorno 0) e il CHMP ha 80 giorni per leggere il dossier, farsi un
idea sui dati che gli vengono forniti e vedere quali sono i punti critici, cioè i punti che, secondo gli
esperti del CHMP, hanno bisogno di un ulteriore esame, approfondimento (oppure mancano dei
dati). Tutte queste criticità vanno a formare la cosiddetta lista di domande che il CHMP invierà
alla ditta. Questa lista di domande deve essere pronta dopo 80 giorni dall’inizio della procedura e i
tempi sono immodificabili (day 80). Ovviamente la ditta deve avere il tempo disponibile per poter
rispondere a tutte le domande, quindi si ferma l’orologio e il tempo massimo che viene concesso è
di 3 mesi. In questi 3 mesi la ditta formula le sue risposte e le presenta. Nel momento in cui le
risposte sono presentate, l’orologio comincia di nuovo ad andare, quindi i 3 mesi non vengono
calcolati nei 210 giorni.
Quando la ditta ha risposto, vengono sottomesse le risposte al CHMP, il quale:
1. Riavvia l’orologio dei 210 giorni;
2. Valuta le risposte;
3. Decide se le risposte sono sufficienti e se tutti i dubbi sono stati chiariti;
Nel caso in cui lo CHMP ha ancora dei dubbi, fa una seconda lista di domande (questo avviene al
giorno 150) = day 150  e questa seconda lista di domande va alla ditta e si ferma di nuovo
l’orologio. In questo caso la ditta al massimo ha 1 mese di tempo per rispondere. Una volta che
ha risposto, sottomette di nuovo le risposte e l’orologio ricomincia ad andare. Poi il CHMP rivede
le risposte e decide poi alla fine, al giorno 210 (day 210), se approvare o non approvare il
farmaco. Il parere del CHMP viene trasmesso alla Commissione Europea che è quella che emana
l’autorizzazione all’immissione in commercio AIC (ovviamente in base al parere del CHMP, non fa
rivalutazioni). Quindi la Commissione Europea e concede/non concede l’autorizzazione
all’immissione in commercio in base al parere del CHMP.
Se il CHMP ha un parere negativo  la ditta ha la possibilità di richiedere il riesame. Il
riesame, che è una procedura molto veloce, verterà unicamente sulle questioni non risolte, quindi
sui punti che il CHMP non ha potuto approvare. Quindi la ditta potrà richiede un riesame e si
discuterà soltanto di questi punti e durante il riesame la ditta non può sottomettere nuovi dati
(per esempio durante la valutazione del dossier la ditta aveva un altro studio che era ancora in corso
e quando i risultati sono stati ottenuti lo studio si è concluso. Bene, questi nuovi risultati non
possono essere presentati durante la fase di riesame). Quindi la ditta come fa ad argomentare
nuovamente sui punti che non sono stati risolti?
- Può presentare nuove analisi, cioè analizzare i dati in modo diverso;
- Può richiedere un’indicazione modificata, per esempio l’indicazione originale che aveva chiesto la
ditta era sull’intera popolazione con una determinata patologia, ma durante l’analisi e lo studio del
dossier si è visto che nell’intera patologia, il farmaco aveva un efficacia lieve o, comunque, non
fortemente dimostrata, mentre per esempio in un sottogruppo l’efficacia era maggiore. Quindi la
ditta lui optare per il restringimento delle indicazioni, quindi non in tutta la popolazione con quella
patologia, ma in quel sottogruppo e presentare questa nuova indicazione in corso di riesame.
Il riesame è una procedura molto veloce che dura in tutto più o meno 1 mese e si conclude con
approvazione/non approvazione. Se non è approvato non si possono richiedere ulteriori riesami.
Se la ditta avrà in futuro ulteriori dati, dovrà ricominciare da capo presentando un nuovo dossier
con nuovi dati. Questa è la procedura centralizzata che ha i vantaggi che abbiamo appena visto.
Normalmente la ditta può scegliere se far approvare un farmaco per via centralizzata oppure no, con
alcune esclusioni.
Quali sono le altre possibilità di autorizzazione?
1. Mutuo riconoscimento;
2. Autorizzazione decentralizzata;
3. Autorizzazione nazionale;
Mutuo riconoscimento
Un farmaco può essere autorizzato per mutuo riconoscimento quando è già approvato in almeno 1
paese dell’Unione Europea e la casa farmaceutica decide di estendere l’autorizzazione anche ad
altri paesi europei.
Com’è articolata questa procedura? Il nome già ve lo dice, è un riconoscimento di qualche cosa
che è già avvenuta in un paese europeo. Quindi il paese europeo dove è già autorizzato il farmaco
prende il comando di questa procedura autorizzativa perché sa già tutto sul farmaco, avendolo già
autorizzato nel proprio paese. Quindi prepara una valutazione del farmaco e la gira agli altri paesi
che sono coinvolti nel mutuo riconoscimento (esempio: la ditta dice “vorrei farlo autorizzare oltre
che in Francia anche in Germania, in Italia e in Grecia  in questo caso sono 3 i paesi coinvolti nel
mutuo riconoscimento). Questi paesi ricevono questa valutazione fatta dallo stato che ha già
approvato il farmaco e fanno dei commenti, domande alla ditta e alla fine si arriva alla
decisione di accettare l’approvazione per mutuo riconoscimento o no. Anche qui c’è un
comitato che è formato dai rappresentanti dei singoli stati dell’Unione Europea. Questo comitato
prende il nome di “gruppo di coordinamento per il mutuo riconoscimento e per le procedure
decentralizzate” e si chiama con l’acronimo dall’inglese CMDH. La sede di questo comitato è
all’interno dell’EMA che quindi ospita oltre al CHMP anche il CMDH. In questa sede si decide se il
farmaco può essere approvato o non approvato. Anche qui c’è una tempistica che è un po’ più
variabile rispetto alle tempistiche precise dell’approvazione centralizzata.
Autorizzazione decentralizzata
Questa viene scelta nel momento in cui il farmaco non è approvato ancora in nessun paese dei
Unione Europea e la ditta decide di farlo approvare solo in 2/3 paesi contemporaneamente (non in
tutti). L’organo che valuta la decentralizzata è ugualmente il CMDH e ovviamente sono coinvolti
soltanto i paesi che poi dovranno avere la commercializzazione del farmaco nella valutazione.
Autorizzazione nazionale
È quando io voglio fare approvare il mio farmaco solo in 1 stato (esempio: solo in Italia). Quindi
l’approvazione è limitata a quello stato e a questo punto entra in gioco l’agenzia regolatoria
nazionale (in Italia è l’AIFA). La ditta sottopone il dossier all’AIFA che lo valuta e poi decide se lo
approva oppure nega l’approvazione.
Come mai una ditta sceglie un autorizzazione nazionale piuttosto che una decentralizzata o
centralizzata?
Normalmente le piccole case farmaceutiche o le piccole ditte o le piccole start-up che hanno dei
farmaci non per patologie gravi, con pochi dati, etc. magari scelgono prima la via nazionale rispetto
a vie invece molto più complicate come l’autorizzazione per via centralizzata (la più complicata).
Nella centralizzata, infatti, il dossier è molto ricco e il processo valutativo è molto accurato nonché
molto costoso.
Quindi si può scegliere, in un primo momento, l’autorizzazione per via nazionale o per via
decentralizzata e poi passare all’autorizzazione per mutuo riconoscimento in tutti i paesi.
Il documento che deriva dall’approvazione centralizzata e che racchiude tutte le informazioni sul
farmaco è il Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto (RCP). Il riassunto delle caratteristiche
del prodotto ha un formato standard, cioè un modulo che deve essere suddiviso in diversi punti e
che deve essere riempito con tutti i dati del farmaco. Questo formato standard aiuta molto nella
consultazione perché i paragrafi sono numerati e io so già in quale paragrafo si trova
l’informazione che sto cercando. Quindi è molto veloce la consultazione di questo documento.
Innanzitutto, come faccio a trovare il riassunto del caratteristiche del prodotto?
Non sta dentro la confezione farmaco, ma si trova online:
1) Digitando su un motore di ricerca il nome del farmaco con accanto la dicitura RCP;
2) Sul sito dell’AIFA c’è una “banca dati degli stampati” dove ci sono sia i riassunti delle
caratteristiche del prodotto, sia il foglietto illustrativo per tutti i farmaci
3) Sul sito dell’EMA c’è la banca dati con tutti i riassunti delle caratteristiche del prodotto (ovviamente
nella banca dati dell’EMA c’è unicamente l’RCP dei farmaci approvati per via centralizzata,
mentre nella banca dati nazionale ci sono tutti i farmaci commercializzati sul territorio)
Una volta che abbiamo trovato il farmaco dov’è che andiamo a cercare le varie informazioni?
Paragrafo 4.1
Qui abbiamo le indicazioni che sono state approvate. Quindi se prescriviamo secondo queste
indicazioni, stiamo prescrivendo “on label”
Paragrafo 4.2
Trovo la posologia che sarebbe la dose e l’intervallo fra le dosi. Quindi quello che devo dire al mio
paziente, ad esempio: “devi prendere 5 mg ogni sei ore”. Ma troviamo anche la modalità di
somministrazione (esempio: per via intramuscolare).

Paragrafo 4.3
Qui ci sono le controindicazioni, cioè i casi in cui il farmaco non può essere somministrato al
paziente. Vi dicevo che l’RCP ha valore legale, quindi se io do il farmaco a un paziente che rischia
quella controindicazione e succede qualcosa, io ne rispondo penalmente. La prescrizione “off label”
per pazienti che rientrano nei casi di controindicazione è vietata e punita legalmente.
Paragrafo 4.4
Diverso dalle controindicazioni è la dicitura “non raccomandato”. Non raccomandato non vuol
dire controindicato, ma significa che i dati a disposizione (al momento ovviamente) che riguardano
quella particolare condizione non sono tali da permetterne la controindicazione. Tuttavia, sono dei
dati che mi fanno riflettere e comunque per motivi precauzionali sarebbe meglio non darlo a questi
pazienti. Quindi non è controindicato, ma non è raccomandato. Nei casi di non raccomandazione
però il medico può prescriverlo ugualmente se, secondo la sua conoscenza del paziente e della
patologia, i benefici che deriverebbero dalla terapia superano le incertezze relative alla non
raccomandazione (esempio per farmaco salvavita; quindi, valuto sul singolo paziente).
Il “non raccomandato” normalmente lo troviamo nel paragrafo 4.4 sotto le cosiddette avvertenze
speciali. Nelle avvertenze speciali troviamo: chiarimenti e maggiori dettagli su alcune procedure
che sono necessarie durante la somministrazione del farmaco (esempio: nei pazienti ipertesi che
prendono questo farmaco misurare la pressione arteriosa regolarmente ogni settimana).
Paragrafo 4.5
È molto importante per la farmacocinetica perché viene scritto sulla base dei dati di
farmacocinetica, in quanto vengono elencate le interazioni tra farmaci, cioè tutti i casi in cui
faccio una politerapia. Nella politerapia il paziente prende più farmaci contemporaneamente e
questi farmaci interferiscono tra loro e il modo in cui interferiscono normalmente è a livello
farmacocinetico, cioè a livello di metabolismo (un farmaco influenza il metabolismo dell’altro).
Inoltre, raramente ci possono essere delle interazioni tipo farmacodinamico. Perché raramente?
Perché normalmente quando ci sono interazioni di tipo farmacodinamico vuol dire che se i due
farmaci vengono dati insieme, funzionano di meno e quindi ci sarà una controindicazione
nell’associare questi farmaci in una politerapia.
Paragrafo 4.8
È quello delle ADR, dove vengono elencati in tabelle tutti gli ADR degli studi clinici e poi
vengono aggiunte, a mano a mano che vengono studiate, le ADR post-marketing attraverso quel
meccanismo di segnalazione degli effetti avversi e lo studio delle ADR che vi ho descritto prima.
Quindi in questo paragrafo ci sono:
• Tutte le ADR degli studi clinici, indicati in termini di frequenza
• Tutte le ADR man mano che ne veniamo a conoscenza post-marketing
• In alcuni casi le ADR sospette. Questo soprattutto in casi di ADR in cui il nesso di causalità non è
stato ancora ben definito, però sono così importanti che anche se sospette io ce le metto in un sotto-
paragrafo per avvisare “guardate che se succede una cosa del genere segnalate subito perché sono
dati che ci servono per finire di identificare queste ADR”.
Quindi nell’RCP (Riassunto Caratteristiche del Prodotto) c’è tutto quello che ci serve per poter
prescrivere in scienza e coscienza un determinato farmaco.
L’approvazione centralizzata è un’approvazione alla commercializzazione in tutti i paesi europei.
Questo però è diverso dalla cosiddetta ammissione alla rimborsabilità. Molti farmaci (ad esempio
il vaccino per il covid, farmaci antitumorali, per patologie infiammatorie croniche, etc. ) sono
estremamente innovativi ed estremamente costosi, per i quali la ditta richiede dei prezzi
estremamente elevati, tali per cui il singolo soggetto non potrebbe permettersi la terapia se si
dovesse pagare. Per cui nella pratica, l’ammissione all’autorizzazione in commercio centralizzata è
sì valida contemporaneamente in tutti i paesi europei, ma se il farmaco non è anche ammesso alla
rimborsabilità, la terapia è praticamente impossibile. L’ammissione alla rimborsabilità da parte
del servizio sanitario nazionale è una procedura che avviene all’interno dei singoli Stati, quindi
ogni Stato decide per sé. In Italia l’organismo che decide per l’ammissione alla rimborsabilità è
l’AIFA e questo è il motivo per cui quando i farmaci vengono approvati, le ditte farmaceutiche
titolari della ammissione alla commercializzazione devono presentare una duplice richiesta
all’AIFA: una è la richiesta per la commercializzazione all’interno del paese ed è automatica,
mentre se vogliono, presentano anche la richiesta per l’ammissione alla rimborsabilità.
La richiesta per l’ammissione alla rimborsabilità deve essere valutata in termini di costo e
beneficio, cioè l’AIFA fa un tipo di valutazione economica e si chiede “questo farmaco è un
vantaggio? È un beneficio averlo per il servizio sanitario nazionale per il prezzo che la ditta mi
chiede?”. Questo tipo di valutazione viene fatta a livello nazionale ed è indipendente, nel senso
che in Italia possiamo dire di sì ed ammetterlo alla rimborsabilità, ma per esempio in un altro Stato
si può dire di no. La non ammissione alla rimborsabilità coincide con la non commercializzazione
del farmaco in quel paese perché nessuno se lo può permettere (quindi la ditta non ha neanche
interesse a commercializzarlo perché nessuno lo acquisterebbe). Purtroppo, questa non è una cosa
molto rara, ci sono diversi paesi dell’UE che per motivi economici non possono ammettere alla
rimborsabilità molti farmaci. Questo si verifica soprattutto per quei paesi che hanno minore
popolazione rispetto ai grandi paesi come Germania, Francia, etc, perché non hanno i mezzi
economici per sostenere l’ammissione. Quindi ci sono molti farmaci potenzialmente salvavita che
non sono non si ritrovano e non sono ammessi alla rimborsabilità in molti Stati europei (problema
totalmente economico).
La procedura centralizzata può essere intrapresa da qualsiasi nuovo farmaco che abbia una
importanza clinica rilevante, ma anche per i cosiddetti farmaci generici di farmaci che sono già
stati approvati per via centralizzata. Normalmente la ditta può scegliere se fare una procedura
centralizzata o meno tranne in determinati casi in cui è obbligatoria la procedura centralizzata,
cioè ci sono determinati farmaci che possono essere approvati solo per procedura centralizzata.
Quando è che è obbligatoria la procedura centralizzata?
 Per i farmaci ottenuti con procedimenti biotecnologici: per esempio anticorpi monoclonali, degli
emoderivati combinati, ormoni polipeptidici; poi vedremo esattamente che cosa si intende per
farmaco biotecnologico, ma la definizione completa è:
- Farmaci prodotti con le tecnologie del DNA ricombinante
- Farmaci ottenuti attraverso la modulazione dei geni
- Farmaci ottenuti attraverso la sintesi di ibridomi e anticorpi monoclonali
 Per tutte le terapie avanzate che sono:
- Le terapie cellulari somatiche
- Le terapie geniche
- Le terapie di ingegneria tissutale
 Per i farmaci orfani: sono i farmaci utilizzati per malattie rare. La definizione di malattia rara, in
Europa, è una malattia che ha una prevalenza < 5/10.000 abitanti e queste malattie hanno il
vantaggio che i farmaci che sono dedicati alla loro terapia assumono la designazione di farmaci
orfani. Questo stato di farmaco orfano conferisce dei vantaggi economici alla azienda farmaceutica
che li produce. Perché? Perché un’industria farmaceutica non ha nessun interesse a spendere soldi
per farmaci che saranno venduti poco quindi, per cercare di incentivare la ricerca e lo sviluppo di
farmaci per malattie rare, sono stati creati un insieme di vantaggi economici a favore dell’industria
che li sviluppa in modo da rendere conveniente per l’industria sviluppare tali farmaci.
 Per tutti i farmaci anti-tumorali.
 Per tutti quei farmaci per malattie neurodegenerative (morbo di Parkinson, Alzheimer, etc.)
 Per farmaci per il diabete.
 Per farmaci per malattie autoimmuni.
 Per farmaci malattie di origine virale.
La procedura centralizzata può terminare con diversi tipi di approvazione. Possiamo avere:
1. Approvazione piena = quando è stato sottomesso un dossier completo, con tutti i dati necessari.
2. Approvazione condizionata = succede in casi particolari in cui, per qualche motivo, il dossier non
è completo al momento dell’approvazione del farmaco, ma è necessaria una immissione rapida
nel mercato. Questi sono casi in cui:
 Il rapporto beneficio/rischio è ritenuto positivo (sulla base dei dati presentati sul dossier
incompleto);
 La malattia è grave;
 Il medicinale deve rispondere ad esigenze mediche insoddisfatte;
 L’azienda titolare si impegna a fornire i dati mancanti in seguito.
La validità è annuale, quindi non è un autorizzazione definitiva ed è rinnovabile. Ogni anno
il CHMP rivaluta i nuovi dati, che vengono sottoposti dalla ditta e rivaluta il
beneficio/rischio. Nel momento in cui tutti i dati sono stati sottomessi, l’approvazione
condizionata diventa un approvazione definitiva.
3. Approvazione in circostanze eccezionali = questo tipo di approvazione è molto rara. Sono
pochissimi, circa 3/4, i farmaci approvati con l’approvazione in circostanze eccezionali.
Quando si può approvare in circostanze eccezionali? Quando la malattia è molto rara, quindi vuol
dire che i pazienti a disposizione sono pochissimi proprio perché la malattia è rara e
automaticamente il dossier non può essere completo perché i dati sono scarsi. L’efficacia e la
tossicità del farmaco devono comunque essere stati dimostrati, ma per il numero limitato di
pazienti è impossibile raccogliere dati più completi (anche in futuro).
Quindi se la malattia è a prognosi infausta e l’efficacia del farmaco è tale che si ritiene possa portare
un beneficio alla terapia senza pero riuscire ad avere più dati  allora si parla di approvazione in
casi eccezionali.
Nonostante il fatto che ulteriori dati di efficacia non si potranno avere, la ditta deve seguire il
farmaco nel tempo in termini di sicurezza.
Com’è organizzata l’EMA?
Nell’EMA (Agenzia Europea dei Medicinali) distinguiamo 7 comitati. Attualmente c’è un progetto
di riforma dell’EMA che, però, deve essere ancora approvato, dove probabilmente alcuni comitati
verranno eliminati.
Oggi ci sono 7 comitati:
1) CHMP (il più importante di tutti)
Valuta i dossier dei nuovi farmaci.
Valuta il dossier delle nuove indicazioni (esempio: ho un farmaco approvato per l’artrite
reumatoide, poi faccio degli altri studi e vedo che questo funziona anche per un’altra patologia.
Sottometto i dati di questi studi e richiedo un allargamento delle indicazioni anche per quest’altra
patologia che può essere concesso o meno a seconda dei dati).
2) CAT
È il comitato per le terapie avanzate (terapia genica, terapia cellulare somatica e terapia di
ingegneria tissutale). Questi sono farmaci altamente complessi la cui realizzazione e studio richiede
delle expertise molto pronunciate, per cui si è pensato di realizzare un comitato con esperti che
avessero questo particolare tipo di conoscenze. Al CAT vengono sottoposti i dossier di tutti i
medicinali che vengono chiamati medicinali per terapie avanzate. La valutazione del CAT procede
in parallelo a quella del CHMP, quindi si hanno due valutazioni in parallelo e alla fine si hanno
anche due esiti: approvazione o non approvazione. La parola finale, però, va al CHMP
(indipendentemente se il CAT approva o non approva).
3) COMP
È il comitato per i farmaci orfani ed è dedicato a conferire lo stato di farmaco orfano, cioè il
COMP non è che autorizza i farmaci orfani, non valuta il dossier dei farmaci come fa il CHMP.
Il COMP valuta se un determinato farmaco, che la ditta vorrebbe che avesse lo stato di farmaco
orfano, può essere effettivamente considerato un farmaco orfano.
Quindi che cosa deve fare la ditta? La ditta deve sottomettere un dossier al COMP in cui:
a. Deve dimostrare che la patologia è rara e che porti a una debilitazione di tipo cronico/morte.
b. Deve allegare dati di efficacia e di sicurezza per far vedere che il farmaco abbia un importante
beneficio per questa malattia rara. Il farmaco, infatti, deve incidere positivamente e in modo
importante per la terapia della malattia.
c. Deve dimostrare che non ci sono altre terapie valide per quella malattia rara o, se ce ne sono
altre, non rappresentano un beneficio clinico significativo.
Tutto questo deve essere dimostrato e portato davanti al COMP. Se il COMP decide che è vero
allora il farmaco viene definito farmaco orfano e la ditta riceve delle agevolazioni di tipo
economico. Poi, comunque, il farmaco deve essere sottoposto a CHMP per l’approvazione.
4) PRAC (Comitato per la Farmacovigilanza)
Il PRAC è il comitato che si occupa di valutare la sicurezza del farmaco, soprattutto nel post-
marketing, cioè quella fase in cui si hanno le segnalazioni delle reazioni avverse, il loro studio e
il loro eventuale inserimento nell’RCP. La ditta titolare dell’autorizzazione in commercio del
farmaco è obbligata a presentare al PRAC dei riassunti periodici di sicurezza del proprio farmaco
durante la fase di commercializzazione. Quindi, come abbiamo detto prima, la ditta deve continuare
a monitorare la sicurezza del farmaco per tutta la vita del farmaco attraverso gli studi degli eventuali
effetti avversi che si registrano dopo che il farmaco è messo in circolazione. La ditta li deve studiare
e deve realizzare un riassunto con tutti i dati di sicurezza che si hanno e presentarlo al PRAC.
Questo riassunto prende il nome di PSUR. Attraverso l’analisi dello PSUR poi si decide se
quell’evento avverso è una reazione avversa al farmaco e va inserita nell’RCP o no.
5) PDCO (Comitato Pediatrico)
Il comitato pediatrico non valuta i farmaci pediatrici, ma ha il compito di rendere possibili gli
studi dei farmaci nei bambini. Generalmente tutti i farmaci vengono prima approvati negli adulti,
mentre gli studi nei bambini non possono essere fatti se non dopo che si hanno dei dati di efficacia e
sicurezza nell’adulto. Questa è una misura precauzionale, resa necessaria anche da questioni
etiche: non vogliamo esporre dei bambini a dei farmaci senza avere già dei dati nell’adulto che ci
rassicurano. Ovviamente ci sono eccezioni per:
 Patologie che si manifestano in modo esclusivo o prevalente nell’infanzia
 Patologie le cui manifestazioni cliniche sono diverse per adulti e bambini
 Patologie le cui risposte terapeutiche sono diverse per adulti e bambini
A queste condizioni gli studi devono essere eseguiti direttamente sui bambini, ma nel resto dei casi
se la patologia è praticamente identica negli adulti e nei bambini si può ricavare la dose nel
bambino attraverso dei dati di farmacocinetica e degli algoritmi.
Il disegno degli studi pediatrici deve essere presentato e sottoposto al PDCO da parte della
ditta produttrice del farmaco. Per tutti i nuovi farmaci è obbligatorio effettuare da parte della ditta
il PIP, cioè il Piano di Investigazione Pediatrica, in cui vengono illustrati gli studi pediatrici che
si vogliono eseguire e ne vengono descritte le modalità e i tempi e sottoporlo al giudizio del PDCO
che può approvarlo, respingerlo o apportarci delle modifiche. Quindi il PDCO non valuta per
l’approvazione i farmaci pediatrici, ma valuta i PIP. Questo è molto importante perché obbliga le
ditte ad eseguire questi studi che altrimenti tenderebbero a non fare perché: sono difficili, gli
arruolamenti sono complicati e molto spesso sono a braccio singolo perché non è etico in questo
caso inserire un braccio di controllo (anche per un breve periodo); ci sono quindi numerose
questioni, soprattutto di carattere etico, che disincentivano le ditte dall’attuarli, ma per alcune
patologie sono necessari.
6) HMCP
Il Comitato per i medicinali che vengono estratti dalle Piante: comitato che elenca tutte le
sostanze medicinali estratte dalle piante e stila le relative monografie (tutte le proprietà).
7) CVMP
Il Comitato dei medicinali veterinari.

