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TECNOLOGIE FARMACEUTICHE

Lezione 1 (22/09/21)
La farmacopea è un codice farmaceutico contenente una serie di disposizioni tecnico-amministrative
riguardanti le caratteristiche, i requisiti ed i metodi di analisi e controllo dei farmaci e delle forme
farmaceutiche. La farmacopea in uso in Italia è sia quella della Repubblica Italiana che quella europea (usata a
livello internazionale).
La farmacopea ufficiale è un testo di riferimento per la denominazione, dosaggi, e conservazione di farmaci e
medicinali. Contiene una serie di norme ed obblighi che riguardano sia il farmacista che le aziende produttrici di
medicinali industriali.
Il ruolo della Farmacopea europea è la promozione della salute pubblica mediante una messa a punto di norme
comuni e riconosciute, che devono essere utilizzate dal personale sanitario e da chi è coinvolto nella sicurezza
d’uso dei medicinali.
Le norme che sono contenute nella farmacopea europea sono rivolte
 Alle autorità di registrazione nel controllo medicinali
 Ai produttori di materie prime per uso farmaceutico (che vengono usate dal farmacista o dall’industria
per creare medicinali)
 A chi produce industrialmente prodotti medicinali
 Ai farmacisti nell’attività preparatoria.

La Farmacopea richiede una revisione costante e dinamica. I testi che costituiscono le norme di farmacopea
richiedono continui adeguamenti rispetto a:
 Progresso scientifico e tecnologico
 Problemi emergenti
 Nuove disposizioni regolatorie.
La Farmacopea vigente italiana è la 13esima edizione, per quella europea, invece, usiamo la nona edizione.
La redazione di nuove farmacopee è opera di un tavolo tecnico, formato da diversi rappresentanti del mondo
farmaceutico: ministero della salute; ISS (istituto superiore sanità); agenzia italiana del farmaco ecc…

MEDICINES con il termine ‘’medicina’’ o ‘’prodotto medicinale’’ o ‘’medicines’’ si intende un prodotto,


formato da una molecola o più molecole terapeutiche, farmaci ed eccipienti, che, combinati tra loro,
costituiscono una FORMULAZIONE (o ‘’dosage form’’, o ‘’form’’, o ‘’delivery system’’).
Invece, col termine Farmaco, o ‘’drug’’ o ‘’attivo’’ si intende soltanto il principio attivo contenuto nella
medicina il farmaco è una parte della medicina, ma non rappresenta il tutto.
Gli ‘’eccipienti’’, o ‘’sostanze ausiliarie’’, invece, non hanno attività biologica, come i principi attivi, ma servono
a creare la formulazione del prodotto medicinale. Quel che non è attivo, dunque, è un eccipiente, mentre quel
che è attivo è il principio attivo. L’eccipiente aiuta la prestazione e la formulazione del prodotto medicinale.
Ad esempio, in una compressa esiste una piccola parte formata dai principi attivi e tutta una parte di eccipienti
che ne veicolano e aiutano la attività, ma che di per sé non hanno effetti biologici.
Lo sviluppo di un prodotto medicinale passa attraverso l’identificazione e la sintesi del Farmaco (cioè del
principio attivo), seguita dal processo di formulazione e infine al processo di produzione industriale
(‘’manufacture’’).

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La definizione di medicinale è definita da un decreto legislativo che regola l’uso dei medicinali e li definisce.

DEFINIZIONE DI MEDICINALE: Il prodotto medicinale, o solo medicinale, è


 Ogni sostanza (o associazione di sostanze) ‘’presentata’’ come avente proprietà curative o
profilattiche delle malattie umane;
 Ogni sostanza (o associazione di sostanze) che può essere utilizzata sull’uomo allo scopo di ripristinare,
correggere, o modificare funzioni fisiologiche (alterate da uno stato patologico), esercitando un’azione
farmacologica, immunologica o metabolica, al fine di stabilire una diagnosi medica.

Per identificare un medicinale, si utilizzano


 Requisiti formali: modalità di presentazione, ovvero indicazioni, confezioni, etichette, modalità d’uso.
 Requisiti sostanziali: componenti e loro attività.
I requisiti formali prevalgono su quelli sostanziali.

Deve essere considerato medicinale qualsiasi prodotto presentato come avente proprietà curative o
profilattiche. I prodotti sono classificati in base a come sono presentati e alle proprietà che vantano.
esempio: i prodotti commerciali liquidi contenenti sostanze (principi attivi) con proprietà antisettiche e
disinfettanti. Si possono dunque avere dei prodotti che, dal punto di vista della composizione e attività dei
principi attivi, sono IDENTICI: ad esempio 3 prodotti liquidi, contenenti le stesse sostanze antisettiche o
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disinfettanti. Cosa cambia? Pur avendo lo stesso attivo, cambia la presentazione delle proprietà, delle
destinazioni d’uso ecc… Ad esempio, in questo caso, possiamo distinguere
 MEDICINALE: qualsiasi prodotto che vanta attività mirate a tessuti interni come mucose o cute lesa
vi è un contatto diretto con tessuti interni e torrente circolatorio;
 PRESIDI MEDICO-CHIRURGICI (o ‘’biocidi’’): qualsiasi prodotto destinato al trattamento di ambienti
(=disinfettanti) o della cute integra (=antisettici), con finalità di prevenzione;
 COSMETICI: il prodotto, pur contenendo le medesime sostanze con azione disinfettante, non vantano
alcuna attività disinfettante. Le sostanze disinfettanti, ad esempio, sono incluse nel prodotto cosmetico
solo per migliorarne la conservazione, senza vantarne alcun effetto disinfettante in sè.

Definizione di ‘‘PRESIDIO MEDICO-CHIRURGICO’’: tutti quei prodotti che vantano in etichetta una attività
riconducibile alle seguenti definizioni:
 Disinfettanti e sostanze poste in commercio come germicida o battericida
 Insetticidi per uso domestico o civile
 Insettorepellenti
 Topicidi o rattidici ad uso domestico o civile.

Definizione di SOSTANZA (sempre in base allo stesso decreto): una sostanza può identificare vari tipi di
materiali, indipendentemente dall’origine. L’origine può essere
 Umana, come il sangue umano e i suoi derivati (esempio: albumina)
 Animale, quali microrganismi, animali interi, secrezioni animali, tossine ecc…
 Vegetale, quali microrganismi, piante, secrezioni vegetali, sostanze ottenute per estrazione
 Chimica, come elementi, materie chimiche naturali o prodotti di sintesi.

CATEGORIE DI MEDICINALI
I medicinali possono appartenere a diverse categorie, tramite differenti criteri di classificazione, quali
1. AMBIENTE DI PREPARAZIONE  i medicinali possono essere di origine industriale (prodotti
industrialmente per uso umano) o preparati in farmacia (in questo caso si parla di preparati galenici).
In particolare, i medicinali preparati in farmacia possono essere sottoclassificati in:
- Formule magistrali (o ‘’galenici magistrali’’), se preparati seguendo una prescrizione medica
destinata ad hoc per un paziente.
- Formule officinali (o ‘’galenici officinali’’), se preparati sulla base di indicazioni riportate sulla
Farmacopea e destinati ad essere forniti direttamente a tutti i pazienti della farmacia.

Le formule magistrali possono avere varie finalità:


 Avere dosaggi personalizzati per il paziente
 Ottenere delle formulazioni personalizzate (eccipienti adatti al singolo paziente)
 Ottenere associazioni di principio attivo personalizzate.

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2. MODALITA’ DI IMMISSIONE IN COMMERCIO: ogni azienda farmaceutica deve ottenere una AIC,
acronimo per autorizzazione all’immissione in commercio.

L’ottenimento di una AIC deve avvenire tramite richiesta di autorizzazione a 2 diverse istituzioni: l’AIFA
(agenzia italiana del farmaco) e l’EMA (european medicinal agency). La domanda rivolta all’EMA permette di
ottenere una autorizzazione valida su tutto il territorio dell’UE (chiamata ‘’procedura centralizzata’’), mentre
quella rivolta all’AIFA permette di ottenerla sul territorio nazionale (chiamata ‘’procedura nazionale’’).
Una volta ottenuta l’AIC, ogni medicinale in vendita in italia è classificato con un codice a 9 cifre, preceduto
dall’acronico AIC.

Per alcuni medicinali, al fine di ottenere l’AIC, bisogna portare avanti solo e soltanto la procedura centralizzata.
È il caso dei medicinali ottenuti con procedimenti biotecnologici (esempio gli anticorpi monoclonali, agenti
terapeutici anti-covid); medicinali utilizzati per terapie avanzate (come le terapie geniche oppure quelle che
usano sistemi cellulari); oppure medicinali ‘’orfani’’ (utilizzati per terapie rare); oppure medicinali contenenti
nuove sostanze attive per il trattamento di specifiche patologie (ad esempio malattie di origine virale, o
sindrome da immunodeficienza acquisita AIDS, o cancro).

Quando un’azienda farmaceutica fa richiesta per ottenere l’AIC, questa richiesta, indipendentemente a quale
organo è presentata, l’azienda può fare una richiesta diversa:
1. L’industria farmaceutica può fare domanda somministrando un dossier completo, presentante
tutti i documenti richiesti sugli studi effettuati (prima su animali poi sull’uomo con le rispettive fasi
cliniche), per dimostrare che il medicinale sia sicuro ed efficace nel trattare, prevenire o
diagnosticare una malattia.
2. L’industria farmaceutica può anche presentare una domanda avente una documentazione ridotta
(senza fornire i risultati delle prove e sperimentazioni cliniche). Questo tipo di domanda può essere
sottoposta in un caso particolare, ovvero nel caso di medicinali generici* (o equivalenti) di
medicinali di riferimento già autorizzati da almeno 8 anni. Ottenuta l’AIC; entrambi i medicinali, sia
il generico che quello originale, rimangono in commercio.
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*un medicinale generico contiene lo stesso principio attivo già contenuto in un medicinale ’’originatore’’, o di
riferimento. Si chiama equivalente poiché sovrapponibile a quello di riferimento, dunque la richiesta dell’AIC
può avvenire tramite procedura abbreviata (poiché fa riferimento ai dati precedentemente sottomessi con il
medicinale originario). Possono esistere più medicinali generici dello stesso medicinale di riferimento!

3. I medicinali possono essere classificati, dunque, anche come GENERICI o DI RIFERIMENTO.


Continua domani

Lezione 2 (23/09/2021)
Il medicinale equivalente (prima veniva chiamato generico, si preferisce chiamarlo equivalente perché il
termine “generico” viene ricollegato al concetto di scarsa qualità) è un medicinale che ha la stessa
composizione quali-quantitativa, la stessa forma farmaceutica, la stessa via di somministrazione e le stesse
indicazioni terapeutiche del farmaco originatore; se il principio attivo è una proteina o un acido nucleico il
medicinale si chiama BIOEQUIVALENTE.

Differenze tra medicinale originatore ed equivalente: non vi sono grandi margini di modifiche, devono essere
equivalenti, per cui devono possedere la stessa composizione quali-quantitativa dei principi attivi (stesso
dosaggio della formulazione, stessi principi attivi), la stessa forma farmaceutica (liquida, compressa, sciroppo
ecc), la stessa via di somministrazione e le stesse indicazioni terapeutiche (per le stesse patologie). La
differenza sta negli eccipienti, non tanto nella tipologia, quanto nella fonte di approvvigionamento: gli
eccipienti non sono prodotti dalle case farmaceutiche, ma da altre industrie, perciò non tutte le aziende
farmaceutiche si riforniscono dalla stessa azienda che produce eccipienti. I medicinali equivalenti sono nati con
l’intento di ridurre i costi sia per la spesa nazionale che per il singolo paziente; in genere il risparmio è attorno
al 20% (ciò è dovuto al fatto che l’azienda dell’originatore ha dovuto eseguire test che quella dell’equivalente
non ha dovuto affrontare).

CARTA D’IDENTITÀ DEL MEDICINALE: ogni medicinale in commercio ha ottenuto l’autorizzazione (AIC), dunque
ha una scheda che contiene alcune indicazioni:
- Nome
- Composizione della formulazione: principio attivo ed eccipienti/descrizione quali-quantitativa
- Descrizione del metodo di fabbricazione: sintesi ed industrializzazione, come ad esempio il
confezionamento
- Indicazioni terapeutiche: per quali patologie è indicato il medicinale
- Controindicazioni: la presenza di uno o più fattori che sconsigliano l'uso di un farmaco o
l'applicazione di una terapia
- Reazioni avverse: reazioni secondarie ed indesiderate che il farmaco può provocare
- Posologia (modo e via di somministrazione)
- Forma farmaceutica

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- Misure di precauzione, sicurezza e conservazione: i medicinali vengono classificati anche per la quantità
di dosi presenti nella confezione (ex monodose/multidose); nel caso delle multidose subentra la
problematica correlata alla conservazione, perché il farmaco viene consumato in un arco temporale più
lungo, perciò nella scheda dev’essere indicato il metodo di conservazione
- Riassunto delle caratteristiche del prodotto
- Modalità di imballaggio: esistono 2 tipologie di confezionamento, ossia primario (il contenitore a
diretto contatto con il medicinale) e secondario (non a diretto contatto). Nella farmacopea vi sono
sezioni dedicati ai contenitori e ai materiali per produrli. I contenitori sono prodotti da aziende
apposite che devono attenersi a quanto scritto nella farmacopea.
Ex contenitore primario = fiala
Ex contenitore secondario = scatola in cui sono contenute le fiale
- Modalità di smaltimento dei medicinali residui ed eventuali possibilità di rischio di inquinamento
dell’ambiente a causa del contenitore, principio attivo ed eccipienti
Dal momento che dev’essere descritta la composizione e l’indicazione terapeutica, l’industria farmaceutica non
può cambiarle! Ogni modifica comporta una nuova richiesta di autorizzazione.

BREVETTI
I medicinali equivalenti possono essere prodotti e immessi in commercio solo a partire da una certa data, ossia
la data in cui scade il brevetto ottenuto dall’azienda che ha prodotto il medicinale originatore, infatti gli esperti
di marketing delle varie industrie farmaceutiche valutano se sia opportuno mettere in commercio un farmaco
equivalente nel momento in cui i brevetti scadono. Un brevetto, dal momento in cui è operativo, ha una durata
di circa 20-25 anni, (normalmente sono 20 ma in alcuni casi l’azienda può chiedere un’estensione di 5 anni)
anche se non si contano dal momento in cui l’originatore viene messo in commercio, quindi da cui si ottiene
l’AIC, ma il brevetto viene depositato 10 anni prima di mettere in commercio il farmaco: l’azienda presenta il
brevetto di sfruttamento del principio attivo, non del medicinale. Ciò rappresenta un processo lungo e costoso
e, per tale motivo c’è una tendenza attuale di sfruttare un’altra possibilità che risulta meno costosa, ossia
quella di sviluppare nuove formulazioni dello stesso farmaco, più innovative e più vantaggiose rispetto alle
tradizionali. Dunque, se l’industria può dimostrare di aver ottenuto una nuova formulazione migliore, può
essere rilasciato un nuovo brevetto per il nuovo sistema di formulazione.

Nome del medicinale


Ci sono due possibilità di denominazione:
1) Nome di fantasia: nome che non esiste prima e che viene dato dall’azienda che produce il medicinale
originatore; in genere, sulla confezione dei medicinali, in alto a destra si trova una ® (marchio
registrato). Dev’essere facile, non si deve confondere e molto spesso ricorda la modalità d’uso o la
patologia per la quale viene utilizzato.
2) Denominazione comune internazionale (DCI o INN in inglese -international non proprietary name-):
dev’essere anche indicato (in piccolo) nei medicinali con i nomi di fantasia ed è il nome utilizzato per i
medicinali equivalenti. Ciò è molto importante perché i nomi di fantasia non sono uguali in tutto il
mondo. Esso indica il principio attivo.
In Italia esistono più di 8000 nomi commerciali a cui fanno riferimento circa 1640 principi attivi.

Prescrizione e dispensazione dei medicinali


Esistono criteri per dispensare e vendere i medicinali, per tale motivo i medicinali possono anche essere
classificabili in tal senso; ciò dipende dalla pericolosità clinica del medicinale.
- Con prescrizione medica
- Con prescrizione medica da rinnovare  si può dispensare il medicinale solo una volta con una
prescrizione
- Con prescrizione medica speciale  in genere sono gli stupefacenti
- Con prescrizione medica limitativa  medicinali che possono essere prescritti e utilizzati in modo
limitato, quindi la prescrizione può essere fatta solo da alcuni medici specialisti e solo in alcuni
ambienti
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- Medicinali non soggetti a prescrizioni  possono essere dispensati senza prescrizione
Questi medicinali sono ulteriormente classificati in:
 OTC, ossia da banco (over the counter)
 SOP, ossia i “restanti” (senza obbligo di prescrizione), che possono essere acquistati su consiglio del
farmacista

Definizioni
- DOSAGGIO DEL MEDICINALE  è il contenuto di sostanza attiva e può essere espresso con modalità
diverse. I criteri di indicazioni fanno riferimento al tipo di formulazione, che può essere liquida, solida,
monodose o multidose; viene espresso in quantità per un’unità posologica (= unità per una singola
somministrazione)
Ex voltaren: 75 mg/3 ml 3 ml sono presenti in ogni fiala e in questi 3 ml sono presenti 75 mg di
principio attivo (peso/volume)
- CONFEZIONAMENTO PRIMARIO  a contatto diretto con il medicinale
- CONFEZIONAMENTO SECONDARIO  imballaggio in cui è collocato il confezionamento primario
- ETICHETTATURA  devono essere riportati sulla confezione secondaria il nome, il dosaggio e la
denominazione comune internazionale
- FOGLIO ILUSTRATIVO  si trova obbligatoriamente all’interno del contenitore secondario e presenta
molte indicazioni. Vi sono alcuni aspetti che sono obbligatori, come il contenuto di ciò che viene scritto,
ed altri a discrezione della casa farmaceutica, come il font e la grandezza.

Packaging
Alcune aziende si occupano di sviluppare contenitori secondari che permettono al paziente e al farmacista una
migliore identificazione:
 Più facciate su cui sono riportati i dati principali
 Nome grande, che favorisce la lettura
 Il tipo di formulazione
 Cerchio di prodotto che indica il principio attivo (si usano colori diversi per farmaci che hanno nomi
che in ordine alfabetico sono vicini e che vengono prescritti insieme)
 Cerchio di dosaggio che ha un colore che fa contrasto con il cerchio di prodotti

LEZIONE 3 (28/09/2021)
Caratteristiche del confezionamento
Alcune aziende stanno cercando di migliorare il confezionamento secondario attraverso i colori per evitare
eventuali scambi di medicinali, ad esempio per i medicinali che possono avere dosaggio diverso.
Una parte molto importante legata al medicinale è il foglietto illustrativo che deve essere sempre contenuto
nel confezionamento secondario.

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Sul foglietto illustrativo devono esserci delle informazioni essenziali e fondamentali. La farmacopea indica quali
siano le informazioni essenziali che devono essere presenti obbligatoriamente nel foglietto illustrativo, ma non
viene specificato l’aspetto grafico di come queste informazioni debbano essere riportate nel foglietto
illustrativo (font) che invece è a discrezione dell’azienda farmaceutica.

ESEMPI FOGLIETTO ILLUSTRATIVO:


 FOGLIETTO ILLUSTRATIVO ZIMOX (nome di fantasia dato dalla ditta che produce il medicinale, ossia la
Pfizer) contiene come principio attivo un antibiotico che è l’amoxicillina (denominazione comune
internazionale).
In diversi casi (molto frequenti) abbiamo dei medicinali che presentano lo stesso nome (denominazione
di fantasia e denominazione comune internazionale), ma variano nel dosaggio e nella formulazione.
Ad esempio lo zimox esiste commercialmente con diversi dosaggi e formulazioni.

In un prodotto medicinale sono contenuti sia il principio attivo che gli


eccipienti. questi eccipienti possono variare e a seconda degli eccipienti che
vengono variati si ottengono varie formulazioni.
La formulazione varia perché varia il tipo di eccipiente e quindi si possono
ottenere varie formulazioni che hanno proprietà e stati fisici differenti.

Lo zimox si può presentare nel dosaggio da 1g e la forma farmaceutica è delle compresse, ma esiste
anche in dosaggi e formulazioni diverse. Si ottengono così diversi medicinali, con lo stesso principio
attivo, con lo stesso nome di fantasia, ma con dosaggi e formulazioni diverse. Prima abbiamo visto che
era 1g in compresse, ma può essere anche presente come 250mg/5ml e questo tipo di formulazione
sono delle polveri per sospensione orale.
In questi casi il foglietto illustrativo è lo stesso, infatti nel foglietto illustrativo tutti i medicinali che si
chiamano zimox e presentano il principio attivo amoxicillina sono tutti descritti in un medesimo
foglietto illustrativo, sono descritte tutte le varie formulazioni. Sono medicinali diversi, quindi non
vanno scambiati i medicinali e bisogna fare attenzione a quando scritto nella prescrizione medica e
quanto andiamo a dispensare al cliente.

Nel foglietto illustrativo si trova la composizione (che interessa il tecnologo), ovvero si trovano tutti i
componenti che vanno a costituire le varie formulazioni.
Nel foglietto illustrativo si trovano le indicazioni terapeutiche, gli eventuali effetti avversi, le eventuali
incompatibilità e si trova anche la composizione (si trovano tutti i componenti che costituiscono le
varie formulazioni. Sono descritti il principio attivo, la quantità di principio attivo e gli eccipienti).

Il foglietto illustrativo in inglese si chiama PATIENT INFORMATION LEAFLET

Nella diapositiva ha aggiunto una parte della farmacopea (che non fa parte del foglietto illustrativo), ha
riportato questa parte perché ad esempio alcuni eccipienti (come il crospovidone) che hanno alcune
caratteristiche particolari, ossia sono molto in grado in influenzare le proprietà del medicinale vengono
trattati dalla farmacopea con la stessa rilevanza dei principi attivi. Quindi possiamo trovare una serie di
informazioni relative agli eccipienti nella farmacopea alla specifica monografia.

Tutte le formulazioni viste per lo zimox sono delle formulazioni che hanno come via di
somministrazione la via orale. La formulazione è necessario che tenga presente della via di
somministrazione.

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 FOEGLIETTO ILLUSTRATIVO VOLTAREN (nome di fantasia) contiene un’altra differente formulazione,
in particolare è una formulazione per uso cutaneo. In particolare questa specifica formulazione per uso
cutaneo viene detta emulgel che è una particolare sottocategoria di formulazione per uso cutaneo.

La sezione che interessa al tecnologo è la composizione, mentre al farmacista interessano tutte le


sezioni. Nel foglietto illustrativo viene inserita la composizione, ad esempio: 100g di gel contengono
2,32 g di diclofenac (antiinfiammatorio).
Anche i questo caso sono riportati tutti gli eccipienti. A seconda delle modalità di impiego, della via si
somministrazione e in base alla formulazione cambiano gli eccipienti. In questo caso specifico nella lista
degli eccipienti ci sono degli eccipienti scritti in grassetto, ciò non è fatto in maniera casuale. Sono in
grassetto perché richiedono una particolare attenzione da parte del medico e farmacisti, sono
eccipienti che potrebbero avere delle particolari caratteristiche, quindi il foglietto illustrativo ci dice
ATTENZIONE perché nel voltaren emulgel 2% è contenuto il glicole propilenico che può causare
irritazioni cutanee, arrossamenti, pruriti nel sito di applicazione quindi il farmacista dovrebbe informare
il paziente. Stessa cosa vale per l’altro eccipiente scritto in grassetto che è il butilidrossibotulene che
può causare reazioni cutanee locali come dermatiti da contatto o irritazioni degli occhi e delle mucose.

Anche qui ha riportato una parte relativa alla farmacopea, è la monografia di un eccipiente. Questo
eccipiente è particolarmente importante per le formulazioni ad uso cutaneo.

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DEFINIZIONI
FARMACOLOGIA è una disciplina scientifica che studia in particolare le proprietà di farmaci (principi attivi)
e i loro effetti sui sistemi biologici. È una scienza interdisciplinare collegata alla biochimica, fisiologia, alla
chimica farmaceutica e alla tecnologia farmaceutica.

In particolare delle tante aree di studio della farmacologia parleremo di una parte di farmacologia che fa
riferimento allo studio di una proprietà molto importante dei medicinali che è la biodisponibilità.

BIODISPONIBILITÀ la farmacologia studia anche la loro biodisponibilità. È un aspetto studiato anche


dalla tecnologia farmaceutica. La biodisponibilità è un parametro molto importate e molto studiato durante la
fase di sviluppo di un medicinale, questa è importante perché indica, misura, ci dà una quantificazione di come
avvenga l’assorbimento di un principio attivo, quindi indica la velocità e l’assorbimento di un principio attivo
che viene somministrato attraverso diverse vie di somministrazione.
La formulazione (composizione in eccipienti di un medicinale) influenza la biodisponibilità. Sono
strettamente correlate.

Come si studia la biodisponibilità di un principio attivo o di un medicinale (sono ovviamente cose diverse)?
La biodisponibilità si ottenere sperimentalmente applicando degli esperimenti che ci permettono di ottenere
questo tipo di grafico che si chiama grafico farmacocinetico.
 Quando parliamo di grafici una cosa molto importante è definire quali siano i parametri che sono
considerati, in questo caso nei grafici farmacocinetici vengono considerati due parametri che sono
rispettivamente sull’asse x il tempo e sull’asse delle y la concentrazione.
Il tempo è il tempo dal tempo zero, ossia il momento in cui viene somministrato il medicinale e da cui
parte la scala dei tempi.
La concentrazione è la concentrazione plasmatica, ossia la concentrazione di principio attivo nel
torrente circolatorio (nel sangue). Il grafico mostra come varia la concentrazione plasmatica, ematica
del principio attivo nel tempo, dal momento della somministrazione.
Il tempo si misura in secondi, in minuti o ore a seconda del tipo di via di somministrazione e a seconda
del tipo di formulazione. La concentrazione si misura a seconda del principio attivo somministrato (in
genere può essere espressa μg/ml di sangue, in genere viene espressa in termini di peso su volume).

Nel grafico ci sono altri aspetti da considerare.


 Questo specifico grafico farmacocinetico è un grafico di tipo teorico, è un modello di grafico che fa
riferimento ad un particolare tipo di via di somministrazione, ovvero è grafico che mostra quale sia in
genere il profilo (la forma) farmacocinetico che è tipico della somministrazione attraverso la via orale.
Spesso si fa riferimento in questi grafici modello alla via orale perché è la più diffusa come vie di
somministrazione, anche perché è la più comoda, la più conveniente, la meno invasiva.
La curva farmacocinetica dà origine a questo tipo di curva che si chiama curva Gaussiana non
simmetrica o curva a campana non simmetrica.

 Nel grafico sono riportate alcune linee tratteggiate. Consideriamo le due linee parallele all’asse delle x
e quindi intercettano l’asse delle y a due valori di concentrazione (uno maggiore e uno minore). Queste
concentrazioni non sono sempre uguali, ogni singolo principio attivo somministrato per una specifica
via di somministrazione attraverso l’uso di una particolare formulazione potrà variare i valori sull’asse
delle y.
La linea tratteggiata più bassa identifica una concentrazione di principio attivo (espressa in μg/ml di
plasma) e si chiama minimun effective concentration ovvero concentrazione minima efficace. Questa
concentrazione indica un valore critico, ciò significa che il principio attivo per produrre un effetto
farmacologico sul paziente deve superare a livello plasmatico questa concentrazione minima, se il
principio attivo non supera questo valore allora non ha un effetto terapeutico.
Invece la seconda linea tratteggiata si chiama minimum toxic concentration ossia concentrazione

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minima tossica. Questa è la minima concentrazione che dà già degli effetti tossici sul paziente. Quindi
se il principio attivo dopo singola somministrazione supera questo valore significa che si istaurano degli
effetti tossici sul paziente.
Quindi il formulatore deve fare in modo di sviluppare una formulazione che permetta allo specifico
medicinale somministrato di avere delle concentrazioni ematiche che rimangano all’interno di questi
due valori. Questo intervallo di concentrazioni tra minima effettiva e minima tossica si chiama range
terapeutico, ossia è l’intervallo terapeutico.

Questa curva teorica ci mostra come un farmaco formulato in un medicinale in modo appropriato debba
presentare questo tipo di andamento. Ovvero la concertazione sale superando la concentrazione minima
efficace, rimane per un certo periodo di tempo la concentrazione all’interno del range terapeutico e poi scende
a valori più bassi.

 La parentesi graffa indica un intervallo temporale che si chiama durata di azione, questa durata cambia
a seconda della via di somministrazione, del dosaggio e della formulazione. La durata di azione
rappresenta il tempo in cui il principio attivo in seguito a somministrazione rimane all’interno nel range
terapeutico a livello ematico.

 La curva presenta un valore di massima o massimo, le coordinate al punto di massima di questa curva
prendono due nomi specifici che sono e e sono i valori di tempo e concentrazione al punto
di massima della curva.
La concentrazione massima ematica raggiunta dal principio attivo nel tempo. A seconda della via di
somministrazione, del tipo di formulazione e del principio attivo cambiano e , così come
variano gli altri valori.

 Il tempo che trascorre tra la somministrazione (tempo 0) e il raggiungimento da parte del principio
attico del valore minimo efficace (a livello ematico) si chiama onset time ossia tempo di latenza. Tempo
che intercorre tra la somministrazione e la comparsa dell’efficacia terapeutica. Anche questo tempo
varia.

Altri due aspetti legati alle curve di farmacocinetica:


1. Come si confrontano due curve farmacocinetiche? Si confrontano con un parametro che è indicato
dalla sigla AUC che sta per area under curve, ossia l’integrale della curva farmacocinetica. L’area sotto
la curva varia per ogni singolo principio attivo a seconda della via di somministrazione, a seconda della
formulazione.

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2. La definizione ufficiale della farmacocinetica è data dalla IUPAC, che è un organismo internazionale
della chimica pura e applicata, questo cerca di regolamentare la nomenclatura dei composti chimici,
ma dà anche delle definizioni generali. La farmacocinetica è un processo che descrive l’up-take
(assorbimento) dei principi attivi da parte dell’organismo, descrive la biotrasformazione ossia i principi
attivi vengono metabolizzati (vengono biotrasformati), studia la distribuzione nei vari tessuti, studia
anche il destino dei metaboliti nei vari tessuti e studia l’eliminazione del principio attivo e dei suoi
metaboliti.
Tutti questi aspetti vengono studiati in termini cinetici, ovvero vengono studiati over a period of time.

Perché ad un certo punto la curva scende? scende perché il principio attivo viene biotrasformato, non è più
presente nella forma chimica in cui lo abbiamo somministrato. Quindi viene assorbito, biotrasformato,
metabolizzato e poi viene distribuito nei vari tessuti tra cui anche il sangue.

Biodisponibilità assoluta
Le curve farmacocinetiche dipendono dalla via di somministrazione e dalla formulazione.
La biodisponibilità assoluta è un concetto sviluppato dai farmacologi e tecnologi per valutare, per comparare le
biodisponibilità del principio attivo a seconda delle varie vie di somministrazione e delle varie formulazioni.

Per misurare la biodisponibilità hanno pensato di utilizzare un riferimento che utilizza una via di
somministrazione particolare che è la via di somministrazione che è indicata dalla sigla “iv” che sta per
endovenoso (grafico rosso). La sigla che definisce il grafico blu è “po” che sta per “per os” (per bocca), per via
orale. QUINDI la curva blu (la curva più “bassa” per capirci) è la curva farmacocinetica della somministrazione
attraverso la via orale, mentre quella rossa è la curva della endovenosa.

Perché viene usata la via endovenosa per comparare la biodisponibilità?


Per comparare le biodisponibilità si è usata la via endovenosa perché la farmacocinetica studia il processo di
assorbimento. Per questo motivo si usa una via di somministrazione che non ha alcun tipo di impedimento del
processo di assorbimento, perché attraverso la via endovenosa il principio attivo è direttamente somministrato
nel torrente circolatorio.
Quindi l’onset time (tempo di latenza) sarà nullo per la via endovenosa. Pertanto prendiamo come riferimento
la via endovenosa che è quella che ci dà la biodisponibilità assoluta. Per avere un parametro di confronto si usa
il paragonare le curve che si ottengono attraverso le varie vie di somministrazione e varie formulazioni con la
curva della endovenosa perché non abbiamo il processo di assorbimento che è bypassato dalla procedura di
somministrazione.

Si applica questa formula che serve per determinare la biodisponibilità assoluta:


= ∗

o → frazione assorbita a seconda della via di somministrazione nel torrente circolatorio


o 100 → per ottenere un valore percentuale
o → area sotto la curva per os (area blu)
o !"# → dosaggio endovenosa. È necessario se eventualmente vengono usati dosaggi diversi. Se il
dosaggio per os e per via endovenosa fosse identico allora i parametri !"# e ! si eliminerebbero
(uguali tra loro quindi il loro rapporto è 1)
o "# →→ area sotto la curva endovenosa
o ! → dosaggio per os

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 Quando un principio attivo somministrato per una via non endovenosa (ad esempio attraverso la via
orale) presenta questo valore elevato significa che quel particolare principio attivo in quella
particolare formulazione e per quella particolare via di somministrazione ha una ottima
biodisponibilità.
 Se è bassa la allora il principio attivo in quella via di somministrazione e in quella
somministrazione allora viene assorbito male.

Uno degli scopi più importanti della tecnologia farmaceutica è quello di variare e modulare questa frazione
assorbita, facendola aumentare o anche diminuire.

FARMACODINAMICA
La farmacologia, oltre a studiare gli aspetti farmacocinetici, studia anche la farmacodinamica.
La farmacocinetica studia gli aspetti cinetici, quindi studia come variano l’assorbimento, la distribuzione e il
metabolismo in funzione del tempo.
La farmacodinamica, invece, definisce la relazione tra concentrazione del principio attivo e il suo effetto.

SCRITTO PER CAPIRLO MEGLIO, NON VA RIPETUTO IN QUESTO MODO


[La farmacocinetica si limita a dire come varia la concentrazione ematica di un
principio attivo, ma non studia se vi siano degli effetti farmacologici. Cosa che
invece fa la farmacodinamica]

Le curve farmacodinamiche hanno un aspetto completamente diverso, sono delle sigmoidi e i due parametri
che sono graficati sono effetto (asse y) e concentrazione plasmatica (asse x).

Esiste anche un terzo tipo di grafico che si ottiene dopo aver ottenuto le curve farmacocinetiche e
farmacodinamiche (esercizio puramente matematico) e si possono valutare le variazioni dell’effetto in funzione
del tempo. Queste curve si chiamano PK/PD

Nella slide, ne riquadro grigio  Sono confrontate due curve farmacocinetiche di due diversi medicinali che
sono stati ottenuti somministrando stesso principio attivo, medesima via di somministrazione e cambia la
formulazione, quindi cambiano gli eccipienti. Variando gli eccipienti varia anche il profilo farmacocinetico.
Questo grafico fa capire che la scelta degli eccipienti, la loro combinazione e la loro concentrazione modifica le
curve farmacocinetiche quindi modicano le proprietà del medicinale.
Ecco che la formulazione, lo studio formulativo e la tecnologia farmaceutica hanno un valore importantissimo
nello sviluppo, nella commercializzazione e nel successo clinico e commerciale di un medicinale.

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Manifesto scientifico dell’importanza della tecnologia o tecnica farmaceutica (ossia la scienza della
formulazione)
Questa disciplina scientifica prende il nome di pharmaceutis o physical pharmacy (studia le proprietà fisiche
delle formulazioni dei medicinali)
È importante lo sviluppo della formulazione per diversi motivi:
1. Perché la formulazione modifica la farmacocinetica e quindi modifica le proprietà terapeutiche
2. La formulazione ci permette di avere un dosaggio esatto ed uniforme dei principi attivi, perché le varie
unità posologiche contenute nel medicinale devono tutte avere il medesimo dosaggio. È proprio grazie
alla formulazione che siamo in grado di avere sempre il medesimo contenuto di principio attivo in ogni
singola unità posologica che viene somministrata
3. Permette di mantenere la stabilità fisica e chimica nel tempo del o dei principi attivi. Ci permette di
stabilizzare in molti casi il principio attivo.
Quando si parla di stabilità di un medicinale, si tende spesso a pensare che la stabilità di un medicinale
sia correlata alla stabilità chimica, cioè come il principio attivo si mantenga da un punto di vista
chimico. In realtà la maggior parte dei problemi di stabilità dei medicinali non è legata a problemi di
stabilità della molecola attiva (le molecole sono in genere relativamente stabili), ma i problemi di
stabilità che deve risolvere la tecnologia con la formulazione sono spesso legati a delle caratteristiche
tecnologiche della formulazione, come ad esempio una caratteristica tecnologia può essere correlata
alle proprietà microbiologiche e alla eventuale contaminazione microbiologica del medicinale.
Le pomate, ad esempio, vengono usate in un arco di tempo, quindi una delle caratteristiche
tecnologiche è mantenere la conservabilità del prodotto, ossia deve mantenere delle caratteristiche
microbiologiche (non deve contenere contaminazioni microbiologiche)
4. La formulazione modifica l’assorbimento, ma è importante che l’assorbimento sia riproducibile.
Abbiamo visto che la formulazione modifica la biodisponibilità
5. Deve dare una buona tollerabilità, infatti alcuni eccipienti possono essere poco tollerabili da alcuni
pazienti
6. Deve avere un buon gradimento, accettabilità, deve essere facilmente maneggiabile, facilmente
somministrabile.
7. Sterilità e controllo biologico. Tutte le specialità medicinali indipendentemente dalla via di
somministrazione devono essere sottoposte ad un controllo microbiologico. Vi sono dei limiti per tutte
le specialità medicinali, vi sono dei limiti di presenza dei microorganismi. In particolare una certa fascia
di formulazioni devono avere un basso livello di contaminazione microbiologica, non devono superare i
limiti di legge, ma alcune devono avere la proprietà essere sterili. Quindi vi è tutta una parte di
controllo, di sicurezza microbiologica che devono essere assicurati dalla formulazione e dalle modalità
di produzione del medicinale
8. Confezionamento ed etichettatura adeguati, tra cui anche il foglietto illustrativo.

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Le formulazioni ideali dovrebbero essere quelle che danno delle risposte indipendenti della variabilità
individuale, cioè devono essere efficaci nei giovani, negli adulti, negli anziani, quelli che hanno particolari
patologie e quelli che hanno particolari problemi di tollerabilità. Il tutto con sistemi producibili su scala
industriale.

LEZIONE 4 (30/09/2021)
Caratteristiche e funzioni che si possono ottenere dall’uso delle diverse formulazioni (lezione precedente). Le
formulazioni idealmente dovrebbero permettere di ottenere delle risposte farmacologiche indipendenti da
individuo a individuo.
Devono assicurare l’uniformità dei prodotti industriali.
Per ottenere questo tipo di risultati il farmacista formulatore deve possedere delle competenze specifiche, sia
che operi in farmacia, sia a livello di industrie che producono eccipienti, sia a livello delle industrie che
producono il medicinale:
 Il formulatore (il farmacista) deve avere delle competenze chimico-organiche. Sono importanti queste
competenze perché il medicinale è costituito da principi attivi ed eccipienti che sono principalmente
molecole e quindi strutture organiche (qualche volta c’è qualche componente inorganica).
Eccipienti e principio attivo devono essere compatibili, ad esempio non devono reagire tra loro, non
devono dare interazioni chimiche o fisiche. Quindi per sapere se sono possibili questi tipi di interazioni
dobbiamo conoscere la struttura chimica e la reattività dei vari composti funzionali del principio attivo
e degli eccipienti.
 Dobbiamo conoscere dei fattori di tipo commerciale. Sia che operiamo in farmacia sia che operiamo in
ambito industriale, gli eccipienti hanno dei costi quindi dobbiamo essere in grado di valutare se la
scelta di un determinato eccipiente è effettivamente indispensabile e se il costo elevato riflette anche
delle proprietà altrettanto elevate. Quindi dobbiamo conoscere i costi e dobbiamo conoscere cosa
offre il mercato.
 Molto importante è la production strategy and controll. Il farmacista soprattutto che opera
nell’industria farmaceutica deve possedere delle informazioni sugli impianti, su come sono prodotti i
medicinali a livello industriale. Ad esempio, impianti che permettono di ottenere dell’acqua con
proprietà tali da poter essere impiegata nella produzione dei medicinali.
 Bisogna avere una conoscenza del mercato dei medicinali, dobbiamo conoscere le paste formulation.
Dobbiamo studiare il foglietto illustrativo; dobbiamo vedere quali sono gli eccipienti che sono usati dai
nostri competitor, perché ad esempio in una industria farmaceutica dobbiamo sviluppare una nuova
formulazione; dobbiamo conoscere le passate formulazioni, questo soprattutto se siamo impiegati in
un’industria che produce medicinali equivalenti che quindi devono possedere la medesima
formulazione dell’originatore.

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 Competenze chimico-fisiche, ovvero dobbiamo anche essere in grado di sviluppare dei modelli
matematico-fisici che si permettono di avere delle possibilità di predizione.
Ad esempio dobbiamo produrre una nuova formulazione (per un nuovo medicinale) e siamo chiamati a
determinare la stabilità di una formulazione e del principio attivo. Sul contenitore secondario è indicata
la data di scadenza (3-4-5 anni a seconda del medicinale). Se vogliamo sviluppare una nuova
formulazione dobbiamo aspettare 5 anni per vedere se la formulazione è effettivamente stabile? No, si
sviluppano delle equazioni di tipo matematico-predittivo che ci permettono di avere dei risultati in
tempi brevi (prove di stabilità accelerata), ossia stressiamo alcuni parametri come la temperatura e
vediamo se la formulazione risulta stabile, ad esempio, a 60/70° e in questo modo utilizzando delle
formule matematiche di tipo predittivo possiamo trarre delle considerazioni sulla stabilità a lungo
termine.
 In alto a destra nella figura ci sono una serie di termini. Questi termini indicano delle situazioni che
possono essere risolte attraverso l’uso di specifici eccipienti. A cosa servono gli eccipienti in una
formulazione? Servono per diversi scopi, ad esempio, per solubilizzare il principio attivo, ci permettono
di sospendere il principio attivo, di emulsionare, di viscosizzare la formulazione, servono per
conversare, per la compressione e per la improving compliance (la formulazione e la scelta degli
eccipienti permette di migliorare la compliance).

Processi tecnologici
Il percorso dello sviluppo di un nuovo medicinale.
Nella parte iniziale (sx) c’è il lead discovery. Una volta che si sono identificati alcuni di questi composti
(potenzialmente interessanti per lo sviluppo industriale), allora comincia il processo tecnologico.
[Gli aspetti sopra la freccia sono aspetti prettamente tecnologici-chimici perché c’è la parte di pre-formulazione
e di formulazione, quindi il team di tecnologici si occupa della formulazione della pre-formulazione e poi della
formulazione.]

1. La pre-formulazione è un tipo di formulazione più semplice rispetto a quella finale. Lo scopo della
pre-formulazione è quello di poter condurre i primi test (test per valutare l’attività che possono essere
in vitro o in vivo).
Se effettuiamo test in vitro o in vivo, per quanto minima formulazione essa deve essere sviluppata,
perché se dobbiamo testare una lead molecule, ad esempio su animali da laboratorio (ratti, topi,
porcellini d’india), questa deve essere somministrata.

Come viene somministrata? A volte si utilizza l’acqua che viene data a questi animali, si introduce il
principio attivo nell’acqua e quindi assunto per via orale, ma è un tipo di applicazione poco utilizzata
perché c’è molta variabilità biologica nell’assunzione attraverso la via orale. Quindi si utilizza un’altra
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via di somministrazione che è una via di somministrazione che ci permette di avere un elevato grado di
uniformità del processo di somministrazione e questa è una via di tipo iniettivo. La maggior parte dei
principi attivi nei test su animali da laboratorio viene condotta utilizzando una via di somministrazione,
poco utilizzata nell’uomo, che è la via intraperitoneale.

Serve una formulazione se dobbiamo somministrare attraverso una via iniettiva un principio attivo
potenzialmente interessante? È necessaria una formulazione. Perché è necessaria? Esempio pratico
perché se un gruppo sta lavorando in un laboratorio di farmacologia (Ferrara) e un altro gruppo sta
lavorando nel laboratorio di chimica farmaceutica (Londra). I farmacologici vogliono testare le loro
molecole su animali da laboratorio che si trovano a Ferrara, come facciamo a fare arrivare la molecola
ai farmacologi? Il principio attivo nella maggior parte dei casi quando viene spedito viene spedito come
polvere.
Per confezionare della polvere si usano dei barattoli, dei flaconi. Dei flaconi che contengono liquidi o
che contengono dei solidi sono dei flaconi diversi, avranno un’imboccatura diversa. Se l’imboccatura
del flacone è di diametro piccolo il contenitore sarà per liquidi (perché i liquidi fluiscono facilmente), se
la bocca è larga il contenitore sarà per solidi. La scelta dei contenitori è fondamentale in termini di
forma, di materiale con cui è fatto e di volume.

Come esprimeremo la quantità di principio attivo che spediamo? Sono unità di misura di peso, quindi
avremo delle unità di misura ponderali.

Qual è la quantità giusta da spedire? Ne spediamo una piccola quantità anche per una questione
economica. Produrre delle molecole organiche è estremamente costoso. Quindi è molto verosimile che
la quantità spedita per i primi test sia nell’ordine di milli grammi, perché produrre la molecola costa
molto (costano gli edifici, la strumentazione, i banchi, le sostanze…).

Lo stato fisico del prodotto che spediamo sarà solido (polvere). Non lo spediamo in soluzione perché in
soluzione il prodotto potrebbe essere meno stabile. La stabilità si tutte le sostanze chimiche è sempre
minore in soluzione piuttosto allo stato solido. Lo stato solido è più stabile. Per questo molti medicinali
sono solidi.
È preferibile spedire il prodotto solido perché in soluzione pesa di più (principio attivo + solvente) e
quindi costa di più il trasporto.

La polvere in laboratorio non è più facile da usare, perché per testare inizialmente i principi attivi si
iniettano nell’animale (inietteremo liquidi).
La pre-formulazione più semplice è quella che ci permetterà di trasformare un prodotto solido in un
prodotto liquido e lo trasformeremo utilizzando un eccipiente che sarà un solvente. I SOLVENTI SONO
ECCIPIENTI. Quindi anche una semplice soluzione è una pre-formulazione.

Una delle prime cose che un farmacologo chiederà al chimico farmaceutico è la solubilità. È solubile la
molecola? In che solvente è solubile? In che concentrazione è solubile?

Le pre-formulazioni diventeranno sempre più complesse fino alla formulazione quasi definitiva. Si
susseguiranno le fasi cliniche 1, poi 2 e 3. In queste fasi cliniche andremo ad utilizzare la formulazione
che sarà quella che poi arriverà sul mercato.

Esistono delle alternative nella fase di screening iniziale al posto degli animali?
 Si usano delle colture cellulari, è una delle principali alternative. Possiamo utilizzare delle cellule che si
coltivano in vitro (anche cellule umane).
 Oppure si possono utilizzare dei programmi (software) che vengono usati per condurre delle
simulazioni, per eventualmente determinare se un principio attivo possa avere una certa efficacia.
 Oppure attraverso modelli matematici.
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 Esempio di antibiotico, penicillina le penicilline sono una classe di antibiotici che agiscono bloccando
un enzima. Il meccanismo d’azione descrive il processo a livello molecolare di come il principio attivo
esplica la sua attività. Nel caso delle penicilline, il principio attivo va ad inibire un enzima.
Come alternative agli animali possono essere utilizzati degli enzimi isolati, quindi utilizzare delle
proteine perché è possibile isolarle e produrle in laboratorio. Quindi potremmo usare un particolare
enzima (se conosciamo già il meccanismo d’azione della categoria) che sappiamo essere l’enzima
chiave nel processo di azione di una lead molecule. Usiamo l’enzima isolato, purificato.
Vediamo se la molecola “x” si lega all’enzima (se lo inibisce), confrontandolo magari con la penicillina
che sappiamo già essere un inibitore di questo enzima.

In ogni caso dobbiamo avere sempre una pre-formulazione, cioè dobbiamo selezionare un solvente
(eccipienti).
Gli eccipienti si dividono in varie categorie, uno dei criteri con cui classifichiamo gli eccipienti è in base
alla loro funzione.

I solventi sono eccipienti che appartengono alla categoria funzionale dei solventi

2. Dopo la pre-formulazione e la formulazione, un altro aspetto tecnologico fondamentale è il controllo


di qualità.
Tutti i medicinali di produzione industriale devono essere sottoposti a quality controll (controlli di
qualità). I controlli di qualità devono essere eseguiti su tutti i medicinali con delle valutazioni sui vari
lotti di produzione.

Come si capisce quali controlli di qualità devono essere condotti dall’industria farmaceutica? Nelle
schede monografiche della farmacopea relativamente a tutte le formulazioni sono anche indicati i
controlli di qualità che devono essere condotti routinariamente.

Nelle industrie farmaceutiche, chi conduce questi controlli di qualità? Li conduce un tecnologo
farmaceutico. All’interno delle aziende farmaceutiche vi è il settore di quality controll. Ogni lotto che
esce dall’azienda deve essere controllato e verificato secondo degli standard che sono riportati nella
farmacopea.

3. Il prodotto è poi sul mercato. I test condotti devono essere riportati nella scheda di autorizzazione
dell’AIC. L’industria farmaceutica deve anche dichiarare e specificare le modalità con cui si conducono i
test di controllo qualità.

Parallelamente a questo tipo di attività che deve svolgere il tecnologo farmaceutico (pre-formulazione,
formulazione e quality control) c’è un’altra parte che riguarda gli aspetti produttivi, perché non appena i
farmacologi e clinici dicono che un prodotto può essere potenzialmente utilizzato e arrivare al mercato, allora
un’altra sezione tecnologica dell’industra farmaceutica deve cominciare a sviluppare la produzione industriale
del medicinale (questi aspetti si trovano sotto la freccia nella slide, cerchiati con le linee tratteggiate).
Si parte da quelli che sono i pilot plants (impianti pilota) che sono delle strumentazioni di tipo simile a quelle
industriali finali, ma con una capacità produttiva ridotta. Questo perché il costo dell’industrializzazione è molto
elevato, quindi non si parte già con le apparecchiature industriali per produrre dei test.
Si usano delle strumentazioni sempre tipo industriale, ma più piccole. Queste si chiamano impianti pilota.

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Ci sono 3 scale fondamentali che si utilizzano:
o scala di laboratorio (apparecchiature che si utilizzano in laboratorio per produrre piccole quantità, mg o
g)
o il secondo step è l’impianto pilota (possiamo produrre qualche etto o kg di prodotto)
o poi la scala industriale (tonnellate)

Descrizione della parte bassa della slide:


Proprietà del principio attivo e della formulazione che stiamo sviluppando. Queste proprietà sono proprietà di
3 livelli qualitativi diversi:
1. Proprietà chimiche, ad esempio la solubilità del principio attivo
2. Proprietà fisiche, ad esempio il melting point (punto di fusione)
3. Proprietà dei materiali, ad esempio le compresse hanno uno stato fisico solido e quindi essendo solidi
le possiamo caratterizzare da un punto di vista meccanismo. Hanno delle proprietà meccaniche.

LEZIONE 5 (05/10/2021)
SVILUPPO TECNOLOGICO DI UN MEDICINALE dalla fase iniziale di scoperta delle lead molecule (molecole
potenzialmente interessanti) fino al market. Il processo di pre-formulazione, formulazione e produzione è
strettamente legato alla scelta degli eccipienti e alle loro caratteristiche.

Caratteristiche che deve possedere un eccipiente per essere incluso in una formulazione medicinale che arriva
sul mercato, questi sono aspetti generali che appartengono a tutti gli eccipienti:

 Devono essere accettati e disponibili dagli organi di controllo, cioè bisogna fare molta attenzione nella
selezione degli eccipienti perché non tutti gli eccipienti che sono disponibili sul mercato sono
autorizzati dalle varie nazioni. Alcuni eccipienti possono essere utilizzati nel mercato americano (sono
approvati dalla FDA), altri eccipienti possono essere utilizzati solo in Europa (autorizzati dall’EMA).
Quindi è molto importante durante lo sviluppo gli eccipienti che si utilizzeranno.

 Sarebbe preferibile che gli eccipienti posseggano un costo relativamente basso, in questo modo da
mantenere dei costi di vendita del medicinale contenuti. Le aziende farmaceutiche sono delle aziende
commerciali e ci sono quindi delle considerazioni che vengono fatte dal formulatore insieme ad esperti
di marketing dell’azienda in modo da ridurre i costi per presentare sul mercato il medicinale in modo
competitivo con i competitor.

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Da un lato vi è questa esigenza di mantenere i costi degli eccipienti bassi per poi avere una maggiore
competitività sul mercato, ma dall’altra parte si sta osservando una tendenza alla riformulazione.
Grazie a riformulazioni di specialità medicinali precedenti è possibile ottenere un’estensione del
brevetto e grazie a nuove formulazioni che permettono di avere una brevettualità che è estesa per più
anni. Le formulazioni innovative sono basate su nuovi eccipienti, più costosi dei precedenti perché
hanno delle proprietà particolari.

 Non dovrebbero essere controindicati. Alcuni eccipienti potrebbero avere delle controindicazioni,
ossia alcuni eccipienti non sono indicati per tutta la popolazione ma per alcune fasce di popolazione
potrebbero essere controindicati.
Ad esempio di eccipienti il saccarosio (disaccaride) può presentare delle controindicazioni, perché i
pazienti diabetici non dovrebbero assumere medicinali che contengono saccarosio (aumnto della
glicemia); anche gli ioni sodio (cloruro sodico) presentano delle controindicazioni, perché alcuni
pazienti devono seguire una dieta che è iposodica (devono assumere basse concentrazioni di sodio,
perché all’assunzione di sodio può riflettersi ad un aumento della pressione sanguigna, IPERTESI).

 Per definizione gli eccipienti dovrebbero essere tutti farmacologicamente inerti, ovvero non
dovrebbero esplicare nessun effetto terapeutico e biologico.
Alcuni eccipienti, soprattutto una famiglia di eccipienti che sono i conservanti (servono per conservare
la formulazione e in particolare si fa riferimento alla conservazione microbiologica), avendo un’attività
sui microorganismi non possono essere considerati completamente farmacologicamente inerti e quindi
è una categoria che può dare dei problemi di irritazione, sviluppo di fenomeni allergici e altro.

 Gli eccipienti devono essere chimicamente stabili, ma non solo. Infatti gli eccipienti possono andare in
contro ad instabilità fisica (possono essere non stabili a sbalzi di temperatura e umidità).
Una proprietà molto importante degli eccipienti è la COMPATIBILITÀ, essi devono essere compatibili.
La compatibilità è la possibilità di usare gli eccipienti in combinazione con i principi attivi. Si definisce
compatibile un eccipiente quando non dà problemi di alterazioni né fisiche né chimiche con un
determinato principio attivo.
La compatibilità non è una compatibilità assoluta (un principio attivo può essere incompatibile con un
eccipiente e non esserlo verso un altro).
La compatibilità dipende soprattutto dalla natura chimica degli eccipienti. Quindi la compatibilità è una
proprietà che fa riferimento ad uno specifico principio attivo.

 Devono essere dotati di una bassa carica microbica, perché tutti i medicinali devono rientrare in limiti
di carica microbica. Se usiamo un eccipiente che alla fonte ha una bassa carica microbica, poi il
processo di formulazione sarà più semplice.

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DOMANDA D’ESAME Quali sono le caratteristiche che devono essere possedute dagli eccipienti?

Un medicinale equivalente che proprietà deve possedere rispetto all’originatore?


I medicinali equivalenti rispetto all’originatore possono anche contenere eccipienti diversi. La normativa
italiana vigente prevede che un medicinale equivalente possa contenere eccipienti diversi da quelli del
medicinale originatore. Però devono avere la medesima formulazione, tipologia di formulazione, modalità di
somministrazione, via di somministrazione e dosaggio.
La normativa prevede che un medicinale possa eventualmente contenere eccipienti diversi, tuttavia se
un’azione che produce un equivalente usi un eccipiente diverse deve dimostrarne l’equivalenza. Quindi da un
punto di vista di prestazioni, queste devono essere sovrapponibili. Per prestazioni si intende attività
terapeutica, eventuali controindicazioni e aspetti legati alla clinica.

Proprio perché la normativa prevede l’uso di eccipienti diversi, potrebbe succedere che l’equivalente e
l’originatore possano portare a delle problematiche legate a controindicazioni, cioè potrebbe accadere che
nell’equivalente, ad esempio, sia presente il glucosio mentre nell’originatore non vi è (quindi quel medicinale
potrebbe essere controindicato ad esempio per i pazienti diabetici); oppure stessa cosa può accadere in
medicinali che potrebbero contenere amido.
Il farmacista deve conoscere le proprietà degli eccipienti contenuti nell’originatore e nell’equivalente e
verificare che, ad esempio, nell’equivalente non siano presenti questi eccipienti e qualora siano presenti fare
attenzione (eccipienti in grassetto nel foglietto illustrativo, ad esempio).

Se un medicinale equivalente contiene un eccipiente diverso rispetto al medicale originatore NON cambia la
formulazione. Non cambia anche perché per legge non può cambiare la formulazione. Gli eccipienti possono
essere classificati in diverse sottocategorie.
Ad esempio in alcuni casi in una compressa la quantità di principio attivo è molto piccola, questo avviene nelle
compresse con anticoncezionali, però il formulatore non potrebbe fare una compressa microscopica perché
sarebbe di difficile somministrazione e difficile da maneggiare. Quindi per rendere le compresse più
maneggevoli si usano degli eccipienti che si chiamano diluenti (servono a diluire il principio attivo), un esempio
di questi è l’amido di grano, di patate, di riso.

Eccipienti diversi, diverse controindicazioni, però con la stessa formulazione finale

CARATTERISTICHE LEGATE ALLA FUNZIONALITÀ DEGLI ECCIPIENTI


Gli eccipienti possono essere suddivisi in diverse sottocategorie.
Inizialmente nello sviluppo farmaceutico l’aspetto importante legato agli eccipienti era che non fossero
farmacologicamente attivi. In realtà con lo sviluppo di nuove tecnologie formulative e nuove formulazioni, ci si
è resi conto che gli eccipienti hanno un ruolo molto importante nelle caratteristiche finali del prodotto
medicinale e quindi si è cominciato a parlare di caratteristiche legate alla funzionalità degli eccipienti.
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Si è cominciato a riconoscere gli eccipienti hanno un ruolo molto importante e che eccipienti diversi tra loro
hanno proprietà diverse. Anche un medesimo eccipiente definito con lo stesso nome (ad esempio, l’amido di
riso, non è sempre uguale a sè stesso. Ciò vuol dire che un produttore A può produrre un amido di riso diverso
da un produttore B, diverso dal produttore C).

Sin dalla 5° edizione della farmacopea europea per gli eccipienti più innovativi che davano delle proprietà
particolari al medicinale finale sono state introdotte delle monografie e in queste monografie vi è una sezione
che si chiama “sezione relativa alle caratteristiche correlate con la funzionalità”, questo tipo di caratteristiche
sono indicate da un acronimo che è FRC (funcionality related characteristics).

Cosa sono queste funzionalità legate ad alcuni eccipienti?


Esempio pratico nell’immagine in basso a sx (compresse) ci sono delle compresse integre e una compressa
frantumata (frammenti di compresse). Le compresse non si trovano direttamente a contatto con il contenitore
secondario, ma sono all’interno del contenitore primario (contenitore in diretto contatto con il medicinale).
Nel caso delle compresse di usa un tipo di contenitore primario chiamato blister. I blister si ottengono con un
processo di termosaldatura e sono ottenuti dalla saldatura di due fogli (uno di materiale polimerico con un
foglio di alluminio).

Come si fa al momento della somministrazione ad estrarre la formulazione dal contenitore primario? Schiaccio
il contenitore primario, si rompe il foglio di alluminio ed esce la compressa.
Se la compressa fosse formulata con degli eccipienti non idonei, succederebbe che quando applichiamo la
pressione allora la compressa si frantumerebbe. Questo vuol dire che alcuni degli eccipienti che vengono
utilizzati nella produzione delle compresse aggiungono una funzionalità alla compressa, come ad esempio la
resistenza meccanica. Attraverso degli strumenti i formulatori studiano le caratteristiche meccaniche, cioè
valutano quale sia la pressione che si può applicare sulla compressa prima che questa si frantumi.

Si possono ottenere dei grafici (come quelli in figura) in cui si misura la funzionalità di un eccipiente. In ordinata
viene riportata la resistenza a sopportare una compressione delle compresse, questa resistenza meccanica
(kg/cm^2) varia con un parametro che è legato al tipo di eccipiente (different suppliers, ossia utilizzando
eccipienti di diversi fornitori).

Eccipienti formalmente identici, ma prodotti da diversi fornitori hanno delle caratteristiche correlate alla
funzionalità diverse. Questo significa che il formulatore non solo deve indicare per questi eccipienti la loro
presenza e concentrazione, ma deve indicare anche queste funzionalità correlata alla tipologia di eccipiente
che usa, indicando anche il fornitore e se possibile anche le specifiche proprietà possedute da un eccipiente.

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Questo concetto è stato descritto in un documento che si chiama quadro regolamentare degli eccipienti che è
una guida regolatoria, cioè regola l’uso degli eccipienti. Ciò significa che siccome le prestazioni degli eccipienti
variano a seconda del produttore, a seconda di alcune caratteristiche allora le aziende che producono i
medicinali hanno cercato di sviluppare delle guide regolatorie (international council on harmonisation of
technical requirements for registration of pharmaceuticals for human use ICH) che è un organismo
internazionale a cui partecipano le più importanti aziende farmaceutiche e i più importanti rappresentanti degli
organi regolatori (FDA, EMA, ad esempio), è un consiglio di esperti che cercano di armonizzare i requisiti tecnici
necessari alla registrazione, all’immissione in commercio.

Questo consiglio internazionale ha rilasciato le linee guida (che si chiamano Q8) per lo sviluppo farmaceutico.
Nella documentazione richiesta per l’autorizzazione e immissione in commercio (AIC) devono essere descritti
anche gli eccipienti scelti, la loro concentrazione, ma soprattutto per alcune formulazioni più innovative
bisogna dimostrare le caratteristiche che possono influenzare le performance della formulazione e la funzione
di ogni eccipiente.

Deve essere ugualmente dimostrata l’attitudine degli eccipienti ad assicurare la funzionalità prevista
nell’ambito di tutto il periodo di stabilità della formulazione.

ASSORBIMENTO DEI PRINCIPI ATTIVI (drug)


Parte correlata alla trattazione delle vie di somministrazione. Anche questi concetti fanno riferimento sia alla
farmacologia sia alla fisiopatologia.

Meccanismi di assorbimento del principio attivo.


La farmacocinetica è un concetto che ci permette di studiare cineticamente la presenza del principio attivo nel
torrente circolatorio.
L’assorbimento dei principi attivi è funzione di diversi fattori, non tutti i principi attivi vengono assorbiti con la
medesima modalità e con la medesima intensità. Vi sono delle variabili che influenzano l’assorbimento del
principio attivo.
Fattori che influenzano l’assorbimento, in particolare per semplicità facciamo riferimento all’assorbimento
attraverso la via orale:
 Il primo fattore è costituito dalle caratteristiche fisico-chimiche del drug. Le molecole dei principi attivi
sono in genere delle molecole organiche (piccole) che hanno delle proprietà diverse che dipendono
dalla struttura chimica (gruppi funzionali).
 La sua concentrazione nel prodotto medicinale, dipende quindi dal dosaggio. Se il dosaggio è più alto
allora il principio attivo viene assorbito maggiormente
23
 Un altro fattore è la formulazione. Un principio attivo somministrato (il medesimo principio attivo, al
medesimo dosaggio) se cambiamo la formulazione cambierà il suo assorbimento, cambierà la
farmacocinetica. Quindi la formulazione (gli eccipienti) influenzano le performance di un medicinale
perché variano la velocità di assorbimento
 La farmacocinetica dipende dalle vie di somministrazione (esempio tra via orla e via endovenosa)
 La circolazione nel sito di assorbimento (vascolarizzazione dei tessuti). Se un farmaco viene assorbito in
un tessuto vascolarizzato verrà assorbito più rapidamente rispetto ad un altro che invece si trova in
tessuto meno vascolarizzato.
 Fattore legato al protein binding, ossia alcuni principi attivi vengono legati con le proteine che, ad
esempio, si trovano nei tessuti o nel sangue. Alcuni principi attivi si legano in modo più o meno
specifico con proteine
 Tra i fattori che influenzano l’assorbimento dei principi attivi abbiamo il tipo di processo di
permeazione.

Tipi di permeazione:
I meccanismi di permeazione variano a seconda della via di somministrazione (adesso parliamo di
somministrazione attraverso la via orale) e dei tessuti coinvolti nella permeazione.
Quando un principio attivo viene assorbito attraverso la via orale, può essere assorbito in vari tratti del tratto
gastrointestinale, in particolare è importante l’assorbimento a livello intestinale.

La permeazione fa riferimento all’attraversamento da parte del principio attivo di uno strato tissutale (quando
parliamo di permeazione dobbiamo sempre specificare attraverso quali strati avviene la permeazione).
In questo caso si parla di permeazione di principio attivo attraverso le cellule epiteliali, questo epitelio riveste
l’intestino (riveste i villi intestinali). I principi attivi per essere assorbiti attraverso la via orale devono permeare
questo strato perché all’interno dei villi abbiamo la microcircolazione.
Quindi il principio attivo per raggiungere il torrente circolatorio deve, dal lume intestinale, passare attraverso
l’epitelio e raggiungere i vasi della microcircolazione intestinale.

L’assorbimento dei principi attivi è influenzato dai tipi di permeazione e il tipo di permeazione dipende dalle
proprietà chimico-fisiche. Un principio attivo in funzione delle sue proprietà chimico-fisiche (come le
dimensioni delle molecole) può permeare l’epitelio attraverso varie vie:
A. Permeare attraverso dei microcanali acquosi, cioè può permeare l’epitelio passando tra una cellula
epiteliale e l’altra (spazio intercellulare). Sono spazi piccoli, limitati che permettono la permeazione
soprattutto di molecole con caratteristiche idrofile. PERMEAZIONE INTERCELLULARE

B. Molecole più lipofile possono passare attraverso le cellule, possono attraversare le membrane delle
cellule, passare attraverso il citoplasma delle cellule epiteliali e poi attraversarle di nuovo passando
attraverso le membrane cellulari (dal lato del lume e dall’altro dell’interstizio). PERMEAZIONE
TRANSCELLULARE

le modalità A e B di permeazione sono dette anche modalità di tipo passivo perché dipende dalla
differenza di concentrazione tra il farmaco all’interno del lume intestinale e la concentrazione del
farmaco nel tessuto interstiziale.

C. Attraverso il trasporto attivo, alcune molecole possono essere trasportate attraverso dei recettori che
possono permettere il passaggio dal lume al lato interstiziale, sfruttando dei meccanismi molecolari
(recettori presenti sulle superfici delle membrane delle cellule epiteliali)

D. Meccanismo di esocitosi e di endocitosi. Alcune molecole (dipende dalle proprietà chimico-fisiche)


possono attraversare le cellule epiteliali attraverso un meccanismo di endocitosi (si ha
un’internalizzazione) e poi attraverso un meccanismo di esocitosi (secrezione dalla cellula verso
l’esterno).
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Le proprietà chimico-fisiche che influenzano la permeazione caratteristiche di lipofilia e idrofilia delle
molecole di principio attivo.

La natura chimica delle molecole influenzano i meccanismi di permeazione ed in particolare in questa


immagine sono schematizzate alcune tipologie di specie molecolari:
 molecole molto piccole (gas) possono facilmente permeare le membrane biologiche attraverso una via
di penetrazione transcellulare. Anche piccole molecole di tipo idrofobico [apolari] (ad esempio
idrocarburi aromatici), molecole piccole (in riferimento alla struttura molecolare, al peso molecolare)
come l’acqua, l’etanolo (polari)
 molecole polari più grandi, come il glucosio, hanno caratteristiche chimico-fisiche diverse e non sono
in grado di passare con una diffusione passiva attraverso la membrana (più sono grandi più sono polari
e meno facilmente sono in grado di permeare). Ad esempio, il glucosio può essere assorbito attraverso
dei meccanismi attivi (recettori)
 le molecole cariche (molecole ad ampio uso medicinale) hanno una elevata polarità. Quindi essendo
molecole cariche, molto idrofile e polari, NON sono in grado di permeare le membrane cellulari.
Permeano molto difficilmente.
Gli aminoacidi, gli ioni, gli elettroliti sono molecole cariche. La presenza delle cariche su una molecola
dipende dalla sua struttura chimica ma dipende anche dall’ambiente in cui si trova la molecola.

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LEZIONE 6 (06/10/2021)
Richiamando i concetti della lezione precedente, abbiamo spiegato come la natura chimico-fisica, cioè la
struttura delle molecole dei farmaci presi in considerazione, influenzi la capacità di queste molecole di essere
assorbite attraverso l’epitelio degli intestini, ad esempio. In particolare abbiamo detto che le molecole
CARICHE (con elevata idrofilia) non sono in grado di passare le membrane biologiche, dunque non sono
assorbibili tramite la via trans-cellulare. In genere, le molecole che si trovano in presenza di cariche elettriche
sono difficilmente assorbibili.

Ora vediamo come variano i diversi possibili siti di assorbimenti degli attivi, in base alle diverse vie di
formulazioni. Prendendo in considerazione il ph, abbiamo detto che le molecole cariche non sono in grado di
permeare le membrane, ma la carica delle molecole dipende a sua volta dal ph dell’ambiente in cui si trovano.
Risulta quindi molto importante conoscere il ph dell’ambiente in cui avviene l’assorbimento di un principio
attivo.

Domanda d’esame: QUALI SONO I PH DEGLI AMBIENTI IN CUI AVVIENE L’ASSORBIMENTO DI UN PRINCIPIO
ATTIVO?

Vediamo il ph dei vari tessuti a livello dei quali può avvenire l’assorbimento di principi attivi somministrati
tramite diverse vie e aventi diverse formulazioni:

 Il sangue ha ph attorno alla neutralità: dai 7,2 ai 7,6. La sua caratteristica è che è un ph piuttosto
costante (grazie ai sistemi tampone del sangue, in grado di regolare il ph del plasma).
 Il ph della bocca (saliva e mucosa buccale) è leggermente più acido, intorno ai 6,2-7,2 di ph. Il ph della
cavità boccale è importante per le vie di somministrazione orale.
 L’esofago, secondo tratto importante dopo l’ambiente boccale per quanto riguarda la
somministrazione attraverso la via orale, ha un ph 7.
 Lo stomaco invece ha un ph acido, da livelli prossimi all’1 a livelli di ph 5. Questi valori dipendono dallo
stato di riempimento dello stomaco. Prima dei pasti il ph è decisamente più acido (da 1 a 2,5), mentre a
stomaco pieno il ph sale (il cibo ha un effetto tamponante sui succhi gastrici e il ph sale attorno a 5).
Per alcuni medicinali è infatti specificata l’assunzione prima o dopo i pasti, in quanto il pasto può
variare i livelli di ph dei liquidi gastrici presenti all’interno dello stomaco.
 Nel duodeno (o ‘’intestino prossimale’’ poiché vicino allo stomaco) il ph del liquido si aggira attorno a
valori di 4,8 a 7,5. Il ph risulta più basso (4.8-5) quando all’interno del duodeno sono riversati i succhi
gastrici che transitano dallo stomaco al duodeno (durante lo svuotamento gastrico); mentre il ph sale
(7.5) quando non vi è transito dei succhi gastrici.
 Nell’intestino tenue, in particolare nel tratto distale, l’effetto del transito dei succhi gastrici è meno
sentito, dunque il ph si aggira attorno alla neutralità: tra 6,8 e 7,8.
26
 Nel colon (tratto successivo all’intestino tenue), invece, il ph si aggira attorno alla neutralità, con valori
variabili da 5,5 a 7,5.
La gran parte dell’assorbimento dei farmaci avviene a livello in parte dello stomaco, in parte
dell’intestino tenue e infine nel colon, quindi il ph nei vari tratti intestinali è il più importante da
conoscere.
 Il ph del sacco congiuntivale (ambiente oculare) è importante da conoscere per la somministrazione di
medicinali di tipo oftalmico (ovvero instillati nel sacco congiuntivale). Quindi queste formulazioni si
definiscono come preparati oftalmici o formulazioni oftalmiche che vengono istillate all’interno del
sacco congiutivale. In questo caso il ph è abbastanza simile all’ambiente plasmatico, con valori attorno
alla neutralità.
 La superficie cutanea (pelle e sudore), invece, ha un ph leggermente spostato verso l’acidità (da 4,3 a
5,2). Le formulazioni per applicazione cutanea sono molto comuni!
 Infine, i fluidi vaginali hanno un ph ACIDO, tra 3,8 e 4,5. Possono essere somministrati dei medicinali
come ovuli vaginali, oppure formulazioni intra-uterine.

