Introduzione
«Atque quantum ad animam, etsi multi ejus naturam non facile investigari posse judi-
carint, et nonnulli etiam dicere ausi sint rationes humanas persuadere illam simul cum
corpore interire, solaque fide contrarium teneri, quia tamen hos condemnat Concilium
Lateranense sub Leone 10 habitum, sessione 8, et expresse mandat Christianis Phi-
* Il contributo è stato pensato e discusso insieme dai due autori. In particolare, si devono ad Annalisa
Cappiello l’Introduzione e i paragrafi 1-4, a Marco Lamanna il paragrafo 5.
1 R. Descartes, Meditationes De Prima Philosophia, in Id., Opere 1637-1649, a cura di G. Belgioioso,
losophis ut eorum argumenta dissolvant, et veritatem pro viribus probent, hoc etiam
aggredi non dubitavi»2.
Si trattava della bolla Apostolici regiminis (19 dicembre 1513), che aveva
segnato una cesura nel tradizionale rapporto di non ingerenza delle autorità
ecclesiastiche nella didattica delle Università italiane – un rapporto che, sia
pure per motivi squisitamente istituzionali, e cioè per l’inesistenza in Italia di
una facoltà di Teologia che potesse esercitare una qualche forma di controllo,
era durato più di due secoli3.
Stando alla lettura del decreto, scopo incipitario dell’intervento lateranense
era stata l’urgenza di tutelare il dogma dell’immortalità dell’anima umana ini-
bendo certe infestanti derive interpretative di stampo averroista e alessandrista:
posto che l’anima era essenzialmente forma del corpo (come già statuito dal Con-
cilio di Vienne del 1311), immortale, infusa da Dio (cioè creata e non generata)
e moltiplicata per il numero degli uomini, la bolla aveva proceduto a censurare
chiunque ne asserisse la corruttibilità («omnes asserentes animam intellectivam
mortalem esse») o l’unicità per l’intero genere umano («aut unicam in cunctis
hominibus»), così come chiunque ne mettesse in dubbio la definizione dogma-
tica appena prescritta («et haec in dubium vertentes»), quand’anche rivendi-
cando alle proprie argomentazioni soltanto una qualche legittimità dal punto
di vista filosofico («secundum saltem philosophiam»)4. Per i padri conciliari,
infatti, la certezza dell’immortalità dell’anima individuale scaturiva direttamen-
te dal dettato evangelico; senza un simile prerequisito, inoltre, la prospettiva
di premi e castighi eterni a seconda dei meriti, l’incarnazione di Cristo, l’attesa
della resurrezione dei morti e tutti gli altri misteri della fede sarebbero stati
destituiti di senso; pertanto, poiché «verum vero minime contradicat» – poiché
il vero (filosofico) non poteva smentire il vero (teologico) – si doveva dichia-
rare «omnino falsam» qualunque asserzione entrasse in conflitto col dogma e
condannare come «haereticos & infedeles» quanti si fossero ostinati ad «aliter
dogmatizare»5.
Sulla base di questi presupposti, in seconda istanza, il decreto aveva messo
a punto una metodologia preventiva della diffusione di errori, a cui i professori
di filosofia dovevano attenersi quando, nel corso delle lezioni, si trovavano a
dibattere di teorie in palese contrasto con la fede, ad esempio «de animae mor-
talitate aut unitate, & mundi aeternitate, ac alia hujusmodi»6. Come rammentava
Descartes, la strategia prevedeva che i docenti si sforzassero di rendere manife-
sta la verità cristiana e di insegnarla in modo persuasivo («veritatem religionis
Christianae omni conatu manifestam facere, & persuadendo pro posse docere»),
confutando a misura delle proprie capacità («pro viribus») gli argomenti ad
essa contrari7. Allo scopo di «purgare & sanare» le «infectas philosophiae &
poesis radices», si era provveduto infine a porre sotto regolamentazione anche
le attività curriculari dei chierici, stabilendo che essi non potessero dedicarsi
allo studio di quelle due discipline, una volta conclusa la fase di apprendimento
della grammatica e della dialettica, se non a patto di proseguire per almeno un
quinquennio la loro formazione in teologia o diritto canonico8.
La commissione papale, in breve, congegnava ben tre rimedi di bonifica «in
agro Domini»9: il rimedio ex post della condanna di quei seminatori di zizzania
che andavano diffondendo teorie eterodosse sull’anima umana; i due rimedi ex
ante concernenti la pianificazione di precisi indirizzi di insegnamento (ai docen-
ti) e di studio (ai religiosi) – con l’esplicita sottolineatura, in quest’ultimo caso,
della necessità di estirpare le radici infette del paganismo. Tenendo dunque
conto sinotticamente dei tre momenti del decreto, si vede come l’azione latera-
nense mirasse di fatto a incentivare un impiego quanto più possibile apologetico,
strumentale e ancillare della filosofia nei confronti della fede. Ne era criterio
chiave il principio dell’unicità del vero, espressione dell’illegalità logica di ogni
assunto filosofico contrastante con i contenuti della verità cristiana: l’eresia re-
cava inevitabilmente su di sé lo stigma della contraddizione.
È cosa nota che l’esercizio di una simile politica da parte della Santa Sede
sarebbe culminato nell’affaire Galilei, quando l’applicazione dei provvedimenti
dell’Apostolici regiminis sarebbe stata estesa agli scienziati10. Quel che però qui
si vuol tentare non è tanto una valutazione dell’impatto del decreto sulla libertà
di ricerca di filosofi e scienziati, quanto piuttosto una panoramica del quadro
composito delle posizioni riguardo alla massima concordista verum vero minime
contradicit nell’arco temporale che va dalla promulgazione della bolla lateranen-
se agli albori della scienza moderna. Si comincerà dal modo in cui la questione
dell’unicità del vero fu interpretata, nella prima metà del sec. XVI, da parte di
alcuni dei principali protagonisti del dibattito sulla psicologia aristotelica.