Farmacocinetica
La farmacocinetica studia il destino dei farmaci una volta somministrati nell’organismo e si divide
in quattro branche:
1) assorbimento
2) distribuzione
3) metabolismo
4) escrezione
Assorbimento
Per assorbimento si intende l’insieme di tutti i processi che permettono al farmaco di
raggiungere la circolazione sistemica, perché per la maggior parte dei farmaci il sito di
somministrazione non coincide con il sito d’azione. La via di somministrazione più frequente è per
os (= per bocca), ma per la maggior parte i farmaci agiscono su organi diversi che devono
raggiungere tramite la circolazione sistemica. Ci sono delle eccezioni:
- Antiacidi  la loro funzione è quella di aumentare il pH gastrico: sono somministrati per os e
agiscono sullo stomaco. Il sito di somministrazione coincide con quello di azione quindi non c’è
assorbimento.
- Anestetici locali  somministrati direttamente nei liquidi interstiziali della zona che si vuole
anestetizzare e anche in questo caso non c’è assorbimento.
In tutti gli altri casi il farmaco per raggiungere il sito di azione deve essere assorbito e per essere
assorbito l’ostacolo principale che il farmaco deve superare è rappresentato dalle membrane
cellulari.
Vediamo prima di tutto quali sono i parametri farmacocinetici che si ricavano dallo studio
dell’assorbimento.
Curva concentrazione-tempo:
• asse delle x = tempo
• asse delle y = concentrazione plasmatica
del farmaco dopo la somministrazione.
Esempio: farmaco somministrato per os.
A t = 0 il farmaco non è ancora stato
somministrato, quindi la concentrazione
plasmatica = 0.
Dopo la somministrazione faccio dei prelievi
ematici nel tempo per valutare come varia la
concentrazione del farmaco in rapporto al
tempo.
Inizio curva: crescita lenta. All’inizio ho il
periodo di latenza = tempo che intercorre tra la somministrazione e l’insorgenza dell’effetto. In
questo intervallo non osservo un effetto clinico perché la concentrazione plasmatica è bassa e quindi
non ha ancora raggiunto il sito di azione.
La concentrazione plasmatica cresce nel tempo fino ad arrivare al valore di concentrazione che
coincide con l’insorgenza dell’effetto.
Se ciò lo riporto sugli assi cartesiani:
- asse delle x: individuo il tempo necessario affinché il farmaco inizi a determinare un effetto
terapeutico = latenza di azione/periodo di latenza
- asse delle y: individuo la concentrazione plasmatica esatta che corrisponde all’insorgenza
dell’effetto = Cmin efficace (mEC)
La concentrazione plasmatica continua a crescere fino a raggiungere un valore massimo Cmax per
la dose che ho somministrato.
Alla Cmax, riportata sull’asse delle y, corrisponde un Tmax, cioè il tempo necessario per il suo
raggiungimento. Dopo aver raggiunto la Cmax cominciano a prendere il sopravvento i processi di
eliminazione del farmaco, quindi la concentrazione inizia a diminuire e la curva inverte la sua
direzione (discesa a campana).
Con Cmin si indica la concentrazione plasmatica minima per il mantenimento dell’effetto
terapeutico. A valori di concentrazione minori della Cmin l’effetto terapeutico cessa e il farmaco
deve solo essere eliminato dall’organismo.
Ricorda che il valore della Cmax è in rapporto alla dose somministrata: alla crescita della dose
cresce anche il valore della Cmax, fino a raggiungere la concentrazione massima tollerata che
corrisponde alla dose massima tollerata MTD.
- dose: si utilizza quando si somministra un farmaco. Unità di misura è espressa in grammi o mg/kg se
è rapportata al peso del paziente;
- concentrazione: quantità di farmaco presente nell’organismo. Unità di misura: peso/volume
Quando raggiungo la dose massima tollerata raggiungerò anche nel sangue la concentrazione
massima tollerata.
L’intervallo [Cmin efficace e Cmax tollerata] = finestra terapeutica (nella curva
concentrazione/tempo).
L’AUC (area sottesa alla curva) = esposizione al farmaco del nostro organismo; cioè per quanto
tempo e per quali concentrazioni il nostro organismo è stato esposto.
AUC, Cmax e Tmax sono i principali parametri farmacocinetici che servono per la definizione
della posologia e, per quanto riguarda solo AUC e Cmax, per la messa in commercio dei farmaci
equivalenti.
Per far sì che il farmaco somministrato raggiunga la circolazione sistemica è necessario che esso
superi le barriere che si oppongono al suo arrivo nel sangue  le membrane biologiche: in quali
modi le supera? Questo dipende da due fattori principali:
- le caratteristiche chimico-fisiche del farmaco;
- le proprietà strutturali delle membrane che il farmaco deve attraversare.
Diffusione semplice
La maggior parte dei farmaci somministrati per os deve avere un grado elevato di lipofilicità,
cioè deve essere solubile ai lipidi per poter attraversare efficacemente le membrane. Cosa indica la
lipofilicità di un farmaco? Il coefficiente di distribuzione olio/acqua (D).
Se misceliamo olio e acqua rimangono in due fasi separate. Alla miscela aggiungo il farmaco,
calcolo le sue concentrazioni nelle rispettive fasi e ne faccio il rapporto:

Un farmaco che si distribuisce maggiormente in fase oleosa è liposolubile: D > 1


Un farmaco che si distribuisce maggiormente in fase acquosa è idrosolubile: D tende a 0.
Per i farmaci che sono sufficientemente lipofili l’assorbimento avviene per diffusione passiva.
L’assorbimento per diffusione passiva è regolato dalla legge di Fick.

Considerazioni sulla legge:


- v = velocità di diffusione passiva.
- (C1-C2) = gradiente di concentrazione del farmaco ai due lati della membrana.
C1 = concentrazione all’esterno, C2 = concentrazione all’interno.
La legge di Fick ci dice che la diffusione passiva avviene secondo gradiente di concentrazione.
Se il sistema che stiamo considerando fosse chiuso e il farmaco, una volta attraversata la
membrana, rimanesse dall’altra parte, all’equilibrio delle concentrazioni (C1=C2) il passaggio si
arresterebbe. Nella realtà però il farmaco viene trasportato prima al dominio cellulare opposto e
poi, sempre secondo il suo gradiente di concentrazione, riversato nella circolazione sistemica
(non si tratta di un sistema chiuso). Questo permette di mantenere costantemente un gradiente
di concentrazione ai due lati della membrana che consente l’assorbimento completo di tutta la
dose del farmaco.
- A = area della superficie da attraversare per raggiungere il circolo. Più è vasta, più la velocità
dell’assorbimento aumenta. Questo spiega perché un farmaco che viene somministrato per bocca è
assorbito prevalentemente dall’intestino tenue e non dallo stomaco.
Area assorbente intestino tenue (villi e microvilli) = 200 m2
Area assorbente stomaco = 2 m2
- D = coefficiente di distribuzione. Il farmaco deve mantenere un certo grado di idrofilicità per
essere assorbito perché altrimenti rimarrebbe integrato nel doppio strato lipidico senza
attraversarlo.
- d = spessore della membrana. La velocità di assorbimento è inversamente proporzionale allo
spessore della membrana da superare. Questo spiega perché la velocità di diffusione è molto
maggiore se l’assorbimento avviene nell’intestino tenue, rispetto alla velocità di assorbimento di un
farmaco attraverso la cute dopo applicazione tramite gel/pomata. Perché spessore cute > spessore
epitelio intestinale (nel tenue abbiamo un epitelio monostratificato).
Questa legge come detto si applica bene alla maggior parte dei farmaci somministrati per os, che
presentano un elevato grado di lipofilicità. Non tutti i farmaci però presentano un grado di
lipofilicità tale da essere assorbiti per diffusione passiva.
Ci sono infatti dei farmaci con un profilo maggiormente idrofilo e/o di dimensioni elevate che
devono sfruttare altri meccanismi di trasporto cellulare:
 trasporto attivo
 diffusione facilitata
 endocitosi/transcitosi
Trasporto attivo
Il trasporto attivo è sfruttato da molecole che non sono lipofile. Hanno bisogno di un trasportatore
che sfrutta l’idrolisi di ATP per trasportare il farmaco. L’impiego di energia è ciò che permette di
trasportare il farmaco anche contro gradiente di concentrazione. Qual è il senso di avere nel nostro
organismo dei trasportatori per il trasporto attivo dei farmaci? In realtà sono trasportatori per
sostanze endogene che però hanno una struttura biochimica molto simile a tali farmaci che quindi
possono legarsi a loro e sfruttarli per essere assorbiti.
Quali sono i parametri che influenzano la cinetica del trasporto attivo?
 n° trasportatori disponibili;
 turnover del trasportatore: numero massimo di molecole di farmaco che è in grado di trasportare
nell’unità di tempo.
La cinetica del trasporto attivo è di ordine 0, cioè una cinetica saturabile: è inutile aumentare la
dose del farmaco per aumentarne la velocità di assorbimento perché una volta che si è raggiunto il
turnover il trasportatore è saturo e non riesce a trasportare una quantità maggiore di molecole
nell’unità di tempo. Nell’assorbimento per diffusione passiva invece l’aumento della dose aumenta
la velocità perché aumento il gradiente di concentrazione ai due lati della membrana.
Diffusione facilitata
È lo stesso principio del trasporto attivo. Anche in questo caso sono coinvolti farmaci non lipofili e
un trasportatore, che però non sfrutta l’idrolisi di ATP, quindi il verso dell’assorbimento è solo
secondo gradiente di concentrazione del farmaco. La cinetica però è identica a quella del trasporto
attivo.
Endocitosi/transcitosi
Formazione di una invaginazione della membrana plasmatica in cui vengono inglobati il farmaco
e la soluzione acquosa. Formazione di una vescicola contenente il farmaco solvatato che ne
permette così l’assorbimento.
Un tipo di endocitosi molto importante è quella mediata da recettore. Questi recettori quando
interagiscono con il ligando clusterizzano (si accumulano) in un unico punto della membrana, in cui
avviene prima l’invaginazione e poi la formazione di una vescicola contenente molti complessi
recettore-ligando. Qual è il destino del complesso farmaco-recettore all’interno della vescicola?
a. Dissociazione complesso recettore-ligando. Il meccanismo più comune è l’acidificazione del lume
della vescicola per l’azione di pompe protoniche espresse sulla membrana della vescicola stessa. La
variazione di pH destabilizza le interazioni e consente il distacco del farmaco, che viene riversato nel
citoplasma, e il riciclo in membrana del recettore.
b. Transcitosi: attraversamento della cellula mediato da una vescicola. La vescicola attraversa la
cellula e si fonde con la membrana del versante opposto. Anche in questo caso le differenze di pH tra
i due ambienti acquosi inducono la dissociazione del farmaco che viene riversato all’esterno.
Questo meccanismo oggi si sta sfruttando per trasportare farmaci molto grandi che altrimenti non
verrebbero assorbiti e per l’assorbimento di farmaci all’interno del SNC, data la presenza della
barriera emato-encefalica, che lo protegge dalle sostanze tossiche che possono circolare nel
sangue, ma allo stesso tempo non consente neanche ai farmaci di oltrepassarla. La barriera sarebbe
permeabile solo a molecole con un grado di lipofilicità molto elevato, ma alcuni dei farmaci
potenzialmente terapeutici hanno un grado di lipofilicità molto basso dato dalla loro composizione e
struttura, come gli anticorpi monoclonali o i farmaci di natura peptidica.
Come far attraversare la barriera emato-encefalica a questi farmaci?
Si sfrutta la presenza sulla barriera di pochi trasportatori specifici per sostanze endogene, ad
esempio:
 trasportatori per insulina
 trasportatori per la transferrina: target più sfruttati per l’assorbimento di farmaci a livello del
SNC.
La transferrina è la principale proteina plasmatica che lega il ferro permettendone la circolazione
nell’organismo; questo perché il ferro allo stato libero (Fe+2) può spontaneamente partecipare alla
reazione di Fenton e dare origine a radicali liberi che danneggiano le cellule (perossidazione lipidica
e danneggiamento DNA). Per essere poi internalizzato dalle cellule deve essere coniugato alla
transferrina. Infatti, esprimono sulla loro superficie dei recettori per la transferrina, che
riconoscono e internalizzano tramite endocitosi. Questi sono alcuni dei pochi recettori presenti
anche sulla barriera emato-encefalica. Infatti, uno dei meccanismi studiati per superare questa
barriera consiste nell’ingegnerizzare i farmaci che hanno come target il SNC, coniugandoli con
molecole riconoscibili da questi trasportatori così che possano essere assorbiti (transcitosi).
Abbiamo analizzato le modalità di assorbimento in base alle proprietà chimico-fisiche dei farmaci,
ora analizziamole in base alle caratteristiche strutturali delle membrane. Ne esistono diversi tipi
alcune molto permeabili e altre, come la barriera emato-encefalica, quasi impermeabili.

- La membrana plasmatica più permeabile di tutte è quella dei sinusoidi epatici. Come fa il fegato a
captare le molecole e i farmaci? I sinusoidi epatici hanno un endotelio ricco di pori e finestre e
quindi attraverso queste strutture molte molecole riescono a passare per diffusione passiva, anche se
non sono sufficientemente lipofili. Inoltre, l’endotelio dei sinusoidi è privo esternamente di
membrana basale, quindi hanno uno spessore molto ridotto e questo è il motivo per cui molte
molecole possono arrivare al fegato attraverso i sinusoidi epatici (inoltre esistono anche numerosi
recettori).
- Al secondo posto abbiamo il glomerulo renale: costituito dall’insieme di capillari che originano
dalle arteriole renali. L’endotelio è costituito da pori che permettono la diffusione passiva di
molecole il cui peso è ≤ 60kDa. I capillari del glomerulo renale, però, sono dotati di membrana
basale esterna quindi lo spessore è maggiore. La velocità di filtrazione delle sostanze è minore
rispetto a quella dei sinusoidi epatici.
- Poi la placenta: membrana biologica in cui troviamo i vasi materni (circolazione sanguigna materna)
e i villi del feto (circolazione sanguigna fetale). Permette lo scambio delle sostanze disciolte nel
sangue tra madre e feto. Nel corso della gravidanza lo spessore della placenta si modifica: all’ inizio
ha uno spessore di circa 25 μm e verso la fine di 2 μm. Inoltre, è dotata di un’elevata
permeabilità ed è ricca di trasportatori, ciò significa che quasi tutte le sostanze disciolte nel
sangue materno possono passare al feto. Per i nuovi farmaci è molto difficile studiare il passaggio
placentare perché non vengono arruolate negli studi clinici donne in gravidanza. Qualche dato lo si
ottiene per via accidentale nel caso in cui una donna rimanga incinta solo dopo essere stata arruolata
nello studio e ne venga a conoscenza nelle settimane/mesi successivi. In questa situazione viene
interrotta immediatamente la somministrazione del farmaco, ma la donna rimane monitorata per
valutarne i possibili effetti sulla gravidanza e di conseguenza capire se è avvenuto passaggio
placentare. Con l’eccezione di questo caso, i dati sul passaggio placentare che possediamo sono solo
di origine animale. Quindi molte volte i farmaci vengono approvati senza sapere esattamente se sono
in grado di passare la placenta, ma poiché c’è un’elevata probabilità teorica che siano capaci di
oltrepassarla, sui foglietti illustrativi dei farmaci è sempre presente l’avvertenza “non
somministrare in gravidanza senza consulto medico” come misura precauzionale verso la
gravidanza.
- Invece la barriera emato-encefalica è difficilmente permeabile per diverse caratteristiche
strutturali:
1) Non ci sono pori e finestre
2) Le cellule endoteliali adiacenti sono unite da giunzioni strette
3) Provvista di membrana basale
4) I prolungamenti citoplasmatici degli astrociti avvolgono i capillari cerebrali
aumentandone lo spessore
5) Sono espressi in membrana un numero molto limitato di trasportatori.
Le uniche molecole/farmaci che attraversano la barriera sono quelle in grado di sfruttare dei
trasportatori. Oltre alle tecniche di ingegnerizzazione dei farmaci per il recettore della
transferrina che abbiamo visto prima, si possono sfruttare anche altri tipi di trasportatori.
Questo è ciò che è stato fatto per la terapia del morbo di Parkinson. È una patologia
neurodegenerativa cronica che coinvolge i neuroni dopaminergici nigro-striatali: neuroni il cui
corpo è localizzato nella sostanza nera e che proiettano i loro assoni nel corpo striato rilasciando
dopamina. La degenerazione di questi neuroni porta a una diminuzione progressiva nel tempo della
concentrazione di dopamina che agisce sui neuroni del corpo striato, che ha il ruolo di modulare
l’impulso motorio proveniente dalla corteccia per poter eseguire dei movimenti fluidi e coordinati
(gangli della base). Questo è il motivo per cui alla degenerazione neuronale e alla diminuzione della
concentrazione di dopamina si associa l’insorgenza dei sintomi del Parkinson: bradicinesia
(lentezza dei movimenti) che se non trattata sfocia in acinesia (completa incapacità di movimento),
tremori e difetti posturali.
Il primo tentativo per trattare i sintomi intuitivamente sarebbe quello di somministrare dopamina
esogena; non è possibile perché la dopamina non è in grado di attraversare la barriera e non
riuscirebbe a raggiungere il corpo striato. Si è pensato allora di somministrare un suo precursore,
cioè la L-DOPA, che, a differenza della dopamina che è un’ammina biologica, è un amminoacido
(C in alfa legato al gruppo amminico e gruppo carbossilico). Il nostro organismo è comunque
fornito dell’enzima DOPA-decarbossilasi che rimuove il gruppo carbossilico dell’amminoacido
convertendolo in dopamina.
La barriera ematoencefalica è fornita di trasportatori specifici per amminoacidi ramificati che
la rendono permeabile alla L-DOPA, ma non alla dopamina. L-DOPA è il farmaco principale per
la terapia del morbo di Parkinson.
Esistono a livello della barriera emato-encefalica delle aree di lassità (aree in cui la barriera è meno
efficiente) in cui le sostanze disciolte nel sangue possono passare, gli organi circumventricolari.
In particolare, sul pavimento del quarto ventricolo è presente la CRTZ (chemioreceptor trigger
zone), una zona di lassità della barriera in cui sono espressi diversi chemocettori. Quando questi
chemocettori vengono stimolati per interazione con i ligandi specifici, si ha l’eccitazione di
neuroni dopaminergici che proiettano al centro del vomito, inducendo questa risposta. Questo è il
meccanismo che spiega l’azione emetica di sostanze tossiche, che vengono ingerite, assorbite a
livello della CRTZ e, interagendo con i chemocettori di questa zona, eccitano neuroni
dopaminergici (la dopamina è emetica) che proiettano ai centri del vomito.
Oltre all’utilizzo dei trasportatori come si somministrano i farmaci all’interno del SNC?
Si possono somministrare attraverso il liquor secondo due modalità:
- spazio epidurale: somministrazione utilizzata nell’anestesia epidurale;
- via intratecale: utilizzata nell’anestesia spinale.
Somministrazione nello spazio epidurale: lo spazio epidurale è posto tra l’osso e la dura madre,
ricco di adipe e plessi venosi, il farmaco viene somministrato direttamente nello spazio ed è
facilitato nell’attraversamento della barriera EE. Il farmaco è immesso nello spazio, ma deve
attraversare le meningi prima di arrivare nel liquor, quindi dalla somministrazione all’insorgenza
dell’effetto terapeutico deve trascorrere una finestra di tempo che è la latenza d’azione; per lo
stesso principio anche la scomparsa dell’effetto anestetico sarà graduale, quindi abbiamo un
mantenimento dell’anestesia nel tempo più prolungato oltre la cessazione della somministrazione
del farmaco. Il vantaggio di questa somministrazione è quello di non dover perforare la dura
madre, evitando come effetto collaterale per i pazienti una cefalea molto intensa.
Quando si perfora la dura madre? Quando si esegue una somministrazione intratecale che prevede
l’immissione del farmaco tra l’aracnoide e la pia madre. Si utilizza per l’anestesia spinale, quando
si vuole addormentare localmente (quindi il paziente rimane vigile) solo la porzione inferiore del
corpo (bacino e arti inferiori). È il tipo di anestesia più utilizzata per ernie inguinali e parti cesarei,
ma la via intratecale si utilizza anche in pazienti oncologici terminali per la somministrazione di
morfina perché il dolore è così elevato che tutte le altre vie di somministrazione della morfina sono
inefficaci. Un altro farmaco che si somministra per via intratecale è il Baclofen, un miorilassante
utilizzato per patologie in cui si verificano spasmi protratti della muscolatura che portano a dolore
continuo; ci sono pazienti che rispondono solo a questo tipo di somministrazione.

Vie di somministrazione principali. Si dividono in quattro categorie:


 vie enterali
 vie parenterali
 vie di somministrazione d’organo
 via transdermica
Le prime due sono le principali.
Le vie enterali sono tutte le vie di somministrazione che utilizzano il tratto digestivo e lungo cui
avviene l’assorbimento. Tra le vie enterali la più importante è la via orale (per os) perché è quella
che di solito assicura la maggiore compliance del paziente, cioè la sua disponibilità a seguire la
terapia.
Quali sono i fattori che influenzano la via orale?
1. Nello stomaco: pH
La maggior parte dei farmaci in commercio sono acidi/basi deboli, quindi in funzione del pH
dell’ambiente sono più o meno dissociati. Ad esempio, un acido debole in un ambiente acido (ricco
di protoni/idrogenioni) tenderà a mantenere i suoi protoni, mentre tenderà a perderli a pH basico,
quindi a presentarsi in forma dissociata.
Qual è la differenza tra una molecola dissociata e una molecola non dissociata? La capacità di
attraversare le membrane biologiche. Una molecola dissociata presenta, a differenza di una
molecola non dissociata, una carica netta che le impedisce di attraversare il doppio strato
lipidico per diffusione passiva. Nella somministrazione orale il primo ambiente con pH ≠ 7 che si
incontra è lo stomaco. Il pH dello stomaco, a digiuno, =1, quindi molto acido.
Cosa succede se prendo un farmaco che è un acido debole?
Esempio: Aspirina (acido debole), indicazioni terapeutiche: analgesico. L’aspirina, assunta per os,
giunge nello stomaco dove trova un pH acido e pertanto rimane in forma non dissociata che le
consente di diffondere passivamente attraverso le membrane biologiche ed essere assorbita
dalla mucosa gastrica. Tuttavia, lo stomaco non è il sito di assorbimento preferenziale, quindi,
assorbe solo il 10% della dose assunta. Il 90% è assorbito a livello dell’intestino tenue.
Il 10% della dose che viene assorbito entra nelle cellule epiteliali della mucosa gastrica; in una
qualsiasi cellula del nostro corpo il pH fisiologico è 6.5-7, quindi l’aspirina, trovandosi in un
ambiente a pH tendente al neutro, si dissocia. La forma dissociata non è in grado di attraversare le
membrane, quindi, rimane all’interno delle cellule della mucosa per un po' di tempo producendo dei
danni di tipo meccanico. Questo è uno dei due meccanismi alla base della gastro-lesività
dell’aspirina e di tutti i FANS (cioè farmaci antinfiammatori non steroidei) che noi utilizziamo
normalmente come antipiretici, antinfiammatori o analgesici.
Esistono in commercio delle formulazioni di FANS definite gastro-protettive perché il principio
attivo è inserito in una soluzione tamponata a pH più elevato che induce la dissociazione del
principio attivo. Quando giunge nello stomaco rimane tamponata e quindi non viene assorbita dalla
mucosa gastrica. Proteggono veramente dal danno? No, o meglio proteggono solo dalla quota di
danno alla mucosa indotto dall’assorbimento del farmaco, che è responsabile solo in minima parte
della gastro-lesività dei FANS. Infatti, è il meccanismo d’azione dei FANS ad essere il maggiore
responsabile della loro gastro-lesività. Tutti i FANS sono inibitori competitivi delle ciclossigenasi,
enzimi fondamentali nella sintesi di mediatori pro-infiammatori, quali le prostaglandine,
responsabili dei segni tipici dell’infiammazione. Quindi l’azione antinfiammatoria e analgesica dei
FANS è conseguenza della loro attività inibitoria sulle ciclossigenasi che riduce la quota di
prostaglandine.
Nello stomaco però le prostaglandine sono delle sostanze gastro-protettive costitutive, perché:
- aumentano la produzione di muco che si stratifica sulla parete proteggendola dai possibili insulti
delle sostanze che vengono ingerite;
- diminuiscono la produzione di acido cloridrico;
- velocizzano il flusso sanguigno a livello della mucosa.
Questo cosa comporta? Le sostanze tossiche che vengono ingerite e che possono danneggiare la
parete dello stomaco vengono eliminate più velocemente riducendo il loro tempo di esposizione
alla mucosa e quindi la possibilità di fare danno.
Purtroppo, questo è un meccanismo di danno non eliminabile perché è anche il meccanismo
farmacologico, quindi terapeutico, con cui agiscono i FANS. Le formulazioni tamponate,
pertanto, posso agire solo sulla gastro-lesività causata dall’assorbimento a livello gastrico (ma non
possono far nulla sul meccanismo d’azione).
Il pH, inoltre, è importante nella somministrazione per via orale perché impedisce la
somministrazione di farmaci acido-labili, poiché verrebbero distrutti dal pH gastrico prima di poter
svolgere la loro azione terapeutica. Un esempio di queste molecole è la Penicillina G: l’antibiotico
naturale (di natura estrattiva) scoperto da Fleming dopo averlo isolato dalle muffe, che deve essere
somministrata unicamente per via parenterale.
Il pH influenza anche lo svuotamento gastrico. A digiuno (quindi a livelli di pH = 1) circa ogni
30 minuti lo stomaco va incontro a una contrazione di tipo espulsivo e il suo contenuto viene fatto
progredire lungo il tratto. A stomaco pieno, cioè dopo i pasti, questa contrazione espulsiva è
sostituita dalla peristalsi gastrica che mira a digerire gli alimenti e a farli progredire verso il
duodeno. In questo caso il tempo di svuotamento dello stomaco non è più di trenta minuti, ma
dipende dal tipo di pasto:
- pasto leggero (poca quantità no grassi): 2-3 ore
- pasto normale: 3-4 ore
- pasti abbondanti e ricchi di grassi: 5-6 ore
Quindi se il nostro obiettivo è che un farmaco venga assorbito rapidamente come lo dobbiamo
somministrare? A digiuno, perché il tempo massimo di assorbimento sarà di 30 minuti a
seconda di quanto il farmaco sia stato assunto a ridosso di una contrazione espulsiva. Con la
contrazione espulsiva che avviene a digiuno il farmaco viene fatto progredire verso l’intestino tenue
e viene assorbito. Tuttavia, però non è sempre possibile assumere i farmaci a digiuno:
- alcuni farmaci sono emetici, quindi inducono nausea e vomito. Il digiuno aumenta la sensazione di
nausea e vomito. Per ridurre la sensazione devono essere assunti col cibo.
- alcuni farmaci subiscono un metabolismo di I passaggio, cioè prima di raggiungere la circolazione
sistemica vengono metabolizzati e inattivati. È necessario somministrarli con il cibo perché il
metabolismo di I passaggio avviene nel fegato e così come gli alimenti che noi ingeriamo
raggiungono il fegato tramite la circolazione portale (vena porta), lo stesso accade ai farmaci
somministrati per os. I farmaci che subiscono questo processo sono captati dagli epatociti tramite i
trasportatori presenti sui sinusoidi, metabolizzati e inattivati. Se noi somministriamo questi
farmaci insieme agli alimenti, questi competono per il legame con i trasportatori, riducendo il
numero di trasportatori disponibili a legare i farmaci. Effetto: viene captata dal fegato una quota
minore di farmaco rispetto alla quantità che verrebbe captata se il farmaco fosse somministrato a
digiuno (rallentato assorbimento).
2. Nell’intestino tenue: flusso ematico e peristalsi.
La maggior parte dell’assorbimento avviene a livello del tenue. Se la molecola è piccola e lipofila
l’assorbimento a livello del tenue dipende fondamentalmente dal flusso ematico, quindi migliore è
il flusso ematico, più veloce è l’assorbimento.
Se invece la molecola è più grande e poco liposolubile ciò che influenza maggiormente
l’assorbimento a livello del tenue è la velocità di transito a livello del tubo gastrointestinale. Come
avviene il transito? Attraverso i movimenti peristaltici che favoriscono il transito del bolo e quindi
anche dei farmaci ingeriti. Esistono però dei farmaci che interferiscono con la peristalsi
intestinale. La peristalsi è la contrazione della muscolatura liscia, in questo caso intestinale, ed è
regolata (favorita) da recettori muscarinici dell’acetilcolina.
Quindi la peristalsi essere regolata da recettori muscarinici dell’Ach. Essi sono in numero di 5 e
appartengono alla famiglia delle GPCR, ovvero recettori muscarinici associati a proteina G.
Ritornando alla muscolatura liscia del tratto gastrointestinale, questa esprime i recettori descritti di
tipo M3. Insieme a M1 e M5, sono tutti accoppiati alla proteina di tipo Gq, mentre quelli che
riportano numero pari, M2 e M4, sono accoppiati alla proteina di tipo Gi, ovvero inibitoria.
Quando M3 viene attivato dal legame con Ach, determina un aumento della concentrazione di
calcio all’interno della cellula.
Nella cellula muscolare liscia della tonaca muscolare gastrointestinale, invece, l’aumento dei livelli
di calcio determina la contrazione e conseguentemente la peristalsi.
Vi sono dei farmaci, che hanno come effetto collaterale quello di essere degli antagonisti
muscarinici. Questo significa che agiscono ed evocano il loro effetto terapeutico attraverso altri
recettori, tuttavia vanno poi a bloccare i recettori muscarinici.
Una classe di farmaci, che provoca proprio questo effetto, è quella degli antidepressivi triciclici.
Questi oltre ad agire come antidepressivi, potenziando la trasmissione serotoninergica e
noradrenergica, bloccando i recettori muscarinici. Il blocco dei recettori muscarinici comporta
degli effetti collaterali in base a dove sono espressi. Nel caso di M3 questo è espresso sulla
muscolatura liscia degli organi innervati dal parasimpatico, tra cui il tratto gastroenterico.
Somministrando un antidepressivo triciclico, si avrà quindi in prima battuta ad una diminuzione
della peristalsi e conseguentemente insorgenza di difficoltà nella digestione e stipsi.
Biodisponibilità
Quando abbiamo trattato la curva concentrazione-tempo, abbiamo visto che è fondamentale
perché ci permette di ottenere dei parametri utili per definire la dose e posologia del farmaco.
L’area sottesa dalla curva, ovvero l’AUC, è proprio uno di questi parametri. Questa ci permette di
descrivere la biodisponibilità di un farmaco, ovvero la frazione o porzione di dose del farmaco
che raggiunge la circolazione sistemica in forma attiva e la velocità con la quale questo
processo avviene.