La conoscenza di questi valori medi di ph degli ambienti in cui avviene l’assorbimento del principio attivo è
importante perché, a seconda del ph, si influenza lo STATO DI PRESENZA o meno di cariche elettriche sulla
molecola del principio attivo. Variando lo stato di ionizzazione o meno del principio attivo, ovviamente variano
le caratteristiche fisico chimiche e le possibilità di essere assorbito in un modo o nell’altro (ad esempio tramite
la via trans cellulare o meno).

 questa
tabella riassume le caratteristiche delle principali vie di somministrazione (non tutte) dei medicinali. A seconda
delle vie di somministrazione, possono cambiare anche le formulazioni!

LE PRINCIPALI VIE DI SOMMINISTRAZIONE:


1- VIA ORALE è molto importante poiché la maggior parte dei medicinali sono formulati e sviluppati per
questa via specifica di somministrazione. La sua diffusione è così grande poiché:
- è molto conveniente,
- è facile e sicura (poiché si sfrutta una via che è fisiologicamente la porta di ingresso dell’organismo,
tramite l’alimentazione),
- è economica.
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- Volendo, un individuo può auto-somministrarsi il medicinale, in quanto è una via fisiologica di
somministrazione.
- Un altro vantaggio è che le compresse (che sono una delle diverse somministrazioni per via orale)
sono anche molto facili da trasportare (vedi blister di cui abbiamo parlato ieri).

Potremmo quindi dire che la formulazione orale sia l’unica via, dal momento che è così pratica, sicura
ed efficiente? No, perché la via orale presenta anche svantaggi, ad esempio:
- la via orale dà origine ad una somministrazione che transita nel tratto gastro-intestinale, dunque
che può portare alla insorgenza di fenomeni di irritazione del tratto gastrointestinale (soprattutto a
livello gastrico,). Essendo la via orale così pratica, è spesso utilizzata per trattare patologie croniche
(in cui il paziente usa il medicinale per anni o per tutta la vita), dunque il fatto che ci sia questo
transito nel tratto gastro intestinale può portare a irritazioni o danneggiamento delle mucose, ad
esempio avviene in genere con i farmaci anti-infiammatori non steroidei.
- Altro punto da considerare è che, a seconda dello stato di riempimento dello stomaco, varia la
velocità di assorbimento, poiché cambia l’ambiente, cambia il ph, dunque questa velocità di
assorbimento tramite la via non è particolarmente costante né prevedibile, il che rende questa
somministrazione non preferibile per certe patologie, proprio perché vi è un’elevata variabilità e
inoltre la comparsa dell’attività farmacologica è ritardata (onset). Per trattamenti di urgenza la via
orale non è preferibile perché la sua velocità non è elevata.
- Un altro aspetto da considerare è che una importante famiglia di farmaci che sono i FARMACI
PROTEICI, o biotecnologici, o ‘’biologics’’ sono costituiti da molecole molto diverse da quelle che
tipicamente formano i farmaci a basso peso molecolare, infatti sono fatti o da proteine o da acidi
nucleici, che sono entrambi piuttosto ‘’delicati’’ dal punto di vista della stabilità chimica, in quanto
si tratta di sostanze che sono inattivate e modificate dall’ambiente acido dello stomaco.
- Infine, qualora si usassero farmaci con scarsa solubilità in acqua, questo tipo di somministrazione
per via orale, porta spesso ad uno scarso assorbimento. Per questo motivo, farmaci a scarsa
solubilità in acqua difficilmente sono formulati per vie di somministrazione attraverso la via orale.

2- VIA BUCCALE (o ‘’boccale’’) differisce da quella orale in quanto la via di somministrazione orale
prevede una formulazione che deve essere deglutita (compressa, sciroppo, liquido), mentre la via di
somministrazione di tipo boccale prevede che la formulazione venga mantenute nella cavità boccale
(ad esempio esistono compresse che non vanno deglutite, ma rimangono nella cavità boccale). Inoltre,
quando un principio attivo è somministrato per via orale, poi l’assorbimento avviene nello stomaco,
nell’intestino tenue e nel colon, mentre quando un medicinale somministrato utilizza la via boccale
allora l’assorbimento avviene già nella cavità boccale, tramite la mucosa orale!

La via orale è molto molto è più usata di quella buccale, la quale ha il vantaggio, rispetto a quella orale,
di avere un’automedicazione (al pari di quella orale) e di avere un tempo di latenza (‘’onset’’) minore, il
suo assorbimento è cioè più rapido, in quanto avviene direttamente nella cavità boccale. Inoltre NON
presenta un fenomeno, detto ‘’first pass’’, che è un fenomeno associato alla via orale che porta a una
parziale degradazione del principio attivo (fenomeno che invece non avviene nella somministrazione
per via boccale).

Perché è meno diffusa rispetto alla somministrazione per via orale? Siccome l’assorbimento avviene
tramite la cavità orale, ovviamente vi sono degli inconvenienti di natura organolettica: le formulazioni
sono molto sgradevoli, dal momento che spesso i principi attivi presentano gusti sgradevoli e possono
dare irritazioni della mucosa buccale (che è enormemente meno estesa rispetto alla mucosa
intestinale, dunque gli effetti irritativi sono più evidenti perché l’area interessata è molto minore!).

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3- VIE PARENTERALI le vie di somministrazioni parenterali, o ‘’iniettive’’, sono quelle che, per la loro
pratica, prevedono una iniezione.
Ne parliamo oggi in generale, in quanto queste vie di somministrazioni parenterali possono essere
molteplici, ma per tutte possiamo dire che:
- Hanno risposta rapida, dunque assorbimento rapido. Hanno un onset molto breve = tempo di
latenza pari a zero, perché il principio attivo viene direttamente iniettato nel torrente circolatorio,
quindi a livello plasmatico la concentrazione terapeutica è immediatamente raggiunta.
- Ci permettono di avere un dosaggio molto accurato, in quanto il suo assorbimento è finemente
regolato e controllabile (a differenza della via orale, in cui l’assorbimento può variare di molto).
Questo livello di estrema cura e precisione del dosaggio lo si raggiunge in particolare con la
somministrazione endovenosa.
- Inoltre questi sono applicabili a persone non coscienti e non cooperanti, ad esempio in stato di
coma (farmacologico, patologico o in seguito a traumi, ad esempio).

Invece, gli svantaggi sono:


- Non permettono auto medicazione.
- Sono pericolose queste formulazioni, in quanto il principio attivo viene direttamente a contatto con
sangue e organi interni, dunque l’eventuale tossicità è particolarmente alta. In relazione al fatto
che queste formulazioni vengono a contatto con tessuti interni, è necessario che, per questa via di
somministrazione, SI ABBIANO STRUMENTAZIONI STERILI un eventuale contaminazione
microbica sarebbe pericolosissima per il paziente!
- Un altro inconveniente è che, essendo vie iniettive, sono più dolorose delle vie viste
precedentemente (vengono usati aghi di dimensioni diverse)
- Infine presentano costi più elevati, ad esempio per garantire la sterilità, la presenza di
apparecchiature e ambienti particolari per la loro produzione, e anche perché si usano eccipienti di
elevatissima qualità per ottenere farmaci di questo tipo di somministrazione.

Le vie parenterali sono molteplici: via endovenosa, via


intramuscolare e via sottocutanea!

4- VIA DERMICA/TRANSDERMICA la differenza tra la via dermica e quella transdermica riguarda il fatto
che i formulati per somministrazione dermica sono applicati su tutta la superficie cutanea, interessano
solo gli strati più SUPERFICIALI della pelle (gli effetti sono solo su epidermide e derma), mentre la via
transdermica prevede anche in questo caso l’applicazione della formulazione sulla superficie cutanea,
ma qui il principio attivo ha un effetto DI TIPO SISTEMICO: ovvero attraversa tutti gli strati della pelle
per poi aver effetti sistemici!

Vantaggi:
- Sono vie convenienti, di facile utilizzo.
- Possono essere vie di somministrazione con automedicazione
- Duplice target: si possono avere effetti sia locali (quindi sul sito di somministrazione) o ‘’topici’’ (se
la somministrazione è dermica) oppure effetti sistemici (per la via transdermica in cui il principio
attivo raggiunge il torrente circolatorio).

Svantaggi:
- Entrambe le vie ma soprattutto quella transdermica, hanno bassi livelli di assorbimento, in quanto
la struttura istologica e anatomica della pelle sono tali da impedire quasi completamente l’ingresso
di molecole estranee, siano esse contenute in medicinali per via dermica o transdermica  la pelle
ha come funzione propria la permeabilità!! Ciò nonostante queste vie di somministrazione sono

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praticate perché sono stati sviluppati nel corso degli anni degli eccipienti che permettono di
superare questi inconvenienti.
- Elevata variabilità, in quanto così come stomaco e apparato digerente, anche la pelle è
estremamente variabile. Ad esempio esistono molte creme per uso cosmetico che sono formulate
a seconda del tipo di pelle che può essere secca, grassa ecc. quindi la presenza o meno di sebo, ad
esempio, sulla superficie cutanea influenza la variabilità dell’assorbimento del medicinale. Inoltre
va sottolineato che la pelle NON E’ UGUALE SU TUTTA LA SUPERFICIE CORPOREA, può essere più
spessa ad esempio sui palmi di mani e piedi, e più sottile sull’addome.

5- VIA INALATORIA questa via sfrutta un altro ingresso naturale dell’organismo, quella per la
respirazione. In questo caso, così come per la via dermica e transdermica, possiamo avere sia effetti
locali che sistemici. Questo perché il fatto che si abbia un effetto locale o sistemico dipende dal tipo di
formulazione che viene utilizzata. Ne parleremo più in dettaglio dopo, per ora anticipiamo che, a
seconda delle dimensioni della formulazione inalata, possiamo avere un effetto locale nei primi tratti
dell’albero respiratorio (laringe, faringe e a livello della parte superiore della trachea), mentre
cambiando la formulazione possiamo raggiunge le parti più distali dell’albero respiratorio, come gli
alveoli polmonari, i quali sono caratterizzati da ELEVATO GRADO DI VASCOLARIZZAZIONE e viene
garantita l’immissione sistemica del principio attivo effetto sistemico!

LEZIONE 7 (07/10/2021)
FORME FARMACEUTICHE o FORMULAZIONI
I nomi delle varie tipologie di formulazioni le troviamo nella farmacopea. Alcune formulazioni hanno uno stato
fisico liquido, altre solido.

Quelle liquide sono:


● Preparazioni liquide per applicazione cutanea
● Preparazioni liquide per uso orale
● Preparazioni parenterali
● Preparazioni semisolide per applicazione cutanea (sono formulazioni border line)

Quelle solide più importanti descritte in farmacopea sono:


● Capsule
● Compresse (non rivestite, rivestite, effervescenti, solubili ecc)

Non esistono nella farmacopea alcune pastiglie, pasticche, pillole, confetti, ma sono nomi di formulazioni un
tempo utilizzate, cadute ormai in disuso.

In relazione alla via di somministrazione e al tipo di formulazione cambierà l’onset, ossia il tempo di latenza,
dunque il tempo che intercorre tra la somministrazione e la comparsa dell’attività. Gli onset variano in funzione
della via e della formulazione (per la
maggior parte):
 vicine allo 0 (pochi secondi) per le
formulazioni liquide per uso parenterale
(soprattutto per la via endovenosa)
 Onset che vanno da qualche minuto a
30 min sono formulazioni liquide
iniettabili (attraverso la via sottocutanea e
intramuscolare)
 Circa 30-60 min troviamo le prime
formulazioni che possono essere utilizzate
per via orale come i granulati e le capsule.

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Le capsule sono formulate per avere una rapida comparsa dell’attività.
 >60 troviamo le formulazioni classiche che si utilizzano attraverso la via orale tra cui le compresse,
compresse rivestite, pomate (queste ultime sono formulazioni semisolide per uso cutaneo)
 Diverse ore compresse a rilascio modificato, ossia il principio attivo viene rilasciato più lentamente
per tempi più lunghi. Ad esempio, un tempo il tipico trattamento con gli antibiotici prevedeva diverse
somministrazioni al giorno, oggi invece ci sono le ones a day che prevedono una somministrazione al
girono, queste presentano un vantaggio per il paziente.
Esistono nuove tecnologie per degli iniettabili (formulazioni per uso parenterale) che permettono un
effetto prolungato
 Giorni con degli iniettabili particolari che arrivano fino a dei sistemi chiamati impianti, ovvero sono
delle formulazioni per uso parenterale, ma non si iniettano più con un ago o siringa ma vengono
impiantate e inserite nel tessuto sottocutaneo.

Si ottengono tutte queste tipologie di rilascio grazie alle formulazioni, grazie alla selezione degli eccipienti.
quindi il principio attivo può essere il medesimo, ma se viene formulato in maniera diversa allora ci consente di
avere diverse farmacocinetiche.

Compliance/Adherence
È una proprietà che è specifica dei regimi terapeutici, ovvero di come il regime terapeutico venga gradito dai
pazienti. Questo gradimento viene espresso dal termine compliance (termine molto utilizzato, ma che non
dovrebbe essere utilizzato in termini formali), al contrario il tramite che dovrebbe essere utilizzato è
adherence. Il termine compliance (introdotto nel 1950) rappresenta l’imposizione da parte del medico curante
del regime terapeutico e secondo molti studiosi questo termine era troppo “forte”; adherence invece ha un
significato di dedizione, fedeltà, ha dei toni più rivolti al paziente che segue con fedeltà il regime terapeutico.

Il regime terapeutico è quell’insieme di indicazioni che il medico e il farmacista forniscono al paziente per il
trattamento di una o più patologie. Con regime terapeutico non si fa riferimento solo alla pura
somministrazione e assunzione di medicinali, ma si fa riferimento allo stile di vita.

Aspetti che consento o meno il mantenimento del regime terapeutico


Effetti negativi:
 La complessità del regime terapeutico (la complessità delle somministrazioni). Il ruolo del tecnologo è
quello di formulare le ones a day oppure possiamo co-formulare due principi attivi.
 Comparsa di effetti collaterali, è importante che questi effetti siano discussi e previsti (mal di testa,
disturbi visivi). Il farmacista deve conoscerli.
 Ridotta mobilità, ad esempio la somministrazione endovenosa e quindi sviluppare nuove formulazioni
che possano evitare questo tipo di somministrazione possono portare ad un vantaggio nel seguire le
indicazioni del medico
 Disturbi della memoria
 L’ignoranza o il fraintendimento della patologia, bisogna discutere l’importanza del seguire il regime
terapeutico con precisione
 Problema di costi, non tutti i medicinali sono rimborsati dal sistema sanitario nazionale. Si può
pertanto consigliare il medicinale equivalente, però non per tutte le patologie è possibile risparmiare.
 Problemi religiosi o raziali, questo si è verificato soprattutto per quanto riguarda le capsule. Le capsule
sono degli involucri e all’interno generalmente è contenuta una polvere che contiene il principio attivo.
Per la formazione della capsula si è spesso utilizzata la gelatina (prodotto di origine animale,
soprattutto ovini o suini), ma anche per motivi personali come per i vegetariani o vegani. Queste sono
quali totalmente sostituite da capsule che sono prodotte con un prodotto vegetale VVcaps
 Scarso gradimento e fiducia vero il personale sanitario

Effetti positivi sono uguali a quelli negativi ma al contrario.


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SOLUZIONI
PRIME FORMULAZIONI
La formulazione più semplice da realizzare e utilizzare è rappresentata da una tipologia di forma molto
semplice ossia le soluzioni che contengono un soluto. Il soluto sarà il principio attivo. La formulazione più
semplice è solvente (eccipiente) + principio attivo.
Molto raramente vengono utilizzate delle formulazioni così semplici, infatti spesso all’interno delle soluzioni si
trovano più eccipienti.

Drug in solution (farmaco in soluzione)


Sono dei formulati molto diffusi. Considerazioni importanti sulle soluzioni:
 Dobbiamo considerare che il processo dissolutivo (cioè la formazione di una soluzione). La
solubilizzazione o dissoluzione sono sinonimi. Una soluzione si ottiene con un processo di
solubilizzazione o dissoluzione del principio attivo. Lo studio di questi processi è molto importante per
due motivi, ossia perché le soluzioni sono delle forme farmaceutiche e come tali devono essere
preparate. Un ulteriore aspetto importante del processo di dissoluzione riguarda il fatto che tutte le
formulazioni per avere un’azione farmacologica il principio attivo deve trovarsi in soluzione all’interno
dell’organismo.
Sia che avvenga in vivo sia che avvenga in una industria farmaceutica, il processo di dissoluzione è stato
descritto da una coppia di ricercatori che hanno dato il nome ad un’equazione che descrive i parametri
che influenzano il processo di dissoluzione. Questa equazione si chiama LEGGE DI NOYES E WHITNEY.

 Molti principi attivi vengono formulati e somministrati in soluzione, ad esempio soluzioni possono
essere degli sciroppi, oppure preparati iniettabili, oppure infusioni e colliri.

Paradigma importantissimo il solvente di prima scelta (che dobbiamo sempre utilizzare) è l’acqua.

Come si ottengono le soluzioni e quali sono le loro proprietà?


Un esempio di come si ottiene una soluzione per ottenere una soluzione bisogna mescolare due elementi
(porli in contatto), ossia l’elemento che forma il soluto (solido, polvere) e il solvente (liquido). Quando li
mescoliamo insieme otteniamo una soluzione attraverso un processo di dissoluzione o solubilizzazione.
Attraverso un processo di dissoluzione otteniamo una soluzione, ma possiamo avere anche la reazione inversa,
ovvero da una soluzione possiamo avere la separazione tra soluto e solvente. In questo caso parleremo di
processo di cristallizzazione o precipitazione.

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Variando alcuni paramenti, come la temperatura, possiamo influenzare questi due fenomeni (cristallizzazione e
dissoluzione). Ad una temperatura possiamo avere il processo di dissoluzione e ad un’altra il processo di
cristallizzazione.
Il termine più generico è il termine di precipitazione, spesso di usa cristallizzazione che però non è un sinonimo.
Perché quando usiamo il termine cristallizzazione (separazione del soluto e del solvente) quando le particelle di
solido hanno una struttura cristallina. Con la cristallizzazione le particelle di soluto tornano alla fase solida.
RICORDARE SOLIDO AMORFO E CRISTALLINO DALLA CHIMICA ORGANICA

Da sx verso dx abbiamo delle provette in vetro. Nella prima provetta abbiamo un solvente al quale
aggiungiamo solute addition (il soluto), se noi aggiungiamo soluto e continuiamo ad aggiungerlo arriveremo ad
un certo valore critico che è diverso, è una proprietà tipica di ogni tipo di soluto rispetto ad un particolare tipo
di solvente. Questo livello critico è il raggiungimento del limite di solubilità, se raggiungiamo questo limite e lo
superiamo (aggiungendo ancora polvere) allora otteniamo un sistema particolare che è rappresentato dalla
terza provetta ossia la sospensione che indica un sistema in cui abbiamo una fase liquida e una fase solida.
La fase liquida la chiamiamo soluzione liquida satura.
La sospensione è un sistema bifasico o sistema disperso (fase liquida è una soluzione satura dell’elemento in
eccesso che si trova in sospensione)
Il livello del raggiungimento del punto di saturazione varia in base al soluto.

Possiamo capire quando abbiamo superato il limite di solubilità? Notiamo nel contenitore la presenza di
particelle solide, visivamente vediamo un eccesso di soluto non disciolto, abbiamo formato una sospensione.
Il processo di dissoluzione ha anche degli aspetti cinetici, non è veloce per tutte le sostanze allo stesso modo.

Corpo di fondo=particelle in eccesso, eccesso di soluto

Come facciamo a capire quale sia la solubilità di un principio attivo? dobbiamo preparare una soluzione satura.
Sarà satura quando avremo un corpo di fondo.

Le particelle in eccesso tendenzialmente tenderanno a depositarsi sul fondo della provetta, si chiama
sedimentazione (NON PRECIPITAZIONE che invece è un fenomeno chimico, è la separazione del soluto dal
solvente), si forma un sedimento o un corpo di fondo.
Un sinonimo di corpo di fondo o sedimento è pellet.

Utilizzando opportune strumentazioni possiamo separare il sistema disperso che abbiamo prodotto, cioè la
sospensione. La possiamo separare nella sua parte liquida (sovranatante o supranatante) e nella sua parte
solida (sedimento). In questo modo abbiamo la certezza di avere ottenuto l’ultima provetta sulla dx che
rappresenta una soluzione satura del principio attivo che abbiamo utilizzato e in questo modo possiamo
determinare la sua solubilità.

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PER DETERMINARE LA SOLUBILITÀ DI UNA QUALSIASI SOSTANZA BISOGNA CONSIDERARE UNA SOLUZIONE
SATURA

Bisogna mantenere controllata la temperatura perché può far variare la solubilità:

 nel caso del NaCl (cloruro


sodico, sostanza inorganica di
natura ionica). Se aggiungiamo 30g
di nacl a 100 ml di acqua
osserveremo che tutto il cloruro
sodico viene disciolto ottenendo
una unsaturated (sotto satura), se
misurassimo la solubilità in questa
condizione commetteremo un
errore. Se invece aggiungiamo 40 g
a 100 ml osserveremo una
soluzione satura (a T ambiente la
solubilità del cloruro sodico è di
circa 30g per 100 ml di acqua. (c’è la
sospensione, corpo di fondo).
 Nel caso del cloruro sodico a
differenza di altri soluti l’effetto
della temperatura è marginale. La
variazione di temperatura non ha un grande effetto sulla solubilità.
 tuttavia, ci sono soluti la cui solubilità varia molto in funzione della T°. il cloruro sodico è uno di quei
soluti che mantiene il livello di solubilità costante da temperatura ambiente fino all’ebollizione
dell’acqua (o quasi costante). Perciò bisogna sempre specificare la temperatura alla quale viene
determinata la solubilità.

Come viene determinata la solubilità del principio attivo?


 Soluto e solvente devono essere al più alto grado di purezza. Il grado di purezza del solvente lo
conosciamo perché lo compriamo, ci sono vari gradi di purezza del solvente. Anche un soluto ha vari
gradi di purezza. Oltre al grado di purezza cambierà anche il prezzo.
 Si devono analizzare soluzioni sature
 Dobbiamo avere un metodo che ci consente di separare il sovranatante dall’eccesso
 Dobbiamo mantenere la temperatura costante
 Dobbiamo utilizzare un metodo di analisi coretto e validato, che lo troviamo nelle monografie della
farmacopea.

LEZIONE 8 (12/10/2021)
Tecniche da usare per procedere alla separazione dell’eccesso di soluto non disciolto sotto forma particellare e
il sovranatante che è rappresentato dalla soluzione satura. Abbiamo due possibilità:

1. Attraverso una procedura di filtrazione. In laboratorio possiamo usare dei filtri a siringa (o a disco),
possiamo riempiere la siringa con la sospensione che dobbiamo separare e all’interno del disco vi è una
membrana filtrante con porosità in genere di 0,22μm, questo ci permette di ottenere la filtrazione di
sospensione in modo tale da eliminare tutte le particelle che sono in sospensione per ottenere la
soluzione satura senza la presenza di contaminazioni particellari.

2. Possiamo eseguire la separazione del pellet utilizzando una tecnica di centrifugazione. Esistono diversi
modelli di centrifuga a seconda delle dimensioni, del volume che dobbiamo centrifugare.
34
La centrifugazione ci permette di separare più rapidamente ed efficientemente il pellet che è costituito
da particelle di polvere in eccesso rispetto alla soluzione saluta. E poi possiamo aspirare, ad esempio
con la punta della piepetta, una certa quantità di sovranatante (o centrifugato) che sarà poi utilizzata
per l’analisi.
Nelle monografie della farmacopea che descrivono i principi attivi possiamo trovare una sezione
chiamata determinazione quantitativa in cui è riportata la descrizione per eseguire la determinazione
quantitativa dello specifico principio attivo.

 esempi

Viene determinata la solubilità del principio attivo che è un parametro importantissimo perché ci permette di
essere in grado di preparare delle soluzioni.

Come si esprime la solubilità?


Si esprime in tanti modi diversi tra cui alcuni di questi sono delle modalità non propriamente quantitative, ma
spesso sono citate anche nelle farmacopee, ad esempio si usano i termini “insolubile”, “molto o altamente
solubile” oppure “solubile”, questi sono termini imprecisi e generici.
Quando parliamo di “insolubilità” dobbiamo sempre ricordare che per quanto una sostanza possa avere una
solubilità estremamente bassa però una certa quantità seppur piccola di entra in soluzione. Quindi il concetto
di insolubilità e immiscibilità assoluta non esiste.
Ad esempio, la cloropromazina (principio attivo) si usa come antipsicotico. È un tipico esempio di sostanza
molto poco solubile (ha una solubilità di 8 ∗ 10%& moli/litro, ciò significa 0,8 mM) e potrebbe essere
considerata “insolubile” se giudicata solo visivamente, ma di fatto seppur piccola una quantità di principio
attivo si solubilizza.

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La solubilità si esprime in:
 Concentrazione molare
 concentrazione molale
 Concentrazione per peso, espressa come massa
 Concentrazione percentuale

Sono espressioni che si possono utilizzare per esprimere in modo quantitativo e preciso la solubilità di un
principio attivo. In genere si tende ad utilizzare l’espressione della concentrazione in termini di peso
(valutazione ponderale) perché risulta pratica in farmacia.

La solubilità può essere espressa in termini di mg/ml oppure in % p/V

È importante determinare la solubilità del principio attivo e capire quali sono i parametri che influenzano la
solubilità di un principio attivo, per due motivi:
1. La solubilità è un parametro che ci serve per determinare le procedure di allestimento di preparazione
delle soluzioni
2. La solubilità influenza la velocità di dissoluzione. Più alta è la solubilità di un principio attivo e più rapida
sarà la velocità di dissoluzione. Questo è importante perché anche quando i medicinali vengono assunti
in forma solida affinché il principio attivo possa essere assorbito deve prima solubilizzarsi nei liquidi
biologici e cambiando la solubilità cambia anche la velocità di dissoluzione e quindi cambia la
farmacocinetica del principio attivo che è contenuto in uno specifico medicinale.

36
Processo di dissoluzione
Il simile scioglie il simile. Questa frase fa riferimento al fatto che la solubilità dei principi attivi o di sostanze in
generale in un determinato solvente dipende dalla loro similitudine o dissimilitudine chimica, ovvero dipende
dalla somiglianza o non delle molecole di soluto e di solvente. Ad esempio, l’olio e acqua sono due liquidi che
hanno una dissimilitudine chimica e quindi in questo caso i due liquidi risulteranno non miscibili o meglio si
miscelano molto scarsamente.

Terminologia La solubilità per i solidi e la miscibilità per i liquidi. Si può utilizzare il termine solubilità anche
per i liquidi. Quindi dire che prepariamo una soluzione di un liquido in un altro liquido non è sbagliato, anche se
nei liquidi si dice di aver preparato una miscela anziché una soluzione. Però se aggiungiamo dell’alcol all’acqua
lo abbiamo solubilizzato nell’acqua.

Analisi dei solventi


I solventi vengono classificati in termini di struttura e proprietà chimiche, perché in questo modo possiamo
comprendere la similitudine o dissimilitudine chimica nei confronti di una molecola di soluto. I solventi
vengono classificati in diverse sottocategorie e in questo caso il criterio di classificazione è l’analisi delle
proprietà chimico-fisiche della molecola del solvente e in particolare il grado della polarità della molecola del
solvente. La polarità di un solvente dipende dal tipo di atomi che formano la molecola di un determinato
sovente.

 Quando tutti gli atomi che formano la molecola del solvente hanno delle elettronegatività simili
(affinità per gli elettroni simili) allora questi solventi vengono classificati come NON POLARI perché i

37
legami che si instaurano tra gli atomi all’interno della molecola del solvente sono dotati di una bassa
differenza di elettronegatività, ad esempio legami tra C-H (idrocarburi).
 Ad esempio fanno parte dei solventi non polari gli idrocarburi che possono essere:
o Idrocarburi lineari a corta o media catena, come il pentano e l’esano. Possono essere a
catena più lunga
o Possono essere idrocarburi ciclici come il cicloesano
o idrocarburi aromatici come il benzene o il toluene.

Tutti questi sono solventi in cui abbiamo solo il C e H, questi due atomi hanno delle
elettronegatività simili. Quindi il legame C-H è un legame poco polare.

 All’interno dei solventi non polari troviamo anche i solventi (utilizzati per sintesi dei principi
attivi) che hanno degli eteroatomi (atomi diversi da C e H).
o Ad esempio, '( ) cloroformio o triclorometano è un solvente non polare che
contiene un eteroatomo (in questo caso contiene tre atomi di cloro). Il cloroformio
questo appartiene anche alla categoria dei solventi clorurati perché contengono il
cloro.

 Un altro solvente molto importante è il dietiletere (Et2O) è una molecola che contiene un
legame etereo, quindi abbiamo un gruppo etilico, un altro gruppo etilico che sono uniti da un
ponte etereo ROR.

 Classe di solventi che hanno delle caratteristiche intermedie tra i non polari e i polari, questi sono i
SOLVENTI BORDERLINE. Tra questi solventi abbiamo:

 Altri solventi che appartengono alla famiglia dei solventi clorurati come il diclorometano

 troviamo un solvente che presenta nella sua molecola una struttura eterea. In questo caso è un
etere ciclico a 5 atomi, questa struttura si chiama struttura furanica. Ad esempio il
tetraidrofurano (THF) è molto utilizzato nella sintesi peptidica;

 poi abbiamo un solvente che presenta un gruppo funzionale diverso da quelli visti fin ora ossia
il gruppo estereo. Ad esempio, l’etil acetato che è molto utilizzato in sintesi e in purificazione
organica, questo si ottiene dalla reazione dell’acido acetico con l’etanolo (gli esteri si preparano
dalla reazione di un acido con un alcol)

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 SOLVENTI POLARI si dividono in solventi polari aprotici e protici.
o I solventi polari aprotici hanno una bassa polarità. Il fatto che siano aprotici vuol dire che
facciamo sempre riferimento alla loro struttura chimica e in questi non sono presenti dei
gruppi funzioni OH (ossidrilici) o NH (ammidici).
 Esempio, nell’acetone (dimetilchetone) troviamo il gruppo funzionale chetonico (C=O).
è un solvente molto utilizzato perché è in grado di solubilizzare sia molecole polari sia
apolari ed è molto utilizzato nei laboratori.

 Poi abbiamo un solvente che ha come gruppo funzionale una amide e infatti si chiama
dimetilformamide, questa è l’amide formata dall’acido formico con la dimetilamina. La
dimetilformamide viene chiamata DMF.

 L’acetonitrile (MeCN, dove “Me” sta per metile e “CN” è il gruppo nitrilico) è molto
utilizzato in campo cromatografico. È utilizzato per le procedure di purificazione ed
analisi cromatografiche con una strategia che si chiama cromatografia in fase inversa.

 Il dimetil solfossido (DMSO) è l’analogo strutturale dell’acetone, invece di avere un


gruppo chetonico, ha un gruppo solfossido. Qualora dovessimo, su cellule coltivate in
vitro o su enzimi isolati in vitro o su recettori isolati in vitro, testare delle sostanze
molto poco solubili in acqua allora il solvente di prima scelta per eseguire questo tipo
di test è il dimetil solfossido.

o I solventi polari protici sono molto importanti. In questi solventi avremo come gruppi
funzionali OH e NH, ad esempio:

 Ammoniaca

 Alcoli, come il t-butanolo, “terz” vuol dire che il gruppo funzionale ossidrilico è legato
ad un carbonio terziario che è un carbonio che è legato a tre gruppi alchilici che in
questo caso sono metilici

 n-propanolo, la “n” di normal ossia significa che è un alcol primario, è una catena
lineare

 etanolo, molto utilizzato, è un alcol di uso alimentare

 metanolo, meno utilizzato rispetto all’etanolo per motivi di tossicità. Il metanolo non
utilizzabile in campo alimentare, mentre viene utilizzato in campo sintetico a patto che
nel prodotto finito la concertazione di metanolo sia molto bassa

 acido acetico che è il nome comune per definire l’acido carbossilico (COOH) a due
atomi di carbonio

 acqua solvente protico per eccellenza

39
Processo di dissoluzione con una visione di tipo molecolare o ionico
Premessa terminologica Quando si considerano delle specie chimiche non cariche utilizzeremo il termine
molecola, viceversa se dal processo di dissoluzione si ottengono delle specie chimiche cariche si usa il termine
ione.

Per descrivere il processo dissolutivo viene spesso usato un modello che è basato su tre step, tre livelli di
consequenzialità di eventi:

1. le molecole o ioni del soluto in forma solida. Queste molecole o ioni sono disposti in maniera ordinata
ciò vuol dire che stiamo considerando un soluto che nella forma solida ha una forma ordinata, sono
quindi solidi cristallini. La maggior parte dei farmaci hanno delle strutture solide-cristalline.
Il primo step prevede che si dovrà rompere la struttura cristallina e da una struttura ordinata si passa
ad una struttura disordinata nello stato in soluzione. Nello stato solido tra molecole o ioni si formano
delle interazioni quindi la rottura della struttura cristallina può essere descritta in termini energetici e
in particolare viene consumata energia per la rottura dei legami. Quindi da una situazione
termodinamicamente favorevole andiamo ad una situazione termodinamicamente sfavorevole. Questo
primo step sarà caratterizzato da un valore *H1, dove “H” si indica l’entalpia, avremo una variazione di
entalpia dovuta alla rottura del reticolo cristallino.

2. nel secondo step prendiamo in esame le molecole di solvente. Seppur nel solvente non vi sia una
struttura ordinata anche le molecole di solvente interagiscono tra loro, formano legami fra loro. Quindi
le molecole di solvente in un solvente interagiscono tra loro.
Il secondo step prevede il riarrangiamento delle molecole di solvente che devono formare una cavità,
cioè le molecole di solvente devono interagire con le molecole di soluto, si dovranno rompere dei
legami che sono presenti tra solvente-solvente per favorire la formazione di legami soluto-solvente.
Anche questo step consuma energia perché si rompono dei legami tra solvente-solvente (consuma un
po' meno energia perché i legami nel reticolo cristallino sono più forti rispetto ai legami che ci sono tra
le molecole di solvente). Anche in questo secondo step avremo una variazione di entalpia che sarà
quantificabile con *H2.

3. Nel terzo step, avremo delle molecole o ioni liberi del soluto, delle molecole del solvente che si sono
riarrangiate per formare una cavità e si formeranno delle interazioni soluto-solvente. Sono delle
interazioni intermolecolari, sono interazioni che si formano tra molecole e molecole, ma anche tra
molecole e ioni. Sono interazioni complessivamente deboli (non covalenti, sono sempre ad esempio
interazioni di Van der Waals, interazioni di tipo ionico, interazioni di tipo elettrostatico o interazioni di
tipo legame idrogeno).
Il livello di queste interazioni intermolecolari è alla base del paradigma “simile scioglie il simile”, è
proprio la natura e l’entità di queste forze intermolecolari che determina la similitudine chimica, quindi
tanto più due specie chimiche interagiscono tra loro e più sono chimicamente affini.

40
Quando abbiamo un processo che avviene con l’assorbimento di energia (come 1 e 2 step) allora la
variazione di entalpia è positiva, mentre la variazione di entalpia nel terzo step è negativa.

Legge di Hess - descrive il processo di dissoluzione


La freccia nera “enthalpy” ci dice che questo è il senso di variazione dell’entalpia.
Osserviamo il box “solid solute + solvent” significa che siamo alla prima fase del processo dissolutivo, ovvero
mettiamo in contatto il soluto allo stato solido con il solvente.
La freccia che va verso l’alto è una visione grafica di come variano le entalpie del processo:
 infatti la freccia di *H1 va verso l’alto e questo significa che c’è un aumento di entalpia
 poi abbiamo la freccia di *H2 che va verso l’alto quindi aumenta l’entalpia. In questa fase abbiamo
molecole o ioni liberi e abbiamo creato la cavità nel solvente perché si sono rotti dei legami
intermolecolari anche nel solvente
 la freccia rossa di *H3 va verso il basso ed indica una variazione di entalpia negativa. Questo è lo stato
di produzione della soluzione

ΔH -. = ΔH1 + ΔH2 + ΔH3


.
La variazione di entalpia dell’intero processo dissolutivo è uguale alla variazione di entalpia dello step 1 + la
variazione di entalpia dello step 2 + la variazione di entalpia dello step 3.
La freccia rossa più piccola ΔH -# viene chiamata net exothermic process, significa che in questa situazione la
variazione di entalpia complessiva del processo dissolutivo è NEGATIVA. Quindi è un processo di
solubilizzazione di tipo ESOTERMICO.

Questo tipo di situazione è termodinamicamente favorita, quindi il processo avviene spontaneamente

41
In questo caso:
 *H1 è una variazione positiva perché dobbiamo liberare ioni e molecole dal reticolo.
 *H2 è una variazione positiva
 *H3 è una variazione negativa, ma la freccia è più corta rispetto a quella di *H3 precedente

Quindi vuol dire che ΔH -. sarà maggiore di zero, sarà un valore positivo.
In questo caso il processo dissolutivo è un processo che avviene con assorbimento di energia, durante il
processo dissolutivo la temperatura si abbassa.

Quindi se un processo dissolutivo è un processo esotermico verrebbe da pensare che il processo è spontaneo
(e avviene), se abbiamo specie chimiche che danno origine ad un processo di dissoluzione endotermico allora
verrebbe da pensare che il processo dissolutivo non avvenga.

Se abbiamo un processo di solubilizzazione endotermico dobbiamo ritenere che non avvenga mai o potrebbe
avvenire? Come mai per alcune specie chimiche e per alcuni solventi pur essendo dei processi dissolutivi di tipo
endotermico (energeticamente sfavoriti) come mai il processo di fatto avvenga?

42
LEZIONE 9 (13/10/2021)
Nella lezione precedente abbiamo trattato il processo dissolutivo e come questo può essere descritto in
termini molecolari e termodinamici in 3 step. Ciascuno di questi step è caratterizzato da un valore misurabile di
entalpia (ΔH1, ΔH2, ΔH3). L’entalpia complessiva del processo di dissoluzione, poi, è la somma di questi 3
valori di entalpia relativi ai 3 singoli step. Il valore risultante da questa somma può essere NEGATIVO ( cioè
un processo che ha un valore netto di entalpia di dissoluzione negativo indica un processo esotermico) o
POSITIVO ( processo endotermico).

Come mai vi sono molte sostanze che, pur avendo valori di entalpia complessiva di dissoluzione di tipo
endotermico, possono avvenire? Questo può essere spiegato considerando che il processo di dissoluzione
NON è governato solamente da parametri di tipo endotermico o esotermico, ma il processo dissolutivo è
governato e descritto da una equazione: l’equazione che descrive l’energia libera di Gibbs.

L’intero processo dissolutivo, dunque, non è governato solo dall’entalpia (o ‘’termine energetico’’), ma anche
da un altro parametro: l’entropia (o ‘’termine statistico-probabilistico’’).

Se l’entalpia si identifica con la lettera H, e la Δ davanti


indica la variazione di entalpia durante la dissoluzione,
l’entropia si esprime con S, e la sua variazione con ‘‘ΔS’’.

Il valore di energia libera si esprime con la lettera G, e la sua variazione durante il processo dissolutivo è ΔG. Il
ΔG è un fattore che tiene conto sia dei fattori energetici entalpici che del fattore statistico-probabilistico di
tipo entropico.

L’equazione che esprime l’energia libera tiene conto sia di entalpia che di entropia, ed è la seguente:

ΔG = ΔH – T ΔS
La variazione di energia libera ci indica se il processo dissolutivo avviene o meno

 Quando il valore numerico di ΔG è negativo, questo indica che il processo di dissoluzione è spontaneo,
con direzione che va dai reagenti ai prodotti (cioè da soluto+ solvente soluzione).
 Un valore di ΔG positivo, invece, indica che il processo dissolutivo NON è spontaneo, ma sarà
spontaneo il processo inverso, ovvero la precipitazione* (o cristallizzazione). Dunque ΔG positivo
indica che sarà spontaneo solo il processo di precipitazione.

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*La differenza tra precipitazione e cristallizzazione è che il termine precipitazione è più generico,
dunque può essere utilizzato per solidi sia amorfi che cristallini, mentre il termine cristallizzazione è
specifico per i solidi ad organizzazione cristallina. Il soggetto sono sempre i solidi che prendono parte
alla soluzione, o meglio, le particelle di solido che, tramite questi processi di precipitazione/
cristallizzazione, si separano dalla soluzione.

Esempio se abbiamo un becker pieno di una soluzione, e vi cambiamo alcuni parametri (come la T),
induciamo la precipitazione, ovvero da una soluzione omogenea otteniamo la formazione di particelle
di solido, esattamente la reazione inversa rispetto alla dissoluzione.

Precipitazione= formazione di particelle di solido a partire da una soluzione:


- Se le particelle sono particelle generiche di cui non conosciamo la struttura, parliamo di
precipitazione;
- Se di queste particelle consociamo la struttura solida (come per NaCl, che è un solido cristallino),
possiamo usare il termine specifico di cristallizzazione, oltre che quello generico di precipitazione.

Tornando all’equazione:
 Se, invece, ΔG ha un valore pari a 0, questo indica che il processo di dissoluzione sarà all’equilibrio: ciò
significa che la velocità con cui avviene il processo di dissoluzione è uguale a quella del processo
inverso, ovvero di precipitazione.

Quindi, quando si parla di equilibrio, non si parla di una situazione statica, ma si parla di equilibrio tra le 2
velocità!

La quantità di solido che si dissolve è esattamente uguale alla quantità di molecole e ioni che di nuovo
diventano solide (ri-precipitano).

Proprio perché ΔG è numericamente collegato a ΔH e ΔS, il fatto che ΔG possa essere positivo, negativo o pari
a 0, dipenderà dai valori numerici di ΔS e ΔH.

o Nei processi esotermici, il valore di (T x ΔS) e ΔH saranno sicuramente negativi, dunque lo sarà anche
ΔG finale.

o Nei processi endotermici, il valore di ΔH è positivo, dunque capire se il processo di dissoluzione avviene
o meno, dipenderà soltanto da ΔS. Se il fattore entropico ΔS moltiplicato per la T assoluta è, di valore
numerico, superiore a ΔH, allora il processo, pur essendo endotermico, potrà avvenire
spontaneamente, poiché ci permette di ottenere un valore delta G negativo.

 la dicitura ‘’heat’’ a sx delle frecce


nell’equazione indica sempre che il
processo è endotermico. Se fosse stato a
sx delle frecce, avrebbe identificato un
processo esotermico.

44
La sostanza in esame è il nitrato di ammonio (ha un elevato valore di ΔH), identificato con la lettera (s) che ci
dice che è in forma solida. A destra dell’equazione, invece, la dicitura (aq) indica che è in soluzione acquosa. Il
processo dissolutivo, per il nitrato ammonico solido + acqua + calore (poiché il processo è endotermico), porta
alla formazione di una soluzione.

Il sale inorganico nitrato d’ammonio è usato commercialmente per il suo elevato valore di ΔH di dissoluzione,
in quanto il suo processo dissolutivo è fortemente endotermico questo implica che, durante il processo
dissolutivo (che è endotermico) l’acqua in cui si dissolve il nitrato ammonico varia di temperatura, in
particolare, si raffredderà fortemente. Questo perché il calore necessario al processo dissolutivo verrà sottratto
all’acqua in cui avviene il processo dissolutivo!

Grazie a questa proprietà del nitrato d’ammonio, cioè al fatto che causa il raffreddamento dell’acqua in cui
viene disciolto, col nitrato d’ammonio sono stati prodotti dei sistemi ‘’instant cold packs’’. Si tratta di sistemi
che permettono di avere un raffreddamento immediato delle zone su cui vengono applicati (tipicamente
utilizzati per trattare dei traumi nello sport, ad esempio, come distorsioni, strappi muscolari, in questo modo
portiamo ad un rallentamento dei processi antinfiammatori).

 Come funzionano questi ‘’instant cold packs’’?


Si tratta di 2 sacchetti, uno dentro l’altro: la parte esterna è di materiale plastico laminato e robusto, la
parte interna è un contenitore molto più sottile. Applicando una pressione sull’esterno, il sacchetto
interno si rompe. Nel sacchetto interno troviamo acqua e del nitrato ammonico. Esercitando una
pressione sul sacchetto esterno, viene rotto quello interno, quindi l’acqua e il nitrato d’ammonio
vengono a contatto, inizia il processo dissolutivo e all’acqua viene sottratto calore proprio per favorire
questa dissoluzione. Di conseguenza TUTTO IL PACCHETTO SI RAFFREDDA. (*dovrebbe trovarsi l’acqua
a livello del sacchetto esterno e il nitrato ammonico a livello del sacchetto interno)

Se considerassimo solamente il valore dell’entalpia, verrebbe da pensare che questo processo dissolutivo non
possa avvenire, ma in realtà avviene. Esistono infatti delle tabelle di dati termodinamici in cui si possono
trovare tabulati i valori di entalpia ed entropia del processo dissolutivo di molte sostanze.

 da questi dati
termodinamici:

 il valore di entalpia ΔH del processo dissolutivo risulta fortemente positivo, pari a +25.7kJ.
 Il valore di entropia ΔS, invece, è di +108 J/K o, in termini di kJ, è di 0.1087 kJ/ K, dove K rappresenta la
temperatura assoluta in gradi Kelvin. In particolar modo, la temperatura presa in esame nel calcolo è
pari a 298 °K, cioè la T ambiente (=25°C).
 Alla fine, la ΔG, ovvero il calcolo dell’energia libera di Gibbs è pari a ΔH – (ΔS x T) = -6.7kJ
Il fatto che la ΔG sia negativa indica che il processo, pur avendo un elevato valore di entalpia, è
spontaneo! Questo perché l’entropia supera l’entalpia, rendendo il processo spontaneo. Questo tipo di
processi, sebbene siano fortemente endotermici, si dice siano ‘’product-favored’’, ovvero favoriti dalla
formazione dei prodotti.

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La temperatura del liquido in cui avviene il processo di dissoluzione ha notevole importanza nell’influire sul
processo dissolutivo, ma non è l’unico parametro che governa la solubilità. I parametri che governano il
processo di dissoluzione e la solubilità sono:

1- TEMPERATURA
2- STRUTTURA MOLECOLARE DEL SOLUTO
3- CARATTERISTICHE DEL CRISTALLO (se si tratta di una sostanza cristallina)
4- IL TIPO DI SOLVENTE (o dei solventi in miscela)
5- LE DIMENSIONI DEL SOLIDO (cioè delle particelle di solido preso in esame)
6- IL PH (del solvente utilizzato).

1. LA TEMPERATURA

La temperatura, se variata, varia il valore di energia libera di Gibbs (poiché presente nell’equazione vista
prima). Dunque la T può far variare totalmente la ΔG, ovvero può farla diventare positiva o negativa.

Come la Temperatura influenza la solubilità? In diversi modi che sono descritti dalle ‘’curve di solubilità’’,
mostrate nei grafici sopra.
46
Prendendo in esame il grafico a dx, si studia l’effetto della T sulla solubilità (in cui il solvente è l’acqua).

- Sull’asse delle x troviamo la temperatura, il cui range di valori va da 0 a 100 gradi centigradi (=range in
cui l’acqua è allo stato liquido).
- Sull’asse delle y invece abbiamo la solubilità, qui espressa in termini di peso/peso, ovvero g di soluto/
100g di acqua.

Differenti sostanze, si nota dal grafico, hanno differenti andamenti dal punto di vista della solubilità in funzione
della temperatura.

o Alcune sostanze, come ad esempio i Sali inorganici contenenti come anione l’anione nitrato (ex: il
nitrato di sodio NaNO3 oppure il nitrato di potassio KNO3) sono caratterizzati da un aumento della
solubilità in funzione della temperatura: la solubilità aumenta quando aumenta la T. Questo implica
che si tratti di processi di dissoluzione di tipo ENDOTERMICO.
o Altre sostanze, invece, si nota che presentano l’effetto contrario: è il caso di alcuni Sali di calcio, o
sostanze contenenti ioni bivalenti. Queste presentano una solubilità che diminuisce all’aumentare della
T.
o Infine, vi sono altre sostanze ancora, come il cloruro di sodio, che presentano piccole variazioni di
solubilità al variare della T.

NB: La maggior parte delle sostanze per uso farmaceutico hanno in genere
andamenti simili a quelli dei Sali contenenti nitrati: la solubilità aumenta
all’aumentare della temperatura. Infatti è una pratica di laboratorio comune
che, quando si vuole facilitare il processo dissolutivo, si effettui un blando
riscaldamento.

2. STRUTTURA MOLECOLARE DEL SOLUTO

Come ci aspettiamo, la struttura molecolare del soluto influenza la solubilità e il processo dissolutivo, dal
momento che ‘’il simile scioglie il simile’’. Come abbiamo visto nel terzo step del processo dissolutivo, infatti,
dal momento che si devono creare delle interazioni intermolecolari tra soluto e solvente, la struttura
molecolare del soluto è di fondamentale importanza!

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Proprio perché la struttura molecolare del soluto influenza il processo dissolutivo, sono stati sviluppati
algoritmi e procedure matematico-modellistiche che permettono di ottenere predizioni sulla solubilità.
Permettono, cioè, di studiare come la struttura molecolare influenzi la solubilità di una sostanza.

Nella tabella viene esplicato questo concetto in questa prima tabella sono state prese in esame una serie di
sostanze chimicamente simili, ossia alcoli a corta o media catena idrocarburica. Vediamo come questi composti
chimici presentino differenti gradi di solubilità, e perché.

Nella seconda colonna è nota la solubilità, che viene espressa in mol (soluto)/ kg (solvente) (acqua). È visibile
come la solubilità diminuisca progressivamente tra i composti, dal momento che varia la struttura molecolare
tra gli stessi composti. Ad esempio, dal 1-butanolo al 1-nonanolo, quel che cambia è il numero di atomi di C,
ovvero cambia la lunghezza della catena idrocarburica (e di conseguenza cambia la dimensione della molecola).

Perché, al variare della lunghezza della catena idrocarburica, varia anche la solubilità? In termini di interazioni
soluto-solvente, considerando che ‘’il simile scioglie il simile’’, e sapendo che l’acqua è polare e la catena
idrocarburica è apolare, all’aumentare della lunghezza di una catena idrocarburica, la solubilità diminuisce!
Questo è confermato dai valori in tabella: scendendo dal butanolo al nonanolo, la solubilità diminuisce sempre
più. Questo conferma la tesi per cui la struttura molecolare del soluto influenza la solubilità, in quanto questa
struttura modifica le interazioni intermolecolari soluto-solvente.

Pur essendo i composti presi in considerazione tutti alcoli primari, anche una piccola variazione nel numero di
atomi di C, influenza le interazioni inter-molecolari soluto-solvente, dunque la solubilità!

Si possono usare dei parametri predittivi della solubilità, ad esempio il punto di ebollizione: tutti questi alcoli
hanno punti di ebollizione relativamente bassi, e questi vanno progressivamente aumentando dal butanolo al
nonanolo. All’aumentare del punto di ebollizione, diminuisce la solubilità. Questo perché, se aumentano le
interazioni inter-molecolari tra molecole di soluto (per esempio nelle catene idrocarburiche più lunghe), sarà
più difficile per il solvente rimpiazzare queste interazioni, per ottenere le interazioni intermolecolari soluto-
solvente! Le forze intermolecolari tra molecole del soluto saranno difficili da rompere, dunque aumenta il
punto di ebollizione.

In modo del tutto analogo, nella seguente tabella si prende in considerazione la solubilità sempre di alcoli.
Questa tabella mostra una serie di 7 differenti alcoli la cui struttura molecolare varia apparentemente molto
poco.

Gli alcoli sono caratterizzati dall’avere un gruppo polare –OH che può interagire positivamente con l’acqua,
formando legami a H. Non solo tutte hanno il medesimo gruppo funzionale OH, ma hanno anche tutte lo stesso
numero di atomi di C (5). Quel che cambia è la disposizione spaziale, cioè la stereochimica, di questi alcoli:
alcuni solo alcoli primari, altri secondari e altri terziari. Cambia anche il tipo di catena idrocarburica: lineare,
ramificata con sostituenti ecc. Questa differente organizzazione tridimensionale della catena idrocarburica
modifica la struttura molecolare del soluto, di conseguenza cambia la solubilità  Cambiando la stereochimica
della catena idrocarburica, cambia la possibilità della stessa di formare legami intermolecolari soluto-soluto,
dunque cambia la sua interazione con l’acqua: la solubilità aumenta al diminuire dell’area superficiale della
molecola. All’aumentare dell’area superficiale di una molecola, aumenta il numero di legami tra le molecole
che formano lo stesso soluto, di conseguenza aumenterà anche il punto di ebollizione.

 Ad esempio, il normal-pentanolo (catena lineare, è un alcol primario) ha una vasta area superficiale, ha
il punto di ebollizione più elevato, e una bassa solubilità. Il fatto che il punto di ebollizione sia più
elevato vuol dire che abbiamo una maggiore formazione di legami intermolecolari, quindi la catena
lineare favorisce l’interazione tra il pentanolo e pentanolo, ciò sfavorisce le interazioni pentanolo-
acqua.
Una temperatura di ebollizione elevata significa che vi sono maggiori forze intermolecolari tra soluto-
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soluto e questo sfavorisce il processo dissolutivo.

 Il 2-metil-2-butanolo (alcol terziario), invece, con una minore area superficiale di interazione, ha un
minore punto di ebollizione ma una maggiore solubilità in acqua.

La stessa considerazione si può fare per molecole dimensionalmente più grandi:

In questa slide, anziché le temperature di ebollizione dei liquidi (alcoli), viene preso in considerazione il punto
di fusione dei solidi analizzati.

Nella slide è rappresentato un sulfamidico, in cui il gruppo –R è quello che, se variato, modifica le
caratteristiche della molecola, mentre la restante parte della molecola è quella che non può essere variata, in
quanto è la porzione farmacofora, ovvero quella che possiede le proprietà antibatteriche. Variando –R, invece,
varia la struttura molecolare, dunque varia la biodisponibilità, la farmacocinetica, il punto di fusione  varia la
solubilità.

Dunque il punto di fusione può essere considerato un parametro guida per determinare un ordine di solubilità
tra composti simili:

 La sulfadiazina ha, ad esempio, il punto di fusione più alto, dunque una minore solubilità (0,07g/dm3),
rispetto al sulfatiazolo che invece ha un minore punto di fusione, ma una solubilità maggiore
(0,59g/dm3).
49
Questa
classificazione dei
sostituenti in
termini di
idrofilia/idrofobia
fa sempre
riferimento all’uso
di acqua come
solvente!

Parlando sempre della struttura molecolare del soluto, analizziamo la tabella sulla sinistra. Questa ci informa
sulla classificazione dei gruppi sostituenti più comunemente presenti nei farmaci a basso peso molecolare,
ovvero nelle sostanze organiche. Questa tabella ci permette di associare ogni gruppo funzionale a
caratteristiche di idrofilia o di idrofobia.

NB: I principi attivi contenuti nei medicinali possono essere classificati sulla base di diversi criteri, tra i
quali rientrano ad esempio le dimensioni molecolari e i metodi con cui i principi attivi vengono prodotti:

 PHARMACEUTICS si tratta di principi attivi a basso peso molecolare. Sono quasi sempre
piccole molecole organiche, prodotte per via chimico-sintetica (sono dei prodotti ottenuti per
sintesi chimica e sono prodotti in ‘’reattori’’). Il termine ‘’piccolo’’ fa riferimento al basso peso
molecolare, corrispondente in genere a un centinaio di Dalton (quasi sempre il peso molecolare è
< 1000 Dalton).

 BIOLOGICS si tratta di principi attivi che sono quasi sempre delle macromolecole (=ad alto
peso molecolare, da 10mila a 100mila Dalton). Sono quasi sempre delle strutture proteiche o
qualche volta anche degli acidi nucleici (cioè di natura polimerica). Sono, inoltre, prodotti
ottenuti tramite tecnologie biotecnologiche, con dei bioreattori.

Tornando alla tabella, questa fa riferimento ai PHARMACEUTICS, dunque sostanze a basso peso molecolare, in
cui molto spesso si trovano gruppi aromatici o eteroaromatici. Questi anelli aromatici possono essere
variamente sostituiti. In base alla natura chimica dei sostituenti, si possono avere indicazioni sulla solubilità.

Nella tabella sono descritti i principali gruppi sostituenti che si trovano nei Pharmaceutics, classificati in termini
di polarità (o idrofilia) o di apolarità (o idrofobia/ lipofilia)  la polarità dipende dalla elettronegatività degli
atomi presenti all’interno dei gruppi.

 I gruppi funzionali apolari sono quelli idrofobici. Esempi sono il metile, l’etile, gli alogeni, le ammine, i
tioeteri (SCH3). La presenza, dunque, di un sostituente idrofobico e apolare in una molecola di
Pharmaceutics (come i metili) farà diminuire la solubilità di quella stessa molecola in acqua.
La polarità dipende dell’elettronegatività degli atomi che sono presenti nei gruppi funzionali.

 I gruppi funzionali polari, invece, soprattutto i protici, sono quelli idrofili, ovvero che creano interazioni
col solvente acqua. La presenza di sostituenti polari e idrofili in una molecola, aumenterà la sua
solubilità in acqua.

50
LEZIONE 10 (14/10/2021)
Abbiamo parlato dei parametri che influenzano la solubilità di una molecola

3. STRUTTURA CRISTALLINA
La grande maggioranza dei principi attivi sono dei solidi cristallini. I cristalli di una sostanza allo stato solido
hanno la caratteristica di presentare un elevato ordine posizionale, significa che gli atomi o le molecole in una
struttura cristallina hanno un posizionamento ordinato nel reticolo cristallino.
I reticoli cristallini si diversificano per la struttura della cella unitaria o cella primitiva. Ogni farmaco cristallino
sarà caratterizzato da avere una sua propria cella unitaria, però queste celle unitarie sono limitate ad un certo
numero, infatti tutte le sostanze in natura quando cristallizzano presentano un numero limitato di celle
unitarie. Ciascuna sostanza si troverà allo stato solido con una particolare forma cristallina.

A seconda della struttura della cella unitaria le sostanze presenteranno una diversa solubilità, ovvero la
solubilità è influenzata dalla struttura del reticolo cristallino di una specifica sostanza.

Le celle unitarie che possono essere associate a tutte le varie sostanze sono un numero limitato, in particolare
sono 14. Tutte le sostanze presenti in natura e anche quelle sintetiche quando cristallizzano assumono una di
queste 14 strutture.
Queste 14 diverse strutture si chiamano Bravais lattices (reticoli di Bravais). Bravais è un cristallografo
matematico che ha per la prima volta studiato queste diverse possibilità di struttura cristallina.

A seconda che una sostanza cristallizzi con una o l’altra forma cristallina influenza la solubilità.

Queste strutture cristalline fanno riferimento alla cella unitaria, quindi parliamo di dimensioni estremamente
piccole (strutture nanometriche).
La cella unitaria assunta da ciascuna sostanza non è l’uno parametro cristallografico che ci interessa, perché
pur mantenendo ogni sostanza la sua tipica cella cristallina, abbiamo un secondo parametro che si chiama
abito cristallino, ovvero la forma macroscopica delle particelle cristalline.

Per farci capire lo zucchero da cucina (saccarosio) è una struttura cristallina, quindi ha la sua cella unitaria.
Tutto il saccarosio cristallizza con la medesima cella unitaria, però i cristalli intesi come particelle di polvere non
sono tutti uguali. Quindi a livello macroscopico la forma e le dimensioni del cristallo (particella di polvere) si
chiamano abito cristallino.

La cella unitaria non cambia, ma cambia la morfologia macroscopica delle particelle di polvere (abito
cristallino)

Una sostanza può cristallizzare con diverse forme (abito cristallino), cambiano le dimensioni e la forma
macroscopica.
La cella unitaria è influenza dalla struttura molecolare della sostanza in esame. Mentre l’abito cristallino non
dipende dalla struttura molecolare, ma è influenzato dalle condizioni in cui si ottiene il cristallo.

Qual è la reazione che ci permette di ottenere i cristalli? La reazione di cristallizzazione (è la reazione inversa
rispetto alla reazione di solubilizzazione). Cambiando le condizioni di cristallizzazione cambia la forma
macroscopica (abito cristallino).

A seconda delle condizioni di precipitazione (la reazione di precipitazione può essere indotta ad esempio
cambiando la temperatura, cambiando la velocità con cui abbassiamo la temperatura) cambiamo la forma
macroscopica.

51
Ad esempio tra le 14 celle unitarie possiamo avere la forma esagonale (sempre uguale). Però cambiando le
condizioni di cristallizzazione otterremo 3 diversi abiti cristallini, perché cambiano ad esempio le dimensioni
delle facce del cristallo macroscopico, abbiamo:
 forme tabulari (hanno una forma appiattita)
 forme prismatiche (altezza e il diametro della particella sono più o meno le medesime)
 forme aciculari o aghiformi (hanno una forma di ago).

Una delle forme farmaceutiche solide più usate sono le compresse. Le compresse da quale materia prima si
produrranno? Si ottengono per compressione di polveri.

L’abito cristallino non solo influenza la solubilità ma influenza anche altri parametri tra cui la scorrevolezza
della polvere. Inoltre influenza la filtrabilità, in generale possiamo dire che l’abito influenza i parametri
tecnologici delle polveri.

Parlando dello zucchero possiamo dire che ha colori diversi e questo dipende da altre sostanze presenti. La
presenza di un colore è indice che è avvenuta una reazione chimica (ad esempio in laboratorio). Il colore di una
sostanza dipende dalla presenza o meno di cromofori (portatore di colore). I gruppi funzionali che determinano
un colore (i gruppi funzionali che potrebbero essere cromofori) sono quelli con i doppi legami coniugati e le
strutture aromatiche (anche queste coniugate). Se la molecola di saccarosio non ha queste caratteristiche
molecolari non può assorbire lo spettro, perché non ha le caratteristiche elettroniche e quindi vorrà dire che ci
saranno delle altre sostanze che impartiscono la colorazione.

Quando abbiamo un solido/liquido colorato allora la colorazione è impartita da qualche sostanza che è
presente. Nello specifico nelle polveri di principio attivo, che stiamo utilizzando per preparare delle soluzioni,
se osserviamo che un prodotto che teoricamente dovrebbe essere incolore presenta una colorazione allora
vuol dire che ci sono altre sostanze presenti.
Queste sostanze che possono essere presenti ed impartiscono un colore vengono denominate in modo diverso.
La presenza di queste sostanze può avere un duplice tipo di considerazione, ciò significa che all’interno di una
polvere possono essere presenti delle sostanze che hanno finalità diverse ovvero possiamo avere sostanze che
sono definite impurità, altre definite contaminanti e altre dopanti.

Impurità o impurezza è un termine generico, sappiamo che ci sono sostanze estranee ma non sappiamo se
abbiano un effetto positivo (benefico, migliorativo) oppure negativo.

Contaminanti indica che la presenza di queste sostanze ha degli effetti negativi che vanno a peggiorare le
prestazioni di una determinata sostanza.

Dopanti queste sostanze sono state deliberatamente aggiunte allo scopo di migliorare le prestazioni del
prodotto che stiamo utilizzando.

Il doping nel mondo della tecnologia farmaceutica non ha la connotazione negativa che ha nel mondo dello
sport.

Sia che siano presenti delle sostanze come impurità, come contaminanti o come dopanti, viene modificata la
solubilità. Infatti sappiamo che per determinare la solubilità dobbiamo usare il più alto livello possibile di
purezza di soluto e del solvente. Anche piccole quantità di dopanti possono essere aggiunte durante la fase di
cristallizzazione utilizzando specifici dopanti possiamo influenzare l’abito cristallino, si può favorire la
formazione di cristalli tabulari piuttosto che aghiformi e quindi queste aggiunte influenzano le proprietà
tecnologiche.

52
Solvatazione
Questo termine è un termine generico perché la solvatazione fa riferimento a tutti i possibili solventi che
utilizziamo. La solvatazione è un termine che indica il grado di interazione tra soluto e solvente. Un’elevata
solvatazione vuol dire che soluto e solvente interagiscono tra loro attraverso interazioni intramolecolare,
questo vuol dire che hanno un’elevata similitudine chimica.
La solvatazione è un indice del grado di interazione tra soluto e solvente. Quando il solvente è l’acqua il
termine solvatazione verrà sostituito dal termine idratazione. Il grado di idratazione misura il grado di
interazione tra il farmaco e l’acqua.

Per le sostanze fortemente polari (idrofile se parliamo di acqua, con gruppi funzionali protici) il grado di
idratazione sarà molto alto. Quando abbiamo queste sostanze molto idrofile che vengono fatte cristallizzare (le
vogliamo in forma solida perché sono più facili da maneggiare e trasportare), allora si può verificare un
fenomeno che se non è controllato è estremamente pericoloso da un punto di vista tecnologico, questo
fenomeno è l’idratazione e la presenza di molecole chiamate molecole di acqua di cristallizzazione.
Ciò significa che quando queste sostanze molto idrofile vengono cristallizzate allora alcune molecole di acqua
che sono fortemente legate alla molecola (interazioni intramolecolari molto forti, ad esempio molti legami H)
possono durante la fase di formazione del cristallo essere intrappolate nel reticolo cristallino. Si generano dei
solidi che contengono acqua di cristallizzazione.

Sull’etichetta di molte sostanze solide si legge x2 H2O (oppure x3, x4, x5…) che indica le molecole di acqua di
cristallizzazione (molecole d’acqua presenti nel reticolo cristallino). In alcuni casi alcune sostanze possono
cristallizzare con un diverso numero di molecole di acqua di cristallizzazione. Nel caso in cui la cristallizzazione
sia controllata e avvenga senza avere molecole di acqua di cristallizzazione allora il prodotto viene definito
prodotto anidro.

L’immagine mostra un prodotto medicinale che ha una forma farmaceutica liquida che si chiama sospensione e
presenta un misurino (nel contenitore secondario) che serve per prelevare una dose che rappresenta un’unità
posologica (quantità di medicinale che deve essere assunta). Spesso i misurini hanno delle graduazioni. Il
principio attivo contenuto in questo medicinale è un antibiotico che è l’ampicillina, è il tipico caso di principio
attivo che può cristallizzare in forme di idratazione diverse. L’aspetto del liquido nel misurino può essere
definito come lattescente perché ci sarà un eccesso di particelle.

Il grafico è un grafico farmacocinetico. Nel grafico ci sono due curve, una curva è relativa alla forma anidra e
l’altra alla forma triidrata (è stata utilizzata la molecola con 3 molecole di acqua di cristallizzazione). Le curve
sono diverse quindi la solubilità è diversa. Contrariamente a quando si possa pensare le forme anidre sono più
solubili di quelle idrate e infatti vediamo che la forma anidra ha un profilo farmacocinetico maggiore (ha un
AUC, ossia l’area sotto la curva, maggiore).

Ci possono essere altri solventi che possono essere inclusi nel reticolo cristallino, ad esempio ci può essere
l’etanolo di cristallizzazione.

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Ogni sostanza cristallizza sempre con il medesimo tipo di cella unitaria Nel maggior numero dei principi attivi
l’affermazione è vera, però in alcuni casi alcune sostanze hanno un comportamento che si discosta da questa
situazione, significa che in alcune sostanze in funzione della procedura di cristallizzazione non solo cambia
l’abito ma cambia anche il tipo di cella unitaria. Alcune sostanze hanno più celle unitarie (non in
contemporanea, a seconda delle condizioni possono cristallizzare o con una cella oppure con un’altra).
Questo dipende dal fatto che alcune sostanze hanno dei livelli conformazionali energeticamente simili
(conformeri simili) e quindi possono cristallizzare con una forma o con un’altra e daranno origine a celle
unitarie diverse. Queste diverse celle unitarie daranno origine a dei solidi cristallini diversi, con proprietà
diverse.
Il fenomeno legato al fatto che alcune sostanze cristallizzano con celle unitarie diverse prende il nome di
POLIMORFIRSMO. Ogni cella unitaria diversa prende il nome di polimorfo. I diversi polimorfi vengono indicati
in maniera diversa, a volte con le lettere greche oppure con i numeri romani o arabi.

Un esempio  è una sostanza che ha la caratteristica di formare dei polimorfi che è lo spironolattone, è una
molecola che ha proprietà antimicotiche (antifungino). La forma 1 e la forma 2 sono delle immagini
cristallografiche, grazie agli studi cristallografici è possibile determinare la conformazione della molecola. A
seconda della conformazione molecolare si formeranno delle forme diverse.

Anche il cloramfenicolo dà polimorfismo ed avremo una forma A e una B. Nel grafico abbiamo sull’asse delle y il
livello serico (concentrazione del principio attivo nel sangue) e sull’asse delle x il tempo.
I profili della curvaquello in alto è il profilo farmacocinetico che è risultante dalla somministrazione del
polimorfo B che è molto più solubile del polimorfo A ed infatti ha un profilo con AUC maggiore.
La curva più in basso è la curva A che ha un AUC molto minore.
Tra queste due curve c’è una curva intermedia che si ottiene dalla somministrazione di 50% di forma A e 50% di
forma B, la quantità totale somministrata non cambia.

Il polimorfismo influenza la solubilità, l’assorbimento e le prestazioni.


Possiamo sfruttare in modo positivo questo tipo di fenomeno, cioè utilizzando le opportune proporzioni tra la
forma A e la forma B possiamo variare la farmacocinetica. Possiamo avere un assorbimento rapido o uno lento
a seconda delle necessità terapeutiche.

Nella tabella in figura sono indicati altri principi attivi, tra cui:
 Gli steroidi sono sostanze che hanno diverse proprietà, tra gli steroidi troviamo sostanze che sono degli
ormoni sessuali come l’estradiolo e il testosterone. Le sostanze che hanno una natura steroidea spesso
presentano il fenomeno del polimorfismo.

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Altri risvolti legati al polimorfismo Il fenomeno del polimorfismo è dovuto al fatto che la molecola che dà
origine al fenomeno del polimorfismo presenta dei conformeri con livelli energetici vicini, uno di questi
conformeri sarà più stabile degli altri. In pratica i polimorfi meno stabili sono dette strutture metastabili, cioè
con il tempo e in particolari condizioni un polimorfo meno stabile può convertirsi nella forma più stabile.
Questo fenomeno della conversione ha un’importanza relativamente alla solubilità, alla biodisponibilità e alla
farmacocinetica, ma anche dal punto di vista tecnologico. Possiamo avere delle trasformazioni della struttura
della polvere (cambia l’abito cristallino) questo è importante perché questo fenomeno si può verificare anche
in sospensioni.

Se in una sospensione abbiamo delle particelle di una sostanza che dà origine al fenomeno del polimorfismo,
cosa può succedere? Quelle nell’immagine sono delle microfotografie ottenuto con il microscopio ottico.
Vediamo in particolare delle particelle di polvere, delle particelle in sospensione di paracetamolo che presenta
il fenomeno del polimorfismo. Il paracetamolo può cristallizzare con una forma cristallina chiamata
ortorumbica (non ci interessa), questa è una delle possibili celle unitarie. Quando cristallizza secondo questa
tipologia di cella unitaria tende a formare dei needles (strutture aciculari). Il secondo polimorfo cristallizza con
un’altra forma che è la monoclina (l’abito cristallino è diverso) (non gli interessano questi nomi).
La seconda forma polimorfica è più stabile della prima e quindi con il tempo la forma aciculare tende a
trasformarsi nella forma prismatica o tabulare. Grazie a questo cambiano le proprietà delle sospensioni, ad
esempio cambia la filtrabilità e la solubilità della formulazione.

Il polimorfismo non è importante solo per i principi attivi, ma è importante anche per gli eccipienti. Ad
esempio, il burro di cacao che è un trigliceride che si estrae dalla pianta di cacao. Il burro di cacao ha
caratteristiche polimorfiche. Il polimorfismo influenza le proprietà chimico-fisiche e quindi i vari polimorfi del
burro di cacao hanno diversi punti di fusione. Il burro di cacao è stato storicamente utilizzato perché uno dei
polimorfi presenta una temperatura di fusione che è di qualche grado più bassa della temperatura corporea.
Con questo tipo di eccipienti si fanno e si facevano le supposte che sono delle forme farmaceutiche solide. Nel
momento in cui vengono somministrate se l’eccipiente è il burro di cacao allora il prodotto si fonde e si libera il
principio attivo, ma se il burro di cacao non è stato opportunamente lavorato e selezionato allora può
presentare delle forme polimorfiche diverse che non hanno il punto di fusione adatto alla somministrazione.

LEZIONE 11 (18/10/2021)
Analizzando i parametri che influenzano la solubilità dei principi attivi, in particolare dei solidi, abbiamo
trattato lo stato cristallino del solido (celle unitarie, abito cristallino, polimorfismo), stato cristallino
caratteristico dei principi attivi ad uso farmaceutico.

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Proseguiamo questa trattazione analizzando un altro aspetto, che fa riferimento al TIPO di solido cristallino
utilizzato: la tipologia di Sali che si usano per utilizzare i principi attivi.

I principi attivi per uso farmaceutico sono molto spesso caratterizzati da avere delle funzionalità di tipo acido o
basico interne alla molecola. Tipicamente le funzionalità acide sono rappresentate da gruppi carbossilici,
mentre quelle basiche da gruppi amminici.