11 Per l’elenco dei membri della commissione, cf. Mansi, Sacrorum conciliorum cit., col. 797.
12 Cf. P. Gios, L’attività pastorale del vescovo Pietro Barozzi a Padova (1487-1507), Istituto per la
Storia Ecclesiastica Padovana, Padova 1977, pp. 293-297.
13 Cf. Monfasani, Aristotelians cit., pp. 258-259.
14 Cf. Gios, L’attività pastorale cit., p. 302; E. De Bellis, Nicoletto Vernia. Studi sull’aristotelismo del
ne ad catholice fidei obsequium Patavii editus, nobilis viri d. Octaviani Scoti civis Modoetiensis: impensa
cura vero atque diligenti artificio presbyteri Boneti Locatelli impressus, Venetiis 1498, f. 1v.
Il principio dell’unicità del vero 233
«ut et hi qui Philosophiam discunt sic discant ut christianam philosophiam que longe
omnium prestantissima est non dediscant; et hi qui docent dum se philosophos esse
meminerunt non obliviscantur, se etiam cristianos existere, ac venena disputationum
malarum juxta epulas philosophice discipline non ponant, ne forte de ipsis dicatur
quod in Epistola ad Roman. Paulus Apostolus de quibusdam scribit dicentes se esse
sapientes stulti facti sunt»19.
di Nicoletto Vernia e di Elia del Medigo, in Atti e memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in
Padova, 7 (1891), pp. 278-279.
19 Ragnisco, Documenti inediti cit., p. 279; Rm 1,22.
20 Cf. Ragnisco, Documenti inediti cit., p. 278.
234 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
omnia, con una lettera introduttiva di Paul Oskar Kristeller e una premessa di Mario Sancipriano, Bottega
d’Erasmo, Torino 1962, p. 1537.
25 Ficinus, In Plotini cit., p. 2917.
26 Ficinus, In Plotini cit., p. 2917.
27 Sulla possibile origine ficiniana dell’editto Barozzi, cf. Monfasani, Aristotelians cit., pp. 267-268.
Il principio dell’unicità del vero 235
probabile, però, è che il tentativo di imporre agli aristotelici del tempo una pia
philosophia rientrasse tra gli obiettivi dell’Apostolici regiminis. A parte il fatto
che lo stesso Papa Leone X – al secolo Giovanni de’ Medici – era il secon-
dogenito del Magnifico, non si può trascurare che sedessero in commissione
lateranense almeno due Padri di orientamento platonista: il Reverendus domi-
nus Nazarenus, Giorgio Benigno Salviati, e il Reverendus dominus Melfitanus,
Alessio Celadonio, entrambi intimi del Cardinale Bessarione28. Non è peraltro
inattendibile l’ipotesi che un altro personaggio molto legato al Pontefice, nonché
studioso appassionato di Ficino, il generale degli Agostiniani, Egidio da Viterbo
– il quale pure non è elencato tra coloro che redassero le misure disciplinari del
1513 – avesse giocato un ruolo importante quantomeno in sede di approvazione
della bolla, dove in effetti è attestata la sua presenza29.
A quest’ultima fase dell’iter burocratico del provvedimento lateranense
avrebbero inoltre partecipato anche i due nipoti del celebre Mirandolano, Gio-
vanfrancesco Pico e Alberto Pio da Carpi. Il condizionale è d’obbligo nel caso
del primo, giacché il suo nome non risulta dagli atti conciliari. Ciononostante,
in un passo della sua opera più nota, l’Examen vanitatis doctrinae gentium et
veritatis Christianae disciplinae (1521), egli stesso fa un chiaro accenno al suo
intervento in quella circostanza. Particolarmente interessante è il contesto in cui
Pico riferiva tale notizia, e cioè il capitolo XIII del libro I, in cui affrontava il pro-
blema del dissenso «inter philosophos Gentium» sul tema dell’anima umana30.
Dopo aver sottolineato la divergenza d’opinione tra i due intepreti di Aristotele,
Alessandro di Afrodisia e Averroè, Giovanfrancesco aggiungeva, assieme alla te-
stimonianza della sua partecipazione al Concilio, una considerazione personale
sui peripatetici contemporanei:
«nec desunt nostra tempestate qui blatterent eorum opinionem saltem secundum phi-
losophiam veram esse, quasi Averrois & Alexandri schola sit universa philosophia,
& quasi verum possit esse adversum vero, quorum errorem etiam nuper Leo decimus
Pont. Maximus in Laterano concilio condemnavit, anno a Christiana salute tertio de-
28 Cf. C. Vasoli, Giorgio Benigno Salviati (Dragišić), in M. Reeves (ed.), Prophetic Rome in the High
Renaissance Period, Clarendon Press, Oxford 1992, pp. 121-156; J. Monfasani, Alexius Celadenus and
Ottaviano Ubaldini: An Epilogue to Bessarion’s Relashionship with the Court of Urbino, in Bibliothèque
d’Humanisme et Renaissance, 46 (1984), pp. 95-110; N.E. Minnich, Alexios Celadenus: A Disciple of
Bessarion in Renaissance Italy, in Historical Reflections / Réflexions Historiques, 15 (1988), pp. 47-64.
29 Cf. J.W. O’Malley, Giles of Viterbo: A Reformer’s Thought on Renaissance Rome, in Id., Rome and
the Renaissance. Studies in Culture and Religion, Variorum Reprints, London 1981, p. 8; J.W. O’Malley,
Giles of Viterbo on Church and Reform: a Study in Renaissance Thought, Brill, Leiden 1968 (Studies in
medieval and Reformation thought), p. 7.