Abbiamo descritto precedentemente quali siano i problemi di una somministrazione orale di un


farmaco, per via del passaggio attraverso il tratto gastrointestinale e anche i problemi legati al
filtraggio epatico, ovvero quando il fegato capta le sostanze, metabolizzandole e inattivandole,
prima che queste raggiungano la circolazione sistemica e quindi gli organi target. Quest’ultimo
concetto si definisce come metabolismo di I passaggio.
Quindi quando noi somministriamo un farmaco, la concentrazione di questo in forma attiva
che raggiunge poi la circolazione sistemica, può non corrispondere alla concentrazione
somministrata, ma può essere inferiore. È proprio questo che intendiamo per biodisponibilità.
Ad esempio, se si somministra un farmaco per via endovenosa, avremo una biodisponibilità alta e
quindi pari a 1, ovvero il massimo, in quanto tramite la via di somministrazione ci ritroviamo
subito in circolazione sistemica. Per tutte le altre vie di somministrazione, la biodisponibilità non
sarà mai pari a 1 (<1).
Altro esempio è il propranololo, che subisce il metabolismo di I passaggio. Per cui in seguito alla
somministrazione per os, arriverò ad avere una biodisponibilità non molto elevata (50-70%).
Come faccio a calcolare la biodisponibilità di diverse popolazioni di uno stesso farmaco?
Spieghiamolo con un esempio. Una ditta farmaceutica mette in commercio un farmaco per la prima
volta a somministrazione endovenosa ma, dopo qualche tempo, realizza degli studi e decide di
convertire la somministrazione da endovenosa a orale. Com’è possibile sapere che la nuova via di
somministrazione mi garantisca il raggiungimento della stessa biodisponibilità raggiunta per
via endovenosa?
In questo caso è necessario calcolare la biodisponibilità assoluta.
Essa si calcola quindi come l’AUC della somministrazione che si sta studiando (orale o os in
questo esempio) moltiplicato per la dose che somministro per via endovenosa e diviso l’AUC
che si ottiene dopo la somministrazione per via endovenosa, moltiplicato per la dose
somministrata per os. Quindi ottengo il rapporto fra biodisponibilità endovenosa e quella che
ottengo con qualsiasi altra via di somministrazione.
Se invece voglio paragonare la biodisponibilità in seguito alla somministrazione di formulazioni
diverse dello stesso farmaco o somministrazione per vie diverse dalla endovenosa, devo utilizzare la
biodisponibilità relativa, sostituendo ai termini precedenti i termini relativi ai tipi e dosi di
somministrazione che sto realizzando. Ad esempio, utilizzerò la biodisponibilità relativa per
paragonare la somministrazione rettale con quella orale e così via.
Quando vado a realizzare un grafico concentrazione-tempo come quello che si riporta di seguito, la
curva descritta dalla somministrazione per via endovenosa (prima curva dall’alto) è molto differente
rispetto a quella data dalla somministrazione per via orale.

Al tempo zero della prima curva, stiamo somministrando il farmaco all’interno della vena, quindi
avremo la concentrazione massima del farmaco in quel momento, e poi questa va diminuendo.
Farmaci generici (equivalenti)
La conoscenza della biodisponibilità e in particolare l’AUC che deriva dalla somministrazione di
un farmaco e della Cmax, sono quei parametri che è necessario conoscere per poter mettere in
commercio i farmaci generici o equivalenti.
Quando un’industria farmaceutica mette in commercio per la prima volta un farmaco (detto farmaco
originatore), ha una cosiddetta copertura brevettuale. È una garanzia di 10 anni di esclusività
commerciale, che viene data all’industria produttrice per potersi rifare delle risorse, in termini di
tempo e monetarie, spese per lo sviluppo del farmaco. Quindi nessuna altra industria può mettere in
commercio quel farmaco, in quanto protetto da brevetto, per i 10 anni successivi.
Allo scadere dei 10 anni è possibile per tutti gli altri mettere in commercio i farmaci equivalenti,
ovvero quelli che hanno la stessa composizione e principio attivo del farmaco originatore. Ad
esempio, se parliamo dell’aspirina, questa è il farmaco originatore e una qualsiasi industria che
voglia produrre un suo equivalente, deve produrlo con lo stesso principio attivo, ovvero l’acido
acetilsalicilico e con la stessa quantità contenuta nel farmaco originatore. Quindi, si dice che deve
avere la stessa composizione qualitativa e quantitativa del principio attivo. Se consideriamo
l’aspirina originale con principio attivo a 100 mg, dovrò riprodurre il mio generico con sempre 100
mg di principio attivo.
Il generico deve essere inoltre:
- con la stessa indicazione: quindi, sempre rimanendo sull’aspirina; se questa è un farmaco
antinfiammatorio, anche l’equivalente dovrà esserlo.
- con la stessa formulazione dell’originale: se l’originatore è ad esempio in compresse, anche
l’equivalente dovrà esserlo.
- bioequivalente con l’originatore.
Per quanto riguarda quest’ultimo punto facciamo un discorso più ampio. Se andiamo a riportare le
curve concentrazione-tempo del farmaco originatore ed equivalente, queste devono esse
sufficientemente simili da potersi sovrapporre (immagine riportata in alto).
In altri termini, questo significa che i due parametri che possiamo ricavare da queste curve, ovvero
l’AUC e la Cmax devono essere sufficientemente simili. Per mettere in commercio l’equivalente,
inoltre, non serve rifare gli studi di efficacia e sicurezza, ma devo svolgere soltanto degli studi
di farmacocinetica. Per realizzare ciò prendo dei soggetti per lo studio, somministro il farmaco
equivalente, faccio dei prelievi in tempi diversi, costruisco la curva concentrazione-tempo.
Successivamente, faccio trascorrere una finestra temporale definita come wash-out, che serve ad
assicurare che il farmaco equivalente sia stato completamente metabolizzato ed escreto. Poi
somministro il farmaco originatore, faccio nuovi prelievi ematici, costruiscono la nuova curva
concentrazione-tempo. A questo punto calcolo le medie delle AUC e Cmax ottenute nelle due fasi
di studio. Affinché quindi un farmaco possa essere considerato equivalente all’originatore, questo
deve rispettare due condizioni:
- L’intervallo di confidenza al 90% del rapporto tra le medie delle AUC dei due farmaci, ricada tra lo
0.8 e 1.25, ovvero al massimo tra le 2 AUC ottenute può esserci una differenza del 20% nel 90%
dei casi.
L’intervallo comprende i valori indicati, in quanto il valore di riferimento è 1 e aggiungendo o
togliendo 0.2 si ottengono proprio gli estremi dell’intervallo. Lo 0.05 è uno scarto dovuto all’utilizzo
di conversione delle unità di misura.
- La stessa cosa vale per le Cmax. Nuovamente la differenza fra i due valori non deve superare il
20% nel 90% dei casi.

Si accetta una differenza del 20%, in quanto si tratta dell’errore statistico, ovvero anche se ripeto
l’esperimento più volte cercando di mantenere costanti le condizioni sperimentali, si verifica
comunque quest’errore. Esso è lo stesso errore che compiono anche le nostre cellule. Infatti, se
somministro un farmaco alla stessa persona più volte i risultati che ottengo possono variare al
massimo del 20%.

Perché quindi mi basta fare uno studio di farmacocinetica per calcolare la bioequivalenza per
far approvare un farmaco equivalente? Perché il contenuto di principio attivo, posologia e
indicazioni sono uguali e se mi assicuro anche che le due curve concentrazione-tempo siano
simili, mi assicuro anche che anche l’esposizione dell’organismo al farmaco equivalente e
originatore è la stessa. Per cui posso assumere, anche se non ho svolto gli studi rispettivi, l’efficacia
e la sicurezza del farmaco equivalente saranno molto simili all’originatore.
Che vantaggi si hanno con l’introduzione dei generici? Il vantaggio è puramente economico per
il sistema sanitario nazionale, in quanto per legge l’equivalente deve costare almeno il 20% in
meno rispetto all’originatore. In realtà, nella pratica i farmaci equivalenti costano ancora meno del
20%. Si parla addirittura del 50% in meno, per cui la ditta che offre il prezzo minore è quella che
poi è avvantaggiata nella vendita. Questo fa allocare, sempre al servizio sanitario nazionale, risorse
economiche risparmiate che permettono l’acquisizione di altri farmaci, il cui costo è sempre elevato
e che possono salvare la vita. L’equivalente può essere messo in commercio anche dalla stessa
industria che ha prodotto l’originatore (allo scadere sempre dei 10 anni) e questo per entrare
anch’essa in competizione a livello di mercato. Per poter quindi anch’essa guadagnare la propria
fetta di mercato, questa abbasserà ulteriormente il prezzo del farmaco, in modo che venga
acquistato maggiormente e ciò non fa altro che garantire più allocazioni al sistema sanitario
nazionale.
Il problema dietro i farmaci equivalenti è che in Italia, come in molti altri paesi europei, è che esiste
una cultura negativa nei confronti di questi (perché si pensa che siano meno sicuri, efficaci, etc.),
per cui in realtà non sono ancora così tanto venduti. In realtà, gli equivalenti sono sicuri ed efficaci
esattamente come gli originatori.
L’unica differenza verso l’originatore sono gli eccipienti, in quanto questi possono variare. Queste
in realtà sono le principali fonti di reazioni allergiche. La cosa che bisogna capire però è che
anche l’originatore contiene eccipienti, semplicemente questi possono essere diversi
dall’equivalente. Per cui, in realtà, questo è un vantaggio e una possibilità in più per chi, per
esempio, non può assumere l’originatore perché allergico ai suoi eccipienti, ma può comunque
curarsi con l’equivalente, in quanto il principio attivo è lo stesso e presenta degli eccipienti a cui il
soggetto non è allergico.
Altro concetto importante è che non bisogna cambiare farmaci equivalenti tra di loro,
soprattutto nei casi di patologie croniche che richiedano terapie prolungate per lunghi periodi di
tempo o per tutto il corso della vita, in quanto questi sono sì bioequivalenti rispetto all’originatore,
ma gli equivalenti non sono equivalenti tra di loro.
Nella cura di alcune patologie croniche è molto importante il mantenimento di concentrazioni
plasmatiche costanti del farmaco (es. anti-epilettici o anti-aritmici), per cui è fondamentale
mantenere l’assunzione dello stesso tipo di equivalente che determina un determinato livello
plasmatico del farmaco nel sangue. Se cambio equivalente, questo può non essere garantito. Se in
farmacia non vi è la disponibilità dell’equivalente che si utilizza, è consigliabile allora prendere
l’originatore, non un altro equivalente.
Farmaci biologici
Sono dei farmaci che contengono uno o più principi attivi prodotti o estratti da sistemi biologici.
Appartengono alla categoria dei farmaci biologici ormoni, enzimi, emoderivati, sieri e vaccini,
immunoglobuline, allergeni, anticorpi monoclonali. Oggigiorno con le tecniche che abbiamo, la
maggior parte di questi rientra all’interno della famiglia dei farmaci biotecnologici, ovvero farmaci
i cui principi attivi sono prodotti attraverso la tecnica del DNA ricombinante, regolazione
dell’espressione genica, formazione di ibridomi e anticorpi monoclonali. Questi devono essere
inoltre obbligatoriamente approvati dall’EMA (tutto ciò che è “difficile e complesso” si ricorda
che deve passare per la via centralizzata di approvazione dell’EMA).
I principi attivi dei medicinali biologici differiscono da quelli dei prodotti di sintesi chimica per
molti aspetti: essi consistono infatti di molecole di maggiori dimensioni, presentano elevata
complessità strutturale, hanno una diversa stabilità del prodotto finale e profilo delle
impurezze.
Diversamente dai prodotti di sintesi chimica, inoltre, i processi di produzione dei farmaci biologici
sono spesso caratterizzati dall’uso di sistemi viventi (cellule) con la possibilità di variazioni
strutturali rilevanti nel prodotto finale (ad esempio, differenti profili di glicosilazione), che possono
dar luogo a differenze importanti a livello immunogenico. Essendo, quindi, prodotti a partire da
organismi viventi e quindi dalle cellule, queste in realtà non producono sempre lo stesso prodotto,
bensì queste generano una certa variabilità nei prodotti. La stabilità è valutata con le prove di
stabilità, che permettono di definire per quanto tempo il farmaco rimane stabile e quindi di definire
poi la scadenza.
Tutto ciò si rifletta nella produzione di farmaci biotecnologici equivalenti, per cui il processo di
produzione di questi fa parte del farmaco stesso. In altri termini, rispetto ad un farmaco di sintesi
chimica che può essere prodotto esattamente nello stesso modo da diverse industrie farmaceutiche,
per i farmaci biotecnologici, pur mettendo in atto tutti gli accorgimenti possibili durante il
processo di produzione, si otterrà sempre una certa variabilità fra gli equivalenti, dovuta proprio
al processo produttivo.
Per questo motivo se si vuole realizzare un farmaco equivalente al biologico originatore, è
necessario realizzare su questi, rispetto ai casi precedenti, degli studi di efficacia e sicurezza. In
termini pratici è necessario paragonare il processo produttivo, ovvero i dati di qualità,
dell’originatore e dell’equivalente che è stato prodotto.
Spesso le differenze che si riscontrano maggiormente fra i due, riguardano il grado di
glicosilazione del peptide prodotto. Questo potrebbe avere e generare degli effetti collaterali da
parte dell’equivalente.
Il termine quindi corretto da utilizzare per gli equivalenti di questi farmaci è biosimilari, non
equivalenti. Per poter mettere in commercio un farmaco biosimilare non basta la dimostrazione di
bioequivalenza, che devo comunque fare, ma devo vedere se quelle differenze qualitative che ci
sono tra i due farmaci impattano sulla sicurezza e sull’efficacia. Pertanto, è necessario fare uno
studio di efficacia e sicurezza sul biosimilare e confrontarli i risultati con quelli dell’originatore.
Per i farmaci biologici e biotecnologici si parla quindi di biosimilari; per tutti gli altri, si parla di
farmaci equivalenti. La differenza tra i due sarà comunque al massimo 20%.

Tra le vie enterali, abbiamo:


 Via buccale: via che potrebbe sembrare uguale all’orale, ma non lo è. Consiste infatti nel
somministrare farmaci sotto la lingua, senza deglutirli, ma lasciandoli sciogliere. Siccome
la mucosa buccale è molto irrorata, l’assorbimento avviene nel giro di pochi secondi. Inoltre,
il plesso venoso sublinguale è tributario della vena cava superiore, pertanto il farmaco
arriva direttamente al cuore, bypassando il filtro epatico. Questa via viene utilizzata, ad
esempio, per somministrare nitroglicerina in caso di angina pectoris. L’angina pectoris è un
dolore trafittivo precordiale, che si manifesta nel momento in cui il cuore non riceve
sufficiente ossigeno per far fronte al carico di lavoro che è chiamato a fare. Per farlo passare
velocemente, si può somministrare nitroglicerina al momento dell’attacco. Il problema della
nitroglicerina, però, è che ha un elevatissimo metabolismo di I passaggio, per cui non può
essere data per os altrimenti quasi tutta la dose verrebbe metabolizzata e inattivata dal
fegato prima di raggiungere il circolo sistemico. Di conseguenza, la via che si usa in questo
caso è la via buccale, in modo tale che non venga inattivata dal fegato, ma arrivi tutta intera
al cuore, dove esplica la sua azione vasodilatatrice.
 Via oromucosale: è molto simile alla via buccale, solo che il farmaco viene fatto aderire
alla mucosa della guancia e non viene posto sotto la lingua, come nel caso della via
buccale. Il principio alla base è lo stesso: essendo la mucosa molto vascolarizzata, il farmaco
viene assorbito molto rapidamente. Si usa in situazioni in cui non è possibile accedere al
cavo sublinguale, come ad esempio durante gli attacchi epilettici. Un farmaco che ha
questa via di somministrazione, infatti, è proprio l’antiepilettico
Buccolam: durante una crisi epilettica non è possibile aprire la bocca in
quanto i muscoli sono contratti e serrati, ma è possibile sollevare la guancia ed infilare il
farmaco a contatto con la mucosa buccale, dove verrà assorbito. Il Buccolam contiene il
principio attivo Midazolam, una benzodiazepina. Le benzodiazepine sono farmaci induttori
del sonno (ipnotici), ansiolitici e miorilassanti, nonché antiepilettici. Questo farmaco è
indicato nelle crisi convulsive acute nell’infanzia. La formulazione che permette questa
somministrazione ha rivoluzionato il trattamento di questi eventi perché, prima di allora, il
farmaco d’elezione (Diazepam) veniva somministrato per via rettale in forma di supposta.
Questa via di somministrazione rendeva il paziente poco compliante alla terapia perché si
sentiva molto a disagio nel farsi somministrare un farmaco sotto forma di supposta,
eventualmente davanti ad amici o estranei spettatori dell’attacco epilettico.
 Via rettale: i farmaci somministrati per via rettale sono formulati sotto forma di supposte.
Il plesso venoso rettale è tributario al 50% per la vena porta e al 50% per la vena cava
inferiore. Questo comporta che metà della dose va al fegato e l’altra metà va in circolo
sistemico. La somministrazione per via rettale, quindi, non bypassa totalmente il
passaggio epatico, anche se in misura minore rispetto alla via orale. Inoltre, la via rettale
ha un assorbimento che viene definito erratico: significa che varia non solo tra individui,
ma anche all’interno dello stesso individuo. Implica che questa via venga usata per farmaci
che abbiano bisogno di essere assorbiti lentamente nel tempo, costituendo concentrazioni
plasmatiche non molto alte, ma costanti nel tempo. Un esempio di farmaco impiegato
sono gli antinfiammatori, specialmente nei bambini.
L’altro grande gruppo di vie di somministrazione è rappresentato dalle vie parenterali:
- Via intravasale: si suddivide in via arteriosa e via venosa. Di queste due, in realtà, si usa
solamente la seconda. La via arteriosa non si usa perché la maggior parte è irritante per le
arterie e causa vasospasmo, evento molto pericoloso. Pertanto, la via arteriosa viene usata
solamente per somministrare mezzo di contrasto per l’angiografia.
La via endovenosa può avvenire in due modi: per bolo o per fleboclisi.
La somministrazione per bolo prevede che la dose del farmaco venga somministrata in
vena con una siringa in un tempo molto breve (da 1 a 3 minuti circa, non in pochi
secondi). La somministrazione non viene fatta improvvisamente, in pochi secondi tutta
insieme, perché c’è il rischio di ottenere una concentrazione ematica troppo elevata, anche
se per poco tempo visto che sta direttamente nel circolo e quindi poi può distribuirsi. Una
concentrazione ematica improvvisa e troppo elevata può superare la Cmax e dare effetti
tossici, anche importanti, nel caso di farmaci cardiologici usati per trattare le aritmie (es:
lidocaina).
La somministrazione per fleboclisi, invece, consiste nell’uso delle flebo, ovvero sacche di
fisiologica in cui viene diluito il farmaco e poi somministrato tramite ago cannula. È una
somministrazione lenta, che impiega minimo 30 minuti e può durare anche molte ore a
seconda dei farmaci.
Il vantaggio della via endovenosa è che permette di introdurre direttamente il farmaco nel
circolo e bypassare la fase di assorbimento, il passaggio epatico, ed avere, quindi, una
efficacia massima in poco tempo = minore latenza di azione.
Si usa in tutti quei casi in cui c’è bisogno che il farmaco agisca più rapidamente possibile.
Tuttavia, questa caratteristica rappresenta anche uno svantaggio allorquando viene
somministrata una dose troppo elevata o un farmaco sbagliato, essendo quindi
impossibilitati a rimuovere suddetto farmaco dal circolo una volta che vi è stato immesso.
Questa è una grande differenza dei farmaci parenterali rispetto agli enterali, per i quali, in
caso di errata somministrazione, è possibile indurre il vomito o impiegare carbone vegetale
per assorbire quanto somministrato.
Ovviamente prima di somministrare un medicinale occorre verificare che la soluzione sia
liquida e senza precipitati.
- Via intramuscolare: si effettua con siringe direttamente nel muscolo, per un massimo di 5
ml totali di soluzione per sede di somministrazione. L’assorbimento dipende
dall’attività del muscolo interessato: se dopo la somministrazione intramuscolare il
muscolo utilizzato produce lavoro, questo causerà una accelerazione dell’assorbimento
rispetto al muscolo a riposo. Questo avviene perché un muscolo che lavora ha un afflusso di
sangue maggiore rispetto a un muscolo fermo. Può essere usata per somministrare anche
soluzioni a lento rilascio.
- Vie cutanee: le vie cutanee si suddividono in intradermica e sottocutanea.
La via intradermica viene impiegata esclusivamente per la somministrazione di antigeni
nello svolgimento di prove allergiche. Prevede l’inoculazione dell’antigene nel derma.
La via sottocutanea, invece, è molto utilizzata e prevede l’inoculo del farmaco
direttamente sottocute per un massimo di 2 ml di soluzione. Viene usata per i farmaci
depot: sono farmaci a rilascio ritardato che permettono, attraverso una sola
somministrazione, di mantenere costante l’esposizione al farmaco dell’organismo per un
numero prolungato di ore, persino di settimane o mesi. Questo avviene perché il farmaco
viene formulato in modo tale che, quando viene introdotto nel sottocute, l’intera dose non
viene immediatamente assorbita, ma costituisce una forma di deposito dal quale,
gradualmente, parte della dose si stacca e va in circolo. Tramite questo meccanismo è
possibile ottenere una dose costante di farmaco in circolo per un periodo prolungato di
tempo.
È molto usata, ad esempio, per l’insulina e altri ormoni. L’insulina si usa per la terapia
del diabete mellito. Ne esistono diversi tipi: regolari (che hanno un tempo di latenza
sovrapponibile a quelle di tipo estrattivo che si usavano una volta, prelevandole dal
maiale, mentre oggi è di tipo ricombinante), lente o ultralente. Le ultralente
assicurano una copertura costante nell’arco di 24 ore; un esempio è la Lantus, una
insulina ultralenta che è sensibile a pH acido per cui, nel momento in cui viene
somministrata a pH fisiologico non è solubile e precipita, formando il deposito di cui
sopra. Da questo sito di deposito, si scioglie lentamente una porzione alla volta e ciò
garantisce un livello costante di insulina (= concentrazione basale) per 24 ore.
Infine, vi sono le vie di somministrazione d’organo:
 Via intratecale;
 Via inalatoria: serve per patologie delle vie respiratorie. Consiste nell’inalazione del
farmaco che arriva direttamente nel sito di azione in grandi concentrazioni, in questo
caso i bronchi. Si ottengono due risultati: il farmaco è molto efficace perché arriva
direttamente tutto nel sito di azione, e in più sono farmaci formulati in modo tale da
essere scarsamente assorbiti. Non venendo assorbiti permangono all’interno dei bronchi
per il tempo necessario della loro azione e poi vengono espulsi tramite la respirazione. Il
fatto di non essere assorbiti e di non andare quindi nella circolazione sistemica riduce di
molto gli effetti collaterali.
 Via transdermica: rappresentata dai cerotti applicati sulla cute. Dal cerotto, lentamente,
viene assorbito il principio attivo che ha una attività rigorosamente locale. Agendo
localmente non si hanno effetti avversi sistemici.
Per i farmaci antinfiammatori non steroidei esiste una grande variabilità interindividuale in
termini di efficacia, di cui però non è noto il motivo. In alcune persone, infatti, i cerotti
funzionano molto bene mentre in altri soggetti non funzionano affatto.
Distribuzione
Attraverso la distribuzione, il farmaco passa dal plasma a tutti gli altri compartimenti acquosi
dell’organismo, quindi ai liquidi interstiziali e intracellulari. In questo modo si distribuisce ai
tessuti.
Quando si raggiunge l’equilibrio della distribuzione, il rapporto tra la concentrazione del farmaco
nel sangue e nei tessuti è costante. Questo significa che se la concentrazione del farmaco in uno di
questi settori si riduce, immediatamente si ribilancia la concentrazione negli altri settori. Quindi, se
la concentrazione nel sangue diminuisce perché il farmaco viene eliminato, il farmaco nel tessuto
per riformare l’equilibrio torna al sangue e lascia il tessuto.

