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Capitolo 4

LA CRISTOLOGIA
NELLA TEOLOGIA BIZANTINA
DEL SECOLO VI
Carlo Dell'Osso''
4.1. INTRODUZIONE: LA FORMULA DI CALCEDONIA
La riflessione teologica che va dal 451 al 553, cioè dal concilio di Calcedonia a quello di Costantinopoli
II, è incentrata sull'acccttazione o sul rifiuto del dogma calcedonese. Si trattava non di un « simbolo », com'era
stato per il concilio di Nicea, ma di una « definizione» che intendeva precisare il secondo articolo del credo
nice-no-costantinopolitano1 e avere una natura di «sintesi» delle diverse tradizioni cristologiche, emerse
precedentemente in Oriente e in Occidente 2. L'aspetto più rilevante della formula calcedonese, che affermava
l'unica ipostasi/persona e le due nature in Cristo, è la continuità con le formulazioni difisite della cristologia
antiochena, tant'è vero che essa era considerata dai monofisiti una riabilitazione di Nestorio a scapito della
tradizione cirilliana. Certamente la formula calcedonese reagiva alla teologia alessandrina, che aveva trionfato a
Efeso nel 431 e nel 449, rovesciando le decisioni prese solo due anni prima nel cosiddetto « latrocinio » di
Efeso e riabilitando alcuni esponenti del fronte antiocheno-difisita, fra i quali Teodoreto3.
A livello terminologico ricordiamo che si deve all'influsso antiocheno la formula en dyo physesin,
secondo cui Gesù Cristo dopo l'unione è «in due nature», e il termine « persona »/prosopon, associato al
termine alessandrino hypostasis, secondo cui l'unione delle due nature concorre a formare « una sola persona e
una sola ipostasi »; in questa associazione di prosopon e hypostasis scorgiamo la volontà di conciliazione fra le
opposte terminologie e visioni cristologiche voluta dal concilio. In ogni caso la definizione di Calcedonia
presenta in modo simmetrico le due nature e ne salvaguarda l'esistenza e le proprietà distinte anche dopo
l'unione4. Quanto detto non deve indurci a considerare la formula calcedonese come un prodotto esclusivo della
teologia antiochena, poiché la visione dell'unità di soggetto in Cristo, racchiusa nell'espressione «uno e il
medesimo Figlio » (hena kai ton auton), e il rifiuto della divisione dell'unico Cristo in due prosopa è conforme
alla cristologia cirilliana5. Che poi l'espressione mia hypostasis professata nella definizione calcedonese abbia
un contenuto cirilliano è questione controversa, anzi, l'obiezione più marcata a tale interpretazione consiste
nella sua associazione al termine « persona »/prosopon; pertanto sembra che nel pronunciamento dogmatico sia
contenuta semplicemente l'affermazione di un solo soggetto dell'unione in due nature senza riferimento, almeno
esplicito, alla persona del Logos6. Da questo punto parte la riflessione teologica postcalcedonese, specie quella
neocalcedonese, che riconosce nel soggetto dell'unione il Logos e che ha influenzato l'interpre-tazione della
formula dogmatica del concilio, facendo da velo « nel comprendere le intenzioni primitive del concilio,
proiettando sul momento iniziale di quel processo risultati dottrinali che furono raggiunti solo in un secondo
tempo »7.
Dicevamo che si tratta non di un « simbolo » ma di una « definizione»: il che è dichiarato esplicitamente
nel preambolo alle dichiarazioni conciliari, in cui si affermava che la formulazione dogmatica andava intesa in
termini di confutazione dell'eresia, piuttosto che di una elaborazione dottrinale positiva 8, di conseguenza in tal
senso vanno intese le quattro espressioni che descrivono il modo dell'unione: «senza confusione», «senza
mutamento», «senza divisione», «senza separazione»; il che implica l'esclusione dei due errori contrapposti del
nestorianesimo e del monofisismo. Partendo da queste esigenze antiereticali il concilio giunse a creare una
formula dogmatica capace di esprimere in Cristo la distinzione a livello delle nature e l'unità sul piano
dell'ipostasi e della persona'.
È nostra opinione che Leonzio di Bisanzio e con lui gli esponenti del calcedonismo di stretta osservanza
siano i testimoni autorevoli dell'interpretazione della formula conciliare così come è attestato da alcuni studiosi
moderni, secondo cui il Concilio non aveva identificato l'ipostasi con il Logos, come invece avverrà per il
«neo-calcedonismo»; Leonzio, infatti, parla dell'ipostasi come «effetto dell'unione» e non come persona del
Logos. Il che se da una parte conferma il fatto che la formula del concilio non va intesa in senso nestoriano,
dall'altra neppure da spiragli al monofisismo, in quanto nella formula l'unica ipostasi equivale all'unico
prosopon, dunque non rimanda a una realtà superiore/Logos, che in qualche modo monopolizza l'essere del
Cristo, ma alla persona concreta di Gesù Cristo.
In definitiva, la formula calcedonese occupa un posto centrale nella riflessione dei teologi del secolo VI;
essa è intesa come un « punto fermo», invalicabile e allo stesso tempo come l'inizio dell'approfondimento della
questione cristologica, a proposito della quale il concilio aveva lasciato ampi spiragli alla riflessione teologica
successiva. Pertanto la teologia ortodossa di questo periodo nasce all'interno di una posizione apologetica del
dogma calcedonese, attaccato dai monofisiti in nome della tradizione cirilliana, ponendo l'accento soprattutto
sulla permanenza e la distinzione delle due nature all'interno di una discussione sul modo, l'effetto e il soggetto
dell'unione, di cui il Concilio nulla aveva detto.
4.2. EVENTI E PERSONAGGI DEL DIBATTITO CEISTOLOGÌCO TRA LA FINE DEL SECOLO V E LA METÀ DEL VI
Veniamo ora ad alcuni avvenimenti storici utili per la nostra indagine: notiamo che l'impero in quel
periodo era ingaggiato nella lotta contro certe sacche di paganesimo che sopravviveva in alcune minoranze
nella parte orientale dello stesso10; tant'è vero che l'imperatore Giustiniano, quando sali al trono, non era
soddisfatto dello stato della cristianizzazione che egli aveva trovato, ma richiese un ulteriore sforzo
missionario, a capo del quale pose Giovanni di Efeso, che non era affatto un sostenitore di Calcedonia, il che è
molto significativo, se pensiamo che, secondo Michele il Siro, circa 70,000 pagani furono convcrtiti al
cristianesimo, ma non certamente a quello che seguiva una fede di tipo calcedonese11.
Inoltre, nel nostro periodo a Costantinopoli c'era un grande fermento nella discussione cristologica,
derivante dagli ambienti monastici presso cui si formavano i teologi; infatti nel patriarcato ecumenico, dal
Bosforo fino alla Siria, non c'era nulla che corrispondesse alle scuole che esistevano ad esempio in Gaza e ad
Alessandria. Tant'è vero che dalla metà del secolo V il monastero degli Acemeti all'Eirenaion divenne uno dei
centri spirituali e intellettuali più importanti del Bosforo e in quel tempo era il baluardo di difesa dell'ortodossia
calcedonese, anche a dispetto dei patriarchi, che ritenevano quei monaci causa di ribellioni e di agitazioni 12.
Essi furono decisamente calcedonesi ed erano ben conosciuti per la loro importante biblioteca, che fra l'altro
conteneva gli Acta del concilio di Calcedonia e che fu consultata dai più grandi eruditi del tempo. Ma
divennero sospetti per la loro difesa dei tre Capitoli e dopo la loro condanna nel 534 da parte di papa Giovanni
II persero la loro importanza. Possiamo definirli « calcedonesi di stretta osservanza»: intendendo così quella
corrente teologica che si sforzava di sostenere il concilio di Calcedonia contro tutte le accuse di nestorianesimo
e che accoglieva l'unione ipostatica delle due nature, sottolineando che la natura umana di Cristo non è mai
esistita a parte, ma sempre «in Verbo»; inoltre i teologi di questa corrente accettavano di Grillo soltanto quello
che era stato approvato ufficialmente al concilio del 451, pertanto rifiutavano gli Anatematismi e le celebri
formule, non emiliane, « una sola natura del Verbo incarnata » e « unus de Trinitenepassus est»".
Dobbiamo ricordare ancora, che la popolazione di Costanti-nopoli nel secolo VI contava tra i 300.000 e i
400.000 abitanti, il che significa che essa era una fra le più popolose città del tempo, e questa moltitudine di
gente esprimeva la sua voce tramite i cosiddetti « partiti del circo» o quattro fazioni, di cui i più influenti erano
gli «Azzurri» (Venetoi) e i «Verdi» (Prasinoi); benché la ricerca attuale non permetta di sostenere, come era
avvenuto un tempo, che agli Azzurri appartenevano le classi aristocratiche che difendevano l'ortodossia
calcedonese, mentre ai Verdi le classi medie e basse che si orientavano in senso anticalcedonese, tuttavia
possiamo supporre che essi dovettero avere la loro importanza in termini di politica ecclesiastica, come luoghi
di propaganda teologica o almeno come casse di risonanza delle dispute teologiche14.
Veniamo ora ai personaggi più rilevanti fra i teologi del tempo, di cui in questa sede faremo soltanto una
veloce carrellata: fra i patriarchi di Costantinopoli è degno di menzione Gennadio, che fu patriarca dal 458 al
471 e oppositore degli «Anatematismi» di Cirillo. Nella sua produzione letteraria, che ci è giunta in frammenti
catena-li, si rivela letteralista, segue le regole dell'esegesi antiochena e presenta affinità marcate con Teodoro di
Mopsuestia. Gennadio appoggiò le decisioni di Calcedonia, impegnandosi dopo il Concilio contro il
monofisismo15. Macedonie nipote di Gennadio, fu patriarca dal 496 al 511 per designazione dell'imperatore
Anastasio; fu considerato nestoriano da Severo, ma gli estratti del suo «libro», riportati dallo stesso Severo,
sono probabilmente dei falsi e tutto quello che possiamo dire circa questo patriarca è che fu un tenace
calcedonese e con lui furono sempre in comunione gli Acemeti 16. Altri personaggi che si occuparono di
cristologia nella prima metà del secolo VI furono Ipazio di Efeso ed Eracliano, metropolita di Calcedonia, che
scrisse un'opera dedicata a Soterico di Cesarea di Cappadocia. Anche loro vanno inclusi fra i calcedonesi di
stretta osservanza, in quanto nelle loro opere accolgono l'unica ipostasi". Con l'avvento al trono di Giustino e
poi di Giustiniano la corrente del cosiddetto calcedoni-smo stretto sparirà a poco a poco; unico rappresentante
notevole nel periodo giustinianeo è Leonzio di Bisanzio, che è non solo l'ultimo grande esponente di questa
corrente teologica ma anche il pensatore più originale all'interno dell'ortodossia calcedonese 18. Non dobbiamo
trascurare il fatto che quasi tutti questi teologi venivano accusati di nestorianesimo da parte dei monofisiti, in
modo speciale da parte di Severo, che apostrofò buona parte di loro come eretici, anche servendosi di testi falsi.