30 Joannes Franciscus Picus Mirandulanus, Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis Christi-
cimo supra millesimum & quingentesimum, quarto decimo Kalen. Ianuarii octava in
Sessione, in qua & ipse sedi, & pronunciari decretum ipsum vidi»31.
Agli occhi dello scettico Pico, lungi dal costituire l’unica possibile forma di
filosofia, l’aristotelismo rappresentava un caso particolare – il più emblematico
– della vanitas pagana, e cioè di ogni ricerca della verità che fosse indirizzata
altrove che alle Scritture32. Ne era conferma non solo il fatto che certi aristotelici
del momento andassero blaterando che almeno filosoficamente la tesi alessan-
drista o l’averroista avessero una certa validità, come se esistesse una verità in
grado di rivaleggiare con quella cristiana, ma anche lo stesso atavico disaccordo
che divideva gli uni dagli altri, gli alessandristi dagli averroisti, e che in ultima
istanza derivava dall’incapacità di Aristotele di fornire una reale soluzione ad al-
cuni problemi, tra cui quello dell’anima, del quale lo Stagirita «ita obscure locu-
tus est, ut adhuc quid de anima senserit immortalitate magna sit disceptatio»33.
Era viceversa sicuramente presente in Concilio il cugino di Pico, Alberto
Pio, il quale peraltro doveva trovarsi presso la curia pontificia già dal 1512, in
qualità di ambasciatore di Massimiliano I34. Singolare è che il nome di Alberto
si trovasse associato alla publicazione di un testo che verosimilmente aveva co-
stituito un ulteriore fattore di nervosismo per i custodi della dottrina cristiana,
l’edizione aldina del De rerum natura (1500), della quale proprio il principe di
Carpi era il dedicatario35. A lui, tuttavia, l’amico e precettore Aldo Manuzio si
era affrettato a spiegare in quella dedica che una simile scelta editoriale non
equivaleva minimamente alla convinzione che Lucrezio avesse scritto «vera»
o «credenda nobis, nam ab academicis etiam peripateticis, nedum a theologis
nostris multum dissentit», ma risultava giustificata soltanto dal fatto che «epi-
cureae sectae dogmata eleganter et docte mandavit carminibus»36. D’altra parte,
per una strana ironia della sorte, il nome di Alberto era anche legato a quello di
chi, dopo l’emanazione della bolla lateranense, avrebbe dato fuoco alle polveri,
e cioè il famoso Pietro Pomponazzi, il quale nel 1496 aveva lasciato l’Università
di Padova (dove sarebbe rientrato soltanto nel 1499), per trasferirsi alla corte di
Carpi. Col tempo, il principe mecenate avrebbe preso le distanze dai giovanili
insegnamenti che gli aveva impartito il Peretto, ma è probabile che i due siano
trad. it. di A. D’Amelio / A.E. Werdehausen, a cura di L. Giordano, ets, Pisa 1999, pp. 114-115.
35 Di questa opinione è F. Gilbert, Cristianesimo, Umanesimo e la Bolla “Apostolici regiminis” del
2. La polemica pomponazziana
46 J. Hamesse, Les auctoritates Aristotelis. Un florilège médiéval. Étude historique et édition critique,
Publications Universitaires / Béatrice-Nauwelaerts, Louvain-Paris 1974, p. 233, §15; Arist., Ethica Nico-
machea, I, 8, 1098b10-11.
47 Cf. Pomponatius, De nutritione cit., pp. 2096-2098, in part. p. 2098; Arist., Metaphysica, I, 10,
933a27.
48 Pomponatius, De nutritione cit., pp. 2390.
49 Petrus Pomponatius, Apologia, in Id., Tutti i trattati peripatetici cit., pp. 1498-1500.
240 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
dixit»); sia perché dubitare che si debba prestar fede alla fede «si quod fides
affirmat naturali ratione probari non possit», significa sminuire il senso auten-
tico del credere50.
Per tali motivi Pomponazzi si era più volte autoesonerato dall’adempimento
agli obblighi lateranensi. Nella chiusa del De immortalitate, infatti, egli aveva
creduto di aggirare il problema limitandosi a rinviare il lettore alla consultazione
del “Divino Tommaso”51. Quanto invece al Defensorium (1519) – composto in
risposta al De immortalitate animae libellus di Agostino Nifo – egli si era sot-
tratto alla scure dell’inquisizione richiedendo l’intervento del teologo Crisosto-
mo Javelli, reggente dello Studio domenicano di Bologna: «artium quarumlibet
professores» – gli aveva scritto il Peretto a sua discolpa – «aptius de iis loqui et
iudicare quam qui eas non profitentur»52.
Javelli, dal canto suo, accettando l’incarico di risolvere tutte le argomentazio-
ni pomponazziane a sostegno della mortalità «principiis quidem non Aristotelis»,
bensì «sacrae theologiae et verissimae philosophiae quam arbitramur nostrae
catholicae fidei subministrare», per un verso aveva sottolineato l’indispensabile
ruolo della filosofia come ministra della fede, per l’altro verso aveva messo in
evidenza la parzialità della filosofia aristotelica, giustificando in tal modo l’a-
stensionismo pomponazziano53. Non che il tomista Javelli mettesse in dubbio la
correttezza dell’esegesi cristiana di Aristotele tramandata dal Dottore Angelico;
tantomeno egli riscontrava un’incompatibilità tra i principi della filosofia peri-
patetica e le verità della fede. Di certo però era pronto ad ammettere che a mano
a mano che perdeva la guida del senso, elevandosi dalla considerazione degli
enti materiali a quella degli enti immateriali, Aristotele finiva per esprimersi in
modo tanto oscuro «ut dicta sua oppositos sensus videntur posse recipere»54.