Ad esempio, la molecola rappresentata in figura è una molecola organica ad attività farmacologica (ovvero un
principio attivo): la tetraciclina. La molecola in questione contiene un gruppo amminico che può essere o può
non essere nella forma salificata (cioè ionica). Così come è scritto in figura è nella forma NON salificata, cioè
non ionica. Dunque quando una molecola presenta dei gruppi basici (come il gruppo amminico), questa può
trovarsi sia nella forma salificata sia in quella non salificata.

o Nel caso specifico dei gruppi amminici, quando il farmaco è usato nella forma NON salificata, come in
questo caso, si aggiunge al nome del principio attivo il termine ‘’BASE’’. Dunque la dicitura ‘’tetraciclina
base’’ indica che la tetraciclina è nella forma NON salificata.

o La stessa tetraciclina, però, può trovarsi in forma salificata (ovvero con questo gruppo carico, cioè
protonato), e il suo nome dipenderà dal controione, ovvero dal tipo di acido utilizzato per salificare la
tetraciclina.

a) Il termine ‘’forma BASE’’ è specifico al fatto che il composto sia


una base, e nella forma NON salificata.
b) Se si tratta invece di un acido nella forma NON salificata, si usa il
termine ‘’forma ACIDA’’ o ‘’acido libero’’.

Esistono ovviamente anche farmaci con funzionalità acida, come quelli che presentano un –COOH. Anche in
questo caso, dunque, potremo avere le 2 forme (salificata e non salificata), il cui nome sarà:
- Forma ‘’acida’’ se non salificata, cioè non dissociata;
- Un nome che dipenderà dalla natura del controione, nel caso della forma salificata.

Il fatto che un principio attivo si trovi nella forma salificata o nella forma non salificata può avere degli effetti
sulla solubilità?
Sì, dal momento che la natura del principio attivo altera le interazioni del principio attivo stesso col solvente
acqua. Nel caso della tetraciclina, ad esempio, la forma salificata è quella che interagisce meglio con l’acqua, in
56
quanto la molecola salificata, essendo più polare, è più idrofila. I gruppi funzionali ionizzati risultano, infatti,
molto più idrofili dei corrispondenti gruppi funzionali NON ionizzati.

NB: Aumentando le caratteristiche di idrofilia (dunque di polarità) di una molecola,


questa risulterà più solubile in un solvente idrofilo e polare come l’acqua.
I gruppi funzionali ionizzati sono molto più idrofili dei corrispettivi non ionizzati.

In questa tabella si legge che la tetraciclina BASE ha una solubilità molto minore in acqua delle corrispondenti
tetracicline salificate. Sono riportati 2 esempi di tetracicline salificate: la tetraciclina idrocloride e la tetraciclina
fosfato.

- Nella prima, il termine ‘’idrocloride’’ indica che la tetraciclina salificata sarà ottenuta tramite HCl (acido
cloridrico).
- La tetraciclina fosfato, invece, è stata ottenuta salificando la tetraciclina con acido fosforico.

NB: effetto del tipo di controione sulla forma salificata le molecole


salificate con acido fosforico tendono ad essere molto più solubili di
quelle ottenute tramite salificazione con acido cloridrico.

Variando il tipo di controione utilizzato per ottenere la forma salificata, quindi, varia anche la solubilità.

Il tipo di controione (=tipo di sostanza usata per salificare la molecola di principio attivo) può avere ulteriori
effetti positivi o negativi sulla solubilità.

L’antibiotico eritromicina, ad esempio, è una sostanza basica. L’eritromicina BASE (forma NON salificata) ha
una solubilità di 2.1mg/mL. In tabella l’eritromicina è stata salificata con 2 acidi organici: l’eritromicina estolato
(forma salificata) è ottenuta salificando l’eritromicina in forma basica con acido estolico; l’eritromicina stearato,
invece, è ottenuta tramite salificazione con acido stearico.

 L’acido estolico è un acido organico caratterizzato da una lunga catena idrocarburica + parte acida,
rappresentata da un gruppo solfato. Il fatto che l’acido estolico ha una lunga catena idrocarburica,
rende la molecola meno polare, dunque meno solubile in acqua. Salificando l’eritromicina con acido
estolico, quindi, otterremo la forma salificata dell’eritromicina, l’eritromicina estolato, la cui solubilità
sarà piuttosto bassa.

 L’acido stearico è un ‘’acido grasso’’ (è un acido carbossilico), caratterizzato dall’avere un gruppo


carbossilico e complessivamente 18 atomi di C (è quindi un acido grasso a lunga catena carboniosa).
Anche in questo caso, essendo un composto apolare, la solubilità dell’eritromicina stearato sarà molto
bassa.

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Il medesimo principio attivo, l’eritromicina, può essere salificato anche con altri acidi organici:
 Ad esempio l’eritromicina lactobionato, ossia la forma salificata con l’acido lactobionico è un acido
carbossilico con una rilevante porzione idrofila, in quanto presenta 9 gruppi –OH (molto polari, quindi
formano molte interazioni a H con l’acqua). L’acido lactobionico, essendo un acido fortemente idrofilo,
porterà, tramite salificazione, ad ottenere l’eritromicina lactobionato (forma salificata) che sarà
estremamente solubile in acqua!

La solubilità altera la farmacocinetica, ad esempio variando la durata del tempo di assorbimento del principio
attivo, dunque la durata dell’effetto farmacologico (più o meno prolungato nel tempo).

Variando le caratteristiche del controione abbiamo una diversa solubilità, una diversa biodisponibilità e
farmacocinetica.

4. TIPO DI SOLVENTE
Mentre finora abbiamo analizzato il soluto e le caratteristiche che ne influenzano la solubilità, ora invece
trattiamo il solvente e le eventuali sostanze contenute in questo. Il tipo di solvente ha un effetto importante
sulla solubilità difatti, bisogna sempre esprimere quale solvente è stato usato per testare la solubilità di un
soluto.
Quando si omette il
tipo di solvente,
questo è sempre
l’acqua!

Fenobarbital = molecola
poco polare, quindi
poco solubile in acqua

Nella tecnologia farmaceutica, durante i test della solubilità, si usano molto spesso, anziché solventi puri, delle
MISCELE DI SOLVENTI. Questo perché, regolando le caratteristiche di polarità del solvente, si può modificare la
solubilità del principio attivo, cioè del soluto. Questo è molto importante soprattutto per quei principi attivi
poco solubili (in acqua).

Nella slide, il farmaco preso in esame fa parte della famiglia dei barbiturici: si tratta di una famiglia di farmaci
ad ampia attività, soprattutto a livello del SNC. Tra i barbiturici, quello che consideriamo come esempio è il
fenobarbital (molecola in figura), poco solubile in acqua. Essendo poco solubile in acqua, anziché usare come
solvente la sola acqua, si possono usare delle miscele di solventi. Per determinare l’effetto di vari solventi si
usano dei grafici di solubilità.

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Sono state utilizzate, nell’esame, 3 miscele binarie di solventi. Una miscela binaria è una miscela di solventi
costituita da 2 tipologie di solventi (ex: miscela binaria di etanolo in glicerolo; miscela binaria di etanolo in
acqua; miscela binaria di glicerolo in acqua). Quindi la solubilità del fenobarbital, in questo grafico, è stata
testata su queste 3 miscele binarie.

 Sull’asse delle y abbiamo la solubilità del fenobarbital, qui espressa in % p/V (peso di soluto su volume
di acqua).
 Sull’asse delle x troviamo la composizione percentuale: esprime la % dei 2 solventi, perché le tre curve
rappresentate sono state ottenute usando 3 miscele costituite da 2 solventi (miscele binarie di
solventi). In particolare si è testata la solubilità del fenobarbital in miscele binarie costituite da etanolo
in glicerolo, miscele di solventi costituite da etanolo-acqua e miscele di solventi costituite da glicerolo-
acqua. Ad esempio, sulla curva etanolo-glicerolo, il punto 20 indica che la miscela binaria sarà costituita
dal 20% di etanolo e 80% di glicerolo.

Da questo grafico possiamo dedurre che, nel caso di un farmaco poco solubile in acqua come il fenobarbital,
usando dei solventi un po’ meno polari dell’acqua (cioè leggermente più lipofili), come glicerolo ed etanolo,
possiamo migliorarne la solubilità. In altre parole, diminuendo la polarità del solvente, otterremo una migliore
solubilità del soluto.

Guardando la curva B, vedremo che aumentando la percentuale di etanolo, la solubilità del principio attivo
aumenta: aumentando l’etanolo nella miscela, infatti, diminuisce l’acqua, dunque diminuirà la polarità del
solvente, quindi aumenterà la solubilità del soluto!

NB: ovviamente i 2 solventi in miscela dovranno essere MISCIBILI con l’acqua (nel caso in cui ci sia l’acqua), o
più in generale, miscibili tra loro.

All’interno del solvente, oltre al solo solvente o a miscele di solventi (come visto appena precedentemente),
possono essere presenti anche altre molecole. Queste molecole hanno una funzione tecnologica, si tratta cioè
di ECCIPIENTI. Per migliorare la solubilità di principi attivi poco solubili in acqua si possono usare, dunque, delle
categorie di eccipienti, come gli agenti solubilizzanti.

NB: solventi e solubilizzanti non sono sinonimi,


sono diverse categorie di eccipienti!!!

59
GLI AGENTI SOLUBILIZZANTI
I ‘’solubilizzanti’’ sono una categoria molto varia di eccipienti, avente la funzione di migliorare la solubilità in
acqua. Tra questi agenti solubilizzanti vi sono più sottocategorie:

1. LE CICLODESTRINE il suffisso ‘’-ciclo’’ indica che si tratta di un composto ciclico, costituito da più
molecole di destrina. Le destrine sono degli zuccheri, e in quanto tali, sono molecole idrofile, poiché
contengono gruppi –OH, dunque sono fortemente solubili.

Di ciclodestrine esistono vari tipi, identificate con la sigla CD (=ciclodestrine), assieme a una lettera
greca, come alfa, beta e gamma. Tra queste sotto-tipologie di ciclodestrine cambia il numero di
destrine che formano la struttura ciclica (ex: la alfa-ciclodestrina è formata da 6 unità di destrine unite
nel ciclo, la beta-ciclodestrina da 7, la gamma-ciclodestrina da 8).

La caratteristica delle ciclodestrine, oltre al fatto di essere estremamente solubili in acqua, è che queste
contengono una cavità al proprio interno (rappresentato in figura come un cilindretto cavo). Questa
cavità può essere di differenti dimensioni, e questo è un altro parametro che differenzia la ciclodestrina
alfa, dalla beta, dalla gamma. Aumentando il numero di destrine che compongono il ciclo,
naturalmente, aumenta la dimensione della cavità interna.

MECCANISMO DI ATTIVITA’ DELLE CICLODESTRINE


Le ciclodestrine hanno una caratteristica disposizione:
- i gruppi idrofili –OH sono tutti rivolti verso l’esterno della struttura molecolare;
- nella cavità interna, invece, si trovano soprattutto atomi di carbonio, che formano la struttura ciclica.

Si avrà dunque una parte prettamente idrofila verso l’esterno della ciclodestrina (il che la rende altamente
solubile in acqua), mentre la parte interna della ciclodestrina avrà caratteristiche APOLARI (=lipofili). Le
ciclodestrine quindi sono usate come agenti solubilizzanti in quanto hanno una distribuzione disomogenea
delle parti idrofile e delle parti meno idrofile (o lipofile).

Questo permette alle ciclodestrine di formare dei ‘’complessi di inclusione”, ovvero molecole poco solubili in
acqua possono entrare all’interno della cavità della ciclodestrina, dove trovano un ambiente più lipofilo e
apolare, migliorando la propria solubilità dei principi attivi poco solubili in acqua.

Le molecole incluse nelle


ciclodestrine sono definite
‘’guest molecules’’ o
‘’guest compounds’’.

60
A seconda del tipo di ciclodestrine, e delle dimensioni molecolari della molecola ospite al suo interno, questa
molecola ospite può disporsi in una posizione differente nel complesso di inclusione:

 Inclusione equatoriale (se l’asse principale della molecola ospite si trova perpendicolarmente a quello
della CD)
 Inclusione assiale (se l’asse principale della molecola ospite si trova parallelamente a quello della CD).

Dunque, la solubilità di un soluto può essere influenzata dalla presenza di un agente solubilizzante. Le
ciclodestrine sono un esempio di agenti solubilizzanti, e queste usano il meccanismo d’azione dei ‘’complessi di
inclusione’’, ma vedremo che altri agenti solubilizzanti useranno altri meccanismi.

5. LE DIMENSIONI DEL SOLIDO


Torniamo quindi a parlare del soluto. Innanzitutto, con il termine ‘’dimensioni’’ si fa riferimento alle dimensioni
del solido iniziale, ovvero delle particelle di polvere che vengono messe in contatto con il solvente all’inizio del
processo di dissoluzione. Per essere più precisi, quando parliamo di ‘’dimensioni delle particelle di un solido’’, ci
riferiamo alle DIMENSIONI MEDIE.

Le dimensioni del solido influenzano la solubilità, di conseguenza le prestazioni del principio attivo
(farmacocinetica, biodisponibilità…).

In figura si fa riferimento al principio attivo FENOBARBITAL (della famiglia dei barbiturici poco solubili in
acqua). Nonostante la poca solubilità in acqua, questo fenobarbital può essere usato per preparare delle
soluzioni tramite miscele di solventi (con o senza acqua).

Nella slide è raffigurato il suo grafico di farmacocinetica:


- Sull’asse delle ordinate abbiamo il livello plasmatico di fenobarbital;
- Sull’asse delle ascisse è espresso il tempo.

Tra le 3 curve di farmacocinetica:


- Una indica l’effetto di una soluzione di fenobarbital
- Le restanti 2 curve indicano l’effetto del fenobarbital quando questo è somministrato sotto forma di
sospensione (e non più sotto forma di soluzione).

La differenza è che nella soluzione il principio attivo è già solubilizzato, nella sospensione invece sono ancora
presenti delle particelle di soluto.
61
Le 3 curve indicano 3 tipi di forme di somministrazione intramuscolare: 1 in soluzione e 2 sospensioni. Il grafico
mostra che, pur mantenendo la medesima quantità di principio attivo, il fatto che questo si trovi in soluzione o
in sospensione, varia l’assorbimento. Variando dunque la tipologia di formulazione o le dimensioni delle
particelle del soluto, possiamo influenzare la velocità di assorbimento, dunque la sua farmacocinetica.

Il fatto che la soluzione abbia una biodisponibilità così tanto maggiore rispetto alla sospensione, ha degli effetti
importanti su farmacocinetica e tossicità del principio attivo.

Nella tabella è considerato un altro esempio: il PENTOBARBITAL, un altro barbiturico, dunque poco solubile.

Il pentobarbital è stato studiato in differenti esperimenti di tossicità acuta: vengono usati animali da
laboratorio, a cui sono somministrate concentrazioni via via crescenti di principio attivo. In questi casi, varia un
parametro detto ‘’LD50’’: ‘’lethal dose 50’’ è un parametro usato per determinare la tossicità acuta.
Rappresenta la concentrazione di principio attivo che, una volta somministrata, provoca la morte acuta (in
pochi giorni, in poche ore o in pochi minuti) del 50% dei soggetti trattati.

Tanto più la LD50 è bassa, tanto più il farmaco testato è tossico. Se la LD50 è alta, dunque,
indica una tossicità bassa.

Le LD50 nell’esperimento variano da 132 a 288 ( la LD50 di 288, essendo la più alta, è preferibile). Se il
principio attivo è il medesimo, come mai la LD50 varia così tanto?

 Nel primo caso, la LD50 di 132, che indica una elevata tossicità, è relativa al sale sodico del
pentobarbital. Essendo un sale sodico, questo implica che nella molecola sia presente uno ione
negativo, come ad esempio un gruppo carbossilico (che diventerà carbossilato nella forma salificata).
Un pentobarbital dunque sarà un acido debole, in quanto può essere usato nella forma salificata e in
quella NON salificata.
Essendo la forma salificata più solubile, il sale sodico del pentobarbital avrà una solubilità maggiore,
ma una più alta tossicità.

 La forma ‘’free acid’’, invece, identifica la forma NON salificata del pentobarbital, avente minore
solubilità, ma anche minore tossicità. Essendo meno solubile, questo principio attivo viene assorbito
più lentamente, dunque avrà un’attività meno tossica.
Tra le forme free acid, poi, la tossicità varia ancora variando le dimensioni delle particelle del solido e la
forma farmaceutica usata.

Variando la forma farmaceutica e le dimensioni del solido, variamo la solubilità e variamo anche la
farmacocinetica. Il fatto di avere una farmacocinetica con degli assorbimenti più lenti non è sempre un effetto
negativo.

In questo caso, una minore solubilità non è un aspetto negativo, poiché una minore solubilità porta a una
minore tossicità.

6. L’EFFETTO DEL PH
Ovviamente il pH è quello del solvente in cui viene analizzata la solubilità del principio attivo. Nello specifico, il
pH del solvente avrà un effetto molto marcato su una categoria di principi attivi, ossia dei principi attivi
IONIZZABILI (ovvero quelli aventi gruppi funzionali che possono presentare delle cariche positive o negative).

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Minimo di
solubilità

Il grafico in figura è un grafico esemplificativo di un farmaco che mostra andamenti generali che possano
spiegare questo effetto.

Sono prese in esame 3 categoria di farmaci ionizzabili, ognuna esemplificativa di una classe di farmaci:
a) La INDOMETACINA appartiene alla classe dei FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei non
hanno la struttura degli steroidi), e presenta un gruppo ionizzabile, che è il –COOH. Si tratta dunque di
un acido organico, che può essere ionizzato ad anione (carico negativamente).

b) La CLORPROMAZINA (antipsicotico) presenta un gruppo che può essere ionizzato in forma positiva,
ovvero può essere ionizzato a formare un gruppo cationico. In particolare, il gruppo funzionale che può
essere ionizzato è una ammina terziaria (‘’dimetil-alchilammina’’).

c) La OXITETRACICLINA (antibiotico) è caratterizzato dall’avere sia un gruppo acido che un gruppo basico.
Si tratta cioè di molecole che possono presentare sulla stessa molecola sia una carica positiva che una
negativa.

Nel grafico:
- Sull’asse delle y troviamo la solubilità in acqua;
- Sull’asse delle x, invece, il valore di pH dell’acqua utilizzata per solubilizzare queste sostanze.

Nel grafico osserviamo che:


a) Per quanto riguarda la indometacina, per bassi valori di ph (ph < 4-5), la solubilità risulta bassa, in
quanto il gruppo –COOH si trova nella forma indissociata, quindi poco solubile. Aumentando il ph, il –
COOH si dissocia, trasformandosi in gruppo carbossilato, aumentando la sua solubilità.
b) Per quanto riguarda la clorpromazina, al contrario, questa risulta poco solubile ad alti valori di ph (ph >
9-10), ovvero valori di pH in cui la ammina si trova nella forma indissociata. Abbassando invece i valori
di pH, la molecola si trasforma nella forma dissociata, aumentando la sua solubilità.
c) Infine, la curva della ossitetraciclina ha un andamento diverso: è una curva ‘’a campana rovesciata’’,
caratterizzata da un ‘’minimo di solubilità’’. Il composto oxitetraciclina esemplifica il comportamento
di principi attivi definiti come ‘’biologics’’. Un esempio di biologics sono le proteine, in quanto queste
sono formate da amminoacidi, che possiedono gruppi carichi: i gruppi amminici e i gruppi carbossilici
a pH fisiolgico (=7,4) quindi, nelle proteine saranno contemporaneamente presenti gruppi carichi
positivamente e gruppi carichi negativamente. La presenza di queste cariche influenza la solubilità di
queste proteine.
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Il profilo di solubilità della oxitetraciclina, dunque, può essere rappresentativo del profilo di solubilità di
molti biologics. Il valore ‘’minimo’’ di solubilità per queste molecole che possono presentare sia cariche
positive che negative porta un nome particolare: il PUNTO ISOELETTRICO.

Il punto isoelettrico è definito come quel valore di pH a cui


una molecola (che presenta sia cariche positive che
negative) ha carica netta pari a zero. Questo implica che il
numero di cariche + è uguale al numero di cariche -. Si ha
quindi un bilanciamento perfetto tra cariche + e -.

Dunque al punto isoelettrico ci sarà un perfetto equilibrio tra cariche negative e cariche positive, valore di pH a
cui si raggiunge il minimo di solubilità. Variando il pH, però, in un senso o nell’altro (cioè aumentandolo o
diminuendolo), la solubilità aumenterà.

Il punto isoelettrico non è un valore assoluto, ma è specifico per ogni sostanza! Dipende da composizione e
stereochimica dei gruppi funzionali carichi positivamente o negativamente.

LA VELOCITA’ DI DISSOLUZIONE

Un concetto correlato alla solubilità, ma diverso dalla solubilità è quello di velocità di dissoluzione. La
velocità di dissoluzione è influenzata da parametri diversi rispetto alla solubilità. Sulla solubilità, infatti,
agiscono parametri di tipo termodinamico, mentre sulla velocità di dissoluzione agiscono parametri di tipo
termocinetico. La velocità di dissoluzione è la velocità con cui un principio attivo entra in soluzione, a partire
dal suo stato solido.

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La velocità di dissoluzione è descritta dall’equazione di Noyes e Whitney:

L’equazione presenta una serie di termini:


- dw/dt esprime la velocità di dissoluzione (spesso altresì identificata con la lettera V). W sta per
‘’weight’’, cioè peso, mentre t sta per ‘’time’’, quindi tempo la velocità di dissoluzione viene quindi
espressa in termini di peso su tempo.
Il peso identifica la quantità ponderale di sostanza considerata (molecole o ioni) che si dissolve nel
tempo.

- K è la costante cinetica di dissoluzione;

- Cs rappresenta la concentrazione di saturazione della sostanza considerata, ovvero la solubilità;

- Ct invece è la concentrazione di sostanza ad un determinato tempo t. Durante il processo di


dissoluzione, Ct varia: sarà numericamente molto basso all’inizio del processo di dissoluzione (molto
vicina allo zero), al termine del processo ct andrà progressivamente aumentando fino a raggiungere la
concentrazione di saturazione.

LEZIONE 12 (20/10/2021)
Equazione di Noyes-Whitney
È un’equazione che descrive la velocità di dissoluzione. Nell’equazione troviamo al primo termine la velocità di
dissoluzione espressa come variazione ponderale di peso del soluto nell’unità di tempo (minuti), mentre al
secondo termine dell’equazione troviamo la costante cinetica di dissoluzione (k) che moltiplica la differenza tra
la concentrazione di saturazione del soluto (2 ) meno la concentrazione ad un determinato tempo t (tempo che
intercorre tra l’inizio della dissoluzione e il tempo considerato). L’inizio del processo di dissoluzione sarà il
momento in cui il soluto allo stato solido e il solvente allo stato liquido vengono posti in contatto.

I parametri che influenzano k:


 D rappresenta un coefficiente di diffusione. I coefficienti di diffusione sono tanti nella fisica e nella
chimica-fisica. Quando parliamo di un coefficiente di diffusione dobbiamo indicare quale sia la specie
che diffonde e quale sia il mezzo in cui essa diffonde.

 A è l’area superficiale delle particelle di polvere di soluto che andiamo a mettere in contatto con il
solvente all’inizio del processo di dissoluzione. Quindi l’area superficiale rappresenta la superficie delle
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particelle di polvere che sono esposte e che vengono in contatto con il solvente. Più alta sarà la
superficie esposta del soluto al solvente e più elevata sarà la velocità di dissoluzione.

 h è un parametro geometrico, è uno spessore.

D ed A sono direttamente proporzionali a k, quindi ad aumentare del parametro D ed A aumenta anche la


costante cinetica di dissoluzione. Essendo k direttamente proporzionale alla velocità di dissoluzione aumenterà
anche la velocità.
h è inversamente proporzionale a K e quindi anche alla velocità di dissoluzione.

Per spiegare D ed h, facciamo riferimento a questa immagine:

Spiegazione del parametro h:


L’immagine in alto a sx è un’immagine di una fotografia ripresa con un microscopio ottico e sulla dx si vede una
schematizzazione che riprende l’immagine reale presa al microscopio ottico. Viene rappresentata una singola
particella di polvere di soluto che viene messa in contatto con il solvente.
Questa particella di polvere per semplificare la visione e la comprensione dell’equazione di Noyes-Whitney è
una particella di polvere con forma molto regolare, ha una forma sferica, però come vediamo nell’immagine in
basso a dx la forma e le dimensioni delle particelle di polvere che vengono coinvolte in un processo dissolutivo
sono diverse. Man mano che il processo dissolutivo procede queste particelle andranno progressivamente
scomparendo perché il processo dissolutivo è un processo che porta alla dissoluzione delle particelle solide. La
forma e le geometrie sono molto diverse.

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Ritornando all’equazione di Noyes-Whitney per effettuare delle considerazioni geometriche più semplici si
considerando delle particelle di polvere omogenee e di forma sferica.

Quindi nella parte alta della diapositiva vediamo una particella di polvere messa in contatto con il liquido
(solvente). Vediamo che appena la particella di soluto viene in contatto con il solvente si forma attorno alla
particella una zona di liquido che ha delle caratteristiche particolari. Questa zona di liquido prende il nome di
strato stagnante e attraverso delle indagini microscopiche è possibile determinare lo spessore di questo strato.

Questo spessore prende il nome di h.

Questo strato stagnante è molto importante, infatti vediamo che il suo spessore determina la costante cinetica.
Più sarà elevato lo spessore di questo strato stagnante e minore sarà la velocità di dissoluzione.

Lo strato stagnante rappresenta uno strato di liquido (solvente) in cui vi è un’elevata concentrazione di soluto,
perché il processo di dissoluzione avviene attraverso la rottura del reticolo cristallino, si liberano le molecole o
gli ioni del soluto che andranno a finire nello strato di liquido immediatamente contiguo alla particella di solido.
Quindi durante le prime fasi del processo di dissoluzione si forma questo strato di liquido che è uno strato in cui
abbiamo un’elevata concentrazione di solito, addirittura si considera che la concentrazione di soluto all’interno
di questo strato stagnante sia molto vicina alla condizione di saturazione.

Il processo dissolutivo non è altro che un processo di diffusione. Il processo diffusivo è un processo che avviene
normalmente spontaneamente da una zona ad alta concentrazione di soluto ad una zona a bassa
concentrazione. Quindi le molecole e gli ioni dopo essersi staccate dalla particella devono attraversare lo strato
stagnante e diffondere nelle zone più lontane di solvente.

Per definire la zona di liquido circostante alla particella si usa il termine di strat stagnante, mentre per
definire le zone di liquido distanti dalla particella si usa il termine di bulk solution. Il soluto deve diffondere
dalla zona immediatamente vicina alla superficie attraverso lo strato stagnante fino alla zona di solvente
definita bulk.

Di fatto l’equazione di Noyes-Whitney descrive un processo diffusivo di ioni o molecole dall’interfaccia solido-
liquido verso il solvente bulk.

Spiegazione del parametro D:


D è il coefficiente di diffusione delle molecole o degli ioni di soluto (specie che diffonde) attraverso lo strato
stagnante (strato di liquido immediatamente circostante le particelle di polvere che si stanno dissolvendo).

Dissolution test
Lo studio del processo dissolutivo da un punto di vista cinetico è molto importante perché influenza le
prestazioni del medicinale e dipende dal tipo di formulazione, dal tipo di soluto e di solvente. Il fatto che il
processo dissolutivo e lo studio della velocità di dissoluzione sia così importante è dimostrato dal fatto che
nelle farmacopee ufficiali più importanti (americana, europea, italiana, inglese, giapponese) è sempre incluso
un test che si chiama dissolution test.
Quindi nella farmacopea ufficiale è indicato in maniera estremamente dettagliata un saggio, un test che ci
permette di determinare la velocità di dissoluzione che può essere quella di una sostanza pura oppure di una
forma (o formula) farmaceutica e in particolare delle forme farmaceutiche solide.

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Le forme farmaceutiche solide devono essere obbligatoriamente testate per dimostrare che la velocità di
dissoluzione di ogni specifica formula solida rientri nei parametri previsti dalla farmacopea. Ogni specifica
formula farmaceutica ha dei requisiti di dissoluzione particolari.

La velocità di dissoluzione e quindi il test che serve per determinarla è un test che deve essere fatto con dei
parametri molto controllati, perché la geometria dei contenitori in cui viene eseguito il test ha una grandissima
importanza nell’ottenimento dei risultati. In particolare il parametro h può essere variato, ovvero lo spessore
dello strato stagnante dipende dalle condizioni sperimentali ed in particole dipende da un parametro che è la
velocità e modalità di agitazione, cioè quando il soluto viene in contatto con il solvente la modalità di
agitazione influenza lo spessore dello stato stagnante.

Aumentando la velocità di agitazione si osserva una riduzione dello strato stagnante. Quindi agitando la
dissoluzione avviene più rapidamente.

Nello strumento per determinare la velocità di dissoluzione che prende il nome di “modello a paletta” vediamo
che in ogni singolo contenitore (becher) vi sono delle palette che sono dei sistemi che ruotano ed agitano il
solvente. Il fatto che i parametri di agitazione sono così importanti ha come conseguenza il fatto che siano
molto precisamente indicate le quote geometriche (dimensioni che deve avere la paletta che viene usata nello
strumento per determinare l’agitazione del liquido). Quindi devono essere riprodotte con estrema precisione
queste dimensioni.

Nel condurre una determinazione della velocità di dissoluzione devono essere spiegati i parametri che si
utilizzano per il processo dissolutivo e si ottengono queste tipologie di grafici che mostrano la velocità di
dissoluzione dove in ordinata abbiamo la quantità di sostanza che si dissolve nel tempo.

L’andamento delle curve di velocità di dissoluzione non è un andamento lineare, la velocità di dissoluzione non
è costante nel tempo, ma anzi varia nel tempo perché la velocità è influenzata dalla differenza di
concentrazione dell’equazione di Noyes-Whitney. Quindi all’inizio del processo di dissoluzione la velocità sarà
molto elevata perché numericamente questa differenza avrà un valore alto, man mano che il processo
dissolutivo procede questa differenza andrà progressivamente diminuendo e quindi diminuisce anche la
velocità di dissoluzione.
Infatti come si vede dal grafico nella prima parte del processo dissolutivo la velocità è sufficientemente
lineare (la quantità di soluto che entra in soluzione è proporzionale al tempo), poi la curva tende
progressivamente ad appiattirsi fino ad arrivare ad una velocità di dissoluzione pari a zero. Quando la velocità
raggiunge lo zero allora la concentrazione ad un determinato tempo è uguale alla concentrazione di
saturazione (abbiamo raggiunto l’equilibrio).

La velocità di dissoluzione è uguale alla velocità di ri-cristallizzazione.

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Tabella riassuntiva:
-nella prima colonna sono descritti i parametri presenti nell’equazione
-nella seconda colonna sono descritti gli eventuali aspetti che influenzano i parametri
-nella terza colonna alcuni commenti

A area superficiale, è l’area esposta del soluto al solvente e dipende da vari parametri:

 dalle dimensioni medie delle particelle. Le dimensioni delle particelle e l’area superficiale delle
particelle stesse sono inversamente proporzionali!! Più piccole sono le dimensioni delle particelle e
maggiore sarà l’area superficiale (e viceversa). Le dimensioni delle particelle influenzano anche la
solubilità. Se vogliamo aumentare la velocità di dissoluzione utilizzeremo particelle piccole, se vogliamo
diminuire la velocità allora utilizzeremo particelle più grandi (ha fatto precedentemente l’esempio sui
barbiturici).

 Dispersibilità e la bagnabilità (si usano spesso come sinonimi). Per spiegare questi due parametri
consideriamo questa immagine:

Diverse forme farmaceutiche sono rappresentate da polveri che devono essere trasformate in
soluzione immediatamente prima del loro uso, significa che delle polveri che contengono principio
attivo ed eccipienti vengono confezionate in bustine (contenitore primario). Le bustine vengono aperte
dal consumatore e il loro contenuto viene versato all’interno di un bicchiere d’acqua, questo ha a che
69
vedere con i parametri di dispersibilità e di bagnabilità.
Quando viene messa in contatto una polvere con un liquido si ha un chiaro esempio di cosa sia la
dispersibilità, ovvero la dispersibilità è un parametro che indica se la polvere viene omogeneamente
dispersa nel liquido. Questo è importante perché quando una polvere è dispersibile allora ogni singola
particella di polvere verrà a contatto con il liquido quindi ci sarà un’elevata area superficiale di contatto
fra polvere e liquido.
Ma possiamo avere anche (spesso succede) delle polveri che non sono altamente e rapidamente
dispersibili. Ci sono delle polveri che quando vengono messe in contatto con il liquido tendono a
formare sulla superficie del liquido una massa non dispersibile (vi è una bassa affinità chimica,
similitudine chimica tra soluto e solvente).
Se la polvere non è dispersibile, bagnabile allora l’area superficiale di contatto solido-liquido risulterà
molto minore. Una bassa dispersibilità (bagnabilità) tenderà a far diminuire l’area superficiale che a sua
volta farà diminuire la costante cinetica e anche la velocità di dissoluzione. Polveri scarsamente
bagnabili saranno caratterizzate da una bassa velocità di dissoluzione, ciò è negativo nei confronti della
farmacocinetica del medicinale che stiamo considerando.

 La porosità delle particelle è un altro parametro che influenza l’area. Molto difficilmente può essere
valutata l’eventuale presenza di porosità da una fotografia al microcopio ottico, ma utilizzando delle
tecniche microscopiche più potenti come la microscopia elettronica oppure utilizzando delle tecniche
di determinazione della porosità (porosimetri) è possibile determinare se le particelle di polvere
presentano delle porosità (si possono valutare anche le dimensioni di eventuali pori). Se una particella
presenta una superficie porosa la sua area superficiale sarà maggiore rispetto ad una particella non
porosa. La porosità fa aumentare la superficie di contatto tra liquido e solido.

3  concentrazione di saturazione o solubilità. La solubilità è influenza dalla temperatura, dal tipo di solvente,
la natura cristallina del solido, dalla presenza di altre sostanze dopanti o di impurezze.

34  concentrazione del principio attivo nel solvente bulk (non nello strato stagnante). Dipende dai parametri
sperimentali che stiamo utilizzando e in particolare dal volume di solvente che si usa per solubilizzare il soluto.
Nella prima parte del processo dissolutivo la velocità è pressoché costante nel tempo (per un intervallo di
tempo piccolo a partire dal tempo zero) Quando vogliamo determinare la velocità di dissoluzione di una
sostanza è importante fissare in un modo molto preciso i parametri che si sono utilizzati per determinare la
velocità di dissoluzione. In particolare quando si vogliono confrontare velocità di dissoluzione, ad esempio
utilizzando formulazioni diverse, è importante misurare la velocità di dissoluzione proprio nella parte iniziale
del processo dissolutivo. Perché se confrontassimo la velocità di dissoluzione a tempi più lunghi potremmo fare
degli errori di confronto tra due formulazioni diverse.
Quindi i chimico-fisici e i tecnologi hanno descritto che quando si vogliano confrontare valori di velocità di
dissoluzione dobbiamo fare in modo che la concentrazione 34 non sia mai superiore al 10% di 3
Dobbiamo fare in modo che 25 sia basso.

In gergo tecnico queste condizioni di valutazione della velocità di dissoluzione in cui 25 è sempre più basso del
10% di 2 vengono definite con il termine “sink conditions”. Quando leggiamo che un test per la
determinazione della velocità di dissoluzione è stato condotto in condizione sink significa che la velocità è stata
misurata in modo da avere una 25 molto bassa. In questo modo siamo certi di misurare la velocità di
dissoluzione in un tratto in cui è lineare con il tempo.

K costante cinetica di dissoluzione. È inversamente proporzionale ad h ed inoltre è influenzato dalla velocità


di agitazione, ossia le condizioni di agitazione (non solo la velocità di agitazione, ma anche le dimensioni del
contenitore, la forma del contenitore, la geometria delle palette dell’agitatore).

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K è anche influenzato da D e questo D è influenzato della geometria degli ioni o delle molecole e dal tipo di
solvente. Valori di D alti indicano che le molecole o ioni attraversano facilmente lo strato stagnante, mentre un
coefficiente di diffusione basso significa che hanno delle difficoltà ad attraversare lo strato stagnante.
Queste difficoltà nell’attraversare lo strato stagnante sono esemplificate, ad esempio, dalla viscosità del
solvente, più elevata sarà la viscosità e più difficile sarà l’attraversamento dello strato stagnante da parte di ioni
e molecole. La viscosità fa diminuire il coefficiente di diffusione.

Questo tipo di considerazione è utilizzato dai tecnologi farmaceutici quando si vuole diminuire la velocità di
dissoluzione per ottenere ad esempio delle forme a rilascio prolungato. Esistono delle compresse che
contengono anche dei viscosizzanti in modo da far diminuire il coefficiente di diffusione e quindi il principio
attivo diffonde più lentamente, si solubilizza più lentamente e si ottengono delle formulazioni a rilascio
controllato, a rilascio protratto (ones a day).

SOLVENTI-ACQUA
Per ottenere delle soluzioni abbiamo bisogno di solventi. Il solvente di prima scelta è l’acqua. L’acqua è un
solvente classificato all’interno dei solventi polari protici, ha delle proprietà di solubilizzazione estremamente
importanti, infatti è in grado di dissolvere tantissime sostanze organiche, la maggioranza di sostanze
inorganiche, ed inoltre ha la caratteristica di solvatare (idratare) le molecole o gli ioni di soluto. Nella
farmacopea sono descritte diverse tipologie di acque.

Aspetti terminologici se nella farmacopea troviamo il termine “soluzione” allora nella farmacopea quando
non è indicato alcun solvente significa che è implicitamente prescritto l’uso dell’acqua. Quando l’uso dell’acqua
è esplicitamente indicato oppure è implicito va sempre utilizzato un tipo di acqua specifico che è l’acqua
depurata (0008 è il numero specifico della monografia dell’acqua depurata).

Se nella farmacopea troviamo il termine “acqua distillata” dobbiamo sapere che questo termine non è un tipo
di acqua che poi è esplicitamente descritto in una delle monografie, ma è uno dei metodi (ma non il solo) con
cui si prepara l’acqua depurata.

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Metodo di conservazione delle soluzioni
Quando nella farmacopea sono descritte le preparazioni di soluzioni, viene anche spesso descritto il metodo di
conservazione di esse. Quando nella farmacopea sono indicate delle particolari condizioni di conservazione
spesso (purtroppo) non viene indicata una temperatura specificata numericamente, ma dobbiamo sapere che
se la farmacopea dice di conservare una determinata soluzione in congelatore significa che la temperatura
deve essere sotto -15°C. In particolari ambienti che sono predisposti alla conversazione di particolari medicinali
come alcuni vaccini per il covid-19 dovevano essere conservati a temperature di -80°C.
Quando invece nella farmacopea è indicato che il prodotto deve essere conservato in frigorifero a temperature
di 2-8°C, quindi l’acqua non deve congelare. Bisogna sempre controllare il proprio frigorifero perché se fosse
mal funzionante allora ci potrebbero essere delle temperature inferiori alla temperatura di congelamento.
Quando in farmacopea è indicato in luogo fresco allora la temperatura deve essere un po' più alta (8-15 °C),
esistono dei frigoriferi commerciali che consentono di avere questo tipo di range di temperatura.
Infine a temperatura ambiente significa ad una temperatura tra i 15 e i 25 °C.

Analisi dell’acqua
Esistono varie tipologie di acqua.
 Acqua depurata
 Acqua depurata ripartita in contenitore
 Acqua altamente depurata
 Acqua per preparazioni iniettabili
 Acqua sterilizzata per preparazioni iniettabili

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Eventuali sostanze estranee presenti nell’acqua che devono essere eliminate per un uso farmaceutico ed in
particolare devono essere eliminate fino al raggiungimento di specifici livelli. Ciascuna delle sostanze che
citeremo sono specificate nelle monografie e per ciascuna di queste ci sono degli specifici livelli di controllo:
nell’acqua possono essere presenti elementi diversi che possiamo classificare in elementi di natura inorganica,
elementi di natura organica e elementi di derivazione biologica.
Questi elementi (organici, inorganici, biologici) nell’acqua si possono trovare in forma di soluzione (ioni o
molecole dispersi nell’acqua), ma si possono trovare anche in altre forme che si chiamano forme di dispersione.
Gli elementi in dispersione sono molto più grandi degli elementi in soluzione.

Esempi gli elementi in soluzione possono essere:


 di natura inorganica,
 Sali,
 ioni (ad esempio calcio, sodio, ione ammonio, ione cloruro)
 degli ioni radioattivi,
 ioni di metalli pesanti,
 gas (ossigeno, azoto, CO2 che sono dissolti nell’acqua)
 sostanze di natura organica (Sali organici)
 sostanze derivanti dall’uso umano (pesticidi, diserbanti, fertilizzanti),
 delle basi azotate, delle basi quaternarie, dei derivati azotati
 delle sostanze che derivano dalla decomposizione di tessuti organici (piante, legno,
microorganismi) che entrano in soluzione.

Elementi dispersione come:


 sabbia,
 Sali insolubili,
 residui di trattamento delle acque,
 sostanze organiche come i tensioattivi (residui che derivano dai lavaggi industriali o domestici),
 liquidi immiscibili (petrolio, derivati idrocarburici)
 microorganismi, microalghe, macromolecole organiche

Nell’uso delle acque la farmacopea si preoccupa di controllare l’eventuale presenza di sostanze estranee e per
molte di queste sono previsti dei limiti di accettabilità che sono descritti nelle monografie.

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ACQUA DEPURATA
Viene utilizzata più frequentemente. Come dice la farmacopea nella definizione  L’acqua depurata è acqua
per la preparazione di medicinali diversi da quelli che devono essere sterili ed apirogeni, cioè è l’acqua che
dobbiamo usare sempre per tutti i medicinali tranne per due casistiche che sono medicinali sterili ed apirogeni.

Quali sono i metodi di produzione?


L’acqua depurata viene ottenuta a partire da acqua conforme alla normativa prevista per il consumo umano.
Questa è la definizione corretta da normative vigenti per indicare l’acqua potabile.

Come viene preparata?


Viene preparata con metodologie diverse. Di queste metodologie la farmacopea ne indica alcune, ma dal punto
di vista della metodologia la farmacopea non ci dice quale dobbiamo usare e neanche ci dice le caratteristiche
della strumentazione che usiamo. La farmacopea ci dice, soltanto a titolo esemplificativo, che può essere
ottenuta o con un metodo di distillazione o con un metodo che la farmacopea chiama scambio ionico o con un
metodo che definisce osmosi inversa o qualsiasi altro metodo adeguato. Non dà degli obblighi.

Perché la farmacopea non si preoccupa della metodologia della preparazione?


La farmacopea non si preoccupa della metodologia della preparazione perché di fatto pretende che l’acqua
ottenuta con uno di questi metodi (o altri metodi) sia poi conforme ai saggi che sono prescritti, saggi che sono
indicati nella monografia.

 L’acqua deve essere monitorata microbiologicamente per garantire che il contenuto di


contaminazione microbica non sia eccessivo e ci dice anche che il livello di contaminazione
microbiologico dell’acqua depurata deve essere inferiore a 100 UFC/ml (unità formanti colonia). Ciò
significa che utilizzando un test particolare che è descritto nella sezione della farmacopea in cui sono
descritti i saggi microbiologici è specificato come si esegue il saggio della conta microbiologica.

 Oltre ad avere questi requisiti di livello di contaminazione microbiologica, l’acqua depurata deve
essere testata con una serie di procedure chimico-analitiche. Ad esempio deve essere valutato il
carbonio organico totale (cioè si occupa di determinare la presenza di una serie di molecole
organiche).

 Poi deve essere misurata la conduttività che è un parametro fisico correlato alla presenza dei composti
inorganici, degli elettroliti. Si chiamano “elettroliti” perché la loro presenza fa aumentare la
conduttività dell’acqua. Ci sono dei saggi nella farmacopea che ci dicono come si misura e ci indicano
quali sono i limiti (deve essere compresa tra i 2 e i 10μS*cm (microsiemens per cm)). Se i valori fossero
più alti allora starebbero ad indicare una contaminazione da parte di elettroliti.

 Deve essere valutata la presenza dei nitrati (<0,2 parti per milione), dell’alluminio (<10 parti per
bilione), dei metalli pesanti.

 In casi particolari deve essere valutata anche la presenza delle endotossine batteriche che sono
sostanze particolari che NON devono essere presenti. Qualora l’acqua depurata è destinata alla
produzione di soluzioni per dialisi NON devono essere presenti endotossine. Infatti nell’etichetta
dell’acqua depurata è specificato se è consentito l’utilizzo per la preparazione di soluzioni per dialisi.

Ogni singolo test che è citato nella monografia dell’acqua depurata è poi descritto nella farmacopea.

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LEZIONE 13 (21/10/2021)
Nella lezione precedente abbiamo trattato quali siano i requisiti e le particolarità delle acque che sono descritte
nelle monografie della farmacopea. L’acqua depurata è un tipo di acqua che deve rispondere a dei requisiti
chimici e microbiologici. I saggi per verificare queste caratteristiche sono tutti riportati nella farmacopea.
La farmacopea dice che questo tipo di acqua può essere preparata con varie tecniche, anche se non vi è una
regolamentazione rigida per quanto riguarda il metodo da adottare.

ACQUA DEPURATA RIPARTITA IN CONTENITORI


L’acqua depurata viene utilizzata sia a livello industriale che a livello di laboratorio delle farmacie. Quando
viene utilizzata a livello industriale viene anche detta in grande volume, significa che è una tipologia di acqua
che viene utilizzata a livello industriale. Dal punto di vista dei controlli e dei requisiti non cambia nulla. Quindi
nell’industria farmaceutica viene conservata in grandi contenitori (tenk o cisterne), ne esistono di tanti tipi
diversi, sono tante le aziende che producono questo tipo di contenitori di grande volume. L’acqua conservata in
questi contenitori di grande volume deve mantenere le proprietà chimiche e microbiologiche, il contenitore
non deve rilasciare delle sostanze, dei metalli pesanti.
Acqua depurata ripartita in contenitori Aziende specializzate in questo tipo di acque la ripartiscono in
contenitori di volume inferiore (da qualche decina di litro fino a contenitori da 1L). Il farmacista acquisterà
questo tipo di prodotto che poi utilizzerà nel laboratorio. È la medesima tipologia di acqua che è stata
confezionata in contenitori.

ACQUA ALTAMENTE DEPURATA


È analoga all’acqua depurata descritta finora, anche questa infatti può essere in grande volume o ripartita i
contenitori. È tutto uguale a prima, l’unica differenza è che nei metodi di produzione alcune aziende applicano
degli standard di purificazione (ad esempio, microbiologica) più elevati. La farmacopea ci dice che è un’acqua
destinata per la preparazione di medicinali per i quali è necessaria acqua di alta qualità microbiologica. Questo
ad esempio è necessario nei biologics. Può essere confezionata in contenitori di piccolo volume oppure
utilizzata dalle industrie farmaceutiche in cisterne che sono in genere di acciaio inossidabile.

Le 3 tipologie più importanti di metodi di ottenimento dell’acqua depurata:


1. DISTILLAZIONE le strumentazioni che vengono utilizzare in campo tecnologico farmaceutico possono
essere classificate in termini di produttività e di dimensioni, infatti ci aveva accennato che tutte queste
strumentazioni possono essere classificate in scala di laboratorio, impianto pilota e scala industriale. La
stessa cosa può essere fatta per i distillatori, che sono delle apparecchiature che permettono di
ottenere il processo di distillazione dell’acqua e quindi l’ottenimento di acqua distillata.
75
La farmacopea descrive il sistema di distillazione.

La procedura di distillazione attualmente in uso a livello industriale è quella che dà dei risultati
soprattutto in termini economici migliori. Questa tecnica di distillazione si chiama tecnologia con
vapore compresso.

Nell’immagine vediamo una sezione di un distillatore a tecnologia con vapore compresso:


La parte centrale si chiama boiling channel (ossia camera di ebollizione, è il sito dove avviene
l’ebollizione dell’acqua). Per ottenere il processo di distillazione dell’acqua dobbiamo portare l’acqua
alla temperatura di ebollizione.

Come avviene il riscaldamento dell’acqua che si trova all’interno della boiling channel? Avviene
attraverso l’uso di scambiatori termici. La parte a forma di T sono degli hitting elements (elementi
riscaldanti) che fanno parte dello scambiatore termico. Nei distillatori di questo tipo gli scambiatori
termici sono delle resistenze elettriche che sono poste all’interno della camera di ebollizione.

Nei distillatori di più recente produzione gli scambiatori termici sono due perché nella prima fase di
avviamento dello strumento (quando si deve accendere molto l’acqua per portarla ad ebollizione) sono
accesi entrambi, quando l’acqua ha raggiunto una temperatura prossima alla temperatura di
ebollizione se ne accende solo uno (per avere un risparmio energetico) ed addirittura ha un
funzionamento ad intermittenza.

I riscaldatori aumentano la temperatura dell’acqua. La parte superiore dell’acqua contenuta nella


camera di ebollizione comincia a staccarsi in fase gas (vapore acqueo). Il vapore acqueo tende ad
espandersi e tende a salire verso l’alto (nella parte superiore della camera di ebollizione). Questa
espansione del gas è anche favorita dal fatto che la parte superiore del distillatore è collegata ad una
pompa centrifuga, in particolare è un compressore centrifugo (è una pompa azionata da un motore
elettrico) che aspira il vapore acqueo che si è generato nella boiling channel e lo comprime.

Possiamo notare però che non vi è un collegamento diretto tra il compressore centrifugo e la camera di
ebollizione. C’è un sistema che è il baffle system (ossia un sistema di deflettori). Questa è una porzione
molto importante perché dalle parti interne dell’acqua si liberano delle bolle di gas (acqua allo stato
gas) che poi risalgono verso la superficie che presenterà un aspetto tumultuoso. Questo tipo di
comportamento superficiale provoca un effetto, ossia il vapore acqueo che si genera nella parte
superiore della camera di ebollizione può trasportare delle goccioline di acqua (che sono sotto forma
liquida), che viene definita acqua di trascinamento perché sono goccioline trasportate dal vapore
acqueo.

76
Se non ci fosse questo sistema di deflettori allora le goccioline andrebbero a finire all’interno del
compressone insieme al vapore acqueo e questo non deve avvenire perché all’interno delle goccioline
di acqua di trascinamento sono contenute delle sostanze che sono quelle che sono contenute
nell’acqua di partenza che non è stata distillata.
Per evitare questo trascinamento il vapore deve passare attraverso il sistema di deflettori (è un
percorso tortuoso) in modo tale che le goccioline presenti impattano sulla superficie di questo percorso
tortuoso e vengono in questo modo bloccate. Ci sono spesso delle reti in cui le goccioline aderiscono e
quindi non passano nel compressore.

Il compressore poi ha la funzione di comprimere il vapore acqueo e comprimendolo la sua temperatura


aumenta (si genera quello che viene definito hot steam) ossia il vapore compresso, surriscaldato.
Significa che dai 100°C iniziali possiamo arrivare anche a 120-125°C. Viene surriscaldato perché in
questo modo possiamo sfruttare in termini energetici questo surriscaldamento.
Infatti nell’immagine vediamo la presenza di un tubo che all’interno della camera di ebollizione (hit
exchanger è lo scambiatore termico). Quindi il vapore surriscaldato cede parte del suo calore all’acqua
che si trova nella camera di ebollizione. In questo modo i riscaldatori principali possono essere
mantenuti spenti per più tempo perché l’acqua viene riscaldata dal vapore surriscaldato che passa
attraverso lo scambiatore. Nel frattempo il vapore abbassa la sua temperatura, perché cede calore
all’acqua.

Poi il tubo finisce in un altro scambiatore che contiene la feed water ossia l’acqua di alimentazione,
cioè l’acqua che serve per alimentare quella che si trova all’interno della boiling channel.

Quindi il vapore surriscaldato cede una parte del suo calore all’acqua che si trova all’interno della
camera di ebollizione, man mano che la temperatura si abbassa il vapore condensa e poi è presente un
altro scambiatore termico che serve a far cedere altro calore all’acqua di alimentazione.
In questo modo anziché essere a temperatura ambiente, quando poi l’acqua di alimentazione entra
all’interno della camera di ebollizione abbiamo un riscaldamento dell’acqua.
Il vapore ha ceduto una parte del suo calore all’acqua dentro alla camera di ebollizione, un’altra parte
all’acqua di alimentazionedistilled water going out

Sono impianti industriali che sono all’interno di aziende specializzate nella produzione di acqua per
industrie farmaceutiche. Si producono grandi volumi di acqua.

2. DEIONIZZAZIONEIn termini qualitativi produce un’acqua molto meno qualitativa rispetto alla
distillazione. Le procedure che vengono utilizzate per ottenere la deionizzazione dell’acqua sono delle
procedure cromatografiche. È un particolare processo cromatografico che si chiama cromatografia a
scambio ionico.
Abbiamo delle colonne cromatografiche su scala di laboratorio, delle colonne cromatografiche
impianto pilota e delle colonne cromatografiche per uso industriale. Quelle che si utilizzano su scala di
laboratorio sono in genere in vetro, quelle che si utilizzano in campo industriale possono essere in
vetro (se sono piccole) oppure possono essere in acciaio inossidabile oppure in fibra di vetro.
La differenza tra la buretta e la colonna cromatografica è la presenza di un setto microporoso che serve
per trattenere all’interno della colonna il materiale con cui si impacca la colonna (la fase stazionaria), se
no la resina uscirebbe dal fondo.

Quello che vediamo in alto a sx è l’aspetto di una resina a scambio ionico, sono delle sferette di
dimensioni da qualche frazione di mm fino a dimensioni di 3-4 micron di diametro. Più piccole sono e
più sono efficienti (più costano). Le sferette hanno la caratteristica di essere microporose perché il
liquido deve passare attraverso queste microsferette. Esistono tanti tipi di fase stazionarie (di resine)
che sono basati su diversi tipi di composti chimici prodotti da tante diverse industrie che producono
supporti cromatografici.
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Tra le varie tipologie di resine scambiatrici quelle che si utilizzano maggiormente sono quelle basate
sulla chimica di un particolare tipo di polimeri cioè le sferette sono di materiale polimerico e in
particolare sono basate sull’uso dei monomeri che si utilizzano per ottenere il polimero. I polimeri sono
i polistirene-divinil benzene. Il polistirene viene utilizzato per formare le catene lineare del polimero, il
divinilbenzene si chiama agente reticolante (introduce delle ramificazioni). La percentuale di
reticolazione può cambiare.
Questi polimeri reticolati vengono funzionalizzati, infatti nel polimero abbiamo degli anelli aromatici
che vengono sostituiti, vengono introdotti dei gruppi funzionali che sono ionizzabili e sono in generale
costituiti da gruppi SO3- (sulfonici, sono dei gruppi acidi) o dei gruppi trimetilammonici (gruppi basici).
Non sono sempre uguali, questi sono tra i gruppi acidi e basici più utilizzati. In generale le resine
scambiatrici vengono definite deboli, medie e forti, questa classificazione dipende dal tipo di gruppi
funzionali.
Avremo resine anioniche quando hanno gruppi funzionali cariche negativamente e cationiche quando
hanno dei gruppi carichi positivamente. La presenza di questi gruppi serve a trattenere rispettivamente
i cationi e gli anioni.

Con queste resine andiamo ad impaccare la colonna cromatografica, e se facciamo passare dell’acqua
che contiene ioni o molecole cariche allora questi verranno trattenuti dai gruppi funzionali di segno
opposto.

In questo modo si ottiene il processo di deionizzazione.

Il livello qualitativo non è paragonabile a quello dell’acqua distillata, perché con il processo di
distillazione eliminiamo qualsiasi tipo di sostanza, mentre in questo caso eliminiamo solo le sostanze
cariche. Ad esempio l’etanolo non verrebbe trattenuto, ma passerebbe insieme all’acqua perché non è
una sostanza carica. Viene utilizzata la deionizzazione per diminuire, a volte viene utilizzata come step
preliminare ad altri successivi processi di purificazione.

3. OSMOSI INVERSAmolto utilizzata, è basata su un processo relativamente semplice che ha trovato


impieghi anche in laboratorio. È un principio basato sul fenomeno dell’osmosi (o osmosi diretta), il
processo osmotico è un processo che si instaura tra due compartimenti che contengono entrambi un
liquido. Questi due compartimenti sono separati da una membrana (anche fisiologicamente avviene
ciò, ad esempio grazie alla membrana cellulare).
Se nei due contenitori abbiamo dell’acqua e questa ha una diversa concentrazione, ad esempio da un
lato abbiamo acqua pura e dall’altro abbiamo acqua che contiene degli ioni, allora nel processo di
osmosi normale si osserverà un passaggio di acqua dal compartimento a bassa concentrazione verso il
compartimento ad alta concentrazione.

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Nel processo di osmosi inversa il flusso di liquido è opposto, quindi l’acqua va dal compartimento a
maggior concentrazione al compartimento a minor concentrazione di soluto. Tra il processo di osmosi
inversa e quello di osmosi diretta il processo che avviene spontaneamente è quello di osmosi diretta.
Però se viene applicata una pressione idrostatica sul lato che contiene la soluzione (consumo di
energia) possiamo avere il processo inverso, quindi di fatto abbiamo un processo che ci permette di
purificare l’acqua (attraverso l’osmosi inversa) perché da una soluzione otteniamo acqua pura.

Per ottenere questo tipo di processo abbiamo bisogno di membrane semi-permeabili che hanno una
permeabilità selettiva. Sarà una selettività di tipo dimensionale, significa che le specie chimiche che
possono o non possono passare attraverso queste membrane dipendono dalle dimensioni delle specie
chimiche.

Sono disponibili commercialmente diversi tipi di membrane semipermeabili che vengono classificate in
base alle dimensioni medie dei pori presenti sulla membrana e in base a questo tipo di classificazione
possiamo avere:
 MF micro-filtration (1000 Å=100nm)
 UFultra-filtration (100 Å= 10 nm)
 NFnano-filtration (10 Å= 1nm)
 RO osmosi inversa, reverse osmosis (1 Å= 0,1nm)

L’unità di misura è Amstrong (Å).

Quindi porosità diversa significa diversa selettività. Siccome nel processo di osmosi inversa i pori delle
membrane devono trattenere tutte le specie chimiche tranne che l’acqua, allora le membrane per osmosi
inversa sono quelle che hanno la porosità con dimensioni minori (<1nm). Anche gli ioni più piccoli vengono
trattenuti (sia in soluzione che in sospensione) e abbiamo un effetto di purificazione paragonabile alla
distillazione.

Queste membrane vengono usate anche per la separazione delle macromolecole, perché possiamo usare
diverse porosità. È una tecnica basata sull’uso di membrane a porosità controllata oppure si può fare anche con
tecniche cromatografiche.

Una delle membrane più utilizzate è basata sull’impiego dei polimeri polietere sulfonico, nella sua formula di
struttura abbiamo sia dei legami eterei (ponte etereo che unisce due unità benzeniche) sia delle funzionalità
sulfoniche.

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ACQUA PER PREPARAZIONI INIETTABILI
1. È un tipo di acqua che deve essere utilizzato per la preparazione di preparazioni iniettabili.
Per preparare delle preparazioni iniettabili, se sono in farmacia, posso usare l’acqua depurata? Perché
abbiamo detto che l’acqua depurata viene usata per tutti i tipi di preparati che non debbano essere
sterili ed apirogeni. Quindi le preparazioni iniettabili devono essere sterili, di conseguenza non
possiamo usare l’acqua depurata (nemmeno l’altamente depurata).

2. Quando le preparazioni iniettabili sono prodotte a livello industriale si utilizza l’acqua per preparazioni
iniettabili in grande volume che viene conservata nelle stesse modalità descritte precedentemente, ma
assicurando la sterilità (e il controllo microbiologico). Invece a livello di farmacia e soprattutto a livello
di farmacia ospedaliera come dice la farmacopea “per la dissoluzione o la diluizione di sostanze o
preparazioni per somministrazione parenterale si usa acqua sterilizzata per preparazioni iniettabili”.

L’acqua per preparazioni iniettabili e l’acqua sterilizzata per preparazioni iniettabili sono due tipologie
di acqua diverse, una è in grande volume e l’altra è ripartita in contenitori.

Perché si deve usare questo tipo di acque? Perché questo tipo di medicinali sono dei medicinali che
vengono direttamente in contatto con gli organi interni e quindi andando in alcuni casi direttamente
all’interno del torrente circolatorio, devono avere i più alti requisiti di controllo microbiologico e
chimico. Water for injection (WFI).

Acqua per preparazioni iniettabili in grande volume


Così come per l’acqua depurata le caratteristiche sono riportate in una monografia, anche le caratteristiche di
quest’acqua per utilizzi per medicinali per uso iniettabile o parenterale sono descritte in una monografia.
Così come l’acqua depurata, anche questo tipo di acqua viene preparata a partire dall’acqua potabile (acqua
conforme ad uso umano).
La farmacopea diceva che per l’acqua depurata andava bene qualsiasi metodo idoneo, invece per l’acqua per
preparazioni iniettabili deve essere usato un distillatore, non vengono indicati altri metodi.

Tutte le parti dell’apparecchio che sono a contatto con l’acqua devono essere in vetro neutro o in quarzo o in
metallo idoneo (in genere sono in acciaio inossidabile). L’apparecchio deve essere munito di un dispositivo che
impedisce il trascinamento di gocce, questo dispositivo si chiama deflettore (baffle system).

La farmacopea dice inoltre che la prima porzione del distillato (detta ance testa del distillato) deve essere
scartata. Perché la farmacopea dice questo? Perché ci possono essere delle sostanze a basso peso molecolare
come l’etanolo che hanno un punto di ebollizione minore rispetto a quella dell’acqua. La distillazione elimina
tutte le sostanze possibili contaminanti tranne che molecole organiche a basso peso molecolare che abbiano
un punto di ebollizione più basso dell’acqua.

La farmacopea dice anche che in tutte le fasi di produzione, di distribuzione e di uso le cisterne in cui viene
conservata, le tubature in cui viene fatta passare devono essere controllate periodicamente in modo tale da
prevenire la crescita di microorganismi ed evitare contaminazioni.

Ci sono una serie di controlli descritti nella farmacopea e in particolare importante è un saggio per il
monitoraggio microbiologico in questo caso i limiti sono più bassi rispetto all’acqua depurata. Deve essere
molto più pura dal punto di vista microbiologico infatti siamo a 10UFC per 100 ml.

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Acqua sterilizzata per preparazioni iniettabili
È l’acqua che abbiamo visto precedentemente (quella in grande volume) che viene ripartita, viene
confezionata. C’è una differenzia sostanziale tra l’acqua ripartita e l’acqua purificata ripartita in contenitori (è
un’acqua che da un serbatoio veniva ripartita in contenitori che veniva chiusi e veniva utilizzata). Questa
differenza sta nel tipo di contenitore che si utilizza ovvero deve essere un contenitore a chiusura ermetica,
l’altra sostanziale differenza è che l’acqua nei contenitori deve essere chiusa e sterilizzata al calore. Significa
che una volta che l’acqua è stata ripartita deve essere sterilizzata con un metodo che sfrutta
un’apparecchiatura che si chiama autoclave.
Vi è una fase di sterilizzazione nel contenitore definitivo, ossia l’acqua è stata confezionata e viene sterilizzata
nel suo contenitore definitivo (non può subire più alcun tipo di contaminazione e di manipolazione).
Può essere confezionata in bottiglie, in una fiala (di materiale plastico o in vetro) o in flaconcini.

Questo tipo di acqua si utilizza molto in ambiente ospedaliero per diluire medicinali più concentrati prima della
somministrazione oppure per solubilizzare delle polveri. Questo tipo di acqua si può considerare un
“medicinale” (anche se non ha alcun principio attivo, formalmente non è un medicinale), viene venduto in
farmacia e viene trattata a livello di produzione come fosse un medicinale.
Viene:
 Ripartita
 Confezionata
 Etichettata
 Sterilizzata

LEZIONE 14 (25/10/2021)
Acqua sterilizzata per preparazioni iniettabili (continuo della lezione precedente)
Si tratta di un’acqua per preparazioni iniettabili che è stata una volta prodotta ripartita in appositi contenitori
che devono essere ermeticamente chiusi e che devono poi essere sterilizzati nel contenitore finale con una
procedura di sterilizzazione in autoclave.

Questo tipo di acqua deve essere esente da qualsiasi altra sostanza aggiunta (non può essere aggiunto nessun
altro tipo di componente) e inoltre ciascun contenitore deve essere esaminato in condizioni particolari di
visibilità e questo esame visivo deve permettere di verificare che l’acqua sia limpida ed incolore.

Infine la quantità di acqua che è presente in ogni singolo contenitore deve rispondere al volume indicato nel
contenitore. Ad esempio, se parliamo di una bottiglia con il contenuto di 1L (contenuto nominale= contenuto
indicato nell’etichetta) allora la quantità di liquido presente nella bottiglia da 1L deve essere tale da permette
l’effettivo prelevamento della dose riportata.
Questo tipo di caratteristica è presente anche nei preparati iniettabili, ovvero la quantità di liquido presente
deve essere leggermente in eccesso rispetto al volume nominale. Questo perché deve permettere di prelevare
la dose nominale e dato che una certa quantità di liquido rimane quasi sempre adesa alle pareti del contenitore
il produttore deve aggiungere un leggero eccesso.

Sia l’acqua sterilizzata per preparazioni iniettabili sia tutti gli altri formulati per uso iniettabile devono essere
saggiati con un saggio particolare che si trova alla monografia 2.9.17 della farmacopea che si intitola saggio per
il volume estraibile delle preparazioni parenterali. Siccome quest’acqua è considerata a tutti gli effetti una
preparazione parenterale deve essere verificato il volume nominale con questo saggio.

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L’acqua è un eccipiente, di fatto è un solvente per una grande quantità di principi attivi. L’acqua deve essere la
prima scelta in termini di selezione da parte del formulatore. In casi particolari, come nel caso in cui il principio
attivo sia particolarmente insolubile in acqua o qualora il formulatore voglia ottenere delle formulazioni con un
profilo di assorbimento e con una farmacocinetica modificata rispetto alla soluzione acquosa, allora possono
essere utilizzati altri solventi.

Analizziamo i solventi (eccipienti) alternativi all’acqua


Quando sono utilizzati dei solventi diversi dall’acqua questi devono rispondere a un particolare requisito che è
riportato nella monografia 5.4 della farmacopea dove si parla di solventi residui, ossia i limiti di uso di questi
solventi nelle sostanze attive, negli eccipienti e nei prodotti medicinali finiti.
Solventi diversi dall’acqua possono essere utilizzati come solubilizzanti nelle formulazioni, ma possono avere
anche altre funzioni nello sviluppo e nella commercializzazione di prodotti medicinali:
 Sintesi dell’ingrediente attivo (farmaco). I pharmaceutics sono quasi sempre ottenuti per sintesi
chimica e quindi si utilizzano come solventi
 Possono essere usati nella formulazione come eccipienti
 Vengono anche usati nella fase di pulizia delle apparecchiature che vengono utilizzate per la
produzione industriale dei medicinali

Dei solventi e della loro classificazione in termini chimico-fisici ne abbiamo già parlato (come vengono
classificati in base struttura chimica), parliamo adesso dell’uso nella formulazione come eccipienti.

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-Alcool
Nella farmacopea troviamo diversi termini per indicare l’uso di questo solvente:
 Se troviamo il termine “etanolo” senza alcuna altra qualificazione significa che la farmacopea prescrive
l’uso di una sostanza che è l’etanolo anidro, ossia è etanolo senza presenza di acqua (100% etanolo,
alcol etilico C2H6O).

 Se invece troviamo il termine “alcool” senza alcuna altra qualificazione significa che si tratta di un
particolare tipo di etanolo che ha un titolo (concentrazione) di etanolo pari al 96% V/V, quindi sarà
presente il 96% di etanolo e il restate 4% è costituito da acqua. Nel linguaggio comune il termine
“alcool” viene usato come sinonimo del termine “etanolo”, nella farmacopea invece non sono sinonimi.

 In alcuni casi la farmacopea indica anche l’uso di diversi titoli di etanolo, quindi di etanolo
diversamente diluito con acqua. In questo caso di usa sempre il termine alcool che viene seguito dalla
concentrazione di percentuale di etanolo (alcool 30%, 50% ecc)

Nella monografia relativamente all’alcool viene indicato il titolo. La farmacopea ci dice che quando parliamo di
alcool, questo non deve contenere meno di 950ml/L (cioè 95% minimo) e il massimo deve essere del 96,5%,
questo è il range di variazione.
La farmacopea ci dà anche dei caratteri È un liquido, incolore, trasparente, volatile ed ha la caratteristica di
essere infiammabile. Deve essere conservato in recipienti ben chiusi, lontano da fiamme e sorgenti di calore,
quindi anche i vapori che possono scaturire da un contenitore non ben chiuso possono essere infiammabili.

Analogamente a quanto detto per le varie tipologie di acque, anche per l’alcool la farmacopea prevede una
serie di saggi. Anche per l’alcool deve essere valutato il ph (acidità o alcalinità) e soprattutto vi sono dei saggi
che permettono di indentificare l’eventuale presenza di altre sostanze organiche (come l’acetone, il metanolo,
aldeidi, chetoni e 2-propanolo o isopropanolo e alcool denaturato). DEVONO ESSERE ASSENTI.

-Polioli (o polialcoli)
È un altro solvente diverso dall’acqua utilizzato in tecnologia farmaceutica. È un solvente polare protico. I
polialcoli sono sostanze che contengono più di un gruppo ossidrilico e rappresentano un altro tipo di
eccipiente. I polialcoli possono essere suddivisi in ulteriori categorie:
 Dioli sono composti chimici organici che contengano solamente due gruppi ossidrilici. I dioli possono
essere ulteriormente classificati in:
 Dioli geminali che sono dei composti che hanno due gruppi ossidrilici che sono legati allo stesso
atomo di C
 Dioli vicinali hanno due gruppi ossidrilici legati a due atomi di C adiacenti. Un tipico esempio
molto utilizzato in tecnologia farmaceutica è il glicole etilenico. “Glicoli” è un altro nome
83
chimico che indica i dioli vicinali. Il glicole etilenico è una molecola molto semplice, è un
derivato a due atomi di C con due gruppi ossidrilici legati agli atomi di C dell’etilene. Un altro
esempio è il glicole propilenico che presenta due gruppi ossidrilici legati a due atomi di C
vicinali ed è un derivato che presenta un atomo di C in più rispetto al glicole etilenico.

 Polialcoli sono composti chimici organici che contengono più di due alcoli. Un tipico esempio, molto
utilizzato in tecnologia farmaceutica come solvente in miscela con l’etanolo o l’acqua, è la glicerina o
glicerolo (sinonimi). La glicerina è un composto naturale ed è un triolo, cioè ha tre gruppi ossidrilici. È
un derivato a tre atomi di C ciascuno con un gruppo ossidrilico.

 Sugar alcohols (alcoli zuccheri) sono una classe di polialcoli che vengono ottenuti a partire dagli
zuccheri. Questi derivano da una reazione di riduzione degli zuccheri, ed in particolare vengono ridotti i
gruppi tipici degli zuccheri, ossia i gruppi aldeidici o chetonici.
Queste sostanze vengono molto utilizzate perché pur mantenendo un certo grado di capacità
edulcorante, cioè impartiscono un sapore dolce al formulato, quindi sono molto usati in campo di
formulati per uso orale.
Tra i vantaggi hanno un minor contenuto calorico, sono molto utilizzati anche per pazienti per pazienti
che devono seguire diete ipocaloriche e per pazienti diabetici perché innalzano la glicemia molto meno
rispetto ai relativi zuccheri.
Questi zuccheri alcol sono tantissimi, tra i più utilizzati abbiamo il maltitolo, lo xilitolo, il sorbitolo e il
mannitolo. Il maltitolo è uno zucchero alcol che deriva da un disaccaride (una molecola di zucchero
formata da due unità monomeriche), mentre il mannitolo deriva da un monosaccaride.

Questi zuccheri alcol sono utilizzati sia in campo farmaceutico, ma anche in campo alimentare per le
stesse motivazioni ed inoltre sono molto utilizzati anche per le gomme da masticare. Perché avendo
una struttura chimica diversa dagli zuccheri da cui sono originati non sono riconosciuti dai batteri che si
trovano nella bocca, quindi non venendo metabolizzati non originano delle sostanze acide (che si
formano invece quando utilizziamo zuccheri) e si dice che queste sono sostanze siano meno
cariogeniche.
Gli zuccheri alcol sono molto utilizzati come intermedi di reazione, cioè possono essere utilizzati per
produrre altre sostanze, soprattutto perché gli zuccheri di partenza sono delle sostanze che hanno
delle stereochimiche molto particolari (sono tutti composti chirali), quindi si strutta il fatto che il
composto di partenza abbia una stereochimica precisa e quindi poi i chimici possono rielaborare queste
sostanze permettendo di ottenere dei composti con stereochimiche definite (ne parleremo più avanti)

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-Polietilen-glicoli
Parliamo di una categoria di sostanze che sono di tipo polimerico. La maggior parte dei polimeri vengono
indicati con nomi comuni, nel caso di queste sostanze di natura polimerica si utilizzano 3 diverse terminologie:

1. La prima terminologia è quella appena utilizzata ossia polietilenglicoli, spesso in campo farmaceutico
vengono queste sostanze abbreviate con la sigla PEGs
2. Le medesime sostanze vengono indicate anche con altri nomi comuni polietilen-ossidi PEO
3. Oppure poliossietilene POE

Sono tutti sinonimi, anche se una piccola sfumatura nel loro uso la possiamo trovare (ma CONSIDERARLI
SINONIMI che servono ad indicare la stessa categoria di sostanze chimiche)

Da un punto di vista storico dell’evoluzione di questi nomi il termine PEG è quello più utilizzato nel campo
farmaceutico, mentre gli altri due sono utilizzati più in altri settori.
Con il termine PEG si tendono a considerare polimeri a basso peso molecolare (<20.000 Dalton), quando invece
si utilizzano polimeri a più alto peso molecolare (>20.000) allora si usano più i termini PEO e POE.