Al fronte degli osservanti della dottrina cristologica di Calce- ^ donia, si opponeva uno sparuto gruppo di
nestoriani, di cui solo due nomi sono degni di nota: Giovanni d'Egea, conosciuto per una sua lettera a
Teodoreto, scritta subito dopo il concilio di Calcedonia, e Basilio di Cilicia: entrambi rigettavano la formula
calcedonese dell'unica ipostasi; a parte loro, non ci fu una corrente importante e pericolosa di nestoriani
nell'impero bizantino tra la fine del secolo V e la prima metà del secolo VI19.
Fra coloro che si opponevano a Severo, oltre ai calcedonesi di stretta osservanza, abbiamo in questo
periodo gli esponenti del cosiddetto «neocalcedonismo». Va subito rilevato che questi pensatori provenivano
da regioni travagliate dal monofisismo, e cioè il patriarcato di Antiochia e le regioni limitrofe, specialmente
l'Asia Minore e la Palestina, nelle quali il monofisismo non era solo una teoria teologica ma una realtà, un
pericolo concreto20. L'espressione « neocalcedonismo», coniata da J. Lebon sulla falsariga del termine «neoni-
cenismo» e divulgata da C. Moeller, indica quell'impostazione cristologica, per cui la formula calcedonese
delle due nature veniva integrata con gli «Anatematismi» di Cirillo e V«Unus de Trinitate passus» dei monaci
sciti: questa impostazione teologica tendeva a smorzare la polemica con i monofisiti nella prima metà del
secolo VI. Del resto un tentativo di conciliazione con loro era già stato fatto nel 482, quando l'imperatore
Zenone, in occasione dell'avvento al seggio episcopale di Alessandria di Pietro Mongo, aveva promulgato per
consiglio del patriarca Acacio di Costantinopoli l'«Enotico», documento che non soddisfece né i monofisiti
radicali né i calcedonesi, divenendo la causa dello scisma acaciano. Fra i rappresentanti del neocalcedonismo
ricordiamo prima di tutto il monaco Nefalio, un alessandrino che ebbe un ruolo notevole nella vita religiosa
della fine del secolo V e dei primi anni del VI. Della sua apologià in difesa delle due nature e del concilio di
Calcedonia abbiamo alcuni frammenti nelle due Orationes ad Nephaliwn di Severo di Antiochia; fu inoltre
protagonista di violente sommosse contro i monaci severiani in Palestina nel 507 21. Altri esponenti di questo
tipo di cristologia furono Giovanni di Scitopoli, Giovanni di Cesarea, detto anche il Grammatico, di cui
conosciamo l'Apologià del concilio di Calcedonia e che pare sia stato il primo neocalcedonese a presentare un
sistema relativamente elaborato". Con l'avvento di Giustiniano il neocalcedonismo diventerà a poco a poco la
teologia ufficiale; i primi testimoni di questo tipo di teologia furono i monaci sciti, il cui leader Giovanni
Massenzio operò tra il 519 e il 533 tra Costantinopoli e Roma per difendere la formula teopaschita «Unus de
Trinitate passus» e per escludere una interpretazione nestoriana della formula calcedonese 23. In questo partito
abbiamo Efrem, patriarca d'Antiochia, che a metà del secolo VI esplicò un'attività vigorosa contro i seguaci di
Severo e in questo senso fu l'esecutore di un certo tipo di politica ecclesiastica, piuttosto che un teologo. Tra i
veri e propri teorici e teologi del « neocalcedonismo » abbiamo Teodoro di Raithu, monaco e sacerdote presso
Raithu, città portuale a sud-ovest della penisola del Sinai, e il più famoso Leonzio di Gerusalemme,
contemporaneo del nostro Leonzio, una volta considerato un neocalcedonese «in senso stretto», ora
«moderato»24, in ogni caso è considerato da tutti gli studiosi come l'esponente più significativo di questa
corrente teologica.
Abbiamo, infine, il fronte più accanito contro Calcedonia, e cioè i monofisiti, che non si stancarono mai
di ritenere il Concilio ne-storiano, così come tutti coloro che lo difendevano e, in modo speciale, i calcedonesi
di stretta osservanza. Nella seconda metà del secolo V il monofisismo, grazie anche alle vicende legate
all'«Enotico», era molto diffuso e per comodità è stato distinto dagli studiosi in due raggruppamenti:
monofisismo reale e monofisismo verbale25.
H monofisismo più forte in questa epoca fu quello verbale di Severo di Antiochia e di Giuliano di
Alicamasso, anche se altri personaggi, come Timoteo Eluro, Filosseno di Mabburg, Pietro Mongo e altri,
fecero parte di questo fronte teologico, che al suo interno presentava varie sfaccettature e orientamenti diversi.
Severo di Antiochia, prima monaco del monastero di Pietro l'Iberico, poi, dopo essere stato membro del
cenobio di Romano, uno dei più accaniti an-ticalcedonesi, a Eleuteropoli, fondò un monastero a Maiuma nei
pressi di Gaza26, nel 509 si recò a Costantinopoli, dove propagandò efficacemente le sue idee e nel 512 fu
consacrato vescovo di Antiochia. Con l'avvento al trono di Giustino nel 518 fu costretto ad abbandonare la sua
sede episcopale e trovare rifugio in Egitto, donde continuò la sua lotta anticalcedonese fino alla sua morte
avvenuta nel 538. Lo troviamo a Costantinopoli nel 535, invitato da Giustiniano, che cercava l'accordo con i
monofisiti, ma nell'anno successivo venne allontanato dalla Capitale e i suoi libri per decreto imperiale furono
distrutti. Egli dovette combattere contro diversi fronti non solo all'esterno della sua corrente teologica - infatti
ebbe in Nefalio uno dei suoi più aspri oppositori -, ma anche all'interno, come nel caso di Giuliano di
Alicamasso. Fu certamente il personaggio più conosciuto del suo tempo; infatti tutti gli autori della prima metà
del secolo VI parlano di lui e del suo pensiero, pertanto non può essere trascurato in vista della comprensione
delle dispute teologiche del periodo che stiamo esaminando 27. L'ultimo personaggio di questa serie è Giuliano,
vescovo di Alicamasso, che insieme con Severo contribuì alla deposizione del patriarca Macedonio nel 510 a
Costantinopoli e con lui dovette esulare in Egitto dopo l'avvento al trono di Giustino; si distanziò da Severo per
aver sostenuto che il corpo di Cristo era stato sempre, per natura, immune da corruzione, passione e morte.
Questa dottrina sull'incorruttibilità del corpo di Cristo trascinò i due amici in un'aspra polemica, che durò fino
all'anno 52828.
Dunque nella prima metà del secolo VI un'aspra discussione verteva sul concilio di Calcedonia, causata
dall'emergere di tradizioni contrapposte in aree geografiche differenti. Per quanto riguarda queste tradizioni,
dobbiamo ricordare che molti protagonisti delle dispute cristologiche di questo periodo erano monaci; pertanto,
come accennavamo in precedenza, pur non potendo parlare di scuole teologiche, possiamo tuttavia pensare che
i monasteri, oltre a essere una fucina di vescovi, esercitassero un certo influsso sulla formazione e sul pensiero
di questi controversisti. Se, inoltre, è vero che i monasteri dell'area costantinopolitana, fra i quali eccelleva
quello dell'Eirenaion sul Bosforo, sostenevano il concilio di Calcedonia «strictu sensu», mentre quelli di area
palestinese rifiutavano la formula calcedonese 29, possiamo individuare due aree geografiche ben distinte, grosso
modo l'area costantinopolitana con il Ponto e quella palestinese con l'Asia, che si contrapponevano grazie
all'esistenza di alcuni centri spirituali o monasteri, che fungevano da propulsori dell'attività teologica di quel
tempo. D'altra parte il cosiddetto neocalcedonismo si presentava come una corrente trasversale, che cercava una
mediazione tra le opposte tendenze del Calcedonismo di stretta osservanza e il monofisismo. La sua
trasversalità si rivela nel linguaggio, nelle aree di influsso geografico e nel tempo, dal momento che, in un certo
senso, esso continuava quell'orientamento dialogico con il monofisismo, che già l'«Enotico» aveva inaugurato,
così come l'attività di Severo continuava quell'opposizione a Calcedonia, che i più grandi rappresentanti del
monachesimo palestinese della seconda metà del secolo V avevano espresso subito dopo la celebrazione del
Concilio30.
A tutto ciò si aggiunga il fatto che la questione cristologica aveva messo in risalto grossi problemi circa
l'uso dei termini, per cui mentre la formula della mia physis bandiva il fantasma nestoriano, quella delle duo
physeis respingeva quello eutichiano, così che entrambe le tendenze legittimavano l'uso di linguaggi diversi,
entrambi necessari come condizioni per l'ortodossia. Allo stesso modo si sentiva l'esigenza di combinare la
cristologia « dall'alto » e quella « dal basso », come condizioni per la comprensione del mistero del Cristo31.
4.3. LA QUESTIONE CRISTOLOGICA NEL SECOLO VI
4.3.1. ^importanza del concilio di Calcedonia
L'importanza del concilio di Calcedonia può essere misurata a due livelli: sul piano dell'impatto storico,
vale a dire del travagliato processo di ricezione nella vita della Chiesa antica fino alle soglie dell'epoca
medievale; nel lungo periodo, cioè col riconoscimento del risultato dottrinale del 451 come elemento
essenziale del patrimonio ortodosso delle principali Chiese di Oriente e di Occidente fino ai nostri giórni32.
La centralità di Calcedonia è evidente nel periodo di cui ci occupiamo, ossia fino alla metà del secolo VI,
poiché sancì la riconciliazione della teologia emiliana col dogma delle due nature in Cristo, sia pure nella
prospettiva tracciata dalla definizione del 451. Si tratta di una problematica centrata sul nucleo ontologico della
cristologia, piuttosto che sulle dimensioni storico-salvifiche, soteriologiche o antropologiche. Tale
ontologizzazione della cristologia — un processo di vecchia data, ma che si intensifica nei pronunciamenti
conciliari da Calcedonia al Costantinopolitano III - solleva numerosi interrogativi e rilievi critici 53: così che si
pone la domanda se siamo in presenza di un progressivo depotenziamento degli aspetti soteriologici, oppure
questi stessi dibattiti teologici, pur con le loro ricadute dogmatiche così astratte ed essenzialiste, esigono
necessariamente una chiave di lettura antropologica e soteriologica34.