Questo spiega il motivo per cui gli anestetici generali che vengono somministrati per via
endovenosa sono caratterizzati da un rapidissimo inizio d’azione (= latenza d’azione minima),
ma da un altrettanto rapida fine della loro azione  breve durata d’azione! Avviene perché gli
anestetici generali sono farmaci molto liposolubili perché, per agire a livello del SNC, devono
passare la barriera ematoencefalica. Quando vengono somministrati anestetici generali per via
endovenosa, questi agiscono immediatamente ed essendo molto liposolubili tendono ad andare
verso organi molto ricchi di grasso come il SNC e il tessuto adiposo. Poiché il SNC è molto più
vascolarizzato del tessuto adiposo, in un primo momento l’anestetico si distribuisce prima ad esso,
raggiunge l’equilibrio e poi inizia a spostarsi verso l’adiposo, riducendo la concentrazione
ematica. Per ripristinare l’equilibrio, la concentrazione all’interno del SNC si riduce e torna nel
sangue, facendo cessare rapidamente l’effetto anestetico. Ciò comporta che l’induzione
dell’anestesia viene fatta con questi farmaci, ma viene poi sostenuta da farmaci anestetici
generali inalatori che impiegano molto più tempo per raggiungere il SNC, ma vi restano molto più
a lungo.
Quindi, all’equilibrio le concentrazioni del farmaco nei vari distretti sono in equilibrio tra loro e se
da una parte diminuisce, diminuisce anche in tutti gli altri.
Due sono i parametri fondamentali da conoscere per lo studio della distribuzione:
a. Il legame con proteine plasmatiche
Le proteine plasmatiche vengono prodotte dal fegato e circolano nel sangue come trasportatori di
sostanze poco idrosolubili. Essendo il sangue acquoso, quei farmaci prevalentemente lipofili e
poco solubili hanno bisogno di essere trasportati da queste proteine plasmatiche. La proteina più
usata e più rappresentata è l’albumina. L’albumina trasporta molte sostanze, diverse tra loro,
mentre altre classi di proteine sono più specifiche per determinate sostanze.
Succede che si stabilisce un equilibrio tra il farmaco legato alla proteina plasmatica e la forma
libera nel sangue, mediante reazioni chimiche.
Soltanto la porzione libera di farmaco è in grado di evocare l’azione terapeutica del farmaco =
attiva. A mano a mano che la parte libera si distribuisce nel circolo e si lega ai recettori bersaglio
per esplicare l’effetto terapeutico, la porzione legata diminuisce e diventa progressivamente
libera. La forma legata quindi serve sia per il trasporto di farmaci lipofili nel sangue, ma funge
anche da deposito per avere una scorta di farmaco da avere successivamente in forma libera a mano
a mano che questa diminuisce.
Il legame con proteine plasmatiche è sfruttato, ad esempio, da un altro tipo di insulina ultralenta
(Levemir), tale non perché formi depositi nei tessuti, ma perché si lega all’albumina mediante una
coda di acidi di carbonio. Legandosi all’albumina rimane legata per un po’ e a mano a mano
viene convertita in forma libera per agire.
L’albumina ha un peso molecolare di 66 kDa. È importante da sapere perché, a livello del
glomerulo renale, i pori che si trovano sui capillari hanno un diametro di 60 kDa, per cui già
l’albumina da sola non deve essere in grado di attraversali, ma ancor di più non passerà se è legata
ad altre molecole. Questo significa che i farmaci legati all’albumina non possono essere filtrati
dal glomerulo renale. Tuttavia, i farmaci con peso molecole maggiore di 60 kDa possono
ugualmente eliminati dal rene, ma attraverso il meccanismo di trasporto a livello tubulare.
Bypassano il glomerulo e raggiungono il tubulo renale attraverso trasportatori che si trovano a
livello del tubulo contorto prossimale, cioè la prima porzione del tubulo renale.
Le proteine plasmatiche sono importanti anche perché possono determinare il cosiddetto fenomeno
dello spiazzamento: quando si fa una politerapia e si somministrano più farmaci molto legati alle
proteine plasmatiche ( > 90% della dose), si ha una competizione tra i due farmaci per vincere
il legame alla proteina trasportatrice. Questi carrier, infatti, hanno un numero limitato di siti di
legame e i farmaci si contenderanno tra loro il legame con esse. Si legherà meglio il farmaco che
ha maggiore affinità di legame con il recettore. Questo comporta che, il secondo farmaco, sarà
maggiormente presente in forma libera e questo implica non solo una maggiore quota di
farmaco attivo ma anche un rischio più alto di insorgenza di effetti avversi (da
sovradosaggio).
Il fenomeno dello spiazzamento deve destare preoccupazione nella pratica clinica nel momento in
cui si adoperano farmaci con basso indice terapeutico, il che comporta una scarsa
maneggevolezza del farmaco e un aumentato rischio di effetto tossico per una piccola variazione di
concentrazione ematica. Un esempio di questo problema è dato dal Warfarin, un anticoagulante
salvavita che però ha un indice terapeutico piccolissimo che comporta rischio di emorragie, anche
molto gravi. Per questo motivo, al paziente in terapia con Warfarin vengono date istruzioni molto
rigide per quanto riguarda la dieta e l’assunzione di altri farmaci che potrebbero scatenare questo
fenomeno.
Queste proteine sono sintetizzate dal fegato, per cui in pazienti con epatopatia la loro sintesi può
essere ridotta e di conseguenza anche il trasporto di farmaci che richiedono carrier proteici.
Occorre valutare bene la dose da dare per evitare di avere una concentrazione libera di farmaco
eccessiva.
Se un paziente fa terapia con un farmaco molto legato e sviluppa insufficienza epatica la quota di
farmaco diminuisce, aumentando la probabilità di sviluppare gli effetti collaterali del farmaco.
b. Volume apparente di distribuzione (VDA):
L’acqua nel nostro organismo è suddivisa in tre compartimenti:
- Plasma: 4%
- Interstizio: 16%
- Spazio intracellulare: 40%
Quindi per un individuo di 70 kg:
- Plasma: 3L
- Interstizio: 11L
- Spazio intracellulare: 28L
Il volume totale di acqua corporea corrisponde a 42L.
All’equilibrio di distribuzione la concentrazione del farmaco dovrebbe essere la stessa in tutti e tre i
compartimenti, ma nella realtà ciò non accade perché il farmaco si distribuisce in funzione
delle sue caratteristiche fisico-chimiche e dei tessuti:
 Farmaci che si concentrano nel tessuto adiposo (lipofili)
 Farmaci che si concentrano nel tessuto osseo
 Farmaci che si concentrano nel sangue
Per volume di distribuzione apparente si intende il volume teorico che sarebbe necessario
affinché il farmaco abbia la stessa concentrazione che ha nel sangue in tutti i compartimenti
idrici dell’organismo.
Il volume di distribuzione apparente può essere più piccolo del volume di acqua totale, molto simile
o molto più grande:
- Se il farmaco è polare e molto poco solubile nei lipidi, avrà un Vda piccolo di circa 3L
simile a quello dell’acqua plasmatica e questo perché andrà poco nell’interstizio e
all’interno delle cellule;
- Se il farmaco è idrofilo avrà un volume simile a quello dell’interstizio, perché esce dal
sangue e si accumula nell’interstizio.
- Se il farmaco è lipofilo, entra nelle cellule e avrà un volume simile a quello dello spazio
intracellulare, si distribuirà prevalentemente nei tessuti perché passa bene le membrane
cellulari
- Farmaci che penetrano nei tessuti ricchi di lipidi (molto lipofili), come il tessuto adiposo, o
nel tessuto osseo avranno un volume di distribuzione apparente molto maggiore di quello
dell’acqua corporea, perché il farmaco si accumula, arrivando anche a un Vda di 200-300 L.
Se io voglio un farmaco che agisce al livello del SNC ho bisogno di un grande Vda, se invece
ho bisogno di un farmaco che agisce a livello plasmatico, avrò bisogno di un basso Vda.
Gli anticorpi monoclonali hanno difficolta ad attraversare le membrane, hanno infatti un volume di
distribuzione piccolo che si localizza a livello del sangue e sono necessari accorgimenti tecnici per
permettere il passaggio tramite membrana. Si tratta di molecole molto grandi che hanno difficoltà
ad entrare all’interno delle cellule.
Se devo combattere un’infezione a livello del tessuto osseo, dovrò utilizzare farmaci con grande Vd
in grado di creare accumulo a livello osseo.
I farmaci che agiscono a livello del SNC, dovranno presentare anch’essi un ampio Vd, dovranno
quindi essere lipofili per poter attraversare la barriera ematoencefalica.
Metabolismo dei farmaci
Il metabolismo serve a trasformare i farmaci in metaboliti più facilmente eliminabili. I principali
mezzi di escrezione sono rene e fegato, che eliminano i metaboliti in mezzi acquosi: urina e bile.
Quindi per poter esser eliminati più facilmente i farmaci lipofili devono essere trasformati in
farmaci più idrofili: questo è ciò che fanno le reazioni del metabolismo.
Attraverso le reazioni del metabolismo i farmaci introdotti nel nostro organismo subiscono
biotrasformazioni. La maggior parte dei farmaci in commercio sono metabolizzati.
Attraverso le reazioni del metabolismo si possono avere:
- Trasformazioni in metaboliti non attivi e non tossici, facilmente eliminabili dagli organi
escretori. poiché i principali organi escretori del nostro organismo, il rene e il fegato,
eliminano le sostanze disciolte in ambiente acquoso, scopo del metabolismo è trasformare
un farmaco lipofilo in un metabolita maggiormente idrofilo, facilitando così l’escrezione
nell’urina e nella bile;
- Trasformazioni in metaboliti che conservano l’attività farmacologica del farmaco
originario. Quando ciò avviene, l’esposizione dell’organismo alla componente attiva del
farmaco si prolunga. Infatti, all’emivita (t/2 = tempo necessario perché la concentrazione
plasmatica di un farmaco, all’equilibrio di distribuzione, si riduca della metà) del primo
farmaco si aggiunge l’emivita del metabolita attivo, aumentando l’esposizione totale
dell’organismo agli effetti del farmaco;
- Trasformazione di farmaci non attivi, detti profarmaci in metaboliti attivi;
- Trasformazione di farmaci in metaboliti tossici;
- Trasformazione di farmaci procancerogeni in metaboliti cancerogeni (processo della
bioattivazione).
Emivita t/2
L’emivita è il tempo necessario affinché la concentrazione del farmaco all’equilibrio di
distribuzione si riduca della metà. Se il farmaco è metabolizzato in metaboliti attivi, la sua
emivita si prolunga e dunque aumenta l’esposizione del nostro organismo al farmaco.
Alcuni farmaci hanno bisogno di intervalli di somministrazione più lunghi, perché nonostante i
farmaci vengono metabolizzati velocemente i metaboliti rimangono attivi.
Farmaci non attivi (profarmaci) posso essere attivati una volta somministrati. Le reazioni del
metabolismo posso produrre anche metaboliti tossici e quindi aumentare la tossicità
del farmaco.
Attraverso le reazioni del metabolismo si può avere anche la trasformazione di farmaci
procancerogeni in metaboliti cancerogeni, tramite un processo di bioattivazione.
Reazioni del metabolismo
Avvengono prevalentemente nel fegato, in parte anche nel rene e polmone.
Le reazioni del metabolismo si dividono in:
 Reazioni di fase 1: aggiungono o mettono in evidenza dei gruppi funzionali nel farmaco.
I gruppi funzionali messi in evidenza sono: -OH, -COOH, -NH2, -SH.
Mettere in evidenza significa che il gruppo funzionale può essere oscurato stericamente
da un altro legame (lo nasconde), l’enzima metabolico rompe il legame ed espone il
gruppo.
Le reazioni di fase 1 permettono alle reazioni di fase 2 di procedere, coniugando il
farmaco con altre molecole.
 Reazioni di fase 2: sono reazioni di coniugazione, usano i gruppi funzionali del farmaco
per coniugare altre molecole. Lo scopo è aumentare l’idrofilicità del farmaco.
Questo vale per tutte le reazioni di fase 2, tranne per acetilazione e metilazione che non
contribuiscono ad aumentare l’idrofilicità.
Reazioni di fase 1
Le principali reazioni di fase 1, importanti per il metabolismo dei farmaci sono:
a. Reazione di idrolisi
b. Reazione di ossidazione
c. Reazione di riduzione
d. Reazioni miste
Reazioni di idrolisi
I principali enzimi che catalizzano le reazioni di idrolisi sono:
 Esterasi
 Peptidasi
 Epossido-idrolasi
Esterasi
Le esterasi sono carbossil-esterasi, idrolizzano le funzioni esteree di acidi carbossilici, ammidi e
tioesteri. La caratteristica di queste reazioni sta nella velocità di catalisi delle funzioni esteriche
degli acidi carbossilici, che è maggiore rispetto a quella di catalisi degli amidi.
Questo spiega perché due farmaci molto simili, hanno indicazione terapeutica molto diversa.
Esempio: la procaina ha un legame esterico, mentre la procainamide ha un legame ammidico. La
procaina viene utilizzata come anestetico locale poiché, essendo un estere, viene metabolizzata
velocemente dalle esterasi plasmatiche. Il metabolismo della procaina determina la formazione di
un metabolita inattivo, motivo per cui viene utilizzata come anestetico locale. Viene iniettata
nell’area che si vuole anestetizzare e quella quota di procaina assorbita viene rapidamente inattivata,
in modo che non agisca in distretti lontani da quelli di somministrazione. La procainamide è
un’ammide e, poiché l’idrolisi delle ammidi è più lenta di quella degli esteri, questa viene
somministrata per os, non viene metabolizzata dalle esterasi plasmatiche e allora raggiunge il suo
organo bersaglio, ovvero il cuore. La procainamide è un antiaritmico.
Le carbossil-esterasi si classificano in base all’interazione con i composti organo fosforici
(pesticidi e agenti nervini). Distinguiamo:
• Carbossil esterasi di classe 1: idrolizzano gli organo fosforici
• Carbossil esterasi di classe 2: inattivate dagli organo fosforici
• Carbossil esterasi di classe 3: non interagiscono con gli organo fosforici
Dal punto di vista farmacologico, sono importanti quelle di classe 2. A questa classe appartengono
due enzimi: acetilcolinesterasi e butirrilcolinesterasi. Entrambe metabolizzano il
neurotrasmettitore acetilcolina.
L’acetilcolina, quando viene rilasciata a livello delle terminazioni nervose dai suoi recettori, evoca
l’effetto e, prima di essere ricaptata a livello delle terminazioni nervose pre-sinaptiche, interviene
l’enzima acetilcolinaesterasi che la metabolizza e la trasforma in colina. Sarà poi la colina ad esser
ricaptata all’interno del neurone.
La butirricolinesterasi è un enzima presente nel sangue e sintetizzato dal fegato. Normalmente
non partecipa al metabolismo dell’acetilcolina ma, ad esempio, nella malattia di Alzheimer c’è
un aumento di butirricolinesterasi nel cervello di questi pazienti e quindi anche questo enzima
partecipa al metabolismo dell’acetilcolina. I farmaci per la terapia dell’Alzheimer sono infatti
degli inibitori delle colinoesterasi: Donepezil e Galantamina (inibiscono soltanto
l’acetilcolinesterasi, il principale enzima deputato al metabolismo dell’acetilcolina) e Rivastigmina
(inibisce entrambe le colinesterasi di classe 2).
Gas nervini
I gas nervini sono sostanze di sintesi prodotte inizialmente negli anni ’30 del Novecento, da alcune
industrie tedesche. La sintesi dei gas nervini fece capire che questi potevano essere utilizzati come
armi chimiche e, poiché la loro sintesi era semplice, potevano anche essere prodotti da Paesi non
sviluppati dal punto di vista tecnologico.
I gas nervini bloccano in modo irreversibile l’enzima acetilcolinesterasi.
Si può interrompere questo blocco trattando il paziente con determinate sostanze, quali le ossime.
Questo trattamento può rigenerare la funzione dell’enzima bloccato a condizione che il legame tra
enzima e composto organo fosforico non si sia ulteriormente stabilizzato. Questa stabilizzazione
viene definita “invecchiamento”, perché richiede del tempo affinché avvenga. La maggior parte dei
gas nervini, inclusi gli insetticidi organo fosforici, richiede alcune ore per poter invecchiare: quindi,
richiedono alcune ore prima che il loro effetto diventi irreversibile. Vi sono dei gas nervini, tra cui il
Soman (uno dei più pericolosi), che invecchiano entro 10 minuti dal legame con l’enzima e questa
condizione rende impossibile il trattamento del paziente. Un’iperattivazione di acetilcolina,
neurotrasmettitore del sistema parasimpatico causa una desensibilizzazione dei recettori, seguendo
poi con la paralisi.
I sintomi causati da avvelenamento da organo fosforici sono: scialorrea (= aumento produzione
saliva), oppressione toracica, difficoltà nella visione ravvicinata perché il recettore M3
dell’acetilcolina si trova anche a livello dell’occhio, cefalea, tremori e debolezza muscolare fino ad
arrivare alla paralisi muscolare e cardio-respiratoria.
Durante le guerre i soldati vengono addestrati per difendersi dall’attacco di armi chimiche (in realtà
vietati da apposite convenzioni, ma ugualmente utilizzati). Vengono dunque muniti di autoiniettori
che contengono pralidossima e atropina.
L’atropina è un’antagonista dei recettori muscarinici dell’acetilcolina (sono recettori accoppiati a
proteine G). Poiché i sintomi sono dati da una iperattivazione di questi recettori, ne consegue che
l’atropina impedisce questa iperattivazione.
Sui recettori nicotinici, recettori canali più localizzati, interviene invece la pralidossima. In realtà
questa ha effetti su tutti i recettori, perché agisce bloccando il legame tra gas nervino e
acetilcolinesterasi. Attraverso la pralidossima possiamo anche antagonizzare gli effetti che si hanno
sul muscolo scheletrico.
Atropina e pralidossima si somministrano per via intramuscolare con autoiniettori non appena
sopraggiungono i primi sintomi. La visione offuscata è il primo sintomo che indica un
avvelenamento da organo fosforici.
Oltre all’antidoto esiste un trattamento di profilassi con la piridostigmina, che si prende per os,
nella dose di 30 mg ogni 8 ore. È un inibitore competitivo dell’acetilcolinesterasi. L’inibitore
competitivo è una sostanza che si lega allo stesso sito in cui si legano anche altre sostanze;
occupando lei il sito di legame impedisce il legame con gli organo fosforici. La piridostigmina
non resta legata costantemente all’acetilcolinesterasi, non invecchia come fa il legame con gli
organo fosforici. È invece un inibitore di tipo reversibile, si lega e poi si stacca, permettendo così
all’enzima di riprendere a funzionare. Quindi la piridostigmina non produce effetti collaterali,
perché non blocca irreversibilmente l’acetilcolinesterasi: per questo deve essere presa prima di
avere il contatto con il gas nervino. Parlando in questo caso di guerra, verrà presa quando si
avranno informazioni che il nemico sta attaccando con armi chimiche.
La butirrilcolinesterasi metabolizza anche la succinilcolina. La succinilcolina è un farmaco che
agisce determinando un rilassamento della muscolatura, è dunque un miorilassante, appartenente
alla classe dei curari. Si utilizza la succinilcolina in tre occasioni: nelle endoscopie, nel paziente
oggetto di chirurgia addominale (per rilassare la muscolatura dei visceri addominale) e
nell’elettroshock. L’elettroshock è una terapia che si utilizza nella depressione, quando i farmaci
non riescono a controllare il paziente. Non tutti i centri utilizzano questa tecnica, ma alcuni lo
sfruttano nella depressione resistente alla terapia farmacologica.

Il problema della butirrilcolinesterasi è che è un enzima polimorfo, cioè la sua velocità di catalisi
può variare. In alcuni individui la butirrilcolinesterasi catalizza la reazione di idrolisi velocemente,
in altri più lentamente, in altri ancora la velocità è media. Il problema dell’enzima che metabolizza
la succinilcolina risiede nel polimorfismo di questo enzima. La butirrilcolinesterasi, quando è
presente nella variante lenta, metabolizza più lentamente la succinilcolina.
Cosa accade in un paziente chirurgico che ha ricevuto la succinilcolina come miorilassante?
Durante la chirurgia, la respirazione è assistita e quindi il fatto che tutti i muscoli, anche quelli
respiratori, siano rilassati non influenza la respirazione del paziente. L’anestesista conosce i tempi
di recupero dalla succinilcolina, ovvero sa quanto tempo dopo la somministrazione la
succinilcolina termina il suo effetto. Quindi alla fine dell'operazione chirurgica si ha l’estubazione
del paziente e l’anestesista ha dosato la succinilcolina in base ai tempi di recupero; per cui quando
estuba il paziente, e lo stacca dalla respirazione assistita, la succinilcolina non c’è più
nell’organismo perché è stata eliminata e il paziente riprende tutta l’attività motoria, anche la
respirazione, in autonomia.
Cosa accade nei pazienti con una butirrilcolinesterasi polimorfa che catalizza più lentamente
il metabolismo della succinilcolina? La succinilcolina impiega più tempo per venire inattivata
e resta più a lungo attiva nell’organismo. Se l’anestesista non sa che il paziente ha una
butirrilcolinesterasi che funziona poco, quando calcola i tempi per l’estubazione, in base alla
quantità di succinilcolina che ha somministrato, sbaglia. Può pensare che questa sia stata
correttamente eliminata coi tempi normali della maggior parte degli individui non polimorfi. Quindi
il paziente viene staccato dalla respirazione assistita troppo precocemente, quando la
succinilcolina è ancora attiva e i muscoli respiratori sono ancora inibiti, e questo può
determinare una mancata ripresa della respirazione, fino alla morte del paziente. Questa è
un’evenienza da evitare assolutamente: pertanto è assolutamente necessario, prima di
somministrare la succinilcolina, tipizzare il paziente per la butirrilcolinesterasi.
“Tipizzare” il paziente significa capire che tipo di fenotipo ha il paziente per quell’enzima: se la
butirrilcolinesterasi funziona normalmente o più lentamente. Nel secondo caso i tempi devono
essere allungati e il paziente deve essere tenuto più a lungo con la respirazione assistita oppure
bisogna utilizzare miorilassanti diversi dalla succinilcolina.
Come si fa a tipizzare un determinato enzima in un paziente? Si preleva del sangue, si fa la
tipizzazione sui linfociti: quindi il gene per la butirrilcolinesterasi che si ritrova nei linfociti è
analizzato e si osserva quale variante allelica ha il paziente e in base a questo si decidono la dose da
somministrare di succinilcolina e i tempi di estubazione.

Peptidasi
Le peptidasi sono quegli enzimi che idrolizzano le proteine e i peptidi. Il principale di questi
enzimi è la tripsina, che è rilasciata dal pancreas sotto forma di tripsinogeno inattivo e finisce
nell’intestino tenue. Il tripsinogeno inattivo è tagliato e si forma così la forma attiva, la tripsina. La
tripsina è deputata a metabolizzare le proteine introdotte con il cibo, ma purtroppo rende molto
difficile se non impossibile la somministrazione per via orale dei farmaci a struttura proteica e
peptidica.
Epossido-idrolasi
Enzima che trasforma composti tossici (epossidi) in composti non tossici. Gli epossidi sono eteri
ciclici in cui l’ossigeno è legato a due atomi di carbonio a loro volta legati tra loro.
Epossido-idrolasi detossifica gli epossidi aggiungendo acqua in trans, apre la molecola e permette
la formazione di un composto non più tossico.