Similmente, nel suo Tractatus de animae humanae indeficientia del 1536, in cui
ripercorreva a distanza di una quindicina d’anni le fasi salienti della querelle
pomponazziana, Javelli aveva finito per dare conforto alla protesta del Peretto
contro Nifo, il quale aveva preteso di disquisire delle condizioni dell’anima uma-
na in stato di separazione dal corpo, del suo modo di conoscere senza l’impiego
dei sensi, ad esempio, o dei premi che riceve per le sue virtù e delle pene che
subisce per i suoi vizi. Il teologo, infatti, aveva tentato di mediare, ipotizzando
che, «et si haec expresse non habeantur in philosophia Aristotelis, quoniam ex
sensu, a quo semper incepit philosophari, deprehendere non potuit», lo Stagirita
nell’edizione del 1525 dei suoi Tractatus acutissimi utillimi et mere peripatetici. Petrus Pomponatius,
Defensorium, in Id., Tutti i trattati peripatetici cit., p. 2064.
53 Pomponatius, Defensorium cit., p. 2068.
54 Pomponatius, Defensorium cit., p. 2066.
Il principio dell’unicità del vero 241
3. Aristotelismo e concordismo
Pomponazzi non era stato il primo a manifestare segni di insofferenza nei con-
fronti del decreto del 1513, reclamando una distinzione di ruoli tra filosofo e
teologo. Le prime rimostranze avevano infatti avuto luogo già nel corso della
votazione di ratifica dell’Apostolici regiminis. Come si ricava dagli atti conciliari,
al termine della lettura del testo della bolla, l’arcivescovo di Gniezno, Jan Laski,
tetica, academica, naturali, et Christiana, revisus per authorem et nunc primo editus, in officina Aureli
Pinci Veneti, Venetiis 1536, f. 41r.
56 Mansi, Sacrorum conciliorum cit., col. 842.
57 Thomas De Vio Cardinalis Caietanus, Scripta Philosophica. Commentaria in De anima Aristotelis,
vol. I, ed. P.I. Coquelle, Angelicum, Romae 1938, p. 33, § 31, p. 40, §43. Sul Gaetano e la psicologia ari-
stotelica resta fondamentale M.-H. Laurent, Le commentaire de Cajétan sur le «De Anima», in Caietanus,
Scripta Philosophica cit., pp. vii-lii.
242 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
deducitur recte nisi verum» – e che l’anima umana fosse separabile dal corpo
e incorruttibile era per il Gaetano una verità di fede inoppugnabile58. Tuttavia
egli non era giunto a tale risultato se non al prezzo di una distinzione tra verità
esegetica – l’autentica opinione (mortalista) di Aristotele – e verità filosofica –
quella insegnata da Tommaso in accordo con la fede.
Di lì a poco, il suo nome fu inserito nella lista dei Padri incaricati di redi-
gere il testo della bolla lateranense. Non è chiaro cosa spinse Leone X a questa
scelta, se cioè – per citare qualche ipotesi – il Pontefice aveva voluto mostrarsi
equanime o se, viceversa, aveva visto nel Gaetano un modello positivo di ciò
che ci si aspettava dai docenti59. Dopotutto, infatti, de Vio si era affrettato a ri-
cucire secundum philosophiae principia quella concordia tra ragione e fede che
secundum Philosophi principia gli era apparsa inverosimile. Di sicuro la scuola
tomista non aveva incassato senza malumori quel tentativo di emancipazione
dall’Aquinate, visto che ancora a distanza di anni, in un capitolo del suo De
strigimagarum daemonumque mirandis (1521), il Maestro del Sacro Palazzo,
Silvestro Mazzolini da Prierio, non perdeva occasione di smontare i passaggi
più controversi del commento gaetaniano, né di riconoscere in quella tendenza
a discutere più «de mente philosophorum» che «de rerum veritate» un’auten-
tica forma di malcostume intellettuale, quasi che non si potesse dar prova del
proprio talento, senza piccarsi di smentire la fede cristiana in forza dell’autorità
di Averroè o dello stesso Aristotele60.
Ad ogni modo, sulla scorta degli ultimi sviluppi della sua ricerca, il Gaetano
aveva manifestato chiaramente in Concilio la sua indisponibilità a demandare
l’onere di un convincente insegnamento della dottrina cristiana ai professori di
filosofia, se non già la consapevolezza che certi argomenti sfuggono alla presa
della ragione naturale. Tale consapevolezza emergerà però con evidenza soltanto
più tardi, nelle fugaci annotazioni al problema dell’anima vergate dal Gaetano a
margine dei suoi Commenti alle Scritture. L’esempio più eloquente lo si rintrac-
cia in un passaggio del suo Commento alla Lettera di s. Paolo ai Romani (com-
pletato nel 1528), in cui De Vio apriva una parentesi sul rapporto tra predestina-
58 Thomas De Vio Cardinalis Caietanus, Commentaria in libros Aristotelis De anima. Liber 3, ed. G.
Picard-J.Pelland, Desclèe de Brouwer, Bruges-Paris 1965 (Studia. Travaux de recherche, 19), p. 65, §
102.
59 Per le due ipotesi cf. rispettivamente Monfasani, Aristotelians cit., p. 269 e E.A. Constant, A Rein-
terpretation of the Fifth Lateran Council Decree Apostolici regiminis (1513), in Sixteenth Century Journal,
33/2 (2002), pp. 353-379, in part. p. 374.