D'altra parte, se osserviamo più da vicino la formula conciliare, notiamo che i contrasti che segnano il
lento processo di ricezione del IV concilio sono in un certo senso determinati dalla stessa natura di « sintesi »,
che la definizione dogmatica assunse rispetto alle diverse tradizioni cristologiche emerse nel corso dei secoli
IV-V in Oriente e in Occidente. L'orizzonte geografico deve, infatti, allargarsi anche a quest'ultima area sia per
l'influsso più o meno diretto ed efficace sulle vicende della politica ecclesiale, sia per il suo apporto a livello
dottrinale al dialogo con l'Oriente35. Pur con evidènti limiti il dogma di Calcedonia si presentava di fatto come
un complesso sforzo di equilibrio tra cristologia antiocheno-difisita e cristologia alessandrino-rnonofisita, con il
contributo del pensiero occidentale latino, racchiuso in sintesi nelle formulazioni di Leone Magno. Tuttavia a
causa di personalismi e conflittualità esacerbate si bloccò per molto tempo l'adesione al dogma del 451, e la
complicata elaborazione dei suoi contenuti ne rese difficile la presentazione e l'interpretazione 36. Di
conseguenza, una feconda presenza del Concilio nel pensiero teologico non divenne possibile finché le
virtualità positive insite nella sintesi dottrinale del 451 non vennero alla luce, superando le impressioni di
unilateralità, veicolate spesso dagli awersari nel clima aspro delle polemiche. Per questo motivo i diversi
elementi che compongono il pronunciamento dottrinale furono allo stesso tempo di ostacolo e di aiuto per la
sua ricezione, predeterminando così le contrastanti dinamiche di essa durante il secolo che va dal 451 al 553.
4.3.2. La tradizione drilliana
L'abbandono della formula della mia physis, che era stata accolta nel cosiddetto «latrocinio di Efeso» nel
449 insieme con gli Anatematismi, ma soprattutto il rigetto dell'espressione cirilliana da due nature prima
dell'unione, non debbono trarre in inganno inducendo all'idea che il concilio conceda un omaggio puramente
formale al pensiero di Cirillo, quando nel preambolo alla « definizione » lo menziona come autorità dottrinale
accanto a papa Leone. Al contrario, la fedeltà dei Padri di Calcedonia al grande Alessandrino è indicata da vari
indizi: pienamente conforme all'ispirazione basilare della cristologia di Cirillo è la visione dell'unità di soggetto
in Cristo, entro la quale è racchiuso il nucleo principale del pronunciamento dogmatico: « Uno e medesimo
Figlio » (ena kai autori): è questo il motivo che introduce la prima parte della definizione e ne conclude la
seconda, oltre a intervenire una terza volta sulla soglia della controversa formulazione difisita, come a dare la
sua vera chiave interpretativa. Pertanto l'affermazione della distinzione delle due nature non compromette il
riconoscimento della loro unione, sottolineato anche dal rifiuto di una divisione dell'unico Cristo in due
prosopa". La convergenza di intenti a questo proposito trova un riflesso terminologico nell'assunzione del
concetto di hypostasis, per indicare il soggetto dell'unione, sebbene esso non fosse più da intendere
esclusivamente in senso emiliano in seguito al suo accostamento a prosopon.
In ogni caso la dipendenza da Cirillo può essere ancora accertata grazie ad alcuni prestiti letterari e
concettuali ricavata dai documenti dottrinali più autorevoli del patriarca alessandrino, ossia la seconda lettera a
Nestorio e la lettera di pace a Giovanni di Antiochia. Basandosi su questi testi, si è sostenuto che la mia
hypostasis professata nella definizione calcedonese abbia un preciso contenuto cirillia-no, rinviando al principio
àeW.'unione secondo l'ipostasi, com'era stato formulato dall'Alessandrino nell'Epistola 2 a Nestorio 38; ma altri
studiosi hanno obiettato che non bisogna sopravvalutare ì'animus cirilliano del pronunciamento dogmatico, in
quanto non si può ignorare che l'accento della definizione dogmatica battesse sulla piena riproposta della
cristologia difisita, sia pure entro una visione che contemplava l'unità del soggetto 39. Tocchiamo qui un
problema delicato, che è quello che darà luogo a molta riflessione teologica tra il IV e il V Concilio, ossia fino a
che punto i Padri di Calcedonia abbiano avuto coscienza del modo dell'unione tra le due nature indicando il
soggetto di essa proprio nella persona del Logos40. È difficile qui sottrar-si all'impressione che la storia della
riflessione postcalcedonese tenda a farci da velo nel comprendere le intenzioni primitive del concilio, come
accennavamo in precedenza. Ora, se è vero che nel 451 si arrivò a distinguere tra physis e hypostasis,
superando la loro associazione e identificazione cirilliana, d'altra parte l'accostamento tra hypostasis e prosopon
dimostra come il preteso chiarimento concettuale e terminologico fosse ancora abbastanza relativo, sicché
quanto al significato di hypostasis come soggetto dell'unione possiamo supporre che a quel tempo ci fu tutt'al
più una intuizione in tal senso, ma non ancora una formulazione precisa41.
4.3.3. Il monofisismo severiano
Se vogliamo comprendere la dinamica dello sviluppo del pensiero calcedonese verso il neocalcedonismo,
occorre dare uno sguardo alla teologia anticalcedonese di parte monofisita. Verso la fine del secolo V la scena è
dominata dai teologi monofisiti, o quanto meno sono loro a lasciarci le testimonianze più notevoli; né è
pensabile un'apologià organica del dogma calcedonese senza il contraltare dialettico rappresentato
principalmente dagli autori monofisiti42. Costoro vedono in Cirillo il criterio dell'ortodossia e si ispirano
all'Alessandrino quanto al modo di fare teologia; basandosi sul ricorso all'argomentazione patristica, infatti,
secondo Timoteo Eluro, la vera dottrina della Chiesa è documentata dalla tradizione dei Padri, che contrasta
con quella del Tomus e di Calcedonia, che invece collimano con le dottrine eretiche di Nestorio. Questo
monofisita alessandrino, che organizzò con Pietro Mongo l'opposizione monofisita in Egitto, seppure debitore
di Cirillo per i suoi estratti patristici, fornirà del materiale suo agli autori posteriori, alimentando un'epoca aurea
per il florilegio dogmatico, che vede gli ambienti monofisiti particolarmente solerti in questo campo'13.
Ma fra i teologi monofisiti il discepolo più fedele di Cirillo e l'unico degno di una certa rappresentatività
è Severo di Antiochia* 1. Egli univa in sé una buona preparazione culturale, frutto di studi let-terari e giuridici
ad Alessandri^ e Berito, e una formazione monastica ricevuta nella Palestina monofisita tra Eleuterpoli e Gaza.
Fu patriarca di Antiochia e un grande polemista, specie contro i teologi neocal-cedonesi: Nefalio e Giovanni di
Cesarea; assieme alla polemica an-ticalcedonese, che occupa gran parte dei suoi scritti, aggiunse le critiche alle
idee espresse da alcuni monofisiti radicali, specie contro l'af-tartodocetismo di Giuliano di Alicarnasso 45. Egli
raccolse l'eredità ci-rilliana, dando organicità alla terminologia, infatti per lui physis equivale a natura
individuale e concreta, perciò corrisponde a hypo-stasis e aprosopon; secondo lui, l'unione delle due nature
avviene secondo la physis o hypostasis del Logos, senza che questa sopprima la distinzione tra le due nature,
ossia le proprietà specifiche: in tal senso si serve del modello antropologico, poiché l'unione tra anima e corpo
nell'uomo illustra bene l'unione tra divinità e umanità in Cristo' 16. Secondo lui, l'umanità non può essere intesa
come «natura», perché ciò comporterebbe due ipostasi nel Verbo incarnato; di conseguenza solo in teoria si può
parlare di due nature in Cristo, in realtà l'unione procede « da due nature » e genera una sola ipostasi o natura
composta. Severo insiste nell'affermare che il Verbo è il soggetto dell'unione e che l'umanità non ha esistenza
indipendente prima dell'unione. Benché egli non adoperi la terminologia dei «neo-calcedonesi », in pratica
troviamo in lui il concetto che l'umanità è « enipostatizzata » nel Verbo; in tal senso la distanza con la teologia
neocalcedonese si riduce a un dissidio terminologico: da una parte, infatti, notiamo l'attaccamento dei
neocalcedonesi alla formula delle due nature, dall'altra, il sostegno incondizionato della formula della mia
physis.
43.4 Dal calcedonistno al neocalcedonismo
All'indomani del concilio di Calcedonia, tra il 451 e il 453, una ribellione guidata dai monaci scuoteva la
Chiesa di Palestina, offrendo un significativo preannuncio delle molte opposizioni che il concilio avrebbe
incontrato. Per giustificare le decisioni conciliari, tacciate di nestorianesimo per la formula delle due nature, si
scelse una via minimale nella loro interpretazione, e cioè si sostenne che il termine «natura» equivaleva a verità
della divinità e dell'umanità, così che la formula conciliare veniva a essere una semplice conferma della fede
nicena. In realtà, la definizione di Calcedonia era vista come uno strumento nelle mani della gerarchla per
combattere gli eretici, ma si stentava a vedere in essa un contributo dogmatico e tanto meno una interpretazione
vincolante per la cristologia. Il perdurare delle riserve monofisite portò a una neutralizzazione di tale formula
nel 482, quando l'imperatore Zenone promulgò l'editto Henotikon, in cui si concedeva ai monofisiti il
riconoscimento dell'autorità dottrinale degli Anatematìsmi di Cirillo, già accolti nel cosiddetto latrocinio di
Efeso del 449, ma ignorati da Calcedonia; si criticava un'espressione del Tomus di Leone, che distingueva le
azioni in Cristo in rapporto alle nature; infine, si dedicava soltanto una postilla a Calcedonia per osservare che
chiunque avesse espresso opinioni diverse in quel concilio o in altre occasioni era oggetto di condanna; dunque
verso la fine del secolo V assistiamo a una evoluzione della riflessione cristologica tutta in senso cirilliano,
anche se era evitata l'espressa denuncia del Tomus e del dogma del 45147. Questo editto scontentava tutti: i
monofisiti radicali, che volevano un'aperta denuncia del Tomus e del IV Concilio, Roma e gli ambienti difisiti,
che si richiamavano a Calce-donia e che non accettavano un declassamento così palese del Condito, poiché esso
non veniva più richiesto come condizione di ortodossia. Dopo alcuni anni di forti tensioni tra Costantinopoli e
Roma sul versante politico si prese atto che occorreva ancorare nuovamente l'ortodossia al dogma del 451, pena
la rottura con l'Occidente. È quanto avvenne a partire dal 518, con la restaurazione calcedonese di Giustino
(517-527), proseguita da Giustiniano (527-565). Non si trattava, tuttavia, di una pura e semplice
riappropriazione di Calcedonia, ossia di una nuova fase difisita, perché pur accogliendo il concilio come norma
di ortodossia, il suo contenuto veniva visto in relazione alla tradizione cirilliana: in quest'ottica teologico-
politica nasceva il neocalcedonismo''8. Dunque, dal punto di vista teologico non si comprende il secolo VI senza
conoscere il « neocalcedonismo », inteso come quell'orientamento teologico che integrava la formula di
Calcedonia con quella Unus de Trinitate passus est dei monaci sciti e con i dodici anatematismi di Cirillo e che
al concilio di Costantinopoli del 553 avrebbe identificato l'ipostasi di Cristo con il Logos.