Tra i vari composti che generano epossidi vi è il benzopirene, idrocarburo policiclico aromatico,
che si forma per combustione del fumo di sigaretta e di alimenti cotti alla brace.
Durante il fumo si forma il benzopirene che penetra nell’organismo. Viene metabolizzato
attraverso una reazione di ossidazione (reazione fase I) attraverso la quale si formano gli
epossidi, rompendo i doppi legami tra gli atomi di carbonio della molecola. La molecola ha
tutti doppi legami in quanto aromatica: si rompe il doppio legame tra due atomi di carbonio e
si forma l’epossido, cioè il ponte collegato dall’ossigeno tra i due carboni. Quindi non ci sono
più i doppi legami, ma c’è un solo legame e si forma l’epossido.
Le posizioni in cui si possono formare gli epossidi sono:
 Posizioni 4, 5: in questa posizione l’epossido è facilmente idrolizzato e quindi
detossificato dalle epossido-idrolasi (quindi pur essendo un procancerogeno, non è un
grande problema perché l’organismo possiede degli enzimi capaci di detossificarlo);
 Posizione 7, 8: anche in questa posizione l’epossido è aggredibile dalle epossido-idrolasi e
quindi può essere detossificato (tuttavia è un problema perché questo epossido facilita la
formazione di un altro epossido, quello in posizione 9, 10);
 Posizione 9, 10 = regione BAIA: per ingombro
sterico risulta non accessibile alla epossido-
idrolasi e non può essere detossificato. A questo
punto succede che il benzopirene-epossido trasloca nel
nucleo e blocca la trascrizione del gene per la
proteina p53, una delle principali difese nei
confronti della trasformazione neoplastica, quindi il
benzopirene è considerato pro-cancerogeno.
Un altro esempio in cui è importante l’azione dell’epossido idrolasi è la carbamazepina.
La carbamazepina è un farmaco antiepilettico, uno dei primi messi in commercio, ma ancora oggi
molto utilizzato, principalmente per le epilessie. Si tratta di un anticonvulsionante controindicato
in gravidanza perché ha un potenziale effetto teratogeno (in grado di attraversare la placenta e
giungere al feto). Per teratogenesi si intende lo sviluppo di malformazioni nel feto compatibili con
la vita, principalmente sotto forma di spina bifida. La spina bifida è un danno alla colonna
vertebrale che causa la fuoriuscita di midollo spinale. A seconda dell’entità del danno e della
quantità di fuoriuscita di midollo spinale si possono avere diverse severità. La malformazione meno
severa si ha quando il danno è soltanto a livello osseo, ma non spinale; se il danno coinvolge il
midollo spinale la severità aumenta, portando a paralisi. Questo epossido è tossico perché il feto
non possiede sufficiente epossido-idrolasi per detossificare l’epossido della carbamazepina.
La molecola della carbamazepina possiede 2 anelli aromatici uniti da
un anello a 7 atomi che contiene azoto, il quale possiede un doppio
legame, sul quale si forma l’epossido.
Questo epossido non è un problema per la madre, quanto invece per il feto, che non può
metabolizzarlo per l’insufficiente quantità di enzima. Per questo la carbamazepina in gravidanza è
controindicata.
L’epossido idrolasi catabolizza la carbamazepina, la quale viene in primis metabolizzata in
epossido.
Un altro esempio di substrato dell’epossido idrolasi è la Vit. K; in questo caso si forma un
epossido non tossico. La Vit. K ha come funzione principale = cofattore fattori della
coagulazione. I fattori della coagulazione si trovano nel sangue in forma non attiva, per favorire la
coagulazione devono essere attivati.

Alcuni di questi fattori per essere


attivati devono subire la gamma-
carbossilazione (in posizione gamma).
Questi fattori che devono essere
gamma-carbossilati (aggiunta -COOH
in posizione gamma) hanno bisogno
della Vit. K (fattori Vit. K
dipendenti). Quindi la Vit. K partecipa
come cofattore e nel partecipare a
questa reazione forma lei un epossido =
epossido della Vit. K (KO), il quale
non è tossico. Ma affinchè la Vit. K
possa tornare Vit. K per continuare ad
essere utilizzata (affinchè questo
circolo possa continuare), la Vit. K
epossido deve essere ridotta a Vit. K di
partenza. Questa reazione è svolta Vit.
K epossido reduttasi, che riduce l’epossido. Così la Vit. K può essere riutilizzata e partecipare al
processo di attivazione.
Esiste un farmaco = Warfarin: anticoagulante orale, essendo un anticoagulante deve ridurre la
coagulazione; esso impedisce il riciclo delle Vit. K, o meglio impedisce che la Vit. K epossido
venga ridotta in Vit. K di partenza (blocca l’azione della Vit. K epossido reduttasi). In questo
modo Warfarin inibendo Vit. K epossido agisce come anticoagulante.
Ossidazione
La prima reazione di ossidazione che ci interessa è quella del metabolismo dell’etanolo. Il primo
enzima che metabolizza l’etanolo si chiama alcol deidrogenasi e viene indicato con l’acronimo
ADH; questo enzima prende l’etanolo e lo trasforma in
acetaldeide: l’OH dell’alcol diventa un’aldeide (CHO).
L’acetaldeide è tossico, infatti causa nausea, rossore,
vomito, cefalea. E poiché è tossico deve essere metabolizzato
velocemente appena si forma. Esiste quindi un secondo enzima
che metabolizza l’acetaldeide = acetaldeide deidrogenasi
(deidrogenasi catalizzano sempre reazioni di ossidazione).
L’acetaldeide è quindi trasformato in acetato, il quale entra nel
ciclo di Krebs sotto forma di Acetil-CoA. Si genera così
energia sotto forma di ATP. Quindi gli alcolisti spesso quando
sono nella fase avanzata si cibano solo di alcol, in quanto
questo fornisce energia entrando nel ciclo di Krebs.
Il primo enzima nella reazione metabolica dell’etanolo è l’alcol
deidrogenasi ADH, che agisce utilizzando il cofattore il NAD+, questo si riduce in NADH. Il
NADH è un cofattore molto importante nelle reazioni di biosintesi, come ad esempio le
reazioni di sintesi degli acidi grassi, nel fegato. Affinchè gli acidi grassi possano essere utilizzati
si utilizza NADH (ridotto). Questo è il motivo per cui gli alcolisti hanno un maggiore rischio di
steatosi epatica (accumulo di acidi grassi nel fegato). La steatosi epatica è il primo step verso la
cirrosi epatica.
Esiste un farmaco Antabuse che viene utilizzato negli alcolisti che hanno deciso di detossificarsi;
tale farmaco sfrutta la tossicità dell’acetaldeide. L’etanolo crea dipendenza. Questo farmaco serve
per aiutare a non riprendere a bere, in quanto inibisce l’acetaldeide deidrogenasi (blocca
l’enzima). L’alcolista sta malissimo di conseguenza (inibizione enzima causa nausea, vomito,
cefalea), perché si accumula tanta acetaldeide (all’alcolista così passa la voglia di bere).

Come è fatto alcol deidrogenasi ADH? È un dimero, tali due subunità possono essere scelte tra
una serie di subunità.
Le subunità sono 6 (sono indicate con lettere greche):
- 𝛼 (alpha)
- 𝛽 (beta)
- 𝛾 (gamma)
- 𝜋 (pi)
- μ (mi)
- 𝜒 (chi)
In base alla composizione in subunità ci sono 4 classi.
La I classe è formata da 3 tipi diversi (tipo 1, 2, 3), i quali hanno in comune il fatto che tutti e tre
metabolizzano l’etanolo e altri piccoli alcoli alifatici. Il tipo 1 ha sempre la necessità di avere la
subunità alfa, la quale può essere accoppiata ad un’altra alfa o beta o gamma. Il tipo 2 è sempre
formato dalla subunità beta e l’altra beta o gamma. Il tipo 3 è formata dalla subunità gamma
unicamente (gamma-gamma). Il tipo 1 e 2 sono ubiquitari, ma si trovano soprattutto nel fegato, in
quanto è l’organo in cui avviene la maggior parte del metabolismo dell’etanolo (circa il 90%). Il
tipo 3 si trova espresso nello stomaco (metabolismo etanolo per circa il 10%) (no fegato).
Dell’ADH di tipo 2 esistono 3 isoforme, in base al tipo di subunità beta compresa:
- Beta1, che prevale nei caucasici (europei e nordamericani)
- Beta2, prevalentemente espressa negli asiatici; conferisce un aumento della velocità
di catalisi. Questo significa che l'ADH formata da questa subunità metabolizza più
velocemente l'etanolo in acetaldeide.
Anche l’acetaldeide deidrogenasi è polimorfa, come l'ADH, e frequentemente gli asiatici
hanno anche una variante di acetaldeide deidrogenasi con una velocità di catalisi
inferiore. Questo è il motivo per cui gli asiatici reggono male l'alcol: metabolizzano
l'etanolo velocemente in acetaldeide (producendone tanta), ma lentamente l'acetaldeide in
acetato, che si accumula e provoca gli effetti soliti della intossicazione da etanolo.
- Beta3, che prevale negli africani.
ADH di classe II : rappresentata dal tipo 4 = formato da pi+pi: non metabolizza l’etanolo, ma
soltanto alcoli più grandi, ovvero con maggior numero di atomi di carbonio.
ADH di classe III: comprende il tipo 5 = tipo chi+ chi: metabolizza alcoli a lunga catena, che
possono essere sia alifatici sia aromatici, ma non metabolizza l’etanolo.
Invece ci torna utile conoscere il tipo 6 (dimero mi-mi) classe IV, il quale si trova nello stomaco
e metabolizza l’etanolo.
Quindi l’etanolo metabolizzato da tipo 1 e 2 (nel fegato entrambi), ma anche dal tipo 3 e dal
tipo 6 (entrambi nello stomaco). Ma poiché la maggior parte del metabolismo dell’etanolo si
svolge nel fegato, nello stomaco abbiamo la metabolizzazione di circa il 10%.
ADH dello stomaco (lo stomaco metabolizza circa il 10% dell’alcol che ingeriamo): tipo 3 e 6
Le ADH gastriche sono inibite dal digiuno. Questo è il motivo per cui quando digiuno e bevo ho
maggior sintomo di ebbrezza. L’alcol (data l’inibizione delle ADH gastriche) non viene
metabolizzato, ma viene assorbito e va in circolo  raggiunge il cervello e causa ebbrezza. Inoltre,
nelle donne giovani le ADH gastriche funzionano di meno.
L’ADH di tipo 6 che appartiene alla classe IV e si trova nello stomaco, metabolizza anche il
retinolo (= sostanza mitogena), il quale favorisce la proliferazione cellulare. Quindi negli etilisti
l’ADH 6 è impiegata a metabolizzare l’alcol (c’è tanto alcol), mentre il retinolo non viene
metabolizzato, quindi favorisce la proliferazione cellulare, restando più a lungo nello stomaco
 trasformazione neoplastica. Motivo per cui gli etilisti hanno una maggiore probabilità di
carcinoma gastrico.
Le ADH dello stomaco (3 e 6) sono inibite da alcuni farmaci = Aspirina e Ranitidina (farmaco
anti-ulcera). Perciò non si deve bere durante tali terapie. Ma se si dovesse bere ugualmente, ci
sarebbe il pericolo che questi farmaci possano interferire con il metabolismo dell’etanolo.
Xantina ossidasi e xantina deidrogenasi

Parliamo della xantina ossidasi/xantina deidrogenasi, le quali rappresentano due forme dello
stesso enzima che differiscono tra loro per l’accettore finale di elettroni. La ossidasi (XO) cede
l’elettrone all’ossigeno molecolare, mentre la deidrogenasi (XD) al NAD+, che diventa NADH. Nel
nostro organismo in condizioni fisiologiche è maggiormente espressa la xantina deidrogenasi, ma
può essere convertita in xantina ossidasi. Ma quest’ultima può portare alla formazione di radicali
liberi dell’ossigeno (i radicali liberi dell’ossigeno sono delle specie altamente reattive che
producono danno sia a livello della membrana plasmatica sia a livello del DNA).
Quando la deidrogenasi viene trasformata in ossidasi? (= condizioni di potenziale rischio
associato alla trasformazione dell’enzima)
- In seguito ad occlusione di un vaso sanguigno: occlusione temporanea vaso  la zona di
parenchima che è irrorata dal vaso occluso non riceve ossigeno. Le cellule vanno incontro a
necrosi. Le cellule limitrofe all’aerea di necrosi ricevono sangue anche da altri vasi oltre
quello occluso. Quindi la zona vicina è sì danneggiata, ma le cellule non sono morte,
subiscono sicuramente un danno dovuto all’apporto di ossigeno minore, ma non sono morte.
Quest’area è definita area delle penombra. Quindi oltre all’area di necrosi, abbiamo l’area
della penombra (danneggiamento). Le cellule sono in bilico tra morte e vita. Trattandosi di
un’occlusione temporanea, dopo un po' riprende a scorrere sangue. Durante la riperfusione,
torna ossigeno. Quindi durante la fase di occlusione la xantina deidrogenasi viene
trasformata in xantina ossidasi, ma non succede nulla, perché manca ossigeno. Ma quando
la riperfusione viene ristabilita, la xantina ossidasi può funzionare perché torna
ossigeno e così si formano radicali liberi. Quindi il danno può peggiorare in caso di
riperfusione (in realtà sono tanti i meccanismi che possono intervenire nella riperfusione e
possono peggiorare il danno, ma questo è uno di quelli). Se prevale la produzione di radicali
liberi durante la fase di riperfusione e i danni indotti da questi radicali liberi sono tali da
portare le cellule in bilico della zona di penombra alla morte, la riperfusione causa un
peggioramento del danno tissutale.
- Durante infezione di gram negativi  rilascio LPS, il quale favorisce la trasformazione
della xantina deidrogenasi in xantina ossidasi con conseguente danno.
- Il consumo cronico di etanolo favorisce la trasformazione in xantina ossidasi (alcol  più
ossidasi  più radicali liberi).
Perché il nostro organismo ha previsto questa possibilità di trasformazione?
Perché la xantina ossidasi (XO) catalizza delle reazioni metaboliche, in particolare la conversione
della ipoxantina in xantina. E successivamente catalizza la conversione di xantina in acido urico.
L’acido urico se prodotto in grandi quantità  si accumula nelle articolazioni = gotta. Per il
trattamento della gotta si utilizza l’Allopurinolo, il quale è simile strutturalmente all’ipoxantina, e
riduce la produzione di acido urico. Infatti, inganna l’enzima e così la xantina ossidasi si lega al
farmaco e blocca la reazione.
L’ipoxantina si forma a partire dall’adenosina. L’enzima che forma l’ipoxantina è l’adenosina
deaminasi ADA (stacca un gruppo amminico: trasforma l’adenosina in inosina, che a sua volta
diventa ipoxantina una volta che ha rimosso il ribosio ).
Quindi: adenosina  ADA  inosina  perde il ribosio  ipoxantina  xantina ossidasi 
xantina  xantina ossidasi  acido urico.
L’ADA è un enzima estremamente importante per le cellule del sistema immunitario (per le loro
attività). Quindi se c’è un’alterazione dell’ADA possiamo osservare una patologia = ADA SCID
(Immunodeficienza Severa Combinata). Il gene che codifica per ADA non funziona e produce
una proteina non funzionale. Questi bambini vivono in un ambiente completamente sterile
(compromissione dell’intero sistema immunitario  bambini bolla). Fino a poco tempo fa l’unica
terapia era il trapianto del midollo osseo. Nel 2016 è stato messo in commercio un farmaco
Strimvelis (farmaco di terapia avanzata) = fatto da cellule staminali ematopoietiche (CD34+)
prelevate dal midollo osseo dello stesso paziente affetto da ADA SCID e trasformate in vitro
(trapianto omologo); una volta prelevate in vitro vengono trasdotte con un retrovirus che contiene
il gene per ADA funzionate (terapia genica, S. Raffaele). È una terapia salvavita. Dato che la SCID
è una malattia rara, l’industria farmaceutica lamenta guadagni bassi che non gli permettono di
continuare ad elaborare il farmaco.
Ossidasi delle amine
L’ossidazione delle amine produce le aldeidi. Come si classificano tale ossidasi? In base al
substrato:
- Monoaminossidasi MAO = ossidano i composti monoaminici (un solo gruppo aminico)
- Diaminossidasi DAO = ossidano i composti diaminici
- Poliaminoossidasi PAO = ossidano i composti poliaminici
Le MAO possono essere di tipo A = metabolizzano adrenalina, noradrenalina, serotonina, e di tipo
B = metabolizzano preferenzialmente la dopamina.
Esistono dei farmaci che si usano in clinica, che sono antagonisti (bloccanti) delle MAO, di due
gruppi:
- Farmaci inibitori non selettivi, che non distinguono tra MAO di tipo A o B, cioè le
bloccano entrambe;
- Farmaci inibitori selettivi per il gruppo B.
Gli inibitori non selettivi di MAO (sia di tipo A e B) = antidepressivi (tolti dal commercio perché
con molti effetti tossici e collaterali  accumulo di adrenalina, noradrenalina e serotonina), tutti
tolti tranne uno: Parmodanil = farmaco che contiene due principi attivi, tra cui uno è un inibitore
non selettivo delle MAO, ovvero il tranilcipromina. La sua indicazione è quella di depressione
resistente ai farmaci, quando non è possibile fare l’elettroshock; non tutti i pazienti possono fare
elettroshock, come pazienti in gravidanza o anziani. Quindi questo farmaco rappresenta l’ultima
possibilità. Attualmente in Italia non è in commercio, ma negli altri paesi europei è presente, quindi
può essere di importazione.
Gli inibitori selettivi di MAO B (MAOb) = farmaci per la terapia m. Parkinson (safalamide,
resagilina, selegilina). Ciò è comprensibile, poiché in questa malattia viene a mancare la dopamina
(per degenerazione dei neuroni dopaminergici nigrostriatali), per cui grazie a questi farmaci è
possibile prolungare la sua persistenza nell’organismo.
Nel trattamento vengono utilizzate due strategie terapeutiche:
- somministrare dopamina, o meglio un suo precursore, la L-DOPA (levo-dopa);
- inibire il metabolismo del neurotrasmettitore che è carente, poiché le MAO di tipo B
metabolizzano dopamina, la strategia è inibirle. Selegilina e la Resagilina sono farmaci
utilizzati nel trattamento del Parkinson, essi sono inibitori selettivi delle MAOb (non
inibiscono le MAOa).
Funzionamento:
Le MAO ossidano le amine in aldeidi. Il primo
passaggio nell’ossidazione di un’amina in
un’aldeide è l’estrazione di un idrogeno a livello
del carbonio alfa. Il CH2 legato all’azoto perde
l’idrogeno. Quindi l’estrazione di idrogeno dal
carbonio alfa è il primo passaggio. Se questo
carbonio alfa non ha 2 idrogeni attaccati, ma è sostituito, cioè al posto di un idrogeno ha un
altro gruppo, es. CH3 (anfetamina ha il carbonio in alfa sostituito CH3), questa sostituzione
determina che la reazione avvenga molto più lentamente da parte delle MAO. Questo è il motivo
per cui l’anfetamina viene metabolizzata molto più lentamente; quindi, se l’assumo questa sostanza
essa rimane in circolo più a lungo; quindi, la tossicità è molto più accentuata perché metabolizzata
più lentamente (ossida molto più lentamente)  ciò contribuisce ad aumentare i suoi effetti tossici.
Le MAOb sono molto espressi dagli astrociti, dove metabolizzano sostanze tossiche, in particolare
MPTP (1-metil, 4 fenil, 1, 2, 3-tetraidro-piridina), la quale viene trasformata dalle MAOb degli
astrociti nello ione MPP+. Le MPP+ hanno una struttura molto simile alla dopamina; quindi, viene
formato dagli astrociti e scambiato per dopamina. Il trasportatore della dopamina (sulla
terminazione nervosa) così lo lega e lo porta nel neurone dopaminergico. MPP+ nel neurone
danneggia i mitocondri (in particolare il complesso 1 mitocondriale). Tale danno ossidativo
danneggia i neuroni dopaminergici e determina una patologia molto simile al m. Parkinson, cioè
causa un parkinsonismo (patologia simile al morbo, ma indotta da una sostanza). Come ci siamo
accorti di questa cosa? Intorno agli anni ’30 si sviluppò una epidemia di parkinsonismo nei
tossicodipendenti in California. Si scoprì poi che tali tossici consumavano una sostanza chiamata
Meteridina (molto facile da sintetizzare, inoltre in assenza di condizioni igieniche adeguate). Molto
facile la contaminazione durante la produzione domiciliare. Effettivamente questa droga era stata
contaminata con MPP+ (si trovava nell’ambiente, ad esempio nei pesticidi), quindi assumevano
MPP+  danno ai neuroni dopaminergici. Oggi MPP+ viene utilizzato negli animali per riprodurre
la malattia e studiare farmaci.
Citocromo (CYP) P450 monossigenasi
Si tratta di un grande gruppo di enzimi (di membrana), contengono un gruppo Eme e sono
prevalentemente espressi nel fegato (membrana REL). Sono una famiglia di enzimi che catalizzano
reazioni di ossidazione (a loro si deve la maggior parte delle interazioni tra farmaci). Perché si
chiamano citocromo P450? Hanno una caratteristica banda di assorbimento della luce a 450 nm.
Mentre gli altri citocromi assorbono la luce ad altre lunghezze d’onda.