Indipendentemente dalla nomenclatura hanno un enorme utilizzo in campo tecnologico farmaceutico come
eccipienti, sia come solventi sia per altri scopi come eccipienti diversi.

Sono tutti composti polimerici e si ottengono dalla reazione di un composto che è l’ossido di etilene (è il
monomero che poi forma il polimero, è un composto a basso peso molecolare). Il polimero che si ottiene (PEG)
viene indicato con la formula di struttura (vedi immagine) con le parentesi quadre che indicano l’unità
monomerica ed è presente anche il pedice n che indica l’indice di polimerizzazione che indica il numero medio
di unità monomeriche che formano le catene polimeriche.

Questi PEG sono caratterizzati dal peso molecolare che può variare, variando questo cambiano le
caratteristiche chimico-fisiche.
 Quando il peso molecolare dei PEG è basso (<400-500) abbiamo dei composti a basso peso molecolare
e sono dei liquidi incolore.
 Quando il peso molecolare sale (400-500 fino a 1000-1200) abbiamo dei composti che hanno delle
proprietà fisiche di semisolidi, hanno una consistenza intermedia fra i liquidi e i solidi (sostanze
pastose).

 Infine quando i PEG hanno un peso molecolare >1000-1200 allora abbiamo dei composti che sono dei
solidi. Hanno un aspetto di polveri (solidi in forma particellare)

Variando il peso molecolare abbiamo delle proprietà fisiche e di utilizzo diversi.

I PEG a basso peso molecolare vengono usati come solventi, mentre quelli a peso molecolare medio e alto
vengono usati, ad esempio, come agenti viscosizzanti.

Se troviamo un numero che segue la sigla PEG questo indica il peso molecolare medio. Con il termine polimero
si intende sempre una miscela di macromolecole che da un punto di vista chimico non sono perfettamente
tutte identiche, ad esempio varia la lunghezza della catena. Quindi quando parliamo di peso molecolare di un
polimero, parliamo sempre di un peso molecolare medio che rappresenta la media delle lunghezze delle catene
delle singole macromolecole che formano i polimeri.

POLIMERO e MACROMOLECOLA non sono sinonimi.

85
-Oli
Quando utilizziamo il termine generico “olio” senza un ulteriore specificazione indichiamo delle sostanze che
sono in genere delle sostanze neutre (senza gruppi funzionali carichi), delle sostanze non polari o molto poco
polari di natura chimica. Con oli in genere identifichiamo dei liquidi viscosi ed indichiamo delle sostanze
idrofobiche o lipofile. Quando usiamo il termine “oli” genericamente parliamo di liquidi che sono poco miscibili
con l’acqua o quasi completamente immiscibili.

Quando si mescolano per motivi formulativi acqua ed oli, si formano dei particolari sistemi chiamati sistemi
multifasici (a più fasi) perché sono molto poco miscibili tra loro, hanno un’elevata dissimilitudine chimica.

Altra caratteristica generale degli oli è che sono dei composti con un’elevata presenza di atomi di C e H, quindi
hanno un’elevata presenza di porzioni idrocarburiche. Questo fa sì che gli oli (proprietà generale degli oli) sono
delle sostanze molto infiammabili e scivolose, quindi hanno proprietà infiammabili e lubrificanti.

Siccome gli oli sono delle sostanze viscose (hanno una viscosità superiore rispetto all’acqua) possono essere
classificati in base alla loro viscosità con una sigla che è SAE che sta per Society of Automotive Engineers.
Questa è una classificazione che è stata sviluppata dagli ingegneri che utilizzano gli oli come lubrificanti
soprattutto per i motori, ma poi questa classificazione è stata utilizzata anche da altri settori. Con questa sigla
SAE-seguito da un numero crescente (fino a 60) abbiamo indicazioni sulla viscosità. Numeri bassi significa oli a
bassa viscosità, numeri alti significa oli ad alta viscosità.

Gli oli non sono tutti uguali, ovvero la composizione chimica è diversa. Quasi tutti gli oli che vengono utilizzati
in campo farmaceutico NON sono delle sostanze chimicamente definite, cioè sono quasi sempre delle miscele
di più sostanze con strutture chimiche differenti!!

La struttura chimica degli oli dipende in particolare dalla fonte di estrazione, ovvero gli oli si ottengono da varie
fonti. Tra le sottocategorie degli oli in base alla struttura chimica:

 Di origine animale o, più tipicamente, vegetale Gli oli di natura animale e vegetale soprattutto nei
paesi anglosassoni sono chiamati oli organici. Questa definizione sebbene sia molto usata non è precisa
da un punto di vista di richiamo alla composizione, infatti da un punto di vista linguistico viene definito
misnomer e significa che è una designazione erronea (è una parola il cui termine suggerisce un
significato che si sa già che è sbagliato). Il termine “organic” ci fa pensare a delle sostanze di natura
organica, ma tutti gli oli sono sostanze organiche. In realtà con il termine “organic oil” si vogliono
indicare delle sostanze di origine naturale e soprattutto provengono da prodotti di origine animale o
vegetale.

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 Oli minerali  dovrebbero essere più correttamente indicati come oli di origine petrochimica. Cioè
sono oli di derivazione dal petrolio. Il termine “oli minerali” è un misnomer perché sappiamo che il
petrolio è una miscela di più prodotti di origine organica (e non invece inorganica).

 Oli di natura sintetica Tra questi oli troviamo una categoria che si chiamano oli di silicone

CARATTERISTICHE CHIMICHE DI QUESTI DIVERSI TIPI DI OLI:


Oli minerali
Sono dei derivati che si ottengono per purificazione del petrolio. Sono delle miscele e infatti sono delle
sostanze che sono in genere incolori, inodori e rappresentano delle miscele di alcani (idrocarburi). Siccome
sono delle miscele contengono delle sostanze chimicamente diverse tra loro, ad esempio sono diverse per il
numero di atomi di C che le formano. Nel caso degli oli minerali che si usano in tecnologia farmaceutica
abbiamo un range che va da C15 a C40 (numero di atomi di C che va da 15 a 40).

Esistono diversi oli minerali che sono caratterizzati da una diversa composizione, possiamo avere:
o oli minerali light che hanno mediamente un numero di atomi di C più vicino al 15
o oli minerali pesanti che hanno un peso molecolare medio più vicino a 40.

Variano le loro proprietà, ad esempio di viscosità in base al valore medio degli alcani che formano la miscela.

Si ottengono per un processo di purificazione che è un processo di distillazione. Nello specifico vengono
ottenuti con un processo di distillazione frazionato, cioè il petrolio può essere frazionato in diverse frazioni che
variano per peso molecolare (a seconda del punto di ebollizione abbiamo diverse frazioni).
Gli oli leggeri distilleranno ad una temperatura più bassa, gli oli pesanti ad una temperatura di ebollizione più
elevata.

Nel corso degli anni gli oli minerali sono stati denominati con una moltitudine di nomi diversi che indicano la
stessa tipologia di oli. Tra questi diversi nomi abbiamo il termine di white oil (rispetto al petrolio di partenza
sono degli oli che sono stati purificati con la distillazione, non sono bianchi ma sono incolore), paraffina liquida
(gli alcani vengono anche chiamati paraffini), petrolio liquido, olio di vasellina (nome tipicamente italiano) e
petrolatum (SONO TUTTI SINONIMI).

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Gli oli minerali sono miscele di alcani, il loro peso molecolare medio può variare. Quando il peso molecolare
medio è all’interno del range (tra C15 e C40) abbiamo dei liquidi a viscosità che va aumentando, ma sono
sempre liquidi. Quando parliamo di liquidi parliamo sempre di oli, però il peso molecolare di 40 può essere
superato e ciò che succede è che progressivamente la viscosità delle sostanze aumenta ed aumenta anche la
consistenza di queste sostanze, pertanto passiamo da sostanze liquide (oli) a sostanze semi-solide e addirittura
solide. Quando queste miscele a più alto peso molecolare diventano semi-solide o solide non vengono più
indicate con il termine di oli, ma vengono indicate con il termine di “fat”, ossia grassi.
Quindi quelle citate prima sono tutti LIQUIDI (oli).

QUINDI con il termine olio di vasellina si indica dei composti liquidi, mentre il termine vasellina indica composti
semisolidi. È uno di quegli esempi di nomi proprietari (nomi di fantasia). Vaseline non era altro che il nome
registrato di un particolare unguento che era stato sviluppato da dei prodotti di distillazione del petrolio.

Oli vegetali
Hanno qualche similitudine con gli oli minerali? NO tranne per una caratteristica, ossia anche gli oli vegetali
sono delle miscele di sostanze chimicamente simili, ma non identiche. Gli oli vegetali a differenza degli oli
minerali non sono degli alcani, ma sono miscele di trigliceridi. I trigliceridi sono una famiglia di composti chimici
e sono dei derivati del glicerolo, quest’ultimo è un composto che ha 3 gruppi ossidrilici che nei trigliceridi
vengono esterificati da dalle catene di acidi carbossilici a lunga catena, chiamati acidi grassi. Quindi i trigliceridi
sono anche detti esteri del glicerolo.
Gli oli vegetali sono estratti da avarie parti di piante (frutti o semi) e quando la miscela di questi trigliceridi è
una miscela liquida a RT (room temperature) li chiamiamo oli vegetali; quando invece la miscela ha un peso
molecolare maggiore allora parleremo di grassi vegetali (quindi dipende dalla composizione chimica dei
trigliceridi).

Oli sintetici
Tra questi abbiamo gli oli di silicone che sono molto utilizzati in ambito farmaceutico e soprattutto in ambito
cosmetico. Gli oli di silicone, a differenza della composizione chimica dei minerali e dei vegetali (che sono
entrambi costituiti da sostanze a basso peso molecolare), sono dei composti costituiti da macromolecole, sono
quindi dei polimeri. In particolare gli oli di silicone sono costituiti da molecole chiamati silossani (polisilossani).
La struttura dei polisilossani si vede in basso a dx nell’immagine, sono catene lineari in cui si alternano catene
di O e silicio ripetute n volte (indice di polimerizzazione). Più alto è n e più significa che il peso molecolare
medio è maggiore.
Siccome il silicio è un atomo tetravalente (può avere lo stesso tipo di ibridazione sp3 del C) quindi due dei suoi
legami di valenza sono impegnati nel formare la catena ossigeno-silicio, gli altri due legami di valenza del silicio
sono impegnati nel formare dei legami con dei derivati R, che sono gruppi alchilici piccoli (ad esempio il gruppo
metilico). Quando R è un metile il polimero si chiama polidimetilsilossano.

Queste sostanze a seconda della composizione chimica, cioè a seconda del peso molecolare medio di questi
polimeri possono avere consistenza diversa. Gli oli di silicone sono sostanze che a temperatura ambiente sono
dei liquidi. Se aumentiamo il peso molecolare medio allora si osserva un fenomeno simile a quello visto per i
PEG, quindi avremo dei polidimetilsilossani con consistenza semi-solida oppure solida, a seconda del peso
molecolare medio.

Gli oli sono delle miscele di più sostanze e a seconda della chimica di queste miscele possono essere liquidi,
paste o solidi. Questo è importante per il formulatore perché ci permette di avere la possibilità di modulazione
della formulazione.

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Abbiamo parlato del loro uso come solventi, ma sono molto utilizzati anche per ottenere dei formulati semi-
solidi, ad esempio trovano un grandissimo impiego nell’industria cosmetica per quanto riguarda la
preparazione di formulazioni per uso cutaneo.

Saccarosio sciroppo o sciroppo semplice


È un prodotto che viene utilizzato per solubilizzare principi attivi. Fa parte quindi degli eccipienti che vengono
definiti solventi, ma in realtà non parliamo di un solvente come quelli di cui abbiamo parlato finora perché di
fatto non abbiamo un vero e proprio solvente, ma abbiamo una soluzione che viene utilizzata per solubilizzare
altre sostanze.
È una soluzione di saccarosio in acqua, ma ha proprietà di solvente perché la utilizziamo in tecnologia
farmaceutica per solubilizzare altre sostanze (ad esempio principi attivi).

Così come per molte altre sostanze, anche lo sciroppo di saccarosio trova delle indicazioni su cosa sia, su come
si utilizzi e su come si produca in una specifica monografia della farmacopea ufficiale. Questa soluzione di
saccarosio deve possedere delle caratteristiche particolari, molto ben precisamente definite e deve essere
prodotta con una procedura molto ben definita dalla farmacopea.

Cos’è lo sciroppo di saccarosio?


È una soluzione di saccarosio in acqua. È una soluzione che presenta delle caratteristiche quali-quantitative ben
precise, ovvero deve essere una soluzione che è prodotta con esattamente 665g di saccarosio (zucchero da
cucina, disaccaride) e 335g di acqua depurata. Eventualmente possono essere presenti dei conservanti
preventivamente disciolti nell’acqua depurata, spesso non vengono utilizzati però la farmacopea ci dice che
possono essere usati per migliorare la conservabilità microbiologica dello sciroppo.

Come viene prodotto?


1. la prima fase è quella di portare ad ebollizione per almeno 20 min la quantità di acqua depurata che ci
servirà per allestire lo sciroppo. Grazie a questa preliminare operazione di riscaldamento (100°C)
abbiamo una buona eliminazione (non completa) di tutti gli eventuali microorganismi presenti
nell’acqua depurata, è una operazione di sterilizzazione.

2. Prima di procedere a qualsiasi altra operazione dobbiamo abbassare la temperatura tra gli 80-85°C.

3. Una volta fatto questo, si può procedere ad aggiungere il saccarosio in polvere perché dobbiamo
produrre una soluzione di saccarosio. Questo tipo di preparazione dello sciroppo è la metodica di
preparazione che è attualmente descritta nella farmacopea e viene definita come metodica di
preparazione a caldo.
Storicamente in farmacopee precedenti veniva anche descritta ed utilizzata una procedura a freddo,

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cioè dopo che si era portata ad ebollizione l’acqua si aspettava che l’acqua raggiungesse la temperatura
ambiente. Attualmente però è più conveniente usare la procedura a caldo, in questo modo abbiamo un
procedimento più rapido perché andiamo ad aggiungere il saccarosio in polvere (gradualmente) e
mentre si aggiunge il saccarosio si mantiene l’acqua in agitazione (la legge di Noyes-Whitney ci dice che
agitando velocizziamo il processo di dissoluzione. Aumentiamo la velocità di dissoluzione) per
procedere alla completa dissoluzione dello zucchero. Visivamente dobbiamo accertarci che tutte le
particelle di saccarosio che abbiamo aggiunto siano state completamente disciolte.

4. Una volta che ci siamo accertati di aver disciolto completamente lo zucchero dobbiamo eseguire
un’operazione di filtrazione semplice che serve ad eliminare eventuali residui solidi. Si usa ad esempio
un imbuto di vetro in cui si posiziona una garza che funge da elemento filtrante. Il sistema di filtrazione
e la garza devono essere stati precedentemente riscaldati, perché se fossero freddi potrebbero
eventualmente innescare una reazione di cristallizzazione del saccarosio.

5. Una volta eseguita la filtrazione raccogliamo il filtrato, lo mescoliamo per avere un prodotto omogeno
e sfruttando la bilancia lo portiamo a peso, cioè se eventualmente durante il processo di preparazione
o di filtrazione (dato che avviene ad una temperatura di 80-85°C) una parte dell’acqua (una parte di
335g, se stiamo preparando 1kg di sciroppo) evapora e quindi alla fine del processo dobbiamo riportare
a peso con acqua depurata che abbiamo precedentemente bollito per almeno 20min. in questo modo
saremo certi che la quantità di acqua presente sia effettivamente di 335g per 1kg di preparato.

Quali sono i saggi più importanti che devono essere eseguiti e che sono descritti nella farmacopea:
 se sono stati utilizzati dei conservanti devono essere chiaramente indicati nell’etichetta (tipo e quantità
di conservante)

 la farmacopea dice che l’aspetto deve essere limpido (non ci devono essere particelle in sospensione o
altre sostanze che possano modificare la limpidezza del prodotto) e inoltre lo sciroppo deve avere un
aspetto visivo particolare ovvero non deve presentare una colorazione troppo intensa.
La farmacopea ci dice che lo sciroppo che abbiamo prodotto lo dobbiamo confrontare in termini di
colorazione con la colorazione di una soluzione che è descritta nella farmacopea (che dobbiamo
preparare) che si chiama soluzione di riferimento G6. Dobbiamo quindi preparare questa soluzione e
confrontare la sua colorazione con quella dello sciroppo accertandoci che non sia più colorato di questa
soluzione di riferimento.

 per 1kg di sciroppo

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LEZIONE 15 (26/10/2021)
Abbiamo descritto la preparazione dello sciroppo semplice, ma rimanevano da trattare alcuni aspetti
relativamente focalizzati sull’uso di una particolare temperatura. Perché si utilizza una temperatura di 80-85°C
e perché è importante controllare la temperatura in questo range?
Si utilizza questo range di temperatura per due motivi:

1. Utilizzando una temperatura superiore alla temperatura ambiente favoriamo il processo di


dissoluzione, quindi rendiamo la dissoluzione del saccarosio più rapida.
È importante procedere al raffreddamento dell’acqua da 100°C ad una temperatura inferiore perché
dobbiamo controllare in modo molto accurato la temperatura in quanto gli zuccheri, ed in particolare il
saccarosio, se esposti ad elevate temperature per tempi prolungati vanno incontro ad un processo di
ossidazione che viene chiamato processo di caramelizzazione che è una decomposizione degli
zuccheri. Infatti per gli zuccheri non si trova mai una temperatura di fusione netta, ma nella maggior
parte dei casi troviamo una temperatura di decomposizione perché gli zuccheri si decompongono a
dare dei composti a più basso peso molecolare e liberano anche acqua. Questi sono dei composti
soprattutto di tipo furanico che sono colorati.

Ecco perché la farmacopea si preoccupa di indicare tra i saggi anche uno relativo all’aspetto, cioè la
farmacopea indica che bisogna verificare la colorazione. Questo saggio è incluso per assicurarsi che
durante il processo di preparazione dello sciroppo non si verifichi il processo di caramelizzazione o se
questo processo avviene non deve essere oltre un certo limite che viene misurato visivamente
andando a confrontare il colore dello sciroppo ottenuto con la soluzione di riferimento.

2. Perché si deve utilizzare questa ben precisa quantità e questi ben precisi rapporti fra saccarosio e
acqua? La soluzione (sciroppo) che si ottiene è una soluzione che viene definita quasi satura, ma non
satura. Si deve raggiungere questo limite di quasi saturazione per due motivi:

 Si è scelto di utilizzare questa precisa quantità di saccarosio in modo tale da avere la quasi
saturazione. Questo permette di avere un prodotto stabile alle variazioni di temperatura,
perché se avessimo delle maggiori quantità di saccarosio ci avvicineremmo alla saturazione,
quando abbiamo delle soluzioni che sono molto vicine al punto di saturazione allora queste
soluzioni sono molto sensibili alle variazioni di temperatura. Per cui un abbassamento di
temperatura potrebbe indurre la reazione inversa della solubilizzazione, ovvero la
cristallizzazione. Quindi siccome lo sciroppo che si prepara può subire degli sbalzi di
temperatura ecco che non si eccede nella quantità di saccarosio per mantenerci lontani dalla
concentrazione di saturazione per evitare fenomeni di cristallizzazione del saccarosio.

 Inoltre non si utilizzano delle quantità superiori a quelle indicate anche perché lo sciroppo è di
fatto un veicolo che viene utilizzato per solubilizzare nello sciroppo dei principi attivi. Lo
sciroppo semplice si chiama così perché non contiene alcun tipo di prodotto attivo, ma si
utilizza per solubilizzare dei principi attivi. Quando uno sciroppo semplice viene addizionato di
un farmaco allora non si chiama più sciroppo semplice, ma si chiamerà sciroppo medicato
(diventa a tutti gli effetti un medicinale).
Se utilizzassimo anziché la concentrazione corretta una maggior quantità di saccarosio
raggiungeremmo la saturazione e in questo modo sarebbe più difficile solubilizzare altre
sostanze. Perché dobbiamo ricordare che le proprietà solubilizzanti dello sciroppo sono molto
inferiori delle proprietà solubilizzanti dell’acqua depurata perché l’acqua è già impegnata nella
solubilizzazione del saccarosio, pertanto le proprietà di solvente dello sciroppo sono molto
inferiori.

QUINDI non si eccede le quantità definite sia per stabilizzare lo sciroppo nei confronti delle variazioni di
temperatura sia per permettere la produzione degli sciroppi medicati.
91
Se avvicinandoci alla saturazione possiamo correre il rischio di avere questi tipi di inconvenienti (formazione di
cristalli e scarse capacità solubilizzanti), perché non si riduce la concentrazione? Perché anche un’eventuale
riduzione della concentrazione avrebbe degli effetti negativi. Infatti lo sciroppo è stato così formulato anche
perché l’elevata concentrazione di saccarosio fa sì che il prodotto sia protetto dalla contaminazione batterica
perché grazie all’elevata concentrazione di saccarosio all’interno dello sciroppo si ha un’elevata pressione
osmotica quindi l’acqua che abbiamo nello sciroppo è poco disponibile per la solubilizzazione dei medicinali ma
rappresenta un veicolo in cui i microorganismi hanno difficoltà a proliferare proprio perché abbiamo un
richiamo di liquidi dall’interno del microorganismo verso l’esterno. Quindi lo sciroppo semplice risulta essere di
per sé un ottimo veicolo in quanto possiede delle proprietà antibatteriche di autoconservazione.
Gli sciroppi sono storicamente utilizzati per la conservazione degli alimenti, ad esempio le marmellate sono il
tipico caso in cui abbiamo dei prodotti alimentari con un’elevatissima concentrazione di zuccheri che sfruttano
l’ambiente ad alta pressione osmotica per inibire la crescita microbica. Gli sciroppi devono essere sempre
molto attentamente preparati con 665g/335g (rapporto saccarosio/acqua).

Sciroppi speciali
Sebbene lo sciroppo semplice sia un veicolo molto utilizzato soprattutto per l’allestimento di medicinali in
farmacia (formule magistrali ed officinali), a livello commerciale (cioè nei medicinali allestiti nell’industria
farmaceutica) l’uso dello sciroppo convenzionale sta tendenzialmente diminuendo e da questo punto di vista
sono stati sviluppati degli sciroppi che hanno delle caratteristiche leggermente diverse in termini formulatici,
cioè parliamo degli industrial syrups.

Perché sono stati sviluppati questi sciroppi industriali? Fondamentalmente per evitare da un lato la lunghezza
del processo di dissoluzione del saccarosio, dall’altro lato la poca stabilità del saccarosio al trattamento
termico, ma anche per motivi legati alle controindicazioni (essendo il saccarosio presente in elevate
concentrazioni è controindicato nelle diete ipocaloriche e pazienti diabetici). Per superare questi inconvenienti
nelle grandi quantità di sciroppi che vengono prodotti nell’industria farmaceutica, queste hanno sviluppato gli
sciroppi speciali.
In questi sciroppi speciali si è sostituito il saccarosio con una serie di eccipienti che hanno la funzione di
mascherare la mancanza di saccarosio stesso e le proprietà date dal saccarosio, mantenendo le proprietà
positive ed eliminando quelle negative (lentezza della dissoluzione, possibilità di cristallizzazione, elevato
contenuto calorico, problemi per i diabetici).
Per produrre questi sciroppi industriali si usano dei dolcificanti (altra categoria di eccipienti). Lo sciroppo ha
avuto un grande successo industriale e commerciale perché aveva delle proprietà organolettiche molto
positive. Infatti i principi attivi che si utilizzano negli sciroppi medicati tendenzialmente hanno delle proprietà
organolettiche molto sfavorevoli, sono poco graditi dal paziente, quindi il saccarosio aveva il compito di
rendere dolce la formulazione.

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Per sostituire la positiva proprietà organolettica del saccarosio vengono utilizzate altre sostanze. I dolcificanti,
edulcoranti che si utilizzano sono:
 Polialcoli non zuccheri (zuccheri alcoli). Importo calorico inferiore al saccarosio, ma hanno comunque
un apporto calorico abbastanza elevata.
 Miscele tra questi polialcoli e i dioli o trioli
 Dolcificanti artificiali che hanno delle proprietà di non essere non-nutrity (danno un apporto calorico
alla formulazione molto basso).

Tra i vari DOLCIFICANTI ARTIFICIALI abbiamo l’aspartame (utilizzata anche in campo alimentare e la sigla che lo
identifica in campo alimentare è E951) è un dipeptide che si ottiene dalla reazione di due aminoacidi che sono
l’acido aspartico e la fenilalanina. Questo legame è un legame peptidico, è il legame caratteristico dei peptidi e
delle proteine, in generale si chiama legame amidico che si forma tra un gruppo carbossilico e il gruppo
aminico.

L’aspartame è l’estere metilico del dipeptide tra acido aspartico e fenilalanina.

Altro dolcificante è la saccarina (il nome come ingrediente alimentare è E954) in questo caso è un composto
organico a basso peso molecolare ed è una sulfimide, è all’interno di un ciclo quindi è una benzoicsulfimide.

Fenomeno del cap-locking


Tra gli inconvenienti relativi all’uso del saccarosio ne dobbiamo elencare un altro ossia il fenomeno del cap-
locking.
Nell’immagine vediamo un contenitore tipicamente usato per gli sciroppi che è una bottiglietta oppure flacone.
Il vetro della bottiglia è di colorazione scura viene chiamato vetro ambrato. Questo tipo di contenitore è un
contenitore all’interno del quale abbiamo più dosi (più unità posologiche) e per questo motivo questo
particolare metodo di confezionamento viene chiamato contenitore multidose (significa che nel contenitore
primario sono presenti più dosi). Queste unità posologiche vengono prelevate. I contenitori multidose sono
dotati di una chiusura che deve permettere il prelevamento della dose e deve permettere la chiusura del
contenitore, per questo motivo le bottiglie sono dotate di una chiusura detta tappo a vite perché nella bottiglia
è presente una struttura in cui si avvita il tappo che è la filettatura o filetto (quella della bottiglia è una
filettatura maschio, mentre nel tappo si trova la filettatura femmina). Il filetto ha una struttura elicoidale e
permette la chiusura della bottiglia.
Per prelevare la dose andremo a versare il contenuto su un cucchiaio oppure si trova all’interno del
confezionamento secondario il misurino per prelevare la dose. Durante il versamento una parte del liquido
tenderà a fermarsi sulla filettatura, e se lo sciroppo è uno sciroppo semplice sarà caratterizzato dall’avere una
grande quantità di saccarosio. Cosa succede? di questo liquido residuo che rimane sul filetto l’acqua evaporerà,
il saccarosio cristallizzerà e si avrà il fenomeno del cap-locking. Se non siamo stati attenti a pulire il filetto
avremo delle difficoltà ad aprire il tappo. Per quest’altro motivo sono stati sviluppati gli sciroppi industriali.

Viscosità e viscosizzanti
Un’altra delle proprietà positive degli sciroppi semplici è che sono dei liquidi viscosi. Questa viscosità favorisce
il prelevamento della dose e anche la somministrazione. Il saccarosio impartisce la viscosità e dato che non è
presente negli sciroppi industriali, allora per simulare la viscosità degli sciroppi i formulatori utilizzano degli
agenti che simulano questo effetto del saccarosio, questi sono dei viscosizzanti (eccipienti).

I solubilizzanti favoriscono la solubilizzazione nei solventi


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Per simulare le proprietà dello sciroppo semplice senza avere degli inconvenienti allora negli sciroppi industriali
vengono utilizzanti degli eccipienti come i dolcificanti e i viscosizzanti.
Uno dei più noti viscosizzanti che si utilizza nella formulazione degli sciroppi industriali è la metilcellulosa che è
un derivato semisintetico della cellulosa.

Conclusione della parte relativa alle formulazioni liquide per uso orale andando ad illustrare delle particolari
formulazioni che sono descritte nella farmacopea come basi per le preparazioni liquide per uso orale. Questi
sono dei formulati che sono proposti in farmacopea come alternative agli sciroppi semplici, speciali e medicati.
La farmacopea le chiama basi, ma sono di fatto delle formulazioni che permettono di essere utilizzate per
solubilizzare al loro interno dei principi attivi.
La descrizione di queste basi per preparazioni liquide per uso orale si trovano alla monografia 0672 della
farmacopea. Nello specifico sono due diverse basi che sono descritte nella farmacopea con una tabella che
include gli eccipienti e il loro peso.
Nel caso particolare di queste basi la farmacopea non fa riferimento a dei rapporti ponderali (peso su peso), ma
fa riferimento a dei rapporti peso su volume ed in particolare sono pesi in g di eccipiente che devono essere
utilizzati per preparare 100ml finali di formulazione (base). Non è più 1 kg ma sono 100ml (q.b.a=quanto basta
a).

Ad esempio:
1. Se vogliamo ottenere la base chiamata formulazione 1dobbiamo pesare 7,35 g di sorbitolo, 10g di
glicerolo 85% e 46,5g di saccarosio. Questi eccipienti vanno solubilizzati in acqua depurata e il volume
di acqua che dobbiamo aggiungere è “quanto basta a raggiungere i 100ml”. Non useremo 100ml di
acqua perché un certo volume è occupato dagli eccipienti. Utilizzeremo quindi un cilindro graduato fino
al livello dei 100ml

2. Se vogliamo ottenere la base chiamata formulazione 2 il saccarosio non è presente. Abbiamo


soltanto i 28g di sorbitolo e 10g di glicerolo 85%.

Si procede quindi andando a solubilizzare questi eccipienti. La farmacopea ci dice di discioglierli agitando ad
una temperatura di 50°C con acqua depurata, lasciamo raffreddare a temperatura ambiente, aggiungiamo i
componenti liquide (glicerolo 85%) ed infine si va a volume con l’acqua depurata utilizzando un cilindro
graduato. Se necessario filtrare su ganza o colino, quindi se visivamente dovessimo vedere che ci sono delle
particelle in sospensione estranee.
Infine è prescritto che eventualmente le basi possono contenere anche il 7% p/v di etanolo 96%, questo
volume di etanolo andrà sottratto all’acqua depurata. L’etanolo può essere utilizzato per alcuni pazienti (non in
pazienti in età pediatrica) come eccipiente che migliora le proprietà di solvente di queste basi. Soprattutto se
utilizziamo dei principi attivi poco idrofili, usando l’etanolo, possiamo migliorare le proprietà di solubilizzazione
delle basi e miglioriamo la conservabilità (l’etanolo inibisce la crescita microbica).
In questo caso l’etanolo è un co-solventi perché forma una miscela di solventi.
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Lo studio dei limiti di presenza degli eccipienti
Abbiamo parlato dell’uso dei solventi organici che vengono usati per la sintesi del principio attivo, vengono
usati come componenti della formulazione e possono essere usati anche per la pulizia delle strumentazioni.
Si possono classificare i solventi (oltre che in termini chimico-fisici, in base alla struttura molecolare e alle
proprietà di polarità dei solventi) in base al rischio tossicologico della presenza di solventi.
Questo rischio legato all’uso e alla presenza di solventi organici diversi dall’acqua è stato valutato dalla
commissione internazionale (ICH) che ha fatto dei lavori che hanno portato alla scrittura di una relazione che si
chiama ICH Q3C (sono linee guida per la valutazione dei solventi organici nei medicinali) ed i lavori di questa
commissione sono stati inclusi nelle farmacopee.
Questa commissione ha classificato i solventi con un criterio che fa riferimento al potenziale rischio per la
salute umana, questo è stato tradotto nel termine “permitted daily exposure PDE”, sono dei limiti oltre i quali
non si deve andare, sono i massimi limiti permessi di esposizione giornaliera ad un determinato solvente che è
presente nei medicinali.

Con questo criterio sono state elaborate 4 classi di rischio:


1. I solventi di classe 1 devono essere evitati
2. I solventi di classe 2 devono essere limitati
3. I solventi di classe 3 hanno un basso impatto di tossicità
4. I solventi di classe 4 sono solventi che la commissione ha indicato come “senza degli adeguati
riferimenti tossicologici”, ancora in fase di studio

La descrizione dettagliata di queste linee guida per i solventi residui nei medicinali si trovano anche nel sito
della EMA (oltre che nella farmacopea)

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Solventi di classe 1
Non dovrebbero essere utilizzati nella fabbricazione dei principi attivi, degli eccipienti e dei prodotti medicinali.
Tra questi abbiamo:
 Tetracloruro di carbonio
 Benzene (carcinogeno)

Sono sostanze molto pericolose, riconosciute come tossiche per l’uomo, per l’ambiente e carcinogene.
Tuttavia se sono inevitabili potrebbero essere utilizzati, ma deve essere limitato ad una concentrazione limite di
esposizione di 4 parti per milione (nel caso del tetracloruro di carbonio).

Solventi di classe 2
Sono solventi mediamente tossici o altamente tossici, possono avere dei problemi di neurotossicità, possono
essere in alcuni casi teratogeni. Per questi casi si introduce il concetto della permitted daily exposure (dose
massima permessa di esposizione giornaliera).
Ad esempio:
 L’esano
 Il metanolo
 Il toluene (di cui ci ha parlato)
 Il cicloesano
 Il clorobenzene
 Il cloroformio (ha una dose di esposizione giornaliera di 0,6mg per giorno)

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Solventi di classe 3
Poco tossici, basso rischio. Sono quelli più utilizzati, tra cui:
 Etanolo
 Etilacetato
 Acetone
 Eptano
 Etil formiato
 Formic acetato

Solventi di classe 4
Sono solventi che potrebbero essere di qualche interesse per la produzione di eccipienti, dei principi attivi e dei
medicinali, però non sono ancora disponibili e quindi non è ancora stato dato un valore di PDE. Tra questi:
 Isoctano
 Isopropil etere
 Metilisopropil chetone

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LEZIONE 16 (26/10/2021)
Continuiamo a trattare le caratteristiche dei medicinali a stato fisico LIQUIDO.

I SISTEMI MULTIFASICI
 Nella fotografia di sinistra ci sono 2 bottiglie: la bottiglia sulla sx contiene solo acqua depurata, quella a
dx contiene una miscela al 50% di acqua e al 50% di etanolo.  Come si potrebbe definire una miscela
di acqua ed etanolo? Si potrebbe definire come ‘’soluzione omogenea’’ (il termine miscela può essere
quindi utilizzato al pari del termine soluzione).
Dall’aspetto simile dei liquidi contenuti in queste due bottiglie deduciamo, dunque, che visivamente un
liquido puro (di natura incolore) e una soluzione formata da 2 liquidi sono perfettamente indistinguibili.

Miscela e
soluzione=
sinonimi

 Nell’immagine a destra, invece, si nota che la bottiglia sulla sx contiene un liquido trasparente, mentre
quella sulla dx contiene un liquido torbido. Questa opalescenza deriva dalla presenza, nella bottiglia di
destra, di 2 liquidi differenti dal punto di vista chimico. In particolare, il liquido presente nella bottiglia
di destra, che conferisce l’opalescenza all’intero sistema, è un liquido apolare. La presenza di questo
liquido apolare, combinato con acqua, porta alla formazione di una miscela eterogenea, o meglio un
sistema multifasico. Nello specifico, il liquido apolare aggiunto all’acqua in bottiglia è l’esano
(idrocarburo). L’esano, essendo apolare, una volta aggiunto all’acqua, si concentra nella porzione
superiore della bottiglia, formando uno strato (‘’layer’’).

[L’esano è un idrocarburo, formato da C e H, è formato da 6 atomo di C, è una molecola lineare (normal-esano),


molecola completamente apolare perché C e H hanno una simile elettronegatività. Quindi il legame C-H è
molto poco polarizzato e significa gli elettroni sono uniformante distribuiti attorno ai due atomi]

Un sistema multifasico, nello specifico, si ottiene


quando si mescolano 2 liquidi immiscibili tra loro
(come acqua e liquido apolare).

Vi sono delle differenze tra i sistemi monofasici (come ad esempio le miscele di due liquidi miscibili tra loro, o
come le soluzioni) e i sistemi multifasici. Questi infatti hanno differenti proprietà, differenti modalità di
preparazione e di conservazione.

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Approfondimento sulle pipette

 questa immagine riporta delle pipette graduate e ciascuna ha una


fascia colorata che indica e specifica il volume (dal basso all’alto 25ml, 10ml, 5ml, 2ml, 1ml.

questa si chiama pro-pipetta o palla di Peleo

 Pipette Pasteur (in vetro) introdotte dal microbiologo Pasteur che ha


inventato il processo di pastorizzazione del latte.

 Pipette Pasteur in plastica

Nelle pipette in plastica la parte per aspirare è solidare alla pipetta stessa (un corpo unico), in quelle
in vetro si utilizza una parte che è in materiale elastomerico (questa parte si chiama tettarella).
Queste pipette in vetro o in plastica presentano un’apertura che si chiama orifizio che è dell’ordine
di quale frazione di mm.

La differenza tra sistemi monofasici e multifasici può essere compresa analizzando la omogeneità dei sistemi.
Immaginiamo di avere una pipetta nanometrica (che in realtà non esiste), avente un’apertura terminale (detta
‘’orifizio’’ della pipetta) di 2 nanometri. Con questa pipetta andiamo a prelevare casualmente dei campioni
dalle bottiglie a dx nelle 2 immagini precedenti. Da entrambe le bottiglie decidiamo di prelevare casualmente
10 campioni.

 Partendo dalla bottiglia a dx nell’immagine sulla sinistra (ovvero quella contenente acqua ed etanolo),
noteremo che tutti e 10 i campioni prelevati in scala nanometrica conterranno sempre il 50% di acqua
e il 50% di etanolo, al pari del liquido iniziale in bottiglia. Ciò significa che in un sistema monofasico si
avrà sempre una omogeneità su scala nanometrica* nella distribuzione degli elementi della soluzione
(ovvero acqua ed etanolo sono omogeneamente distribuiti fino a scala nanometrica).

*la scala nanometrica è una scala delle dimensioni molecolari.

99
 Invece, dei 10 campioni prelevati dalla bottiglia a dx nell’immagine sulla destra, noteremo che alcuni
potranno contenere esclusivamente acqua, altri potranno contenere esclusivamente esano. Questo
perché, trattandosi di un sistema multifasico (o ‘’bifasico’’, in quanto contenente due soli liquidi), si
tratterà di sistemi disomogenei su scala nanometrica.
In un sistema multifasico, quindi, sono presenti degli ‘’elementi discreti’’*. Gli elementi discreti sono
zone del sistema che sono diverse dal sistema nella sua interezza. Questo significa che l’esano non è
continuo in tutto il sistema, ma si presenta con elementi discreti:
- se noi pipettiamo dove c’è un elemento discreto, troveremo 100% di esano;
- se pipettiamo dove c’è solo acqua, troveremo 100% di acqua.

Riassumendo:
 Sistemi monofasici omogenei su scala nanometrica.
 Sistemi multifasici disomogenei su scala nanometrica,
perché le fasi si presentano sotto forma di elementi discreti.

FOCUS TERMINOLOGICO: il sistema disperso è un


sistema multifasico, mentre una soluzione è un
sistema monofasico.

Cos’è una ‘’FASE’’?


Una fase è una regione tridimensionale (un elemento discreto o un insieme di elementi discreti) all’interno di
un sistema multifasico che può avere stato fisico solido, liquido o gas. Le varie fasi di un sistema multifasico
dovranno essere diverse, altrimenti si tratterebbe di un sistema omogeneo. In cosa sono diverse queste fasi? Le
fasi possono essere diverse per composizione chimica o per stato fisico. Ogni singola fase però deve essere, di
per sé (cioè al suo interno), uniforme dal punto di vista fisico e chimico. Spieghiamo questo aspetto con degli
esempi:

- Un bicchiere contenente solo acqua allo stato liquido, ad esempio, è un sistema monofasico.
- Un esempio di sistema multifasico, invece, è un bicchiere contenente acqua allo stato liquido e
ghiaccio, cioè acqua allo stato solido, quindi composti uguali dal punto di vista chimico ma differenti dal
punto di vista fisico. Si tratta di un esempio di sistema multifasico al cui interno ogni singolo cubetto di
ghiaccio rappresenta un elemento discreto.
Se, ad esempio, questi cubetti di ghiaccio venissero triturati in granita, comunque si tratterebbe di un
sistema multifasico. Questo spiega dunque che gli elementi discreti possono variare in forma e
dimensioni, senza cambiare la composizione.

100
Ricapitolando, quindi, un sistema multifasico è un sistema che contiene almeno due fasi
ed almeno una si trova sotto forma di elementi discreti (ad esempio i cubetti di
ghiaccio). I sistemi multifasici sono disomogenei su scala nanometrica.

SISTEMI MULTIFASICI O ‘’SISTEMI DISPERSI’’


In settori come quello della tecnologia farmaceutica i sistemi multifasici sono anche definiti con il sinonimo di
‘’sistemi dispersi’’. Questo termine si usa in quanto i sistemi dispersi, soprattutto quelli utilizzati in tecnologia
farmaceutica, sono definiti con dei termini che indicano che questi sistemi dispersi siano costituiti da almeno
due fasi. In tecnologia farmaceutica, le 2 fasi che costituiscono il sistema disperso sono definite come ‘’fase
disperdente’’ e ‘’fase dispersa’’.

Nelle immagini in slide sono mostrati 2 esempi naturali di sistema disperso o multifasico: la nebbia e i fumi.
Infatti, se utilizzassimo una pipetta nanometrica per prelevare dei campioni di aria da entrambi questi sistemi,
troveremmo dei campioni che risultano disomogenei.

- In particolare, la nebbia è un sistema disperso in cui gli elementi discreti sono rappresentati da
goccioline di acqua dalla forma sferica, dunque differenti dalla restante parte del sistema disperso,
costituita invece da aria.
Si chiamano ‘’sistemi dispersi’’ poiché le goccioline d’acqua in questione sono disperse nell’aria.
Dunque, nel caso della nebbia, la fase aria è definita FASE DISPERDENTE, mentre le goccioline di acqua
sono la FASE DISPERSA.

- Nei fumi, in modo del tutto analogo, la fase dispersa (cioè gli elementi discreti) è costituita da particelle
solide (derivanti ad esempio dalla combustione), mentre la fase disperdente è l’aria.

GLI ELEMENTI DISCRETI, DUNQUE, POSSONO AVERE FORMA,


DIMENSIONE E STATO FISICO DIFFERENTE.

NB: generalmente la fase che è volumetricamente predominante costituisce la fase disperdente, mentre la
fase volumetricamente minoritaria costituisce la fase dispersa. Esistono ovviamente però delle eccezioni in cui
la fase volumetricamente minoritaria costituisce la fase disperdente

101
CLASSIFICAZIONE DEI SISTEMI DISPERSI
Parlando di classificazione, i criteri usati per classificare i sistemi dispersi possono essere di vario tipo. Vediamo
una tabella che usa come parametro di classificazione la composizione dei sistemi dispersi in termini di stato
fisico.

Il prefisso Micro
o Nano dà una
indicazione
dimensionale
degli elementi
discreti.

La tabella è suddivisa in 4 colonne: la prima che riporta lo stato fisico della fase dispersa, la seconda che riporta
lo stato fisico della fase disperdente (o continua), la terza che riporta il nome del sistema e l’ultima che riporta
un esempio.

 La nebbia è un sistema disperso in cui la fase dispersa è un liquido (goccioline di acqua), mentre la fase
disperdente è un gas. Quando la fase dispersa è allo stato liquido, gli elementi discreti sono definiti
‘’droplets’’. Un sistema disperso di questo tipo, in cui c’è un liquido disperso in un gas, si chiama
AEROSOL DI GOCCIOLINE LIQUIDE.
 Segue poi il fumo, in cui la fase dispersa è costituita da particelle solide, mentre la fase disperdente è
costituita da gas. In questo caso il sistema disperso prende il nome di AEROSOL DI PARTICELLE SOLIDE.

 Quando, invece, un sistema disperso presenta elementi discreti allo stato fisico gas (che prendono il
nome di ‘’bollicine’’), mentre la fase disperdente è costituita da un liquido, questo sistema è definito
SCHIUMA. Esempi di schiume sono quelle utilizzate a livello cosmetico, farmaceutico o alimentare.

 Un altro esempio di sistema disperso è l’EMULSIONE, in cui la fase dispersa è costituita da un liquido, e
anche la fase disperdente è costituita da un liquido. Un esempio è il latte, formato da goccioline
lipidiche (apolari) in acqua (polare).

 Il sistema disperso in cui la fase dispersa è costituita da particelle solide, mentre la fase disperdente è
un liquido, prende il nome di SOSPENSIONE. Emulsioni e sospensioni sono importantissimi a livello
farmaceutico.

 Il sistema disperso in cui la fase dispersa è un gas (= ‘’bollicine’’), mentre la fase disperdente ha forma
solida, prende il nome di SCHIUMA SOLIDA. Le schiume solide sono molto utilizzate nel settore degli
imballaggi. Un esempio è il poliuretano espanso.

 Il sistema disperso in cui la fase dispersa è un liquido, mentre la fase disperdente è un solido, prende il
nome di EMULSIONE SOLIDA (si usa anche il termine semi-solida, perché spesso la fase disperdente è
semi-solida). Esempi di emulsioni solide sono le creme.

102
 Il sistema disperso in cui la fase dispersa è un solido, e la fase disperdente è anch’essa un solido,
prende il nome di SOSPENSIONE SOLIDA. Un esempio sono i ‘’pigmenti plastici’’, come i pellet. La
maggior parte dei polimeri che vengono utilizzati per produrre le plastiche sono incolori, dunque la
colorazione delle plastiche è impartita dall’uso di pigmenti, che sono particelle solide colorate disperse
all’interno della matrice polimerica.

LEZIONE 17 (29/10/2021)
Abbiamo introdotto i sistemi multifasici, o sistemi dispersi, o dispersioni, ed abbiamo trattato la loro
classificazione basata sugli stati fisici di fase disperdente e fase dispersa, analizziamo ora le differenze tra
sistemi dispersi e soluzioni.

LE DIMENSIONI
Le dimensioni hanno una certa importanza nello studio dei sistemi dispersi. Quando si parla di dimensioni dei
sistemi dispersi, ci si riferisce alle dimensioni MEDIE degli elementi discreti che costituiscono la fase dispersa (e
non al volume macroscopico del sistema disperso). Le dimensioni, infatti, influenzano le modalità di
preparazione e di uso dei sistemi dispersi.

La maggioranza dei sistemi dispersi usati in campo tecnologico hanno dimensioni comprese nella scala del
micrometro o nanometro, come abbiamo visto in precedenza. Questa slide dà un’idea di queste dimensioni:
- I globuli rossi, ad esempio, hanno dimensioni attorni ai 5 micrometri.
- Un virus come il corona virus, invece, mediamente ha dimensioni tra 50 e 140 nanometri.
- Un capello ha, come spessore, dimensioni che vanno da 60 a 120 micrometri (1picometro = 10%( 67).
- La doppia elica di DNA ha diametro attorno ai 2 nanometri.
- Un atomo di oro ha dimensioni di 135 picometri (=dimensioni sub-nanometriche).

Le soluzioni hanno delle proprietà diverse rispetto ai sistemi dispersi.

Dunque, assumendo che anche le soluzioni presentano degli elementi discreti, rappresentati dalle molecole o
ioni di soluto, questi elementi discreti avranno delle dimensioni molto minori rispetto a macromolecole quali il
DNA o una particella virale.

103
Questa tabella riporta una classificazione dei sistemi dispersi che utilizza, come criterio, le DIMENSIONI. La
tabella è suddivisa in 3 colonne, in ognuna delle quali è riportata una categoria dimensionale usata per
classificare i sistemi dispersi. In realtà, tra queste 3 colonne, soltanto 2 fanno riferimento ai sistemi dispersi.

 Nella prima colonna, infatti, troviamo la prima categoria dimensionale, in cui gli elementi discreti della
fase dispersa sono i più piccoli le dimensioni sono sempre < 1nanometro. Queste dimensioni fanno
riferimento alle dimensioni della fase dispersa all’interno delle SOLUZIONI. Le soluzioni sono
effettivamente dei particolari tipi di sistemi dispersi, note anche con il nome di ‘’dispersioni molecolari’’
o ‘’dispersioni ioniche’’ (a seconda che si tratti di molecole cariche o non cariche). Nella chimico-fisica
dei sistemi dispersi, questa prima categoria è anche definita categoria delle ‘’true solutions’’.
Le soluzioni si differenziano dalle successive 2 categorie in quanto hanno proprietà diverse. Le true
solutions si differenziano poiché, se campionate (pipetta nanometrica), in ognuno di questi campioni di
true solution troveremo sempre lo stesso tipo di prodotto. Questo perché, all’interno di una soluzione,
le dimensioni di molecole del soluto e di solvente sono omogenee a livello nanometrico (sono cioè
comparabili a livello dimensionale, in quanto entrambe hanno dimensioni nanometriche o sub-
nanometriche).

Il fatto che soluto e solvente abbiano dimensioni comparabili, fa sì che le true solutions abbiano
proprietà particolari:
- le molecole/ ioni in soluzione hanno la caratteristica di diffondere molto rapidamente. Questo significa
che, versando in un becker, ad esempio, una soluzione diluita e una concentrata, l’equilibrio sarà
raggiunto molto rapidamente, perché gli elementi diffondono rapidamente.
- Ioni e molecole in questione, avendo dimensioni così piccole, solitamente non sono visibili anche con la
microscopia elettronica. In realtà però alcuni elementi di dimensioni così piccole (frazioni di
nanometro) allo stato solido (non in soluzione) possono essere visualizzati attraverso delle tecniche
microscopiche sofisticate.
- Il fatto che questi elementi siano così piccoli li rende molto difficilmente filtrabili, se non con
membrane di filtrazione che hanno porosità comparabili con queste dimensioni (nanomembrane).

 Nella seconda colonna, invece, viene riportata un’altra categoria: le DISPERSIONI COLLOIDALI (o
‘’colloidi’’, o ‘’nanodispersioni’’). Questo nome deriva dal fatto che le prime tipologie di queste
dispersioni avevano un aspetto di colla.

104
Nelle dispersioni colloidali gli elementi discreti hanno dimensioni che rientrano tra 1 nanometro e 1
micrometro (10%(di differenza). Se disperdessi, ad esempio, una particella virale all’interno di acqua,
per le dimensioni del virus stesso, otterrei una dispersione colloidale. In questo range tra 1 nm e 1
micron rientrano anche molte macromolecole.
In questa categoria troviamo anche elementi discreti di natura sintetica (cioè prodotti dall’uomo) come
le NANOPARTICELLE. Un esempio di nanoparticelle è l’argento colloidale: particelle di argento metallico
di dimensioni nanometriche, disperse in acqua, che formano una dispersione colloidale.

I limiti dimensionali che separano queste 3 categorie in esame NON sono limiti rigidi ed immutabili,
ma si tratta di limiti indicativi

LEZIONE 18 (02/11/2021)
Nella lezione precedente abbiamo analizzato la tabella in cui viene descritta una classificazione dimensionale
dei sistemi dispersi, trattando la prima classe delle ‘’true solutions’’, e la seconda classe delle ‘’dispersioni
colloidali’’. Le dispersioni colloidali sono quelle in cui gli elementi discreti della fase dispersa hanno dimensioni
generalmente comprese tra 1 nanometro e 1 micrometro. Questi tipi di dispersioni colloidali sono
rappresentati da diversi esempi in cui troviamo:
- molecole naturali come l’insulina e l’emoglobina (proteine),
- le particelle virali (come corona virus),
- o nanoparticelle di tipo inorganico (metalli oppure Sali molto poco solubili in acqua).

Le dispersioni colloidali si differenziano dalle true solutions proprio perchè gli elementi discreti che
compongono la fase dispersa sono molto più grandi rispetto alle molecole della fase disperdente (nelle true
solution, invece, le molecole di soluto e quelle di solvente hanno dimensioni paragonabili). Questo rende
possibile ottenere delle immagini di questo tipo di elementi che possono essere ottenute ad esempio tramite
microscopia elettronica.

Essendo più grandi, questi elementi discreti sono più facilmente trattenute da sistemi di filtrazione (come
membrane semi permeabili per la nano e microfiltrazione). Un altro aspetto è che gli elementi della fase
dispersa all’interno delle dispersioni colloidali, contrariamente a quelle delle true solutions, diffondono molto
più lentamente.

 Terza categoria dimensionale dei sistemi dispersi la terza categoria prende il nome di ‘’coarse
dispersion’’, o ‘’dispersioni grossolane’’. Il termine grossolane, o grosse, fa sempre riferimento alle
dimensioni medie degli elementi discreti della fase dispersa.

SPECIFICA TERMINOLOGICA il termine ‘’coarse’’ (=grossolano) viene utilizzato in 2 ambiti


scientifici differenti:
- il primo è quello di cui stiamo parlando, ovvero la classificazione dei sistemi dispersi in questo caso il
termine dispersioni grossolane fa riferimento ad elementi aventi dimensioni > 1 micrometro (qualche
decina e più raramente qualche centinaio di micrometri)

- mentre il secondo è quello che fa riferimento alla classificazione delle polveri allo stato secco (non
disperse). In questo caso, il termine ‘’grossolano’’ associato alla classificazione di polveri allo stato secco
(‘’powders’’), fa riferimento a 5 diverse categorie in cui le polveri possono essere classificate in 5 categorie:
very fine, fine, moderately fine, coarse, very coarse.
In questo caso vediamo che le polveri coarse hanno delle dimensioni che vanno da 355 a 1000 micrometri,
quindi sono dimensioni molto maggiori rispetto a quelle che avevamo utilizzato nella classificazione dei
sistemi dispersi.

105
Quindi i 2 termini, nei due ambiti scientifici, avranno significati dimensionali completamente differenti!
Caratteristiche delle dispersioni grossolane:
 le dimensioni  sono sempre maggiori rispetto alle 2 categorie precedenti. Queste particelle sono
infatti visibili con un normale microscopio ottico. Parliamo di dimensioni superiori al micron, ad
esempio i batteri (dimensionalmente sono molto più grandi dei virus). Oppure il nucleo di una cellula
umana è di circa 1,7 micrometri. Oppure lo spessore di un globulo rosso che è di circa 2-3 micron,
mentre il diametro è di circa 8 micrometri.
Questa tabella quindi ci dice che il sangue è un esempio di dispersioni grossolane in quanto gli
elementi figurati al suo interno, per dimensioni, rientrano nelle dimensioni degli elementi discreti di
questo tipo di dispersioni.
Anche nel caso delle colture cellulari avremo delle cellule che sono disperse in un terreno di coltura e
quindi si tratta di un sistema disperso grossolano.

 Inoltre, avendo gli elementi discreti di queste dispersioni elevate dimensioni, risultano facilmente
filtrabili da membrane filtranti con porosità maggiore.

 Infine, questi elementi NON diffondono. Questo non significa che non si muovano all’interno della fase
disperdente, ma significa che hanno dei movimenti non governati dalla diffusione, ma da altri fenomeni
che vedremo successivamente. La velocità di diffusione, vedremo, è un elemento discriminante nel
classificare le dispersioni (le molecolari diffusione rapida; le colloidali  diffusione lenta; le
grossolane non diffusione).
Esempi di dispersioni grossolane sono anche:
- Emulsioni
- Sospensioni
- Sospensioni cellulari, sospensioni batteriche e di cellule eucariotiche

Le dispersioni colloidali, tra le 3 categorie, sono quelle più sviluppate negli ultimi anni. Queste, infatti, sono
state definite a livello terminologico come NANOTECNOLOGIE. Le dispersioni colloidali sono, di fatto, delle
nanodispersioni.

106
La nanotecnologia è una disciplina scientifica molto interdisciplinare poiché studiata in tanti settori
contemporaneamente: chimica, fisica, chimica farmaceutica, elettronica, medicina, biologia, ambiente ecc.

La nanotecnologia studia il processamento, la manipolazione e la produzione di nuovi materiali che presentano


dimensioni nanometriche. In particolare dal punto di vista delle dimensioni, il termine ‘’nanometrico’’, per
alcuni, fa riferimento a sistemi in cui la scala dimensionale è quella compresa tra 1 e 100 nanometri; per altri
tra 1 e 200 nm; per altri ancora tra 1 e 1000nm.

DIFFERENZE TRA ‘’TRUE SOLUTIONS’’ E DISPERSIONI (colloidali e grossolane):


Nel caso delle soluzioni:
 Mescolando due o più soluzioni, queste si miscelano rapidamente e spontaneamente. Di conseguenza,
la preparazione di queste soluzioni è rapida e facile. Ad esempio, mescolando due diverse soluzioni,
una contenente un colorante blu e un’altra contenente un colorante rosso, rapidamente otterremo
una miscela con un colore viola risultante dalla miscelazione dei 2 colori. Questo avverrà
indipendentemente dalle modalità con cui avviene la miscelazione! (possiamo mescolarle più
velocemente o più lentamente).
Questo avviene perché i 2 liquidi sono miscibili.

 Inoltre, la soluzione finale ottenuta risulta essere un sistema termodinamicamente stabile cioè non
ci saranno problemi di demiscelazione ovvero la soluzione finale non può tornare spontaneamente
alle 2 soluzioni iniziali.

 Le proprietà finali delle soluzioni sono indipendenti dal metodo usato per prepararle.

Al contrario, nel caso delle dispersioni:


 La miscelazione non avviene spontaneamente, ma richiede un input energetico, generalmente di tipo
meccanico (ad esempio agitazione manuale). Ad esempio, dalla miscelazione di una fase contenente
colorante blu e una contenente colorante rosso, non otterremo una miscelazione rapida e spontanea,
ma dobbiamo fornire energia. Dalla miscelazione di questi due elementi otteniamo un sistema
disperso. In questo caso abbiamo degli elementi discreti (cioè abbiamo delle gocciolinemicrodroplets
che contengono il colorante blu) disperse in una fase disperdente (che contiene il colorante rosso).

Questo sistema disperso in cui la fase disperdente è un liquido e la fase dispersa è anch’essa un liquido
è un esempio di emulsione. Quando, infatti, si mescolano 2 liquidi immiscibili o molto poco miscibili,
otterremo una dispersione, o una emulsione come in questo caso.

107
 Le dispersioni, al contrario delle soluzioni, sono INSTABILI. Questo implica che, se l’evento di
miscelazione è instabile, sarà favorito l’evento opposto, cioè la demiscelazione.

 Infine, le proprietà delle dispersioni risultano fortemente dipendenti dalle modalità con cui vengono
preparati!  anche semplicemente il tipo di contenitore, quanto abbiamo agitato, il tipo di tappo che
abbiamo utilizzato, che volume abbiamo utilizzato

Ovviamente, nel caso delle dispersioni, il fatto che si tratti di ‘’colloidali’’ o ‘’grossolane’’ dipenderà dalle
dimensioni medie degli elementi discreti all’interno del sistema disperso. In particolare:
- se questi hanno dimensioni nanometriche, si otterrà una dispersione colloidale,
- se hanno dimensioni micrometriche, una dispersione grossolana.

L’ottenimento di dispersioni colloidali o grossolane dipenderà anche dalla quantità di energia meccanica
utilizzata nel procedimento:
- Utilizzando molta energia, otterremo delle dispersioni colloidali;
- Utilizzando meno energia, otterremo delle dispersioni grossolane.

LA FORMA DEGLI ELEMENTI DISCRETI


Oltre che in base alle dimensioni, i sistemi dispersi possono essere caratterizzati anche dalla forma degli
elementi discreti. In particolare, parlando di ‘’forma’’ di elementi discreti, ci si riferisce nello specifico a
elementi discreti aventi stato fisico SOLIDO. Gli elementi discreti allo stato solido prendono il nome di
particelle (‘’nano o microparticelle’’).

Quando parliamo di forma degli elementi discreti, dunque, si fa sempre riferimento alla forma delle particelle
solide di elementi discreti perché i solidi possono avere delle forme anche irregolari, al contrario degli elementi
discreti allo stato liquido o gas (bollicine e goccioline), che hanno sempre forma regolare, cioè sferica!

Quindi, le particelle di elemento discreto SOLIDO possono avere forma:


- Sferica, quindi regolare;
- Elissoidale (di tipo prolato o ‘’palla da rugby’’ e oblato o ‘’a disco’’);
- A bastoncino o ad ago;
- A disco;
- A struttura filamentosa. Questa è la tipica struttura delle macromolecole polimeriche.

NB: Quando gli elementi sono di natura inorganica, hanno tutti una struttura ben definita e non modificabile.
Al contrario, le macromolecole polimeriche (proteine o acidi nucleici o polimeri sintetici ad esempio) hanno una
struttura che può essere modificata, ad esempio dall’ambiente in cui si trovano.

Quindi queste strutture tipicamente filamentose tipiche soprattutto dei polimeri naturali si modificano a
seconda delle condizioni, possono cambiare lo stato conformazionale, assumendo varie conformazioni: da una
108
struttura più compatta (o ‘’folded’’) a una più distesa (o ‘’unfolded’’). Questo perché i polimeri naturali, per
avere una corretta funzionalità, devono proprio assumere una specifica conformazione. Modificare la
conformazione è possibile modificando le caratteristiche dell’ambiente in cui queste macromolecole
polimeriche si trovano (ad esempio utilizzando una emissione di raggi ultravioletti oppure cambiando il ph).

IL GRADO DI DISPERSIONE DEI SISTEMI DISPERSI


Facendo riferimento alla STABILITA’ dei sistemi dispersi, bisogna tenere sempre in considerazione la miscibilità
dei liquidi utilizzati nel processo di mescolazione.

 Ad esempio, mescolando acqua e alcol, entrambi liquidi polari protici, quindi miscibili in tutte le
proporzioni, otterremo una soluzione (true solution).
 Al contrario, mescolando olio e acqua, che sono immiscibili in quanto hanno differente polarità
(dissimilitudine chimica), si formerà una dispersione.

Fornendo energia al mescolamento, si


aumenta il grado di dispersione:
1- Prima della agitazione meccanica, il
grado di dispersione è minimo.
2- Agitando, aumenterà il grado di
dispersione.
3- Fermando l’agitazione, il grado di
dispersione diminuisce di nuovo, come
evidenziato nell’immagine. Dunque, gli
elementi discreti tenderanno ad
aumentare le loro dimensioni, fino a
che, spontaneamente, si ritorna alla
situazione iniziale di minimo grado di
dispersione.

La stabilità del sistema disperso, cioè il tempo in cui rimane in questa situazione di elevato grado di dispersione
dipende dall’uso che vogliamo fare del sistema disperso.
La stabilità, in termini di grado di miscelazione, può essere modulata (in particolar modo nella rapidità di
miscelazione/demiscelazione) e vedremo in seguito come.

Il GRADO DI DISPERSIONE fa riferimento alla dimensione degli elementi dispersi:


- Maggiore il grado di dispersione, minore la dimensione di questi elementi;
- Minore il grado di dispersione, maggiore la dimensione degli elementi dispersi.

Perché si impiegano sistemi dispersi con alto grado di dispersione? (maionese)

Utilizzare sistemi dispersi con alto grado di dispersione ci permette di avere nuovi prodotti
rispetto a quelli con basso grado di dispersione, i quali avranno differenti proprietà
organolettiche (come l’aspetto visivo o il sapore) ma anche viscosità, struttura…

Somministrare un prodotto sotto forma di emulsione ad elevato grado di dispersione,


quindi, sarà diverso dal somministrare 2 liquidi aventi basso grado di dispersione. L’uso di
sistemi dispersi porta a nuovi materiali con nuove proprietà e caratteristiche!

I sistemi dispersi, che sono differenti rispetto a sistemi a grado di dispersione bassa,
presentano stabilità e proprietà differenti, ad esempio anche variando il metodo di
preparazione.

109
Perché le soluzioni sono termodinamicamente stabili e le dispersioni no?
La IUPAC (Unione Internazionale di Chimica Pura e Applicata) definisce dal punto di vista termodinamico il
termine ‘’stabile’’, in modo particolare relativo ai sistemi dispersi. Secondo la IUPAC la stabilità dei sistemi
dispersi non è definita in maniera assoluta.

 Infatti, nei sistemi dispersi possiamo identificare uno stato di “massima stabilità termodinamica’’ (o
‘’lowest potential state’’), cioè è lo stato energeticamente più basso. SOLO QUESTO STATO È DEFINITO
STATO STABILE la iupac, quindi, afferma che i sistemi dispersi hanno MAGGIORE STABILITA’ quando
le due fasi risultano COMPLETAMENTE SEPARATE TRA LORO, ovvero hanno il minimo grado di
dispersione.
Nell’esempio del mescolamento di olio e acqua, dunque, lo stato a massima stabilità termodinamica
sarà quello in cui olio e acqua sono in netta separazione.

Quindi MINIMO GRADO DI DISPERSIONE = MASSIMA STABILITA’.

Aumentando il grado di dispersione (goccioline di acqua disperse all’interno dell’olio), diminuisce la


stabilità termodinamica. La IUPAC definisce questo stato come ‘’stato metastabile’’, o ‘’stato
cineticamente stabile’’, ovvero lo stato in cui il sistema disperso può rimanere per un tempo più o
meno lungo (per tempi variabili), a seconda del tipo di formulazione e del metodo di preparazione.

Il concetto di metastabilità, e come i livelli metastabili evolvano spontaneamente verso gli stati a
maggiore stabilità  quindi il processo di demiscelazione ed il processo di riduzione del grado di
dispersione è spontaneo, mentre l’aumento del grado di dispersione non è spontaneo. Queste due
situazioni possono essere visualizzate graficamente dal grafico in figura.

Questo grafico ricorda


quel che avviene nel
processo di
trasformazione da
reagenti e prodotti.

Nel grafico in ordinata è presente il livello energetico: aumentando il livello energetico (freccia verso l’alto)
diminuisce la stabilità, e diminuendo il livello energetico aumenta la stabilità.

Il minimo livello (puntino nero in basso a dx) si chiama ‘’livello stabile’’ (massima demiscelazione) ed è quello in
cui si ha il più basso grado di dispersione, cioè di miscelazione.

L’altro puntino invece identifica il ‘’livello metastabile’’.

- Il passaggio da livello stabile a meta-stabile NON avviene MAI spontaneamente (a meno che non si
fornisca energia, agitando ad esempio meccanicamente).
- Il passaggio da livello metastabile a stabile, invece, avviene spontaneamente. Abbiamo visto, infatti,
che un sistema disperso tende spontaneamente a passare da un alto grado di dispersione a un basso
grado di dispersione.

Per mantenere un sistema disperso in uno stato meta stabile (o di ‘’stabilità funzionale’’ o ‘’stabilità cinetica’’)
bisogna rallentare il processo spontaneo di passaggio da meta-stabile a stabile. Il rallentamento di questo
processo si ottiene tramite metodiche di produzione e formulazione (composizione) del prodotto, soprattutto
utilizzando le cosiddette ‘’barriere energetiche’’.
110
LEZIONE 19 (03/11/2021)
NON CONFONDIAMO LA STABILITÀ TERMODINAMICA CON QUELLA FUNZIONALE!! Quando abbiamo una
dispersione funzionalmente stabile risulterà essere da un punto di vista termodinamico meta-stabile, perché la
termodinamica ci dice che da un punto di vista termodinamico una dispersione meta-stabile tende alla
massima stabilità (separazione di fase nel caso di una emulsione, con conseguente perdita della sua
funzionalità).

Il grafico ci fa vedere come variano i livelli energetici tra una situazione di meta-stabilità ed una situazione
stabile, questi due livelli sono a livelli diversi. In modo analogo nelle reazioni chimiche abbiamo un livello
energetico diverso, quando una reazione avviene spontaneamente vuol dire che i reagenti hanno un livello
energetico più alto dei prodotti. Anche nel caso dei sistemi dispersi questi due livelli (meta-stabile e stabile)
sono separati da un livello energetico maggiore che prende il nome di barriera energetica che è un livello che
deve essere superato affinché da livello meta-stabile si passi a livello stabile. Questa barriera energetica può
avere un valore diverso, se è più bassa allora l’evento seppur spontaneo sarà facilitato, invece se è più alta
allora l’evento pur spontaneo sarà reso più difficile. Possiamo alzare o abbassare questo livello energetico
cambiando la composizione del sistema disperso, quindi agendo sugli eccipienti.

La situazione 1 (stabilità funzionale, elevato grado di dispersione) viene anche detta situazione di stabilità
cinetica perché questo evento seppur spontaneo viene reso più lento.

La situazione 2presenta un sistema disperso in cui si ha la completa separazione di fase e quindi può essere
definito un sistema termodinamicamente stabile, funzionalmente instabile ed inoltre è un sistema non
stabilizzato cineticamente (end point).

La situazione 1 evolve verso la 2, questa evoluzione può essere rapida o lenta. La velocità con cui avviene
questo evento dipende dalla barriera energetica.

Dobbiamo aggiungere qualche eccezione:


In questa slide abbiamo descritto la classificazione in base alle dimensioni medie degli elementi discreti. Tra gli
esempi fatti delle dispersioni colloidali ci sono le particelle di argento allo stato metallico (piccole particelle) e le
macromolecole (insulina ed emoglobina). Una particella d’argento può avere una forma sferica e invece la
macromolecola ha una struttura filamentosa. Questo diverso tipo di struttura tra la particella di argento
colloidale e la macromolecola di dimensioni colloidali ha un grande effetto sulla stabilità di questi due diversi
tipi di dispersioni colloidali. Nonostante siano entrambe dispersioni colloidali, da un punto di vista dei concetti
termodinamici sono differenti.

La IUPAC nella descrizione della stabilità dei sistemi dispersi aggiunge una frase che fa riferimento ai sistemi
dispersi costituti da macromolecole. La IUPAC ci dice che molti sistemi colloidali sono meta-stabili quindi sono

111
meno stabili della situazione 2 (la maggior parte delle dispersioni colloidali si comportano come le dispersioni
grossolane), ma con l’eccezione dei sistemi in cui abbiamo delle macromolecole idrofile, se la fase disperdente
è acqua (ad esempio, insulina ed emoglobina). In questo caso, di questi particolari tipi di sistemi dispersi
colloidali in cui la fase dispersa è rappresentata da macromolecole idrofile allora abbiamo che questi sistemi
sono stabili termodinamicamente.
Questi sistemi colloidali in cui abbiamo delle macromolecole idrofile comportano la stabilità del sistema
disperso e vengono anche detti sistemi dispersi liofili.

Perché la situazione 2 è stabile termodinamicamente? Invece quella 1 è metastabile termodinamicamente?


Introduciamo un concetto che fa riferimento ad un parametro che viene definito come energia libera
interfacciale.
∆9 = : ∗ ∆

Questa equazione descrive la stabilità interfacciale dei sistemi dispersi.

L’interfaccia o l’interfase è lo strato di molecole che si trovano al confine fra le due fasi, quindi è una superficie
di separazione tra le due fasi.

Quest’equazione descrive l’energia libera che si ha all’interfase, cioè tra le due fasi del sistema disperso.

o Al primo termine abbiamo la variazione di energia libera. A seconda della variazione dell’energia libera
definiamo se il processo è spontaneo o meno. Affinché un processo sia spontaneo il ∆; deve essere
negativo, se è positivo sarà spontaneo nella direzione opposta.

o Al secondo termine abbiamo due termini che sono A (area superficiale o interfacciale), cioè l’area che
separa le due fasi in un sistema disperso. L’area interfacciale sarà maggiore nel caso 1 perché qui gli
elementi della fase dispersa sono molto più piccoli e quindi la loro area superficiale è maggiore.
Più elevato è il grado di dispersione, maggiore sarà l’area interfacciale. Quindi un elevato grado di
dispersione o un aumento del grado di dispersione si accompagna con un aumento dell’area
interfacciale e una diminuzione delle dimensioni medie degli elementi discreti.

Quindi passando dalla situazione 2 alla 1 l’area interfacciale aumenta. Significa che l’energia libera aumenta (G
ed A sono direttamente proporzionali) e questo passaggio sarà termodinamicamente non spontaneo.
Se aumenta A vuol dire che è aumentato il grado di dispersione, quindi aumenta l’energia libera e per avvenire
il passaggio dobbiamo fornire energia.

L’altro parametro, a secondo termine, è gamma che è chiamato tensione interfacciale.

112
L’aumento dell’area interfacciale è sfavorito (non spontaneo), i sistemi dispersi tendono a ridurre l’area
interfacciale e a separare le fasi (nella situazione 2 abbiamo il minimo dell’area interfacciale). Quindi i sistemi
dispersi tendono spontaneamente ad andare verso la situazione di stabilità termodinamica attraverso la
minimizzazione dell’area interfacciale.

Nell’immagine a dx abbiamo due flaconcini l’emulsione a sx è un’emulsione con elevato grado di dispersione,
quella a dx rappresenta lo stato stabile con la completa separazione di fase. A sx abbiamo “A” è elevato, a dx
“A” è basso.
Questo processo che porta dalla situazione ad elevato grado di dispersione a quella a basso grado di
dispersione avviene attraverso un processo che si chiama processo di coalescenza. La coalescenza è un
evento che prevede che progressivamente le goccioline coalescono (si fondono tra loro), in questo modo
aumentano le proprie dimensioni (l’area interfacciale diminuisce) fino ad arrivare alla completa separazione di
fase.
Il processo della coalescenza avviene spontaneamente nelle emulsioni, perché la coalescenza è il fenomeno
che descrive la fusione di goccioline più piccole a dare goccioline sempre più grandi fino alla separazione di
fase.