4.4. UN SAGGIO DELLA TEOLOGIA BIZANTINA DEL SECOLO VI: LEON-ZIO DI BlSANZIO
Non è nostra intenzione in questa sede affrontare le questioni prosopografiche e teologiche legate alla
figura di Leonzio di Bisanzio, ma desideriamo presentare soltanto alcuni aspetti della sua cristologia, che,
secondo noi, rivelano un « calcedonismo di stretta osservanza », o un « paleocalcedonismo », che almeno nella
prima metà del secolo VI conviveva con il « neocalcedonismo ».
4.4.1. Il difisismo di Leonzio
Uno dei motivi dominanti della cristologia di Leonzio di Bisanzio è il difisismo, ossia l'affermazione
della permanenza e della distinzione delle due nature in Cristo dopo l'unione; troviamo questa concezione nelle
opere polemiche, che egli scrive contro il monofisismo severiano, e cioè neìl'Epilysis e nei Triginta capita
cantra Seve-rum^. Leonzio rifiuta la cristologia della mia physis di stampo severiano, poiché la percepiva in
netto contrasto con la formula calcedonese, di cui egli voleva essere un esplicito difensore 50. Tenendo presente
questa posizione apologetica e le circostanze polemiche, in cui Leonzio si trovò a esporre il suo pensiero,
veniamo ad alcune obiezioni che i monofisiti ponevano alla formula delle due nature. Un'obiezione molto
ricorrente riguardava l'uso del numero due in cristologia, in quanto l'enumerazione avrebbe significato
l'immediata divisione delle realtà enumerate51, per questo Severo e coloro che sostenevano la formula della mia
physis aborrivano la dualità, anzi ritenevano la « diade » un male intollerabile per la cristologia 32: il che
significava favorire una unità, priva di quantità e indivisibile, rifiutando qualsiasi tipo di enumerazione.
Leonzio conosceva bene quest'obiezione, formulatagli dallo «stolto» in Epilysis 1917D-1920A e rispondeva
che «la natura del numero considerata in se stessa né unisce, né divide, né ha realtà sottostanti» 5'; il numero,
dunque, dipende dalle realtà contate e non viceversa, di per sé esso è neutro, così che una realtà non è divisa se
è contata o enumerata, ma la divisione o l'unità dipende dalla realtà stessa, di cui il numero è soltanto
indicativo. Se poi applichiamo questo discorso alle nature e ne enumeriamo ad esempio tre: quella del cavallo,
dell'uomo e del bue, intendiamo non la loro divisione riguardo alla quantità, ma la diversità quanto alla specie;
lo stesso vale per l'incarnazione, quando riconosciamo due nature in Cristo intendiamo dire la diversità della
specie, non la loro divisione54. In realtà quest'obiezione è secondaria rispetto alle più gravi osservazioni dei
monofisiti contro il difisismo, ma doveva essere, per così dire, l'ouverture del discorso antidifisita, che negava
l'ortodossia della formula delle due nature.
L'obiezione più acuta contro il difisismo risiede nell'affermazione che a ogni natura corrisponde una
propria ipostasi, dunque se in Cristo permangono le due nature dopo l'unione, necessariamente si dovranno
riconoscere in lui anche due ipostasi, il che contraddirebbe 0 dettato del dogma conciliare che esplicitamente
parla di «una sola ipostasi» e rivelerebbe l'errore nestoriano 55. Leonzio risponde premettendo che il piano
teorico delle definizioni è diverso da quello concreto della realtà, per cui la definizione di natura si trova su un
piano differente rispetto a quello dell'incarnazione56, dunque non si può impostare la questione cristologica
come se si trattasse di una discussione relativa ai verba piuttosto che riferita alle res. Posta questa premessa,
Leonzio ritiene inammissibile la tesi dei monofisiti secondo cui si può parlare di due nature soltanto prima
dell'unione e non dopo, perché «l'unione del Verbo fu simultanea all'esistenza dell'umanità» 57, in altre parole
non si può pensare al «Verbo incarnato» in quanto tale, cioè a Gesù Cristo uomo/Dio, immaginando la sua
natura umana e divina come due entità separate, in quanto esse non esistettero mai come tali né prima, né dopo
l'unione; né si può pensare di dividere due realtà che non furono mai in relazione fra loro, se non
nell'incarnazione; soltanto «con il pensiero e il ragionamento» le due nature si potrebbero dividere, ma in realtà
e «in atto», vale a dire nell'incarnazione, esistono sempre unite. Anzi Leonzio esplicitamente afferma che non si
può pensare di dividerle, se prima non fossero state unite, così infatti scrive nell'Epilyszs: «È assurdo accettare
la divisione prima dell'unione oppure prima della relazione tra le due, poiché non c'è privazione prima della
relazione o la relazione prima di quelle realtà in cui si vede la relazione»58.
Pertanto, la formula calcedonese delle due nature non fa riferimento alla preesistenza delle nature ma alla
loro permanenza in Cristo dopo l'unione, e cioè nell'incarnazione. Infatti l'assenza di relazione tra le due nature
prima dell'incarnazione pregiudica qualsia-si tipo di rapporto tra le due, poiché se non interviene una relazione
tra le due nature, e cioè se non avviene l'incarnazione, non si può parlare né di unione, né di divisione. In tal
senso Leonzio richiama continuamente alla concretezza; infatti, secondo lui, la realtà «attuale»
dell'incarnazione è prioritaria rispetto a qualsiasi tipo di relazione o di interpretazione del dato teologico; e, di
conseguenza, le « realtà in relazione» hanno più importanza della relazione stessa: in definitiva le res hanno
sempre la priorità rispetto ai verba.
Dunque, non esiste divisione delle due nature in Cristo né assolutamente prima dell'unione, in quanto le
nature non hanno nessun tipo di relazione fra loro, né dopo l'unione, se non soltanto da un punto di vista teorico
o mentale, così che Leonzio rifiuta la formula monofisita « da due nature » ed evita l'interpretazione nestoriana
della formula «in due nature». Notiamo inoltre che la mancanza di divisione nelle due nature non genera
confusione, in quanto « le realtà assunti per la composizione restano perfette »: questo è il rimprovero che
Leonzio fa a Severo, ossia la confusione delle nature, che implica di conseguenza il riconoscimento di «una
sola natura del Verbo incarnato ». Alla base del suo difisismo Leonzio pone la perfetta integrità delle nature
nell'unione, infatti così scrive: « Se la divinità e l'umanità unite secondo la sostanza non conservano nell'unione
le loro proprietà naturali, si confondono e non resta né la divinità, né l'umanità, ma è confezionata un'altra
specie di sostanza nata da queste, che non è la stessa dei suoi componenti. Ma che cosa potrebbe essere più
empio e detestabile di questo da pensare e una volta pensatolo da insegnare? »59
Allora, partendo dalla constatazione che le barriere naturali sono insormontabili, per cui la divinità e
l'umanità sono irriducibili l'una all'altra, Leonzio nega l'unica natura dopo l'unione, la mescolanza e confusione
delle nature in Cristo. L'unione inoltre non distrugge le proprietà naturali, in assenza delle quali non ci
sarebbero nemmeno le nature; anzi, l'esistenza e la permanenza di queste proprietà confermano la permanenza
delle due nature dopo l'unione; pensiamo ad esempio all'onnipotenza o alla capacità di fare miracoli - per la
divinità - e al raziocinio - per l'umanità - presenti nel Verbo incarnato e per questo denotanti la sua duplice
natura. Di conseguenza, Leonzio afferma che Cristo «per le proprietà che lo distinguono dal Padre è in coesione
con la carne, come per le proprietà naturali che lo uniscono al Padre è diverso dalla carne »60. Infine, non ha
senso parlare di una «natura composta», in quanto essa da una parte distruggerebbe l'integrità delle due nature,
dall'altra creerebbe un ibrido, e cioè un tertium quid né perfettamente umano, né perfettamente divino, che non
è dato ammettere in cristologia.
In definitiva ci sembra che l'impostazione difisita della cristologia di Leonzio non sia soltanto una
risposta agli attacchi che i monofisi-ti severiani e giulianisti scagliavano al dogma calcedonese in nome della
tradizione cirilliana, ma sia dovuta anche a un'esigenza di concretezza, derivante dalle sue concettualizzazioni
sulla natura, per cui ogni natura resta sempre se stessa e tale tende a conservarsi; ora, anche l'incarnazione del
Verbo rispetta le leggi naturali senza stravolgerle e senza creare un monstrum, quale sarebbe stata l'unica natura
dei monofisiti. Certamente non è nella speculazione sulle due nature che va ricercata l'originalità della teologia
leonziana, egli stesso, infatti, rivela le sue fonti, quando allega nel suo primo florilegio i brani dei Padri del
difisismo ortodosso; tuttavia il riconoscimento e la permanenza delle due nature dopo l'unione sono il
presupposto necessario dei temi della cristologia leonziana relativi al modo, all'effetto e al soggetto dell'unione.
4.4.2. Il modo dell'unione
Uno dei problemi che genera l'affermazione di un forte difisismo riguarda il «modo dell'unione», vale a
dire la modalità in cui le due nature vengono in relazione. Leonzio come nessun altro prima di lui ha affrontato
e, in un certo senso, ha enfatizzato questo problema61, infatti egli afferma che esistono vari tipi di unione62 e che
ci sono grandi perplessità e polemiche riguardo a questo problema, così leggiamo in CNE I: « Dal momento
che tutta la polemica si è scatenata riguardo al modo dell'unione, sconosciuto dalla maggioranza e per questo
messo in dubbio da tutti, occorre che si discuta riguardo a quest'unione... »63.
Leonzio avverte che i molti dubbi su questo argomento aprono la strada per un approfondimento della
riflessione sulla formula di Calcedonia e allo stesso tempo sa che questa discussione è centrale per la
comprensione del mistero di Cristo. Di conseguenza, prende subito posizione contro quelle forme di verbalismo
teologico che potevano allontanare dalla realtà e dalla concretezza del mistero di Cristo, che Leonzio
continuamente pone al centro della sua riflessione teologica, e per questo motivo afferma che il problema
relativo al modo dell'unione è uno dei «principi primi» della cristologia, poiché affronta la questione relativa al
«come il Verbo fosse nell'umanità perfetta»64; in quanto «contiene il grande mistero della nostra religione» 65;
infine perché «non 0 tempo dell'unione, né il luogo, né l'imperfezione del corpo, ma il modo dell'unione ha fatto
sì che si realizzasse l'unico Cristo »66.