60 Cf. Sylvester Prierias, De strigimagarum daemonumque mirandis libri tres, una cum praxi exac-
tissima, et ratione formandi processus contra ipsas, a mendis innumeris, quibus scatebant, in hac ultima
impressione purgati, & indice locupletissimo illustrati, in aedibus Populi Romani, Romae 1575, foll. 19-42
(cit. fol. 30). Per una ricostruzione dell’antagonismo tra Mazzolini e il Gaetano, cf. M. Tavuzzi, Prierias.
The Life and Works of Silvestro Mazzolini da Prierio (1456-1527), Duke University Press, Durham 1997
(Duke Monographs in Medieval and Renaissance Studies, 16), pp. 91-115.
Il principio dell’unicità del vero 243
«cum obiicies: coniuge haec verba» – sc. predestinazione e libero arbitrio – «respondeo
me scire quod verum vero non est contrarium, sed nescire haec iungere: sicut ne-
scio mysterium Trinitatis, sicut nescio animam immortalem, sicut nescio Verbum caro
factum est, et similia, quae tamen omnia credo. Et sicut credo reliqua fidei mysteria,
ita credo et haec mysteria predestinationis et reprobationis. Meum est tenere quod
mihi certum est (scilicet uti libero arbitrio et reliquis bonis mihi a Deo concessis omni
studio ad consequendam vitam aeternam) et expectare ut videam, in patria mysterium
divinae electionis mihi modo ignotum, sicut et reliqua fidei mysteria. Haec ignorantia
quietat intellectum meum»62.
61 Thomas De Vio Cardinalis Caietanus, In omnes Pauli et aliorum Apostolorum epistolas commen-
tarii, in Id., Opera omnia quotquot in Sacrae Scripturae expositionem reperiuntur, sumpt. Iacobi & Petri
Prost, Lugduni 1639, t. 5, fol. 58, col. I.
62 Caietanus, In omnes cit., fol. 58, col. II.
63 Sul rapporto tra Spina e Mazzolini nella disputa pomponazziana, cf. M. Tavuzzi, Silvestro da Prierio
and the Pomponazzi Affair, in Renaissance and Reformation, 19 (1995), pp. 47-61.
244 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
effetti tra i due erano certamente intercorsi rapporti personali, essendo stati col-
leghi a Padova dal 1493 al 1496. Di qui la decisione di procedere ad un attacco
congiunto. Nel 1519 infatti Spina aveva pubblicato a Venezia gli Opuscula, una
raccolta di ben tre trattati: il Propugnaculum Aristotelis de immortalitate anime
contra Thomam Caietanum, nel quale si occupava di confutare de Vio; la Tute-
la veritatis de immortalitate animae contra Petrum Pomponatium Mantuanum
cognominatum Perettum, nella quale si dedicava a controbattere alle scanda-
lose argomentazioni del De immortalitate animae del Peretto; il Flagellum in
tres libros Apologiae Peretti, nel quale traeva alimento dalle repliche fornite da
Pomponazzi nell’Apologia per rinforzare le obiezioni già sviluppate nella Tutela
e forniva man forte ai religiosi veneziani che avevano accusato il Peretto di ere-
sia. E tuttavia eradicare il rischio di un ulteriore contagio significava soprattutto
emendare gli ‘errori esegetici’ del Gaetano. Rinunciare infatti al sostegno di
Aristotele su una questione decisiva come quella dell’immortalità – decisiva in
quanto «salus omnis atque felicitas nostra ex ea oriatur atque in ipsa finiatur»
– non costituiva una perdita di poco conto per la fede:
«Solatium etenim non mediocre fidelibus affert tam celebrati philosophi testimonium
in re tanta, infirmis inter christianos extreme ruine clauditur precipitium: infidelibus
autem ex veritate hac facilis ad fidem preparatur via»64.
Per questo, sebbene non fosse giunto a parlare «adeo assertive contra ea que
fidei fondamenta sunt» quanto aveva fatto Pomponazzi «dictante diabolo», il
Gaetano si era macchiato agli occhi di Spina di una colpa altrettanto grave, se
non forse peggiore, giacché aveva mostrato come fosse concettualmente possi-
bile, dall’interno dell’orizzonte dottrinale tomista, seguire tutt’altra via rispetto
a quella di un’interpretazione ‘ortodossa’ di Tommaso65.
4. Fideismo e discordismo
È per lo più rimasto in ombra il fatto che Martin Lutero aveva espresso delle
chiare opinioni sulla delibera del 1513, e che tali opinioni avevano inasprito
i toni della sua rivolta, scoppiata a soli sei mesi della chiusura del Concilio66.
Non è del resto senza significato che nell’opera del monaco tedesco i riferimenti
Caietanus, in Id., Opulscula ‹sic!› edita, per Gregorium de Gregorijs, Venetijs 1519, prohemialis epistola.
65 Bartholomeus de Spina, Flagellum in tres libros Apologiae Peretti, in Id., Opulscula ‹sic!› edita, per
all’Apostolici regiminis, pur coprendo un arco temporale che va dal 1519 al 1531,
si facciano particolarmente insistenti nel triennio 1519-1521, e cioè esattamente
negli anni in cui si consumava la definitiva rottura con la Chiesa di Roma. Se
infatti nel 1518, nella lettera a Leone X che accompagnava il testo delle Reso-
lutiones disputationum de indulgentiarum virtute, pubblicato all’indomani della
diffusione delle 95 Tesi, il futuro riformatore dichiarava ancora di «nihil dicere
aut tenere velle, nisi quod in et ex Sacris literis primo, deinde Ecclesiasticis
patribus, ab Ecclesia Romana receptis, hucusque servatis et ex Canonibus ac
decretalis Pontificiis habetur et haberi potest», già a partire dall’anno succes-
sivo egli riservava al decreto pontificio parole sprezzanti, spesso aspramente
ironiche, cogliendo l’occasione per esprimere la sua condanna nei confronti
delle autorità ecclesiastiche67.