Le sospensioni si comportano in modo uguale o diverso rispetto alle emulsioni?


Si comportano in modo uguale. Ciò che cambia è la terminologia, invece di avere le goccioline abbiamo delle
particelle. Anche la stabilità delle sospensioni è governata dall’equazione dell’energia liquida interfacciale.
Il meccanismo attraverso il quale le emulsioni riducono l’area interfacciale al fine di ridurre l’energia libera
interfacciale è la coalescenza. Analogamente alle emulsioni anche le sospensioni tenderanno a reagire
attraverso dei fenomeni di assemblaggio. L’assemblaggio prevede che le particelle si avvicinano ed
interagiscono tra loro, in questo modo riducono l’area interfacciale tra il liquido ed il solido.

Gamma influenza l’energia libera interfacciale.


Da cosa dipende gamma?
Gamma l’abbiamo definita “tensione interfacciale”, in realtà i fisici hanno definito gamma con due termini che
sono quasi sinonimi ossia tensione superficiale e tensione interfacciale. Non sono perfettamente sinonimi.
Questi termini si applicano ai sistemi dispersi, i quali possono essere di vario tipo a seconda dello stato fisico
delle fasi. Quando abbiamo un sistema disperso in cui una delle due fasi è un gas (tipicamente l’aria) allora è
più corretto utilizzare il termine di tensione superficiale, invece quando abbiamo sistemi dispersi in cui non
abbiamo gas allora è più corretto utilizzare il termine tensione interfacciale.

113
Da cosa dipende la tensione interfacciale nei sistemi dispersi le due fasi avranno per ovvi motivi
composizione chimica diversa perché se no non avremo un sistema disperso (se fossero identiche avrebbero
una miscibilità, a meno che non abbiamo il caso particolare di uno stato fisico diverso, ad esempio acqua-
ghiaccio).

Quindi il valore numerico della tensione interfacciale dipende dalla dissimilitudine chimica tra le due fasi che
stiamo considerando ed in particolare dipende dalle forze intermolecolari. Tra le due fasi che costituisco un
sistema disperso si instaurano delle forze intermolecolari che sono anche dette interazioni secondarie perché
non sono legami covalenti o legami di natura elettrostatica ionica, ma sono legami deboli che sono definiti
come forze di van der Waals.

Le forze intermolecolari sono fondamentalmente dovute ad interazioni deboli che sono:


 forze di van der Waals che comprendono vari tipi di interazioni:
 dipolo-dipolo
 dipolo indotto- dipolo indotto
 dipoli istantanei

 legami ad H

L’entità di queste forze intermolecolari dipende dalla similitudine o dissimilitudine chimica tra le due fasi. Se le
due fasi che costituiscono un sistema disperso hanno un’elevata similitudine chimica significa che avranno un
elevato grado di interazioni di forze intermolecolari; se invece sono dissimili chimicamente avranno un basso
livello di interazioni intermolecolari.

Quando le interazioni intermolecolari tra le due fasi sono elevate avremo una bassa tensione interfacciale, se
invece le forze intermolecolari sono piccole avremo un’elevata tensione interfacciale.

Quindi la tensione interfacciale è una misura della dissimilitudine chimica. Più sono dissimili le fasi e più elevata
sarà la tensione interfacciale.
La similitudine o dissimilitudine chimica dipende dalla natura delle interazioni intermolecolari, dalla polarità e
dalla proticità delle due fasi. Se una fase è polare e una apolare avremo basso livello di forze intermolecolari e
avremo un’elevata tensione interfacciale.

Più sono diverse chimicamente le fasi, più saranno ridotte le forze intermolecolari e più alta sarà la tensione
interfacciale.

114
Quindi gamma è un indice della similitudine o dissimilitudine chimica.

Considerando ciò che abbiamo detto sarà più facile preparare un sistema disperso con due fasi simili o dissimili?
Con due fasi simili, perché gamma è elevato con le fasi dissimili. Se gamma è alto allora l’energia libera diventa
positiva e quindi la reazione non è favorita. Sarà più semplice preparare un sistema disperso quando gamma è
basso.

La produzione dei sistemi dispersi dipende dalla similitudine e dalla dissimilitudine chimica. Anche la stabilità
cinetica dipende dalla similitudine e dissimilitudine chimica che si misura in termini di tensione interfacciale che
ci dà un’idea del grado di similitudine chimica che influenza i legami deboli intermolecolari che si hanno
all’interfaccia tra le due fasi.

Tensione interfacciale
La figura ingrandita rappresenta un particolare tipo di sistema disperso, è un sistema in cui abbiamo un liquido
che è in contatto con l’aria. In questo caso la parte superiore del liquido la chiamiamo “superficie” e quindi
gamma prenderà il nome di tensione superficiale.

115
Le sferette in figura rappresentano una schematizzazione di molecole d’acqua, le molecole d’acqua che si
trovano all’interno del liquido sono molecole d’acqua che si trovano nella fase bulk (volume interno
dell’acqua).
Le frecce rappresentano le interazioni intermolecolari deboli che si instaurano tra le molecole d’acqua bulk. Per
bulk intendiamo le molecole che si trovano all’interno del volume dell’acqua.
Queste molecole di acqua bulk sono circondate tridimensionalmente da altre molecole d’acqua, quindi
ciascuna molecola d’acqua interagisce con tante molecole d’acqua in tutte le dimensioni. Tutte le molecole
attorno attraggono la molecola centrale con uguale intensità.

Cosa succede alle molecole d’acqua che si trovano sulla superficie?


Vediamo una schematizzazione con delle linee tratteggiate che significa che non ci sono molecole d’acqua. Le
forze intermolecolari non sono più equilibrate in tutte le dimensioni ma abbiamo uno squilibrio delle forze.
La F è la risultante delle forze che attraggono, solo le molecole d’acqua che si trovano sulla superficie sono
attratte più verso l’interno di quanto non siano attratte verso l’esterno, perché mancano delle molecole
d’acqua (ci sono altre molecole, come l’aria, che interagiscono con l’acqua ma in modo diverso perché hanno
una diversa composizione chimica).
Avremo una forza netta che viene esercitata su tutte le molecole d’acqua della superficie e quindi la superficie
tenderà a contrarsi grazie alla presenza di questo sbilanciamento di forze.
Tutte le superfici dei liquidi sono da immaginare come delle superfici elastiche che si contraggono a causa dello
squilibrio di forze intermolecolari verso l’interno rispetto a quelle verso l’esterno.

Se analizzassimo lo stesso tipo di concetto in una goccia d’acqua avremo lo stesso tipo di fenomeno, in quanto
le molecole d’acqua sulla superficie tenderanno ad essere attratte più verso l’interno.

Nell’immagine al centro è raffigurata una molecola d’acqua, ad esempio, immersa in un olio (apolare). La
molecola d’acqua sarà più attratta dalle altre molecole d’acqua piuttosto che dalle molecole di olio, in questo
caso parleremo di tensione interfacciale.

Proprio perché abbiamo la presenza delle tensioni superficiali ed interfacciali che le gocce d’acqua in un
sistema disperso come un’emulsione tendono ad assumere una forma sferica (le molecole che stanno sulla
superficie sono attratte verso l’interno).
La sfera è la forma geometrica solida che a parità di volume ha un’area superficiale minore.

Le superfici hanno delle proprietà diverse rispetto all’interno dei materiali (le molecole si comportano in modo
diverso)

116
immagine ingrandita

LEZIONE 20 (04/11/2021)
Stabilità dei sistemi dispersi e la facilità con cui si possono produrre fa riferimento alla tensione interfacciale.
La tensione interfacciale è dovuta alla dissimilitudine chimica tra gli elementi molecolari delle due fasi che
formano il sistema disperso.
Le molecole che si trovano all’interfase o alla superficie non hanno delle interazioni tridimensionali con tutte le
altre molecole (come invece accade nelle zone bulk). Quindi vi è uno sbilanciamento delle forze
intermolecolari, questo sbilanciamento fa si che le superfici o le interfasi si comportino come una superficie
elastica che si oppone all’aumento dell’area superficiale (o interfacciale).

È possibile misurare la tensione interfacciale attraverso uno strumento:


Si può usare uno strumento molto semplice. È praticamente un piccolo telaio costituito da fili metallici, si forma
un’area rettangolare all’interno della quale vi è un film liquido che si ottiene con dell’acqua e del sapone.
Questo telaio è costituito da tre lati fissi (quello superiore, quello inferiore e quello di sx), mentre il lato di dx è
mobile ovvero sul lato di dx possiamo applicare una forza.

Il liquido che si trova all’interno si comporta come una superficie elastica quindi spontaneamente cosa
succederà all’area occupata dal liquido? Tenderà a contrarsi (diminuire l’area) perché in questo modo ci
saranno meno molecole esposte alla superficie, rispetto a quelle che si trovano nel bulk. Esattamente come
avviene nei sistemi dispersi. Ad esempio le emulsioni tendono ad avere la minima area interfacciale
(separazione di fase).

Se vogliamo aumentare il grado di dispersione o se vogliamo aumentare l’area del film liquido dobbiamo
applicare una forza sul lato mobile.

Possiamo costruire un grafico che mette in relazione l’area interfacciale e la forza applicata. Nell’ultimo
riquadro a dx c’è un grafico che ci fa vedere come si possono mettere in relazione l’area e la forza applicata,
sono direttamente proporzionali, hanno un rapporto lineare.
Il coefficiente angolare (tendenza della curva) rappresenta la facilità o la difficoltà nell’aumentare l’area.

La pendenza della curva è GAMMA cioè la tensione superficiale o interfacciale.

Se abbiamo un sistema in cui la pendenza è bassa (gamma è basso) allora sarà più semplice produrre un più
elevato grado di dispersione. Quindi significherà che gli elementi che compongono il sistema disperso hanno
una maggior affinità, sistema con elementi più simili. Le molecole in un sistema disperso non saranno mai
completamente simili, perché se fossero completamente simili andremo in un regime di completa miscibilità o
di solubilità.

9 << =

117
L’energia libera interfacciale o superficiale descritta da questa equazione si può definire come il lavoro
meccanico che è richiesto per aumentare A.

 A è direttamente correlato al grado di dispersione

Più A è elevato e più il sistema è disperso (abbiamo degli elementi discreti più piccoli)

Supponiamo che una particella solida abbia un lato di 10μm, questa particella avrà un certo volume (1000
micrometri cubi) e un’area superficiale (600 micrometri quadrati). Se avessimo a disposizione delle forbici che
ci permettono di tagliarlo in cubetti con il lato di 1 micron, otteniamo 1000 cubetti da 1 micron di lato il
volume non cambia, cambia solo l’area superficiale (6000 micrometri quadrati).
Quindi una riduzione di 10 volte delle dimensioni porta ad un aumento di 10 volte dell’area superficiale.

Diminuendo le dimensioni medie delle particelle aumenta l’area superficiale

Più aumentiamo il grado di dispersione (quindi diminuiamo le dimensioni medie degli elementi) e più
aumentiamo la interfase tra le due fasi del sistema disperso.

Esiste un parametro che spesso è usato dai tecnologi dove “SS” sta per specific surface (superficie specifica). SS
è dato dal rapporto tra l’area superficiale ed il volume.

=
== =
>

Abbiamo quindi una correlazione tra le dimensioni e l’area superficiale di elementi discreti che compongono un
sistema disperso.

Siamo nell’ambito dei sistemi dispersi colloidali, andiamo ad analizzare le eccezioni a cui faceva riferimento la
IUPAC:
In relazione al fatto che macromolecole polimeriche e particelle solide metalliche hanno una natura chimica,
fisica e strutturale diversa abbiamo due diverse situazioni. Dal punto di vista della stabilità termodinamica
possiamo eseguire una nuova classificazione dei sistemi dispersi (le classificazioni che abbiamo già fatto dei
sistemi dispersi erano in base allo stato fisico e alle dimensioni) in base alla loro stabilità termodinamica.

Un termine che ci dà indicazioni sulla stabilità termodinamica è la tensione interfacciale. La stabilità sarà
influenza dalla similitudine e dissimilitudine chimica tra gli elementi  il parametro che misura la similitudine o
dissimilitudine è la polarità e quindi la tensione interfacciale.

I chimico fisici queste situazioni di stabilità o instabilità dei sistemi dispersi li hanno chiamati come dispersioni
liofobe e dispersioni liofile.

Questi due termini si usano in modo generico quando cioè la fase disperdente non è ben qualificata (può
essere qualsiasi tipo di fase disperdente). Questi due termini cambiano quando la fase disperdente è acqua
(idrofile e idrofobe). Nella maggioranza dei casi dei sistemi dispersi colloidali che si usano in campo
farmaceutico per cui applichiamo questa classificazione la fase disperdente è l’acqua.

118
Differenze e analogie tra questi due gruppi di sistemi dispersi
I sistemi liofili sono dei sistemi dispersi che sono termodinamicamente stabili.

1) Si comporteranno come unità singole.


Gli elementi discreti di un sistema disperso colloidale liofilo NON li chiamiamo particelle, ma li
chiamiamo macromolecole. In un sistema disperso colloidale liofilo gli elementi discreti della fase
dispersa dette macromolecole si comporteranno come unità singole, NON tenderanno a formare degli
assemblati avranno una bassa tendenza all’assemblaggio.
Ciò dipenderà dal fatto che abbiano un’elevata affinità per la fase disperdente (acqua).

Le liofobe sono invece termodinamicamente instabili e tendono a formare assemblati. Essendo


termodinamicamente instabili significa che fase dispersa e fase disperdente avranno un’elevata tensione
interfacciale e quindi tenderanno a minimizzare l’area di contatto e tenderanno ad assemblarsi.

Questo non è sempre valido se aggiungiamo piccole quantità di elettroliti il sistema disperso liofilo non
subisce particolari cambiamenti. Nel caso dei liofobi anche piccole quantità modificano le caratteristiche di
questi sistemi liofobi e le modificano in modo molto sostanziale.

2) Parliamo di preparazione i liofili hanno una formazione che è spontanea.

Ci sono altri sistemi la cui formazione è spontanea? Le soluzioni.


Quindi i sistemi dispersi colloidali liofili siano identici alle soluzioni? No, non sono identici.

Le liofobe richiedono dei metodi specifici di produzione, dobbiamo fornire energia.

3) Grado di idratazione (se parliamo di acqua) o di solvatazione (se parliamo di un solvente generico). Nel
caso dei liofili le macromolecole sono idrofile e quindi avranno un elevato grado di idratazione, un
elevato grado di interazione con l’acqua bassa tensione interfacciale.

Nel caso dei liofobi abbiamo degli elementi apolari quindi avranno gabbo grado di interazione, bassa
idratazione, bassa solvatazione e quindi sono sistemi con elevata tensione interfacciale

4) Stiamo andando ad analizzare l’effetto di eventuali elettroliti aggiunti alla fase disperdente (acqua). Ad
esempio se aggiungiamo il cloruro sodico (gli elettroliti hanno una completa dissociazione ionica), gli
elettroliti rendono l’acqua conduttiva, aumentano la conducibilità.

5) Dal punto di vista della viscosità i sistemi liofobi e liofili nella maggior parte dei casi sono diversi. Le
dispersioni colloidali liofile tendono ad avere una viscosità superiore a quella dell’acqua (fase
disperdente). In alcuni casi quando questa viscosità aumenta molto (questo dipende dal tipo di
polimero) la viscosità diventa talmente elevata che questi sistemi vengono chiamati gel.

I sistemi dispersi colloidali liofobi presentano una bassa viscosità, paragonabile a quella dell’acqua. Per
questo motivo i primi chimico-fisici che hanno studiato questi sistemi li hanno definiti dal punto di vista
della viscosità come dei sol che è un sistema disperso colloidale a bassa viscosità.
Il termine “transizione sol-gel” indica una transizione da bassa viscosità ad alta viscosità.

6) Esempi di sistemi liofili e liofobisono liofile le gomme (indica dei composti macromolecolari di origine
vegetale e in particolare si intendono delle miscele di polisaccaridi), amido, proteine (gelatina).

Liofobi metalli, idrossidi, Sali insolubili


119
La risposta alla domanda “piccole quantità di elettroliti”:
Le dispersioni colloidali liofile si preparano attraverso un processo spontaneo, però non sono soluzioni perché
hanno delle caratteristiche che le diversificano.

 Una prima caratteristica è di tipo dimensionale, nelle true solution le molecole o gli ioni che si
solubilizzano hanno delle dimensioni paragonabili alle molecole del solvente. Nelle dispersioni abbiamo
invece delle macromolecole, quindi sono delle specie chimiche molto più grandi e questo implica degli
accorgimenti procedurali.

Allo stato solido le macromolecole hanno una conformazione diversa rispetto a quando si trovano in
dispersione. Allo stato solido le catene macromolecolari sono molto compatte (folding compatto) e si
instaurano allo stato solido delle interazioni intermolecolari tra macromolecola e macromolecola. Quando
poniamo queste particelle solide (macromolecole) in contatto con il liquido che funge da fase disperdente si
dovrà verificare un fenomeno di unfolding delle macromolecole. Le molecole si distengono, cambiano la
conformazione.

 Un altro punto che diversifica le true solution dalle dispersioni colloidali riguarda la preparazione,
perché il processo di preparazione seppur spontaneo è molto più lento.

Infine abbiamo l’idratazione, la solvatazione la formazione di legami acqua-macromolecole. Le


macromolecole hanno un profondo grado di idratazione, significa che vengono circondate da molecole di acqua
di idratazione. Ma tutto ciò richiede tempo e non tutti i polimeri avranno lo stesso tempo di rigonfiamento, di
idratazione e di completa formazione della dispersione colloidale. Dipenderà dal grado di idrofilia del polimero
e dal peso molecolare del polimero.

Quando abbiamo parlato di purificazione e di ottenimento dell’acqua purificata abbiamo detto che possiamo
avere sia dei polimeri lineari sia polimeri cross-linkati o reticolati. Nel caso dei polimeri cross-linkati (che hanno
una struttura complessa) il processo di solvatazione è ancora più lento, sono necessari tempi più lunghi. Questo
perché le molecole d’acqua devono penetrare all’interno del network (della rete tridimensionale formata da
questi polimeri cross-linkati).

 Un’altra delle caratteristiche che diversificano le true solution dalle dispersioni colloidali è anche la
diffusione Le macromolecole diffondono (si muovono) all’interno della fase disperdente molto più
lentamente rispetto agli ioni o molecole degli elettroliti.

Se vogliamo diluire una dispersione colloidale non è come diluire una soluzione i tempi per ottenere
l’equilibrio durante un processo di diluizione sono molto più lunghi perché le molecole diffondono da una zona
ad alta concentrazione ad una a bassa concentrazione.

 Un ultimo aspetto risiede nella possibilità di velocizzare il processo di formazione di queste dispersioni.
È possibile velocizzare il processo di swelling e di idratazione?

120
LEZIONE 21 (09/11/2021)
Nel caso delle dispersioni colloidali possiamo avere le dispersioni liofile e liofobe. Queste due tipologie di
dispersioni colloidali si differenziano per una serie di proprietà:

Stabilità delle dispersioni colloidali liofile


Le dispersioni colloidali liofile hanno una relativa insensibilità all’aggiunta di elettroliti (cioè l’aggiunta di piccole
quantità di elettroliti non fa variare la stabilità), ma ci possono essere delle eccezioni.

Per spiegare la stabilità delle dispersioni colloidali liofile facciamo un esempiofacciamo riferimento ad una
procedura ancora oggi utilizzata per l’isolamento di un particolare tipo di macromolecola (acidi nucleici, in
particolare il DNA).
Nella parte alta della diapositiva vediamo che in questo tipo di procedura si parte da una sospensione cellulare.
Se abbiamo delle cellule e quindi degli elementi unicellulari dispersi in una fase liquida avremo una dispersione
grossolana perché gli elementi che costituiscono la fase dispersa sono degli elementi che hanno dimensioni
>1μm.

1. La prima fase di questa procedura prevede la lisi delle membrane delle cellule in sospensione, le
procedure per lisare e per andare ad isolare il contenuto delle cellule può essere eseguito con varie
strategie e in questo caso è una lisi che si ottiene utilizzando una soluzione basica di idratosodico e un
tensioattivo (in particolare è il sodio dodecil solfato SDS, che ha la proprietà di interagire con la
struttura delle membrane cellulari portando alla loro disorganizzazione e alla conseguente lisi). In
questo modo otteniamo un lisato cellulare, quindi tutti i componenti che si trovano all’interno della
cellula vengono a trovarsi all’interno della fase liquida.

2. A questo punto nella seconda fase abbiamo un altro tipo di sistema disperso che è costituito da due
diverse sospensioni, infatti abbiamo frammenti cellulari (frammenti di membrane, organelli
citoplasmatici) ed in più abbiamo le proteine e gli acidi nucleici (che sono macromolecole e per le loro
dimensioni formano una dispersione colloidale). Quindi avremo una dispersione che è costituita sia da
elementi grossolani che da elementi colloidali. In questa seconda fase avremo un ph basico.

3. Si va a neutralizzare l‘eccesso di idratosodico ed attraverso una procedura di centrifugazione si vanno a


separare i frammenti cellulari. La porzione al fondo della provetta si chiama pellet o sedimento che è la
porzione di dimensioni maggiori che viene separata attraverso una procedura di centrifugazione. Nella
parte superiore (dopo aver separato) che si chiama surnatante (o sopranatante) abbiamo una
dispersione colloidale perché abbiamo gli elementi dimensionalmente più piccoli che non sono stati
sedimentati (avremo gli acidi nucleici e le proteine).
Il sopranatante è una dispersione acquosa (la fase disperdente è acqua)

121
4. Si effettua una procedura di estrazione di tipo liquido-liquido. Andiamo ad aggiungere dei liquidi non
miscibili con l’acqua e in particolare aggiungiamo una miscela di due solventi apolari organici che sono
il fenolo e il cloroformio. Eseguiamo un’estrazione liquido-liquido. Nel sopranatante creiamo un altro
tipo di sistema disperso, in particolare abbiamo prodotto una emulsione, in cui abbiamo una fase
acquosa che a sua volta è una dispersione colloidale.

Si utilizzano proprio questi solventi (fenolo e cloroformio) perché hanno una proprietà particolare.
Tutte le volte che abbiamo visto degli esempi di emulsioni La fase apolare rimaneva sopra alla fase
acquosa, il fatto che la fase olio si stratifichi sopra alla fase dipende dalla densità (massa/volume). La
fase olio ha una densità < della fase acqua e quindi si stratifica sopra all’acqua.
Nel caso di cui ci stava parlando si usa una miscela di solventi organiche apolari (fenolo e cloroformio)
che ha la caratteristica, in particolare il cloroformio di avere una densità > dell’acqua e quindi la fase
olio si stratifica sul fondo del contenitore, mentre la fase acqua rimane sopra. La miscela dei due
solventi presenta una densità > dell’acqua. La stratificazione in una emulsione dipende dalla densità
delle due fasi.

In questo modo abbiamo eseguito un’estrazione, cioè siamo in grado di separare le componenti del
sopranatante (proteine ed acidi nucleici). Le proteine tendendo a ripartirsi nella fase olio, mentre gli
acidi nucleici rimangono ripartiti nella fase acqua. Abbiamo ottenuto un’ulteriore purificazione.

5. Si procede con la fase che riguarda la stabilità dei sistemi dispersi colloidali liofili (sono sistemi
generalmente termodinamicamente stabili e sono stabili con una minima aggiunta di elettroliti).
Possiamo deliberatamente modificare questi parametri in modo da modificare la stabilità del sistema
disperso colloidale, ovvero andiamo ad aggiungere alla fase disperdente degli elementi che modificano
la stabilità del sistema colloidale liofilo.
Se aggiungiamo dei liquidi miscibili con l’acqua (etanolo) ed un’elevata concentrazione di elettroliti
allora andiamo a modificare la stabilità del sistema disperso colloidale, facendo questo possiamo
ottenere la precipitazione, la separazione delle molecole di DNA (elementi della fase dispersa).

La dispersione diventa instabile e gli elementi discreti della fase dispersa si separano.
Si comporterà come una dispersione liofoba perché modificando la fase disperdente modifichiamo
l’affinità chimica tra la fase dispersa e gli elementi della fase disperdente e quindi introduciamo degli
elementi di instabilità che portano alla separazione di fase

122
Parliamo di un procedimento che sfrutta in modo positivo la possibilità di destabilizzare i colloidi
liofili
Questa particolare procedura di destabilizzazione dei colloidi idrofili in modo tale da sfruttare questo
procedimento a scopi di purificazione si chiama salting out. Per spiegarlo analizziamo il grafico di sx (quello di
dx è del tutto analogo concettualmente, rappresentano due diversi esempi).
Consideriamo di avere una dispersione colloidale liofila (una dispersione di una proteina, come l’albumina
dispersa in acqua), a questo punto andiamo a studiare cosa succede alla stabilità della dispersione colloidale
liofila quando aggiungiamo degli elettroliti. Piccole concentrazioni di elettroliti non modificano la stabilità.
Questo grafico mette in relazione la solubilità dei sistemi dispersi colloidali liofili in funzione della
concentrazione degli elettroliti.

 Nella prima zona del grafico (verde) il sistema colloidale liofilo aumenta la sua stabilità. Quindi
l’aggiunta di piccole concentrazioni di elettroliti non destabilizza il sistema

 Se continuiamo ad aggiungere elettroliti raggiungiamo un massimo della curva Gaussiana, è un


massimo di stabilizzazione dato dagli elettroliti

 Se però continuiamo ad aggiungere Sali, si ottiene una rapida inversione della stabilizzazione data dalla
presenza di questi elettroliti. La stabilità della dispersione colloidale liofila va rapitamene diminuendo
fino a quando si verifica il fenomeno del salting out. Quindi l’aggiunta di elevate concentrazioni di Sali
porta ad un out, cioè ad una destabilizzazione della dispersione colloidale liofila ed osserviamo una
separazione di fase completa.
Mondificando le concentrazioni di Sali otteniamo la precipitazione della proteina (la sua separazione
dalla fase liquida), otteniamo un solido. Questo è importante perché la concentrazione critica (che
porta al salting out) non è uguale, ma ogni proteina ha una particolare suscettibilità all’aggiunta di
elettroliti.

In questo modo possiamo ottenere una procedura di precipitazione frazionata, possiamo frazionare la
formazione del precipitato variando la concentrazione di elettroliti. Le proteine più sensibili
precipiteranno per prime ed una volta che sono precipitate le possiamo separare con una procedura di
centrifugazione.
Questa precipitazione frazionata può essere data dall’aggiunta di Sali, ma può esser data anche per
l’aggiunta di altri solventi (alcol, acetone) che devono essere miscibili con l’acqua (devono formare una
miscela). Attraverso la procedura di salting out possiamo isolare diverse proteine che sono contenute
inizialmente in una miscela di più proteine disperse sotto forma di sistemi colloidali liofili.

123
Questa procedura è stata negli anni molto utilizzata, è stata studiata da un chimico tedesco che si chiama
Hofmeister ed ha evidenziato che la sensibilità delle proteine ai Sali aggiunti era differenziale, cioè ha realizzato
quella che si chiama serie di Hofmeister in cui ha visto come a seconda del tipo di catione e anione che forma il
sale si ha una diversa sensibilità da parte delle proteine.
Per i cationi quello che dà di più l’effetto di salting out è ammonio> potassio >sodio >litio> magnesio> calcio
Per gli anioni floruro> solfato> fosfato >acetato> cloruro> nitrato> brumuro

Selezionando un opportuno sale che sia formato da cationi ad alto effetto di salting out ed anioni con elevato
effetto di salting out allora si possono selezionare i Sali che meglio possono essere utilizzati per queste
procedure di precipitazione frazionata.

Proprio analizzando la serie di Hofmeister per i cationi e gli anioni, si è studiato che uno dei Sali più utilizzati è il
solfato di ammonio (ammonio solfato) perché il catione ammonio è il più elevato della serie e l’anione solfato
è il secondo della serie. Si utilizza il solfato d’ammonio perché è un sale molto solubile in acqua, è
relativamente poco costoso e ha un ottimo effetto nell’indurre la precipitazione frazionata.

Questa tecnica è interessante perché la separazione delle proteine attraverso la precipitazione frazionata porta
al fenomeno di denaturazione, ovvero l’aggiunta di queste sostanze, ad esempio degli elettroliti, modifica la
conformazione delle proteine, cambia il rapporto con la fase disperdente (acqua). Le molecole una volta
denaturate diventano meno affini con l’acqua, diminuisce l’affinità chimica tra l’acqua e la proteina ed è
proprio questo cambiamento di affinità chimica che è alla base del processo di separazione e di precipitazione
delle proteine dall’acqua. Questo cambiamento conformazionale (denaturazione della proteina) è un evento
reversibile, ossia la conformazione della proteina denaturata può essere di nuovo rinaturata (cioè può essere
portata al suo stato di attività) con una conformazione che rappresenti la conformazione attiva.

Lo schema ci fa vedere la conformazione della proteina nel suo stato fisiologico (conformazione normale,
attiva), in questa conformazione è affine alla fase disperdente e quindi forma una dispersione colloidale
liofila se variamo l’ambiente (variando il ph, temperatura, la concentrazione di elettroliti, solventi) possiamo
indurre un fenomeno di denaturazione, cambia la disposizione tridimensionale della catena amminoacidica
della proteina o dell’acido nucleico e questo è accompagnato da una perdita della attività biologica.

La cosa interessante della denaturazione attraverso l’uso di elettroliti (cioè variando la forza ionica della fase
disperdente) abbiamo la possibilità di rinaturare la proteina, sarà possibile cambiando di nuovo le condizioni. La
denaturazione è stata indotta dall’aggiunta di Sali e se fossimo in grado di rimuovere questi Sali aggiunti allora
la proteina potrebbe riottenere l’attività attraverso un processo di rinaturazione.

Attraverso la precipitazione frazionata riusciamo ad isolare varie proteine sotto forma di denaturata, se le
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vogliamo studiare le dobbiamo rinaturare in modo da riottenere la funzione biologica. Questo è possibile
utilizzando una tecnica di filtrazione, in particolare si utilizzano delle membrane semi-permeabili che hanno
una permeabilità selettiva (le membrane semi-permeabili possono essere classificate in base alle dimensioni
medie dei pori).

Possiamo utilizzare delle membrane a forma di tubo chiamato tubo da dialisi, costituito da una membrana
semipermeabile, in cui andiamo ad introdurre la miscela della proteina che vogliamo rinaturare.
Nell’immagine le sferette blu esemplificano le molecole della proteina denaturata e le sferette in rosso
esemplificano gli elettroliti che hanno portato alla denaturazione della proteina. Il tubo da dialisi lo
introduciamo all’interno di un liquido (generalmente acqua purificata) e siccome questa membrana ha una
porosità selettiva gli elettroliti potranno diffondere attraverso la membrana mentre le proteine che hanno
dimensioni maggiori non diffondono e rimangono all’interno del tubo da dialisi. Man mano che il processo di
dialisi procede la concentrazione degli elettroliti all’interno della membrana andrà diminuendo ed avremo la
proteina nella sua forma rinaturata perché abbiamo rimosso l’eccesso di elettroliti che avevamo
precedentemente aggiunto.

Generalmente si nota la rinaturazione della proteina perché inizialmente il sistema che vogliamo rinaturare è
torbido, man mano che allontaniamo gli elettroliti la proteina si rinatura, quindi torna ad essere affine con la
fase disperdente ed otteniamo una dispersione colloidale liofila stabile. Conseguentemente osserveremo una
progressiva diminuzione la torbidità fino ad ottenere un sistema disperso colloidale liofilo che è otticamente
trasparente.

Termini per descrivere la formazione di assemblati di particelle


Torniamo alla definizione di stabilità dei sistemi dispersi che ci ha dato la IUPAC parlando di definizione di
stabilità dei sistemi dispersi abbiamo preso in esame un particolare tipo di sistema disperso che è l’emulsione
(sistema disperso con due fasi liquide). Le emulsioni tendono spontaneamente per motivi termodinamici a
procedere verso la completa separazione di fase (coalescenza), analogamente un altro tipo di sistema disperso
che è costituito dalle sospensioni ha un comportamento simile, ma dal punto di vista terminologico diremo che
il sistema disperso tende a ridurre l’area interfacciale fra le due fasi attraverso la formazione di assemblati di
particelle. Il termine assemblati di particelle si usa poco, si usano dei termini più specifici.

Il termine che deve essere usato per indicare la formazione degli assemblati di particele è un termine
specifico spesso nella letteratura scientifica la formazione di questi assemblati viene indicata da 2 termini
che sono “agglomerazione” ed “aggregazione” e il prodotto saranno gli agglomerati e gli aggregati. QUESTI 2
TERMINI NON SONO SINONIMI.

I termini agglomerazione ed aggregazione sono largamente usati da molti scienziati per descrivere la
formazione di assemblati di particelle o di altri elementi (goccioline, bollicine, molecole e macromolecole) in
polveri secche o nelle sospensioni. I termini agglomerato ed aggregato hanno un significato specifico, ma sono
sfortunatamente essi sono frequentemente intercambiati e ciò risulta in una confusione universale. Alcuni
insegnanti hanno una forte visione sull’uso di questi termini, mentre altri non si preoccupano di queste
differenze.
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Caratteristiche di assemblati di particelle:
nelle sospensioni si può verificare il fenomeno della formazione di assemblati di particelle, questo perché il
sistema tende a ridurre l’area interfacciale che provoca una riduzione dell’energia libera interfacciale del
sistema e il sistema evolve verso una situazione di maggiore stabilità termodinamica (non stabilità funzionale).

Gli assemblati che formano le particelle possono essere di tipo diverso.


Le particelle sono schematizzate come dei cubetti, la formazione degli assemblati può evolversi in due maniere
diverse, possiamo avere:
 assemblati in cui le particelle entrano in contatto con superficie minima, ovvero le particelle si
contattano tra loro solamente con gli spigoli e i vertici. Quindi spigoli e vertici hanno un’area
compressiva di interazione minima. Abbiamo degli assemblati che possono essere readily dispersed,
cioè se agitiamo questi assemblati possono essere facilmente ridispersi

 Assemblati in cui le particelle interagiscono tra loro attraverso le facce e quindi l’area di interazione è
molto maggiore. Le interazioni tra le particelle sono molto maggiori e sono molto più difficili da essere
ridisperse, anche se applichiamo una certa forza di agitazione non è così facile ritornare alla situazione
di singole particelle.

Agglomerati vs aggregati
Le situazioni di interazione di assemblati di particelle dobbiamo definirle con il termine di agglomerati in
entrambi i casi descritti prima. La formazione di agglomerati di particelle avviene attraverso un processo di
agglomerazione.

Come si identificano terminologicamente le due diverse situazioni? Utilizzando i termini:


Soft agglomerates sono quelli descritti nel primo caso, cioè casi in cui le particelle si agglomerano solo
attraverso contatti tra spigoli e vertici. Sono facilmente ridisperdibili

Hard agglomeratesle particelle di agglomerano con interazioni più forti che coinvolgono interazioni tra le
facce delle strutture solide. Le hard agglomerates sono molto più difficili da ridisperdere.

È importante che nelle dispersioni farmaceutiche si abbiano solamente dei soft agglomerates, perché in questo
modo con una semplice agitazioni manuale possiamo ottenere la ridispersione delle particelle (la sospensione
torna allo stato funzionale). Le sospensioni farmaceutiche devono essere funzionali e quindi si devono trovare
nella situazione di elevato grado di dispersione, ovvero particelle singole.
Quando un prodotto è formulato sotto forma di dispersione allora sull’etichetta è indicato agitare prima
dell’uso, vuol dire che all’interno del prodotto si potevano essere formati dei soft agglomerates che attraverso

126
un’agitazione manuale vengono ridispersi in modo da avere un’omogenea distribuzione delle particelle solide
all’interno della sospensione.
Il termine agglomerato va utilizzato per descrivere degli assemblati di particelle solide. Gli agglomerati
possono essere o all’interno di un liquido (come in una sospensione) oppure anche all’interno di una polvere
allo stato secco.

(Del termine aggregazione ne parleremo in seguito)

Esempio di studio della presenza di agglomerati


Abbiamo la possibilità di valutazione della presenza di fenomeni di agglomerazione sia in sospensioni sia in
polveri secche attraverso la microscopia ottica. Le polveri possono essere esaminate per l’eventuale presenza
di fenomeni di agglomerazione attraverso una semplice analisi di microscopia ottica.
Quello in figura è un microscopio ottico dotato di una fotocamera digitale con la quale è possibile ottenere
delle immagini digitalizzate che possono essere analizzate da specifici software. In campo scientifico questi
software sono molto utilizzati, ad esempio, per valutare le dimensioni delle polveri, il loro grado di dispersione
e la presenza o meno di fenomeni di agglomerazione.

I vetrini da microscopio sono delle lastrine di vetro in cui possiamo fisicamente appoggiare il campione che
vogliamo analizzare. In questo caso vogliamo analizzare una goccia di liquido che sarà costituita da una
sospensione. Il vetrino poi viene appoggiato su un tavolino o tavolinetto ed attraverso l’obbiettivo del
microscopio possiamo osservare la goccia di liquido che abbiamo depositato sul vetrino. Eventualmente sopra
la goccia di liquido può essere appoggiato il vetrino copri oggetti (è un vetrino che può avere una forma o
quadrata o circolare, generalmente di vetro molto più sottile rispetto al vetrino da microscopia) in questo
modo otteniamo un film liquido molto più sottile ed abbiamo una migliore facilità di osservazione del
campione.

127
Attraverso la microscopia ottica possiamo depositare sul vetrino o direttamente la sospensione che vogliamo
analizzare oppure se vogliamo analizzare della polvere secca dobbiamo preventivamente trasformarla in una
sospensione. Si utilizza generalmente come fase disperdente della polvere che vogliamo analizzare, l’olio di
silicone perché è un olio che ha la proprietà di avere uno scarso potere solubilizzante nei confronti di quasi
tutte le polveri. Questo è importante perché il liquido che vogliamo utilizzare per osservare delle polveri con la
microscopia ottica deve avere delle proprietà di non solvente, perché lo scopo della nostra analisi è quello di
analizzare la morfologia delle particelle di polvere e l’eventuale presenza di agglomerazioni.

A. È l’immagine che si ottiene quando analizziamo una polvere allo stato secco (prima di averla dispersa).
Le particelle di polvere anche allo stato secco tendono spontaneamente a formare degli agglomerati.
La linea che vediamo nelle immagini si chiama “barra di riferimento” oppure “scala” e rappresenta una
lunghezza di 250 micrometri. Quindi gli agglomerati che si formano sono piuttosto grandi (400-500
micrometri)

B. Quando usiamo l’olio di silicone abbiamo la formazione di una sospensione. Gran parte degli
agglomerati di polvere vengono eliminati perché abbiamo un effetto dispersivo dell’olio di silicone, si
ottiene una spontanea dispersione delle particelle di polvere nel liquido. Si riducono le dimensioni
medie degli agglomerati, siamo intorno a 200-150 micrometri, però molte delle particelle cominciano a
presentarsi sotto forma di particelle singole.

C. Per studiare l’eventuale presenta di hard agglomerates possiamo procedere con l’aggiunta del vetrino
copri-oggetti. Questo provoca delle pressioni che si chiamano forze viscose ed abbiamo un’ulteriore
scomparsa degli agglomerati soft, aumentano le particelle singole date dalla dispersione degli
agglomerati soft.

D. Si può ulteriormente favorire la dispersione delle particelle degli agglomerati soft esercitando una
pressione sopra il vetrino copri-oggetti. In questo modo la quantità di queste forze viscose aumenta e
la quantità di agglomerati residuali è bassa. Questa immagine mostra che polvere che stiamo
analizzando consiste in una miscela di qualche hard agglomartes residui (hanno delle dimensioni fino a
circa 50 μm). La maggior parte delle particelle sono particelle primarie (=particelle singole) disperse che
hanno generalmente delle dimensioni <10 μm

Attraverso questa tecnica possiamo visualizzare la forma e le dimensioni delle particelle in una sospensione e
possiamo identificare la presenza di hard e soft agglomerates. Esistono dei software di analisi d’immagine che
sono in grado di contare il numero di hard agglomerates e ci permettono di calcolare le dimensioni medie delle
particelle primarie di polvere.

128
Proprietà dei sistemi dispersi
Abbiamo detto che i sistemi dispersi possono essere classificati seguendo diversi criteri di classificazione che
vanno dallo stato fisico, alle dimensioni e allo stato di stabilità termodinamica.

Le proprietà dei sistemi dispersi sono delle proprietà di tipo fisico. Lo studio di queste proprietà fisiche è
importante per 2 aspetti:
1. Studiando queste proprietà fisiche otteniamo delle informazioni sulle proprietà funzionali dei sistemi
dispersi, cioè caratterizziamo i sistemi dispersi
2. lo studio delle proprietà fisiche è correlato alle proprietà funzionali dei sistemi dispersi e al loro uso

Nella diapositiva ha elencato alcune delle proprietà fisiche dei sistemi dispersi che possono essere utilizzate per
la loro caratterizzazione:
 la sedimentazione
 i moti Browniani
 la diffusione
 le proprietà ottiche
 proprietà osmotiche
 la viscosità

sono proprietà fisiche che sono correlate alle caratteristiche funzionali e strutturali dei sistemi dispersi.
Parleremo solo delle prime due proprietà.

SEDIMENTAZIONE
È importante per i sistemi dispersi che sono le sospensioni. Il concetto di sedimentazione è correlato
all’ottenimento di soluzioni sature, in queste ultime abbiamo la presenza di un sedimento costituito
dall’eccesso di soluto che non entra in soluzione. La sedimentazione è un fenomeno di tipo fisico dovuto alla
forza di gravità terrestre, attraverso questo fenomeno della sedimentazione le particelle di polvere (o gli
elementi discreti della fase dispersa) disperse all’interno di un liquido tendono a sedimentare, quindi tendono a
muoversi dall’alto verso il basso.

Non dobbiamo confondere i termini sedimentazione con precipitazione. Spesso un precipitato sedimenta. Il
precipitato si forma con una reazione chimica che è una reazione di precipitazione o di cristallizzazione, invece
la sedimentazione è un processo fisico che porta tendenzialmente al movimento delle particelle sul fondo del
contenitore.

Per studiare il fenomeno della sedimentazione e quali siano i parametri che influenzano questo fenomeno
facciamo riferimento ad un’equazione che è presente in quella che è definita come legge di Stokes che

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descrive la velocità di sedimentazione, cioè la velocità con la quale le particelle tendenzialmente si muovono
dall’alto verso il basso.

La legge di Stokes è stata sviluppata facendo riferimento a delle sospensioni ideali che si discostano dalla
situazione reale, nonostante questo la legge di Stokes ci dà delle indicazioni molto importanti su quali siano i
parametri che governano la velocità di sedimentazione.

Perché è importante studiare la velocità di sedimentazione? Perché la formazione di un sedimento porta ad una
disomogeneità nella distribuizione delle particelle all’interno del liquido. Prima della sedimentazione le
particelle sono omogeneamente distribuite in tutto il liquido (hanno un elevato grado di dispersione), mentre
dopo la sedimentazione le particelle saranno molto più concentrate sul fondo del contenitore e molto meno
concentrate nella parte superiode del contenitore.
Quindi la sedimentazione porta ad una disomogeneità in termini di distribuzione spaziale degli elementi
della fase dispersa.

Stiamo parlando di sospensioni che si usano in campo farmaceutico quindi le particelle solide rappresentano il
principio attivo, se in una sospensione abbiamo il fenomeno della sedimentazione allora l’omegeneità in
termini di contenuto di principio attivo varia a seconda delle zone in cui preleviamo una dose:
 Se preleviamo una dose da una sospensione in cui non abbiamo sedimentazione allora qualsiasi dose
manterrà la stessa quantità di principio attivo.
 Se preleviamo una dose da un contenitore in cui abbiamo avuto sedimantazione allora a seconda delle
zone in cui preleviamo il campione avremo quantità diverse di principio attivo

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LEZIONE 22 (10/11/2021)
Recap della lezione precedente: il fenomeno della sedimentazione è un fenomeno di tipo fisico che avviene nei
sistemi dispersi. In particolare lo analizzeremo nelle sospensioni, che sappiamo essere dei particolari tipi di
dispersioni formati da particelle solide che generalmente si muovono dall’alto verso il basso formando un
sedimento (o pellet, o corpo di fondo).

La sedimentazione è stata studiata da Stokes, che ha formulato un’equazione che descrive i parametri che
influenzano la velocità di sedimentazione. Come succede molto spesso, però, queste leggi fisiche sono descritte
per dei sistemi ideali, che in parte differiscono dalla situazione reale. Nella equazione di Stokes si fanno delle
assunzioni su quali sia il sistema ideale considerato nell’equazione stessa. Tuttavia, nonostante la situazione
reale non sia perfettamente aderente all’equazione di Stokes, ci dà comunque informazioni importanti su come
si possa eventualmente modificare la velocità di sedimentazione in un sistema disperso e più nello specifico in
una sospensione.

Le assunzioni dell’equazione di Stokes


Innanzitutto, l’equazione di stokes assume:
 Che le particelle che si muovono in sospensione siano tutte perfettamente sferiche e perfettamente
identiche tra loro (nella realtà questo non accade).
 Che i movimenti delle particelle durante la sedimentazione siano movimenti estremamente lenti.
Questo tipo di movimento lento assume, di conseguenza, che si possano trascurare gli effetti dovuti
agli attriti tra la particella e il liquido in cui questa si muove la particella stessa. In altri termini, le
particelle si muovono in modo talmente lento che l’attrito può essere trascurato.
 Che il mezzo (fase disperdente) in cui le particelle si muovono sia di volume estremamente grande
rispetto alle stesse particelle. Dunque, si considera che le particelle si muovano come unità singole, e
ognuna sia circondata da una grande quantità di liquido. L’equazione quindi non considera l’eventuale
interazione tra particella e particella: si assume che il liquido abbia un volume tale da far sì che la
distanza tra particelle sia virtualmente infinita.
 Che il mezzo (fase disperdente) sia enormemente grande rispetto alle dimensioni delle particelle e che
sia continuo. La legge di stokes considera l’utilizzo di un contenitore di volume virtualmente infinito. In
modo da non considerare le eventuali interazioni con le pareti del contenitore in cui avviene il processo
di sedimentazione.
 Che la fase disperdente in cui avviene la sedimentazione abbia come proprietà delle proprietà
Newtoniane. Queste proprietà fanno riferimento alla viscosità del liquido, ovvero si assume che il
liquido in cui avviene la sedimentazione non cambi la sua viscosità anche qualora venga agitato
meccanicamente.

131
L’EQUAZIONE DI STOKES

Per il momento ci concentriamo sull’equazione sulla sinistra:


 vs rappresenta la velocità di sedimentazione. Spesso è indicata anche come il rapporto dh/dt, cioè
spazio/tempo. h quindi rappresenta il percorso compiuto da una particella, mentre t il tempo.

 r rappresenta il raggio delle particelle. In questo caso e solo in questo caso, non parliamo di raggio
medio, in quanto si assume che le particelle siano tutte identiche.

 La differenza tra ‘’ro p – ro f’’ (= densità del solido - densità del liquido) ‘’ro p’’ rappresenta la
densità del materiale di cui sono fatte le particelle considerate; mentre ‘’ro f’’ rappresenta la densità
del liquido, cioè della fase disperdente. (P sta per particle mentre f sta per fluid)

 g rappresenta l’accelerazione gravitazionale.

 Al denominatore c’è un parametro η ‘’eta’’ moltiplicato per 4.5.


η è la viscosità dinamica della fase disperdente.

La velocità è dunque direttamente proporzionale ai termini al numeratore, e inversamente proporzionale a


quelli al denominatore. Possiamo quindi fare delle considerazioni:

- Maggiore sarà la dimensione delle particelle (raggio), maggiore la velocità. Il parametro raggio al
quadrato implica che la velocità varia quadraticamente in base al raggio quindi il raggio è il
parametro che più influenza la velocità di sedimentazione! Le particelle più grandi sedimentano più
velocemente di quelle più piccole.

- La velocità di sedimentazione dipende poi dalla densità. La velocità di sedimentazione infatti considera
un movimento dall’alto verso il basso dal momento che la densità del solido è generalmente più alta
della densità del liquido (fase disperdente) la differenza tra le due densità quindi è quasi sempre di
valore positivo. Questo è quasi sempre valido per le sospensioni (tranne per solidi molto porosi).

Invece, nel caso delle emulsioni può succedere che la densità della fase dispersa risulti inferiore a
quella della fase disperdente. In questo caso succederà che la differenza tra densità assumi un valore
negativo. Di conseguenza, la velocità di sedimentazione avrà un valore negativo. Avere una velocità di
sedimentazione negativa implica che le particelle o le goccioline della fase dispersa non si
muoveranno dall’alto in basso, ma dal basso verso l’alto.

Per descrivere questa situazione in cui si verifica un movimento di particelle dal


basso verso l’alto non si usa il termine di ‘’sedimentazione negativa’’, ma di
‘’affioramento’’ (o ‘’creaming’’). L’affioramento è un particolare caso di
sedimentazione in cui il movimento di particelle è dal basso verso l’alto, che porta
alla formazione di un affiorato.
132
La velocità della sedimentazione (quando l’evento di sedimentazione avviene sulla Terra) dipende anche dal
valore g, che rappresenta l’accelerazione di gravità quindi l’equazione di stokes descrive il fenomeno della
sedimentazione in un campo gravitazionale. Esiste, però, la possibilità di variare questo campo di applicazione
gravitazionale il parametro g, pur rimanendo sulla Terra, può essere variato tramite l’uso di strumenti detti
‘’centrifughe’’. Questi strumenti ci permettono di variare il campo di applicazione gravitazionale in un campo di
applicazione centrifugo. Queste centrifughe sono utilizzate per velocizzare il processo di sedimentazione. Il
parametro g quindi, tramite l’uso di centrifughe, viene sostituito da un altro, che sarà numericamente più alto
di g aumentando il valore di g, ovviamente, la velocità aumenta.

Aumentare la velocità di sedimentazione ci permette di separare un solido da un liquido (come una


sospensione), ad esempio quando vogliamo ottenere una soluzione satura senza la presenza di un corpo di
fondo, oppure quando eseguiamo delle precipitazioni frazionate (ad esempio per purificare delle proteine
vogliamo che il pellet si formi molto velocemente), oppure durante l’isolamento del DNA.

L’aumento della velocità tramite le


centrifughe, quindi, è dato dalla sostituzione di
g con il parametro omega2 x r, dove:
- omega quadro è la velocità angolare.
Aumentando questa velocità aumenta
la velocità di sedimentazione
- r invece fa riferimento al tipo di
omega2 e r sono due termini che fanno riferimento al tipo di centrifuga
rotore che si usa, NON è il raggio delle
che stiamo utilizzando e alla velocità a cui la centrifuga viene azionata.
particelle, ma è il raggio del rotore!!
I rotori più grandi sedimentano il
campione più velocemente

Struttura e uso della centrifuga:

 La centrifuga è uno strumento che ci permette di velocizzare il processo di sedimentazione.


 La centrifuga è costituita da una porzione in rotazione, detta ‘’rotore’’, in cui sono inserite delle
provette da centrifuga in vetro o in plastica, particolarmente robuste che vantano una certa
resistenza meccanica.
 L’ultracentrifuga è una centrifuga che ha una velocita di rotazione molto elevata (15-20-30
mila rotazioni al minuto). L’uso di ultracentrifughe è stato fondamentale per separare e
studiare i vari organelli cellulari, ad esempio.

I MOTI BROWNIANI
Un altro aspetto relativo ai sistemi dispersi è quello che fa riferimento ai moti Browniani. La sedimentazione,
combinata alla presenza dei moti Browniani, ci serve per capire il comportamento dei sistemi dispersi e
l’aspetto del ‘’limite di separazione’’, che differenzia i sistemi dispersi colloidali da quelli grossolani. Questo
limite riguarda gli elementi discreti della fase dispersa e, avevamo detto, è di circa 1 micrometro. Questo limite
non è preciso e netto, ma può variare, oscillando, proprio a causa dell’effetto combinato della presenza della
sedimentazione e dei moti browniani.

I moti browniani sono chiamati così perché prendono il nome da un ricercatore, Robert Brown, che osservò al
microscopio ottico che nel polline delle piante fossero contenute delle particelle, che in acqua si muovevano,
sembravano vive. Da questa osservazione iniziò lo studio dei moti browniani.

133
Se osserviamo delle microgoccioline (qualche micrometro o frazioni di micrometro) con il microscopio ottico si
osserva che queste goccioline non rimangono perfettamente ferme, ma tendono a muoversi e si muovono
grazie alla presenza dei moti Browniani.

QUINDI Bisogna considerare che le particelle o le goccioline (cioè gli elementi discreti) della fase dispersa,
all’interno della fase disperdente, non rimangono perfettamente ferme, ma si muovono sempre, proprio a
causa della presenza dei moti browniani.

Questi movimenti sono dovuti all’effetto combinato dei movimenti dovuti alla sedimentazione (dovuto al
campo gravitazionale o centrifugo) e dei moti browniani.

A cosa sono dovuti i moti browniani?


Quando noi consideriamo un liquido, le molecole che lo compongono, non sono ferme, ma sono soggette a
movimenti, che dipendono dall’agitazione termica: maggiore sarà la T e maggiore sarà la velocità di questi
movimenti.
Le molecole d’acqua sono in continuo movimento, e questo continuo movimento causa un continuo
bombardamento per cui le singole molecole d’acqua collidono e urtano gli elementi della fase dispersa. Questo
bombardamento causa appunto i movimenti browniani.

NB: mentre i movimenti dati dalla sedimentazione hanno un andamento pressoché rettilineo (o dal basso verso
l’alto o dall’alto verso il basso), i movimenti dovuti ai moti browniani non hanno un andamento rettilineo, ma
un andamento casuale: infatti si dicono ‘’random movements’’, o movimenti a zig zag a causa dei moti
browniani, gli elementi discreti si muovono in tutte le direzioni (tridimensionalmente).

L’EQUAZIONE DI EINSTEIN
Così come la velocità di sedimentazione, anche i moti browniani sono descritti da una equazione: l’equazione
di Einstein. Questa equazione è l’analogo dell’equazione di Stokes che però descrive i movimenti dati dai moti
Browniani.

X2, che rappresenta il movimento casuale delle particelle/ goccioline/ bollicine, dipende da 2 parametri: t e D.
 t è il tempo maggiore il tempo, maggiore sarà la distanza coperta dalla particella;
 D è invece il ‘’coefficiente di diffusione’’ degli elementi della fase dispersa all’interno della fase
disperdente.

134
D dipende a sua volta da alcuni parametri:

- D è direttamente proporzionale alla temperatura e a k, detta ‘’costante di Boltzman’’.


Fondamentalmente D dipende dalla temperatura, più è alta e più il movimento delle molecole del
liquido aumenta i bombardamenti saranno più intensi e frequenti.

- D è inversamente proporzionale a f, dove f è il coefficiente di frizione. Più aumenta f e più tende a


diminuire D.
f a sua volta può essere calcolato con l’equazione a destra, quindi dipende da eta (viscosità della fase
disperdente) e da r (il raggio degli elementi della fase dispersa).

Nel caso dei moti browniani, F dipende da r in rapporto di proporzionalità diretta: F aumenta
all’aumentare delle dimensioni delle particelle. F numericamente grande, però, fa diminuire D di
conseguenza, particelle più grandi si muovono meno, ovvero compiono un percorso minore!

Nel caso della velocità di sedimentazione, quindi, le dimensioni sono direttamente proporzionali
alla velocità; nel caso dei moti browniani, invece, sono inversamente proporzionali!

Questa tabella mette in relazione le dimensioni delle particelle e il loro movimento: nella prima colonna c’è il
raggio (dimensione della particella), nell’ultima il movimento, ovvero la distanza percorsa dalle particelle in 1
ora.

 Ad esempio, una particella di 1 nanometro, in un sistema disperso in acqua e a 20°C (considerando


particelle non cariche), in 1 ora si muove di 1,23 mm.
 Una particella di 10 nanometri si muove meno: 390 micrometri. E così via.

Aumentando la dimensione della particella, diminuisce il percorso i moti browniani sono inversamente
proporzionali alle dimensioni.

135
Cosa accade alle particelle disperse in un liquido quando si considerano sia i movimenti dati dalla
sedimentazione che quelli dati dai moti browniani?

Questa tabella descrive l’EFFETTO COMBINATO dei movimenti dati dalla SEDIMENTAZIONE e dai MOTI
BROWNIANI:

- Nella prima colonna sono descritte le dimensioni delle particelle, espresse in micrometri
- Nell’ultima colonna sono espressi i movimenti in acqua, espressi questa volta in 1 minuto.

Ad esempio, una particella di 0.10 micrometri (o 100 nanometri) effettua un movimento dovuto ai moti
browniani di 2,36 micron, mentre un movimento dovuto alle forze gravitazionali di sedimentazione di soli 0.005
micron. Questo significa che nel caso delle particelle di 100 nanometri prevalgono i moti browniani, dunque
queste si muoveranno molto di più seguendo i moti browniani che le forze gravitazionali.

Aumentando le dimensioni delle particelle considerate, il movimento dovuto dai moti browniani o dalle forze
gravitazionali assume un valore pressoché simile (vedi particelle di 1 micrometro).

Ricordando che i moti di sedimentazione sono lineari (dall’alto verso il basso) e i moti browniani invece vanno
in tutte le dimensioni.

- Quando i moti di sedimentazione, cioè di tipo gravitazionale, sono di entità maggiore (predominano),
allora la sospensione nel tempo tenderà a sedimentare. Questi moti, in particolare, predominano
quando andiamo dal micrometro a dimensioni maggiori.

- Quando invece predominano i moti browniani, che sono in tutte le direzioni, questi tendono a
mantenere in dispersione gli elementi, quindi la sospensione appare omogenea in termini di
distribuzione degli elementi della fase dispersa (cioè le particelle rimangono omogeneamente
disperse). Questi moti predominano quando le dimensioni risultano < 1 micrometro.

La sedimentazione è presente sia nel primo che nel secondo cilindro, così come i moti Browniani.
Quindi le particelle sono soggette ad entrambi i fenomeni nel caso di sx i moti Browniani
predominano e le particelle rimangono omogeneamente disperse; nel caso di dx predominano i
movimenti dati dalla sedimentazione e le particelle sedimentano.

Quindi, analizzando le dimensioni citate, possiamo concludere che:


- nelle dispersioni colloidali si verifica un fenomeno di dispersione browniana i moti Browniani
disperdono gli elementi della fase dispersa.
- Nelle dispersioni grossolane, invece, si verificano movimenti di sedimentazione predominano gli
effetti sedimentativi e quindi si forma un sedimento.
136
Nb: Il limite dimensionale di 1 micrometro non può essere un limite fisso e netto, in quanto dipende dalla
natura degli elementi discreti, soprattutto dalla densità. A seconda della densità del materiale di cui è costituita
la particella o gocciolina, il movimento dovuto ai moti gravitazionali cambia: una particella di ferro di un micron
sedimenta più rapidamente di una particella di polietilene sempre di un micrometro, perché il primo ha una
densità maggiore del secondo.

Quando si vanno a preparare delle dispersioni un’osservazione diretta ed immediata è quella di vedere se la
sospensione nel tempo dia il fenomeno della sedimentazione. Se ciò avviene ed andando a valutare anche il
tempo in cui si forma il sedimento allora possiamo avere delle indicazioni sulla natura delle particelle ed in
particolare sulle loro dimensioni.
Se, ad esempio, vogliamo preparare delle nanoparticelle e dopo la loro preparazione osserviamo che queste
sedimentano rapidamente allora questo ci deve servire da segnale perché vuol dire che non abbiamo prodotto
affatto delle nanoparticelle, ma abbiamo prodotto probabilmente delle particelle di dimensioni micrometriche.

USO DEI SISTEMI DISPERSI COME FORMULAZIONI FARMACEUTICHE

LE SOSPENSIONI FARMACEUTICHE
Le sospensioni, in campo farmaceutico, sono formulazioni liquide in cui il principio attivo è una particella
sospesa all’interno di una fase disperdente, chiamata anche ‘’veicolo’’.

Caratteristiche delle sospensioni farmaceutiche:


 Le particelle sospese di principio attivo possono lentamente sedimentare, cioè le sospensioni
farmaceutiche possono presentare un sedimento. Nelle formulazioni farmaceutiche quindi il sedimento
è spesso presente, ma la cosa importante è che questo deve essere facilmente ri-disperdibile. Questo
perché le particelle sono il principio attivo, quindi devono trovarsi disperse uniformemente nel liquido.
 Nella maggioranza dei casi, le sospensioni farmaceutiche sono dispersioni grossolane: le particele
hanno dimensioni > di 1 micron, solitamente dell’ordine di qualche decina di micrometro. Raramente si
tratta dunque di dispersioni colloidali.
 Nella maggioranza delle sospensioni farmaceutiche, la fase disperdente di prima scelta è l’acqua.
Esistono però anche sospensioni farmaceutiche dette ‘’oily suspensions’’ in cui la fase disperdente è un
olio o una fase organica.
 Essendo formulazioni liquide, è possibile somministrare le sospensioni tramite varie vie di
somministrazione: la via principale è quella orale (soprattutto in età pediatrica), ma possono essere
somministrate anche per applicazione cutanea, per via inalatoria e per iniezione (mai per via
entrovenosa però, solo per via intramuscolare o sottocutanea).

137
Un esempio è il principio attivo BUDESONIDE. Il budesonide è un farmaco avente struttura steroidea, ovvero
composta da 4 cicli. Le sostanze avente struttura steroidea solitamente sono sostanze poco solubili in acqua,
leggermente solubili in etanolo, e molto solubili in cloruro dimetilene (che però è tossico).

Proprio perché sono insolubili in


acqua, questi principi attivi
vengono spesso formulati sotto
forma di sospensioni.

La budesonide viene
commercializzata all’interno di
varie formulazioni e di vari
medicinali: stesso principio attivo,
ma diversa formulazione. Variando
la formulazione, variano le
proprietà del medicinale (ad
esempio adattando il medicinale
alle varie vie di somministrazione).

diverse formulazioni =
diverse vie di
somministrazione =
diverse indicazioni
terapeutiche.

La budesonide ad esempio può essere somministrato:


- Per via inalatoria, per l’asma ad esempio;
- Soto forma di spray nasale diverso dalla forma inalatoria perché lo spray nasale non arriva ai livelli
più profondi, mentre la via inalatoria sì;
- Sotto forma di compresse;
- Sotto forma di supposte;
- Sotto forma di crema, quindi per applicazione cutanea.

Nel particolare, vediamo le sospensioni in forma inalatoria di budesonide.

Per questo tipo di formulazioni per molto


tempo sono stati utilizzati dei contenitori
primari rappresentati da fiale monouso (un
contenitore= una singola unità posologica). Si
tratta di fiale di materiale plastico, detto
‘’polietilene a bassa densità’’. Il loro problema
è che erano fiale molto simili le une alle altre,
e inoltre le scritte sulle fiale erano poco
leggibili (problema di ‘’poor legibility’’).

Bisogna fare attenzione durante l’uso!

138
Ultimamente, però, le fiale sono trattate con sostanze opacizzanti, che rendono la superficie del contenitore
più opaco, e hanno scritte molto più leggibili, per migliorarne la identificazione.

LE APPLICAZIONI DELLE SOSPENSIONI:

o Le sospensioni ci permettono di somministrare particelle solide, anche molto poco solubili, per
somministrazione orale, sia per pazienti di età pediatrica che pazienti di età senile.
o Le sospensioni hanno anche il vantaggio di possedere una velocità di degradazione chimica inferiore
rispetto alle soluzioni. questo fa sì che le sospensioni vengano scelte per principi attivi non altamente
stabili, ad esempio.
o Le sospensioni sono ottime formulazioni dal punto di vista della biodisponibilità, parametro che misura
la facilità di assorbimento. Mediamente la biodisponibilità è massima per le soluzioni, seguite poi dalle
sospensioni, capsule, compresse e compresse rivestite.

LEZIONE 23 (11/11/2021)
Applicazioni e vantaggi delle sospensioni
● Le sospensioni sono bevibili e facilitano l’assunzione del farmaco, soprattutto nei pazienti di età
pediatrica e della terza età
● Le sospensioni risultano più stabili rispetto alla controparte in soluzione (confrontandole con
formulazioni liquide) e abbiamo visto che si può migliorare la degradazione del prodotto.
● Le sospensioni (quando utilizzate per via orale) migliorano le caratteristiche organolettiche in quanto i
principi attivi in soluzione risultano amari, ma in sospensione li percepiamo come meno sgradevoli
perché i recettori gustativi sono meno stimolati. Salificando i principi attivi con acidi grassi, ad esempio,
si possono ottenere composti poco solubili da utilizzare in sospensione
● Le sospensioni vengono utilizzate per il trattamento dell’ulcera gastrica in modo da avere un elevata
area superficiale e da avere un effetto protettivo e un’efficacia maggiore.
● Utilizzando le sospensioni si riduce la tossicità acuta perché la biodisponibilità è ridotta.
● Le sospensioni sono anche utilizzate per i vaccini, per esempio quelli a RNA sono complessati in sistemi
di nanoparticelle.
● Le sospensioni sono anche utilizzate come mezzi di contrasto per scopi diagnostici, si utilizza infatti il
solfato di bario per l’indagine radiologica dello stomaco.

Caratteristiche delle sospensioni


Le sospensioni sono sistemi dispersi e quelle per uso farmaceutico sono liofobe, perciò, tendono ad assemblarsi
per ridurre l’area interfacciale, quindi devono essere facilmente ri-disperse qualora si formino agglomerati e
sedimentazioni perché nel momento del prelevamento e della somministrazione si deve avere una sospensione

139
uniforme. Per tale motivo tutti i medicinali a base di sospensioni richiedono l’agitazione prima dell’uso e ciò è
riportato nell’etichetta, ma comunque il farmacista deve SEMPRE informare il cliente. Inoltre, dal momento che
i contenitori multidose contengono un numero elevato di unità posologiche e prima della somministrazione
bisogna effettuare il prelevamento della dose, la quantità di particelle che andremo a prelevare dev’essere
uniforme, perciò, la formulazione deve permettere un’uniforme dispersione delle particelle. Per il
prelevamento della dose si usano misurini, siringhe orali e contagocce.

Le sospensioni devono anche avere possibilmente le particelle con dimensioni uniformi perché le particelle
più grandi sedimentano velocemente ed in tal caso la sedimentazione non sarà omogenea. Inoltre, la
formulazione deve avere caratteristiche per le quali sedimenti lentamente, in particolare la sedimentazione
dev’essere tale da far sì che tra lo scuotimento e il prelevamento la sedimentazione non sia rapida in modo da
avere una sospensione in omogeneità: ciò si ottiene con eccipienti che modificano la viscosità, la quale è
inversamente proporzionale alla velocità di sedimentazione. Tuttavia, la sospensione non dev’essere troppo
viscosa perché i viscosizzanti utilizzati in modo inappropriato contaminerebbero la versabilità della
sospensione e si avrebbero problemi di deglutizione.

Le sospensioni orali devono avere palabilità (buone proprietà organolettiche) ossia odore, colore e gusto
sufficientemente gradevoli, senza esagerare con i coloranti e con gli edulcoranti. Le particelle delle sospensioni
non devono presentare una superficie ruvida (no grittiness) e con angoli vivi perché potrebbero irritare la
mucosa della bocca e dell’esofago; ciò vale anche per le sospensioni usate a livello cutaneo.

Non devono presentare cap-lock.

In una confezione, in genere, è presente una quantità di prodotto che possa essere utilizzato per un ciclo
terapeutico, quindi, la formulazione dev’essere utilizzata in un arco temporale che non è breve. Per tale
motivo, le formulazioni devono avere una buona resistenza alle possibili contaminazioni microbiche; ciò
avviene grazie ad eccipienti chiamati conservati, i quali vengono utilizzati per garantire una buona
conservazione del prodotto. Tuttavia, le sostanze che si usano come conservanti spesso hanno effetti collaterali
perché non sono completamente farmacologicamente inerti (sono antimicrobici) e perciò spesso possono
presentare effetti irritativi a livello digerente o cutaneo. La tendenza attuale del mercato è quella di andare a
ridurre i medicinali in confezioni multidose per sostituirli con i monodose.

Ci dev’essere una stretta osservanza delle condizioni in cui viene mantenuta la formulazione durante il ciclo,
infatti, dev’essere controllata la temperatura e l’esposizione alla luce: le sospensioni devono essere
mantenute nel contenitore secondario e, prima dell’apertura, a una temperatura di 20-25 gradi, mentre dopo
l’apertura in frigo a 5-8 gradi, in quanto temperature superiori o inferiori possono andare a rendere inefficace
la formulazione.

Da un punto di vista di uso le formulazioni in sospensioni non sono pratiche perché non sono trasportabili.

Classificazione secondo il metodo di preparazione


Le sospensioni possono essere confezionate in multi o monodose (fiale o bustine), ma la differenza nel tipo di
confezionamento non è l’unica che dobbiamo considerare, infatti possono essere suddivise in:
- Ready to use, in cui la formulazione è già pronta nel contenitore
- To be reconstituted before administration o formulazioni con preparazioni estemporanee, cioè la
formulazione dev’essere preparata dal paziente o dal care giver. Tale preparazione è dovuta al fatto
che il principio attivo risulta instabile all’esposizione all’acqua o liquidi. Nella confezione abbiamo i
componenti della formulazione che devono essere ricostituiti, in particolare troviamo la polvere che
dev’essere usata per preparare la sospensione orale e questo tipo di formulati sono in genere
presentati con un confezionamento rappresentato da una bottiglia con tappo a vite in cui è contenuta
la polvere che dev’essere trasformata in sospensione e che in parte è principio attivo in parte
eccipienti.

140
1. Per prima cosa si deve agitare la bottiglia perché anche nelle polveri secche si possono formare
agglomerati e in tal modo si riducono.
2. Successivamente si aggiunge il liquido ossia acqua potabile preventivamente bollita per 20 min e
poi lasciata raffreddare in un contenitore chiuso.
3. Una volta ottenuto ciò bisogna aggiungere l’acqua alla bottiglia. In alcuni casi nel foglietto è
indicato il volume da aggiungere e si usa il misurino per aggiungerlo, in altri non è indicato il
volume esatto ma una linea sull’etichetta (fill line) che dà l’indicazione di quanto liquido
aggiungere. In entrambi i casi inizialmente non si aggiunge tutto il volume ma circa i 2/3 perché
dobbiamo prima agitare e redisperdere la polvere in un volume più ridotto del volume finale per
avere una buona ridispersione, infatti si devono attendere 10-20 sec tra un’agitazione e l’altra.
4. Dopo ciò si può andare a livello, ossia si aggiunge l’acqua residua e dopo si aspetta 5 minuti per
avere una completa idratazione. Bisogna sempre agitare prima dell’uso e se tutta la formulazione
non viene consumata dev’essere poi eliminata, perché la sospensione non solo può essere non
attiva, ma potrebbe anche essere tossica.

In uno studio in cui si sono presi in considerazione due antibiotici è stato visto che solo il 54% dei care giver
per uno e il 44% per l’altro avevano preparato la sospensione in modo corretto, infatti, ci sono stati casi di
overdosaggio o underdosaggio (più spesso).

Nella maggior parte dei casi delle formulazioni con preparazioni estemporanee il confezionamento è in bottiglie
che contengono la polvere, ma si possono avere anche flaconcini dotati di un particolare tappo: all’interno del
flaconcino abbiamo la fase liquida, mentre la polvere si trova in una parte (rossa in figura) del tappo, la quale è
un piccolo contenitore separato dal resto del flaconcino e, premendola, sia abbassa e si rompe un diaframma in
modo che la polvere contenuta nel tappo cada all’interno del liquido. Infine, un ulteriore modo di confezionare
sia siringhe di uso orale che di tipo iniettivo sono le siringhe pre-riempite, in cui le due parti della sospensione
sono separate e al momento dell’uso vengono messe in contatto premendo sul pistone della siringa. In
entrambi i casi il volume non si aggiunge poco per volta, in quanto nella preparazione vista precedentemente si
deve considerare il volume della polvere, che prima si deve idratare, invece in questi due ultimi casi no.

Stabilità delle sospensioni


La tendenza spontanea dei liofobi è quella di formare agglomerati ma si deve ottenere una dispersione
omogenea in cui le particelle sono distribuite in maniera uniforme, soprattutto per i contenitori multidose in
modo che si possa prelevare correttamente la dose ed evitare sovra o sottodosaggi. Bisogna ridurre la velocità
di agglomerazione attraverso eccipienti (non si può evitare l’agglomerazione perché avviene in maniera
spontanea) in modo da ottenere sospensioni metastabili. Lo stato più stabile, sia per le sospensioni che per le
emulsioni, è quello con il livello energetico più basso, perciò, le sospensioni vanno stabilizzate cineticamente
riducendo la velocità di agglomerazione. Per fare ciò bisogna considerare gli eventi che avvengono in una
sospensione: le particelle non sono mai ferme, ma si muovono per moti browniani e per il fenomeno della
sedimentazione e tali movimenti portano a collisioni.
A questo punto si possono verificare due situazioni:

- Le particelle collidono e si separano subito e


il sistema rimane funzionalmente stabile,
ossia le particelle hanno un elevato grado di
dispersione e si trovano come unità singole
uniformemente distrubuite
- Le particelle formano agglomerati che si
muovono e a loro volta collidono con altre
particelle, portando avanti il procedimento
di agglomerazione. Gli agglomerati possono
essere diversi:

141
1. Soft morbidi, lassi e che possono essere facilmente ridispersi
2. Hard le particelle interagiscono più fortemente fra loro e non sono più facilmente ridisperdibli.