Leonzio non esita a dire che tale modo di unione è kat'ousian, si tratta di una henosis ousiodes1"', cioè di
una unione essenziale, che potremmo tradurre anche con «unione secondo l'essenza», o «unione che riguarda
l'essenza», oppure «unione di essenze»68, quindi è subito chiaro che non si tratta di una unione accidentale. Tale
unione essenziale o sostanziale segue una via intermedia tra quella che divide le due nature e le unifica in modo
accidentale o estrinseco, tesi propria dei nestoriani, e l'altra che le confonde, distruggendone il carattere
specifico, dottrina propria degli eutichiani.
È per questo che Leonzio definisce soltanto l'unione essenziale come Kyrios henotike, cioè « unitiva nel
senso proprio e corretto », in quanto è in sintonia con la formula calcedonese, che dogmatizzava un'unione
«senza confusione e senza divisione». Nell'unione essenziale le due nature restano integre nella propria i8toxr|
c;, intesa come « carattere specifico » o « specificità propria », e nei relativi idiomata. Ora, se nell'unione le
nature si conservano immutabili e perfette, la comunione fra loro è possibile soltanto a livello delle proprietà, e
viceversa non sarebbe ammissibile uno scambio di proprietà, cioè la communicatio idiomatum, se le fonti
generanti tali proprietà non restassero perfette. In tal senso l'unione è detta da Leonzio « essenziale», in quanto
si stabiliscono «relazioni essenziali tra nature che sono di specie differenti» 69, vale a dire che le relazioni che si
stabiliscono fra le essenze non eliminano le loro differenze specifiche nell'unione.
Ma oltre a essere «essenziale», quest'unione è definita da Leonzio anche «enipostatica»; infatti, mentre
verso la fine del I libro del CNE polemizza con coloro che non volendo prendere posizione nel dibattito
sull'unione delle due nature e «temendo le accuse di empietà» 70, ostentano rispetto verso Dio e dicono che
quest'unione è «indicibile», Leonzio dice che «è veramente indicibile e inconcepibile l'unione secondo
l'essenza, essenziale ed enipostatica». Ora se noi intendiamo il termine enhypostaton con «ciò che è
nell'ipostasi», ossia le qualità essenziali71, e se nell'unione le nature conservano l'integrità, cioè tutte le loro
proprietà e qualità essenziali, il senso di unione enipostatica dovrebbe essere quello di una unione, in cui
entrano in relazione due nature nelle quali sono « realmente esistenti le qualità essenziali» e cioè Y
enhypostaton. Dunque il fatto che nell'unione persistano realmente le qualità essenziali, e queste non si
confondano, assicura l'integrità delle nature stesse, e viceversa il fatto che le nature abbiano tutte le qualità
essenziali loro proprie permette la comunione diretta fra loro. In tale sistema Venhypostaton rende possibile il
contatto delle due nature ed evita la loro divisione, che altrimenti in una struttura così difisita sarebbe il
pericolo più ovvio e porterebbe all'errore nestoriano. Inoltre la presenza delle qualità essenziali delle due
nature, cioè AéN enhypostaton, nell'ipostasi è una ulteriore conferma che l'unione delle due nature è di tipo «
essenziale », perché tali qualità mai esisterebbero se non in presenza della natura loro corrispondente, e perché
esse testimoniano che tale unione non ha generato cambiamenti « qualitativi » nelle nature.
4.4.3. L'effetto dell'unione: l'unica ipostasi
Se riguardo al «modo dell'unione» Leonzio registrava una discussione aperta fra i teologi 72 e se
sull'«unione essenziale» riconosceva che in realtà si poteva intendere solo in modo analogico 73, non così
affermava riguardo all'effetto di tale unione, che secondo lui era chiaramente l'unica ipostasi, chiamata anche «
persona », « indivisibile », « sostrato » 74. Il chiarimento di tale concetto va cercato nel termine apotelesma, che,
secondo Grillmeier, Leonzio ha utilizzato per primo, caricandolo di un forte significato cristologico 75. Prima di
tutto notiamo che, per Leonzio, i termini hypostasis e prosopon sono sinonimi; in un certo senso questi termini,
che nella definizione di Cal-cedonia erano semplicemente giustapposti, ora divengono l'uno l'equivalente
dell'altro e assumono l'uno il significato dell'altro 76; si tratta di un'equivalenza che rimanda a esigenze di
«concretezza», il che è confermato dagli altri due termini adoperati in senso sinonimico, quali atomon e
hypokeimenon, che come prosopon e hypostasis indicano l'effetto dell'unione. In vari passi Leonzio parla
dell'ipostasi rilevando sempre questo aspetto di concretezza; infatti all'inizio di CNE I, afferma: «L'ipostasi
indica qualcuno (ton lina)... definisce una persona con le caratteristiche proprie»77.
La conferma più evidente che il concetto di ipostasi rimanda a un « qualcuno » con note caratteristiche
individualizzanti e incomunicabili si legge nel testo seguente: «Designano l'ipostasi la figura, il colore, la
grandezza, il tempo, il luogo, i genitori, l'educazione, l'istruzione, etc. La somma di tutte queste cose dice che di
nessun altro si possono dire veramente, se non di un solo uomo, cioè di un tale individuo»78.
Quando, dunque, diciamo «Gesù Cristo», intendiamo l'unica ipostasi del Verbo e dell'uomo e con ciò
richiamiamo quel concreto personaggio vivente in un determinato tempo, luogo, con quei genitori, con un
determinato aspetto, colore della pelle, con la propria formazione ed educazione, vale a dire le caratteristiche
di un uomo soltanto e che fanno sì che quell'uomo sia diverso da tutti quanti gli altri; ecco perché in Leonzio
l'ipostasi oltre a implicare il concetto di prosopon, inteso piuttosto esteriormente come le caratteristiche
esteriori di un individuo, comprende anche il significato di atomon, cioè di individuo, « indivisibile » e non
omologabile a nessun altro della stessa specie.
In questo senso Leonzio ci sembra vicino al pensiero degli occidentali, in modo speciale al pensiero di
papa Leone, che Leonzio conosceva bene e reputava uno dei più grandi baluardi contro gli errori di Eutiche e
di tutte le possibili forme di monofisismo radicale 75; fra l'altro, nel Tomus ad Flavianum papa Leone aveva già
affrontato e confutato chi osava definire passibile la divinità, chi mescolava e confondeva le due nature, chi
considerava la natura umana di Cristo come celeste o diversa dalla nostra, chi vaneggiava due nature prima
dell'unione e poi si inventava una sola dopo di essa. Ci sembra, dunque, che oltre che della cristologia
antiochena Leonzio risenta anche degli influssi della teologia occidentale, che era stata sempre attenta a
distinguere le due nature in Cristo e a sottolineare la loro unione nell'unica «persona»; tale nostra opinione ci
sembra confermata dai brani dei Padri latini che Leonzio riporta nei florilegi: e cioè Bario, Arnbrogio,
Agostino80.
Leonzio conosceva sicuramente il Tomus ad Flavianum e l'epistola 165 di papa Leone all'imperatore
Leone, che conteneva l'antologia, da cui provenivano i brani riportati nel florilegio allegato a CNEI; anzi,
supponiamo che attraverso queste due iettere leonine giunse a Leonzio l'influsso delle concezioni della teologia
occidentale, da cui egli aveva mediato l'identificazione di ipostasi e di prosopon, identificazione che era già
avvenuta a livello concettuale nel termine latino persona, comunemente tradotto in greco con prosopon, ma che
non aveva la genericità del termine greco, tant'è vero che in ambito latino esso era stato adoperato da
TertuUiano e da Iiario sia in accezione cristologica sia trinitaria 81. Dunque la pregnanza concettuale del latino
persona, che in effetti implicava il significato dei termini greci ipostasi e prosopon, in un certo senso avrebbe
favorito, in un teologo di lingua greca, l'omologazione dei due termini, come è avvenuto in Leonzio 82. Un altro
elemento che avvicina Leonzio alle concezioni cristologiche dei latini è la sua visione dell'ipostasi come
l'effetto dell'unione, il che se non è espresso nei latini cosi chiaramente come in Leonzio, tuttavia negli
occidentali la visione dell'ipostasi come un individuo concreto portava a conclusioni analoghe a quelle del
Bizantino8'; a ciò si aggiunga il fatto che il « calcedonismo di stretta osservanza » stentava a identificare
l'ipostasi di Gesù Cristo con quella del Verbo e non trovava tale identificazione né nella definizione del
Concilio84, né nel Tomus ad Flavianum®'.
In conclusione, l'ipostasi di Gesù Cristo è l'effetto dell'unione essenziale delle due nature così come un
singolo individuo umano è l'effetto dell'unione dell'anima e del corpo; questa ipostasi si può dire anche
prosopon/petsona nel senso latino del termine e non nel significato orientale troppo esteriorizzante; l'ipostasi in
quanto individuo, « indivisibile », atomon è in relazione sia con la natura divina sia con quella umana e da
completezza a entrambe le nature; inoltre essendo essa l'unica ipostasi di due nature non può coincidere con il
Verbo, che come vedremo in seguito funge da «soggetto dell'incarnazione» e non da «effetto dell'unione». Da
qui vengono due conseguenze: la prima riguarda la communicatio idiomatum che si realizza concretamente
nell'individuo Gesù Cristo, dove avviene l'interscambio delle proprietà delle nature; la seconda riguarda
l'impostazione teologica di Leonzio sempre più lontana dal « neocalcedoni-smo» e più vicina alle suggestioni
del difisismo antiocheno e della teologia occidentale.
4.4.4. Il soggetto dell'incarnazione
La forte difesa del difisismo calcedonese da parte di Leonzio ha influenzato tutte le problematiche
cristologiche fin qui esposte, in modo speciale quelle relative al modo dell'unione delle due nature, all'effetto
dell'unione e alla communicatio idiomatum; il dubbio che potrebbe sorgere riguardo a questo tipo di
impostazione teologica sarebbe quello di celare una forma larvata di nestorianesimo, in quanto l'affermazione
della permanenza delle due nature dopo l'unione poteva portare al riconoscimento di due Cristo e due Figli.