Lutero riconosceva fondamentalmente nell’operato conciliare un sintomo
della condizione di decadenza in cui versava la Chiesa, costretta a legiferare
l’ovvio, come si legge nella Resolutio Lutheriana super propositione sua decima
tertia de potestate papae del 1519:
Ausgabe (WA) 1, Hermann Böhlau, Weimar 1883, pp. 529-530, ll. 33-1.
68 Luther, Resolutio Lutheriana super propositione sua decima tertia de potestate papae (per autorem
locupletata). 1519, in Id., WA 2, Hermann Böhlau, Weimar 1884, p. 226, ll. 38-40.
69 Luther, In epistolam Pauli ad Galatas. 1519, in Id., WA 2, Hermann Böhlau, Weimar 1884, p.
Id., WA 6, Hermann Böhlau, Weimar 1888, p. 338, ll. 30-32 (cit. l. 31).
246 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
71 Cf. Luther, An den christlichen Adel deutscher Nation von des christlichen Standes Besserung. 1520,
in Id., WA 6, Hermann Böhlau, Weimar 1888, p. 433, ll. 2-5 (cit. p. 432, l. 32).
72 Cf. Luther, Assertio omnium articulorum M. Lutheri per bullam Leonis X novissimam damnatorum.
1520, in Id., WA 7, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1897, p. 132, ll. 1-4 (cit. p. 432, l. 32).
73 Luther, Operationes in Psalmos. 1519-1521, in Id., WA 5, Hermann Böhlau, Weimar 1892, p.
verdammt sind. 1521, in Id., WA 7, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1897, p. 425, ll. 22-29.
75 Luther, De abroganda missa privata Martini Lutheri sententia. 1521, in Id., WA 8, Hermann Böh-
gli tanto più assurda nel caso dell’anima, in quanto ai suoi occhi Aristotele non
aveva minimamente sostenuto la tesi dell’immortalità76. Al contrario, nelle An-
notationes in Ecclesiasten del 1532, il riformatore sottolineava come lo Stagirita
avesse «diligenter et callide» evitato di disquisire del problema e di esprimere
il suo punto di vista77. Un punto di vista che doveva essere stato orientato, più
verosimilmente, verso la mortalità, se si tiene conto di ciò che tramanda Ales-
sandro di Afrodisia – e per Lutero non c’era alcun dubbio sul fatto che «talem
discipulum perfecte nosse praeceptoris sui sententiam»78.
Né, d’altra parte, si poteva pretendere altrimenti, avendo a che fare con una
verità che «est extra solem»79. O meglio, con una verità che è «extra, intra,
supra, infra, citra, ultra omnem veritatem dialecticam», – come il riformatore
preciserà nella Disputation de Sententia: Verbum caro factum est (Joh, 1, 14)
del 1539, in cui sarebbe giunto a confutare esplicitamente l’unicità del vero80.
Stavolta, però, egli non si scagliava contro i Padri conciliari. Era infatti contro la
Sorbona «mater errorum» e contro i teologi parigini, «qui omnia volunt theologi-
ca sua ratione philosophica metiri», che Lutero faceva professione di discordi-
smo, negando che il detto «Omne verum vero consonat» fosse «verum in diversis
professionibus»81. «In theologia» – esemplificava – «verum est, verbum carnem
factum», mentre «in philosophia simpliciter impossibile et absurdum»82. Non
si trattava tuttavia di concludere che il vero filosofico potesse confliggere col
vero teologico, quanto piuttosto di ammettere che un contenuto di fede «in an-
gustias rationis seu syllogismorum includi non potest»83. In tal modo, a più di
due secoli e mezzo di distanza dall’editto parigino del 1277, Lutero sembrava
fornire una replica alla motivazione con cui l’articolo 216 («quod resurrectio
futura non debet concedi a philosopho, quia impossibile est eam investigare per
rationem») era stato condannato da Tempier: «etiam philosophus debet capti-
vare intellectum in obsequium Christi» – aveva rimbeccato il vescovo84. Agli
occhi di Lutero, l’insegnamento paolino secondo il quale «captivandum esse
76 Su Lutero e la questione della psicologia aristotelica, cf. E. Andreatta, Lutero e Aristotele, Cusl
taires / Vander-Oyez, Louvain-Paris 1977, p. 309; L. Bianchi, Captivare intellectum in obsequium Christi,
in Rivista critica di storia della filosofia, 38 (1983), pp. 81-87, in part. p. 85.
248 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
«Hie were nu mein rad, das sie bucher Aristoteles, Phisicorum, Metaphysice, de Ani-
ma, Ethicorum, wilchs biszher die besten gehalten, gantz wurden abthan mit allen
andern, die von naturlichen dingen sich rumen»88.
Anche Filippo Melantone, fedele seguace di Lutero nei primi anni della Ri-
forma, terrà a precisare che
«Non damnat Lutherus eam philosophiae partem, quae mathemata, quae gemmarum,
plantarum & animantium naturas descripsit: Nam horum cognitionem fatetur ad sacra
necessariam esse, soletque in loco uti, quoties res postulat [...]. Damnat autem, si
ignoras, eam philosophiae partem, quae de rerum principijs, ventorum ac pluviarum
caussis, prodigiosas nugas comminiscitur, adeoque quidquid id est, quod Aristotele
vocat physica ἀκροάματα καὶ μετὰ τὰ φύσικα»89.