*facilmente = per agitazione del flacone

- Gli agglomerati soft si formano per flocculazioneSOSPENSIONE FLOCCULATA


- Gli agglomerati hard si formano per coagulazione SOSPENSIONE COAGULATA

LEZIONE 24 (16/11/2021)
Stavamo discutendo la stabilità dei sistemi dispersi di tipo liofobo. Ci stava spiegando che una serie di eventi
possono accadere all’interno di un sistema disperso. Abbiamo visto che le particelle si muovono e muovendosi
possono andare incontro a fenomeni di collisione che possono portare alla formazione di agglomerati (hard o
soft) oppure possono non portare a formazione di agglomerati, pertanto il sistema rimane immutato dal punto
di vista di formazione di agglomerati (le particelle in sospensione rimangono sotto forma di singole unità,
avremo un sistema stabile cioè non si sono verificati eventi di tipo agglomerativo).

Teoria della stabilità delle dispersioni


Descriviamo le interazioni tra particelle (più in generale, tra elementi discreti della fase dispersa). Facciamo
riferimento ad una teoria che è stata sviluppata nel corso di molti anni di studio (ancora oggi studiata) ed è la
teoria della stabilità delle dispersioni oppure teoria DLVO (sono le iniziali di 4 ricercatori).
Questa trattazione cerca di spiegare in un sistema ideale quali siano le interazioni tra particelle in un sistema
disperso. Questa teoria dal punto di vista matematico è stata sviluppata per descrivere la stabilità delle
sospensioni.

Nello schema vediamo due sferette che rappresentano delle particelle solide di forma sferica. In questa
trattazione matematica, così come nell’equazione di Stokes si considerano delle particelle solide di forma
sferica, tutte perfettamente uguali, con la superficie liscia e tutte escludendo gli attriti superficiali.

Questa teoria attraverso questa equazione cerca di spiegare quali siano le interazioni tra due particelle che si
trovano all’interno di una dispersione colloidale liofoba e dice che ?5 (energia totale di interazione) sarà
risultante dalla somma di ? (energie di attrazione) e di ?@ (energie di repulsione).

La probabilità che due particelle possano formare degli agglomerati dipende dall’energia di attrazione e
dall’energia di repulsione. Se prevalgono quelle attrattive allora le particelle tenderanno probabilisticamente a
formare degli agglomerati, se prevalgono le energie di repulsione tendono a rimanere come particelle singole
all’interno del sistema disperso.

142
Possiamo attraverso l’uso di opportuni eccipienti modificare il sistema. Possiamo far prevalere le forze
attrattive o le forze repulsive in modo da avere una sospensione in cui abbiamo le particelle singole oppure in
cui abbiamo le particelle agglomerate.

È una teoria matematico-fisica. In questa teoria si considerano delle particelle di forma sferica, tutte uguali, con
superficie liscia e tutte omogenee in termini di composizione, forma e dimensioni. Questa teoria va a studiare
quel è l’effetto della distanza (x) tra due particelle che si trovano in sospensione. Non è la distanza che si
misura dalle due superfici delle particelle, ma è la distanza tra il centro di una particella ed il centro di un’altra
particella.

Come variano ? e ?@ , variando la distanza tra le particelle:


Possiamo graficare come variano le forze attrattive e quelle repulsive.
Per convenzione le forze di tipo attrattivo hanno un valore negativo (la curva si trova nel quadrante inferiore
del piano cartesiano), le forze di tipo repulsivo hanno valore positivo.

Stiamo parlando di distanze di natura nanometrica. Quindi la teoria DLVO studia come variano queste forze in
un range di distanza nanometrico, cioè quando le particelle sono molto vicine tra loro. Sia le forze di tipo
attrattivo che repulsivo tendono asintoticamente verso lo zero man mano che aumenta la distanza tra le
particelle.

Per distanze uguali o superiori ai 30nm di fatto le due particelle non interagiscono tra loro, non si hanno né
forze attrattive né repulsive.
Sia le forze di tipo attrattivo che quelle di tipo repulsivo aumentano asintoticamente al diminuire della
distanza (con distanze nell’ordine di 2-5 nm avremo forze massime)
La curva che descrive la variazione delle forze attrattive e quella che descrive la variazione delle forze repulsive
non sono perfettamente identiche e simmetriche, ovvero attraverso dei calcoli matematici i chimico-fisici
hanno sommato queste due curve in modo tale da avere una curva di interazione totale.

Siccome queste due curve non sono identiche e simmetriche non si annullano tra loro, ma si ottiene la curva di
interazioni totale. In questa curva possiamo evidenziare 3 punti importanti:
 Il minimo primario che ha un valore assoluto molto maggiore del minimo secondario. Inoltre il minimo
primario si ha per distanze tra particelle molto ridotte, cioè qualche unità di nanometro
 il minimo secondario ha un valore assoluto minore. Si ha quando le particelle sono a distanza di
qualche decina di nanometro.
 Tra i due minimi troviamo il massimo o massimo primario.

143
La forma della curva di interazione totale dipende dalle forme delle due curve. Sia la curva delle forze attrattive
che quella delle forze repulsive possono cambiare a seconda della formulazione e del materiale di cui sono
composte le particelle, quindi anche la forma della curva di interazione totale può cambiare.

Cambiando la forma, cambierà la profondità del minimo secondario e l’altezza del massimo.

Come facciamo a modificare la forma di queste curve?


 Per quanto riguarda le forze di tipo attrattivo, che si instaurano tra particelle, sono forze dovute ad
interazioni intermolecolari. Ne abbiamo parlato a proposito della polarità dei solventi e ne abbiamo
anche parlato quando ci ha spiegato il fenomeno della tensione interfacciale o superficiale. La tensione
interfacciale o superficiale dispende proprio dalla quantità di interazioni intermolecolari che si
instaurano tra le molecole delle due fasi.
Anche in questo caso le forze attrattive che si instaurano tra le particelle dipendono dalla natura
chimica delle particelle. Le forze di tipo attrattivo sono dovute alle forze intermolecolari deboli che
possono essere forze di van der Waals (dipolo-dipolo, dipolo-dipolo indotto, dipolo istantaneo- dipolo
indotto) e legami ad H. L’entità di queste interazioni intermolecolari dipenderà dalla natura chimica del
materiale di cui sono costituite le particelle. Nel caso farmaceutico le particelle sono costituite di
principio attivo.
Considerando questi aspetti le forze attrattive possono essere difficilmente modificate.

 Le forze di tipo repulsivo sono dovute a due diversi fenomeni:


1. Un fenomeno è relativamente poco importante al determinare le forze di tipo repulsivo fenomeno
della solvatazione, ossia quel fenomeno che descrive le interazioni tra particelle e fase disperdente. Le
particelle possono interagire con il liquido (che costituisce la fase disperdente) e possono rivestirsi di
uno strato di molecole del liquido.
La presenza di questo layer di solvatazione tende ad avere un effetto repulsivo, perché impedisce alle
particelle di andare molto vicine le une alle altre.
Perché il fenomeno della solvatazione è relativamente poco importante? perché nel caso delle
sospensioni farmaceutiche le particelle di principio attivo sono delle particelle che hanno delle
caratteristiche lipofile apolari e si trovano disperse in acqua, quindi tendono ad interagire poco con
l’acqua.

2. Un fenomeno è molto importante in termini di contributo alle forze di tipo repulsivosono degli
effetti di natura elettrostatica che sono quelli che determinano le forze di tipo repulsivo e sono
proprio queste interazioni di natura elettrostatica che possono essere modellate, modificate attraverso
l’uso di particolari eccipienti.

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Cosa sono le interazioni elettrostatiche e come possiamo modificarle?
Nello schema è descritta una parte importante della teoria di DLVO, ossia la teoria del doppio strato
elettrico. Questa teoria è correlata alla comprensione di cosa siano le forze di tipo elettrostatico e di come si
possano modificare.

Consideriamo lo schema:
questa sfera rappresenta la particella del principio attivo.
Per il momento assumiamo che sia una particella carica, ossia sulla sua superficie sono presenti delle cariche
elettriche. Queste cariche elettriche possono essere dovute a 3 fenomeni:
1. Ionizzazione
2. Adsorbimento ionico
3. Dissoluzione ionica
Quindi sono meccanismi attraverso i quali le particelle di principio attivo possono acquisire cariche elettriche.

Assumiamo, inoltre, che nella fase liquida disperdente siano presenti degli elettroliti (ioni).

Assumiamo, anche, che la particella di principio attivo abbia una carica negativa (solo in questo caso, solo in
questo schema).

Cosa succede se abbiamo una sospensione in cui abbiamo delle particelle cariche si muovono all’interno di un
liquido (acqua) in cui abbiamo degli elettroliti? Succederà che le particelle e gli elettroliti interagiranno tra
loro andando a formare il doppio strato elettrico.

In una sospensione farmaceutica questa particella di principio attivo avrà dimensioni micrometrica, in
particolare saranno qualche centinaio di micrometri (è una dispersione grossolana)

Le sferette rosa che hanno un + all’interno rappresentano gli elettroliti (ioni positivi).
Il doppio strato elettrico descrive l’interazione tra particelle cariche ed elettroliti. Il primo strato che si forma di
elettroliti sarà uno strato di elettroliti con carica opposta rispetto alla particella (counter-ions).

Le dimensioni relative tra la particella e la schematizzazione degli ioni sono sbagliate (la particella è 100
micrometri rispetto al sodio che è 100 picometri) (RIGUARDO LE RAPPRESENTAZIONI NELLE SLIDE)

Si instaurano delle forze di tipo attrattivo tra le cariche negative e i contro ioni, si forma un primo strato di ioni
che a sua volta tende ad attrarre un secondo strato di ioni che avranno la stessa carica della particella e carica
opposta rispetto al primo strato (co-ioni).

145
Il primo strato interagisce molto di più rispetto al secondo strato con la particella. Inoltre il primo e il secondo
strato insieme formano il doppio strato elettrico.
Questo secondo strato viene definito come nuvola di ioni, dà l’idea che le particelle si muovano all’interno del
liquido e che siano attorniate da una nuvola ionica.

Lo spessore del doppio strato elettrico può variare, può essere più spesso o più sottile. Lo spessore dipenderà
dalla concentrazione degli elettroliti, dalla loro carica e dalla carica della particella solida. Lo spessore del
doppio strato elettrico è importante perché influenza le forze di tipo repulsivo e quindi influenzerà la curva
delle interazioni totali.
Modificando lo spessore del doppio strato elettrico, possiamo modificare le forze di tipo repulsivo e
modificare la stabilità del sistema disperso (stabilità in termine di formazione o meno di agglomerati).
Possiamo modificare la probabilità con cui le collisioni danno degli agglomerati o portano a delle particelle
singole all’interno del sistema disperso.

Lo spessore del doppio strato elettrico determina quanto vicine due particelle possono arrivare, perché se lo
spessore è molto elevato le particelle non possono arrivare al massimo di interazione attrattiva (le forze di tipo
attrattivo sono particolarmente efficienti quando le particelle sono a piccola distanza tra loro). Se abbiamo una
nuvola di ioni le particelle non possono avvicinarsi troppo e quindi non formano degli agglomerati, perché
predominano le forze di tipo repulsivo.

Capiamo perché le particelle sono cariche e perché ci sono questi fenomeni che determinano la carica:
 IONIZZAZIONE in una sospensione le particelle rappresentano il principio attivo. Alcuni principi attivi
nella loro struttura presentano dei gruppi ionizzabili, ad esempio l’acido nalidixico presenta una
funzionalità acida. Nonostante la presenza di questa funzionalità acida, l’acido nalidixico è una sostanza
molto poco solubile in acqua e quindi quando viene posta in acqua forma delle sospensioni. Ma
quando le particelle di acido nalidixico vengono in contatto con la fase disperdente (acqua) allora se
l’acqua ha un ph tale da permettere la ionizzazione dei gruppi carbossilici allora la particella di acido
nalidixico avrà sulla sua superficie delle cariche elettriche che dipendono dalla ionizzazione dei gruppi
carbossilici che diventano gruppi carbossilati (carica superficiale di tipo negativo).
Abbiamo altri esempi, come delle proteine e altri farmaci hanno dei gruppi che possono essere ionizzati
positivamente. Quindi il concetto di ionizzazione dipende dai gruppi funzionali presenti sulla molecola
del principio attivo. Sia i pharmaceutics che i biologics possono presentare il fenomeno della
ionizzazione. In genere se hanno dei gruppi carbossilici formeranno dei gruppi carbossilato e quindi se
le particelle saranno cariche negativamente; se hanno dei gruppi amminici formeranno dei gruppi
carichi positivamente.

146
 ADSORBIMENTO IONICO è un fenomeno che dipende dal fenomeno dell’adsorbimento. All’interno
dell’acqua (fase disperdente) possono essere presenti degli elettroliti particolari (nell’immagine dove si
descriveva il doppio strato elettrico abbiamo assunto che gli elettroliti fossero di natura inorganica),
infatti in tecnologia farmaceutica si utilizzano spesso anche altre sostanze ioniche chiamate
tensioattivi. Il termine detergente è un altro termine che si usa per indicare questa classe di composti
(tensioattivi e detergenti sono quasi sinonimi). I tensioattivi sono delle molecole organiche che
presentano una parte carica (idrofila) ed una parte lipofila apolare.

Il farmaco diamo per scontato che sia lipofilo (idrofobico e apolare), perché parliamo di sospensioni e
quindi se il farmaco non fosse lipofilo si otterrebbe una soluzione (se fosse idrofilo interagirebbe di più
con l’acqua e si otterrebbe una soluzione).
Quindi se abbiamo delle particelle lipofile (farmaco) e abbiamo delle molecole che presentano una
porzione lipofila apolare (coda lipofila), allora la coda apolare lipofila andrà a formare delle interazioni
intermolecolari con la superficie lipofila del principio attivo, ma siccome abbiamo anche la carica
positiva, ecco che al termine del processo di adsorbimento succederà che la particella risulterà carica
(in questo caso positivamente).
Le cariche non sono dovute alla natura chimica della particella stessa, ma sono dovute al fatto che
degli ioni particolari (in questo caso sono ioni di tipo tensioattivo) si adsorbono sulla superficie della
particella stessa.

Quindi si adsorbono perché interagiscono in modo intermolecolare (attrazioni di Van Der Waals. Le
superfici lipofile interagiscono con catene lipofile).

Quindi il primo strato di elettroliti (strato del doppio strato elettrico) sarà negativo (in questo caso).

147
 DISSOLUZIONI IONICA DIFFERENZIALE è un meccanismo tipico di particelle di tipo inorganico, ovvero
è tipico di sospensioni in cui le particelle solide sono costituite da Sali inorganici. Ad esempio un tipo di
particelle che danno questo tipo di fenomeno sono quelle costituite da AgI (ioduro di argento, molto
poco solubile in acqua).

Il concetto della insolubilità assoluta non è corretto. Supponiamo di avere un becher pieno d’acqua e
versiamo delle particelle di ioduro d’argento, succederà che una minima parte si solubilizza in acqua.
Per quanto una sostanza possa essere poco solubile, ogni sostanza presenta un certo grado di
solubilità. Quindi anche nel caso dell’ioduro di argento, seppur in piccola quantità una parte dello
ioduro d’argento andrà in soluzione, si dissocerà ed avremo ioni Ag+ e I- in soluzione.

Un meccanismo possibile di formazione di carica sulla particella è dovuto all’effetto dello ione comune,
ovvero la solubilità dei cationi AG+ e degli anioni I- ioni può variare. Se introduciamo nell’acqua un sale
solubile come KI (ioduro di potassio, sale solubile) allora si dissocerà in K+ e I-, un’elevata
concentrazione di I- andrà ad influenzare la solubilità relativa di Ag+ e I-, ovvero una certa porzione di I-
tenderà a ricristallizzare sulla superficie della particella (perché abbiamo aggiunto un eccesso di ioni I-).
Succede che avremo una disomogenea ricristallizzazione dello ioduro d’argento, quindi tenderà a
ricristallizzare sulla superficie della particella di più I- rispetto ad Ag+.

Come risultato finale si avrà che le particelle di ioduro d’argento in presenza di un sale solubile con uno
ione comune tenderà la particella a risultare carica negativamente (IN QUESTO CASO)

Se avessimo aggiunto del nitrato di argento (sale solubile) avremmo avuto un eccesso di Ag+ e la
particella sarebbe risultata carica positivamente, perché sarebbe ricristallizzato preferenzialmente
l’argento.

Descriviamo matematicamente il doppio strato elettrico: Consideriamo la superficie della particella carica.
Andremo a studiare la zona della interfase solido-liquido in una situazione di particella carica dispersa in una
fase disperdente che contiene elettroliti.
L’immagine a sx è una rappresentazione pittorica che rappresenta una parte della nuvola ionica.
Il grafico al centro è un grafico che mostra la relazione che esiste tra il potenziale elettrico (carica elettrica) e la
distanza, ovvero studiamo come varia il potenziale elettrico muovendoci dalla superficie e andando verso
l’esterno. Quindi cerchiamo di capire da cosa dipenda lo spessore del doppio strato elettrico.

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Consideriamo il grafico a sx
 le sferette + rappresentano la carica della particella. Quindi in questo grafico si assume che la particella
sia carica positivamente
 la linea continua rappresenta la superficie della particella

Perché nei principi attivi ci sono quasi sempre dei gruppi funzionali carichi?
perché devono interagire con molecole. Tutti i fenomeni che accadono in natura dipendono dalle
interazioni intermolecolari che a sua volta dipendono dalla struttura elettronica delle molecole e dalla
polarità delle molecole. Quindi un principio attivo per agire con l’organismo deve instaurare delle
interazioni intermolecolari, ad esempio nel caso più classico un farmaco deve interagire con un recettore.

Le interazioni fondamentalmente sono o interazioni intermolecolari deboli (van der Waals, legami H) e
qualche volta interazioni ioniche, per questo motivo i principi attivi hanno spesso dei gruppi funzionali
carichi.

La controparte recettoriale ha dei siti in cui queste cariche, presenti nel principio attivo, interagiscono con
altre cariche presenti nel recettore (che è una molecola, spesso anche una macromolecola, qualche volta
è anche un complesso sovramolecolare).

149
LEZIONE 25 (17/11/2021)
Stavamo trattando della legge DLVO che fa riferimento ai sistemi dispersi colloidali, ma può far riferimento
anche ai sistemi dispesi grossolani (che sono quelli ci interessano maggiormente perché i sistemi dispersi che si
utilizzano in tecnologia farmaceutica sono tutte o quasi tutte di dimensioni grossolane). Questa legge descrive
le interazioni tra elementi discreti, in particolar modo tra particelle, e stavamo analizzando le forze di tipo
repulsivo che sono di natura elettrostatica. Le forze di natura elettrostatica che si instaurano tra particelle
dipendono dal fatto che le particelle possano presentare una carica elettrica superficiale ma anche dalla
presenza di ioni (elettroliti) disciolti nella fase disperdente. In particolare avevamo descritto la nuvola ionica,
cioè il doppio strato elettrico, che si forma attorno alla particella.

Lo schema e il grafico mostrano come varia la carica elettrica muovendoci dalla superficie della particella
(superficie rappresentata dalla linea rossa nello schema) verso la fase liquida.

- La linea rossa quindi rappresenta l’interfaccia tra il solido, cioè la particella, e il liquido (acqua)
contenente elettroliti (rappresentati dai cerchietti con cariche elettriche).
- I cerchietti a sx della linea rossa rappresentano le cariche superficiali della particella.
- Le cariche a destra della linea rappresentano gli ioni solubilizzati nella fase disperdente.

Differentemente da quanto fatto in precedenza, ora ipotizziamo che la particella sia carica positivamente. Il
fatto che sia positiva o negativa dipende dai meccanismi per cui le particelle sono cariche, e dal tipo di
particella, cioè dalla sua composizione chimica.

150
Nell’immagine a destra possiamo individuare diversi elementi:

1. IL PIANO DI STERN
A destra della linea rossa c’è una linea nera tratteggiata, che rappresenta lo ‘’Stern plane’’, o piano di
Stern. (Si chiama ‘’piano’’ e non ‘’linea’’ in quanto le particelle sono corpi tridimensionali, aventi un
volume. La superficie di una particella non può essere una linea, ma sarà, appunto, un involucro
sferico).
All’interno di questa superficie, che avvolge la particella, si trovano degli ioni aventi carica negativa,
cioè i ‘’contro-ioni’’. Si chiamano contro-ioni perché hanno carica opposta rispetto alla carica
superficiale, che è una carica positiva poiché stiamo prendendo in considerazione una particella carica
positivamente (quindi in questo caso un ‘’co-ione’’ sarebbe uno ione carico positivamente). Questi
contro-ioni più vicini alla superficie della particella formano uno strato di ioni fortemente legati con la
superficie della particella per interazioni elettrostatiche, e questo strato appunto prende il nome di
‘’piano di Stern’’. Il piano di Stern quindi è la prima superficie che avvolge la particella.

Il piano di Stern è una superficie che si trova ad una distanza dalla superficie della particella pari al
raggio del primo strato di ioni legati sulla superficie della particella.

 la distanza tra la linea rossa e la linea blu è pari al


raggio del primo strato di contro-ioni e
rappresenta appunto il piano di Stern.

2. LA SUPERFICIE DI SCORRIMENTO
Vi è poi un’altra linea che appare un po’ ondulata, che rappresenta un’altra superficie, chiamata
‘’superficie di scorrimento’’ o ‘’surface of Shear’’. Questa superficie è più lontana dalla superficie della
particella rispetto al piano di Stern, che invece è più vicino.
All’interno della superficie di scorrimento ci sono più ioni rispetto a quelli che all’interno del piano di
Stern, dal momento che, allontanandoci dalla superficie, saranno presenti anche un po’ di co-ioni.

Cos’è la superficie di scorrimento? Tenendo presente che le particelle, all’interno di una sospensione, si
muovono (a causa dei moti browniani e della presenza della sedimentazione), e che ogni particella è circondata
da uno strato di Stern di contro-ioni e da uno strato più esterno di co-ioni e contro-ioni, possiamo dedurre che
gli ioni che avvolgono la particella, quando questa si muove, si muovono assieme alla particella. A muoversi
con la particella saranno, però, solo alcuni di questi ioni: la superficie di scorrimento divide gli ioni che si
muovono assieme alla particella (poiché legati fortemente a questa, sono gli ioni del piano di Stern) da quelli
più lontani, che quindi NON si muovono assieme alla particella.

Quindi, la superficie di scorrimento è un piano:


 che è più distante dalla particella
 che comprende tutti gli ioni, sia co-ioni che contro-ioni, che si muovono assieme alla particella, in
quanto sono molto legati alla particella stessa.

151
Per capire cosa sia l’ultima linea tratteggiata, però, dobbiamo comprendere il seguente grafico:

La prima parte del grafico


mostra un decadimento di
carica che in un primo
momento è lineare: la carica
cala di molto e questo è
visibile dalla pendenza
ripida della curva.

Il grafico mette in relazione il potenziale elettrico con la distanza dalla superficie della particella. Come varia il
potenziale elettrico muovendoci dalla superficie della particella verso il liquido?

Immaginiamo di avere elettrodi che misurano il potenziale elettrico (in mV) prima sulla superficie della
particella e poi muovendoci dalla superficie della particella verso il liquido. Vediamo quindi come varia il
potenziale elettrico muovendoci dalla superficie della particella verso il liquido:

 Sull’asse delle y troviamo un primo valore di potenziale elettrico (‘’psi 0’’), misurato a distanza pari a 0,
cioè misurato sulla superficie della particella. Questo potenziale elettrico dipende quindi solo dalla
carica della particella. Psi 0 è la carica sulla superficie della particella.

 Sull’asse delle y c’è poi un secondo valore, ‘’psi d’’, che rappresenta il potenziale elettrico misurato sul
piano di stern. Sarà più basso del potenziale psi 0 poiché ci sono i contro-ioni che neutralizzano la
carica della particella.

 Sull’asse delle y c’è un terzo valore, che è ‘’zeta’’, che rappresenta il potenziale sulla superficie di
scorrimento.
Mentre il potenziale psi 0 e psi d sono difficili da misurare, invece il potenziale zeta è misurabile
sperimentalmente. Dunque, per determinare l’intensità delle forze repulsive elettrostatiche si fa
riferimento al valore di potenziale zeta. Zeta è quindi un parametro usato per misurare l’intensità
delle forze repulsive, che influiscono sui fenomeni di agglomerazione. Zeta è misurabile per ogni tipo di
sistema disperso (emulsioni, sospensioni…).

3. LO STRATO DIFFUSO
C’è poi una terza linea, quella tratteggiata, che include al suo interno molti più ioni, e che è più lontana
dalla superficie della particella. Questa linea prende il nome di ‘’strato diffuso’’: si tratta di una
superficie che avvolge la particella e che contiene molti elettroliti (poiché più distante dalla particella
rispetto alle superfici precedenti).
Lo strato diffuso è una superficie che dà una indicazione dello spessore del doppio strato elettrico.
Questo spessore determina se e di quanto si possono avvicinare due particelle:

- Maggiore è lo spessore, meno si avvicinano le particelle (poiché le forze elettrostatiche repulsive


saranno più significative), di conseguenza le particelle tenderanno a NON agglomerare. Le particelle
quindi rimangono singole, portando alla formazione di un sistema stabile.
- Minore lo spessore, più si avvicinano le particelle, poiché le forze di repulsione saranno meno
significative.

152
Lo spessore quindi è misurabile tramite il potenziale zeta, che può essere misurato tramite uno strumento
definito ‘’zetametro’’.
Da psi zero a zeta c’è un decadimento
rapido e lineare, mentre da zeta in poi
il decadimento del potenziale è più
lento.

La legge DLVO ci diceva che l’energia totale di interazione tra 2 particelle è data dalla somma delle forze
attrattive e di quelle repulsive. VR quindi dipenderà dal potenziale zeta.

Da cosa dipende invece VA ?


VA è influenzato da parametri molto semplici, presenti nell’equazione sopra:

 il segno ‘’-‘’ nell’equazione fa riferimento al fatto che le forze di tipo attrattivo, per convenzione, sono
negative.
153
 AH e r, essendo al numeratore, sono due parametri proporzionali a VA. AH è una costante e dipende
dal materiale della sostanza che stiamo considerando; invece r è il raggio medio della particella. Più le
particelle sono grandi, dunque, maggiori le forze attrattive (le particelle tenderanno ad attrarsi di più).

 Il valore 12 H al denominatore, invece, rappresenta la distanza tra i centri delle due particelle. Quindi,
le forze di tipo attrattivo, oltre che dalle dimensioni, dipendono anche dalla distanza. Più sono distanti
le particelle, meno si attraggono; più si avvicinano, più si attraggono.
Le forze attrattive sono quindi ‘’short distance forces’’: sono cioè forze che aumentano su brevi
distanze.
Se le particelle sono poco cariche (cioè hanno una nuvola ionica sottile) tenderanno ad avvicinarsi, in
modo da attrarsi maggiormente.

L’ENERGIA DI INTERAZIONE TOTALE

Nel grafico
troviamo sull’asse
delle x la distanza
della superficie di
separazione tra le
particelle.

Questa curva descrive l’energia di interazione totale tra particelle solide in sospensione, cioè l’interazione tra
forze attrattive e repulsive. Questa curva è caratterizzata da 2 minimi (un minimo secondario e un minimo
primario) e 1 massimo.

 Se in un sistema abbiamo una predominanza di forze di tipo repulsivo (ovvero se le particelle sono
circondate da un doppio strato elettrico molto spesso), questo significa che le particelle saranno molto
lontano tra loro, dunque si comporteranno come particelle singole. Anche se collidono, quindi, le
particelle rimangono libere, formando un sistema stabile.

 Se invece lo spessore del doppio strato elettrico comincia a diminuire, le particelle, in seguito a
collisione, possono formare degli AGGLOMERATI.

 Se le particelle rimangono a una certa distanza tra loro parliamo di ‘’agglomerati soft’’, in
corrispondenza del valore di MINIMO SECONDARIO. Gli agglomerati soft sono quelli che
possono essere ri-dispersi per semplice agitazione manuale.
 Se invece le particelle si avvicinano moltissimo, eliminando completamente le forze repulsive,
parliamo di ‘’agglomerati hard’’, in particolare in corrispondenza del MINIMO PRIMARIO.

154
NB: Nelle sospensioni, sia la situazione in cui si formano particelle singole che quella in cui si formano
agglomerati soft, sono accettabili (gli agglomerati soft infatti possono essere ri-dispersi). Invece, nel caso degli
agglomerati hard, questi non vanno bene nelle sopsensioni, poiché non sono ri-disperdibili.

NB: Gli agglomerati soft si formano tramite il processo di flocculazione, mentre gli hard tramite il processo di
coagulazione.

Questo è un grafico teorico che


mostra varie curve che descrivono
come varia l’energia totale di
interazione variando le forze di tipo
repulsivo (cioè variando ‘’psi d’’):

- A basse forze repulsive,


prevalgono quelle attrattive e
si forma il coagulato.
- Ad alte forze repulsive,
prevalgono le forze repulsive:
le particelle non si avvicinano e
non si forma il coagulato.

LA STABILITA’ DELLE DISPERSIONI (sospensioni)

155
Dunque, se le forze attrattive, intrinseche nel tipo di materiale, non possono essere modificate, invece quelle
repulsive sì, come si possono influenzare le forze di tipo repulsivo?

Si possono influenzare modificando la concentrazione degli elettroliti. Sono infatti proprio gli elettroliti che
formano il doppio strato elettrico. Quindi il grafico ci fa capire che, variando la concentrazione degli elettroliti,
cambiano le forze di natura repulsiva. Avrà una influenza anche il TIPO di elettroliti, oltre che la loro
concentrazione.

 Vediamo come cambia la forma del grafico in base alla


concentrazione di elettroliti:

o A bassa concentrazione di elettroliti, attorno a 0,1 mM, predominano le forze repulsive. Le particelle
tenderanno dunque allo stato di particelle singole, cioè non agglomerate, in un sistema stabile (se
anche le particelle collidono, queste rimangono comunque singole). In questo caso la curva avrà un
massimo molto alto ma non avrà un valore di minimo secondario.

o Ad alte concentrazioni di elettroliti, comprese tra 1 e 10 mM, predominano invece le forze attrattive.
Si abbassa cioè il massimo e si forma il minimo secondario (che nel primo caso non c’era proprio),
dunque le particelle tenderanno ad agglomerarsi tra loro in forma di soft agglomerati.

o Se si eccede con l’aggiunta di elettroliti, dai 10 ai 100 mM, si formano gli agglomerati hard. Questo
avviene perché, nel grafico, scompare il punto di massimo: le forze repulsive cioè vengono
completamente o quasi completamente eliminate.

LEZIONE 26 (18/11/2021)
Queste curve ci fanno vedere come varia l’interazione totale fra due particelle modificando la concentrazione
degli elettroliti che si aggiungono alla fase disperdente. Abbiamo parlato dell’effetto della concentrazione degli
elettroliti, ma non abbiamo specificato che tipo di elettroliti, poiché non tutti gli elettroliti hanno il medesimo
effetto (se usiamo del cloruro di sodio o del cloruro di calcio l’effetto non sarà identico).

IN QUESTA DIAPOSITIVAÈ mostrato che variando il tipo di elettroliti che si utilizzano cambia il loro potere
coagulante, cioè il loro potere di modificare il sistema disperso. Negli studi che sono stati fatti ci si è
particolarmente focalizzati sulla parte terminale del processo, ovvero sul raggiungimento del fenomeno della
coagulazione (fenomeno di assemblaggio di tipo hard, significa che scompare il massimo e quindi le particelle
possono avvicinarsi di molto formando agglomerati più compatti).

È stato studiato l’effetto di vari elettroliti su un particolare parametro che è stato definito con la sigla CCC
(concentrazione critica di coagulazione), ossia la concentrazione che induce la coagulazione in un sistema
disperso (sospensione). È la concentrazione che porta il sistema a coagulare. Questa concentrazione è
relativamente facile da determinare, in quanto la coagulazione quando avviene cambia l’aspetto visivo della
sospensione perché si formano degli assemblati di particelle e non saranno presenti più particelle singole.
Varierà quindi la velocità di sedimentazione perché anziché sedimentare delle particelle singole
sedimenteranno degli agglomerati. Sappiamo che la velocità di sedimentazione varia con il quadrato del raggio,
quindi le particelle singole sedimentano molto più lentamente delle particelle agglomerate.
156
Quando avviene il processo di coagulazione si forma molto più rapidamente un sedimento (pellet o corpo di
fondo).

La CCC si misura con la comparsa di un sedimento che si forma rapidamente.

Nella tabella vediamo:


 Sulla prima colonna troviamo gli elettroliti che dissociano in acqua. Questa prima colonna è divisa
orizzontalmente in tre porzioni:
 Nel primo gruppo sono raggruppati degli elettroliti che hanno degli elementi monovalenti
 Nella seconda orizzontale ci sono gli elettroliti che formano gli ioni bivalenti
 Nella terza orizzontale ci sono i trivalenti

Gli elettroliti hanno un effetto di schermo sulla carica della particella, hanno quindi un effetto di tipo elettrico
sulla particella, quindi gli ioni monovalenti, bivalenti e trivalenti avranno diversi effetti (mono<bi<tri).
L’effetto non variava linearmente (i bivalenti non avevano un effetto doppio rispetto ai mono e i tri valenti non
avevano un effetto triplo), ma l’effetto era molto più marcato passando dai monovalenti ai bivalenti ai
trivalenti. Gli studiosi hanno sviluppato una teoria che segue quella che è la regola Schulze-Hardy che mette in
correlazione la carica degli elettroliti con il potere coagulante.

A
La concentrazione di coagulazione critica varia con il rapporto di =
BC

o z è la carica per i monovalenti z=1; per i bivalenti z=2; per i trivalenti z=3
o n dipende dal tipo di ione (in genere varia tra n=2 o n=6)

RAPPORTO GENERALE 1000:16:1,3  cioè se il potere coagulante del monovalente è 1,3, allora il potere
coagulante del bivalente è 16 e quello del trivalente è 1000

“sol” è un parametro che fa riferimento alla viscosità. I sistemi sol sono dei sistemi in cui abbiamo delle
particelle colloidali disperse, ma la viscosità di questi sistemi è praticamente uguale all’acqua che funge
da fase disperdente

Il termine “sol” si contrappone al termine “gel” che è tipico dei colloidi liofili, mentre i liofobi tendono ad
essere sol

I numeri nella tabella sono i valori veri, ottenuti sperimentalmente. Nel caso di AgI sol si avrà un esempio di
sospensione e i numeri corrispondono alla concentrazione millimolare.
Nella seconda colonna è riportato il simbolo Au-sol, che rappresenta delle nanoparticelle d’oro. I numeri
cambiano perché cambia il sistema disperso, ma si nota comunque una diminuzione delle concentrazioni più
o meno corrispondente all’equazione di CCC.
157
Nella tabella sono indicate delle particelle di ioduro di argento (sol) che hanno una viscosità simile all’acqua.
o Ad esempio Il nitrato di litio per indurre la coagulazione deve essere usato ad una concentrazione di
165 milli molare.
o Nel secondo box abbiamo i bivalenti la cui concentrazione millimolare cala drasticamente il
magnesio nitrato deve essere usato ad una concentrazione di 2,53
o La concentrazione critica di coagulazione per l’alluminio nitrato è di 0,067 milli molare

Sulla dx abbiamo delle cuvette che si usano per la spettrofotometria. A dx abbiamo il solfuro di antimonio
(poco solubile in acqua), dove vengono aggiunte delle concentrazioni crescenti di elettroliti e, visivamente, si
nota che tra la cuvetta numero 69 e 70 cambia la presenza di sedimenti: nella cuvetta 70 è avvenuto un
fenomeno di coagulazione (nella cuvetta 70 c’è un sedimento, mentre nella cuvetta 60 non c’è. Tra le cuvette
cambia la concentrazione degli elettroliti). La formazione del sedimento è indice che è avvenuto il fenomeno
della coagulazione.

Nell’immagine a sx abbiamo un altro tipo di sospensione che è l’idrato ferrico (poco solubile in acqua quindi
danno origine a sospensioni). Nell’immagine vediamo che è stato aggiunto del solfato di alluminio che è un
agente coagulante, si è formato quindi un sedimento e si è raggiunta la concertazione di coagulazione.

Nell’immagine abbiamo una classificazione delle sospensioni relativamente al loro stato di agglomerazione. A
sx abbiamo una schematizzazione, a dx abbiamo una fotografia. Cominciamo con l’esempio a sx in ciascuno dei
due box:

1. quando una sospensione si trova in una situazione in cui le particelle sono in gran parte singole
particelle (singole unità, cioè parliamo di sospensioni in cui le forze repulsive predominano, quindi bassa
concentrazione di elettroliti) si chiama permanente oppure deflocculata (questo termine è infelice perché
ci verrebbe da pesare che sia una sospensione che prima era flocculata e poi non lo è più). “Deflocculata” è
il termine che indica che non è flocculata, ciò significa che le particelle sono in gran parte singole particelle
perché predominano le forze di tipo repulsivo, dovute alle repulsioni elettrostatiche tra particelle. E se
anche queste particelle collidono, statisticamente, tendono di nuovo a separarsi.

2. Possiamo trovare delle sospensioni definite flocculate. La flocculazione è un processo che porta alla
formazione dei flocculi (agglomerati soft). Per indurre la flocculazione rispetto all’induzione della
coagulazione dobbiamo cambiare la concentrazione degli elettroliti, cioè dobbiamo ridurla (la flocculazione
la si ottiene per concentrazioni un po' più basse della coagulazione). Quindi teniamo i valori della
coagulazione come riferimento però dobbiamo fermarci “un po' prima”, cioè dobbiamo aggiungere una
concentrazione di elettroliti minore. Nelle curve dobbiamo fermarci in una situazione in cui si forma il
minimo secondario, ma il massimo è ancora presente (ricordiamo che quando scompare il massimo il
sistema coagula).

158
3. Possiamo trovare delle sospensioni definite coagulate (non è scritto nella slide) nelle sospensioni
coagulate notiamo la presenza di un sedimento molto compatto e per questo queste sospensioni vengono
denominate sospensioni caked (il sedimento viene chiamato cake)

Preferibilmente useremo la situazione “1” (la permanente) per produrre un medicinale che contiene una
sospensione, rappresenta una situazione ideale perché il sedimento se si forma non è tantissimo (dato che le
particelle sono singole) e se si formano le sospendiamo per agitazione manuale e quindi può essere utilizzato
questo tipo di approccio formulativo.

A livello formulativo molte sospensioni non vengono formulate sottoforma di sospensione permanente, ma
vengono formulate sotto forma di sospensioni flocculate.

A sx abbiamo uno schema di una sospensione, abbiamo in azzurro dell’acqua e le sferette rappresentano il
principio attivo. Nelle sospensioni permanenti il sedimento si forma lentamente, ma non possiamo escludere
completamente che si formi, anzi sappiamo che anche in queste sospensioni si forma. Infatti, la scadenza del
medicinale avviene dopo vari anni e passa diverso tempo dal momento della produzione alla scadenza. È
importante riportare in etichetta “agitare prima dell'uso" anche se si ha a che fare con una sospensione
permanente.

I tre box sono degli ingrandimenti del fondo del contenitore dove si formano i sedimenti:

in alto abbiamo delle sospensioni permanent si hanno delle particelle singole sedimentate sul fondo del
contenitore.

Anche nelle sospensioni permanenti si possono avere eventi negativi come la formazione del sedimento.

Nell'acqua è presente principio attivo perché è una soluzione satura e, per quanto sia bassa la solubilità, nelle
sospensioni la fase disperdente è sempre una soluzione satura. Perciò possiamo dire che le particelle e la fase
disperdente sono in equilibrio rispetto alla concentrazione di principio attivo. Quando abbiamo una soluzione
satura vuol dire che abbiamo raggiunto l’equilibrio ad una determinata temperatura, ma bisogna ricordare che
nulla nella natura è completamente fermo, quindi, avere raggiunto l’equilibro significa che la velocità di
dissoluzione sarà uguale alla velocità di cristallizzazione (precipitazione). La temperatura influenza la solubilità
(aumento- aumento).

159
Nel secondo box c’è scritto incremento di temperatura se aumenta la T aumenterà la solubilità e quindi
seppur piccola una certa quantità di principio attivo andrà in soluzione. Aumentando la temperatura la fase
disperdente diviene sotto-satura, quindi una parte del sedimento andrà in soluzione (tenderà a ristabilire
l’equilibrio) e una certa frazione va in soluzione.

Assieme a questo fatto dobbiamo anche considerare che con il tempo il sedimento tende ad impaccarsi, cioè
si forma un sedimento più compatto. Le sospensioni vengono mantenute a temperatura ambiente, e questa
può variare di piccole unità in base alla stagionalità. La solubilità risente della temperatura, e quindi si
sposta leggermente l’equilibrio: se si abbassa la temperatura la fase disperdente diventerà sovra-satura, e
questo comporta una precipitazione.

I sistemi dispersi hanno una scarsa stabilità termodinamica perché sono costituiti da fasi dissimili tra loro,
quindi il sistema disperso per migliorare la situazione tende a ridurre l’area interfacciale. Dal momento che
le particelle devono riscristallizzare perché si abbassa la temperatura, allora le dimensioni medie delle
particelle aumentano e diminuisce l’area interfacciale (perché i due termini sono inversamente
proporzionali tra loro).

Se una sospensione viene posta a dei cicli di riscaldamento e raffreddamento si osserva che le dimensioni
medie delle particelle tendono ad aumentare. Quando abbiamo un aumento della temperatura che rende
la sospensione sotto-satura, i processi tendono a far sparire le particelle più piccole e far aumentare le
dimensioni delle particelle più grandi.

Nell’ultima immagine le particelle si sono parzialmente fuse tra loro e si formano dei ponti solidi. In quanto,
quando si ricristallizza, il principio attivo tende a ricristallizzarsi su più molecole, in modo che l’area interfacciale
diminuisca ancora di più e la termodinamica migliori. Il processo porta alle sospensioni caked e il sedimento
non è più ridisperdibile.

 Ecco perché spesso si tendono a formulare delle sospensioni flocculate, perché in queste per
definizione di flocculo (sono agglomerati lassi), il fenomeno del caking è molto difficile che avvenga.

Il fenomeno del caking è molto più difficile che avvenga, in quanto l’impaccamento così compatto che si ha
nelle deflocculate è statisticamente più difficile che avvenga. I fenomeni della variazione della solubilità con la
temperatura e di questi processi di dissoluzione e ricristallizzazione portano al fenomeno noto come crescita
dei cristalli.
Nelle sospensioni anche piccole variazioni di T tendono a far aumentare le dimensioni medie, perché
spariscono le particelle più piccole (si dissolvono) e il materiale si cristallizza nelle particelle più grandi. Viene
spesso denominato con il termine MATURAZIONE DI OSTWALD. Le sospensioni se esposte a variazioni di T
tendono a far sparire le particelle più piccole e a formare particelle più grosse. E se queste particelle sono
molto vicine tra loro si formano dei ponti solidi tra particella e particella.

160
Questo fenomeno avviene anche nelle emulsioni, le goccioline più piccole tenderanno a sparire e porteranno
ad un aumento delle goccioline più grandi (per migliorare la stabilità termodinamica perché le dimensioni
medie influenzano l’area interfacciale tra le due fasi).
E nei sistemi dispersi la termodinamica ci dice chetermodinamicamente parlando i sistemi più stabili sono
quelli con una minor area interfacciale (opposto della stabilità funzionale).

Confronto tra le flocculate e le deflocculate


 PERMANENTI singole particelle. La velocità di sedimentazione è lenta. Sebbene il sedimento si formi
lentamente non è da escludere che si formino dei fenomeni di caking dove la formazione dei ponti
solidi è più possibile.

 FLOCCULATE agglomerati lassi (le particelle interagiscono soltanto con vertici e spigoli). La velocità di
sedimentazione è molto maggiore, quindi il sedimento si formerà più velocemente e questo non ci
deve preoccupare a patto che il sedimento sia sempre facilmente ri-disperdibile. L’evento di
formazione di sedimenti compatti non più ridisperdibili è meno probabile in quanto la struttura lassa
degli agglomerati tende a rendere meno compatto il sedimento.

Quando estraiamo il flacone dalla scatola, il fatto di vedere un sedimento può insospettire (se non si è un
farmacista), nelle sospensioni flocculate il sedimento è molto più visibile. Visivamente le flocculate possono
essere percepite come di minor qualità.

Spesso le sospensioni vengono deliberatamente, a livello formulativo, prodotte come sospensioni flocculate.

Come si ottiene la flocculazione di una formulazione?


Aggiungendo degli elettroliti. Gli elettroliti nelle sospensioni vengono considerati una famiglia particolare di
eccipienti che prendono il nome di agenti flocculanti. Sono eccipienti che inducono la flocculazione. Gli agenti
flocculanti sono ad esempio:
 Gli elettroliti in genere bivalenti (hanno una maggior capacità di indurre coagulazione)
 Surfactanti ionici tensioattivi ionici, inducono modificazioni del doppio strato elettrico
 Polimeri hanno un meccanismo di flocculazione chiamato flocculazione sterica

LEZIONE 27 (23/11/2021)
Abbiamo parlato nella lezione precedente di tipologie di sospensioni e in particolare dello stato di
agglomerazione delle particelle sospese all’interno della sospensione. Abbiamo visto come le sospensioni
possano essere utilizzate e formulate o nella forma permanent (deflocculata) o nella forma flocculata.
Abbiamo visto anche come la forma flocculata sia molto spesso preferita dai formulatori in quanto questa
forma presenta un rischio molto inferiore di formare delle strutture chiamate cake, ovvero dei sedimenti non
più risospenbili che porterebbero alla completa destrutturazione delle qualità della sospensione.
Stavamo trattando il modo con cui si ottengono le sospensioni flocculate e gli eccipienti che si utilizzano per
flocculare le sospensioni si chiamano agenti flocculanti (o flocculanti) che possono essere di 3 tipologie
(elettroliti, surfactanti ionici e polimeri).
La flocculazione impartisce alle sospensioni delle caratteristiche favorevoli in quanto rende sempre ottimale la
risospensibilità della sospensione, cioè anche se si forma il sedimento questo è facilmente risospendibile.

161
Vediamo come si determina la concentrazione di agenti flocculanti che vengono utilizzati per
flocculare la sospensione:
In questa diapositiva è spiegata una delle metodologie più semplici per determinare quale sia la corretta
concentrazione di agente flocculante da utilizzare per flocculare una sospensione, cioè per trasformare una
sospensione da deflocculata a flocculata.
Una delle modalità più semplici è l’osservazione visiva di come si modifichi l’aspetto visivo delle sospensioni
all’aggiunta dell’agente flocculante.
Abbiamo detto che le sospensioni flocculate si chiamano così perché sono caratterizzate dalla presenza di
flocculi (agglomerati di tipo soft) che risultano essere poco compatti e quindi occupano un elevato volume,
pertanto nelle sospensioni flocculate il sedimento ha un elevato volume. Possiamo quindi correlare il grado di
flocculazione con il volume del sedimento, perché i flocculati hanno la caratteristica di occupare un elevato
volume.
La concentrazione ideale dell’agente flocculante viene determinata applicando due formule:

 Una formula serve a determinare il volume di sedimentazione R. Il volume di sedimentazione è una


determinazione del volume del sedimento posto in relazione con il volume totale della sospensione.
R è il rapporto tra il volume del sedimento (Vs) sul volume totale della sospensione (V0).

Questi volumi si misurano con una vetreria o plasticheria che presenti delle tacche graduate che ci
permettono di misurare il volume (provette o cilindri graduati).

La concentrazione ottimale di agente flocculante si determina preparando una serie di sospensioni


tutte uguali, che inizialmente sono deflocculate, successivamente si aggiunge una concentrazione
crescente di agente flocculante, si agita la sospensione e si va a valutare come varia il volume del
sedimento al variare della concentrazione di agente flocculante. Si andrà a scegliere la concentrazione
di agente flocculante che ha indotto il volume di sedimentazione (R) maggiore, questa sarà la
concentrazione ottimale per indurre la flocculazione.
La concertazione dell’agente flocculante deve essere determinata molto accuratamente, perché un
eccesso di agente flocculante potrebbe avere un effetto deleterio sulla sospensione. Infatti abbiamo
visto che se superiamo il valore ottimale di agente flocculante per indurre la flocculazione allora
diminuiamo troppo le forze repulsive ed induciamo un fenomeno della coagulazione (fenomeno
negativo che deve essere evitato).

 Alcuni ricercatori usano un parametro molto simile al volume di sedimentazione che è il grado di
flocculazione (beta). È un rapporto tra D (volume del sedimento della sospensione) e E (indica il
volume del sedimento nella sospensione di partenza, ossia quella deflocculata)

162
Oltre che attraverso un’analisi visiva dell’avvenuta flocculazione, esiste un’altra possibilità per determinare la
corretta concentrazione di agente flocculante, questo è un approccio di tipo strumentale.

Esiste un parametro misurabile che mette in relazione la concentrazione dell’agente flocculante e il


fenomeno della flocculazione? Oppure in altri termini, abbiamo la possibilità di misurare un qualche
parametro che correli lo stato della sospensione?
Le interazioni che si instaurano tra particelle (o tra elementi discreti della fase dispersa in un sistema disperso)
sono attrattive e repulsive. Il bilanciamento tra le forze attrattive e repulsive cambierà lo stato di
agglomerazione di questi elementi. Se le forze repulsive sono molto elevate il sistema avrà degli elementi
discreti che si trovano nella forma unitaria, mentre se le forze repulsive diminuiscono allora si potrà far
predominare le forze di tipo attrattivo in modo tale che si possano formare degli agglomerati. Le forze di tipo
repulsivo che determinano, in gran parte, lo stato di agglomerazione delle particelle in una sospensione
possono essere misurate andando a misurare dei parametri correlati con le forze repulsive che sono di natura
elettrostatica che dipendono dal potenziale elettrico delle particelle e dall’effetto del doppio strato ionico di
elettroliti che sono attorno alla particella. Questo parametro è misurabile con la valutazione del valore
numerico del potenziale che si misura sul piano di scorrimento, questo valore di potenziale elettrico che ci dà
un’indicazione delle forze di tipo repulsivo si chiama potenziale Z.
Quindi il parametro che ci permette di determinare la corretta concentrazione di agente flocculante per
indurre la corretta flocculazione è il potenziale Z.

Perché è importante indurre la flocculazione? È importante perché è minore la possibilità che si formino dei
cake. La formazione di cake renderebbe difficile la ridispersione del principio attivo e il prelevamento della
dose, soprattutto nelle sospensioni confezionate in contenitori multidose.

Come si misura la quantità di agente flocculante in maniera visiva, ovvero attraverso la misura del volume
del sedimento. Un elevato volume di sedimentazione sarà indice della flocculazione QUINDI R deve avere
un valore il più alto possibile.

Il valore di R può essere uguale a 127? NO, perché sarà sempre compreso tra 0 e 1. Al massimo ci può
essere una condizione che di fatto però non si raggiunge mai in cui tutta la sospensione è occupata dal
sedimento. Quindi al massimo R potrà essere 1 quando il sedimento occupa l’interno volume (V0=Vs).
Invece se il sedimento occupa metà del contenitore allora R sarà 0,5.

163
Come si misura il potenziale Z?
Premessa La metodologia di determinazione del potenziale Z che è qui descritta è una tecnologia che viene
utilizzata solo nel caso di sospensioni o emulsioni di tipo grossolano. Se volessimo determinare il potenziale Z
in sistemi dispersi di tipo colloidale dovremmo usare un altro strumento che non descriveremo.

Il potenziale Z si misura andando a determinare un parametro che si chiama mobilità elettroforetica.


Fa riferimento a quello che abbiamo fatto in laboratorio L’elettroforesi serve per la separazione degli acidi
nucleici. Le molecole di DNA che si trovano nel gel corrono, quindi si muovono, in particolare vengono attratte
verso l’elettrodo positivo della camera elettroforetica (il DNA ha polarità negativa). Il campione che abbiamo
caricato nel gel era una sospensione di DNA in una fase disperdente, quindi abbiamo valutato se gli elementi di
una sospensione si muovevano in un processo elettroforetico. La sospensione che abbiamo utilizzato era una
sospensione colloidale liofila. Seguendo questo tipo di esperienza fatta in laboratorio possiamo concludere
dicendo che degli elementi discreti carichi si muovono se sottoposti ad un campo elettrico che è generato da
due elettrodi che sono collegati alla cella elettroforetica e al power supply (generatore di corrente). La cella
elettroforetica che abbiamo visto noi era orizzontale.

Gli elementi discreti di una sospensione se sottoposti ad un campo elettrico si muovono, perché sono carichi ed
in particolare si muovono verso l’elettrodo di carica opposta.

Invece di avere una cella elettroforetica orizzontale in cui le molecole si muovono all’interno di un gel, per
misurare il potenziale Z si usa una cella elettroforetica che è rappresentata nell’immagine. I due rettangolini
neri sono gli elettrodi di platino che creano un campo elettrico all’interno di un tubo orizzontale chiamato
observation tube che è riempito di un liquido. Gli elettrodi sono collegati al generatore. Nel liquido ci sarà il
campione da analizzare che nel nostro caso sarà una sospensione grossolana. Con questo strumento (Z meter)
andiamo visivamente grazie all’obbiettivo di un microscopio le particelle di fase dispersa che si muovono
all’interno del tubo e si muoveranno verso l’elettrodo carico di segno opposto.
Nel tubo ci sono delle tacche che ci indicano delle distanze (sono tacche in mm, come se fosse un righello),
quindi non facciamo altro che munirci di un cronometro, focalizziamo l’attenzione su una particella e vediamo
come si muove la particella dentro il tubo. Andiamo a misurare la velocità con cui si muovono le particelle
avendo tempo e distanza.

In questo modo misuriamo v che è la velocità elettroforetica (m/s) (numeratore dell’equazione).

Però la velocità la dobbiamo rapportare in modo da avere delle misure che sono applicabili in tutti i laboratori,
quindi la velocità la dividiamo per E che è il campo elettrico applicato. È un modo per normalizzare la velocità
elettroforetica in base al campo elettrico (la misura del campo elettrico ce la indica lo strumento).
In questo modo dividendo la velocità per il campo elettrico allora otteniamo il parametro μG che è la mobilità
elettroforetica, è una velocità normalizzata considerando il campo elettrico applicato.

A questo punto applichiamo l’altra formula che ci serve a correlare la mobilità elettroforetica con la carica della
particella, perché anche la carica della particella avrà un’influenza su come si muove all’interno del campo
elettroforetico. Una particella più carica si muove di più di una non carica. Quindi abbiamo un rapporto che
mette in relazione la mobilità elettroforetica con il potenziale Z, inoltre dobbiamo considerare la conducibilità
del mezzo e la viscosità del mezzo (di solito si usa l’acqua). In questo modo abbiamo determinato il potenziale Z
(al numeratore della seconda equazione) della sospensione o emulsione o del sistema disperso che stiamo
misurando.

A cosa serve misurare il potenziale Z? Il potenziale Z ci dà una misura delle forze di tipo repulsivo e quindi
determina la curva di interazione totale dei sistemi dispersi. Quindi andiamo a correlare il potenziale Z con lo
stato di agglomerazione del sistema disperso ed in particolare possiamo dire che vi è una correlazione tra
potenziale Z e stato di agglomerazione del sistema disperso.
164
La tabella ci fornisce indicazioni sul potenziale Z e l’effetto della stabilità. Ci dice come il parametro Z
influenzi lo stato di agglomerazione degli elementi della fase dispersa. Il potenziale Z è un potenziale elettrico
(si misura in V, ma siccome sono valori molto piccoli generalmente si esprime in mV):
o Quando il potenziale Z è molto elevato (±40-60mV) avremo una elevata intensità delle forze repulsive,
quindi avremo una sospensione di tipo permanent con particelle singole. C’è un ± perché il potenziale
può essere negativo o positivo, quindi se la particella è carica negativamente allora il potenziale avrà un
valore negativo, se invece è carica positivamente allora il potenziale sarà positivo.

o Se siamo 30-40 mV avremo una moderata flocculazione. Significa che diminuiscono un po’ le forze di
tipo repulsivo e si cominciano ad instaurare delle interazioni tra particelle che formano agglomerati
soft

o Se siamo tra i 10 e i 30 mV avremo la flocculazione

o Se aggiungiamo una eccessiva quantità di agenti flocculanti allora il potenziale Z diminuisce troppo
(andiamo a valori intorno alla neutralità), le forze repulsive spariscono (sparisce il massimo) e si
instaura un processo di coagulazione.

Per ottenere delle sospensioni flocculate farmaceuticamente utilizzabili dobbiamo rimanere in un intervallo che
va da circa ± 10mV fino a ± 40mV. Generalmente si tende ad indicare come valore ottimale il valore di ± 25mV.
In questo range abbiamo la ottimale flocculazione della sospensione.

Il grafico mostra uno studio condotto su una sospensione grossolana liofoba, che è costituita da particelle
inorganiche di ossinitrato di bismuto (sostanza che viene utilizzata come sospensione orale come blando
astringente e per uso cutaneo come blando disinfettante).
Il grafico presenta due diversi assi delle y, quello a sx riposta i valori di potenziale Z, mentre quello sulla dx
riporta il parametro che ci dà indicazioni sull’altezza del sedimento.
La curva che ha un andamento abbastanza rettilineo fa riferimento al potenziale Z, mentre l’altra curva che ha
una forma più gaussiana fa riferimento all’altezza del sedimento.

Il grafico mostra come variano il potenziale Z e il volume del sedimento (o altezza del sedimento) al variare
della concentrazione di agente flocculante (fosfato dibasico di potassio), il fosfato è un ottimo agente
flocculante.

165
Le particelle erano cariche positivamente, avremo un alto valore di potenziale Z inizialmente quando la
sospensione è deflocculata, man mano che aggiungiamo l’agente flocculante vediamo che il potenziale Z
diminuisce e progressivamente aumenta il sedimento.

Se eccediamo con l’aggiunta dell’agente flocculante allora il sedimento cala, perché un’eccessiva
concentrazione di agente flocculante provoca un’eccessiva riduzione del valore del potenziale Z ed invece di
avere la flocculazione induciamo la coagulazione (ciò è negativo).

Le due linee tratteggiate indicano i due valori indicativi di elevato sedimento e valori di potenziale Z intermedi
in cui abbiamo i valori di moderata flocculazione o di flocculazione.

Abbiamo visto che oltre che alla misurazione dell’altezza del sedimento possiamo fare riferimento al potenziale
Z come indicatore dello stato di agglomerazione di un sistema disperso e valutando il valore di potenziale Z
possiamo determinare la corretta concentrazione di agente flocculante da utilizzare nella flocculazione di una
sospensione.

Polimeri
Tra gli agenti flocculanti che possono essere utilizzati per indurre la flocculazione abbiamo visto gli elettroliti ed
i tensioattivi ionici (entrambi modificano il potenziale Z), concludiamo questa parte di trattazione parlando dei
polimeri.
Come agiscono i polimeri come agenti flocculanti, qual è il loro effetto sulla stabilità delle sospensioni e sul loro
stato di agglomerazione?
In questa diapositiva vediamo che i polimeri come agenti flocculanti inducono una stabilizzazione delle
sospensioni attraverso un procedimento che non fa più riferimento alle forze di natura elettrostatica repulsive,
ma utilizzando i polimeri si introduce un nuovo parametro nell’equazione che è >H (quella in figura è
l’equazione che mostra quali siano le forze di interazioni totali fra particelle in una sospensione).
Le interazioni totali avevamo detto essere la somma di attrattive e repulsive, adesso introduciamo il nuovo
parametro >= che rappresenta delle interazioni steriche.
In ascissa nel grafico abbiamo la distanza tra le particelle. Se introduciamo all’interno della fase disperdente dei
polimeri allora questi vanno ad influenzare l’equazione introducendo il parametro sterico >= . Questo è un
parametro che fa sì che le particelle non possono più avvicinarsi tra loro (non raggiungono più il minimo
primario che corrispondeva allo stato di coagulazione), perché i polimeri creano un impedimento sterico,
ovvero impediscono fisicamente alle particelle di avvicinarsi troppo perché si interpongono i polimeri tra le
particelle.

La curva va molto verso l’alto per la presenza di Vs (interazioni di natura sterica)

166
Ad esempio nello schema a sx  vediamo che le sferette rappresentano le particelle. Si utilizzano dei polimeri
che vanno ad interporsi tra particelle e sono dei particolari polimeri che hanno la caratteristica di avere una
parte del polimero che interagisce con la particella e poi c’è una parte centrale che funge da spaziatore.
Ce ne sono di vario tipo, ad esempio ci sono polimeri che hanno una parte idrofila e una lipofila oppure
possono essere dei polimeri carichi oppure possono essere delle catene di poliossietilene (PEG).

Utilizzando polimeri andiamo ad introdurre delle interazioni di tipo sterico tra le particelle ed in questo modo si
ottengono dei sistemi stericamente stabilizzati in quanto le forze di tipo attrattivo non possono essere
massimali (sono massimali quando la distanza tra particelle è molto piccola).

Si possono utilizzare anche i polimeri come agenti flocculanti che agiscono con un meccanismo di
stabilizzazione sterica.

Bagnabilità delle polveri


Introduciamo un nuovo aspetto della formulazione delle sospensioni. Parleremo di un argomento chiamato
wetting of powders, ovvero bagnabilità delle polveri.
Facciamo riferimento al un fenomeno della bagnabilità delle polveri che è molto importante in tantissime
formulazioni presenti nei medicinali. Il fenomeno della bagnabilità non è importante solo per le sospensioni,
ma anche per le soluzioni e per formulazioni solide come le compresse. Come mai? Ad esempio, anche nel caso
delle soluzioni, così come abbiamo visto per le sospensioni, a volte per alcuni medicinali si preparano in
maniera estemporanea, un classico caso sono i medicinali confezionati in bustine che devono essere
trasformate in soluzione al momento dell’uso oppure nel caso in cui dobbiamo preparare delle sospensioni
oppure quando le compresse vengono deglutite e si trovano all’interno dello stomaco.

In tutti questi casi (sia quando dobbiamo preparare una soluzione in modo estemporaneo, sia quando
dobbiamo preparare una sospensione in modo estemporaneo, sia quando assumiamo una compressa), è
importante considerare la bagnabilità delle polveri. La bagnabilità delle polveri è un parametro che è correlato
con il contatto che avviene tra una polvere (o una compressa, in generale una superficie solida) e un liquido.

È importante sia durante la preparazione estemporanea di soluzioni o sospensioni, ma è anche molto


importante perché determina la biodisponibilità dei medicinali formulati come compresse.

167
LEZIONE 28 (24/11/2021)
Abbiamo iniziato ad introdurre la bagnabilità dei solidi: un aspetto fondamentale per le formulazioni
farmaceutiche, in particolare per soluzioni e sospensioni che si devono produrre in modo estemporaneo, cioè
che devono essere prearate appena prima dell’uso.
La bagnabilità dei solidi è importante anche per tutte le formulazioni solide (oltre che per soluzioni e
sospensioni), come compresse, capsule e granulati.

La bagnabilità è un aspetto che ha una notevole importanza in particolare per le sospensioni, dal momento che
nelle sospensioni le particelle di polvere presenti all’interno del liquido (che è l’acqua= fase disperdente)
hanno delle caratteristiche chimiche che le rendono dissimili dall’acqua. Questa dissimilitudine chimica è tipica
delle sospensioni e dipende dalla struttura chimica del composto, cioè del principio attivo. Il principio attivo è
ovviamente caratterizzato da bassa solubilità in acqua, motivo per cui forma delle sospensioni.
Questo elevato grado di dissimilitudine chimica tra particelle di polvere e acqua fa sì che le particelle di polvere
abbiano una bassa dispersibilità in acqua. In particolare, le polveri aventi elevata dissimilitudine chimica
dall’acqua, quando risultano poco bagnabili, danno origine a un fenomeno: quando vengono a contatto con
l’acqua non formano una dispersione omogenea, ma tendono (soprattutto nelle prime fasi del processo di
miscelazione) a rimanere sulla superficie, quindi a disperdersi poco aspetto negativo perché dà origine a
sospensioni NON omogenee.

Cos’è la bagnabilità? Come può essere misurata?


La bagnabilità è una grandezza che dà delle indicazioni sulla affinità chimica tra un liquido e un solido: è, cioè,
un altro parametro correlato a similitudine o dissimilitudine chimica tra liquido e solido. Questo tipo di
interazione liquido-solido è possibile misurarlo valutando come una goccia di liquido si disponga su una
superficie solida. Questo vuol dire che, a seconda della forma assunta da una goccia di liquido quando questa si
appoggia su una superficie solida, possiamo capire se tra solido e liquido ci sia dissimilitudine o similitudine
chimica.

168
Nella immagine in alto a destra sono rappresentate delle situazioni limite (mai raggiungibili nella realtà):
- Nella immagine all’estrema dx è raffigurata una goccia di liquido appoggiata su una superficie solida. La
goccia di liquido rappresenta la fase disperdente e il solido la fase dispersa. Quando liquido e solido
hanno il minimo della similitudine chimica, la goccia di liquido che si deposita sul solido tenderà ad
assumere una forma perfettamente sferica. Questo implica che l’area interfacciale tra la goccia e il
solido sarà minima. Si tratta cioè del fenomeno di ‘’no wetting’’ (zero bagnabilità), ovvero situazione
con la minor interazione chimica liquido-solido.

- La raffigurazione accanto, invece, rappresenta una goccia di liquido che, se depositata su un solido,
forma un film continuo. In questo caso si raggiunge il massimo di interazioni tra liquido e solido,
dunque l’area interfacciale sarà massima.

Queste 2 situazioni possono essere rappresentate tramite un valore: ‘’teta’’, che misura il grado di similitudine
o dissimilitudine chimica. Il valore ‘’teta’’ è il valore dell’angolo che può avere un valore di:

- 0 gradi nella situazione di massima interazione liquido-solido;


- 180 gradi nella situazione di minima interazione liquido-solido.

tangente

 schematizzazione della goccia di


liquido depositata sul solido. Tutto attorno c’è aria.

Come si può descrivere geometricamente la forma delle gocce?


Si va a calcolare la tangente a un particolare punto della curva formata dal liquido deposto sul solido. La
tangente sarà sempre diversa in base alla forma della goccia: in altre parole, la tangente, nel punto di contatto
tra liquido-solido-aria, avrà un angolo sempre diverso (‘’teta’’), in base alla forma della goccia di liquido.

Questo angolo quindi ci permette di descrivere la forma della goccia:


- Quando l’angolo ha un valore basso (cioè si avvicina allo 0), significa che liquido e solido hanno una
elevata affinità;
- Quando l’angolo ha un valore che aumenta, significa invece che liquido e solido hanno scarsa affinità,
poiché tendono ad interagire di meno.

Questo angolo, formato da tangente alla curva e superficie del solido, si chiama ‘’angolo di contatto’’. È quindi
un valore che è correlato alla bagnabilità del liquido sul solido. Questo tipo di angolo di contatto è stato
studiato da un fisico che ha poi sviluppato la EQUAZIONE DI YOUNG, utile per capire da cosa sia influenzato il
valore dell’angolo di contatto.

Dal momento che la bagnabilità dipende da similitudine/ dissimilitudine chimica tra liquido e solido, l’angolo di
contatto dipenderà dalle tensioni superficiali.

169
Differenza tensione superficiale e interfacciale:

 Tensione superficiale quando nel sistema disperso c’è una fase che è un gas;
 Tensione interfacciale nel sistema disperso ci sono solo fasi liquide o solide, non ci
sono gas.

L’EQUAZIONE DI YOUNG:

 Gamma S/A rappresenta la tensione superficiale tra solido e aria (detta anche solo ‘’tensione
superficiale del solido’’, dando per scontato che la seconda fase è aria).
 Gamma S/L rappresenta la tensione INTERFACCIALE solido/liquido.
 Gamma L/A rappresenta la tensione superficiale liquido/aria.
 Cos teta è il coseno dell’angolo di contatto.

Il coseno dell’angolo di contatto quindi sarà uguale a tensione superficiale solido – tensione interfacciale
solido/liquido diviso la tensione superficiale del liquido.

Il valore della tensione interfacciale solido/liquido e la tensione superficiale del solido POSSONO ESSERE
MODIFICATI, cioè possono essere ridotti. Questo lo vedremo in seguito.

Premessa: è preferibile avere una polvere che, rispetto al liquido, ha un valore di angolo di contatto basso.
Questo perché avere un valore basso dell’angolo di contatto implica una migliore bagnabilità del solido, che
dunque avrà una buona dispersibilità. Nella realtà però è difficile avere una polvere che abbiamo una ottima
bagnabilità, cioè che abbia un valore dell’angolo contatto basso, dal momento che, parlando di sospensioni,
fase dispersa e disperdente non saranno mai troppo simili tra loro (altrimenti si parlerebbe di soluzioni).

Dunque, dal momento che è preferibile maneggiare una polvere avente un angolo di contatto basso,
guardando la formula da un punto di vista matematico, sapendo che il cos di un angolo di 0 gradi è pari a 1, noi
vogliamo che il cos teta sia il più vicino possibile a 1, cioè un valore molto basso.
Dunque, affinchè il coseno di teta sia il piu vicino possibile a 1, numeratore e denominatore (a destra
dell’equazione) devono essere simili. Dunque, andando a modificare i parametri gamma S/L e gamma L/A
nell’equazione si può modificare l’angolo di contatto (invece, il valore gamma S/A è la tensione superficiale del
solido e rappresenta una caratteristica intrinseca del farmaco, quindi non modificabile).

Dunque, un eccipiente ‘’bagnante’’ è un eccipienge in grado di modificare la tensione interfacciale


solido/liquido e la tensione superficiale del liquido, influenzando la bagnabilità.

 tabella dei valori di


angoli di contatto di alcune molecole di principi attivi e di eccipienti.
170
L’angolo di contatto dipende da similitudine e dissimilitudine chimica, che a loro volta dipendono dalla natura
chimica della molecola:

- Ad esempio, il lattosio è un eccipiente molto utilizzato ad esempio nella produzione delle compresse. Ci
aspetteremo quindi che il lattosio abbia un valore basso angolo di contatto, cioè una alta affinità con
l’acqua, in quanto presenta gruppi ossidrilici –OH (cioè è polare). Il lattosio ha un angolo di contatto di
soli 30°.
- Lo stearato di magnesio (sale dell’acido stearico) invece è un acido carbossilico grasso, in quanto
presenta lunghe catene idrocarburiche, quindi è apolare, dunque ha bassa affinità per l’acqua. Di
conseguenza il suo angolo di contatto sarà elevato: 121°.

Non esiste una linea di demarcazione netta tra valori di angoli di contatto elevati o bassi, però in linea di
massima possiamo dire che:

- Per valori di angoli di contatto inferiori o uguali a 30°  sostanze molto bagnabili.
- Invece per valori di angoli di contatto superiori ai 40° sostanze poco bagnabili.

La bagnabilità dipende dalla struttura chimica della molecola in questione: sostanze più lipofile avranno un
valore elevato dell’angolo di contatto, sostanze più idrofile avranno un valore basso dell’angolo di contatto.

La bagnabilità può essere misurata tramite diversi strumenti, uno dei quali è quello rappresentato in figura:
l’analizzatore della forma della goccia o drop shape analyzer. Questo strumento trasforma una immagine
fotografica della goccia in una immagine utilizzata per determinare la tangente, da cui si determina poi il valore
dell’angolo di contatto. È un sistema automatizzato formato da:

1. Una pipetta di vetro che serve a depositare la goccia su un ‘’tavolino’’, su cui è disposta la superficie
solida di cui dobbiamo determinare la bagnabilità.
2. C’è poi l’obiettivo di un microscopio collegato a una fotocamera digitale che riprende l’immagine della
goccia depositata sulla superficie.
3. C’è poi un analizzatore di immagine, che analizza la forma della goccia e determina l’angolo di
contatto.

171
Modificando la composizione del liquido, si modifica la bagnabilità, in quanto la composizione del liquido è
quella che determina la bagnabilità. L’angolo di contatto può essere modificato ad esempio aggiungendo agenti
bagnanti al liquido utilizzato in analisi.

GLI AGENTI BAGNANTI (‘’wetting agents’’)


Si tratta di sostanze aventi la funzione di modificare i rapporti tra liquido e solido. In particolare questo
agiscono su tensione interfacciale L/S e tensione superficiale del liquido.

Gli agenti bagnanti sono suddivisi in 3 tipologie:

 Surfattanti, o tensioattivi (termini tra loro sinonimi). In particolare, i surfattanti in questione devono
essere caratterizzati da un certo valore di HLB compreso tra 7 e 9. Di questi surfattanti sono sufficienti
piccole concentrazioni nella fase disperdente.

 Polimeri idrofili (come le gomme vegetali) o particelle colloidali (cioè piccole particelle solide, dalle
dimensioni nanometriche).