D'altro canto, mentre Cirillo e Severo insistevano sulla determinazione del soggetto dell'incarnazione, che era
stata chiaramente affermata in Gv 1,14, secondo cui il Logos è presente nella carne, nell'indagine cristo-logica
di Leonzio non era il Logos a occupare un posto di rilievo, ma 'A fati accompli « Gesù Cristo », che è per lui
sia Dio sia un essere umano86. Posto ciò, sorge il problema relativo al «tu» reale e personale, che è confessato
Dio e uomo nella cristologia di Leonzio; infatti, l'unica ipostasi di Cristo, secondo il Bizantino, è l'effetto
dell'unione, dunque non è né solamente divina, né solamente umana, benché Cristo esista e agisca totalmente
come Dio e totalmente come uomo; essa inoltre non è mai identificata esplicitamente con il Logos in quanto
Logos®, ma normalmente è denominata con i titoli cristologi-ci Christos, Soler, Kyrios™. Da qui nasce la
questione se il soggetto-Cristo sia un tertium quids\ cioè una nuova terza entità intesa come una «natura
sintetica» derivante dalla divinità e dall'umanità, come sembra debba intendersi in ordine alle essenze, oppure
avvenga diversamente. Prima di tutto osserviamo che se da una parte Leonzio era lontano dalla posizione
neocalcedonese, secondo cui l'ipostasi andava identificata con il Logos/Verbo, dall'altra egli non ammetteva
l'esistenza di un novum tertium quid, in quanto riconosceva al Logos il ruolo di «soggetto dell'incarnazione», e
cioè gli assegnava una posizione dominante nell'intera struttura dell'Incarnato. A conforto di tale tesi abbiamo
vari testi; infatti, in CNE II.1324D-1325B, il «soggetto assumente » è detto il Kyrios, cui si relaziona l'intera
realtà umana del Cristo, che è detta «assunta» 90; successivamente il Logos è definito come colui che concede il
permesso di soffrire91; sempre nello stesso luogo si parla di « unione con il Logos », che non ha com'ef-fetto
Yaftarsia del corpo, ma soltanto l'unione essenziale. Il Logos, inoltre, attraverso lo Spirito santo opera
efficacemente rispetto al suo proprio «tempio», cioè la sua umanità, come leggiamo in CNE II,1352D8-
1353A3: «II Verbo abitò il tempio per lui creato dallo Spirito santo fin dalla sua prima formazione, non dopo
aver aspettato, come qualcuno ha detto giustamente, la consumazione del tempio, ma fin dai primordi
dell'indicibile economia; essendo unito essenzialmente, si circondò totalmente di quest'edificio, Egli venne
dall'esterno, senza divenire corpo, ma poiché se n'è rivestito, egli adorna la nostra natura ».
In proposito ci interessa evidenziare che, secondo Leonzio, il Logos « adorna » (agalmatoforei) la nostra
natura, dunque non si confonde con essa e non genera un tertium quid. Che il testo vada inteso in questo senso
è confermato dal fatto che immediatamente dopo Leonzio, dopo aver affermato che la plasmazione del corpo è
avvenuta per opera dello Spirito santo, aggiunge che «l'essere uno e l'essere chiamato Figlio e mostrare i segni
chiarissimi della figliolanza è opera dell'unione del Verbo con la nostra natura »92.
Pertanto, se in Cristo esiste una sola ipostasi per cui egli è uno e uno solo, se può chiamarsi Figlio di Dio,
Signore, Salvatore «è opera dell'unione del Verbo con la nostra natura»; in tal senso possiamo affermare che il
Verbo è il soggetto dell'incarnazione, in quanto «permette» e « rende possibile » quell'unione essenziale che fa
sì che le due nature «producano» un unico effetto, cioè l'ipostasi concreta e reale di Gesù Cristo 93. Dunque,
colui che agisce nell'incarnazione è il Verbo, mentre l'effetto di tale azione è Gesù Cristo, che a sua volta opera
nella storia come uomo e cerne Dio; così nell'incarnazione non è «prodotta» (apotelein) né un'unica natura
solamente divina come volevano i monofisiti, né una natura mista o sintetica, ma un'unica ipostasi che è
«voluta» e «permessa» dal Verbo. Che ci sia, secondo Leonzio, una chiara distinzione tra il Verbo/Logor e
Gesù Cristo è affermato in modo quasi lapidario in CNE I,1281C15-D2: «II Verbo non è il Cristo perfetto,
anche se è perfetto Dio, se non è unita a lui l'umanità».
Questi passi smentiscono le opinioni di alcuni studiosi, secondo cui Leonzio non designerebbe mai il
Logos come soggetto dell'unione, impiegando piuttosto il termine Cristos94; secondo noi, invece, Leonzio
adopera i due termini in accezioni diverse: il primo per indicare il soggetto dell'incarnazione e il secondo per
esprimere l'effetto dell'unione: il Logos per il Verbo come seconda Persona della Trinità, Gesù Cristo per
l'ipostasi intesa come il « punto, in cui le caratteristiche particolari delle due nature si congiungono »95.
Questa concezione, che distingue l'ipostasi dal soggetto dell'incarnazione, allontana ulteriormente
Leonzio di Bisanzio dalla posizione « neocalcedonese », propensa invece a identificare i due termini, e lo
inserisce sempre di più in un filone teologico di tipo «paleocalcedone-se»96. Se poi accogliamo l'opinione di B.
Studer, secondo cui «nella de finizione (di Calcedonia) il soggetto di attribuzione è detto certamente anche il
Verbo, ma la definizione non intende esprimere, per lo meno, non positivamente, che il Verbo divino è
l'elemento personale di Cristo, del Dio uomo»97, notiamo che la riflessione cristologica di Leonzio segue il
solco aperto dal concìlio di Calcedonia; infatti, se per « soggetto di attribuzione » intendiamo il soggetto a cui si
riferiscono gli attributi umani e divini, in Leonzio esso va identificato con l'unica ipostasi del Cristo, e cioè con
l'effetto dell'unione, il «punto di incontro » della realtà umana e divina; mentre il Verbo svolge il ruolo di «
soggetto dell'incarnazione », in quanto - come dicevamo - permette, rende possibile e realizza l'incarnazione.
Nella cristologia di Leonzio, dunque, registriamo una discrasia tra «soggetto di attribuzione» e «soggetto agente
nell'incarnazione», per cui l'incarnazione è veramente opera del Verbo, mentre quanto Gesù Cristo opera sulla
terra deriva realmente dalla sua componente umana e divina.
In definitiva, la corretta interpretazione del pensiero cristolo-gico di Leonzio ci porta a seguire vie
alternative rispetto alle soluzioni del « neocalcedonismo » suo contemporaneo, che egli votatamente aveva
evitato non in quanto ne negava la correttezza'3, ma in quanto avrebbero potuto portare a una svalutazione
dell'assoluta trascendenza divina o della completezza dell'umanità di Cristo, in un certo senso avrebbero
compromesso quella visione simmetrica di Cristo, indispensabile all'interno di un'architettura teologica
strettamente difisita, quale era quella di Leonzio.
4.5. CONCLUSIONE
La cristologia del secolo VI in Oriente si presenta come un vasto ambito di ricerca, in cui Vortodossia,
così come l'eterodossìa, era rappresentata da un ampio fronte di teologi, che non solo si opponevano per diversi
orientamenti cristologici, pensiamo ad esempio al monofisismo e al calcedonismo di stretta osservanza, ma
anche discutevano al loro interno per differenti sottolineature delle formule cristologiche; ad esempio fra i
monofisiti la formula della mia physis era interpretata diversamente da Severo e da Giuliano di Alicarnasso.
Comunque, lo studio di questa epoca ci sembra fondamentale per qualsiasi tipo di approfondimento
cristologico, visto che nel secolo VI la teologia era essenzialmente cristologia e che in questo periodo vanno
ricercate le origini della «teologia scolastica», intesa come quella sistematizzazione ontologico-metafisica che
la cristologia seguirà d'ora innanzi. Non mancano, tuttavia, le difficoltà in vista di tale approfondimento, in
quanto non esistono edizioni critiche, né traduzioni in lingua moderna della maggior parte degli autori di questa
epoca; di conseguenza, anche gli studi da parte dei patrologi, che in generale non preferiscono quest'epoca, e da
parte dei teologi sono molto limitati, se non del tutto inesistenti. Si tratta, dunque, di un campo di ricerca aperto
e affascinante, che deve essere ancora esplorato e che non mancherà di suscitare interessi e sorprese.
Per concludere, questo tipo di cristologia antica ci sembra proponga le seguenti suggestioni alla
cristologia contemporanea: la ricerca delle ricadute soteriologiche di un discorso metafisico sull'essere di
Cristo; il ricupero di una visione reale dell'umanità di Cristo, basata non soltanto sui vangeli ma anche sul suo
grande «mistero », ossìa sul suo essere uomo-Dio; l'approfondimento del suo ruolo di mediatore tra Dio e gli
uomini, sottolineando che la coesistenza di due nature in una sola persona rivela già una mediazione presente
nell'essere stesso di Cristo uomo-Dio.
* Carlo Dell'Osso, nato a Foggia nel 1965, nel 1991 si è licenziato in Patrologia presso l'Istituto Augustinianum in Roma e ha
conseguito nel 1996 la laurea in Lettere classiche presso l'Università La Sapienza di Roma. Ha discusso di recente presso
l'Augustinianum la sua tesi dottorale su La cristologia diLeonzio dìhisanzio. È professore di patrologia presso l'Istituto Teologico
Pugliese del Pontificio Seminario Regionale di Molfetta (BA), è altresì professore invitato di cristologia presso l'ISSR all'A-pollinare
della Pontificia Università della S. Croce in Roma. Ha pubblicato nella serie i Dizionari di Piemme il volume di Patrologia, Piemme,
Casale Monferrato (AL) 1995.
Cfr. L. Perrone, L'impatto del dogma di Calcedonia sulla riflessione teologica fra IV e V concilio ecumenico, in Aa.w., Stona
della Teologia, voi. I, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1993, pp. 515-517.
Cfr. C. Moeller, Le chalcédonisme et le néo-chalcédonisme en Orient de 451 à la fin du Vme siede, in A. Grillmeier - H.
Bacht, Das Ronzii von Chalkedon, voi. I, Wiirzburg 1951, p. 642; L. Perrone, L'impatto, p. 539.
Circa il conflitto tra le due tradizioni cristologiche dopo il 433 cfr. M. Richard, Proclus de Constati/inopie et le théopaschisme,
in Revue d histoire ecclésiastique 38 (1942) 303-331; L. Abramowsky, Der Streit uni Diodor und Tbeodor zwiscben den beiden
ephcsinìschcn Konzilien, in Zcitscbrift fiir Kirchengeschicbte 67 (1955-56) 252-287; T. Camelot, Ve Nestorius à Eutychés:
l'opposition de deux christologies, in A. Grillmeier - H. Bacht, Cbalkcdon, voi. I, pp. 213-242.
II Tomus Leonis avrà molta importanza e contribuirà molto alla divulgazione della visione simmetrica delle due nature in
Cristo.
Riguardo agli influssi emiliani sulla formula calcedonese cfr. T. Camelot, Théologies grecques et théologìe latine à
Chalcédonie, in Revue des sciences pbiloso-phiques et théologiques 35 (1951) 402 ss.; A. de Halleux, La définition christologique à
Chalcédonie, in Revue Théologique de Louvain 7 (1976) 3-23; 155-170.