89 P. Melanchthon, Didymi Faventini adversus Thomam Placentinum, pro Martino Luthero theologo,
vrai en Théologie, faux en Physique, vrai en Morale, &tc». Cf. «Luther (Martin)», in P. Bayle, Dictionnaire
historique et critique (éd. V), Brunel et al. Libraires, Amsterdam 1740, tome troisieme, p. 234.
91 Su questo si veda in particolare l’interessante studio di F.V. Tommasi, Zwischen radikalem Aristote-
lismus und lutherischer Orthodoxie. Die These der „doppelten Wahrheit“ in der Altdorfer Schule, in Archiv
für Begriffsgeschichte, 55 (2014), pp. 61-74.
250 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
«Ac ego quidem mirari soleo, quenquam esse Christianorum hominum, qui Philo-
sophiam, tanquam rem Deo invisam, sacris literis contrariam, & noxiam iis qui Chri-
stianam doctrinam profitentur, vituperare audeat»92.
«Hinc necessario efficitur, ut perfecta scientia eorum omnium quae conveniunt ani-
mae, sit mixta ex tribus doctrinis, nam partim est physica, partim metaphysica, partim
est doctrina revelata, ex quo fit, ut scientia illius sit maxime difficilis, praestans &
admirabilis. [...] ego non video quomodo talis scientia partim physica, partim metaphy-
sica, partim ex revelatione pendens, una & simplex scientia dici aut esse possit»93.
Zanettum, Roma 1576, Praefatio, f. 3. Su questo cf. P.R. Blum, Benedictus Pererius: Renaissance Culture
at the Origins of Jesuit Science, in Science and Education, 15 (2006), pp. 279-304, in part. p. 285.
93 Perera, De communibus cit., lib. I, c. 9, p. 21 e c. 10, p. 22. Più ampiamente, sullo statuto della
psicologia in Perera, si veda M. Lamanna, Theology in Psychology. The Impact of Theology in the Early
Modern Debate on Rational Psychology (1500-1660), in Wolfenbütteler Renaissance-Mitteilungen, 32/2
(2008-2010), pp. 163-183; si veda anche il contributo di Mário Santiago de Carvalho in questo volume.
Il principio dell’unicità del vero 251
Perera sembra dunque intenzionato a riaffermare l’unità del vero tra ragione e
rivelazione, riponendo al centro il tema dell’anima umana e della scientia de
anima. Allo stesso tempo, però, il gesuita proietta simili questioni in un quadro
diverso, che ha come suo principale interesse la chiarificazione epistemologica.
Come mostra tutto il primo libro del De communibus, Perera è assolutamente
convinto che per giungere a una più sicura verità della conoscenza serva an-
zitutto chiarire gli oggetti, i confini e le finalità delle singole scienze, oltre ai
rapporti che intercorrono tra di esse. Questo vasto programma di ridefinizione
disciplinare era stato avviato sin dai corsi al Collegio Romano, durante i quali
il gesuita aveva insistito sullo statuto sui generis della scientia de anima come
“luogo” epistemico privilegiato per mostrare la fondamentale unità e concordan-
za del vero: in continuità con il V Concilio lateranense, Perera elegge Tommaso
d’Aquino a massima autorità su questi temi94.
Oltre che a Tommaso, tuttavia, l’interesse del gesuita si rivolge anche ad
Agostino. È infatti il vescovo di Ippona a fungere da autorità principale nel primo
tomo dei Commentaria in Genesim (1591) di Perera, nel quale il gesuita, giunto
al culmine della sua attività accademica e di studio, intende sottoporre anche
la teologia e l’esegesi testamentaria a una seria verifica epistemologica. Perera
riteneva, infatti, di poter offrire un buon servizio allo studio delle Scritture e
alla conoscenza di Cristo fissando alcune generali regole che ne favorissero la
corretta interpretazione.
Perché si desse una vera scienza del Testo Sacro era necessario infatti, se-
condo Perera, anzitutto riaffermare l’intrinseco valore storico (plane historica)
della narrazione mosaica della creazione, fondando poi su di essa la necessità di
un’interpretazione letterale (litteralis sensus verborum) del testo biblico: è questa
la prima regula che Perera fissa attraverso l’autorità di alcuni padri della Chiesa:
Agostino, Basilio e Beda in primis
«Doctrina Mosis, quae de creatione mundi traditur, est plane historica. [...] Ex his
perspicue intelligitur, si narratio Mosis est historica, consequens esse, ut is proprius
& germanus, atque, ut vocant, litteralis sensus sit verborum Mosis, quem reddunt
verba eius secundum propriam, et vulgo usitatam eorum significationem accepta. Si
enim Mosis historice scripsit, procul dubio id docere voluit, quod verba eius proprie
sumpta declarant»95.
94 «Ad quartam dubitationem respondendum est, quod Anima rationalis non consideratur a Physico
omni ex parte, nec est simpliciter forma Physicae, de quo alio loco copiose diximus. Ita<que> quatenus
Anima rationalis est actus corporis operans in eo cohaerens sensibus [...] consideratur a Physico, sed qua-
tenus habet naturam quandam separabilem immortalem, et immaterialem pertinet ad aliam scientiam vel
Metaphysicam, vel revelatam; quod affirmat D. Thomas in II Physic. super tex. 2». Benedictus Pererius,
Opus metaphysicum, ms. BAV, Urb. Lat. 1308, ff. 16v-17r.