Tale gruppo di enzimi, quindi, assorbe la luce a 450 nm quando complessata con il monossido di
carbonio. Come funzionano? Sono delle ossidasi a funzione mista  utilizzano l’ossigeno
molecolare O2 (2 atomi di ossigeno). Un atomo di ossigeno è utilizzato dal citocromo P450 per
ossidare il composto, l’altro atomo di ossigeno è utilizzato per formare acqua. Il citocromo P450
monoossigenasi lavora sempre in coppia con un altro enzima = CYP450 reduttasi, il quale
fornisce gli elettroni necessari per la reazione della CYP450 monoossigenasi.
Come mai ci sono tanti enzimi del gruppo CYP450? Perché questi enzimi si sono differenziati
nel corso di milioni di anni (comparse le prime forme di vita) e questo differenziamento è stato così
esteso per garantire la metabolizzazione di diverse sostanze. Quello che si è verificato è una lotta
tra mondo animale e vegetale per la sopravvivenza. Quando si sono formate le prime forme di vita
terrestre, gli animali si cibavano delle piante, quindi le piante hanno iniziato a produrre sostanze
tossiche per non essere mangiate; ma allo stesso tempo gli animali hanno sviluppato enzimi in
grado di detossificare tali sostanze tossiche; e così via da entrambe le parti, sviluppando una
variegata diversificazione degli enzimi.
Tali enzimi sono raggruppati in famiglie e sottofamiglie. Attualmente gli enzimi CYP450 in base
alla somiglianza nella catene di aminoacidi  abbiamo 18 famiglie e 42 sottofamiglie; in tutto 57
geni codificanti.
La nomenclatura dei citocromi P450:
- CYP = CYP450
- Numero arabo = indica la famiglia (es. 2)
- Lettera alfabeto = indica la sottofamiglia (es. D)
- Altro numero arabo = indica isoenzima (specifico gene) (es.6)
Quindi CYP2D6.
Cosa fanno gli enzimi
CYP450? Contiene il gruppo
Eme  Fe+3 = può legare il
substrato (RH). Quindi il
citocromo è attivo se il ferro è
legato in forma ferrica Fe+3.
Dopo che il substrato è stato
legato, il CYP450 reduttasi
fornisce l’elettrone (e-) 
l’elettrone riduce il ferro che
passa allo stato ferroso Fe+2. A
questo punto può entrare
l’ossigeno molecolare O2  a
questo punto entra un altro
elettrone e un protone (e- e H+)
 si forma il perossido. Nel
momento in cui si forma il perossido (HRH)  un ossigeno viene usato per formare acqua  si
forma così la specie ossidante vera e propria, (FeO)3+, che è in grado di ossidare il substrato RH
 il substrato ossidato diviene ROH ed esce, si stacca dall’enzima, mentre il Ferro torna allo stato
Fe3+. Si chiude così il ciclo: CYP450 ha di nuovo Fe3+ legato, il substrato è stato ossidato da RH a
ROH.
I prodotti della reazione catalizzata dal citocromo P450 non sono solo sostanze idrossilate (come in
questo caso), ma anche altre sostanze.
Può catalizzare quindi:
- l’idrossilazione di composti sia alifatici che aromatici;
- la formazione degli epossidi (cicli in cui l’ossigeno è unito a ponte a due carboni);
- l’ossigenazione di composti che contengono eteroatomi, quindi atomi che non sono
carbonio (N, Z, etc);
- l’idrossilazione di composti che contengono l’azoto.
Può anche togliere gruppi ai substrati:
- dealchilazione in cui si tolgono gruppi alchilici da composti precedentemente ossidati da
CYP450;
- rottura degli esteri, riformando i composti di partenza con COOH e OH;
- perdita di idrogenioni e formazione di doppi legami (deidrogenazione).
Quindi le reazioni catalizzate dal CYP450 sono tutte ossidazioni che portano alla formazione di
tanti composti diversi. Tali reazioni metaboliche avvengono soprattutto a livello del fegato. Ma può
succedere che se un soggetto fa una politerapia per molto tempo e questi sono tutti metabolizzati
dal sistema CYP450  tale sistema va in affanno (danni epatici). Ciò determina che questa
reazione (ciclo di catalisi) invece di avvenire in modo completo si interrompe prematuramente e
si interrompe normalmente all’entrata dell’ossigeno (passaggio 4), oppure all’entrata del secondo
elettrone (passaggio 5). Se si interrompe all’entrata dell’ossigeno (è avvenuta solo l’introduzione di
un solo elettrone); quindi l’elettrone viene ceduto all’ossigeno e si forma il radicale superossido, il
quale può dar vita ad altri radicali nel fegato (molto più reattivi e pericolosi). Se invece la reazione
si interrompe quando entra il secondo elettrone si può formare perossido di idrogeno, il quale può
formare specie radicaliche dell’ossigeno.
Caratteristiche degli enzimi CYP450
- Polimorfismo = presenza di varianti alleliche che si manifestano fenotipicamente almeno
nell’1% della popolazione. L’attività di un enzima può variare nella velocità di catalisi
(lenta, assente, moderata o veloce).
- Induzione = l’induzione enzimatica avviene nella maggior parte dei casi a livello genico e
si realizza attraverso l’aumento della trascrizione del gene che codifica per un determinato
citocromo.
- Inibizione = processo che avviene sempre a livello post-trascrizionale e quindi viene
inibita l’attività della proteina.
Induzione enzimatica
Alcuni idrocarburi aromatici policiclici sono in grado di causare l’induzione enzimatica. Tra
questi abbiamo il benzopirene che si forma dalla combustione del fumo di sigaretta, esso diviene
tossico quando si forma l’epossido, e ciò avviene mediante una reazione di ossidazione. Vedremo
che il benzopirene e altri idrocarburi aromatici policiclici inducono degli enzimi che catalizzano le
reazioni di ossidazione. Pertanto, induce la sua stessa ossidazione, una volta che entra
nell’organismo.
Un altro idrocarburo aromatico è la diossina (ambientale, persistente, contaminante). Come si
produce la diossina? Si produce ogni volta che si bruciano ad alte temperature (300°C) composti
che contengono cloro organico (legato al carbonio) = plastica  plastica bruciata ad alte
temperature in presenza di catalizzatori metallici (ferro e rame). Questo si verifica durante
incidenti industriali. La diossina si diffonde nell’ambiente e poi nell’organismo; si tratta di una
sostanza cancerogena che agisce come tale mediante induzione enzimatica.
Nell’organismo, trattandosi di un composto molto liposolubile, penetra facilmente e raggiunge il
citosol nelle cellule. Nel citosol trova un recettore = recettore per idrocarburi aromatici AH. Si
lega a tale recettore AH e una volta che il recettore ha legato la tossina si lega ad un trasportatore
ARNT (T = trasportatore; N = nucleare; AR = composti aromatici)  recettore, diossina +
trasportatore  traslocazione nel nucleo. Anche il benzopirene (fumo) una volta nel nucleo si
legano ai promotori di alcuni geni. La sequenza del promotore è detta XRE = Elementi Regolatori
attivati da Xenobiotici (a tale sequenza si legano anche gli idrocarburi aromatici policiclici, tra cui
diossina). Gli xenobiotici sono sostanze che il nostro corpo non produce, ma riceve dall’esterno.
XRE è il promotore del gene che codifica per una particolare forma del CYP450, quale CYP1A1.
Quest’ultimo si forma e metabolizza la diossina formano l’epossido. Sono diversi gli enzimi che
hanno come promotore XRE, perciò tutti i geni sono indotti alla trascrizione e produzione.
Quando le sequenze XRE vengono trascritte e poi tradotte, portano alla formazione di proteine che
metabolizzano la diossina e il benzopirene, con la formazione dell’epossido tossico.
Quindi questo è un meccanismo di induzione genica da parte di sostanze xenobiotiche tossiche.
Abbiamo detto che anche alcuni farmaci possono portare a induzione della trascrizione genica =
farmaci potenti induttori enzimatici ò
Fenobarbital = si tratta di un barbiturico; si tratta di un ansiolitico-sedativo; ha più o meno le
stesso indicazioni delle benzodiazepine (ipnotici, anestetici, etc), quindi anestesia generale e terapia
dell’epilessia, ma diversamente dalle benzodiazepine sono farmaci poco sicuri (con indice
terapeutico molto piccolo). Ma in alcuni casi sono ancora utilizzati, come nel caso di Fenobarbital,
il quale è un anti-epilettico, ma è anche un potente induttore enzimatico. È molto lipofilo, quindi
penetra nelle cellule (diffusione passiva), dove incontra il recettore CARbeta  segue
dimerizzazione con recettore per l’acido retinoico (RXR) insieme entrano nel nucleo dove
legano le sequenze PRE (Elemento Responsivo Phenobarbital). Induce la produzione di enzimi
di fase 1: CYP2B e CYP3A4, il quale metabolizza la maggior parte dei farmaci in commercio), ma
anche enzimi di fase 2: glutatione transferasi, glucuroniltrasferasi, solfotransferasi, glicoproteina
P.
La Glicoproteina P trasporta i farmaci attraverso membrane biologiche utilizzando l’ATP, e in
alcune localizzazioni, in particolare BEE, è un problema perché impedisce l’azione dei farmaci al
SNC perché li butta fuori non appena oltrepassano la barriera ematoencefalica. Un antiepilettico
che entra nel SNC è anche in grado indurre la Glicoproteina P che lo butta fuori, conferendo
resistenza agli altri antiepilettici.
Rifamicina = è un antibiotico utilizzato per la terapia della tubercolosi. È un potente induttore
enzimatico con lo stesso meccanismo, ovvero entra dentro le cellule, trova un recettore PXP
(Recettore X per il pregnano, 60% di omologia con CARbeta). Il pregnano è un metabolita del
colesterolo. La rifamicina si lega a PXP nucleare  giunge nel nucleo, dove induce la produzione
di molti enzimi metabolici (CYP2B, CYP2C9, CYP2C10), ma anche del trasportatore OATP
(intestino tenue: fa assorbire anioni organici, ma anche tubulo renale e fegato).
Fibrati = utilizzati nella terapia contro i trigliceridi. Tali fibrati legano il recettore PPARalfa, che
si trova nel nucleo e una volta legato il recettore, quest’ultimo dimerizza con recettore per l’acido
retinoico PXR. Il complesso formatosi si lega a geni che codificano per gli enzimi che
metabolizzano gli acidi grassi. Indicazione: ipertrigliceremia.
L’induzione a livello post-trascrizionale (no a livello genico, ovvero la più frequente) = rappresenta
un’eccezione  EtOH like: l’etanolo aumenta l’attività di CYP2E1 stabilizzando sia la sua
proteina sia il suo mRNA. L’mRNA ha un certa vita, quindi se il ribosoma non fa in tempo a
prendere il messaggero, c’è l’etanolo stabilizza mRNA e consente una maggiore produzione della
proteina  mRNA più a lungo disponibile per essere tradotto dai ribosomi.
Inibizione enzimatica
L’inibizione enzimatica avviene a livello post-trascrizione. Può essere:
- Competitiva: avviene quando due farmaci sono metabolizzati dallo stesso enzima, per
esempio dallo stesso CYP.
Possiamo fare l’esempio di diazepam (benzodiazepina, ansiolitico: Valium) con
l’omeprazolo (inibitore di pompa protonica, nella terapia dell’ulcera gastrica). Perché
andrebbero somministrati questi due farmaci? Perché i pazienti che soffrono di ulcera sono
anche ansiosi (hanno sempre la paura di avere il dolore e sono generalmente in stato
ansioso). Tuttavia, l’associazione di questi due farmaci non si dovrebbe fare, ma
andrebbe scelto un altro ansiolitico, in quanto entrambi sono metabolizzati dallo stesso
CYP (CYP3A4 e CYP2C19) e quindi se presi insieme l’enzima metabolizza solo uno dei
due, l'altro viene metabolizzato di meno. In questo caso è il diazepam che viene
metabolizzato meno, quindi rimane più a lungo nell’organismo, comportando un aumento
di rischio di effetti collaterali.
Un altro esempio di associazione competitiva è quella di un antidepressivo, la fluoxetina,
che appartiene a una particolare classe, quella degli inibitori selettivi della ricaptazione
della serotonina. Nella depressione vi è una caratteristica costante, cioè la
neurotrasmissione noradrenergica, serotoninergica e in alcuni casi anche dopaminergica si
riduce, cioè il paziente depresso ha un deficit in questa neurotrasmissione, i farmaci usati per
la depressione cercano di aumentarne la quantità. La fluoxetina agisce aumentando la
serotonina nelle sinapsi, è un inibitore selettivo del trasportatore della serotonina che si
trova a livello della terminazione presinaptica del neurone serotoninergico, dopo che
viene rilasciata, ricaptata e riportata all’interno del neurone presinaptico. Inibendo questo
trasportatore, la serotonina rimane più a lungo nella sinapsi (ritardo la ricaptazione). Il nome
commerciale del farmaco è il Prozac. La fluoxetina è un inibitore dell’enzima che la
metabolizza, quale CYP2D6. Iniziando la terapia con fluoxetina, dopo un po', questa
determina un’inibizione dell’enzima che la metabolizza (CYP2D6), tale da far aumentare
l’esposizione alla fluoxetina stessa, che rimane più a lungo nell’organismo. Per evitare
che sia presente in eccesso, si riduce la dose non appena compaiono effetti collaterali
aumentati. CYP2D6 metabolizza, ma anche è inibito da Fluoxetina.
- Non competitiva: non si ha competizione, consiste nell’inibizione enzimatica determinata
da una sostanza che non è metabolizzata dall’enzima che inibisce (una sostanza
inibisce un enzima senza esserne metabolizzata). Per esempio, un antiaritmico quale
chinidina è un inibitore di un enzima, il CYP2D6, ma non è metabolizzata da questo.
Quindi, determina problemi soltanto se associata a un altro farmaco metabolizzato
dall’enzima (sarà metabolizzato di meno e potrà dare effetti collaterali).
- Inibizione suicida: questo tipo di inibizione è, ad esempio, quella che viene operata da una
classe di antibiotici, i Macrolidi. Questi inibiscono un enzima che li metabolizza,
CYP3A4 (CYP che metabolizza maggior numero di farmaci), il metabolita che si forma
rimane legato al CYP in parte e dunque lo inibisce. Si chiama suicida perché, rimanendo
legato il metabolita al CYP, gli impedisce di continuare a catalizzare reazioni
enzimatiche.
Conseguenze dell’inibizione enzimatica
1. Aumento della tossicità: quando si ha un’inibizione enzimatica, si possono avere due
risultati: uno è quello che abbiamo visto, cioè inibisco un enzima che metabolizza un
farmaco attivo, che resta più a lungo e quindi aumenta il rischio di tossicità.
2. Riduzione dell’efficacia del farmaco: si verifica quando il farmaco che è metabolizzato
produce, mediante questo metabolismo, un metabolita molto più attivo del farmaco di
partenza.
Per esempio, un oppiaceo quale la codeina. Gli oppiacei sono potenti analgesici, e si
dividono in minori (analgesia più bassa) e maggiori (analgesia più alta). La codeina fa
parte del primo gruppo, quindi oppiacei minori, e si usa come analgesico associato ad altri
analgesici, ma si usa anche come antitussivo (per sedare la tosse).
La codeina viene metabolizzata dal CYP2D6 e il metabolita della codeina è la morfina
(metabolita attivo), un altro oppiaceo, questa volta maggiore. Quindi, partecipa molto
all’azione analgesica della codeina. In questo caso, se inibisco il CYP2D6 e somministro la
codeina, questa non forma morfina e poiché era questa con maggior azione analgesica,
in questo caso con la codeina ho una riduzione dell’efficacia analgesica. Se andate a
vedere le caratteristiche del prodotto della codeina trovate che, quando la si somministra,
non si devono associare inibitori del CYP2D6. Quindi l’inibizione non determina sempre
e soltanto un aumento della tossicità, ma tutto dipende dal metabolita che si forma.
CYP importanti farmacologicamente
Finora abbiamo nominato alcuni CYP. Vediamo adesso quali sono quelli importanti dal punto di
vista farmacologico e terapeutico. Elenchiamoli in ordine alfanumerico:
CYP1A1: è un CYP che non metabolizza farmaci, ma soltanto sostanze xenobiotiche, per esempio
la diossina e il benzopirene. Molti idrocarburi aromatici policiclici sono metabolizzati da questo
CYP, che è indotto dagli stessi. Questo è il motivo per cui il benzopirene diviene cancerogeno una
volta immesso nell’organismo, perché induce il CYP1A1, che forma l’epossido e se si forma nella
regione BAIA in posizione 9-10, esso trasloca nel nucleo e inibisce la trascrizione di p53,
principale difesa nei confronti di eventuale trasformazione neoplastica.
CYP1A2: metabolizza molti farmaci, alcune sono sostanze che appartengono alla famiglia delle
metil-xantine, come caffeina e teina, in particolare ci sono farmaci che si usano nella terapia di
asma bronchiale. Oltre a queste, anche alcuni antipsicotici usati per la schizofrenia e
antidepressivi sono metabolizzati dal CYP1A2. Dal punto di vista del sistema cardiovascolare, vi
sono farmaci come i β-bloccanti (sia antipertensivi che antiaritmici), che bloccano i recettori β di
noradrenalina e adrenalina, metabolizzati da questo CYP.
Inoltre, un anticoagulante orale, il warfarin, è metabolizzato da questo CYP1A2. Il warfarin esiste
in commercio come racemo (forma racemica), cioè contiene entrambi gli enantiomeri (sia R che
S), l’enantiomero attivo farmacologicamente con azione anticoagulante è l’S, mentre l’R non è
attivo come anticoagulante, non è sempre possibile isolare gli enantiomeri di determinate sostanze,
pertanto non è possibile commercializzare esclusivamente l’S warfarin ed inoltre, in alcuni casi
(non questo) si ha una conversione costante tra i due enantiomeri, cioè per alcune molecole con due
enantiomeri, questi in parte convertono l’uno nell’altro e non è possibile evitarlo. È l’enantiomero R
che viene metabolizzato dal CYP1A2, mentre l’S da un altro, il CYP2C9-C10.
Perché ci interessa sapere che l’enantiomero non attivo R viene metabolizzato dal CYP1A2?
Ci interessa perché quando il CYP1A2 funziona poco (se polimorfo o inibito) si accumula l’R-
warfarin, e quando ciò avviene è in grado di inibire il CYP che metabolizza l’S-warfarin, cioè la
forma attiva, e inibendo questo CYP l’S-warfarin viene metabolizzato di meno, ed essendo un
anticoagulante il rischio è l’emorragia. Il warfarin è a basso indice terapeutico, pertanto è poco
maneggevole, piccoli aumenti della dose provocano molti effetti tossici, ecco perché quando si fa
terapia con warfarin bisogna fare attenzione a qualsiasi altra sostanza assunta dal paziente, perché si
può verificare un’inibizione del CYP1A2 (inibizione da parte di antidepressivi), facendo
aumentare l’R-warfarin causando poi l’emorragia. CYP1A2 è indotto dal fumo di sigaretta.
Altro meccanismo: il warfarin circola con l’albumina, quindi cosa può succedere con una
politerapia? Se aggiungo un altro farmaco che circola legato alla stessa proteina, c’è competizione e
quindi il problema è che il warfarin viene spiazzato tornando in forma libera, aumentando la quota
libera, aumenta il rischio di tossicità (fenomeno dello spiazzamento).
CYP1B1: questo è un enzima che, in particolare nell’occhio, partecipa alla formazione di molecole
importanti per la struttura dell’occhio. La ridotta attività di questo enzima si trova in una forma di
glaucoma congenito, ossia una patologia oculare causata da un danno al nervo ottico e che porta a
cecità. Il danno al nervo ottico è, a sua volta, causato da vari fattori, uno fra questi è l’aumento della
pressione all’interno dell’occhio, la quale, se aumenta troppo, determina la compressione delle
fibre, causando danno al nervo ottico.
Ci sono delle proteine che partecipano attivamente nel ridurre la pressione all’interno
dell’occhio, che aumenta perché l’umor acqueo non viene sufficientemente drenato; l’umor acqueo,
che si forma nella camera anteriore dell’occhio, deve essere poi drenato attraverso il canale dello
Schlemm, esso contiene delle molecole atte a mantenerne l’apertura (pervietà), perché se si
chiude l’umor acqueo non viene drenato. Il CYP1B1 partecipa alla formazione di proteine che
favoriscono il drenaggio dell’umor acqueo. Se questo enzima è mutato si ha un glaucoma
congenito, in cui si può solo intervenire chirurgicamente, riaprendo il canale ormai chiuso. Il
CYP1B1 metabolizza anche degli ormoni sessuali: progesterone, estradiolo e testosterone. Dal
metabolismo di questi ormoni, purtroppo, si possono formare dei composti che formano dei
metaboliti (addotti) che legano il DNA (si legano al DNA), e questo può essere uno dei meccanismi
che innesca la trasformazione neoplastica;
CYP2A6: metabolizza la nicotina. Quando un paziente fuma, la nicotina che entra nell’organismo
viene metabolizzata da questo CYP, che è polimorfo e ha un fenotipo lento in circa l’1% dei
caucasici (Europei e Nordamericani), ma in una percentuale più elevata negli Asiatici (20%).
Questo è il motivo per cui, poiché funziona meno negli asiatici, questi quando fumano sono
maggiormente soggetti agli effetti della nicotina, perché viene metabolizzata di meno, quale
agitazione, tremore e nervosismo.
CYP2B6: metabolizza un antineoplastico, la ciclofosfamide, ed è il primo CYP che inizia il
metabolismo della ciclofosfamide, un vecchio antineoplastico usato per molti tumori. Dal suo
metabolismo si forma un composto tossico, non formato direttamente dal CYP2B6, ma questo è il
primo che interviene e dà inizio al metabolismo che determina la formazione del composto tossico:
l’acroleina, tossica per la vescica, causando cistite emorragica. Quando si somministra
ciclofosfamide, infatti, bisogna associare il mesna (antidoto), che inattiva l’acroleina;
CYP2C8: è un CYP coinvolto nel metabolismo di pochi farmaci, di un antidepressivo
(bupropione) e di un antitumorale (paclitaxel).
CYP2C9-C10: oltre all’S-warfarin, metabolizza anche altri farmaci, un antiepilettico, quale
la fenitoina, anche degli ipoglicemizzanti orali (farmaci che si usano per il diabete mellito di tipo
II). Quindi, è necessario conoscere il metabolismo di questi farmaci perché può dar luogo a
interazioni tra farmaci con conseguente aumento degli effetti collaterali. Se aumentano gli
effetti collaterali della fenitoina, che sono molti, è un problema, stessa cosa per l’S-warfarin, e gli
ipoglicemizzanti orali, se rimangono troppo a lungo nell’organismo, possono abbassare troppo la
glicemia causando ipoglicemia. Il nome ipoglicemizzante può indurre in errore: non significa
indurre ipoglicemia, ma che devono ridurre la glicemia (che è elevata nel diabete mellito), a livelli
fisiologici (euglicemia = normale), non portarla al di sotto. Dunque, se gli ipoglicemizzanti non
vengono metabolizzati perché il CYP2C9/C10 è inibito, c’è rischio di ipoglicemia, ed è una
condizione non fisiologica: effetto collaterale. L’ipoglicemia se scende velocemente (acuto) porta a
coma e morte.
CYP2D6: ha due caratteristiche. È il CYP più polimorfo in assoluto, ne esistono più di 60
varianti alleliche; quindi, è abbastanza facile che il paziente abbia un polimorfismo di questo
enzima, da tenere in considerazione se si somministrano farmaci metabolizzati dal CYP2D6 e che
hanno un basso indice terapeutico. Questo CYP metabolizza molti farmaci: per esempio, la
codeina; quindi, in quei soggetti che hanno CYP con fenotipo lento la codeina avrà azione ridotta,
in quanto metabolizzata più lentamente; metabolizza inoltre un antipsicotico, il risperidone, che è
un altro di quei farmaci che ha una piccola finestra terapeutica, si può variare poco nelle dosi,
perché se aumentate provocano molti effetti collaterali. Anche gli antidepressivi della classe SSRI
(fluoxetina) sono metabolizzati da CYP2D6. Cosa si fa? Si tipizza il paziente, esistono delle
macchinette che, con una goccia di sangue, vi dicono rapidamente che fenotipo è (lento o veloce).
Ciò si fa quando si fa terapia con alcuni farmaci a basso indice terapeutico e si vuole essere sicuri
che la terapia funzioni in quanto si ha una malattia grave.
Inoltre, questo CYP non è indotto, anche se oggi si conosce un farmaco che lo induce, però viene
inibito, e un esempio è quello della chinidina (antiaritmico), che lo inibisce, ma non è
metabolizzata da questo (inibizione non competitiva);
CYP2E1: lo vedremo meglio fra poco, quindi al momento ricordate solo che metabolizza un
farmaco, il paracetamolo, che si usa come antipiretico e analgesico. È un farmaco molto sicuro,
tuttavia, se dato in eccesso, viene metabolizzato da questo CYP, che normalmente non lo
metabolizza, ma lo fa solo quando è in eccesso e quando interviene si forma un metabolita tossico
che causa danni al fegato. È un CYP che può essere indotto dall’etanolo (quando l’etanolo è
consumato in acuto). Se consumato cronicamente, l’etanolo inibisce CYP2E1.
CYP3A4: questo è quello più importante di tutti perché metabolizza più del 40% dei
farmaci in commercio (fegato). C’è una sua isoforma, CYP3A5, che si trova prevalentemente nel
rene. Metabolizza molti farmaci, come quelli per il sistema cardiovascolare, ormoni steroidei
(pillola), molti antibiotici, antipsicotici e antidepressivi (benzodiazepine).
L’aspetto positivo è che non è polimorfo, ha alleli diversi, ma clinicamente non importanti;
tuttavia, può essere sia indotto che inibito; quindi, è causa di molte interazioni tra farmaci.
Tra gli induttori, ci sono farmaci antiepilettici (fenobarbital, carbamazepina, fenitoina) e ciò è un
problema per l’epilessia, e anche la rifampicina (antibiotico che si utilizza per terapia TBC) induce
il CYP3A4.
Tra gli inibitori, ci sono molti antifungini (antimicotici), farmaci che si danno per infezioni da
funghi, in particolare una classe che prende il nome dal principale farmaco del gruppo, che è
l’itraconazolo; poi i macrolidi lo inibiscono (per inibizione suicida) e poi anche sostanze
alimentari, ed è importante ricordare il succo di pompelmo, perché ne bastano 500mL al giorno per
avere un’inibizione enzimatica del CYP significativa clinicamente. Altri sono gli inibitori della
proteasi dell’HIV.
Reazioni di riduzione
Le riduzioni fanno parte delle reazioni di fase I del metabolismo. Quelle di maggiore importanza
farmacologica sono catalizzate dagli enzimi citocromo P450 (CYP450) e citocromo P450
NADPH reduttasi. I substrati che possono essere metabolizzati attraverso tali reazioni ricevono
uno o due elettroni ma, diversamente da quello che accade nelle reazioni di ossidazione, non
ricevono mai ossigeno. Le reazioni di riduzione sono meno frequenti di quelle di ossidazione e
avvengono soprattutto in ambienti caratterizzati da una bassa tensione di ossigeno, quindi in
minima parte nel fegato e, principalmente, nell’intestino grazie alla presenza di batteri della flora
batterica intestinale che sono responsabili della produzione degli enzimi necessari.
Ci sono due tipi di reazioni di riduzione farmacologicamente rilevanti:
- Riduzione dei nitrogruppi (NO2) in ammine
Un esempio è il farmaco cloramfenicolo un antibiotico ad ampio spettro, una volta molto
utilizzato ora meno diffuso nei paesi industrializzati a causa dei numerosi effetti collaterali e delle
resistenze sviluppate; continua invece a essere usato nei paesi in via di sviluppo per il suo costo
contenuto.
La molecola presenta un anello benzoico che ha come sostituente il nitrogruppo N2O. Il farmaco si
somministra per os e raggiunge l’intestino dove il nitrogruppo viene ridotto ad ammina. Si pensa
che questa reazione sia una delle cause alla base di un importante effetto collaterale: l’anemia
aplastica; essa coinvolge non soltanto i globuli rossi, ma anche le cellule della serie bianca, è
quindi una pancitopenia, una condizione molto grave che può essere letale.

- Riduzione di chinoni in idrochinoni


Un esempio è la doxorubicina, un antibiotico della classe delle antracicline usato unicamente come
antineoplastico. La struttura della molecola è caratterizzata dalla presenza di numerosi anelli.
Interessante è la presenza del gruppo chinonico, cioè dell’anello con i due chinoni attaccati. Nella
reazione intervengono il citocromo P450 NADPH reduttasi e il citocromo P450. La doxorubicina
riceve un elettrone che viene ceduto alla struttura chinonica trasformandola in semi chinone in cui
uno dei due ossigeni ha una carica negativa mentre l’altro ha un solo elettrone sull’orbitale più
esterno; è dunque un radicale e in quanto tale ha un’elevata tendenza a reagire soprattutto con O2.
Dopo aver reagito con O2 il semi chinone riforma il chinone mentre l’ossigeno molecolare,
ricevendo l’elettrone, diventa radicale superossido. Si tratta di un radicale non molto reattivo che,
però, può partecipare a delle reazioni che generano altre specie molto reattive come il radicale
idrossile (OH) che danneggia le cellule sia per perossidazione lipidica sia per danno al DNA.
L’organo che è più alterato in questo processo è il cuore che, essendo sfornito di protezioni nei
confronti dei radicali liberi, sarà il più danneggiato dalla doxorubicina.