In proposito B. Studer, Dio salvatore nei Padri iella Chiesa. Trinità-cristolo-gia-soteriologia, Boria, Roma 1986, p. 302, così
scrive: «Nella definizione il soggetto di attribuzione è detto certamente anche il Verbo, ma la definizione non intende esprimere, per
lo meno non positivamente, che il Verbo divino è l'elemento personale di Cristo, del Dio uomo. Ciò sarà definito più tardi, quando si
cercherà di mettere d'accordo la fede di Calcedonia con il monofìsismo della tradizione alessandrina». Secondo R. Wickham,
Chalkedon, oekumenische Synode (451), in Tbeologische Rea lemyclttpacdie 7 (1981) 673, la definizione presenta Cristo come
«soggetto composto», risultimtc dall'unione di due nature diverse, senza che si definiscano modo e ter-minoln({iii ilrll'unione, compiti
affidati entrambi al neocalcedonismo. Noi riteniamo che I .e HI/IO ili Bisiinzio sia un testimone di questo tipo di interpretazione della
definizione i uli riliinrnc-, nnzi, la sua cristologia testimonia quanto è stato ipotizzato dagli studiimi e limi, e ine clic < ìnlcffdonia non
aveva identificato l'ipostasi con il Logos.
L. perrone , l'impatto, p. 548.
Cfr. Consiliorum Oecumenicorum Decreta 84,25 ss,
Circa la formula di Calcedonia, oltre agli articoli e alle opere già citati, cfr. G. Alberigli, Storia dei consili ecumenici 1990, pp.
71-107; J. van Oort-J. Rolda-nus, Chakedon: Geschichte und Aktualitaet. Studien zur Rezeption der christologiscken Formelvon
Chalkedon, Louven, 1997
Ricordiamo che nel secolo VI erano stati emanati alcuni editti imperiali contro il paganesimo: in proposito cfr. J. Irmscher,
Paganismus imjustinianischen Reich, in Klio 63 (1981) 683-688; che la Scuola di Atene era stata chiusa nel 529 da parte del -
l'imperatore Giustiniano in segno di rigetto dell'educazione impartita dai pagani. Per quanto riguarda le sacche di paganesimo in
questo periodo cfr. W.E. Kaegi, The Fifth-Century Twilight o/Byzantine Paganism, in Classica et Mediaevalia 27 (1966) 249; H.-G.
Beck, Geschichte der orthodoxen Kirche im bjzantinischen Reich, Goettingen 1980, pp. 47-51.
Riguardo alla cristianizzazione della regione asiatica dell'impero cfr. A. Grillmèier, Christ in Christian Tradition, voi. H/2,
London 1995, pp. 8-10.
Cfr. G. Dragon, La Vie antienne de saint Marcel l'Acémète, in Analecta Bol-lanàiana 86 (1968) 271-321; Id., Les moines et la
ville, in Iravaux et mémoires 4 (1970) 229-279; R. Janin, La géographie ecclésiastique de l'empire byzantine. III. Les Églises et les
monastères. Paris 1969, pp. 16-17; R. Riedinger, Akoimeten, in Theologische Rea-lenzyclapaediel (19 ) 148-153.
Cfr. C. Moeller, Le chalcédonisme, p. 658.
In proposito cfr. J. Jarry, Hérésies etfactions dans l'empire byzantine du IV au VII siede, Cairo 1968; A. Cameron, Demes
andFactions, inByzantinisobe Zeitschrift 67 (1974) 74-91; Id., Circus Factions. Blues and Greens at Rome and Byzantium, Oxford
1976. I due autori testé citati hanno due visioni diverse delle fazioni in Bisanzio: Jarry vede un legame tra Azzurri — classi
aristocratiche - ortodossia calcedonese, come per i Verdi — classi medio/basse - anticalcedonesi, mentre Cameron non condivide
questo tipo di schematizzazione.
Cfr. A. Grillmeier, Christ, p. 166-172; C. Moeller, Le chalcédonisme, pp. 651-652.
Cfr. ibid., pp. 301-315; C. Moeller, Le chalcédonisme, pp. 652-653.
Grillmeier dedica un intero capitolo agli strict-Chalcedonian theologians of thè type of Leontius of Byzantium, dove si
sofferma su Ipazio ed Eracliano, in Christ, pp, 230-250. Bisogna ricordare che anche i neocalcedonesi accolgono l'unica ipostasi,
tuttavia essi si distinguono dai calcedonesi di stretta osservanza, perché ricuperano all'interno della formula di Calcedonia la
tradizione cirilliana.
In proposito C. Moeller afferma che «après Léonce de Byzance, le chalcédonisme strict desparait pratiquement en Orient», Le
chalcédonisme, p. 664.
Del resto i nestoriani, in quanto dichiaratamente eretici, stavano fuori dall'impero romano, cioè in Persia, cfr. C. Moeller, Le
chalcédonisme, pp. 656-58.
Cfr. l'excursus che A. Grillmeier fa sul concetto di neocalcedonismo con la sua relativa vantazione, in Christ, pp. 429-439.
Cfr. A. Grillmeier, Christ, pp. 47-52; P.T.R. Gray, The defence ofChdcedon in thè East (451-553), in Studies in thè history
ofChristian Thought 20 (1979) 105-111; L. Perrone, La Chiesa di Palestina e le controversie cristohgiche. Dal concilio dì Efeso al
secondo concilio di Costantinopoli, Paideia, Brescia 1980, pp. 148-151.
Cfr. A. Grillmeier, Christ, pp. 52-79; Id., Das oestliche und das westlìche Christusbild. Zu einer Studie ueber den
Neuchalcedonismus, in Theologie und Phi-losophie 59 (1984) 84-96; C. Moeller, Trois fragments grecs de l'Apologie de Jean le
Grammairien pourle concile de Chalcédoine, in Revue d'histoire ecclésiastique 46 ( 1951 ) 683-688; A. de Halleux, Le «synode
néochalcédonien» d'Alexandrette et l'«Apok>gie pour Chalcédoine» de Jean le Grammairien, va Revue d'histoire ecclésiastique 72
(1977) 593-600; P. Allen, Neo-Chalcedonism and thè Patriarchs ofthe Late Sixth Century, in Byzantium 50 (1980) 5-17.
Grillmeier dedica oltre quindici pagine (Christ., pp. 327-343) ai monaci sciti, tuttavia scrive che «The extent to which thè
Scytians wanted to invoke thè "mia phy-sis" formula to interpret Chalcedon, however, stili needs to be examinated» (p. 328), si tratta,
dunque, di un campo di studi che deve essere ancora esplorato.
Moeller dice che «Léonce s'écarte nettement de la tradition néo-chalcédo-nienne dont, par ailleurs il est un des représentants
les plus typiques» (in Le chalcédo-nisme, p. 663 ); mentre A. Grillmeier afferma che « Leontius of Jerusalem can be recko-ned among
thè moderate neoChalcedonians» (in Christ., p. 434).
25
A proposito del monofisismo si può confrontare J. Lebon, La cristologie du monophysisme syrien, in A. Grillmeier - H.
Bacht, Chalkedon, I, pp. 425-580 e la bibliografìa di W.H.C. Frend, The Rise of thè Monophysite Movemetit, Cambridge 1972 e
quella contenuta in L. Perrone, La Chiesa di Palestina, Brescia 1980;
2
'L. Perrone, La Chiesa di Palestina, p. 148.
"Sulla vita e le opere di Severo confronta J. Lebon, Monophysisme syrien, pp. 426 ss.; W.H.C. Frend, The Rise, pp. 201-208;
RC. Chesnut, Three Monophysite Ckri-stologies, Oxford 1976, pp. 4-5; A. Grillmeier, Christ, pp. 21-79; V.C. Samuel, The
Christology ofSeverus of Antioch, in Abha Salama 4 (1973) 126-190; IR. Torrance, Christology after Chalcedon. Severus of Antioch
and Sergius thè Monophysite, Norwich 1988; N.A. Zabolotsky, The Christology ofSeverus of Antioch, in Ekklesiastikos Pharos58
(1976) 357-386; abbiamo tre biografie antiche di Severo, composte da Atanasio Gammal, Giovanni bar Aphtonia, Zaccaria lo
Scolastico.
28
Su Giuliano d'Alicarnasso cfr. R. Draguet,/#//£# d'Halicarnasse et sa controverse avec Sevère d'Antioche sur l'incorruptibilité
du corps du Christ, Louvain 1924; M.Jugie, ]ulien d'Halicarnasse et Sevère d'Antioche. La doctrine du péché originel chez lesPères
Grecs, in Estratti di Echos d'Orient, Paris 1925; A. Grillmeier, Christ, pp. 79-111.
29
In realtà l'area palestinese viveva forti tensioni tra i monaci seguaci di Eu-timio e dei cappadoci Saba e Teodosio, che erano
di orientamento calcedonese, e quelli di decisa tendenza anticalcedonese, che risentivano ancora di quella dura avversioneal concilio
di Calcedonia, che aveva portato alla deposizione di Giovenale subito dopoil concilio; questi ultimi si imponevano maggiormente in
quest'area. In proposito cfr.L. Perrone, La Chiesa di Palestina, pp. 146-147.
Ricordiamo fra i capi del partito anticalcedonese il monaco Teodosio che, una volta deposto Giovenale, ne usurpò il seggio
patriarcale a Gerusalemme e il già citato Romano, che aveva fondato un monastero ad Eleuteropoli, presso cui aveva soggiornato
Severo d'Antiochia; per tutto quanto avvenne in Palestina dopo il concilio di Calcedonia cfr. L.Perrone, La Chiesa di Palestina, pp.
89-116.
Cfr. A. Grillmeier, Christ, p. 175.
Cfr. L. Perrone, L'impatto, p. 515. Per la periodizzazione del dopo-Cake-donia cfr. A. Grillmeier, Christ, Ti/1, p. 7; K. Ware,
Christian Theology in thè East: 600-1453, in H. Cunliffe-Jones, A History of Christian Doctrine, Edinburgh 1978, pp. 185-186.
Secondo A. Grillmeier, Christ, n/1,5 la professione cristologica del 451, apparentemente statica, si collocava in realtà sulla
stessa linea soteriologica di Nicea; tuttavia non possiamo negare che già dopo il 325 l'istanza soteriologica si era andata sempre più
assottigliando nella discussione cristologica.
Di questa opinione è J. Meyendorff, La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali, Marietti, Casale Monferrato (AL)
1984, p. 43.
Sulla progressiva divaricazione tra Oriente e Occidente, nella scia dei conflitti dogmatici dopo Calcedonia, nonché sul carattere
pluralistico e multiforme del cristianesimo primitivo, che permane anche in questo periodo cfr. J. Herrin, Thè formatoti of
Christendom, Princeton 1987 e J. Meyendorff, Imperiai Unity and Christian Division. The Church 450-680 AD., New York 1989.
Cfr. L. Perrone, Dissenso dottrinale e propaganda visionaria: le «Pleroforie» di Giovanni diMaiuma, in Augustinianum 29
(1989)451-452.
Cfr. Acta Conciliorum Oecumenicorum Decreta 85,40-41.
Cfr. E. Schwartz (ed.), Acta Conciliorum Oecumenicorum, 1,1,1,26-27.