 Liquidi idrofili, cioè miscibili con acqua. Questi modificano la struttura della fase disperdente: in
particolare questi, pur essendo idrofili, contengono una piccola componente apolare che tende a
ridurre un po’ l’idrofilia della fase disperdente. Quindi aumentano un po’ l’affinità liquido-solido.

Questa tabella indica in generale quali sono e qual è la funzione di alcuni eccipienti che si usano nella
formulazione delle sospensioni:

172
 Agenti bagnanti, che servono a facilitare la dispersione del solido.

 Agenti flocculanti, che servono a trasformare una sospensione deflocculata in una flocculata.

 Modificatori della densità, o addensanti la densità viene modificata quando si vuole modificare la
velocità di sedimentazione (secondo la legge di Stokes).

 Viscosizzanti (sempre tenendo conto della legge di Stokes)

 Tamponi o regolatori di ph servono a regolare il ph della fase disperdente. Uno dei motivi principali
dell’uso dei tamponi è quello di risolvere i problemi di instabilità di alcuni principi attivi. I regolatori di
ph sono in gran parte elettroliti (ex: tampone fosfato), quindi possono avere effetti come agenti
flocculanti, modificando il grado di flocculazione.
 Agenti osmoticizzanti si tratta di sostanze (in gran parte elettroliti, come NaCl) utilizzate per regolare
pressione osmotica e tonicità del liquido, in modo da renderlo isotonico con il plasma. Sono usati
soprattutto in formulazioni per uso parenterale.

 Agenti coloranti, edulcoranti e aromatizzanti, per migliorare le caratteristiche organolettiche di


medicinali per uso orale.

 Conservanti: per mantenere la formulazione entro determinati livelli di crescita microbica. Sono
utilizzati nelle formulazioni multi-dose.

Analizziamo ora la composizione di una sospensione: Nureflex è una sospensione orale al 2% (contiene cioè il
2% di principio attivo) per uso pediatrico.
Il foglietto illustrativo dice:
- che ogni mL di sospensione orale contiene 20 mg di principio attivo, che è l’ibuprofene (è un FANS).
- che il contenitore è un flacone dal colore ambrato e in materiale plastico, cioè in PET. Il tappo e il
sottotappo della confezione primaria hanno una chiusura a prova di bambino. Bisogna in questi casi
applicare una pressione e girare il tappo contemporaneamente. Nella confezione secondaria (cioè il
cartone) è presente anche un dosatore, solitamente una siringa.
- che il medicinale ha gusto alla fragola, ottenuto tramite utilizzo di aromatizzanti, al fine di migliorare le
caratteristiche organolettiche del medicinale.
- che gli eccipienti utilizzati sono il polisorbato 80, un tensioattivo; la glicerina, un addensante; lo
sciroppo di maltitolo; la saccarina sodica, dolcificante ecc.

173
LEZIONE 29 (25/11/2021)
Parliamo di tensioattivi (surfactanti)
Terminologia la classe di composti di cui ci parla vengono denominati con diversi termini che sono tutti
sinonimi, l’unica differenza è quella che fa riferimento un po' al campo dell’utilizzo. Alcuni li chiamano più
frequentemente utilizzando un termine altri:
 Surfactanti
 Tensioattivi
 Detergenti
 Molecola anfifile
 Surface active agents

Gli piace il termine surfactante perché ci ricorda una delle loro funzioni, cioè sono composti attivi sulle superfici
e sulle interfasi.

Per dimostraci che questa categoria di composti organici sono così importanti facciamo riferimento a delle
indicazioni di mercato, indicazioni economiche. In alto vediamo che il mercato globale derivante dalla
produzione e commercializzazione di questi composti è stato nel 2020 di 31 miliardi di dollari e le previsioni
sono che il mercato dei tensioattivi è in continua espansione.

Come vediamo a dx e a sx sono indicati alcuni dei loro utilizzi. In particolare a sx sono indicati gli utilizzi dei
tensioattivi nel campo farmaceutico (come emulsionanti, per la bagnabilità), mentre nella colonna di dx
troviamo altri utilizzi molto importanti (detergenti per la pulizia industriale e domestica, prodotti che vengono
classificati nell’igiene personale, il campo alimentare, uso dei tensioattivi correlata all’estrazione dei gas
naturali, del petrolio, per la produzione e post-produzione degli indumenti, si utilizzano anche per la
produzione di polimeri in emulsione).

174
Rappresentazione pittorica della struttura generale dei tensioattivi
I tensioattivi sono molecole organiche che possono essere a basso perso molecolare oppure di tipo polimerico
(alto peso molecolare). Quelli più usati sono quelli a basso peso molecolare. Le proprietà, l’uso e le
caratteristiche dei tensioattivi sono legati alla particolare architettura molecolare, cioè alla loro struttura
molecolare.
Queste molecole vengono chiamate anche molecole anfifile e questo indica il fatto che queste molecole hanno
almeno due porzioni che si contraddistinguono per il fatto che almeno una di queste porzioni ha caratteristiche
polari (idrofila) e almeno una delle porzioni ha caratteristiche lipofile. Hanno una caratteristica duale, hanno
una doppia identità da un punto di vista molecolare.

Le due parti della molecola sono covalentemente legate tra loro, quindi l’intera molecola ha queste
caratteristiche. Per questo motivo i tensioattivi vengono rappresentati con una rappresentazione pittorica che
fa riferimento alla struttura tridimensionale di questi composti.
Le porzioni polari sono rappresentate in azzurro, mentre le porzioni in giallo rappresentano le porzioni apolari.

A seconda dell’organizzazione strutturale, allora possono essere classificati in base ad un criterio di


classificazione che fa riferimento alla disposizione delle parti polari e apolari.

A. TENSIOATTIVO CLASSICO  Troviamo l’esempio più classico di rappresentazione di una molecola di


tensioattivo. Riflette la struttura molecolare che è più frequentemente ritrovabile nelle molecole di
tensioattivo. Sono caratterizzate da due parti e quella polare è in genere rappresentata con una sfera,
perché la parte della molecola che ha queste caratteristiche ha una struttura più ridotta e compatta.
Questa parte compatta della molecola viene spesso chiamata come testa polare (testa idrofila). La
parte lipofila è rappresentata da una linea che simboleggia una porzione generalmente lineare che in
genere è costituita da lunghe catene idrocarburiche.
(La catena idrocarburica la potremmo chiamare come una porzione costituita da tante unità
metileniche. L’ultimo C della catena sarà un gruppo metilico)
La lunga catena idrocarburica si chiamerà coda idrofobica.
Questa è la struttura del tensioattivo classico

B. TENSIOATTIVI ZWITTERIONICI Rappresentazione che ci dice che alcuni tensioattivi possono avere
più teste polari, quindi la porzione idrofila diventa “più importante” e spesso questi tensioattivi che
hanno queste due teste polari hanno la caratteristica di poter aver una diversa carica elettrica. Le teste
polari sono spesso cariche, costituite da gruppi funzionali che assumono una carica elettrica.

C. TENSIOATTIVI CON DOPPIA CATENA  Possono essere presenti dei tensioattivi con doppia catena
idrocarburica (doppia coda idrofobica). Quelli alla lettera B avranno una predominanza di carattere
idrofilo, quelli C avranno una predominanza del carattere idrofobico apolare

175
D. TENSIOATTIVI BOLA ANFIFILICI  Non sono molto utilizzati in farmaceutica. Sono delle strutture in cui
abbiamo due teste idrofile che sono collegate da una coda lipofila. Questi tensioattivi si chiamano bola-
anfifilici perché la loro struttura molecolare è costituta da due teste polari agli estremi di una catena
idrocarburica. Questo tipo di tensioattivi si è scoperto essere presente in alcuni organismi, in
particolare nelle membrane di alcuni organismi che si chiamano organismi estremofili, ossia organismi
che vivono in condizioni estreme (termophilus acquaticus). Siccome la PCR prevede l’uso di elevate
temperature si utilizza la DNA pol che è estratta da questo microorganismo che vive nelle acque
termali, quindi è stabile anche ad elevate temperature.

E. ed F.  Sono tensioattivi del primo tipo A che attraverso delle reazioni chimiche (legami covalenti)
vengono a formare una serie di tensioattivi. Se si legano due molecole si formano i gemini-surfactanti.
Se leghiamo tre molecole si avranno i trimeric.

G. Se il processo di cross-linking di molecole anfifile procede allora ad un certo punto arriviamo a formare
prima dei composti chiamati oligomerici (poche unità) e poi si forma la famiglia di molecole ad alto
peso molecolare che sono i tensioattivi polimerici

I tensioattivi polimerici si suddividono in 2 sotocategorie:


1. sono quelli di cui abbiamo parlato che derivano dal cross-linking di tensioattivi classici
2. tensioattivi polimerici a blocchi

H. TENSIOATTIVI DI/TRI-BLOCK COPOLYMER le unità che formano il polimero si chiamano monomeri. I


monomeri sono organizzati in un modo particolare chiamato a blocchi. Significa che questi polimeri
non sono costituiti da un solo tipo di monomeri ma sono costituiti da due tipi che avranno
caratteristiche polari e altri apolari. Quelli a blocchi sono costituiti da monomeri diversi. Questi
monomeri non si trovano casualmente nella catena del polimero, se la loro distribuzione fosse casuale
allora si chiamerebbero co-polimeri random (polimeri diversi e disposti in maniera casuale).
In questo caso invece, i due monomeri si presentano in blocchi. Questi polimeri possono essere
costituti da due blocchi (di-block co-polimer), quelli sotto si chiameranno tri-block-co-polimer
(costituiti da 3 blocchi).

Anche le proteine sono dei polimeri (co-polimeri), perché formate da aminoacidi, anche le proteine
sono formate da “blocchi” che chiamiamo domini. Le proteine di trans-membrana assomigliano ai
surfactanti, perché hanno una parte che sta nel citosol, una parte che sta trans e una parte che sta
verso l’esterno. Quindi sono proteine che hanno la caratteristica di avere blocchi lipofili e idrofili.

Le porzioni sia idrofile che lipofile dei co-polimeri a blocchi sono dimensionalmente più piccole delle catene
idrocarburiche che abbiamo visto nei classici (A), sono monomeri molto piccoli e abbastanza compatti.
Proprietà dei surfactanti (surface act agent)
I surfactanti sono agenti che sono attivi sulle superfici e sulle interfasi, questa è la proprietà che li rende
particolarmente interessanti.
Lo schema a sx ci fa vedere che se aggiungiamo delle molecole di tensioattivo all’acqua allora quale sarà la
localizzazione di queste molecole? Si solubilizzeranno nell’acqua bulk come succede per il cloruro sodico? O
avranno una diversa localizzazione? In virtù della loro peculiare struttura molecolare, allora le molecole di
tensioattivo tenderanno spontaneamente (termodinamicamente) ad adsorbirsi a livello delle superfici o delle
interfasi (air-water surface) e ne modificheranno le proprietà.

176
Quando delle molecole o degli ioni o altri elementi si accumulano sulle superfici o alle interfasi e si
accumulano solo in maniera superficiale o interfacciale allora questo fenomeno deve essere descritto con il
termine adsorbimento. Significa che è un processo di accumulo alle superficie o interfasi, è un fenomeno
superficiale o interfacciali.

Se invece abbiamo una diffusione all’interno, nella zona bulk delle due fasi allora parleremo di
assorbimento (absorbimento). Implica quindi anche una diffusione.

Quando non sia possibile definire in maniera chiara un fenomeno di absorbimento o adsorbimento si usa il
termine sorption. Gli inglesi usano anche il termine che descrive il processo opposto, ossia l’allontanamento
della superficie o interfase che è disassorbimento, deassorbimento.

Nel caso dei tensioattivi useremo sempre il termine adsorbimento.

Il fenomeno dell’adsorbimento è tanto più intenso tanto più le interfasi hanno una forte dissimilitudine
chimica. Ad esempio, immagine a sx superficie aria-acqua. L’aria rappresenta un fluido polare o apolare? È
apolare lipofilo e questo spiega tanti fenomeni. Le gocce in aria assumono una forma sferica perché l’aria è
apolare e quindi le molecole d’acqua tendono ad avere una forma che assicura una minor area superficiale.
L’aria è un mezzo apolare lipofilo. Le code idrofobiche si dispongono nell’aria. Abbiamo uno strong absortion

Olio-aria olio e aria sono apolari. La differenza di polarità è minore e quindi abbiamo un basso livello di
adsorbimento. La forza che guida al fenomeno dell’adsorbimento è minore

Olio-acqua abbiamo una interface. Avremo una grande dissimilitudine chimica e quindi un forte
adsorbimento.

In qualche formulazione che abbiamo in parte trattato si potrà trovare un’interfase acqua-olio? Questo tipo di
sistema si chiamerà emulsione. Le emulsioni sono un sistema disperso in cui la fase dispersa è un liquido e la
fase disperdente pure, per formare due fasi queste devono avere una dissimilitudine chimica.
Le molecole dei tensioattivi oltre ad avere questo effetto di andarsi ad accumulare al livello delle superfici,
possiedono un’altra proprietà. Ovvero tendono a formare delle particolari strutture che si chiamano strutture
sovramolecolari o supramolecolari. Sono strutture costituite da tante unità di tensioattivo che tra loro non
sono legate con legami covalenti, ma sono dovute ad interazioni intermolecolari deboli (van der Waals e legami
H). Con il termine di struttura sovramolecolare si indicano, ad esempio, le membrane cellule. Nelle membrane
cellulari le unità non sono covalentemente legate fra loro.

177
 Quando si parla di chimica sovramolecolare le singole unità di tensioattivo che formano la struttura
vengono definite con il termine di unimeri che si contrappone al termine di monomeri (legati
covalentemente nei polimeri).

 Gli eventi che portano alla formazione delle strutture sovramolecolari sono definiti con il termine
aggregazione. Le membrane biologiche sono degli aggregati sovramolecolari. Gli aggregati
sovramolecolari possono essere formati da molecole di tensioattivo, ma spesso sono più complessi.
Nelle membrane biologiche si trovano molecole di tensioattivo e si trovano anche proteine che
possono avere struttura e funzione diversa (possono essere recettori, canali). La cosa interessante è
che queste strutture sovramolecolari vengono guidate nella loro formazione da “istruzioni” che sono
auto presenti nella struttura molecolare degli unimeri e delle molecole di proteine che formano questi
complessi sovramolecolari ed è la struttura chimica che detta la forma e le proprietà finali
dell’aggregato sovramolecolare.

Molto importante è che siccome questi aggregati sono formati da interazioni deboli e ciò significa che sono
strutture dinamiche, vuol dire che gli unimeri di tensioattivo sono sempre in movimento ed in equilibrio con la
forma unimerica del tensioattivo.

Facciamo riferimento a strutture sovramolecolari formate da soli tensioattivi, non consideriamo l’eventuale
presenza di altre strutture come proteine, polisaccaridi e altre sostanze I tensioattivi possono formare
strutture sovramolecolari diverse che sono state chiamate in modi diversi. Sono diverse in forma e in
dimensione.
Tutti i tensioattivi possono formare tutte le varie strutture sovramolecolari? La forma e la struttura
dell’aggregato sovramolecolare dipendono dalle istruzioni molecolari della singola molecola che forma la
struttura più complessa, quindi la risposta è NO le varie strutture sovramolecolari dipenderanno dalla
struttura del singolo unimero (struttura del tensioattivo) e dall’ambiente (dalle condizioni di formazione
pressione, temperatura, concentrazione, fase disperdente in cui si formano questi aggregati, dal tipo di
tensioattivo)

Nella parte sx c’è una rappresentazione bidimensionale (sezioni longitudinali), nella parte a dx abbiamo una
rappresentazione prospettica che ci dà un’idea della tridimensionalità degli oggetti:

A. Le strutture sovramolecolari che più facilmente si incontrano sono queste. Ricordiamo che se
aggiungiamo i tensioattivi all’acqua allora questi spontaneamente vanno ad adsorbirsi (formano una
superficie). Quando accade questo fenomeno si forma già una struttura sovramolecolare che si
chiamano mono-layer (monostrato). Il mono-layer può avere un’enorme estensione superficiale, ma lo
spessore del mono-layer è molto piccolo (pochi nanometri) in quanto lo spessore è dato dalla molecola
di tensioattivo. Quindi area superficiale molto grande e spessore di pochi nanometri (come avviene con
le strutture del grafene)

178
B. Quando la struttura sovramolecolare è formata da due strati di molecole di tensioattivo allora abbiamo
il bilayer (come nelle strutture della membrana cellulare).

LEZIONE 30 (30/11/2021)
Nella parte finale della lezione precedente abbiamo parlato di come le molecole di surfactante possono
spontaneamente formare delle strutture che vengono definite come aggregati sovramolecolari o
supramolecolari. Queste strutture sono formate in seguito ad interazioni intermolecolari deboli tra le singole
molecole di tensioattivo (unimeri).

Le diverse forme di aggregazione sovramolecolare dipendono dalla struttura molecolare del tensioattivo, dalla
sua concentrazione e dall’ambiente in cui queste strutture sovramolecolari si formano.

Le più importanti forme di aggregazioni sovramolecolare dei tensioattivi sono:


A. Mono-strato o mono-layer si chiama così perché è formato da un singolo strato di molecole di
tensioattivo. Nei mono-layer tutte le molecole di tensioattivo assumono una medesima orientazione,
significa che tutte le teste polari sono rivolte da un lato del mono-layer e tutte le code idrofobiche sono
rivolte nella direzione opposta rispetto alle teste.

B. Bi-layer Abbiamo un doppio strato di molecole di tensioattivo. Anche in questo caso abbiamo un
effetto di polarizzazione, cioè abbiamo un orientamento specifico delle molecole di tensioattivo. Infatti
le teste polari si trovano nelle porzioni esterne, mentre le catene idrofobiche si trovano all’interno del
doppio strato (tipica orientazione dei doppi strati fosfolipidici che formano le membrane cellulari).

In particolari condizioni, come in situazioni in cui la fase disperdente non è l’acqua, ma è un liquido
apolare idrofobico allora l’orientamento delle molecole di tensioattivo può essere esattamente
l’opposto (le catene idrocarburiche sono rivolte verso l’esterno e le teste polari sono rivolte verso
l’interno)

C. Le strutture bi-layer quando si va ad aumentare la concentrazione del tensioattivo possono formare


delle strutture più complesse. Queste strutture prendono il nome di fasi lamellari che sono delle
strutture a bi-layer sovrapposte le une sopra le altre.

D. Una delle più note e studiate strutture sovramolecolari formate dai tensioattivi è definita come micella.
In genere si chiamano solo “micelle”, ma in alcuni settori e per alcuni tipi di studi vengono definite
“micelle sferiche”. Se troviamo solo il termine “micella” sta già ad indicare che si tratta di una micella
sferica.
Le micelle sono delle strutture sferiche con una particolare orientazione delle molecole di tensioattivo
che presentano le teste idrofile all’esterno e le catene idrofobiche rivolte verso l’interno. Questo tipo di
struttura micellare, oltre che essere definita come “micella sferica”, in alcuni contesti viene definita
179
anche “micella diretta”.

Perché si parla di micella sferica? Perché così come abbiamo visto che all’aumentare della
concentrazione di tensioattivo si può passare dalla struttura bi-layer alle strutture lamellari,
analogamente se ci troviamo ad analizzare il comportamento di un tensioattivo che forma micelle
sferiche dirette allora aumentando la concentrazione del tensioattivo questo tipo di struttura evolve
da micella sferica a micella cilindrica (assume la forma di un cilindro).
Se consideriamo una sfera e consideriamo di far accrescere la sfera in una singola direzione allora
questa sfera evolverà in un cilindro.

E. Un ulteriore aumento della concentrazione di tensioattivo può (in alcuni casi e per alcuni tensioattivi)
evolvere in strutture ancora più complesse dove le singole micelle cilindriche si possono aggregare
formando delle strutture chiamate fasi esagonali. Si chiamano così perché unendo i centri delle
strutture cilindriche si ottiene un esagono. Si ottiene dall’aggregazione di micelle cilindriche.

F. Vengono definite come vescicola o liposoma (sinonimi). Sono strutture di forma sferica, ma invece di
avere un singolo layer di tensioattivo abbiamo un bi-layer. Quindi sono strutture che derivano dal
ripiegamento delle strutture bi-layer. I bi-layer sono strutture planari e quando queste si ripiegano
possono richiudersi su se stessi e formare una struttura sferica.

C’è una grossa differenza tra la struttura micellare e quella vescicolare


1. I liposomi sono delle strutture costituite da un bi-layer, mentre la micella è costituita da un
mono-strato.
2. Nella vescicola abbiamo una fase acqua sia all’interno (nella cavità interna della vescicola) che
all’esterno della vescicola. Così come troviamo acqua dentro e acqua fuori nelle vescicole che si
trovano normalmente nelle strutture biologiche (come le membrane).
Mentre nella micella la fase acquosa è solamente all’esterno e la porzione interna è costituita
dalle code apolari.
3. In genere, per quanto riguarda le dimensioni le vescicole sono più grandi rispetto alle micelle.
Le vescicole sono circa 10 volte più grandi delle strutture micellari.

G. Alcuni tensioattivi quando si trovano non più dispersi in acqua, ma dispersi in un solvente apolare
lipofilo, possono generare delle micelle e l’orientamento delle molecole di tensioattivo è opposto
rispetto a quello che avevamo nelle micelle dirette. Nelle micelle dirette le teste polari sono all’esterno
e le code idrocarburiche sono all’interno, mentre in queste micelle inverse (micelle invertite) si inverte
la polarizzazione delle molecole di tensioattivo, quindi le teste idrofile sono rivolte all’interno della
struttura micellare e le catene idrocarburiche sono rivolte verso l’esterno.

180
Perché si studiano queste strutture sovramolecolari? Tutto ciò che ha spiegato ha una notevole
implicazione pratica. Consideriamo un esempio osserviamo la struttura vescicolare (F), la parte interna della
struttura può contenere delle molecole e proprio in questo spazio potremmo solubilizzare delle sostanze
idrofile. Quindi questa struttura liposomiale funziona da trasportatore, allo scopo di preservare delle molecole
dalla degradazione oppure per farle arrivare in un sito particolare (trasportatori di farmaci). Oppure si usano
per usi di base, infatti ad esempio lo studio della chimica sovramolecolare ci permette di studiare le membrane
biologiche.

Meccanismo che porta alla formazione delle strutture sovramolecolari


Le strutture sovramolecolari si formano in modo spontaneo. Perché? Per capire il meccanismo che porta alla
formazione di strutture sovramolecolari prendiamo in esame la formazione di due di queste strutture in acqua
(mezzo), ossia la struttura mono-layer e la struttura micellare.

Abbiamo detto che le varie strutture sovramolecolari si formano in dipendenza del tipo di tensioattivo, della
sua concentrazione e del mezzo in cui si formano queste strutture.

I mono-layer si formano perché la struttura molecolare del tensioattivo ed in particolare il fatto che sia
costituito da una porzione idrofila e una lipofila, fa sì che spontaneamente le molecole di tensioattivo di
adssorbano alla superfice (acqua-aria). Questo avviene perché in questo modo le due componenti della
molecola di tensioattivo trovano l’ambiente ottimale per la loro solubilizzazione. La solubilizzazione avviene
perché si formano delle interazioni intermolecolari. Le teste sono immerse (solubilizzate) nell’acqua e le code
sono immerse solubilizzate nell’aria, quindi i mono-layer si formano in considerazione del fatto che le varie
componenti delle molecole di tensioattivo trovano l’ambiente ideale per la loro solubilizzazione. In altri termini
vuol dire che trovano l’ambiente in cui possono massimizzare (rendere massime) le interazioni intermolecolari.

 Se ad un sistema contenete acqua e tensioattivo aggiungiamo altre molecole di tensioattivo cosa


accade (quando l’intera superfice è satura di molecole di tensioattivo)? Succede che si instaura un
equilibrio. Quando aumenti la concentrazione una certa quantità di molecole di tensioattivo
inizieranno a solubilizzarsi anche all’interno dell’acqua bulk. Queste molecole di tensioattivo
solubilizzate nell’acqua bulk si chiamano unimeri (molecole in forma unimerica).

 Se aumentiamo ulteriormente la concentrazione di tensioattivo si instaura un altro equilibrio chimico.


Ovvero le molecole di tensioattivo in forma unimerica danno origine ad una struttura micellare.

Le strutture sovramolecolari sono delle strutture dinamiche. Ciò significa che tutte le strutture sovramolecolari
sono sempre in equilibrio con le forme unimeriche ed aggregati sovramolecolari diversi sono in equilibrio tra
loro. Quindi abbiamo un equilibrio tra la forma mono-layer e gli unimeri ed un equilibrio tra unimeri e forma
micellare.
Vi è un continuo scambio di materiale. Anche tra micella e micella abbiamo uno scambio di materiale, sempre
passando attraverso la forma unimerica che è solubilizzata in acqua.

Le molecole di tensioattivo aggregate nella struttura mono-layer sono in equilibrio chimico con le molecole
unimeriche solubilizzate nell’acqua bulk che sono a loro volta in equilibrio con la struttura micellare.

181
Perché si formano le micelle? Perché le molecole non restano nella forma unimerica?
Qual è il motivo per cui si osserva il processo di micellizazione?
Forza trainante per la formazione delle micelle:
quando si vuole studiare un particolare fenomeno i chimico-fisici analizzano i motivi che hanno portato a
questo fenomeno e quali sono i motivi che lo avrebbero eventualmente contrastato. Facciamo quindi un’analisi
dei fattori pro e contro-micellizzazione.

Forze che si oppongono al processo di micellizzazione:


se non si formano le micelle, ci aspettiamo che la situazione predominante sia la presenza di unimeri in
soluzione.

 Gradiente di concentrazione la concentrazione locale di tensioattivo è più alta nella micella rispetto
all’acqua bulk.

Se misceliamo due soluzioni, una a bassa e una ad alta concentrazione, cosa succede alle specie in
soluzione? Ad esempio, prendiamo un becher, versiamo all’interno dell’acido cloridrico 6N e poi
versiamo nello stesso becher un’altra soluzione di acido cloridrico 1M
L’acido cloridrico è un acido forte, quindi in soluzione si trova solo sotto forma di ioni H+ e Cl-. Tra le
due soluzioni non cambiano le molecole, ma cambia la concentrazione. Mediamente si muoveranno
maggiormente le sferette dalla zona a maggior concentrazione alla zona a minor concentrazione.
Questo perché la legge di diffusione di Fich ci dice che il verso del processo diffusivo è sempre da zone
182
ad alta concentrazione verso zone a bassa concentrazione.
La diffusione di Cl- in acqua è molto rapida ed avremo una concentrazione omogenea, perché abbiamo
il processo diffusivo.

Avendo detto che la concentrazione è maggiore nella micella allora seguendo il ragionamento e ciò che
ci dice la legge di Fich dobbiamo aspettarci che l’equilibrio sia spostato verso sx, cioè da alta
concentrazione a bassa concentrazione.
Una forza che si oppone alla formazione della micella è il gradiente di concentrazione.

 Movimenti termini o moti Browniani i moti Browniani sono movimenti casuali (in tutte le direzioni)
dovuti all’agitazione termica delle molecole che costituiscono la fase disperdente. Abbiamo detto che
anche le singole molecole del tensioattivo sono soggette ai moti browniani e in conseguenza del fatto
che sono moti casuali allora ci aspettiamo che le molecole di tensioattivo non rimangano una vicina
all’altra e tendano a non formare micelle. I moti browniani tendono a disperdere gli elementi.

 Repulsione tra le cariche di segno uguale presenti tra le teste ioniche polari Molto spesso i
tensioattivi presentano una carica elettrica sulla testa idrofila (hanno un gruppo funzionale carico).
Facciamo conto che sia carica negativamente (anione) se ciascuna delle teste polari dei tensioattivi
che compongono una micella fosse un anione, cosa succederebbe tra le varie molecole? Ci sarebbe un
effetto di repulsione. Se ci troviamo di fronte a tensioattivi carichi, allora si instaurerà una repulsione di
carica tra le teste polari ioniche. Questo effetto di repulsione favorirà l’equilibrio verso sx (verso la
forma unimerica).

Questi sono 3 aspetti che portano a spostare l’equilibrio verso la forma unimerica. Le forze pro-micellizzazione
devono essere estremamente importanti perché il processo di micellizzazione avviene spontaneamente.

Forze pro-micellizzazione:
 Attrazione intermolecolare tra catene idrocarburiche stiamo parlando della porzione apolare dei
tensioattivi. Le catene (code apolari) sono disegnate una vicina all’altra (guardare la figura “driving
force for micelleformation”).
Queste catene avranno delle interazioni tra loro? Si, hanno la stessa natura chimica e in particolare si
avranno delle interazioni intermolecolari deboli di tipo van der Waals.
Quindi un aspetto che porta alla formazione della micella potrebbe essere il fatto che una volta che si
forma la micella si possono instaurare delle interazioni intermolecolari deboli di tipo Van der Waals
all’interno della micella.

Questo tipo di interazioni che si formano all’interno della micella possono essere sufficienti a controbilanciare
le 3 forze dette prima che si oppongono alla formazione della micella? No, quindi c’è un altro fattore che porta
al fenomeno della pro-micellizzazione

 Effetto idrofobico Molti tendono a pensare che questo effetto idrofobico sia quello appena spiegato,
perché l’effetto idrofobico ci ricorda le catene apolari idrofobiche. In realtà, l’effetto idrofobico non ha
nulla a che vedere con le interazioni di van der Waals che si formano all’interno della micella.

183
Per capire cos’è l’effetto idrofobico facciamo riferimento alla struttura dell’acqua e in particolare
dobbiamo fare riferimento ad una interpretazione della struttura dell’acqua che viene chiamata “the
flickering cluster model”. Il termine “flickering” vuol dire fluttuante, dobbiamo pensare alla fiamma di
una candela (si continua a muovere, ha dei movimenti fluttuanti).
Immaginiamo che la struttura dell’acqua abbia qualcosa a che fare con la transitorietà della fiamma
della candela. L’acqua possiede dei requisiti unici che la distinguono da tutti gli altri liquidi.
Ad esempio, l’acqua ha un peso molecolare di 18 e il metano ha un peso molecolare di 16, il metano è
una molecola apolare (a temperatura ambiente è un gas) e l’acqua è un liquido. Questo dipende dal
fatto che le molecole d’acqua sono strettamente legate le une alle altre con dei legami H. Ogni
molecola d’acqua forma legami H con le molecole d’acqua circostanti.

LEZIONE 31 (01/12/2021)
Nella lezione precedente abbiamo analizzato quali siano gli effetti pro-micellizzazione e anti-micellizzazione. In
particolare, l’effetto idrofobico, abbiamo visto, rappresenta il più importante aspetto che influenza la
formazione di micelle, che sono aggregati sovramolecolari.

Per spiegare cosa sia l’effetto idrofobico abbiamo visto che l’acqua, allo stato liquido, presenta delle particolari
caratteristiche, descritte in un modello chimico-fisico di ‘’flickering cluster model’’. L’acqua è una molecola
altamente polare, in quanto presenta una disomogenea distribuzione elettronica attorno ai nuclei degli atomi
di O e H che la costituiscono, e questo permette a più molecole d’acqua di poter instaurare tra loro legami a H.
La struttura più comune e più studiata dell’acqua è chiamata ‘’1h exagonal ice crystal’’ (o struttura cristallina di
tipo esagonale 1h). In questa struttura le molecole d’acqua si arrangiano in strati formati da strutture esagonali
(è la struttura tipica del ghiaccio). Tuttavia, per T> 0° (cioè quando l’acqua va dallo stato solido a quello liquido),
una parte delle molecole di acqua, anche allo stato liquido, mantiene questo tipo di struttura. Questo fa sì che
l’acqua, anche allo stato liquido, sia di fatto costituita da una parte di singole molecole (come avviene
tipicamente nei liquidi) e da una parte di molecole d’acqua che mantengono questa struttura tipica del
ghiaccio.

184
L’acqua allo stato liquido quindi sarà costituita da nanometrici iceberg di acqua allo stato solido che fluttuano
all’interno di molecole di acqua allo stato liquido. L’acqua allo stato liquido quindi sarà una miscela di
molecole di acqua singole e da molecole di acqua in uno stato simil-cristallino (o ‘’ice-like’’).

Questo modello si chiama ‘’flickering’’ poiché questi gruppi di molecole di acqua che si trovano allo stato simil-
solido (ice-like) all’interno dell’acqua liquida NON SONO STATICI, ma si tratta sempre di strutture dinamiche. Si
osserva cioè una continua formazione e distruzione di legami a H tra le molecole di acqua. Proprio per questa
elevata dinamicità, ogni singolo cluster di molecole d’acqua in stato simil-cristallino ha una durata
temporanea.

Questo tipo di struttura flickering cluster dell’acqua (ovvero la presenza al suo interno di strutture simil-
cristalline) conferisce all’acqua le sue tipiche proprietà (ad esempio il suo Punto di ebollizione, che è molto più
elevato rispetto ad altri liquidi aventi lo stesso PM).

Cosa succede a questa struttura di flickering cluster quando nell’acqua sono introdotte altre molecole, come dei
tensioattivi? Le molecole di tensioattivo perturbano questa struttura a flickering cluster dell’acqua? Sì,
l’aggiunta di tensioattivo modifica la struttura dell’acqua. Vediamo perché:
- L’immagine a sinistra mostra una rappresentazione della struttura esagonale cristallina 1h descritta
prima;
- Quando però nell’acqua sono solubilizzate molecole di tensioattivo, le molecole di acqua perdono la
struttura a flickering cluster, andando a formare un WATER CAGE attorno alla porzione apolare.

Le molecole di acqua che formano questa water cage presentano degli svantaggi a livello energetico
rispetto alle molecole di acqua in assenza di tensioattivo:
 Dal punto di vista entalpico, le molecole di acqua che formano questa water cage non sono in
grado di formare i 4 legami a H tipici della struttura simil-cristallina (quindi la formazione di water
cage implica una perdita di formazione di legami);
 Dal punto di vista entropico, invece, le molecole d’acqua che formano la water cage non hanno la
mobilità che hanno le molecole d’acqua all’interno della struttura a flickering cluster.

185
Formazione di water cages con differenti tipologie di tensioattivi:
 Se ad esempio in acqua sono presenti 3 molecole di tensioattivi in forma unimerica (cioè in unità
singole), allora si formeranno 3 water cages, ognuna attorno alle catene idrocarburiche del singolo
tensioattivo.
 Se i tensioattivi, anziché essere in forma unimerica, sono sotto forma di aggregati, questo implica che
l’area di contatto tra le catene idrocarburiche e le molecole d’acqua diminuisca, quindi, le molecole di
acqua impegnate nel water cage diminuiscono.
 Analogamente, procedendo con l’aggregazione dei tensioattivi, si arriva alla formazione di una
struttura sferica di tipo micellare, in cui tutte le catene idrocarburiche sono all’interno della micella
(non esposte alle molecole di acqua), di conseguenza la formazione del cage diminuisce enormemente.
Quindi, la micellizzazione permette di mantenere le forti interazioni dei legami a H tra le diverse
molecole d’acqua in quanto le molecole di acqua non sono richieste nella formazione di water cages.

CLASSIFICAZIONE DEI TENSIOATTIVI


I tensioattivi, oltre che in base alla disposizione spaziale di porzioni lipofile e idrofile, possono essere classificati
anche in base alla loro natura chimica. Questa classificazione può essere fatta seguendo due criteri:
1- Il primo (il meno adottato) fa riferimento alla natura chimica della porzione idrofobica;
2- Il secondo criterio fa riferimento alla natura chimica della porzione idrofilica.

CLASSIFICAZIONE DEI TENSIOATTIVI IN BASE ALLA NATURA CHIMICA DELLA PORZIONE IDROFOBICA
Seguendo questo criterio di classificazione, i tensioattivi possono essere suddivisi in 3 categorie:
1. I TENSIOATTIVI CON CATENE IDROCARBURICHE si tratta della classe più abbondante. In questo caso i
tensioattivi contengono catene lipofile costituite unicamente da atomi di C e di H.
2. I TENSIOATTIVI FLUOROCARBURICI si tratta di tensioattivi formati da catene lipofile di atomi di F e
atomi di C.
3. I TENSIOATTIVI SILOSSANICI si tratta di tensioattivi contenenti catene lipofile di tipo silossanico,
ovvero formate da atomi di silicio e atomi di O alternati. Siccome il silicio è un atomo che può formare
4 legami covalenti, questo tipo di tensioattivi andrebbero meglio identificati come ‘’tensioattivi dialchil-
silossanici’’.

CLASSIFICAZIONE DEI TENSIOATTIVI IN BASE ALLA NATURA CHIMICA DELLA PORZIONE IDROFILA

Secondo questa classificazione, i tensioattivi sono suddivisibili in 2 sottogruppi:


1. TENSIOATTIVI IONICI contengono una porzione idrofila che presenta un gruppo ionizzato, cioè
carico. I tensioattivi ionici sono poi classificati ulteriormente in tensioattivi anionici (presentano una
carica negativa); cationici (aventi carica positiva); zwitterionici (aventi a livello della porzione idrofila
entrambe le cariche).

186
2. TENSIOATTIVI NON-IONICI questi tensioattivi presentano una porzione idrofila NON ionizzata.

Questi sono classificati in 4 principali sottocategorie:


- Tensioattivi alchil-etossilati (la porzione idrofila è formata da catene di tipo etossilico);
- I derivati del sorbitano;
- I derivati degli zuccheri;
- I copolimeri a blocchi.

‘’ANFIFILO’’= avente sia porzione


idrofila che lipofila.
I tensioattivi ANIONICI
I tensioattivi anionici sono dei Sali organici: come tutti i Sali, sono quindi costituiti da una parte carica
positivamente (cationica) e una carica negativamente (anionica). I tensioattivi anionici sono composti solidi
che, se posti in acqua, si dissociano, liberando un anione anfifilico + un catione (comportamento tipico dei
Sali). In particolare, la parte di questo sale che interessa come tensioattivo è rappresentata dalla porzione
anionica.

Da soli questi tensioattivi rappresentano circa il 50% della produzione mondiale di tensioattivi. Sono usati nella
formulazione di detergenti per igiene intima, personale, domestica, cosmetica, industriale, farmaceutica. Sono
molto usati anche in campo agricolo poiché favoriscono la dispersione dei prodotti fertilizzanti, ad esempio.

1^ tipo di tensioattivi anionici: i SAPONI


Si tratta del tipo di tensioattivo più antico. Il termine SAPONI fa riferimento a una ampia classe di composti: si
tratta dei Sali di acidi alcanoici. Gli acidi alcanoici sono acidi organici in cui la funzionalità acida è rappresentata
dal gruppo carbossilico. (i saponi sono dei Sali tra una porzione anionica organica e una porzione cationica
inorganica)

I saponi sono quindi Sali di acidi alcanoici aventi una lunga catena idrocarburica che, in genere, è lineare e
satura, cioè priva di doppi legami (ma non sempre). Nella famiglia dei saponi, infatti, ne possiamo distinguere
diverse tipologie sulla base della lunghezza della catena idrocarburica, in base alla presenza di insaturazioni, di
ramificazioni, o in base al tipo di controione (il più comune è il catione sodio).

I saponi sono Sali


di acidi organici,
in particolare di
acidi alcanoici.

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In genere, la lunghezza media delle catene laterali degli acidi alcanoici in uso come tensioattivi è compresa tra
12 e 20 atomi di C (i più utilizzati sono gli acidi alcanoici aventi catena di 12-18 atomi di C).

IL TENSIOATTIVO ANIONICO, QUINDI, NON E’ L’ACIDO ALCANOICO, MA IL SALE CHE NE


DERIVA!

Questa tabella riporta il nome comune degli acidi alcanoici che formano la classe dei saponi. I nomi che gli
interessano sono i nomi comuni degli acidi alcanoici rispettivamente a 12, 14, 16 e 18 atomi di C:
 Acido laurico
 Acido miristico
 Acido palmitico
 Acido stearico.
Sono i più importanti perché sono quello che, salificati con dei controioni, formano i SAPONI.

Questi tensioattivi, nel corso del tempo, sono stati ‘’dimenticati’’ rispetto ad altri tensioattivi ionici per alcuni
effetti indesiderati:
 A seconda del controione (cioè del catione) che salifica il gruppo carbossilico, si ottiene una diversa
solubilità:
- i Sali di Na e di K (cationi monovalenti) sono saponi con buona solubilità in acqua;
- i Sali di Mg, Al e Ca (cationi bivalenti) sono molto meno solubili.
Questo aspetto ovviamente influisce sull’uso di tensioattivi come detergenti: è un problema poiché
nell’acqua potabile sono ovviamente presenti cationi, soprattutto bivalenti. Quindi, quando questi
tensioattivi venivano utilizzati come detergenti, se utilizzati con acque dure (=contenenti tanti ioni
bivalenti come Mg e Ca), insorgeva un problema di precipitazione: i tensioattivi infatti tendono a
precipitare, proprio perché la forma salificata con questi cationi bivalenti è insolubile.

 Un altro motivo che ha portato al loro parziale abbandono era legato al fatto che quando questi Sali di
acidi alcanoici sono salificati col catione Na+, presentano il fenomeno tipico dei Sali: il fenomeno di
idrolisi basica. Questo fenomeno si verifica nelle reazioni tra base forte+ acido debole, portando a una
parziale riassociazione dell’anione carbossilato, con liberazione di ioni OH-. Questi ioni OH- vanno a far
aumentare il ph, che non è perfettamente compatibile con il ph fisiologico della pelle (che invece è
leggermente acido). Quindi l’uso dei Sali di acidi alcanoici, soprattutto in cosmetici e farmaci per uso
cutaneo ha subito un rallentamento.

I tensioattivi anionici sono dei Sali che, in acqua, si dissociano


a dare un anione anfifilo e un catione (soprattutto inorganico,
ma anche organico).

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2^ tipo di tensioattivi anionici: gli ALCHILSOLFATI

Un altro tipo di tensioattivi anionici sono quelli appartenenti alla famiglia degli ALCHIL-SOLFATI. Questi
composti possono variare l’uno dall’altro a seconda della catena idrocarburica (numero di atomi di C, presenza
di ramificazioni, presenza di insaturazione o di anelli aromatici) e a seconda del tipo di controione.
A differenza dei Sali degli acidi alcanoici (saponi), negli alchilsolfati, la porzione idrofila è costituita dall’anione
derivante dalla dissociazione di un gruppo solfato. Il gruppo solfato quindi rappresenta la porzione idrofila della
molecola, ed è legato alla catena idrocarburica tramite un legame estereo, o meglio solfoestereo (S-O-C).

Quindi gli alchilsolfati sono tensioattivi la cui funzionalità anionica deriva dalla presenza del gruppo fosfato,
mentre la porzione lipofila è rappresentata dalla lunga catena idrocarburica legata al gruppo fosfato tramite un
legame solfoestereo.

Gli alchilsolfati hanno una elevata capacità detergente, cioè hanno una elevata capacità di rimuovere le
sostanze lipofile. Sono molto utilizzati quindi per igiene domestica e personale. Questo elevato potere
detergente deriva dal gruppo funzionale che rende questi composti molto più solubili in acqua dei Saponi visti
prima, motivo per cui gli alchilsolfati hanno ‘’rimpiazzato’’ i saponi. Questi composti, però, si è visto che
possono provocare irritazioni a occhi e pelle, andando a rimuovere in maniera troppo aggressiva il film lipidico
che protegge la nostra pelle. Sarebbe dunque meglio utilizzare questi composti solo in formulazioni per usi
brevi e discontinui, seguiti da un intensivo risciacquo della superficie (cutanea o del cuoio capelluto). Una loro
caratteristica positiva è che gli alchilsolfati sono molto schiumogeni.

Analogamente a quanto detto per i saponi, anche nel caso degli alchilsolfati, i controioni utilizzati possono
essere differenti:
- inorganici (come sodio o potassio);
- o organici (come le ammine o il gruppo tetrabutilammonico).

Quando la catena idrocarburica dell’alchilsolfato è di 12 atomi di C, il composto prende il nome di sodio lauril
solfato, o SLS, che è uno degli alchilsolfati più utilizzati.

189
Per migliorare ulteriormente la solubilità in acqua degli alchilsolfati è
stata utilizzata una strategia che può essere sfruttata anche per altre
famiglie di tensioattivi (sempre allo scopo di migliorarne la solubilità). La
strategia risiede nell’utilizzare delle brevi sequenze di PEG. Il PEG è un
polimero (la sigla sta per polietilen-glìcole).

Queste corte sequenze di PEG sono sequenze CH2-CH2-O ripetute n-volte


tra la catena idrocarburica e il gruppo solfato.

Nella struttura raffigurata sulla sinistra

- R rappresenta la catena idrocarburica (solitamente avente tra i 12


e i 18 atomi di C);
- Sulla destra c’è invece il gruppo solfato
- Nel mezzo troviamo le sequenze PEG ripetute n-volte.

Il numero n in pedice alla sequenza di PEG rappresenta l’INDICE DI POLIMERIZZAZIONE: rappresenta il numero
di monomeri di PEG interposte tra il gruppo solfato e il gruppo alchilico.

Il composto in figura, ad esempio, si chiama ‘’alchil etere solfato’’, e il nome indica che la corta sequenza di PEG
è interposta tra un gruppo alchilico e un gruppo solfato. ‘’etere’’ invece indica che le corte sequenze di PEG
sono poli-eteri, quindi i legami che tengono assieme le unità monomeriche di PEG sono legami eterei.
La presenza, nella scritta sotto la molecola, della parola ‘’ammonio’’, invece, indica che è stato utilizzato un
controione ammonio.

I PEG SONO COMPOSTI IDROFILI, quindi, introducendo delle corte sequenze di PEG all’interno degli
alchilsolfati, otteniamo degli alchileteri solfati, che rappresentano una famiglia di composti più idrofili, quindi
solubili degli alchilsolfati.

Anche nel caso degli alchileteri solfati parliamo di famiglia di composti in quanto, all’interno di questa famiglia
potremo sempre distinguere una serie di composti uno diverso dall’altro in base a:
- lunghezza catena idrocarburica
- presenza di ramificazioni
- presenza di insaturazioni
- tipo di controione
- numero di monomeri che formano la catena PEG (indicato con l’indice di polimerizzazione n)

LEZIONE 32 (02/12/2021)
Tipologie di tensioattivi anionici
ALCHILSULFONATI

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Essi differiscono dagli alchilsolfati, nei quali la porzione lipofila è legata con un legame solfoestereo, mentre nel
sulfonati la catena è direttamente legata allo zolfo; ciò rende i composti più stabili, in quanto gli esteri hanno
una limitata stabilità a pH acidi e basici. Gli alchilsulfonati sono una famiglia di composti che possono variare a
seconda della lunghezza della catena idrocarburica legata, dell’aromaticità, del controione e di altre
caratteristiche.

- Anche per gli alchilsulfonati sono stati sintetizzati alcuni derivati al fine di aumentare il grado di
idrofilia, i quali prendono il nome di alchileteresulfonati, che hanno unità ripetute di polietilenglicole
tra la parte idrofila e quella lipofila.
- La parte lipofila può essere rappresentata anche da idrocarburi aromatici e in questo caso verranno
chiamati alchilarilsfulfonati. La porzione idrofila può essere aumentata con brevi tratti di PEG.
- Se tra il gruppo sulfonico e la porzione lipofila vi è l’interposizione di una molecola di glicerolo che
impartisce idrofilia, i composti prendono il nome di alchil (vi è una lunga catena alchilica) gliceridi
sulfonati.
- La famiglia dei sulfosuccinati, invece, fa riferimento ad un acido bicarbossilico, ossia l’acido succinico,
che si utilizza come building block: sull’acido succinico viene introdotto un gruppo sulfonico e i due
gruppi carbossilici vengono modificati, in particolare vengono esterificati con il 2etile-esanolo. È un
tensioattivo più mild, ossia più dolce e leggero, infatti viene usato negli shampoo.
- Se è esterificato solo uno dei due gruppi carbossilici con una catena molto lunga come un residuo di
acido laurico (12C) si parla di disodium laureth solfosuccinato, il quale viene definito disodico perché
ha due funzionalità acide, ossia lo zolfo e il gruppo carbossilico non esterificato.

ALCHILFOSFATI
Sono derivati in cui la parte idrofila è rappresentata da un gruppo fosfato e la parte idrofila e la parte lipofila
sono legate da un legame fosfoestereo.

- Gli alchileterifosfati sono composti in cui l’idrofilia della molecola e di conseguenza la solubilità in
acqua grazie al legame etere.
- Il gruppo fosfato può subire una doppia esterificazione e in tal modo si formano i dialchilfosfati, che
sono tensioattivi a doppia catena lipofila; essi sono ottimi detergenti ma hanno lo stesso problema dei
Sali degli acidi alcanoici, cioè quando questi vengono salificati con ioni monovalenti si ottengono
composti solubili, mentre con ioni bivalenti si formano composti poco solubili. Per tale motivo venivano
associati con il trifosfato di sodio, ossia un composto con capacità chelante, ossia con capacità di
complessare i metalli bivalenti. Tuttavia, questi composti sono oggi pochi utilizzati perché ci fu una
crescita incontrollata di alghe, che poteva essere dovuto all’utilizzo di questi detersivi (i fosfati sono
ottimi fertilizzanti).

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STEAROIL-LATTILATI
L’acido lattico ha la peculiarità di avere due diverse funzionalità, una acida ed una alcolica e queste si possono
sfruttare per creare un processo di polimerizzazione, cioè si ottengono poliesteri che sono anche biodegradabili
(l’acido lattico è un composto naturale). Si utilizza un dimero di acido lattico legato tramite legame estereo tra
l’OH di una porzione e il COOH dell’altra. Il gruppo carbossilico del primo residuo viene salificato conferendo
proprietà idrofile, mentre la funzionalità alcolica verrà esterificata con un residuo acilico da 12 a 18 C,
conferendo proprietà lipofile (si usa un residuo di acido stearico 18C).

ACILPEPTIDI
Per questi composti si utilizzano gli amminoacidi, i quali hanno due gruppi funzionali e possono reagire tra loro
formando un legame peptidico. Si tratta di un gruppo versatile perché si può scegliere tra 20 amminoacidi e si
possono legare quante volte si vuole, spesso di utilizzano i di o i tri peptidi. Inoltre, sono biodegradabili. I gruppi
che possono essere funzionalizzati sono il gruppo carbossilico, che diventa carbossilato e il gruppo amminico
con acidi grassi tramite un legame ammidico; in tal modo si formano rispettivamente le porzioni idrofile e
lipofile. Questi tensioattivi fanno sì che il pane rimanga soffice, perché il processo di indurimento dipende da
una riorganizzazione dell’amido che si ricristallizza e questi tensioattivi lo inibiscono.

SARCOSINATI
Sono tensioattivi originati dalla sarcosina e, più precisamente, sono acil sarcosinati. La sarcosina è un
amminoacido che somiglia alla glicina, infatti è la N metil glicina. Il gruppo carbossilico si trasforma in
carbossilato nel momento in cui si salifica formando la parte idrofila, mentre la parte lipofila si forma con il
gruppo acilico legato con un legame ammidico all’azoto.
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TAURATI
Tali tensioattivi derivano dalla taurina, ossia un particolare tipo di amminoacido, in quanto chimicamente si
può definire amminoacido, ma non lo è in senso stretto in quanto non ha il COOH, ma ha il gruppo sulfonato.
Inoltre, è un beta amminoacido, ossia ha il gruppo amminico legato al secondo carbonio (gli alfa lo hanno
legato al primo carbonio). Il gruppo lipofilo è dato dall’acilazione dell’amminogruppo. Questi tensioattivi sono
utilizzati nei dentifrici perché sono mild e bio.

SALI O ACIDI BILIARI


Hanno una disposizione delle parti idrofile e lipofile particolari; sono composti policiclici, formati da 4 cicli e
ricordano lo sterano. La loro struttura 3D può essere diversa, infatti I Sali biliari hanno una struttura stereoidea
che non è planare, ma presenta un ripiegamento. Le parti lipofile, rappresentate da gruppi metilici sono tutte
da un lato, mentre quelle idrofile rappresentate da gruppi carbossilati e ossidrilici dall’altro. Si può dire quindi
che hanno una faccia idrofila chiamata alfa e una lipofila chiamata beta. Questa caratteristica fa sì che questi
tensioattivi vengano utilizzati negli stessi campi di quelli classici, ma in più hanno la particolarità di formare
delle strutture chiamate MICELLE GLOBULARI. Questi tensioattivi vengono molto utilizzati assieme ad altri
tensioattivi, che formano anche le membrane biologiche e, quando si trovano in combinazione, si formano
delle strutture chiamate micelle miste (formate da due tensioattivi diversi). Essi sono importanti perché a
livello fisiologico permettono di solubilizzare sostanze che all’interno del tratto gastrointestinale sarebbero
insolubili (perché l'ambiente è idrofilo).

Le micelle miste sono costituite da fosfolipidi con forma classica e delle zone (in verde in figura) che
rappresentano le molecole di sali biliari. Nello spazio lipofilo interno possono essere solubilizzati il colesterolo,
gli acidi grassi, i trigliceridi tutti composti che precipiterebbero a livello dell’intestino perché sarebbero
insolubili; ciò non avviene grazie alle micelle e tale processo prende il nome di micellizzazione. Tra i sali biliari
più importanti si trovano l’acido colico (o sale dell'acido oclico), l’acido chenodeossicolico e l’acido deossicolico.
Si chiamano sali perché sono contenuti nella bile, secreto della cistifellea, che è una miscela di tanti composti
tra cui enzimi e sali biliari che permettono la micellizzazione dei contenuti lipofili della dieta.

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LEZIONE 33 (07/12/2021)
Tensioattivi cationici
I tensioattivi di tipo cationico hanno delle analogie rispetto a quelli anionici, ossia anche questi tensioattivi sono
dei Sali di tipo organico che una volta posti in acqua dissociano producendo un catione con caratteristiche
anfifile ed un anione con proprietà non anfifile.

Nella maggior parte dei tensioattivi cationici l’anione che va a salificare questo tipo di tensioattivi è di tipo
alogeno (alogenuto).

I tensioattivi cationici hanno una applicabilità molto inferiore rispetto ai tensioattivi anionici (che da soli
rappresentano circa il 50% dell’intero mercato globale dei tensioattivi). Infatti i tensioattivi cationici trovano un
uso molto minore, per due ragioni:
1. sono dei tensioattivi più costosi. Perché per la loro produzione industriale sono richieste delle reazioni
più costose.
2. Questi tensioattivi posseggono delle caratteristiche tali per cui non solo hanno proprietà di
tensioattivo, ma presentano anche delle proprietà battericide o batteriostatiche. Quindi i tensioattivi
cationici non sono usati come componenti dei prodotti per la detersione o per impieghi domestici o
industriali o per l’igiene personale.

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Chimica di queste sostanze:
Analogamente a quanto detto per i tensioattivi anionici, anche per i cationici parliamo di famiglie di composti
perché vi sono delle variazioni che sono dovute al tipo di contro-ione che va a salificare il tensioattivo e al tipo
porzione lipofila (cambia il residuo alchilico).

 Struttura esemplificativa dei Sali di alchil-ammonio questi sono dei Sali in cui la parte cationica
(quella che funge da tensioattivo) è rappresentata da un sale di ammonio. Nel caso specifico è un sale
di ammonio in cui 3 dei sostituenti sull’azoto carico positivamente sono dei gruppi metilici, mentre il
quarto sostituente che va ad alchilare l’azoto (che diventa così un azoto quaternario) è il gruppo R
(ossia una lunga catena idrocarburica).

Spesso tra i più utilizzati tensioattivi cationici, in particolare nei Sali di alchil-ammonio, troviamo dei
composti in cui R è rappresentata da una catena a 16 atomi di C (cetile). Quindi considerando questa
caratteristica tra i Sali di alchil ammonio più diffusi troviamo i composti CTAC e CTAB, queste due sigle
indicano due composti Cetil Trimetil Ammonium Cloruro (“C” indica il tipo di contro-ione che salifica il
sale di ammonio).
Nell’immagine vediamo la presenta di “X-“ perché i Sali di alchil-ammonio si trovano in forma salificata
e spesso X è un alogenuro.
Se al posto del cloruro abbiamo un bromuro CTAB

 È un particolare esempio di sale di alchil-ammonio ed in particolare è un sale in cui abbiamo solo due
gruppi metilici, abbiamo R (lunga catena idrocarburica) e il terzo metile è sostituito da un gruppo
benzilico (fenile + CH2). Queste sostanze si chiameranno Sali di alchil benzil ammonio, si usa il plurale
perché R può cambiare.
Sono molto utilizzati come conservanti antimicrobici, batteriostatici o battericidi.

 Sali di dialchil ammonio ci troviamo di fronte a dei Sali di ammonio in cui abbiamo due R (due catene
lipofile). Anche in questo caso il contro-ione può variare (cloruro, bromuro, OH-) a seconda del contro-
ione che abbiamo utilizzato.

 Sali di alchil ammonio gemellari  sono simili da un punto di vista di uso ai Sali di dialchil ammonio.
Sono un gruppo di tensioattivi che sono originati dall’unione covalente di due molecole di alchil
ammonio, che sono unite da un ponte etilenico (CH2-CH2). Presenteranno due cariche positive sui due
azoti quaternarizzati e quindi per avere un sale neutro sono necessari due equivalenti di Br-.

 Sali di piridinio  sono originati dall’alchilazione di un eterociclo a 6 atomi che si chiama piridina.
L’azoto della piridina viene alchilato da un sostituente R, quindi viene quaternarizzato e presenterà una
carica positiva. Il relativo contro-ione sarà Cl- o Br-.

195
Anche in questo caso i Sali di piridinio vengono spesso identificati con due sigle che sono CPC e CPB
(Cetil Piridinium Cloruro/Bromuro)

 Questo è uno specifico tensioattivo cationico definito come Bromuro di domifene questo è sempre
un composto ammonico quaternario, perché l’azoto è legato a 4 diversi residue alchilici e in particolare
due gruppi metilici, una lunga catena idrocarburica a 12 C e un residuo che porta una porzione
aromatica che è un gruppo fenossietilico.
È un tensioattivo che è particolarmente utilizzato come conservante soprattutto nelle sospensioni che
sono confezionate in contenitore multidose.

Vediamo dei tensioattivi (non gli interessa sapere la struttura):


li vediamo perché rappresentano una selezione di tensioattivi cationici (non gli interessano le sigle) che hanno
la caratteristica di essere caratterizzati da due porzioni lipofile ed una parte del tensioattivo presenta una o più
cariche positive.

Questi tensioattivi sono stati ideati e poi utilizzati per uno scopo molto diverso da tutti quelli di cui abbiamo
parlato finora, ovvero questi tensioattivi cationici non vengono utilizzati come gli anionici per prodotti come
detergenti, come tensioattivi stabilizzanti delle emulsioni, come conservanti.
Questi tensioattivi cationici appena descritti vengono utilizzati per una applicazione oggi molto interessante,
ovvero attraverso l’uso di questi tensioattivi possono essere prodotte delle strutture chiamate nanoparticelle
lipidiche che possono avere diverse strutture. Sono strutture che hanno dimensioni nanometriche (qualche
centinaio di nanometri di diametro).
196
Grazie alla presenta di tensioattivi appena citati è possibile produrre delle nanoparticelle lipidiche con una
carica positiva. Il fatto che siano cariche positivamente rappresenta un aspetto importante, perché grazie a
questa carica superficiale posseduta dalle nanoparticelle lipidiche cationiche possono formare dei complessi
ionici con delle sostanze anioniche e in particolare con sostanze polianioniche (molecole di acidi nucleici).

QUINDI…questi tensioattivi vengono utilizzati per produrre delle nanoparticelle lipidiche cariche positivamente
che sono in grado di formare dei complessi ionici con molecole di acido nucleico e grazie alla formazione di
questi complessi ionici le molecole di DNA o RNA o mRNA possono essere somministrate.
Grazie all’uso di queste nanoparticelle lipidiche è possibile avere un effetto protettivo sugli acidi nucleici che
sono trasportati dalle nanoparticelle lipidiche e permettono di superare i problemi di stabilità degli acidi
nucleici. Infatti gli acidi nucleici se venissero somministrati nella forma free (senza complessarli con le
nanoparticelle) verrebbero facilmente metabolizzati.

Vediamo in questo schema come sia possibile, ad esempio, produrre (con metodi sintetici o biosintetici) delle
molecole di acido nucleico (ad esempio, si possono produrre delle molecole di mRNA che codificano per un
particolare tipo di proteina). Attraverso l’uso di nanoparticelle lipidiche cationiche si possono formare dei
complessi tra l’acido nucleico e queste nanoparticelle lipidiche.
Grazie alla complessazione con queste nanoparticelle lipidiche solide, questi complessi risultano molto più
stabili, possono essere iniettati (ad esempio) attraverso una via intramuscolare, dal sito di somministrazione
possono raggiungere il torrente circolatorio, possono raggiungere le cellule del sistema immunitario, possono
entrare nelle cellule in cui gli mRNA vengono tradotti in proteine. Quindi abbiamo la possibilità di produrre
delle proteine derivanti da un mRNA che avevamo precedentemente progettato.

Questo è l’approccio che è alla base dei vaccini a mRNA. Il processo di sviluppo e di realizzazione di questi
vaccini è basato sulla complessazione con nanoparticelle lipidiche solide rese cationiche con l’uso di questi
tensioattivi cationici.

197
Tensioattivi zwitterionici
Sono dei tensioattivi che, a ph fisiologico (attorno alla neutralità), presentano dei gruppi carichi sia
negativamente che positivamente. I tensioattivi zwitterionici hanno la caratteristica di avere una carica netta
pari a zero, perché hanno in genere ugual numero di gruppi anionici e cationici (a ph attorno alla neutralità). Se
questi tensioattivi vengono posti a ph diversi dalla neutralità allora possono diventare tensioattivi anionici (ad
alto ph) o cationici (a ph basso).

Questi tensioattivi zwitterionici vengono anche definiti tensioattivi anfoterici.

Sono dei tensioattivi che sono molto inferiori in termini di produzione. Sono molto utilizzati per applicazioni in
cui è richiesta una alta compatibilità biologica e una bassa tossicità. Quindi sono molto utilizzati in campo
cosmetico e farmaceutico.

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Struttura chimica dei tensioattivi zwitterionici:
i tensioattivi zwitterionici sono spesso derivanti da strutture di tipo amminoacidico, ovvero gli aminoacidi
rappresentano i bilding block su cui viene basata la sintesi di questi tensioattivi.

 Il caso più semplice è rappresentato da modificazioni di aminoacidi gli aminoacidi che vengono
modificati per dare questi tensioattivi possono essere o aminoacidi naturali (alfa) o aminoacidi non
naturali.
In questo schema troviamo un aminoacido non naturale, in cui abbiamo un gruppo carbossilato e un
gruppo amminico (beta aminoacido). Per ottenere i tensioattivi zwitterionici dobbiamo avere una parte
che presenti delle caratteristiche lipofile ed in questo caso abbiamo un gruppo R (catena alchilica con
un numero di atomi di C tra 12 e 20). Questo specifico tensioattivo si chiama acido alchil
amminopropionico, cioè un composto che deriva dall’alchilazione dell’acido amminopropionico.

Parliamo di famiglia perché l’anione può essere salificato con contro-ioni diversi, così come il catione.

 Betaine la betaina è un particolare tipo di amminoacido che è stato per la prima volta identificato
nella barbabietola. Come vediamo dalla struttura abbiamo un aminoacido che presenta un gruppo
carbossilato e un gruppo amminico che nel caso delle betaine è un gruppo ammonico quaternario.
Uno di questi sostituenti alchilici che va a quaternalizzare l’azoto della betaina è una catena
idrocarburica di lunghezza variabile (12-20 atomi di C).

 Sulfobetaine sono una derivazione delle betaine in cui non abbiamo più il gruppo carbossilato, ma
abbiamo un gruppo sulfonato.
Le sulfobetaine sono degli aminoacidi particolari, sono dei gamma sulfoamminoacidi.
Abbiamo la presenza dei due gruppi metilici ed il quarto gruppo che alchila il gruppo ammonico è una
lunga catena idrocarburica.

Lecitine
È una famiglia di composti molto importante
”lecitine” è un termine che è stato introdotto per la prima volta nel 1847 da un chimico francese. Identificò
un particolare composto che definì come lecitina, quando usò questo termine lo usò per identificare un
composto particolare che era costituito dal composto che oggi conosciamo come fosfatidilcolina (per essere
più precisi glicero-fosfatidilcolina).
Attualmente il termine “lecitina” non si usa per indicare la fosfatidilcolina pura, ma si utilizza per indicare una
miscela di molte sostante, ovvero si tende ad identificare una miscela di sostanze di colore giallo-brunastro che
vengono ottenute per estrazione di fonti animali o vegetali (semi di soia).

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Queste sostanze che formano la lecitina sono:
 Fosfatidilcolina
 Acido fosforico
 Colina
 Acidi grassi
 Glicerolo
 Glicolipidi
 Trigliceridi
 Fosfolipidi (come la fosfatidilcolina)
In genere la qualità della lecitina (intesa con l’accezione attuale) è funzione della percentuale di fosfatidilcolina
che contiene tanto più la lecitina contiene un’elevata concentrazione di fosfatidilcolina e tanto più la lecitina
sarà di alta qualità (elevato prezzo)

La lecitina è stata estratta e commercializzata dall’estrazione dei semi di soia. Però attualmente dal momento
che la soia è spesso di tipo transgenico e questo in Europa non è ammesso allora la lecitina non è più ottenuta
dall’estrazione dei semi di soia, ma è ottenuta più frequentemente dalla purificazione dei semi di girasole.

La glicero fosfatidilcolina è un particolare tipo di composto con proprietà di surfactante (tensioattivo) che fa
riferimento a dei composti naturali che sono i glicerofosfolipidi.
I glicero fosfolipidi sono molto importanti perché sono composti naturali e presenti nel nostro organismo,
soprattutto la fosfatidilcolina è il mattone costitutivo delle membrane cellulari.

Si chiamano glicero fosfolipidi perché troviamo nella loro struttura il glicerolo e il gruppo fosfato.

 La parte disegnata in nero fa riferimento alla struttura del glicerolo. Il glicerolo è un composto con 3
atomi di C e ciascuno di questi porta un gruppo ossidrilico (trialcol). Nella fosfatidilcolina non troviamo
più i tre ossidrili perché sono stati modificati chimicamente ed in particolare il gruppo ossidrilico in
posizione 1 e in posizione 2 sono esterificati da due acidi grassi (rispettivamente disegnato in blu e
verde).
 Con la struttura in verde abbiamo l’acido oleico
 L’acido grasso in blu è un acido palmitico

QUINDI questa particolare fosfatidilcolina è una 1-oleil-2-palmitoil

 Il terzo ossidrile del glicerolo presenta un gruppo fosfato (residuo di un acido orto-fosforico che è un
acido triprotico, cioè presenta 3 gruppi OH salificabili). Quindi questo gruppo fosfato grazie al fatto che
è un acido triprotico può formare più di un legame fosfoestereo e infatti un ossidrile del gruppo orto-
fosforico va ad esterificare il terzo ossidrile del glicerolo.
Abbiamo detto però che il gruppo orto-fosforico ha 3 gruppi esterificabili e quindi il secondo gruppo
OH del fosfato viene esterificato dalla colina (è un amminoalcol che presenta un gruppo ammonico
quaternarizzato) dando così origine ad un ponte fosfodiestereo.

I glicero fosfolipidi sono dei tensioattivi zwitterionici perché a ph attorno alla neutralità presentano sia un
gruppo carico positivamente sia un gruppo carico negativamente. Le porzioni lipofile sono date dalle catene
idrocarburiche degli acidi grassi e la porzione idrofila è data dalla presenza dei due gruppi carichi (portati dal
fosfato e dall’ammonio quaternario della colina).

200
Tensioattivi non ionici
Non hanno gruppi carichi. La parte idrofila della molecola non è carica, ma è rappresentata da parti della
molecola fortemente idrofile non cariche. Questi tensioattivi sono importanti e sono tensioattivi che per
utilizzo commerciale sono di poco inferiori ai tensioattivi anionici (rappresentano circa il 45%).

Proprio per il fatto che non presentano gruppi carichi sono molto stabili, rappresentano dei composti
relativamente poco tossici e ben tollerati. Per questo hanno un grande utilizzo in campo farmaceutico,
cosmetico ed alimentare.

Struttura chimica:
sono varie famiglie di tensioattivi non ionici che possono essere raggruppate in una famiglia più vasta perché
hanno la caratteristica di avere come parte idrofila della molecola un gruppo etossilato, cioè delle
relativamente brevi sequenze di polietilenglicole (PEG o POE o PEO).

A seconda del tipo di legame che abbiamo tra la posizione idrofila (PEG) e il resto della molecola abbiamo
diverse famiglie:
 Amidi etossilate R sarà una catena idrocarburica cioè la parte lipofila della molecola. Mentre la parte
idrofila della molecola sarà data dalla catena di PEG

 Alcol etossilati quindi avremo una lunga catena idrocarburica a cui è stata coniugata una porzione
etossilata di PEG.
Per citarne uno abbiamo il triton X-100 (alcol etossilato) che ha la porzione etossilata che va ad
etossilare un alcol che in questo caso è un ossidrile fenolico perché è legato ad un anello aromatico
benzenico.

 Acidi grassi etossilati avremo una funzionalità esterea

201
 Gliceridi etossilati notiamo il glicerolo con i 3 gruppi ossidrilici. Uno dei gruppi ossidrilici del glicerolo
è esterificato con un acido grasso, un altro gruppo ossidrilico può essere libero oppure anche lui
esterificato con un acido grasso e il terzo ossidrile è eterificato con una sequenza di PEG.

Derivati del sorbitano


Parliamo adesso di una famiglia di tensioattivi molto importante perché ha un uso molto vasto in campo
farmaceutico, alimentare e cosmetico. Questi derivati si chiamano derivati del sorbitano.

Il sorbitano è un derivato del sorbitolo che è una di quelle sostanze che si chiamano hexitols, cioè è una
sostanza polialcol costituita da 6 atomi di C ciascuno dei quali porta una funzionalità ossidrilica.
Questi hexitoli possono essere modificati chimicamente e in particolare se vengono riscaldati in ambiente acido
tendono a dare una reazione di ciclizzazione, ossia tendono a formare un ciclo intramolecolare, significa che
uno degli ossidrili reagisce con un altro atomo di C del sorbitolo formando una struttura ciclina.

Questi cicli possono essere diversi ovvero a livello industriale non vi è un grosso interesse nel controllare in
modo specifico la reazione di ciclizzazione, quindi si ottengono delle miscele di composti ciclici. Questi
composti ciclici si chiamano sorbitani, per questo motivo di usa il plurale (si indica una miscela di composti
chimici).

La ciclizzazione del sorbitolo può dare origine sia ad anelli a 5 atomi oppure a 6 atomi (uno degli atomi è
sempre l’ossigeno).

Il sorbitano è un termine generico che identifica una famiglia di composti derivanti dalla ciclizzazione
intramolecolare del sorbitolo.

In genere il sorbitano che si ottiene in maniera maggiore da questa reazione di ciclizzazione è l’1,4-
anidrosorbitolo (quello in figura) perché derivante dalla ciclizzazione del C dell’ossidrile in 1 con l’ossidrile in 4.
Si chiama anidrosorbitolo perché la ciclizzazione è accompagnata dalla perdita di una molecola di acqua.

In seguito a questa ciclizzazione otteniamo un composto che invece di avere 6 gruppi ossidrilici (come il
sorbitolo) ne ha solamente 4. Il sorbitano è a sua volta un polialcol.

Per ottenere dei composti che abbiano delle proprietà di tensioattivo, abbiamo visto che serve sia una porzione
idrofila che una porzione lipofila. Quindi il sorbitano di per sé non è un tensioattivo, ma i tensioattivi sono dei
derivati del sorbitano.

202
Come viene ulteriormente modificato il sorbitano per dare origine a dei tensioattivi?
Il sorbitano può essere modificato chimicamente seguendo due diverse tipologie di reazioni chimiche.
A seconda delle modificazioni chimiche che vengono eseguite sul sorbitano si ottengono due diverse famiglie di
tensioattivi che vengono indicate con dei nomi che sono stati coniati per la prima volta da una azienda chimica
americana che si chiama Atlas chemical.

In particolare le due diverse tipologie di derivati del sorbitano vengono identificati come SPANS e TWEENS.

Gli span vengono identificati con un termine comune che è esteri del sorbitano

I tweens sono indicati con il termine di polisorbati.

(nessuno di questi due termini è particolare “felice”)

 Nel caso degli SPANSgli span sono degli esteri del sorbitano, significa che gli ossidrili (che sono 4) dei
sorbitani vengono modificati chimicamente andando ad eseguire una reazione di esterificazione, in
particolare ne vengono esterificati uno o due o tre (mai tutti e 4 perché l’ossidrile libero funge da parte
idrofila della molecola). Se si facesse una completa esterificazione dei 4 ossidrili si andrebbe incontro
ad una sostanza completamente lipofila e quindi non avrebbe le caratteristiche di anfifilia che sono
prerogativa imprescindibile dei tensioattivi.

203
Quindi abbiamo detto che gli span sono degli esteri del sorbitano con uno o due o tre gruppi acilici.
Questi gruppi acilici saranno rappresentati da acidi grassi a lunga catena.