Reazioni di fase II del metabolismo


Si possono descrivere delle reazioni di coniugazione, di fase II, che avvengono in un secondo
momento e consentono di aggiungere ulteriori molecole al farmaco in corrispondenza dei
gruppi funzionali introdotti con le reazioni di fase I. Lo scopo è rendere il farmaco idrosolubile
in modo da facilitarne l’escrezione attraverso l’urina e la bile che sono dei mezzi prevalentemente
acquosi. Sono delle reazioni che avvengono più velocemente rispetto quelle di fase I e possono
avvenire essenzialmente in due modi:
- Attraverso dei cofattori ad alta energia;
- L’energia viene ricevuta direttamente dal substrato attivato (xenobiotici attivati).
Le reazioni di fase II sono:
- glucuronoconiugazione (coniugazione con acido glucuronico)
- solfoconiugazione
- metilazione
- acetilazione
- coniugazione con aminoacidi
- coniugazione con glutatione ridotto (GSH)
Queste differiscono per la sede cellulare in cui si verificano. Le glucuronoconiugazioni sono
reazioni microsomiali, avvengono quindi a livello del reticolo endoplasmatico liscio
principalmente, ma non esclusivamente, degli epatociti. I microsomi sono delle strutture che si
ricavano dalla centrifugazione della cellula a determinate velocità: il reticolo precipita, si aggrega e
forma i microsomi. Mentre solfoconiugazione, metilazione, acetilazione e la coniugazione con
amminoacidi si verificano principalmente nel citosol. La coniugazione con GSH invece può
avvenire sia nel citosol sia nei microsomi.
Glucuronoconiugazione
La glucuronoconiugazione è una reazione che nella maggioranza dei casi porta alla formazione di
metaboliti non tossici e idrofili, quindi più facilmente eliminabili: è una reazione di
detossificazione. L’enzima che catalizza questa reazione è l’UDP-glucuronil-transferasi (UGT)
che ha tutte le caratteristiche tipiche degli enzimi metabolici: può essere indotto, inibito e ha un
certo polimorfismo, ciò significa che esistono varianti alleliche che si manifestano fenotipicamente
con una maggiore o minore velocità di catalisi enzimatica. Questo enzima sfrutta l’UDP
glucuronato, un cofattore ad alta energia che si ottiene a partire dal glucosio 1-fosfato quando
reagisce con l’UTP (uridina trifosfato); è quest’ultima ad essere responsabile del conferimento di
energia al substrato.
La glucuronoconiugazione avviene su substrati che contengono un eteroatomo (atomi diversi dal
carbonio) nucleofilo:
- azoto, quindi ammine primarie, secondarie e terziarie sia alifatiche che aromatiche;
- ossigeno, quindi alcoli, fenoli e acidi carbossilici;
- zolfo, quindi tioesteri.
Raramente questa reazione può riguardare anche atomi di carbonio poiché questo elemento di
solito non è sufficientemente nucleofilo. Tale caratteristica è importante perché quando queste
reazioni avvengono sul carbonio si producono dei composti tossici. Un esempio è la
glucuronoconiugazione di composti che hanno un nucleo steroideo, cioè nella loro molecola
contengono quattro cicli indicati con le lettere dell'alfabeto A B C D. Se la coniugazione interessa
l’anello D si formano dei metaboliti tossici che all’interno dei canalicoli biliari precipitano
causando danno epatico.
Un altro esempio di glucuronoconiugazione che può avere effetti tossici per l’organismo è quello
delle idrossiammine aromatiche, composti che presentano un anello aromatico legato ad una
ammina che a sua volta lega un ossidrile. Una volta glucuronoconiugate queste ammine
diventano più idrosolubili e possono essere escrete attraverso il rene. Giunte nel tubulo renale
sono esposte a un pH di 6-6.5 dunque più acido rispetto a quello fisiologico; questo causa la rottura
del legame con l’acido glucuronico coniugato ripristinando il composto di partenza che è una
sostanza pro-cancerogena. Aumenta di conseguenza il rischio di sviluppare tumori, soprattutto
vescicali. Anche a livello del colon si può verificare la rottura di questo legame e, quindi, aumenta
il rischio di trasformazione neoplastica in quest’organo.
UGT
L’UGT può essere classificato seguendo due criteri: ontogenesi e su base molecolare. Nonostante la
classificazione molecolare sia più utilizzata, l’ontogenesi è interessante da un punto di vista clinico.
Classificazione per ontogenesi:
1. UGT fetale: espressa nel feto 5 giorni prima della nascita. È una forma immatura e
quindi non completamente funzionale; questo rende la terapia farmacologica nella madre
durante la gravidanza complessa. I farmaci assunti dalla madre durante il periodo
gestazionale sono in grado di attraversare la placenta e raggiungere il feto che, avendo una
forma di UGT meno funzionante, non è in grado di metabolizzare correttamente il farmaco e
aumenta il rischio di tossicità.
2. UGT post-natale: espressa nel neonato 5 giorni dopo la nascita, è anch’essa immatura.
Nel neonato sottoposto a terapia farmacologica c’è un alto rischio di tossicità che rende
necessario ridurre le dosi e un periodo di sorveglianza per monitorare i possibili effetti
collaterali.
3. UGT espressa alla pubertà: completamente matura, è quella che continuerà a essere
espressa per il resto della vita.
Classificazione molecolare:
- UGT1: comprende la sola sottofamiglia UGT1A: è formata da 9 geni codificanti e 4
pseudogeni (sprovvisti del macchinario necessario per la trascrizione) ed è la più
importante UGT coinvolta nei processi metabolici dei farmaci.
- UGT2: comprende due sottofamiglie: UGT2A e UGT2B; la prima è espressa soprattutto a
livello del tessuto olfattivo, la seconda si occupa di metabolizzare gli ormoni sessuali e
alcuni farmaci, tra cui la morfina. È composta da un totale di 10 geni.
UGT1A si trova in un unico locus e per splicing alternativo forma più copie diverse dell’enzima. Il
gene è formato da 5 esoni, di cui 1 variabile e 4 costanti. L’esone variabile è presente in 13 forme
diverse e codifica per la regione dell’enzima che lega il substrato, gli esoni costanti codificano per
il legame all’enzima del cofattore, cioè del UDP glucuronato.
Sono presenti più varianti alleliche dello stesso enzima alcune delle quali si manifestano
fenotipicamente portando all'insorgenza di alcune patologie. L’UGT1A1, in particolare, determina
iperbilirubinemia che può manifestarsi in una forma più grave che prende il nome di sindrome di
Criger Najjar e in una più lieve che invece si definisce sindrome di Gilbert.
La mutazione è da perdita di funzione e causa una velocità di catalisi ridotta; quando si verifica su
un esone costante sarà sempre espressa e quindi causerà la sindrome di Criger Najjar tipo I o tipo II.
Nel tipo I l’iperbilirubinemia è data da un aumento nel sangue della bilirubina non coniugata
con l’acido glucuronico che è estremamente tossica perché in grado di penetrare nel sistema
nervoso centrale; è una condizione incompatibile con la vita. Il tipo II determina anch’essa tossicità
a livello del sistema nervoso centrale, ma è meno letale.
Quando la mutazione avviene sugli esoni variabili causa la sindrome di Gilbert che è molto più
comune e molto meno grave; spesso asintomatica, dà come unici segni la colorazione giallastra
delle sclere o della pelle per la mancata coniugazione della bilirubina.
Un altro isoenzima dell'UGT importante è l’UGT1A6 che metabolizza un farmaco molto utilizzato:
il paracetamolo (Tachipirina). Si tratta di un analgesico e antipiretico.
Ricircolo enteropatico
Una volta che un farmaco viene glucuronoconiugato è poi escreto con la bile e raggiunge
l’intestino dove sono presenti degli enzimi prodotti dalla flora batterica intestinale che
prendono il nome di glucuronidasi intestinali. Il compito di questi enzimi è di rompere il legame
di coniugazione con l’acido glucuronico e ripristinare il composto di partenza.
Poniamo il caso di un farmaco giunto nell’intestino, qui si ripristina il composto di partenza,
definito in generale aglicone, che ha riguadagnato quella lipofilicità, che aveva perso attraverso le
reazioni di glucoronoconiugazione. Il farmaco è ora lipofilo e può essere riassorbito per diffusione
passiva dalla parete intestinale per tornare nella circolazione sistemica: questo è il cosiddetto
ricircolo enteroepatico che provoca un aumento dell’esposizione al farmaco e quindi maggiori
effetti collaterali.
Tuttavia, questo processo può anche essere sfruttato dal punto di vista terapeutico. Un esempio è
rappresentato dalla pillola anticoncezionale composta da estroprogestinici: gli estrogeni vengono
metabolizzati, riassorbiti a livello intestinale e poi rimessi in circolo. Grazie al ricircolo si ha un
prolungamento della durata dei componenti attivi della pillola nell’organismo tale da
permettere la sua somministrazione una sola volta al giorno. Esiste un problema collegato al
ricircolo enteroepatico della pillola anticoncezionale dato dal fatto che i produttori delle
glucuronidasi sono i batteri della flora batterica intestinale. Se una donna che prende la pillola
anticoncezionale contemporaneamente contrae un’infezione batterica le devono essere prescritti
degli antibiotici della classe dei macrolidi e delle tetracicline. L’assunzione di questi farmaci
compromette non solo i batteri patogeni, ma anche la flora batterica intestinale, come conseguenza
si riduce necessariamente la produzione enzimatica e quindi il ricircolo enteroepatico, per cui
l’efficacia della pillola anticoncezionale è alterata. Per questo motivo quando si somministra una
terapia antibiotica si deve sempre avvertire la paziente che la durata d’azione della pillola è ridotta e
che, quindi, è necessario un mezzo contraccettivo di tipo meccanico aggiuntivo.
Solfoconiugazione
Gli enzimi che catalizzano le reazioni di solfoconiugazione sono le solfotransferasi (SULT) che
trasferiscono il solfato, in realtà lo ione solfito (SO3)2-, sul substrato. In quanto enzimi metabolici
possono essere indotte, inibite e possono essere polimorfe in alcuni soggetti. Il cofattore che viene
utilizzato è ad alta energia ed è rappresentato dalla fosfo-adenosina-fosfo-solfato (PAPS), esso si
forma dal solfato unito con l’ATP che fornisce l’energia necessaria. I substrati di questo tipo di
reazione sono composti che contengono un eteroatomo nucleofilo:
- azoto, quindi tutte le ammine
- ossigeno, quindi sui gruppi -OH.
Attraverso la solfoconiugazione si formano dei metaboliti non tossici, non attivi e maggiormente
idrofili quindi facilmente eliminabili attraverso le urine o la bile. Anche in questo caso esiste
un’eccezione rappresentata dalle idrossiammine aromatiche che vengono solfoconiugate, ma poi
tendono a perdere la coniugazione a livello del tubulo renale e qui a riformare il composto di
partenza diventando potenzialmente cancerogene.
SULT
Esiste una doppia classificazione. La principale è quella molecolare che usa la nomenclatura a base
di numeri e di lettere. La forma più importante e più abbondante è SULT1A1, mentre SULT2A1 è
deputata al metabolismo degli ormoni sessuali.
La seconda classificazione si basa invece sulla loro risposta al calore:
- SULT termolabili: sono quelle che quando sono esposte al calore si danneggiano e perdono
funzionalità. Queste metabolizzano prevalentemente le ammine, soprattutto adrenalina,
noradrenalina e dopamina.
- SULT termostabili: non risentono del calore. Metabolizzano prevalentemente i fenoli
incluso il paracetamolo. Sono polimorfe e questo spiega l’emicrania che, alcuni soggetti
che presentano una mutazione con riduzione di funzione, sviluppano quando si cibano di
determinati alimenti che contengono polifenoli, per esempio cioccolato e vino rosso.
- SULT a stabilità intermedia: hanno meno substrati perché metabolizzano principalmente
i composti che hanno un nucleo steroideo.
La maggior parte dei farmaci sono metabolizzati attraverso l’azione di SULT e UGT, essi
differiscono tra loro in termini di affinità e di capacità. Le SULT hanno una maggiore affinità
per i loro substrati per cui entrano in azione più rapidamente. Le UGT invece hanno una
maggiore capacità, dunque, sono in grado di metabolizzare una concentrazione più elevata di
substrato.
Un composto che può essere sottoposto all’azione sia delle SULT sia delle UGT, allora, sarà
inizialmente metabolizzato dalle SULT che però, avendo una minore capacità, vanno rapidamente
in saturazione, subentrano dunque le UGT che, avendo una maggiore capacità, sono in grado di
metabolizzare quantitativi maggiori di substrato. Questo è applicabile, ad esempio, al
paracetamolo. Attraverso questo processo si ottengono metaboliti non attivi, non tossici ed
eliminabili.
Il paracetamolo, tuttavia, rappresenta un’eccezione rispetto alla regola per cui avvengono prima le
reazioni di fase II rispetto a quelle di fase I. Nella molecola, infatti, è contenuto un gruppo fenolo,
ovvero un anello benzenico a cui è legato un gruppo -OH. Avendo già il gruppo ossidrile esposto
non sono necessarie reazioni di fase I, ma si possono verificare direttamente quelle di fase II.
Diversamente accade, invece, quando si somministra una dose eccessiva di paracetamolo, cioè nel
caso dell’overdose; a un certo punto si saturano anche le UGT quindi una certa percentuale della
dose non può essere metabolizzata. Entra a questo punto in azione un altro enzima che fa parte di
quelli che catalizzano le reazioni di fase I: CYP2E1, della famiglia del citocromo P450. Questo
enzima determina la conversione del paracetamolo in p-benzo-chinon-imina, un radicale libero.
Siccome la reazione avviene nel fegato si può facilmente provocare un danneggiamento degli
epatociti. Il nostro organismo, tuttavia, è dotato di difese nei confronti dei radicali liberi, in
particolare il glutatione si lega ai radicali liberi inattivandoli. Il glutatione è prodotto in grandi
quantità per cui, entro certi limiti, la p-benzo-chinon-imina non rappresenta un problema in quanto
ci si riesce a proteggere dal danno epatico. Quando si ha un paziente con overdose di
paracetamolo si agisce sopperendo al consumo di glutatione attraverso la somministrazione di un
precursore, la N-acetil-cisteina. La cisteina è uno degli amminoacidi che costituisce il tripeptide
glutatione, si è visto che l’organismo reagisce molto più facilmente e velocemente alla N-acetil-
cisteina rispetto che direttamente al glutatione che pone dei problemi di assorbimento. Affinché la
N-acetil-cisteina abbia questo effetto deve essere somministrata ad alte dosi; a dosi più basse
invece ha un ruolo mucolitico e quindi viene utilizzata per eliminare le secrezioni durante le
infezioni dell'apparato respiratorio superiore sotto forma di Fluimucil.
Metilazione
La metilazione avviene molto meno frequentemente a carico dei farmaci e rappresenta
un’eccezione all’aumento dell’idrofilicità che si ha normalmente in seguito le reazioni di fase
II; questo accade però durante il metabolismo della nicotina, i cui metaboliti sono idrofili.
Gli enzimi che catalizzano le reazioni di metilazione sono le metiltransferasi che, appunto,
trasferiscono gruppi metile sul substrato, sfruttando un cofattore ad alta energia che è la S-
adenosin-metionina (SAM). La metionina che fa parte del cofattore fornisce il gruppo metile che
sarà legato al substrato. I composti che possono essere metabolizzati attraverso questa reazione
sono, anche in questo caso, quelli che contengono degli eteroatomi nucleofili:
- ossigeno
- azoto
- zolfo
Se il composto contiene ossigeno le metiltransferasi coinvolte sono di due tipi:
- COMPT, sono catecol ossimetil transferasi ovvero trasferiscono il metile sul gruppo -
OH del catecolo, un anello aromatico con due -OH che dà il nome alle catecolamine.
Esistono dei polimorfismi, quindi in alcuni individui questi enzimi hanno una riduzione
della velocità di catalisi. Esistono in commercio dei farmaci inibitori delle COMPT: il
tolcapone e l’entacapone che si utilizzano nella terapia del morbo di Parkinson. Per
questa patologia si va a somministrare al paziente L-DOPA (levodopa), precursore della
dopamina, anziché direttamente il neurotrasmettitore perché questo non è in grado di
attraversare la barriera ematoencefalica. Un’ulteriore strategia terapeutica consiste
nell’andare a somministrare insieme a L-DOPA un inibitore delle COMPT che va ad
impedire la metabolizzazione della dopamina e della L-DOPA da parte dell’enzima. Si va
così a prolungare il tempo in cui la dopamina rimane attiva. Inoltre, se L-DOPA viene
metabolizzata forma dei metaboliti che non sono più in grado di formare la dopamina perché
hanno il catecolo metilato; oltretutto questi competono con la L-DOPA per i trasportatori
per gli aminoacidi aromatici che consentono l’attraversamento della barriera
ematoencefalica.
- POMT, sono fenol ossimetil trasferasi che trasferiscono il metile sull’OH del fenolo, un
anello aromatico con un solo -OH.
Se il substrato contiene un atomo di azoto agiscono le N-metil-transferasi che legano il gruppo
metile all’atomo di azoto. Questi enzimi sono in grado di agire sull’istamina, la nicotina, gli
amminoacidi e le basi azotate del DNA; in quest’ultimo caso la metilazione riguarda soprattutto le
aree ricche di citosina e determina il silenziamento genico che, quando avviene in corrispondenza
di geni oncosoppressori, può indurre tumorigenesi.
Se i composti contengono atomi di zolfo possono agire due tipi di metiltransferasi:
 Tiolo-S-metiltransferasi aggiunge il metile sui tioli e metabolizza in particolare un
composto tossico: l’acido solfidrico. Tale acido si forma per opera degli enzimi prodotti dai
batteri della flora batterica intestinale e arriva, attraverso la vena porta, al fegato dove sono
localizzati gli enzimi che lo metabolizzano impedendo quindi all’acido solfidrico di andare
in circolo e soprattutto di raggiungere il sistema nervoso centrale. In determinate condizioni
patologiche e, cioè, in caso di malfunzionamento del fegato come ad esempio nella cirrosi
epatica, si creano delle anastomosi a livello della vena porta che, invece di veicolare le
sostanze contenute nel sangue al fegato, le riversa nella circolazione sistemica attraverso lo
“shunt portosistemico”. Quando l’acido raggiunge il sistema nervoso centrale essendo
altamente tossico causa encefalopatia epatica.
 Tiopurina-S-metiltrasferasi è un enzima polimorfo che aggiunge il metile sullo zolfo di
alcuni composti chiamati tiopurine.
Si tratta di farmaci tra i quali figurano la 6-mercaptopurina e la azatioprina,
immunosoppressori utilizzati in alcune malattie autoimmuni, nei pazienti trapiantati e la
azatioprina viene utilizzata anche nella leucemia linfoblastica acuta. Sono farmaci con un
basso indice terapeutico, molto tossici come tutti gli immunosoppressori e poiché l’enzima è
polimorfo (e questo si traduce in una riduzione dell’attività enzimatica) i pazienti che hanno
un polimorfismo e che devono prendere una tiopurina sono molto a rischio di effetti
collaterali gravi, in particolare di mielosoppressione indotta dal farmaco stesso che non
viene metabolizzato, permane nell’organismo e ha gravi effetti tossici. Quindi questi
pazienti devono essere tipizzati prima di ricevere il farmaco, bisogna vedere quale tipo
isoenzima posseggono e se questo ha una ridotta velocità di catalisi bisogna ridurre di 1/10
la dose del farmaco prescritta.
Acetilazione
Le reazioni di acetilazione più importanti dal punto di vista farmacologico sono quelle che
avvengono su composti contenenti azoto. L’enzima che catalizza queste reazioni è la N-
acetiltrasferasi (NAT). La NAT utilizza un cofattore ad alta energia che è l’Acetil-coenzima A. Ci
sono due tipi di NAT:
- NAT di tipo 1 metabolizza prevalentemente sulfamidici che sono dei chemioterapici
utilizzati per delle infezioni batteriche e l’acido para-amminobenzoico (PABA). Non è
polimorfa.
- NAT di tipo 2 metabolizza: un farmaco molto importante per la terapia della tubercolosi
cioè l’isoniazide, uno che si utilizza per la terapia della lebbra ovvero il dapsone,
l’idralazina ovvero un farmaco antipertensivo e infine la procainamide che è un
antiaritmico. Si tratta di un enzima polimorfo con una caratteristica distribuzione
geografica:
 nei caucasici (europei e nordamericani) il 50% della popolazione ha una NAT veloce
e l’altro 50% una di tipo lento;
 gli asiatici hanno principalmente un fenotipo veloce;
 i nordafricani hanno un fenotipo lento
 la popolazione di eschimesi canadesi chiamati inuit hanno una NAT 2 velocissima.
In base al polimorfismo della NAT si manifestano più o meno frequentemente gli effetti collaterali
dei farmaci che sono metabolizzati da questo enzima. In generale negli acetilatori lenti dapsone,
idralazina e procainamide danno spesso vasculiti e lupus eritematoso sistemico (LES).
L’isoniazide dal punto di vista molecolare è l’idrazide dell’acido isonicotinico, quest’ultimo è
formato da un anello aromatico, con sostituente l’azoto, che lega l’idrazina. La metabolizzazione
della molecola avviene attraverso acetilazione. Negli acetilatori veloci si ha rapidamente una prima
acetilazione sull’azoto libero dell’idrazina che va a rompere la molecola in modo da formare l'acido
isonicotinico e l’acetil-idrazina. A questo punto sull’acetil-idrazina si crea un nuovo azoto libero
che consente una seconda acetilazione che porta alla formazione della diacetil-idrazina, un
composto non tossico, non attivo che viene eliminato senza problemi. Negli acetilatori
intermedi avviene la prima acetilazione normalmente ma la seconda non avviene subito; questo
ritardo causa l'intervento di un altro enzima metabolico che appartiene alla famiglia del citocromo
P450 e forma sull’acido isonicotinico un radicale del carbonio che interagisce con i composti
circostanti e, poiché si forma nel fegato, c’è la possibilità di danno epatico. Negli acetilatori lenti
anche la prima reazione di acetilazione non avviene istantaneamente quindi l'isoniazide in forma
attiva rimane più tempo in circolo e l'aumento dell'esposizione provoca delle neuropatie
periferiche e abbassa la soglia delle convulsioni. Questo significa che soggetti epilettici
sviluppano più facilmente convulsioni se sono degli acetilatori lenti e prendono isoniazide.
Coniugazione con amminoacidi
Questa reazione, diversamente da quelle analizzate fino ad ora, non utilizza dei cofattori ad alta
energia (cofattori attivati), ma avviene direttamente su degli xenobiotici attivati.
Ci sono due tipi fondamentali di coniugazione con gli amminoacidi:
Nel caso in cui i substrati abbiano un gruppo -COOH la coniugazione avviene con il gruppo -
NH2 di due amminoacidi, che nell’uomo sono la glicina e la glutammina, con la formazione di un
legame peptidico. L’enzima che catalizza questo legame si chiamerà glicina transferasi nel caso
del trasferimento della glicina o glutammina transferasi nel caso del legame con la glutammina.
L’attivazione del substrato avviene ad opera del coenzima A. Il coenzima A si lega al substrato,
conferendogli alta energia, e questo rende possibile la formazione del legame peptidico tra il -
COOH del substrato e la glicina o la glutammina.
Attraverso questo tipo di reazione si formano dei metaboliti non tossici. È quindi una reazione di
detossificazione sostitutiva alla reazione di glucuronazione. Quindi substrati che non possono
essere detossificati attraverso la glucuronazione, perché non ne hanno la caratteristica, possono
essere detossificati attraverso la coniugazione con la glicina e la glutammina. Un esempio è
rappresentato dal metabolismo dell’acido benzoico che viene coniugato con glicina e glutammina
per formare acido ippurico e da questo l’acido idrossiippurico che vengono eliminati dal rene.
Tuttavia, se c’è insufficienza renale l’acido ippurico e l’acido idrossiippurico vengono eliminati di
meno ed in caso di insufficienza severa abbiamo la cosiddetta sindrome uremica causata
dall’accumulo della tossina uremica derivante dai due acidi non escreti. Questa tossina
accumulandosi nell’organismo danneggia in particolar modo il cuore alterandone la contrattilità.
Il secondo caso di coniugazione con amminoacidi si ha su substrati che contengono il gruppo
-NH2. Il gruppo -NH2 viene utilizzato per essere coniugato con il -COOH di due amminoacidi che
sono la serina e la prolina. In questo caso non si forma un legame peptidico, ma si forma un
legame estere. L’enzima che catalizza questa reazione è l’amminoacil-tRNA transferasi. Il
substrato in questo caso si attiva attraverso il legame con l’ATP. Si formano dei metaboliti che
solitamente sono tossici, soprattutto questi metaboliti sono tossici se a formare il legame di
coniugazione con gli amminoacidi sono le idrossilammine aromatiche.
Coniugazione con glutatione
L’enzima che catalizza questo tipo di reazione è la glutatione transferasi (GST), che è un enzima
inducibile. Di questo enzima ne esistono due isoforme: una presente nel citosol, caratterizzato da
una catalisi veloce che metabolizza sostanze che sono xenobiotici; l’altra isoforma invece è la
glutatione transferasi microsomale, quindi si trova nel REL, che invece ha una velocità di catalisi
più lenta in quanto metabolizza in particolare composti endogeni, quindi prostaglandine e
leucotrieni.
Questo tipo di reazione di coniugazione forma anch’essa nella maggior parte dei casi composti non
tossici e non attivi. È quindi anche questo tipo di reazione un’alternativa alla
glucoroconiugazione per detossificare composti.
Il glutatione è un tripeptide, formato da cisteina, glicina e glutammato. Ha una caratteristica
importante, quella di potersi legare direttamente ai substrati, senza bisogno di catalisi enzimatica.
Quindi un’interazione con il glutatione può avvenire sia per interazione diretta glutatione e
substrato, sia per catalisi enzimatica.
La coniugazione con glutatione mediata da enzima può avvenire su composti idrofobi e, a
differenza di tutti i casi visti finora, devono contenere un atomo elettrofilo e non nucleofilo, inoltre
devono essere in grado di reagire con il GSH anche in assenza dell’enzima GST.
Un esempio di reazione di coniugazione con GSH è l’attivazione della nitroglicerina. La
nitroglicerina si utilizza come vasodilatatore nell’angina pectoris, cioè quando arriva poco sangue al
cuore rispetto alle azioni che il cuore deve operare. La nitroglicerina funziona da vasodilatatore in