Cfr. B. Studer, Dio salvatore nei Padri della Chiesa. Roma 1986 così sostiene: « La definizione di fede di Calcedonia,
considerata nel suo insieme, rimane una dottrina delle due nature. Si afferma la dualità di un soggetto, non viceversa» p. 301, n. 17.
A. Milano {Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Napoli 1984, pp. 189-190)
sostiene che non è facile pervenire a un giudizio sicuro circa la questione.
Questa è l'opinione di L. Perrone, L'impatto, p. 548, che si riferisce a L.R.Wickham, Chalkedon. Oekumenische Synode (451),
in Theologische Realenzyclopaedie7(1981)673.
Una presentazione globale delle posizioni elaborate dal monofisismo è offerta da J. Lebon, Le monophysisme sévérien,
Louvain 1909; Id., La christologie in mo-nophysisme syrien, in A. Grilimeier - H. Bacht, Chalkedon, I, pp. 425-580.
Cfr. F. Cavallera, Le dossier patristique de Timothéè Aelure, in Bullettin de LittératureEcclésiastiqueA (1909) 342-359, con i
complementi forniti da A. Grilkneier, Christ, n/1, p. 72.
A. Grillmeier, Christ, D72, pp. 20-183, dedica ampio spazio all'esame della cristologia severiana e del contesto polemico in cui
essa fu elaborata.
In proposito, cfr. R. Draguet, Julien d'Halicarnasse et sa controverse avecSevère d'Antioche sur l'inconuptibilité du corps du
Christ, Louvain 1924.
La diffusione del paradigma antropologico nella cristologia patristica è messa in luce da F.R. Gahbauer, Das anthropologische
Modell. Ein Beitrag zur Christologiederfruehen Kirche bis Chalkedon, Wuerzburg 1984.
A proposito dell'Henotikon. cfr. E. Dovere, L'Enotico di Zenone Diaurico, in Studia et Documenta Historiae et luris 54 (1988)
170-180; A. Grillmeier, Christ, II/l p. 288; L. Perrone, L'impatto, p. 558.
Anche la condanna dei Tre Capitoli, quindi di Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cirro e Iba di Edessa fu una concessione
alle tendenze monofisite.
Così scrive A. Grillmeier, « The inteiest of Leontius is not directed in thè fir-st istance to establishing thè "mia hypostasis", but
thè "dyo physeis", Chrìst, p. 198. Per quanto riguarda le opere di Leonzio adopereremo le seguenti abbreviazioni: Epil (= Epilysis),
Epap (= Triginta Capita cantra Severum), CNE, I-ffl{= Contra Nestoria-nos et Eutichianos libri liti ; a queste abbreviazioni
aggiungeremo il numero di colonne del voi. 86 della Patrologia Graeca del Migne.
Cfr. L. Perrone, «L'elemento comune fra « neocalcédonesi » e Leonzio Bizantino è costituito, infatti, dall'elaborare
un'apologià, più o meno, sistematica del dogma di Calcedonia, che è finalmente divenuto tema in positivo di una teologia direttamente
e creativamente ispirata al concilio », L'impatto, p. 568.
Su questo tema Leonzio ritorna varie volte cfr. Epil 1917D-1920A; Epap 1901D-1904AB: i capp. V, Vm, X; Epap 1912D-
1913, i capp. XXIX e XXX.
In proposito cfr. A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, voi. I, tomo I, Paideia, Brescia 1982, pp. 462-469, dove
parlando dell'immagine ariana di Dio cita un articolo di H. Doerrie, Die Erneuerung des Platonismi^ ini ersten jahrbundert vor
Christus, in Platonica Minora, Muenchen 1976, pp. 154-165, in cui distingue due fasi nella rinascita platonica: la prima dovuta alla
riscoperta del Timeo, la seconda dovuta all'influsso del metodo di Eudoro. Grillmeier vede nel medioplatonismo la preistoria
dell'arianesimo, specie per quanto riguarda il subordinazionismo ariano, in quanto la concezione di Dio come monade escluderebbe
qualsiasi diade nella divinità.
Epil 1920A.
Cfr. quanto Leonzio afferma in Epil 1920D-1921A.
L'obiezione dello «stolto» secondo cui a due nature corrispondono due ipostasi è in Epil 1936D.
Così dice testualmente Leonzio in Epil., 1937A allos men oros physeos allos de logos oikonomias.
Ibid., 1937A.
Ibid., 1937AB
CNE I,1305BC.
Così in Epap., 1909CD.
Cfr. J.P. Junglas, Leontius von Byzanz. Studien zu seinen Schriften, Quellen undAnschauungen., Paderborn 1908, pp. 88-92, il
quale afferma che Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno dipendono da Leonzio relativamente al tema del « modo
dell'unione». A. Grillmeier, Christ, p. 200, nota 45, afferma in proposito che Massimo il Confessore e il Damasceno concordano con
Leonzio riguardo ai vari tipi di henosis, ma discordano da lui quanto al significato di henosis ousiodes.
Per quanto riguarda i vari tipi di unione cfr. Epil., 1925BC; Epil, 1940CD; CNE L1297D.
CNE I,1297C.
Ibid. III, 1380C.
Epil, 1940B.
Ibid., 1944C.
Di questa unione essenziale Leonzio parla molto nelle sue opere cfr. CNE I.1300A9; 1301C9; 1305B12; 1305C4; CNE
IL1352D2; CNE III,1380C2; 1380D6; Epil, 1925C9; 1941A9.
"Cfr. B. Daley, The Origenism of Leontius of Byzantium, in Journal of Theo-logicaiStudies 27 (1976) 351, traduce
l'espressione henosis kat'ousian «union with re-Spect to essence», «union touching essence», «union of essences». C. Moeller, Le
chalcédonisme, p. 663, traduce con «union selon l'essence ouessentielle».
CNE I.1304A 9
Ibid. I,1300A.
In proposito intendiamo pubblicare uno studio sulla cristologia di Leonzio di Bisanzio, dove approfondiremo questa nostra
ipotesi.
Cfr. CNE 1,1291 C
Cfr. ibid. I, 1305C
Cfr. Epil., 1928A.
Cfr. A. Grillmeier, Cbrist, p. 454: «The "one Christ, the one hypostasis in two natures" is the end-product - Leontius of
Byzantìum had coined the expression apotelesma for this ».
Cfr. Epil. 1924A 1- 2; 1924A 7-8, C 2-3.
CNE I.1277D 1-4.
Epil, 1945 AB. "Cfr. CNE m,1381A.
Questi tre autori sono fra «Le fonti patristiche di Leone», secondo B. Studer, Una persona in Christo, pp. 466-475, in modo
speciale p. 466.
Cfr. Tertulliano, Adversus PraxeanZI,lì; Iiario, De Trinitate9,13.
Un atteggiamento ricorrente in Leonzio è quello di rifuggire le logomachie,egli intende «capire» piuttosto che discutere sui
termini cfr. CNE HE,1380B e CNEI.1304A 13-14.
Cfr. A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, 2/1, Paideia, Brescia 1996, pp. 233-242, intitola un paragrafo della
sezione dedicata a papa Leone con «L'unico Cristo come persona» e a p. 238 così scrive: «L'unica persona che è Cristo, con e
nell'incarnazione, è il risultato della compenetrazione della natura divina e umana senza mescolanza e senza separazione »: è evidente
il legame tra questa cristologia e quella di Leonzio.
In proposito cfr. quanto afferma A. Grillmeier, Christ, IU2, pp. 454-55, nel paragrafo intitolato: «The "one hypostasis" in
Chalcedonian understanding», dove scrive: «The concept hypostasis is thus not applied spedfically and exclusively to thè pre-existent
Logos as subject, although for Chalcedon too thè Logos is thè ultimate subject».
Nel Tomus, infatti, non troviamo mai espressa l'identificazione tra «persona » di Cristo e « Verbum »; in proposito A.
Grillmeier in Gesù il Cristo 2/1, p. 236 afferma: «Se il termine persona non viene riferito al Preesistente per esprimere l'unità nella
dualità delle nature, il Figlio eterno del Padre rimane chiaramente il soggetto dell'incarnazione».
Cfr. A. Grillmeier, Christ, p. 187.
Grillmeier così scrive: «Leontius never identifies explicitly and by virtue of logicai allocation thè "one hypostasis" with Logos
as Logos» {Christ, p. 187).
Riguardo a queste denominazioni in Leonzio cfr. L. Perrone, II dialogo contro gli aftartodoceti di Leonzio di Bisanzio e Severo
di Antiocbia, in Critica Storica 1 (1980) 430-31, con riferimenti a B. Daley, The Origenism, p. 359, nota 4.
In tal senso andava l'interpretazione di Sergio il Grammatico, che intrattenne una corrispondenza epistolare con il patriarca
Severo di Antiochia tra il 515 e il 520 e che dall'unica natura faceva derivare una unica proprietà.
Cfr. CNE II.1325A 2-5, in cui Leonzio afferma che «il Signore ha assunto essenzialmente un uomo completo di corpo e di
anima razionale ».
Cfr. CNE II.1329C 8-10; «Ha sofferto non a causa delle necessità naturali, ma in ragione dell'economia, dal momento che il
Verbo aveva permesso di soffrire »; anche CNE II.1332A 6; B 15.
CNEH,1353A10-13.
Cfr. i brani citati in precedenza, specialmente CNE II.1329CD.
Cfr. J. Meyendorff, Christ in Eastern Christian Thought, New York 1975, p. 64 e P. Gray, The Defetise of Chalcedon in thè
East (451-553), Leiden 1979, p. 101, i quali sostengono che Leonzio non adopera mai il termine Logos per indicare il soggetto
dell'unione, bensì Cristo.
A. Milano, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel Cristianesimo antico, Napoli 1984, p. 190.
B.E. Daley, The Origenism, p. 361, nega il fatto che Leonzio si possa considerare un origenista e lo definisce come segue: « I
think, to take Leontius' writings at their face value and to assume he really was thè theologian they reveal to us: not an Origenist in
any doctrinal sense, but rather a strict and unbending diphysite, a "Palaeo-Chalcedonian", at a time when that was unfashionable, even
dangerous», in proposito fa riferimento a M. Richard, Léonce de Byzance était-il origéniste?, in Revue des études byzantine 5 (1947)
46 ss.
B. Studer, Dio Salvatore, p. 302.
In Epil, 1944C 2-4 Leonzio apparentemente accetta come ortodossa l'espressione: «La natura umana non è stata plasmata
prima dell'unione, né esisteva prima, né fu assunta perfetta, ma ha la sua ipostasi nel Verbo », ma egli nos accetta che questo sia
l'unico modo possibile con cui tentare di capire l'unicità dell'ipostasi in Cristo. In proposito cfr. B. Daley, The Origenism, p. 360: «He
(Leontius) normally avoids the Neo-Chalcedonian assertion that Christ's manhood "exists in" the hypostasis of the Logos, or that the
single hypostasis of the Incarnate Word is the Logos himself».
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