Nella tabella vediamo il nome chimico dei vari derivati che si ottengono dall’esterificazione del
sorbitano:
 Sorbitano laurato è il sorbitano che è stato esterificato con una sola molecola di acido
laurico. Questo sorbitano laurato prende il nome di span 20 e ha la caratteristica di avere un
valore di HLB di 8,6.
 Sorbitano palmitato sorbitano che è stato esterificato con una sola molecola con 16 atomi di
C. il valore di HLB è diminuito
 Sorbitano stearato 18 atomi C
 Sorbitano tristearato sorbitano che è stato esterificato con tre equivalenti di acido stearico

Quindi tra tutti questi cambia la componente lipofila. Aumenta la caratteristica di lipofilia e l’HLB diminuisce.
Più HLB è basso e più indicherà dei composti lipofili. Più HLB è alto e più indicherà dei composti idrofili.
HLB è il bilanciamento idrofilo lipofilo, è un valore che ci dà un’indicazione sulle caratteristiche di lipofilia o
idrofilia del tensioattivo. Ricordiamo che i tensioattivi devono avere un certo bilanciamento tra la parte idrofila
e la parte lipofila, infatti delle sostanze completamente idrofile o lipofile non saranno dei tensioattivi.

 Nel caso dei tweens vengono definiti anche polisorbati. “Poli” non indica che sono tante molecole di
sorbitano che vengono polimerizzate, ma indica che nelle molecole dei polisorbati abbiamo una
componete poliossietilenica (PEG).

Nei tweens gli ossidrili del sorbitano vengono peghilati (vengono eterificati con frammenti di PEG),
quindi abbiamo un aumento delle porzioni idrofile. Infatti le catene di PEG fungono da porzione
idrofila.
Come vengono introdotte le porzioni lipofile? Succede che uno o due o tre degli ossidrili terminali delle
catene di PEG vengono esterificati con un acido grasso.
 Poliossietileni 20 sono state introdotte delle catene di poliossietilene a 20 monomeri
(n=20 indice di polimerizzazione=20)
 Sorbitano palmitico passando dal laurico al palmitico aumenta la lipofilia ed il valore di HLB
cala.
 Sorbitano stearato cala ancora il valore
 Sorbitano tristearato cala ancora il valore

Aumentando la componente lipofila aumenta il grado di influenza sull’HLB e quindi i valori di HLB
diminuiscono.

La presenza delle catene poliossietileniche fa si che i tweens siano molto più idrofili degli spans. Infatti i valori
di HLB sono più elevati

204
Derivati degli zuccheri
Sono dei tensioattivi. Abbiamo dei derivati che si ottengono con la stessa strategia che è stata utilizzata per la
modifica del sorbitano. Siccome i derivati del sorbitano sono stati prodotti dalla atlas chemical ed erano
protetti da un brevetto, allora le altre industrie che producono tensioattivi hanno utilizzato dei derivati simili al
sorbitano, ad esempio gli zuccheri.
Ad esempio, sono stati sviluppati tutta una serie di derivati degli zuccheri e a seconda del tipo di zucchero si
hanno diversi derivati. Si può usare il saccarosio, ad esempio, che contiene 8 ossidrili che possono essere tratti
come abbiamo visto precedentemente dando origine ad una serie di esteri del saccarosio o eteri del saccarosio.

Quando vengono introdotti solo dei gruppi esterei abbiamo gli esteri del saccarosio, quando abbiamo gli eteri
del saccarosio abbiamo dei composti che derivano dalla eterificazione con delle catene di PEG.
A seconda del numero di acidi grassi e delle catene di PEG otteniamo vari composti con vario grado di idrofilia e
lipofilia. Quindi vario livello di HLB

Tensioattivi non ionici di origine polimerica


La struttura fa riferimento ai polimeri che abbiamo definito come polimeri a blocchi. I tensioattivi polimerici a
blocchi più utilizzati sono quelli a tre blocchi.
Tra i più utilizzati tri block co-polimer abbiamo una famiglia di tensioattivi che è identificata con il termine
generico internazionale di poloxamers (polossameri), ma questi composti sono identificati anche con un nome
commerciale (di farmacia) che è pluronics. L’azienda che ha sviluppato e commercializza questi composti si
chiama Basf.
Sono delle famiglie di tensioattivi polimerici a blocchi perché questi tensioattivi sono costituiti da tre blocchi
che sono a loro volta:
 I due blocchi esterni alla sequenza lineare del polimero sono due blocchi di POE (poliossietilene) e
rappresentano una porzione idrofila
 La porzione centrale è identificata dalla sigla POP (poliossipropilene). In questo caso il monomero ha 3
atomi di C anziché 2 come nel POE. Il fatto che il poliossipropilene abbia 3 atomi di carbonio cambia la
sua struttura e cambia la natura chimico-fisica, ovvero ha una natura chimica lipofila.

Sono delle famiglie di tensioattivi in cui varia il peso molecolare totale del polimero, ma soprattutto cambiano i
pesi molecolari relativi delle tre porzioni. Quando predominano le porzioni esterne di poliossietile avremo di
composti più idrofili; quando predomina la porzione centrale (ossia la lunghezza del blocco poliossipropilenico
è maggiore) allora tenderà ad aumentare la caratteristica di lipofilia del composto.

Quindi avremo dei pluronics più idrofili e altri più lipofili e questo dipenderà dal rapporto dimensionale dei
frammenti poliossipropilenici centrali e dei due blocchi poliossietilenici esterni della molecola.

205
LEZIONE 34 (09/12/2021)
SPRAY DRYING
È una tecnica che si basa sulla trasformazione di una sostanza o di un mix di sostanze solubilizzate, disperse o
emulsionate in una fase liquida, che generalmente è a bassa viscosità, in una polvere secca tramite lo spray del
liquido nella camera di essiccamento.

1. Il liquido viene atomizzato


2. Il liquido evapora
3. Rimane il soluto che forma le particelle della polvere

Negli anni ’20 è stata molto utilizzata per la produzione di latte in polvere, mentre durante la Seconda guerra
mondiale era utilizzata per essiccare cibo e bevande. Solo dopo la guerra ha preso piede nell’industria
farmaceutica.

Il macchinario utilizzato è lo spray dryer e viene utilizzato per produrre solidi amorfi, che sono più solubili di
quelli cristallini (per solubilizzare i solidi cristallini bisogna rompere i lacci cristallini). È utilizzato per creare
polveri per inalazione, per iniezione, per formulazioni a rilascio controllato e può essere uno step intermedio
per la produzione di eccipienti, che poi servono per la formulazione finale.

VANTAGGI:
- Permette di ottenere polveri molto scorrevoli
- Permette una distribuzione dimensionale della polvere più stretta possibile, in modo che tutte le
particelle abbiano le stesse caratteristiche
- Le formulazioni solide sono più stabili di quelle liquide e sono quindi più facili da stoccare, perché sono
meno sensibili alla temperatura, all’umidità e ad altre condizioni ambientali
- Permette produzioni a livello industriale
- Si possono produrre sistemi a rilascio modificato
- Si possono essiccare materiali sensibili alla temperatura, perché si può rimanere sotto la temperatura
di evaporazione del solvente
- È una procedura one-step e per tale motivo si contrappone alla liofilizzazione, la quale prevede prima il
congelamento e poi la procedura di sottovuoto per la sostanza.
- È economica

Utilizzando una polvere invece di un liquido si può bypassare il problema della catena del freddo dei vaccini e si
sta parlando di creare i vaccini con questa tecnica.

206
SPRAY DRYER HARDWARE
La soluzione da nebulizzare è chiamata feed solutione viene pompata in un atomizzatore (nozzle);
contemporaneamente c’è il pompaggio dell’aria esterna in una camera di essiccamento, riscaldata tramite una
resistenza; in tal modo il liquido viene nebulizzato perché vi è un aumento di superficie tra l’aria calda e il
liquido. Successivamente le particelle vengono intrappolate da sistemi specifici.

Si può dividere il processo in 4 fasi in cui il liquido va in contro a differenti trasformazioni:

1. Atomizzazione
2. Contatto fra il liquido atomizzato e l’aria calda
3. Evaporazione del solvente
4. Separazione delle particelle

La due e la tre avvengono contemporaneamente

1. Atomizzazione:
In questa fase si rompe una fase continua di liquido in piccole goccioline per aumentare il rapporto
superficie/volume del liquido e la velocità di essiccamento del liquido; ciò avviene grazie alle tensioni
interfacciali e superficiali del liquido stesso. La maggior parte dell’energia contenuta nel gas di essiccamento
viene usata per l’evaporazione del solvente, perciò, il solido all’interno della soluzione non aumenta di T (la
maggior parte dell’energia serve per far evaporare il solvente). Si parla di “processo endotermico”, poiché
l’energia è usata per l’evaporazione e il sistema tende a raffreddarsi.

L’atomizzazione avviene tramite la perdita di stabilità di un getto liquido. Plateau vide che con un flusso di
liquido di un determinato diametro sottoposto alla forza di gravità, dopo una certa lunghezza, si verificavano
perturbazioni, le quali, quando arrivavano a un livello critico, facevano sì che il flusso si rompesse e che
formasse goccioline a causa della diminuzione della tensione superficiale.

Rayleigh studiò tale fenomeno a livello matematico e vide che in una condizione di flusso laminare si arrivava
ad una determinata perturbazione che aveva una lunghezza d’onda pari a “lambda ottimale”; quando si
raggiunge il lambda ottimale, il flusso si rompe e forma la gocciolina. Il diametro di questa goccia è
proporzionale al diametro del flusso di liquido iniziale.

Equazione: Solo e soltanto sotto l’influsso della forza di gravità, lambda era 4.51 volte del diametro iniziale del
flusso. Il diametro della gocciolina formata poteva essere calcolato ed era 1.89 volte il diametro iniziale del
flusso. Questi valori sono veri se non viene applicata nessuna forza o all’ambiante oltre quella di gravità, ossia a
velocità relativa uguale a zero.

Weber vide che cambiando la velocità relativa del sistema ad un numero superiore a zero, il diametro delle
gocce era linearmente e inversamente proporzionale alla velocità. L’aumento costante di velocità fra una fase e
l’altra porta ad una diminuzione lineare del diametro delle goccioline. La velocità relativa è l’aumento di
velocità di una delle due fasi ed è il parametro più importante che influenza il diametro delle particelle, che può
arrivare ad essere micrometrico.

Gli atomizzatori aumentano la velocità relativa tra le due fasi, ossia tra il gas atomizzante e il flusso di liquido o
con un’alta velocità del liquido, mantenendo la pressione del gas intorno a bassi livelli (atomizzatori a pressione
o rotatori) o mantenendo velocità del flusso relativamente bassa ed aumentando quella del gas esterno
(atomizzatori a due fluidi).

207
Atomizzatori rotativi: viene aumentata la velocità del liquido a discapito di quella dell’aria, che rimane fissa.
Nella punta dell’atomizzatore c’è un disco che ruota e il liquido arriva al centro; esso fa sì che il liquido si
espanda tangenzialmente ad una velocità dovuta alla forza centrifuga e che venga atomizzato esternamente,
uscendo dagli orifizi presenti nella porzione rotativa. L’energia di atomizzazione che si sfrutta è quella
centrifuga ed il parametro che viene cambiato per modificare la dimensione delle gocce è la velocità del rotore.
Il diametro è direttamente proporzionale alla velocità di flusso del liquido che va in contatto con il rotore (feed
rate) ed alla viscosità, mentre è inversamente proporzionale alla velocità del rotore. Il feed rate è la velocità
con cui il liquido viene posto sul rotore.

Vantaggi:
- È utilizzato molto in area industriale
- Non si blocca
- Permette un’uniforme distribuzione dimensionale delle particelle
- Non servono velocità elevate di feed rate.

Svantaggi:
- È difficile nebulizzare liquidi viscosi
- Dato che la camera di essiccamento è vicina le goccioline si possono depositare sulle pareti.

Atomizzatori a pressione: viene pompato ad alta velocità il liquido e una volta a contatto con l’aria si
nebulizza. L’energia utilizzata è la pressione e i parametri su cui possiamo agire sono la pressione applicata sul
liquido e la velocità del liquido stesso. Il diametro è direttamente proporzionale alla feed rate e alla viscosità,
mentre è inversamente proporzionale alla pressione del liquido.

Vantaggi:
- Produzione di particelle ad alta densità, ossia particelle sferiche uniformi che non presentano porzioni
vuote all’interno
- Si ha un range di distribuzione dimensionale ampio

Atomizzatori pneumatici o a due fluidi: il liquido ha una velocità bassa, mentre il gas di atomizzazione
(azoto di solito) viene pompato ad alta velocità. Viene utilizzato l’azoto perché molte sostanze sono sensibili
all’ossigeno. La fase liquida e il gas si incontrano all’uscita dell’atomizzatore e qui si verifica l’atomizzazione
vera e propria.

 Aumentando la velocità del gas si ha una diminuzione del diametro delle particelle.
 Aumentando la feed rate si diminuisce la velocità relativa tra il liquido e il gas, e ciò porta ad un
aumento del diametro medio delle particelle.

Vantaggi:
- È più facile utilizzare liquidi viscosi
- Si ha un ottimo controllo nella distribuzione dimensionale delle particelle

Svantaggi:
- Il gas di atomizzazione, essendo azoto, è più costoso
- Si intasa

Atomizzatori a ultrasuoni: Si utilizza energia ultrasonica e il liquido viene messo a contatto l’atomizzatore
formato da strutture piezoelettriche, che trasformano l’energia elettrica in energia meccanica: quando si
fornisce energia elettrica a queste componenti, esse iniziano a vibrare; tale vibrazione (energia meccanica) si
trasferisce nel canale del nebulizzatore e fa sì che ci sia una diminuzione della tensione superficiale in modo che
il liquido a contatto con l’aria venga atomizzato. Anche in questo caso la grandezza delle particelle è
proporzionale alla viscosità del liquido ed inversamente proporzionale alla frequenza vibrazionale. È utile per la
produzione di particelle che arrivano ad un micrometro. Inoltre, si ha un’uniforme distribuzione dimensionale e
una minor tendenza di bloccaggio.

208
2. Spray-air contact
Camere di essiccamento
Una volta nebulizzate, le goccioline vanno nella camera di essiccamento in cui vi è un gas ad alta temperatura
in cui si aumenta il rapporto superficie volume del liquido, in modo da avere una rapida evaporizzazione del
liquido. È fondamentale che il gas si distribuisca uniformemente. I gas utilizzati sono aria atmosferica o gas
inerti come l’azoto (per sostanze sensibili all’ossidazione).

Vi sono due tipi di sistemi di essiccamento con due camere diverse:


- Sistema cocorrente: la feed solution e il gas entrano dalla stessa parte; il gas viene espulso nella parte
inferiore e il solido viene raccolto lontano dall’entrata, sempre nella parte inferiore. Il liquido viene
subito a contatto con la parte più calda del gas e quando scende nella camera si ha l’evaporazione, che
porta ad una diminuzione della temperatura (=evaporative cooling); in tal modo il particolato non viene
sottoposto ad alta energia, perché la maggior parte è usata per l’evaporazione.

- Sistema controcorrente: la feed solution entra dall’alto, il gas in direzione opposta e il solido viene
raccolto sempre nella parte inferiore. Il gas viene pompato in direzione opposta a quella di
nebulizzazione del liquido perché con il cocorrente può capitare che le particelle non siano ben
essiccate dal momento che la temperatura non è alta. Qui le particelle vanno a contatto con la parte
più calda del gas perché il liquido è evaporato per la maggior parte precedentemente.

LEZIONE 35 (14/12/2021)
Abbiamo detto che il liquido viene atomizzato e viene portato nella camera di essicamento. Essendo stato
atomizzato abbiamo un aumento della superficie rispetto al volume della feed solution e quindi è questa la
drying force che ci permette di avere una evaporazione rapida del solvente che poi risulterà nella formazione
del particolato.

Cosa succede quando la gocciolina atomizzata va in contatto con il gas di essiccamento?


Abbiamo due fenomeni che avvengono contemporaneamente:
1. Il trasferimento di energia (del calore) del gas di essiccamento che nel 99% dei casi è aria che viene
riscaldata e viene pompata all’interno della camera di essiccamento. Quindi il calore viene trasferito
all’interno delle goccioline e servirà per fare evaporare il solido

2. Contemporaneamente abbiamo il trasferimento di massa, ovvero di liquido che va dalla gocciolina


verso l’ambiente esterno (verso l’aria, verso il gas di essiccamento)

Quindi il sistema cerca di raggiungere l’equilibrio e cerca di bilanciarsi trasferendo calore verso le goccioline e
liquido verso l’ambiente esterno.

Questo trasferimento avviene con una cinetica particolare. Abbiamo 2 porzioni ben distinte per quanto
riguarda la cinetica di essiccamento delle goccioline, abbiamo:
 Il periodo costante
 Il periodo di caduta
209
In questi due periodi abbiamo differenti temperature all’interno delle goccioline stesse.

Nel PERIODO COSTANTE il liquido viene atomizzato, viene a contatto con il gas di essiccamento (gas essiccante)
ed abbiamo un iniziale aumento della temperatura delle goccioline che vanno dalla temperatura ambiente fino
ad una temperatura di equilibrio (o wet-bulb temperature, ossia temperatura del bulbo umido), quest’ultima
rappresenta la temperatura che il gas raggiunge quando è saturato del vapore del liquido che va trasferirsi dalle
goccioline al gas stesso.

In questo periodo, che va da B a C, all’interno delle goccioline abbiamo una temperatura costante e questo fa sì
che la temperatura del sistema non sia così elevata permettendo così una minor degradazione dei materiali
termosensibili.
Quindi la temperatura rimane costante perché l’energia del gas di essiccamento (calore) viene utilizzata non
per scaldare la gocciolina ma per far sì che il solvente all’interno della goccia evapori, la goccia stessa
evaporando fa sì che la sua temperatura rimanga costante.

Visto che il solvente evapora in maniera costante dalle goccioline abbiamo una determinata cinetica che può
essere descritta da questa relazione:

Ossia la variazione di concentrazione fratto la variazione del raggio delle goccioline stesse è uguale alla
concentrazione di soluto iniziale per un valore costante (che dipende dal tipo di solvente, dal tipo di materiale
che è disciolto o disperso all’interno della feed solution) che viene chiamato peclet number. Questo peclet
number è direttamente proporzionale alla velocità di evaporazione del solvente ed inversamente proporzionale
alla diffusione del soluto all’interno delle gocce.

210
Il PERIODO DI CADUTA si ha quando il soluto all’interno delle goccioline raggiunge la sua saturazione, quindi
succede che il soluto inizia a precipitare (inizialmente all’esterno della gocciolina e poi via via anche il soluto
presente all’interno della gocciolina evapora fino ad ottenere la particella più o meno essiccata). Una volta che
formiamo questa crosta esterna dovuta alla precipitazione del soluto, succede che il solvente non è più libero
di evaporare nell’ambiente esterno perché la sua cinetica di evaporazione è controllata dalla diffusione del
solvente attraverso il materiale precipitato all’esterno.
Quindi di solito si arriva alla temperatura di ebollizione del solvente (appena si forma la crosticina), il solvente
evapora il più possibile e  se la diffusione del solvente attraverso lo strato solido è relativamente veloce
allora abbiamo la formazione di una particella sferica omogenea; se invece questa diffusione non avviene in
maniera efficiente allora abbiamo la formazione di particelle vuote, cave, contenenti una determinata quantità
di liquido e quando arriviamo a questo livello le particelle stesse raggiungono la temperatura del gas di
essicamento.

Quando abbiamo visto come sono state progettate le varie camere di essiccamento, abbiamo visto che la
temperatura alla fine del processo è molto minore della temperatura che abbiamo all’inizio del processo
perché il calore viene trasferito nel solvente stesso. Quindi quando parliamo della temperatura del gas
parliamo sempre di una temperatura minore rispetto a quella che abbiamo settato inizialmente e questo è un
altro motivo per cui l’utilizzo dello spray drying è molto usato per l’essiccamento di materiali termosensibili.

Adesso che siamo alla fine del processo le particelle devono essere separate dal gas di essiccamento. Abbiamo
2 tipi di separazione:
1. Una separazione primaria quando le particelle hanno una densità ed una grandezza tale da sfuggire
al gas senza l’intervento di un qualcosa di esterno, riuscendo a depositarsi alla fine del percorso in un
collettore. La maggior parte delle particelle, invece, vengono raccolte tramite altri metodi. Uno dei
metodi più utilizzati è quello che prevede l’uso del ciclone di separazione.

2. Separazione secondaria L’altro tipo di separazione è quella tramite filtraggio, è una separazione
utilizzata soprattutto a livello industriale.

211
Come funziona un ciclone di separazione?
Il suo principale meccanismo di funzionamento è basato sulla forza centrifuga delle particelle. Le particelle una
volta che arrivano alla fine del percorso vengono risucchiate all’interno del ciclone. Possiamo vedere che nella
parte alta del ciclone si trova una struttura conica in cui le particelle iniziano a girare ed acquistano una
determinata forza centrifuga elevata che continua ad aumentare man mano che ci spostiamo verso la fine del
ciclone di separazione. Quando questa forza centrifuga diventa critica allora abbiamo la separazione delle
particelle dal gas, cioè le particelle non sono più soggette alla forza di trascinamento del gas stesso che viene
pompato fuori dal sistema. A questo punto il prodotto finale viene raccolto alla fine del ciclone.
Il gas tende a ritornare verso l’alto, ad essere filtrato e ad uscire nell’ambiente esterno. Il ciclone è progettato
in maniera tale da permettere tutte queste fasi contemporaneamente.

La separazione tramite filtraggio funziona in modo che il gas contenente le particelle viene pompato all’interno
di una camera di raccolta contenente i vari filtri. Le particelle impattano sui filtri stessi e quindi vengono
adsorbite sulla superficie dei filtri. Dopo un tempo programmato (1-2 min) abbiamo una pulsazione (abbiamo
una orza esterna che fa pulsare i filtri), questo induce le particelle a cadere verso il basso e vengono raccolte.
Questo è un sistema molto utile perché può essere sviluppato in più camere contenenti filtri a differenti cut-off
(a differente grandezza delle maglie) e a seconda del cut-off possiamo fare una separazione dimensionale delle
particelle

Precipitatore elettrostatico (separazione secondaria)


Un altro tipo di collettore viene chiamato precipitatore elettrostatico. Il principio di funzionamento è molto
simile a quello dei depuratori d’aria.
Questo precipitatore si basa sulla forza elettrostatica, abbiamo un sistema fatto di piatti (plates) e di cavi che
vengono ionizzati, a questi viene applicata una forza elettrica (un circuito elettrico). Quindi abbiamo la
formazione di un campo positivo all’interno dei piatti ed un campo negativo a livello dei cavi. Succede che
quando arriva l’aria contenente le particelle allora i cavi ionizzano l’aria e gli ioni contenuti in questa aria
ionizzata conseguentemente vengono trasferiti a livello della superficie delle particelle stesse che vengono
212
raccolti dai piatti che hanno una carica elettrica opposta a quella dell’aria ionizzata. Quindi le particelle
vengono assorbite a livello dei piatti, poi una volta che il sistema viene spento non abbiamo più una carica
elettrica a livello dei piatti, le particelle riescono a cadere e possono essere raccolte in un collettore.

Morfologia delle particelle


Tramite lo spray drying possiamo avere una varietà di particelle aventi differenti dimensioni e differenti
morfologie. La morfologia delle particelle è molto importante perché a seconda di questa possiamo avere
diverse cinetiche di rilascio del farmaco e possiamo avere differenti caratteristiche chimico-fisiche del prodotto
stesso.
Tramite lo spray drying possiamo avere delle particelle:
 Cave
 Dense
 a ciambella
 rugose
 dei sistemi core shell (costituiti da un nucleo interno e parete esterna)
 delle soluzioni solide
 particelle porose

Le caratteristiche delle particelle dipendono dalle caratteristiche chimico-fisiche del soluto che si trova
all’interno della feed solution iniziale, ma dipendono anche dalle condizioni di processo che andiamo a
utilizzare nello spray drying

Quali sono le morfologie alle quali di solito andiamo incontro? Abbiamo 2 tipi di morfologie:
Ripercorriamo il processo la gocciolina diminuisce il suo raggio man mano che va avanti il processo di drying
con una cinetica che dipende dal peclet number, abbiamo la saturazione del soluto all’esterno della goccia
stessa ed abbiamo la formazione della crosta.

213
A questo punto c’è lo step principale che gestisce la morfologia della particella finale:
 se abbiamo una cinetica di diffusione del solvente attraverso la crosta esterna (che si è formata
durante il processo di essiccamento) allora questo solvente riesce ad evaporare, ad uscire dalla
particella stessa in maniera costante ed otteniamo la formazione di una particella solida (omogenea).

 In caso contrario, se la cinetica di diffusione è lenta (la crosta esterna ostacola la diffusione e
l’evaporazione del solvente verso l’ambiente esterno) allora abbiamo la formazione di particelle cave.
Questo perché durante l’innalzamento della temperatura il solvente che cerca di evaporare è diventato
gas, essendo diventato gas aumenta di molto il suo volume e durante il raffreddamento questo volume
si contrae lasciando un vuoto all’interno della particella.

La particella cava può andare incontro a diversi destini:


 Se la crosta esterna è abbastanza strutturata allora la particella rimane sferica
 Oppure collassa su sé stessa formando delle particelle corrugate

Abbiamo 2 fattori principali che fanno sì che queste particelle prendano una via o l’altra:
1. La solubilità del soluto all’interno del solvente contenuto nella feed solution
2. Il peclet number

differenze morfologiche che


possiamo ottenere tramite lo spray drying e mette in relazione le morfologie con la densità e la porosità delle
particelle stesse alla fine del processo

214
Possiamo quindi avere particelle omogenee o particelle cave. Nel 99% dei casi l’essiccamento della particella
segue questa cinetica (parte alta della slide):

Importante è il valore dell’arricchimento in superficie del soluto. Sappiamo che la prima porzione di soluto che
va a precipitare è quella esterna e quindi l’arricchimento in superficie non è altro che la concentrazione che
abbiamo nella superficie della particella di soluto fratto la concentrazione totale media di soluto all’interno
della gocciolina.
Questo valore dipende fortemente dal peclet number (che è il rapporto tra la velocità di evaporazione del
solvente fratto la velocità di diffusione del soluto dall’interno della particella verso l’esterno).

 Quando una molecola presenta un alto peclet number vuol dire che abbiamo un aumento esponenziale
della quantità di soluto nella superficie, perché una molecola con alto peclet number ha la tendenza di
diffondere in maniera molto lenta tra la superficie del soluto verso il centro della particella. Il peclet
number dipende anche dal tipo di solvente che utilizziamo, quindi se utilizziamo un solvente
bassobollente ed una molecola che ha una bassa capacità di diffusione allora avremo l’arricchimento in
superficie del nostro soluto che risulterà in una particella vuota all’interno.

 Quando abbiamo un basso peclet number vuol dire che il soluto riesce a diffondere dall’esterno verso
l’interno della particella in maniera abbastanza semplice e quindi abbiamo la formazione di sfere
omogenee.

Sia il peclet number che il tipo di particella che viene prodotta dipendono dalla solubilità del soluto all’interno
del solvente. Se la solubilità è bassa abbiamo una precipitazione che avviene all’inizio del processo di
essiccamento in quanto basta una piccola quantità di solvente che evapori per far sì che il soluto precipiti
all’esterno.

Il tempo che intercorre tra la precipitazione del soluto all’esterno ed il tempo in cui la particella che si sta
formando arrivi nella porzione finale dello spray drying viene chiamato tempo di precipitazione. In questo
tempo di precipitazione il soluto che è precipitato ha la capacità di formare cristalli velocemente e questi
cristalli hanno una mobilità molto minore rispetto alle corrispettive molecole. Questo fa sì che ci sia un
aumento esponenziale del peclet number.

Quindi la solubilità è molto importante meno un’entità chimica è solubile all’interno della feed solution e
più abbiamo la probabilità che ci sia la formazione di particelle cave alla fine del processo di spray drying.

215
Ci sono altri fattori che possono modificare la morfologia delle particelle:
 Peclet number
 Temperatura di transizione vetrosa
 Dipende dal tipo di feed solution o sospensione che andiamo a processare se facciamo lo spray
drying di nanoparticelle avremo l’assemblaggio o l’aggregazione di differenti di nanoparticelle che
risulterà nella produzione di microparticelle a superficie corrugata.
Oppure se abbiamo una soluzione molecolare ed un’alta temperatura di transizione vetrosa allora
avremo la formazione di particelle sferiche omogenee e lisce.

Possiamo avere particelle vuote e particelle piene, possiamo avere particelle lisce e corrugate, ma possiamo
ottenere anche particelle porose. I processi che portano all’ottenimento di particelle porose sono tanti:
 Si può fare uno spray drying di un’emulsione contenente una fase interna oleosa altobollente. Durante
lo spray drying evapora prima l’acqua dalle particelle e rimangono le goccioline della fase interna
dell’emulsione che abbiamo processato. Alla fine del processo evapora anche la fase interna oleosa e
questo fa sì ce si abbiano delle particelle porose.

 Possiamo formare le particelle porose tramite l’utilizzo di agenti chiamati blowing agents. Consiste nel
mettere all’interno della feed solution, oltre al soluto, un sale che una volta che inizia il processo di
essiccazione evapora (come cloruro di ammonio, ammonio carbonato che formano ammoniaca o CO2).
La CO2 o l’ammoniaca formano delle bolle all’interno delle gocce che stanno diventando particelle e
questo fa sì che si abbia la formazione di particelle porose.

Per avere diverse morfologie e diversi tipi di particelle possiamo agire su vari livelli che possono essere settati
in uno spray drying di laboratorio:
o Pressione di atomizzazione che è un parametro importante in quanto influenza la velocità relativa tra il
gas atomizzante e il liquido da atomizzare.
o La velocità di pompaggio del liquido all’interno dell’atomizzatore
o Viscosità
o La tensione superficiale del liquido
o L’angolo di spray che è importante soprattutto quando abbiamo a che fare con atomizzatori rotatori
216
o La velocità di aspirazione del gas essiccante
o La temperatura iniziale del gas di essiccamento
o La temperatura finale che non può essere regolata, ma che è principalmente proporzionale alla
temperatura di ingresso del gas
o Il tempo di residenza delle goccioline e delle particelle all’interno della camera di essiccamento
o La temperatura di transizione vetrosa

La PRESSIONE DI ATOMIZZAZIONE è importante per l’atomizzatore rotatorio e dipende dalla velocità di


rotazione e dal diametro dello stesso. Più la pressione è elevata e più le particelle avranno una distribuzione
dimensionale minore.

La stessa cosa avviene con la VELOCITÀ DI FLUSSO della feed solution all’interno dell’atomizzatore
aumentando la velocità di flusso della soluzione abbiamo un proporzionale aumento delle dimensioni delle
particelle stesse.

Un altro parametro importante è la VISCOSITÀ. Più un liquido è viscoso più farà fatica ad essere atomizzato e
 quindi le dimensioni delle particelle risultanti saranno maggiori tanto maggiore è la viscosità della feed
solution.

Allo stesso modo la TENSIONE SUPERFICIALE o interfacciale del liquido è un parametro importante. Maggiore è
questa tensione superficiale e più difficile sarà atomizzare la feed solution, più difficile sarà staccare una
gocciolina dal flusso e quindi avremo un aumento della dimensione media delle particelle alla fine del processo.

217
Un altro parametro è l’ANGOLO DI SPRAY che è un parametro relativo agli atomizzatori rotatori. Un aumento
di questo angolo di spray porta ad un aumento della velocità della feed solution all’interno del disco di
rotazione dell’atomizzatore ed un aumento di velocità corrisponde ad un aumento di energia che viene
utilizzata per atomizzare il liquido stesso. Avendo un aumento di energia abbiamo la formazione di particelle
più piccole.

Un altro parametro è la VELOCITÀ DI ASPIRAZIONE DELLE PARTICELLE. Abbiamo una pompa esterna che si
trova dietro lo spray drying, questa pompa il gas dalla parte superiore fino al ciclone di separazione. Un
aumento della velocità fa sì che ci sia un minor tempo di permanenza delle goccioline e delle particelle
all’interno della camera di essiccamento e ciò consente non avere delle particelle completamente essiccate una
volta che queste vengono raccolte.
Se abbiamo una velocità di aspirazione del gas di essiccamento allora è probabile che il solvente non riesca ad
evaporare del tutto  l’energia (sotto forma di calore) che abbiamo nel gas di essiccamento nella sua porzione
finale è maggiore e di conseguenza la temperatura risultante delle particelle è anch’essa maggiore. Questo è un
parametro da tenere in considerazione soprattutto quando abbiamo a che fare con materiali termosensibili.

Un altro parametro importante è la TEMPERATURA INIZIALE nel gas di essiccamento. Più questa temperatura è
alta e più le particelle hanno la probabilità che il loro solvente all’interno evapori in maniera efficiente. Questo
alla fine del processo non inficia la qualità del prodotto stesso, perché quando abbiamo un prodotto
contenente una quantità di solvente relativamente alta potrebbe andare incontro a trasformazioni sia chimiche
che fisiche non volute.

Importante è il TEMPO DI RESIDENZA DELLE PARTICELLE ALL’INTERNO DELLA CAMERA DI ESSICCAMENTO


più le particelle rimangono al suo interno e maggiore sarà il grado di essiccamento del prodotto finale.

218
La TEMPERATURA DI USCITA DEL GAS non è un parametro che possiamo controllare perché dipende da tutti i
parametri settati a monte del processo. Una elevata temperatura d’uscita del gas corrisponderà molto
probabilmente ad un aumento del grado di essiccamento delle particelle stesse ed è un parametro da ben
bilanciare con la velocità di aspirazione del gas. Se questa temperatura risulta essere abbastanza elevata allora
potremmo avere la formazione di una crosta esterna precoce a livello delle goccioline che poi potrà formare
dei cristalli che avranno un elevato peclet number e quindi le particelle risultanti risulteranno essere particelle
cave (non contenenti un nucleo interno)

Poi abbiamo un parametro importante che dipende dal materiale ed è la TEMPERATURA DI TRANSIZIONE
VETROSA. Questo è un parametro correlato alla stickiness delle particelle (appiccicosità, è il grado di
gommosità delle particelle). Questa temperatura di transizione vetrosa dipende dalle varie temperature di
transizione vetrosa dei materiali che abbiamo all’interno della feed solution e dipende dal loro rapporto
molare.

Quando parliamo di temperatura di transizione vetrosa? Quando abbiamo a che fare con un materiale
amorfo. Un materiale amorfo è un materiale in cui le entità chimiche (molecole, atomi, ioni) non hanno una
struttura macroscopica arrangiata in maniera ordinata.

Al contrario dello stato cristallino in cui il materiale solido è arrangiato in maniera altamente ordinata a livello
microscopico formando delle celle di cristalli aventi differenti conformazioni chiamati stati cristallini.

Poi abbiamo gli stati pseudo cristallini ovvero un materiale cristallino al cui interno contiene una o più
molecole d’acqua.

Poi abbiamo lo stato amorfo in cui non c’è questo arrangiamento microscopico a livello molecolare e per
questo viene chiamato stato vetroso. Infatti il vetro è il capostipite di questo tipo di materiale.

219
Perché è importante conoscere lo stato cristallino o amorfo di un determinato materiale?
Perché differenti polimorfi hanno completamente differenti caratteristiche. Ad esempio, il colore del fosforo
poiché sappiamo che il fosforo può avere diversi stati cristallini ed ognuno di questi ha un colore diverso.
Questo caratterizza la solubilità e il punto di fusione di un determinato materiale.

Quando abbiamo a che fare con i farmaci abbiamo a che fare con materiali che hanno un grandissimo numero
di polimorfi più o meno stabili e, soprattutto a livello industriale, il cambiamento di questa struttura può
portare ad un cambiamento della scorrevolezza delle polveri di conseguenza porta ad un dosaggio di
farmaco differente a seconda del tipo di polimorfo con cui stiamo lavorando.

In tecnologia farmaceutica una delle cose più importanti è il fatto di avere a che fare sempre con lo stesso stato
cristallino o lo stesso stato amorfo del materiale che stiamo studiando, altrimenti cambiano le sue
caratteristiche.

Per quanto riguarda lo stato amorfo quando abbiamo a che fare con lo spray drying, il 99% dei materiali che
utilizziamo risultano alla fine del processo dei materiali amorfi, perché generalmente tra il processo di
atomizzazione e il processo di raccolta abbiamo un tempo estremamente limitato quindi i materiali una volta
essiccati non riescono a formare un cristallo (non hanno il tempo di riarrangiarsi a formare un cristallo).
Lo stato amorfo è uno stato che è termodinamicamente instabile, quindi è difficile ottenere un materiale
amorfo e stabilizzarlo nel tempo.

Una delle caratteristiche principali di un materiale amorfo che ne descrive la stabilità cinetica è la temperatura
di transizione vetrosa. Quando in un materiale amorfo raggiungiamo la temperatura di transizione vetrosa
allora questo materiale si dice che va da amorfo verso uno stato gommoso (rubbery state) che non è una vera
e propria transizione ma è un cambiamento del materiale che ha una cinetica di 1° ordine.

Quando superiamo questa temperatura di transizione vetrosa abbiamo il cambiamento di alcune proprietà
come la durezza (il materiale da solido diventa un materiale gommoso), cambia il volume, cambia la capacità
termica del materiale oppure abbiamo un cambiamento dell’indice di rifrazione del materiale. Tutti questi
cambiamenti sono importanti perché ci permettono di misurare la temperatura a cui avviene questa
transizione.

L’effetto di questa transizione si ha sulla grandezza delle particelle, sulla formazione di materiali che tendono a
diventare materiali pseudo cristallini solvatati, cambiano le caratteristiche di scorrevolezza e cambiano anche
dei parametri della tecnologia farmaceutica come il grado di compressibilità della polvere. Se la polvere che
otteniamo la dobbiamo comprimere e produrre delle compresse allora avere a che fare con materiale amorfo o
con un materiale cristallino della stessa molecola cambia totalmente.

220
Esistono varie tecniche per monitorare la temperatura di transizione vetrosa ed una di queste tecniche è la
DIFFERENTIAL SCANNING CALORIMETRY (DSC). È una tecnica che registra le differenze di input e di energia fra
una sostanza che noi stiamo saggiando (della quale vogliamo sapere la temperatura di transizione vetrosa) ed
una sostanza di riferimento (generalmente è l’aria).
Lo strumento è caratterizzato da una fornace che è la parte principale dell DSC, questa fornace fa sì che la
temperatura all’interno dei crogioli aumento in maniera costante. In un crogiolo abbiamo il nostro materiale,
mentre l’altro crogiolo è vuoto (contiene la sostanza di riferimento che è l’aria).

Nel caso di un materiale amorfo abbiamo all’aumentare della temperatura fino a quando non si raggiunge la
temperatura di transizione vetrosa non abbiamo una sostanziale differenza tra l’energia termica che viene
assorbita dal materiale di cui vogliamo sapere le caratteristiche termiche e quella del materiale di riferimento.

Quindi aumentando la temperatura costantemente vediamo che viene fuori un grafico dove ci sono degli
eventi termici. Nel grafico vediamo che:
 c’è un cambiamento con questo tipo di transizione di primo ordine nella capacità termica del prodotto,
essendo una transizione di primo ordine sappiamo che raggiungeremo la temperatura di transizione
vetrosa del nostro materiale amorfo.

 Dopo il raggiungimento del Tg, abbiamo lo sticky point (rubbery state). Quindi il materiale che ha
cambiato la sua capacità termica, risulterà un materiale appiccicoso o gommoso. A questa
temperatura il materiale risulta essere fortemente instabile quindi tende a cristallizzare e questa
cristallizzazione la vediamo tramite un processo esotermico. Sappiamo infatti che i processi esotermici
sono generalmente processi che avvengono spontaneamente.
Avendo un processo esotermico la capacità di assorbire calore del nostro prodotto diminuisce, fino a
quando la cristallizzazione non è completa.

 una volta che il prodotto da amorfo è diventato cristallino allora arriviamo alla sua temperatura di
fusione. A questa temperatura abbiamo una direzione dell’evento termico contraria a quella di
cristallizzazione e questo vuol dire che la fusione è un processo endotermico una volta che è fuso il
materiale continua ad assorbire in maniera costante il calore dovuto all’aumento di temperatura
all’interno della fornace e si trova in uno stato liquido.

Quindi un qualsiasi materiale amorfo prima di fondere diventa un materiale cristallino un materiale amorfo
non può fondere se prima non diventa un materiale cristallino.

221
Questo avviene a temperature molto più basse nel caso di formulazioni solide che sono state prodotte tramite
lo spray draying. Ci sono dei materiali che hanno una temperatura di transizione vetrosa di 6°C, questo vuol
dire che una volta che il materiale viene raccolto è amorfo e con il tempo (visto che la temperatura ambiente è
di circa 25°C) questo materiale da amorfo diventa cristallino, in questo modo il materiale cambierà le sue
caratteristiche a temperatura ambiente.

Ad esempio, nel foglietto illustrativo di un medicinale vediamo la data di scadenza e il tipo di storage a cui
bisogna far conto questo è importante prenderlo in considerazione perché potrebbero esserci delle reazioni
chimiche all’interno del medicinale, ma spesso quello che si ricerca è la stabilità fisica del farmaco che è
probabilmente amorfo e che non deve diventare cristallino, altrimenti avremo delle variazioni di solubilità,
avremo differenti tipi di rilascio e quindi il principio attivo non può espletare la sua azione una volta
somministrato.

Un materiale amorfo è estremamente più solubile di un materiale cristallino.

VEDIAMO A COSA SERVE SIA IN LABORATORIO CHE IN UNA INDUSTRIA FARMACEUTICA LO SPRAY
DRYING:
 viene utilizzato per formare delle polveri, quindi per formare delle microparticelle che insieme formano
delle polveri
 viene utilizzato per la formazione di particelle di farmaco puro. Questo può essere importante per
avere la formulazione finale del farmaco esistono delle formulazioni che non contengono eccipienti
che possono essere somministrate direttamente, ma nella maggior parte dei casi possiamo avere la
formazione del farmaco puro in polvere che poi può essere utilizzato come intermedio nella
formazione delle formulazioni.
 Alcune volte, soprattutto per quanto riguarda i Sali ionici polimerici, possiamo avere dei Sali liquidi a
temperatura ambiente e facendo lo spray drying di questi Sali polimerici questi diventano solidi
 Se abbiamo a che fare con un farmaco in soluzione (cristallino) allora abbiamo un prodotto che è
difficile da solubilizzare nel solvente di riferimento andremo a fare lo spray drying di questo
materiale in modo da renderlo amorfo ed in questo modo aumentiamo la solubilità.
 Possiamo formare delle polveri contenenti delle particelle che hanno un rilascio modificato, quindi
sono particelle ingegnerizzate in modo tale che il rilascio del farmaco avvenga in maniera specifica sia
nel tempo che nello spazio
 Lo spray drying viene molto utilizzato per la protezione dei principi attivi stessi. Facendo lo spray drying
di queste molecole abbiamo la riduzione della quantità di solvente e di umidità all’interno della polvere
stessa risulta più stabile
 Viene utilizzato lo spray drying per la produzione di polveri che possono essere utilizzate per differenti
vie somministrazione (via orale, via polmonare, via oftalmologica, via parenterale, per via nasale)
222
Lo spray drying può essere sfruttato non solo per cambiare tutte le caratteristiche sul principio attivo, ma è
molto utile per cambiare le caratteristiche anche di eccipienti. Ad esempioil lattosio cristallino prodotto
tramite cristallizzazione oppure il lattosio amorfo prodotto tramite spray drying (dal grafico vediamo che il suo
profilo di compressibilità è molto migliore rispetto al lattosio cristallino)

La solubilità è un parametro altamente influenzato dal grado di cristallinità del prodotto.

La cinetica di dissoluzione è data dall’equazione di Noyes-Whitney

Come facciamo a migliorare la solubilità del prodotto? Riusciamo a migliorarla riducendo la dimensione
delle particelle e quindi aumentando il parametro area di questa equazione aumenta la velocità. La
produzione di materiali amorfi ha una velocità di dissoluzione maggiore dei materiali cristallini perché non
serve energia per rompere il lattice nei cristalli (che non abbiamo nei materiali amorfi).

È più solubile un materiale amorfo perché parte dell’energia di solvatazione viene utilizzata per rompere il
lattice cristallino dei cristalli, nei materiali amorfi non abbiamo questo passaggio quindi tutta l’energia viene
utilizzata soltanto per la solubilizzazione.

 Inoltre, lo spray drying viene molto utilizzando anche per produrre delle soluzioni solide contenenti
differenti materiali fra cui possiamo avere degli agenti bagnanti. Gli agenti bagnanti promuovono il
contatto fra l’acqua e la polvere stessa aumentano la velocità di dissoluzione del farmaco.
La maggior parte dei farmaci appartengono alla classe II e classe IV del BCS sono quei farmaci che
hanno una bassa solubilità ed a seconda dei casi hanno un’alta o bassa permeabilità all’interno dei
tessuti. Avendo una bassa solubilità bisogna trovare delle strategie di aumentarla.

223
Alcuni esempi di co-spray drying:
 È un esempio che ci fa capire che facendo lo spray drying di un farmaco e di un materiale tensioattivo
abbiamo una maggiore solubilità e un maggior assorbimento (una migliore farmacocinetica) del
farmaco all’interno dell’organismo. In comparazione con lo spray drying del farmaco a sé state senza
l’utilizzo di eccipienti

Possiamo fare lo spray drying anche di emulsioni per la produzione di particelle porose, ma possiamo anche
produrre delle particelle a rilascio modificato utilizzando un’emulsione. Una volta che si fa lo spray drying
abbiamo l’evaporazione di entrambi i solventi (sia della fase interna che della fase esterna) dove però la
vancomicina è incapsulata in determinati compartimenti all’interno di una particella più grande formata dal
polimero stesso questo è un tipico esempio di formulazione a rilascio modificato.

Abbiamo altri tipi di strategie per ingegnerizzare le particelle all’interno della polvere, ad esempio abbiamo
parlato del nebulizzatore a due fluidi (nebulizzatore pneumatico) in cui abbiamo un canale interno in cui viene
pompata la feed solution e un canale esterno viene pompato un gas di atomizzazione (questo gas aumenta la
velocità relativa fra la soluzione e il gas stesso e quindi abbiamo l’atomizzazione).
Abbiamo un atomizzatore molto simile a questo appena citato in cui abbiamo due canali concentrici in cui c’è la
possibilità di pompare due differenti liquidi contenenti due differenti materiali che poi all’uscita
dell’atomizzatore si incontreranno con l’aria di atomizzazione. In questo caso dato che i due canali concentrici
contengono due differenti materiali avremo la formazione di particelle contenenti all’interno un core del soluto

224
contenuto nel fluido 1 (in genere all’interno si trova il farmaco) ed uno shell esterno contenente un materiale
(ad esempio) protettivo (materiale che protegge il farmaco interno dall’umidità esterna, dall’aumento di
temperatura). Questa protezione fa in modo che ci sia magari una minor degradazione chimica, magari dovuta
all’assorbimento di umidità dall’aria circostante.

Lo spray drying è utilizzato moltissimo soprattutto per la produzione di particelle somministrate per
inalazione. Queste polveri che vengono somministrate per inalazione possono essere sfruttate per avere un
effetto topico delle vie aeree superiori oppure a livello polmonare oppure il polmone può essere sfruttato
come area di assorbimento del farmaco per avere un effetto sistemico.

Per avere un effetto sistemico e per arrivare alle vie più profonde del polmone le particelle devono avere un
diametro che sia compreso fra 1-5 micrometri e lo spray drying è perfetto per avere delle particelle di queste
dimensioni. Poi queste particelle vengono saggiate per vedere se abbiamo raggiunto queste dimensioni e per
vedere se le particelle hanno delle caratteristiche chimico-fisiche ottimali per raggiungere il polmone in
particolare vengono saggiate grazie ad una strumentazione chiamata NGI (next generation impactor) che non è
altro che un polmone in vitro che divide il polmone in diverse porzioni. In queste porzioni abbiamo il deposito
delle particelle che vengono pompate simulando la respirazione ed a seconda della grandezza delle particelle,
della densità, del grado di coesività ed altre caratteristiche chimico-fisiche avremo una differente quantità di
polvere che va a depositarsi nelle differenti porzioni dell’NGI. Da qui possiamo vedere la percentuale di
particelle che presentano un diametro aerodinamico tale da poter arrivare all’interno o nella porzione più
profonda dei polmoni.

225
LEZIONE 36 (15/12/2021)
Riprendiamo la descrizione delle proprietà dei surfattanti. Abbiamo già descritto i tensioattivi dal punto di vista
della loro architettura molecolare e poi dal punto di vista chimico, in base alla struttura chimica dei surfattanti,
nello specifico della porzione idrofila del tensioattivo. Torniamo ora a trattare le proprietà dei tensioattivi,
nello specifico quando questi sono utilizzati in una fase acquosa.

Questa slide descrive il comportamento delle molecole di tensioattivo in acqua. Più nello specifico, la figura
sulla destra descrive il fenomeno della MICELLIZZAZIONE. Il fenomeno della micellizzazione, o formazione di
micelle, è un processo DINAMICO: c’è sempre presenza di un equilibrio tra la struttura a micella e i singoli
tensioattivi (unimeri). Nella figura a dx, quindi, le molecole di tensioattivo formano un monolayer alla superficie
acqua-aria. Questo monolayer è in equilibrio con i singoli unimeri solubilizzati nell’acqua bulk, i quali a loro
volta sono in equilibrio con l’intera struttura micellare.

La formazione delle micelle avviene a una determinata concentrazione di tensioattivo?

Introduciamo quindi ora il


concetto di ‘’critical
micellar concentration’’, o
CMC, o concentrazione
micellare critica. La sigla
CMC può essere riportata
sia in lettere maiuscole,
che minuscole, che
minuscole puntate (c.m.c).

Per molti anni si è pensato che, quando un tensioattivo si trova in acqua a una concentrazione inferiore alla
concentrazione micellare critica, allora non si formassero le micelle. Nella realtà, però, si è visto, tramite studi
e tecnologie più performanti, che non c’è un limite al di sotto del quale non si formano micelle e sopra al quale
invece si formano. Si tratta più di un concetto probabilistico:

- al di sotto della soglia di concentrazione micellare critica abbiamo una elevatissima probabilità di NON
avere micelle, senza escludere che alcune micelle si possano formare;
- Invece, al di sopra di CMC, possiamo dire virtualmente che tutte le molecole di tensioattivo introdotte
formano micelle.
226
Attualmente la CMC è espressa in MOLARITA’, cioè in concentrazione molare.

Ciascun tensioattivo è caratterizzato dalla propria concentrazione micellare critica.

Come è possibile definire la CMC per ogni tensioattivo?

Per spiegarlo, utilizziamo il grafico nella figura precedente: il grafico mostra che sperimentalmente può essere
calcolata la concentrazione micellare critica dei vari tensioattivi preparando delle soluzioni a concentrazione
crescente di tensioattivo. Poi, si vanno ad analizzare queste diverse soluzioni. Valutando il grafico, andiamo a
misurare le proprietà colligative. Il termine proprietà colligative indica che si tratta di proprietà misurabili nelle
soluzioni di tensioattivo collegate alla concentrazione di tensioattivo.

Nel grafico ci sono tante curve, ognuna delle quali


rappresenta la variazione di diverse proprietà della
soluzione al variare della concentrazione del
tensioattivo (parametro sull’asse delle x). In questo
caso, questo grafico fa riferimento al tensioattivo Sodio
Lauryl Solfato (o sodio dodecil solfato), che sappiamo
appartenere alla categoria dei tensioattivi anionici.

I ricercatori, dopo aver preparato varie soluzioni di


sodio lauryil solfato in acqua, ne hanno determinato e
studiato poi delle proprietà (ad esempio la
conducibilità, o la densità, o il potere detergente, o la
tensione interfacciale). Quel che si può notare nel
grafico è che l’andamento delle curve è eterogeneo.

L’andamento delle curve cioè non è sempre lineare: alcuni hanno andamento curvilineo, altre no. Quando la
concentrazione di tensioattivo arriva nell’intervallo segnato nel grafico, l’andamento di TUTTE le curve subisce
una repentina variazione. Questo significa che tutte le proprietà colligative prese in considerazione hanno degli
andamenti che cambiano qualora si giunge a una certa concentrazione di tensioattivo. Superata quindi una
certa concentrazione di tensioattivo, le proprietà colligative variano. Questo perché, superata questa soglia di
concentrazione, cioè la CMC, la probabilità per cui i tensioattivi formino delle micelle è molto più elevata! La
formazione delle micelle quindi fa variare le proprietà colligative.

La CMC di ogni tensioattivo quindi può essere determinata analizzando l’andamento delle proprietà colligative
al raggiungimento della concentrazione micellare critica.

Perché, parlando di CMC, non parliamo di un valore netto, ma di un ‘’range di concentrazione’’? Non
esiste un valore netto di CMC poiché non esiste un valore netto di concentrazione a cui tutte le proprietà
colligative variano e alterano il proprio andamento. Alcune proprietà, infatti, variano a concentrazioni
leggermente più basse, altre invece variano a conc leggermente più alte.

La iupac stabilisce che, dal momento che il valore di CMC può essere ottenuto usando diverse proprietà,
quando ci riferiamo al CMC di un tensioattivo, dobbiamo indicare chiaramento quale metodo è utilizzato per
determinare il valore di CMC. Cioè dobbiamo descrivere se il valore CMC è stato determinato analizzando la
densità, o la tensione interfacciale, o la pressione osmotica e così via.

227
Il grafico riportato rappresenta un analogo del grafico precedente, la differenza sta nell’utilizzo di un altro tipo
di tensioattivo e di altre proprietà colligative nel determinare la concentrazione micellare critica.

La tabella invece riporta alcuni tensioattivi diversi e il loro valore di CMC, espresso in milliMolare (mM). Ad
esempio, tra i tensioattivi, i Tween sono tensioattivi NON ionici, a differenza dell’SDS, che è invece un
tensioattivo ionico. Guardando i valori di CMC, quindi, possiamo dire che i tensioattivi ionici presentano un
valore di CMC maggiore rispetto a quelli non ionici (maggiore di circa 100 volte).

 Tanto più basso è il valore di CMC di un tensioattivo, tanto più elevata sarà la sua tendenza alla
micellizzazione.

Per capire questa differente CMC tra i vari tensioattivi, dobbiamo ricordare la struttura di una micella:

1- La micella è una struttura dinamica, quindi è sempre in equilibrio con la forma unimerica del singolo
tensioattivo.
2- Inoltre, le catene idrocarburiche apolari che formano la porzione apolare del tensioattivo non sono
struttura rigide, ma flessibili e in continuo movimento.
3- Le micelle hanno una forma sferica e sono formate da un numero variabile di tensioattivi, a seconda
del tensioattivo, solitamente in un range tra 30 e 100 unimeri.
4- Una micella solitamente ha dimensioni variabili a seconda del tipo di tensioattivo. Solitamente ha un
range dimensionale tra i 6 e i 100 nanometri. Questi valori dimensionali si riferiscono al diametro
medio di una micella le micelle hanno dimensioni NANometriche! Le micelle, essendo nel range dei
nanometri, rientrano tra le strutture colloidali. Di conseguenze, se abbiamo una dispersione di micelle
in acqua, le definiremo come DISPERSIONI COLLOIDALI.
5- La parte interna delle micelle ha delle proprietà simili a quelle dei liquidi la porzione interna delle
micelle non è quindi né densa né compatta. La porzione interna delle micelle è quella costituita dalle
catene idrocarburiche in continuo movimento, di conseguenza la porzione interna delle micelle avrà
proprietà simili a quelle di una miscela idrocarburica.

NB: Le dispersioni colloidali di micelle sono anche


definite come COLLOIDI DI ASSOCIAZIONE, o COLLOIDI
DI AGGREGAZIONE, poiché formati da associazioni di
più molecole, cioè le micelle.

228
Un altro aspetto da considerare per capire le differenti CMC tra vari tensioattivi è che le teste idrofile delle
micelle (sferette blu in figura), affinchè si formi la micella, dovranno avvicinarsi l’un l’altra.

La dinamicità delle micelle può essere misurata?


Sì. La dinamicità delle micelle varia a seconda del tipo di tensioattivo che le forma. La dinamicità può essere
determinata andando a misurare, tramite spettrofotometria, due particolari valori: i TEMPI DI RILASSAMENTO,
o relaxation time. I tempi di rilassamento sono due: il tempo di rilassamento rapido ( o tau-1) e il tempo di
rilassamento lento (o tau-2).

 Il tempo di rilassamento rapido indica il tempo medio di residenza di una molecola di tensioattivo nella
micella, prima che questo tensioattivo vada in forma unimerica. È un tempo rapido poiché nell’ordine
dei microsecondi. Il tempo tau-1 quindi misura quanto rapidamente una micella ‘’scambia’’ il materiale,
cioè i suoi unimeri, con un’altra micella.

 Il tempo di rilassamento lento invece è molto maggiore: da milli secondi a minuti. Questo valore
descrive il tempo necessario a una micella per disaggregarsi (la disaggregazione delle micelle è il
processo che porta dalla micella al singolo unimero). Questo parametro è utilizzato soprattutto quando
le micelle sono impiegate in campo farmaceutico. Le micelle sono utilizzate in campo farmaceutico e,
dopo essere somministrate (ad esempio per via orale), la concentrazione di tensioattivo diminuisce e
cala sotto la CMC, quindi le micelle tenderanno a disaggregarsi.

C’è una relazione tra la struttura del tensioattivo e la CMC?


Sì. Ad esempio prima abbiamo visto che il tipo di porzione idrofila influenza la CMC, ma non solo, anche le code
idrofobiche possono influenzare la CMC. Questo grafico mostra

- sull’asse y la CMC;
- sull’asse x la lunghezza della coda idrofobica.

229
Qual è l’effetto della lunghezza della
catena idrocarburica del tensioattivo sul
valore di CMC?

Il secondo composto schematizzato in


legenda fa riferimento a una categoria
particolare di tensioattivi: i SAPONI, che
caratteristicamente hanno un COO- e
un Na+ (un carbossilato di sodio) nella
loro catena. Il carbossilato di sodio è la
porzione idrofila polare dei saponi, che
sono i Sali degli acidi alcanoici.

Il Cn prima di COO- Na+ quindi rappresenta la catena idrocarburica dell’acido alcanoico.

 all’aumentare del numero di atomi di C della catena idrocarburica del tensioattivo, si osserva una
diminuzione del CMC. All’aumentare della catena idrocarburica, cioè, ci sarà una tendenza maggiore
alla micellizzazione. Difatti, più è lunga la catena idrocarburica, maggiore sarà l’effetto idrofobico, di
conseguenza i tensioattivi, per diminuire l’effetto idrofobico, tenderanno a interagire in strutture
micellari.
Dal grafico possiamo trarre delle considerazioni generali:

 la CMC viene dimezzata ad ogni atomo di C


addizionato alla coda idrofobica di un tensioattivo.
Ad esempio se un tensioattivo ha 10 atomi di C e ha
una CMC di 10, aggiungendo un atomo di carbonio,
la sua CMC diventa pari a 5.
 Al contrario, la CMC viene raddoppiata ad ogni
atomo di C che viene sottratto alla catena.

L’EFFETTO DEL GRUPPO IDROFILO SULLA CMC

Perché i tensioativi ionici hano in genere una CMC critica molto più alta rispetto ai tensioattivi non ionici?
Perché le teste idrofile dei tensioattivi nelle micelle sono molto vicine. Quando le teste idrofile hanno una
carica elettrica (ad esempio negli alchil solfati), la formazione delle micelle è sfavorita, dal momento che vi
sono interazioni elettrostatiche di tipo repulsivo (le teste hanno tutte la medesima carica quindi si respingono
a vicenda).

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Quindi, nei tensioattivi ionici, questo effetto repulsivo che destabilizza la micella tende a sfavorire la
formazione della micella. Ecco perché i tensioattivi ionici hanno mediamente una CMC di circa 100 volte
superiore di quelli non ionici A PARITA’ DI LUNGHEZZA DELLA CATENA IDROCARBURICA.

L’EFFETTO DELLA TEMPERATURA SULLA CMC


La temperatura influenza la CMC, e per capire come lo fa, dobbiamo far riferimento a esperimenti che hanno
permesso di costruire dei grafici noti come grafici di transizione di fase.

- In ordinata in genere c’è la concentrazione del


tensioattivo (molare o in g/L);
- In ascissa c’è la temperatura.

Questo grafico mostra che, a seconda della T e della


concentrazione, i tensioattivi possono assumere varie
situazioni:
 Nella regione più in basso nel grafico ci sono basse
concentrazioni di tensioattivo. Quindi, a qualsiasi
range di T preso in esame, quando la concentrazione
del tensioattivo è bassa, c’è sempre la presenza di
UNIMERI.
 Invece, aumentando la concentrazione, ma restando
sotto i 15 gradi, succede che i tensioattivi, avendo
bassa solubilità, formano delle strutture solide dette
SOSPENSIONI CRISTALLINE.

 Se si aumenta sia la T che la conc del tensioattivo, invece, si ha prevalentemente la formazione di


MICELLE.

È molto importante definire che questa linea che demarca la differenza tra la regione di sospensioni cristalline
e quella di strutture micellari si chiama TEMPERATURA MICELLARE CRITICA (CMT). La temperatura micellare
critica è una T:

- al di sopra della quale, se la concentrazione del tensioattivo è maggiore della CMC, si ha la formazione
di micelle;
- al di sotto della quale, invece, se la concentrazione di tensioattivo è superiore alla CMC, si ha la
formazione di sospensioni cristalline (= particelle insolubili di tensioattivo).

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Ogni tensioattivo, così come ha una propria CMC, ha anche una propria temperatura micellare critica. Quindi
la CMT varia in base a:
- natura del tensioattivo
- al tipo di controione utilizzato nel caso dei tensioattivi ionici.

Di conseguenza, sperimentalmente bisognerebbe


lavorare in condizioni in cui:
 la conc di tensioattivo è > alla CMC;
 la T è > alla CMT.

Cosa succede se utilizziamo condizioni sperimentali non contemplate nel grafico? Cosa succede aumentando la
concentrazione del tensioattivo oltre la zona micellare? Cosa succede se aumentiamo la T oltre il range della T
ambientale?

 aumentando la T oltre la T ambiente, per alcuni tensioattivi (come i tensioattivi ionici), non porta a
significative variazioni. Al contrario, nel caso dei tensioattivi NON ionici, questi presentano un diverso
comportamento all’aumentare della T (fino ai 50-80°C). in particolare si verifica il fenomeno di ‘’cloud
point’’ o punto di annuvolamento.

Nel caso di una soluzione micellare di tensioattivi non ionici, a T


ambiente questa avrà un aspetto trasparente; invece, aumentando la T
oltre la T ambientale, si verifica la formazione di una torbidità marcata.
Quindi, nell’utilizzo di tensioattivi non ionici, non va superata questa
temperatura critica di cloud point.

 invece, aumentando la concentrazione del tensioattivo, si verifica la formazione di nuove e diverse


strutture sovramolecolari. Gli unimeri, sopra la CMC formano micelle sferiche aumentando ancora la
concentrazione di tensioattivo, è stimolata la formazione di strutture sovramolecolari più complesse (
esempio: micelle cilindriche, o fasi esagonali e così via). A seconda del tipo di tensioattivo, si possono,
aumentando la conc di tensioattivo, formare strutture sovramolecolari più complesse.
Ottenendole ad alte conc di tensioattivo, queste strutture sovramolecolari sono chiamate anche
mesofasi, cioè fasi intermedie. Sono strutture sovramolecolari che hanno proprietà intermedie tra la
fase liquida e la fase solida: hanno la capacità di fluire dei liquidi e l’ordine strutturale dei solidi.
Queste strutture sovramolecolari si chiamano anche STRUTTURE A CRISTALLI LIQUIDI: ‘’cristalli’’
perché associate alle proprietà dei solidi; ‘’liquidi’’ per l’associazione alle proprietà dei liquidi.

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LEZIONE 37 (16/12/2021)
Emulsioni
Le emulsioni rappresentano un sistema disperso in cui entrambe le fasi sono liquide; tali fasi sono immiscibili:
uno sarà idrofilo, l’altro presenterà delle caratteristiche lipofile. La fase dispersa prende il nome di goccioline,
che possono avere una micro o macro dimensione.
Le emulsioni vengono utilizzate in molti settori, ciascuno dei quali usa nomi differenti per indicare la fase dispersa
e la fase disperdente:

Fase dispersa Fase disperdente


Globuli siero
Dispersa mezzo
Discontinua continua
Interna esterna

Le emulsioni trovano impiego nel settore alimentare, agrochimico, nella sintesi dei polimeri e in campo
farmaceutico. Quelle per uso farmaceutico presentano dimensioni tra gli 0,5 e 50 micrometri di diametro in
media. (si parla di microgoccioline).

Possono essere classificate in base alla struttura in:


 Semplici = sono costituite da due fasi, acquosa e olio. La fase acquosa è così chiamata perché è polare,
ma non è detto che sia costituita da acqua, presenta semplicemente caratteristiche idrofile. La fase
olio è così chiamata perché è apolare, ma esprime semplicemente l’idea di un liquido lipofilo. Le due
fasi sono immiscibili e si può parlare di emulsioni di acqua in olio e emulsioni olio in acqua, due
tipologie funzionalmente diverse.
 Complesse = sono meno utilizzate perché difficili da produrre e stabilizzare. Si dividono in biemulsioni,
in cui la fase disperdente è costituita sempre da una fase acqua (idrofila non necessariamente acqua),
mentre la fase dispersa è costituita da due fasi olio diverse e immiscibili. Sono emulsioni trifasiche. Le
emulsioni complesse possono essere di tipo multiplo (fase olio emulsionata a fase acqua, che a sua
volta èemulsionata in fase olio) e di tipo doppio (la fase disperdente è data dalla fase acqua in cui si
trovano delle goccioline di fase olio che emulsionano una fase acqua)

Le emulsioni possono essere classificate anche in base alle dimensioni in almeno due categorie:
- Classiche = tra gli 1 e 50 micrometri
- Microemulsioni = il termine micro non fa riferimento alla struttura micromerica delle goccioline
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ma indica che si tratta di emulsioni più piccole delle convenzionali.Hanno dimensioni tra i 10 e
100 nanometri
- Nanoemulsioni

Le dimensioni delle goccioline influenzano l’aspetto visivo delle emulsioni: in caso di torbidità, le goccioline
presentano un’azione di scattering sulla luce vis e maggiori sono le dimensioni delle goccioline, maggiore è
l'effetto di scattering e più l’emulsione è torbida. La torbidità viene determinata con una spettrofotometria
ma può essere identificata anche visivamente. Se la gocciolina ha dimensione oltre i 50 micron si osserva un
aspetto lattiginoso, con colore tendente al bianco. Se la dimensione diminuisce fino ad arrivare ai nanometri,
l’aspetto va riducendo progressivamente la torbidità. Si acquista un aspetto limpido, traslucido fino ad arrivare
ad essere trasparente.

Le emulsioni possono essere classificate in base alla stabilità:


 Le microemulsioni sono termodinamicamente stabili, si formanospontaneamente
-di norma i sistemi dispersi sono instabili, perché costituiti da fasi dissimili; ci sono però alcuni casi in
cui i sistemi dispersi sono termodinamicamente stabili, come le microemulsioni e le sospensioni
colloidali liofile-
 Le emulsioni classiche sono termodinamicamente instabili tendendo, quindi, alla completa
separazione di fase. Pertanto, devono essere stabilizzate cineticamente.
Prima di comprendere come si possono stabilizzare le emulsioni, bisogna comprendere gli eventi che
portano l'instabilità; essi sono 3:
1. Rottura delle emulsioni: equivale alla completa separazione di fase
2. Creaming (affioramento): equivale ad una sedimentazione con segno negativo, ovvero le
goccioline invece di muoversi verso il basso del recipiente si muovono verso la superficie;
questo vale solo per un’emulsione di olio in acqua, dove la fase olio è meno densa della fase
acqua. A differenza della rottura, tale processo può regredire. Se si mescola, l’emulsione torna
ad uno stato di dispersione
3. Assemblaggio di goccioline: è il meccanismo che guida verso la rotturadelle emulsioni;
esso prevede la fusione di goccioline e il fenomeno viene detto coalescenza
-è necessario evitare tali processi poiché portano una modifica delle proprietà delle emulsioni, le
quali cambiano le proprie caratteristiche funzionali-

Questi tre processi vengono rallentati in modo da stabilizzare funzionalmente le emulsioni, e questo avviene
grazie all’utilizzo di emulsionanti (eccipienti). Gli emulsionanti si dividono in 3 categorie, che esercitano la loro
azione emulsionante in modo diverso:
- Surfattanti o tensioattivi = sappiamo che i tensioattivi tendono ad adsorbirsi su superfici e interfasi,
creando un monostrato in cui le code lipofile sono dirette verso la fase apolare (fase olio in questo
caso), mentre le teste idrofile sono rivolte verso la fase polare (fase acqua in questo caso)
- Polimeri idrofili
- Particelle solide o nanoparticelle o particelle colloidali

Se si considera l’equazione dell’energia libera di Gibbs, si osserva che con l’uso di tensioattivi la tensione
interfacciale diminuisce; questo avviene perché il monostrato di tensioattivo diminuisce la dissimilitudine tra
fase acqua e fase olio. Ci sono vari tensioattivi che riescono a stabilizzare le emulsioni, perciò, i tensioattivi
abbassano la tensione interfacciale, stabilizzando cineticamente l’emulsione. Presentano anche una funzione
di stabilizzazione sterica o meccanica: è la superficie delle goccioline che influenza la coalescenza. Dunque, se
un film di tensioattivo si deposita sulla superficie della gocciolina, rallenta la coalescenza stabilizzando
meccanicamente le goccioline.

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A seconda del tensioattivo o della miscela utilizzata si ha una diversa efficacia nel ridurre la coalescenza; tale
riduzione dipende dall'effetto di barriera creato dai tensioattivi, che dipende dalla loro geometria:
- alcuni danno un film espanso liquido molto meno efficace. In tal caso le catene idrocarburiche sono
ramificate o insature. Essi danno un minor effetto di stabilizzazione perché hanno una resistenza
meccanica inferiore
- altri formano un film condensato liquido, dove l'impaccamento dei tensioattivi stessi è molto
regolare e compatto. Tale compattezza dipende dalle catene idrocarburiche, in particolare deriva
dalla similitudine dei tensioattivi che costituiscono la barriera

I polimeri idrofili inizialmente avevano origine naturale, oggi hanno anche derivazione sintetica o
semisintetica. Furono le prime molecole ad essere usate come emulsionanti, sono polisaccaridi spesso
complessi e ne sono un esempio le gomme. Per quanto riguarda la stabilizzazione, nel caso in cui le gomme
vengono disperse in acqua danno una dispersione colloidale liofila. Assumono, inoltre, un aspetto viscoso
dovuto alla produzione di un network tridimensionale (gel), struttura che riduce la mobilità, diminuendo la
possibilità di collisione tra goccioline. Sono usati solo per le emulsioni di olio in acqua
Se le particelle solide vengono introdotte in un'emulsione non sono solubilizzate né dalla fase acqua, né dalla
fase olio. Così come i tensioattivi, tali particelle si adsorbono all'interfaccia formando un film, il quale risulta,
però, molto più spesso e meno ordinato di quello ottenuto dai tensioattivi. Creano una barriera intorno alla
gocciolina e in tal modo è evitata o rallentata la coalescenza. Vanno inoltre ad aumentare la viscosità
dell’emulsione, dando emulsioni semisolide.

Le emulsioni in farmaceutica portano a formulazioni liquide e semisolide, e in base all'aspetto macroscopico


liquido o semisolido, hanno indicazioni terapeutiche, uso e somministrazioni diverse.
Possono essere utilizzate per via orale in quanto sono facilmente deglutibili (drinkable), migliorano la compliance
del paziente e le caratteristiche organolettiche (aspetto, colore, sapore) della formulazione.
La presenza di due liquidi fa sì che si abbiano 2 ambienti con proprietà diverse: il principio attivo idrofilo si
solubilizza nella fase acqua, il principio attivo lipofilo nella fase olio. I due principi attivi si trovano in due
compartimenti diversi in modo che non entrino in contatto per evitare la loro incompatibilità. Le goccioline
che racchiudono il principio attivo lo proteggono dalle radiazioni luminose, migliorandone la fotostabilità.
Queste emulsioni possono modificare la farmacocinetica, agendo sulla biodisponibilità: il principio attivo viene
solubilizzato nella gocciolina, per cui è solubilizzato più lentamente nei fluidi biologici.
Come per le sospensioni, anche per le emulsioni si può parlare di emulsioni multidose (soprattutto per
somministrazioni orali) o monodose. Possono inoltre essere usate per produrre sistemi microparticellari usati
in particolari medicinali.

Sono presenti emulsioni usate per la nutrizione parenterale di pazienti in coma o in rianimazione. Tali
emulsioni sono somministrate per via endovenosa continua e sono dette infusioni: vengono usate in grandi
volumi, sono molto delicate, pericolose e una delle più usate si chiama intralipid; esse garantiscono il
fabbisogno calorico e sono emulsioni di olio in acqua dove la fase olio è costituita da una miscela di trigliceridi,
che fornisce al paziente il corretto apporto calorico.

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