quanto rilascia NO, il cui rilascio è permesso proprio attraverso la coniugazione della nitroglicerina
con il glutatione.
La nitroglicerina viene assunta per via sublinguale, viene metabolizzata per coniugazione con
glutatione, che è una reazione velocissima, e si libera il NO che è il vero è proprio vasodilatatore.
Un altro tipo di reazione di coniugazione con il glutatione si ha nel metabolismo dei composti
organo fosforici. I composti organo fosforici hanno fondamentalmente due utilizzi:
 nei pesticidi: vengono utilizzati nella lotta agli insetti nelle coltivazioni, cosa che ha
permesso lo sviluppo di resistenze negli insetti all’azione di questi composti, attraverso
l’induzione della GST.
 nei gas nervini.
Escrezione dei farmaci
I principali organi che hanno funzione di escrezione sono il rene e il fegato. Ce ne sono anche altri,
come per esempio l’apparato respiratorio attraverso l’espirazione, particolarmente importante per
quanto riguarda i farmaci che si assumono per via inalatoria, oppure abbiamo la cute attraverso la
sudorazione.
I farmaci che vengono eliminati dal fegato attraverso la bile, quando sono glucoronoconiugati o
solfoconiugati, possono andare incontro a ricircolo enteroepatico perché, come abbiamo detto,
nell’intestino ci sono questi enzimi della flora batterica, glucuronidasi o solforonidasi che
rompono o il legame con l’acido glucuronico o il legame con l’acido solforico.
Nello studio dell’escrezione dei farmaci è importante introdurre la clearance.
Clearance: volume di sangue che viene depurato da una determinata sostanza nell’unità di tempo.
La clearance può essere costante oppure può dipendere da alcune variabili:
- La clearance rimane costante e indipendente dalla concentrazione plasmatica del farmaco
per sostanze che vengono eliminate principalmente con meccanismi di tipo diffusionale,
cioè attraverso diffusione passiva o anche attraverso diffusione attraverso trasportatori
(prima che i trasportatori siano saturati). Questo tipo di cinetica viene detta di ordine uno;
- La clearance è variabile e dipendente dalla concentrazione plasmatica per quei farmaci che
vengono eliminati attraverso un meccanismo saturabile, quindi quando ci sono dei
trasportatori che hanno raggiunto la saturazione. Viene detto a velocità costante in quanto
dipende dalla velocità di turnover del trasportatore. Questo tipo di cinetica viene detta di
ordine zero.
Per i farmaci che hanno cinetica di ordine zero sarà eliminata, nell’unità di tempo, una quantità fissa
di farmaco che corrisponderà, se dobbiamo riferirci al plasma, ad un volume di plasma che sarà
tanto minore quanto sarà maggiore la concentrazione plasmatica del farmaco.
Escrezione renale dei farmaci
Il flusso di sangue che raggiunge i reni nell’unità di tempo è di 1.2 L, che corrispondono al 25%
della gittata cardiaca, quindi i reni ricevono una grandissima quantità di sangue in relazione al loro
peso che non corrisponde di certo al 25% del peso del corpo. Questa grande quantità di sangue che
raggiunge il rene è giustificata dal fatto che la funzione principale dei reni è proprio quella di
filtrare ed eliminare le sostanze presenti nel sangue.
In termini di flusso plasmatico renale e quindi di componente acquosa, i reni ricevono 650 ml di
plasma al minuto.
Nei reni l’eliminazione delle sostanze che sono contenute nella quantità di sangue che ricevono
avviene attraverso due meccanismi:
 la filtrazione glomerulare;
 il trasporto tubulare.
Filtrazione glomerulare
Viene filtrato circa il 20% di flusso che arriva al rene. La filtrazione avviene attraverso i capillari
glomerulari che hanno una grandezza che permette il passaggio di sostanze che hanno un peso
minore di 60 kDa. La velocità della filtrazione è teoricamente di 130 ml/min.
Il tasso massimo di filtrazione glomerulare, quello che si riferisce al rene sano e perfettamente
funzionante, è di 130 mL/min. È un tasso di filtrazione teorico perché, in realtà, nell’uomo non
avviene quasi mai che il tasso filtrazione sia così elevato. Si considera fisiologico, di un rene in
ottime condizioni, un tasso di filtrazione sui 100-110 mL/min (130 mL/min è quasi irrealizzabile
nella pratica clinica).
Si parla di rene integro, di funzione renale integra, quando il tasso di filtrazione è tra 90 e 130
mL/min. Si parla di insufficienza renale quando il tasso di filtrazione si riduce oltre questo range.
L’insufficienza renale viene definita:
 lieve, quando il tasso di filtrazione è compreso tra 60 e meno di 90 mL/min
 moderata, quando il tasso di filtrazione è minore di 60 e maggiore di 30 mL/min
 severa, quando il tasso di filtrazione è minore di 30 mL/min
Quando il tasso di filtrazione scende al di sotto di 15 mL/min il paziente obbligatoriamente deve
andare in dialisi perché il rene non riesce più a filtrare, non funziona più e c’è bisogno della dialisi
per eliminare le scorie che si trovano nel sangue.
Per monitorare la funzione renale esiste un parametro molto efficace e sensibile, la creatinemia.
La creatinina è una proteina muscolare che viene eliminata dal rene principalmente per filtrazione e
soltanto una piccola quota viene escreta per trasporto tubulare, quindi la creatinemia rappresenta un
parametro maggiormente di filtrazione glomerulare.
I valori fisiologici, ritenuti normali, di creatinemia (concentrazione plasmatica della creatinina)
differiscono nel maschio rispetto alla femmina, perché, essendo la creatinina una proteina
muscolare, il maschio ha una massa muscolare maggiore rispetto alla donna e dunque i livelli
ritenuti ottimali della creatinemia nel maschio sono più alti rispetto a quelli ritenuti ottimali nella
femmina.
La creatinemia nel maschio è ritenuta normale in un range che va da 0.7 a 1.3 mg/dL. Se la
creatinemia supera gli 1,3 questo vuol dire che siamo in una situazione di insufficienza renale.
Nella femmina i valori sono leggermente più bassi e hanno un range che va da 0.55 ad 1 mg/dL.
Al di sopra di 1 mg/dl iniziamo a parlare di insufficienza renale.
Misuriamo la creatinemia tutte quelle volte che vogliamo misurare la funzionalità renale, in
particolare per quanto riguarda la farmacologia, andiamo a misurare la creatinemia quando
somministriamo dei farmaci che sono potenzialmente tossici per il rene.
Ci sono alcuni farmaci che appartengono alla classe degli antineoplastici che sono a basso indice
terapeutico (dotati di un gran numero di effetti collaterali) per cui piccole variazioni nella
concentrazione plasmatica possono portare ad un aumento molto importante di effetti collaterali.
Sono dei farmaci molto efficaci in alcuni casi, ma gravati da effetti collaterali. Alcuni di questi
hanno una spiccata tossicità per il rene, e per questi non basta misurare la creatinemia, ma bisogna
misurarla al basale (prima di iniziare la terapia) e poi in corso di terapia per sapere se il paziente
può continuare la terapia con quel determinato farmaco.
Un antitumorale che ha una spiccata tossicità per il rene è il cisplatino, un farmaco oncologico che
si utilizza solo nella terapia di molti tumori solidi (i tumori si distinguono in tumori solidi e tumori
del sangue). Purtroppo, tra le varie tossicità, ha una spiccata tossicità renale, quindi quando
facciamo terapia con il cisplatino dobbiamo monitorare la funzione renale e normalmente si misura
la creatinemia.
Con i farmaci antitumorali classici la terapia si fa per cicli: si somministrano diversi cicli
chemioterapici al paziente, a seconda del tipo di tumore. Normalmente la durata del ciclo varia, a
seconda del farmaco e a seconda del tipo di tumore, ma più o meno un ciclo di terapia è tra i 25 e i
28 giorni. Durante i giorni del ciclo non si somministra il farmaco tutti i giorni.
Prendiamo, ad esempio, un ciclo di 28 giorni: il primo giorno viene somministrato il cisplatino e poi
non viene più somministrato per l’intero ciclo  dopo 28 giorni si ricomincia un secondo ciclo e al
giorno uno del secondo ciclo viene risomministrato il cisplatino.
Abbiamo però detto che il cisplatino induce tossicità renale e quindi quello che bisogna
monitorare è se il danno renale sia tale da impedire la continuazione della terapia con
cisplatino. Si misura la creatinemia qualche giorno prima della fine del primo ciclo (del
venticinquesimo giorno), si vede se la creatinemia rientra nel range fisiologico (per la terapia con
gli antineoplastici si accetta un range leggermente più alto: fino a 1.4 mg/dL nel maschio e fino a
1.1 mg/dL nella donna, è ancora ritenuto possibile iniziare il secondo ciclo). Se i valori sono
superiori bisogna aspettare che la creatinemia ritorni normale oppure bisogna cambiare composto
del platino.
In ogni caso, in base ai livelli di creatinemia si imposta la terapia per lo specifico paziente.
Trasporto tubulare
Il secondo meccanismo renale di eliminazione dei farmaci è il trasporto tubulare. Il trasporto
avviene a livello del tubulo contorto prossimale, cioè la prima porzione del tubulo,
immediatamente adiacente alla capsula di Bowman. Si utilizza il trasporto tubulare per quei
farmaci che non hanno dimensioni adatte a poter passare attraverso i pori e le fenestrature
dei capillari glomerulari. Ci sono dei farmaci che vengono sia filtrati sia trasportati nel tubulo,
quindi una cosa non esclude l’altra.
Il trasporto tubulare avviene attraverso dei trasportatori. Questi trasportatori si suddividono in due
grandi famiglie:
- i trasportatori SLC (solute carrier) che si distinguono in trasportatori per anioni e
trasportatori per cationi.
- i trasportatori ABC (ATP binding carrier) che utilizzano l’ATP come mezzo per fornire
energia; a questo gruppo appartiene la glicoproteina P, che trasporta molti xenobiotici
(sostanze non prodotte dal nostro organismo), inclusi i farmaci.
I trasportatori per gli anioni organici OATP sono dei trasportatori poco selettivi perché
trasportano una grande quantità di sostanze diverse: composti carbossilati, farmaci coniugati con la
glicina, con il solfato, con l'acido glucuronico, alcuni antibiotici come le penicilline e le
cefalosporine (antibiotici beta-lattamici), alcuni antiinfiammatori non steroidei (salicilati), alcuni
diuretici (tiazidici), statine contro il colesterolo (tra i farmaci più prescritti in assoluto).
L’OATP può essere inibito in modo sia competitivo che non competitivo: può essere inibito dalle
sostanze che sono trasportate dallo stesso trasportatore oppure anche da sostanze che non sono
trasportate dallo stesso trasportatore, ma che hanno come caratteristica quella di bloccare l’OATP.
Un esempio è il probenecid: un farmaco che viene utilizzato nella terapia della gotta (l'indicazione
del probenecid è la gotta). Oltre ad essere utilizzato nel trattamento della gotta, viene utilizzato
perché inibisce in modo competitivo OATP, ossia si lega al trasportatore OATP e impedisce che
questo trasportatore leghi altri farmaci che vengono escreti dal rene mediante il trasporto tubulare
OATP, tra questi farmaci ci sono le penicilline. Per potenziare l’azione delle penicilline, queste si
associano al probenecid che lega l'OATP e le penicilline quindi non vengono escrete. Questo
metodo si utilizza, per esempio, nella meningite batterica per potenziare l'efficacia degli
antibiotici.
Il secondo tipo di trasportatori è rappresentato dai trasportatori per i cationi organici, il cui
acronimo sarà OCTP. Sono anch’essi poco selettivi, trasportano farmaci che abbiano almeno un
gruppo amminico carico positivamente a pH fisiologico. L’OCTP trasporta molti neurotrasmettitori
amminici, per esempio l’acetilcolina, la dopamina, la serotonina, l’istamina, anche un po' di
creatinina (è eliminata principalmente per filtrazione, ma un pochino è anche trasportata), alcuni
analgesici oppiacei (sostanze analgesiche della classe della morfina). Però, in questo caso, se la
morfina è glucuronoconiugata, c’è addirittura una UGT specifica che metabolizza (glucurona) la
morfina: la quota di morfina glucuronoconiugata è escreta attraverso l’OATP, mentre la quota
non glucuronoconiugata ha il gruppo amminico carico a pH fisiologico ed è escreta attraverso
l’OCTP. Una stessa sostanza, a seconda di come viene metabolizzata, può essere escreta da un
trasportatore o da un altro a seconda che sia un anione o un catione organico.
Al gruppo dei trasportatori ABC appartiene la glicoproteina P che può essere indotta e può
essere anche inibita: di solito gli stessi farmaci che risultano essere degli induttori degli enzimi del
citocromo P450 sono anche degli induttori della glicoproteina P, mentre quei farmaci che risultano
essere degli inibitori degli enzimi del citocromo P450 in genere sono anche degli inibitori della
glicoproteina P. Di solito c’è una certa correlazione.
La glicoproteina P trasporta molti farmaci, tra cui antibiotici, come la eritromicina, un macrolide,
la rifampicina, che si utilizza molto nella terapia della tubercolosi, le tetracicline, molti farmaci
antitumorali, alcuni antistaminici, farmaci che si utilizzano nelle aritmie. È un trasportatore
molto aspecifico.
Riassorbimento tubulare
Oltre all’escrezione, nel tubulo renale possiamo avere il fenomeno del riassorbimento. Il
riassorbimento a livello del tubulo può avvenire per diffusione passiva oppure attraverso dei
trasportatori. Quindi possiamo dire che ci sono dei trasportatori che buttano fuori il farmaco e lo
mettono nel lume del tubulo renale in modo che venga escreto, oppure ci sono dei trasportatori che
prendono il farmaco dal tubulo renale e lo portano nell’interstizio.
Il riassorbimento per diffusione passiva avviene, principalmente a livello del tubulo contorto
prossimale, nella prima porzione del tubulo renale, perché qui viene riassorbita la maggior parte
dell’acqua della pre-urina e anche gli elettroliti che sono qui contenuti.
Venendo riassorbiti acqua ed elettroliti, le altre sostanze che si trovano disciolte all’interno del
tubulo, nella pre-urina, si concentrano. Concentrandosi, se sono sufficientemente lipofile, possono
essere riassorbite per diffusione passiva migrando secondo gradiente di concentrazione dal tubulo
all’interstizio.
Ovviamente il pH dell’ambiente influenza il riassorbimento di molti farmaci, perché la maggior
parte dei farmaci sono o degli acidi o basi deboli, e quindi, a seconda del pH, saranno o non
saranno carichi. Se una sostanza è carica, non è lipofila e quindi non può essere riassorbita per
diffusione passiva. Ad esempio, nell’intossicazione da barbiturico per far eliminare i barbiturici
più velocemente, poiché essi sono degli acidi deboli che vengono eliminati dal rene, se io alzo il pH
urinario faccio sì che il barbiturico acido debole si dissoci e quindi divenga carico, come carico non
può essere assorbito e quindi viene eliminato.
Alcalinizzando o acidificando le urine io riesco a regolare il riassorbimento per diffusione
passiva delle sostanze che sono contenute nei tubuli renali.
Il riassorbimento oltre che per diffusione passiva, in pochi casi, può avvenire anche attraverso dei
trasportatori. Esiste un sistema di riassorbimento di anioni soprattutto a livello del tubulo.
Diversamente dal trasporto tubulare, che è molto aspecifico (uno stesso trasportatore può trasportare
sostanze molto diverse tra di loro con struttura diversa tra di loro), il sistema di riassorbimento degli
anioni è molto selettivo e un trasportatore normalmente lega soltanto un tipo di sostanza o sostanze
che sono molto simili tra di loro, ma non riesce a trasportare sostanze diverse.
Un esempio è l’acido urico, che possiede due trasportatori a livello renale: un trasportatore che ne
media l’escrezione e uno che gli permette il riassorbimento. Il probenecid si lega al trasportatore
che media il riassorbimento dell’acido urico, ed è per questo che si utilizza negli attacchi di gotta (la
gotta è determinata da un accumulo di acido urico all’interno delle articolazioni). Quindi per
risolvere la gotta bisogna eliminare l’acido urico utilizzando il probenecid che lega il suo
trasportatore impedendone il riassorbimento.
Emivita e stato stazionario
Ora dobbiamo affrontare lo studio di due concetti che sono molto importanti in farmacocinetica,
quelli di emivita e di stato stazionario (anche indicato con il termine inglese steady state).
L’emivita è il tempo necessario affinché la concentrazione plasmatica di un determinato farmaco si
riduca della metà. In particolare, è un parametro che permette di esprimere quella che è l’efficienza
dei processi di eliminazione di un determinato organismo per un certo farmaco.
L’emivita dipende dai processi di eliminazione dell’organismo, ma è assolutamente indipendente
dalla concentrazione plasmatica del farmaco, dipende dalla funzione degli organi escretori e
dipende anche, oltre che dalla clearance, dal volume di distribuzione apparente del farmaco: il
farmaco si distribuisce nel nostro organismo, più si distribuisce, più il volume di distribuzione è
ampio e più lunga sarà l’emivita perché il farmaco si va a depositare in molti distretti
dell’organismo e quindi sarà più lenta la sua eliminazione.
Conoscere l’emivita ci serve per determinare la posologia, che consiste nella determinazione della
dose, la quantità di farmaco che io do e dell’intervallo tra le dosi, ogni quanto tempo io do quella
determinata dose di farmaco. Inoltre, ci serve per, eventualmente, predire degli eventi avversi nel
caso in cui l’emivita aumenti per inefficienza degli organi escretori o nel predire inefficacia
terapeutica nel caso in cui l’emivita si riduca per il subentrare di altri meccanismi.
L’emivita serve anche per stabilire lo stato stazionario il cosiddetto steady state, che è quello
stato che quando viene raggiunto ci indica che la concentrazione plasmatica di quel
determinato farmaco somministrato per dosi ripetute oscilla entro un range di concentrazioni
costante nel tempo. Se somministriamo per più volte il farmaco ad un paziente dobbiamo sapere in
quale momento a partire dall’inizio della terapia, le concentrazioni plasmatiche del farmaco
risultino stazionarie, cioè risultino stabili entro un certo intervallo di tempo sempre uguale,
indipendentemente dal momento del giorno in cui io vado a misurarle. Normalmente lo stato
stazionario si raggiunge dopo circa 4-5 emivite.
Per capire come si raggiunge lo stato stazionario bisogna costruire un grafico concentrazione-
tempo, dove sulle Y abbiamo le concentrazioni plasmatiche di un certo farmaco mentre sulle X
abbiamo il tempo.
Poniamo il caso che il farmaco venga somministrato più volte, diamo una certa dose di farmaco e
andiamo a misurare la Cmax (concentrazione massima), facciamo più prelievi fino a che non
vediamo di aver raggiunto la concentrazione massima.
Poniamo che, per questa dose che abbiamo dato, la concentrazione massima sia di 20
microgrammi/mL. La curva ha un massimo, dopo la prima somministrazione, a 20
microgrammi/mL, che corrisponde all’asse delle Y.
Una volta raggiunta la Cmax, aspettiamo 1 emivita del farmaco. Sappiamo che, trascorso
questo tempo, la concentrazione plasmatica si è ridotta della metà: se andiamo a misurare la
concentrazione plasmatica dopo 1 emivita sarà di 10 microgrammi/mL, la metà di 20.
Dopo che abbiamo aspettato 1 emivita somministriamo una seconda dose di farmaco, la Cmax a
questo punto, dopo la seconda dose, quale sarà? La dose è sempre la stessa quindi avremo 20
microgrammi/mL più il residuo che abbiamo ancora dentro di 10 microgrammi/mL: la
concentrazione plasmatica Cmax sarà di 20+10, di 30 microgrammi/mL.
A questo punto aspettiamo ancora 1 emivita. Alla fine della seconda emivita da 30
microgrammi/mL saremo arrivati alla metà, a 15 microgrammi/mL.
Dopo che è passata una seconda emivita somministriamo la terza dose, la dose è sempre la
stessa, quindi quale sarà la Cmax in questo caso? 20 più quello che rimane dentro, quindi 15, cioè
35 microgrammi/mL.
A questo punto abbiamo una Cmax di
35 microgrammi/mL. Si aspetta
un’altra emivita e la concentrazione
plasmatica si riduce della metà, a 17,5
microgrammi/mL.
Somministriamo di nuovo la stessa
dose di farmaco e questa volta avremo
una Cmax di 20+17,5, più o meno 38
microgrammi/mL. Aspettiamo un’altra
emivita, 38 microgrammi/mL si
ridurranno a 19 microgrammi/mL.
A questo punto somministro una
quinta dose, 19+20 fanno 39
microgrammi/mL. Aspetto un’altra
emivita e 39 diventa la metà che è sempre 19. A questo punto do un’altra dose e si vede che dopo
la quinta dose ho raggiunto lo steady state, cioè la concentrazione plasmatica del farmaco si
mantiene sempre all’interno di un intervallo fisso, che in questo specifico caso va dai 19
microgrammi/mL a 39 microgrammi/mL, indipendentemente dal momento in cui faccio il prelievo.
Questo succede perché alla quinta dose, tutta la prima dose che ho somministrato è stata
eliminata e quindi la quinta dose si sostituisce completamente alla prima dose, la sesta dose si
sostituisce completamente alla seconda dose e così via e quindi l’intervallo rimane costante.
Sapere che abbiamo raggiunto lo steady state ci serve quando vogliamo controllare la
concentrazione plasmatica perché so che a quel punto posso fare un prelievo in qualsiasi momento
dopo aver raggiunto lo steady state e so che la concentrazione che vado a misurare sarà quella
stabile raggiunta dalla terapia.
Facciamo dei prelievi plasmatici per conoscere la concentrazione dei farmaci che hanno un
basso indice terapeutico e che quindi devo monitorare attentamente perché piccole variazioni della
concentrazione plasmatica possono darmi molti effetti collaterali, oppure tutte le volte che faccio
una terapia sostitutiva cioè quando somministro esogenamente un farmaco per rimpiazzare una
carenza del nostro organismo.
Un esempio è quello dell’ipotiroidismo, in cui i pazienti hanno una tiroide che funziona poco e che
produce meno ormoni tiroidei, assolutamente essenziali per la vita dell’organismo. Bisogna far sì
che gli ormoni tiroidei siano sufficientemente presenti nell’organismo, se la tiroide non li produce si
somministrano dall’esterno: questa si chiama terapia sostitutiva ormonale, si dà dall’esterno
l’ormone che non viene prodotto dal nostro organismo. Nel caso di ipotiroidismo si dà l’ormone
tiroideo T4, che viene somministrato in terapia.
Di ormone tiroideo diamo la quantità necessaria affinché all’interno del nostro organismo le
concentrazioni plasmatiche di ormone tiroideo ritornino in quello che è considerato il range di
normalità, esistono dei range fisiologici per gli ormoni tiroidei.
Se la tiroide funziona la quantità di ormone tiroideo circolante nel sangue è giusta, se la ghiandola
non funziona diminuisce. Noi con la terapia sostitutiva dobbiamo far sì che la concentrazione ritorni
nel range non deve essere né più alta né più bassa (anche se è troppo alta non va bene), deve
ritornare nel range fisiologico.
Per sapere che nel nostro paziente, dando una certa dose di ormone tiroideo, si ottiene la
concentrazione fisiologica bisogna misurare al paziente la concentrazione di ormone tiroideo
nel sangue dopo 5 emivite.
Si inizia la terapia sostitutiva con ormone tiroideo e si aspettano cinque emivite. Dopo cinque
emivite si va a misurare la concentrazione. Per l’ormone tiroideo T4 cinque emivite sono 4-5
settimane.
Si inizia la terapia e dopo 4-5 settimane (non prima perché a seconda del momento in cui misuro ho
un valore diverso, non attendibile, al contrario dopo cinque emivite io so che ho raggiunto lo steady
state, quindi quello che misuro è effettivamente la concentrazione stabile che deriva dal fatto che io
sto facendo terapia) faccio il dosaggio dell’ormone e vado a vedere se l’ormone è rientrato nel range
fisiologico. Se sì, allora la dose va bene, se non è rientrato bisogna vedere se e troppo basso o
troppo ̀ ̀ ̀alto. Nel primo caso si aumenta la dose di ormone tiroideo, nel secondo caso si riduce la
dose.
Lo steady state è assolutamente necessario, deve essere calcolato nel momento in cui si vuole
conoscere se la terapia che stiamo facendo produce sufficienti livelli plasmatici di quel
determinato farmaco.
Escrezione epatica dei farmaci
Il secondo organo importante per l’eliminazione dei farmaci è il fegato.
Innanzitutto, i farmaci arrivano al fegato tramite due vie: l’arteria epatica e la vena porta. Una
volta arrivati al fegato troviamo, i capillari epatici, i cosiddetti sinusoidi epatici che hanno un
endotelio con pori e finestre, senza la lamina basale, sono ricchi di cellule fagocitarie del Kupffer
che fagocitano e portano dentro il farmaco e sono ricchi di trasportatori. Per cui diciamo che
moltissimi farmaci che sono disciolti nel sangue possono arrivare al fegato ed entrare nell’epatocita.
Passano farmaci anche di dimensioni molto grandi come, ad esempio, quelli legati alla proteina
trasportatrice albumina, che hanno un peso superiore al peso molecolare dell’albumina stessa che è
di 66 kDa. È molto più facile che il farmaco entri dentro l’epatocita per la presenza di tutti questi
meccanismi che favoriscono l’entrata.
Una volta che il farmaco è entrato nel fegato, può essere metabolizzato, quindi gli enzimi
metabolici che sono contenuti nel fegato possono catalizzare le reazioni del metabolismo. Una
volta metabolizzato il farmaco poi può essere escreto nella bile. I farmaci vengono escreti con la
bile soprattutto se sono dei farmaci polari e se hanno un peso molecolare che sia almeno
superiore ai 300- 500 Da.
Un farmaco può essere escreto anche in entrambi i modi, cioè sia del rene che dalla bile.
Esistono molti sistemi di trasporto a livello del fegato: trasportatori per anioni, trasportatori
per cationi, trasportatori dedicati soltanto per agli acidi biliari.
La diversità tra escrezione renale ed escrezione epatica consiste nel fatto che mentre per il rene
abbiamo una proteina, la creatinina, che, ci permette di monitorare in modo preciso la funzione
renale, (attraverso la determinazione della creatinemia), per l’escrezione epatica non abbiamo
una molecola che possiamo monitorare, la cui concentrazione nel sangue può essere monitorata
come indice di funzionalità escretoria epatica.

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