95 B. Perera, Commentariorum et disputationum in Genesim tomi quatuor, Hierat, Coloniae Agrippi-
nae 1606, tomus I, col. 5a. – Di Agostino è citato il De Genesi ad litteram (VIII, 1); di Basilio la Homilia
252 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
Historia e littera sono dunque i due capisaldi che il gesuita pone all’inizio
della sua indagine, rifiutando conseguentemente ogni lettura mistica e allegorica
del Testo Sacro: simili letture avrebbero infatti esposto il dettato biblico – vale a
dire quella che per il gesuita costituisce una storia da intendere alla lettera – alla
molteplicità e all’incertezza delle interpretazioni, ricadendo così, per certi versi,
nell’impasse in cui si era venuta a trovare la teologia riformata, in particolare
quella zwingliana e calvinista96. Contro l’interpretazione personale si era espres-
so, peraltro, il V Concilio Lateranense, seguito in maniera ancora più energica
e perentoria dal Concilio di Trento97:
«Adiicio unum hoc, velut clausulam huius regulae; si, quae tradit Moses hoc loco,
non historice ac proprie, sed figurate et allegorice sunt accipienda, fore, ut ex Mose
aut nullam, aut certe non stabilem, ratam certamque habeamus de mundi origine et
effectione doctrinam, cum tamen, quam ea de re tenet Ecclesia Catholica, quamque
in fidei articulos retulit, ex hoc potissimum libro Mosis acceperit. Etenim sensus
Mysticus et allegoricus, praeterquam quod non est ad docendum quippiam, proban-
dumque satis idoneus et firmus, est etiam varius, multiplex, et incertus, tantaque in
varietate constitutus, quanta est hominum ad eos sensus fingendos solertia, et ubertas
ingenii»98.
IX super Genesim; per quanto riguarda Beda il rimando è al Super Hexameron. Su questo si veda anche
Dollo, Le ragioni del geocentrismo nel Collegio Romano (1562-1612), in Id., Galileo Galilei e la cultura
della tradizione, Rubettino, Soveria Mannelli 2003, VI, pp. 167-233, in part. pp. 173-174.
96 A riguardo cf. G. Roncaglia, Palestra rationis. Discussioni su natura della copula e modalità nella
filosofia ‘scolastica’ tedesca del XVII secolo, Olschki, Firenze 1996; M. Lamanna, Tópos e Trópos: Ramo,
i ramisti e le controversie eucaristiche nella Germania riformata, in D. Giovannozzi / M. Veneziani (a cura
di), Locus-Spatium, Atti del XIV Colloquio internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, Olschki,
Firenze 2014, pp. 237-248.
97 Su simili questioni si rimanda al contributo di Paolo Ponzio presente in questo volume.
98 Perera, Commentariorum et disputationum in Genesim cit., tomus I, coll. 5b-6a.
99 Dollo, Le ragioni del geocentrismo nel Collegio Romano (1562-1612), in Id., Galileo Galilei e la
Scripturam totam sic explicant, secundum sensum litteralem, ut a nemine (quod sciam) adhuc praestitum:
ingenio enim quisque in Scripturae singulos libros volumina edit, nos aliam longe sententiam (ut vide)
secuti». M. de Sá, Notationes in totam Scripturam Sacram, apud Horatium Cordon, Lugduni 1591, p. 3.
Su questo cf. anche Dollo, Le ragioni del geocentrismo nel Collegio Romano (1562-1612), in Id., Galileo
Galilei e la cultura della tradizione cit., VI, pp. 167-233, in part. p. 170; su Mariana si rimanda invece
a P. Ponzio, Copernicanesimo e teologia. Scrittura e natura in Campanella, Galilei e Foscarini, Levante,
Bari 1998, pp. 32-35.
Il principio dell’unicità del vero 253
Come è noto, nella Lettera a Cristina di Lorena (1615), Galilei aveva mostrato
di riprendere proprio dai Commentaria in Genesim di Perera l’adagio «cum ve-
rum omne semper cum vero congruat», traducendolo poi nella formula «due veri
non possono mai contrariarsi»102. Anche nel Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo (1632) viene ribadita una simile soluzione, attraverso l’espressione
«perché chiara cosa è che due veri non si posson contrariare»103. Una formula
che Perera aveva desunto, per sua esplicita ammissione, dall’Epistola ad Mar-
cellinum (n. 143, 7)104 di Agostino, e che segna ancora una volta la continuità con
la bolla Apostolici regiminis, serve dunque allo scienziato pisano per sostenere il
chiaro concordismo tra verità di scienza e verità di fede. Nella Lettera a Cristina
di Lorena, infatti, l’unità del vero con il vero diventa, oltre che congruenza, anche
esplicita concordanza
«Stante questo, ed essendo, come si è detto che due verità non possono contrariarsi,
è officio de’ saggi espositori affaticarsi per penetrare i veri sensi de’ luoghi sacri, che
101 Perera, Commentariorum et disputationum in Genesim cit., tomus I, col. 6a. – Una traduzione
del passo di Perera è rinvenibile in M. Ciliberto (a cura di), Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia
moderna, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 441, n. 58: «Deve essere accuratamente evitato e rifuggito che, nel
trattare la dottrina di Mosè, non si capisca e si affermi con assoluta certezza qualcosa che vada eviden-
temente contro le esperienze e le ragioni della filosofia e di altre discipline; certamente, poiché tutto ciò
che è vero si accorda con il vero, a verità delle Sacre Scritture non può essere contraria alle vere ragioni
e alle esperienze umane».
102 G. Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena (1615), in A. Favaro (a cura di), Le Opere di
Galileo Galilei, Edizione Nazionale Barbera, Firenze 1890-1909, vol. V, pp. 307-348, in part. p. 330.
103 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Le Opere di Galileo Galilei cit., vol.
VII, p. 80.
104 «Si manifestae certaeque rationi velut Sanctarum Scripturarum obiicitur authoritas, non intelligit
qui hoc facit; et non Scripturae sensum, ad quem penetrare non potuit, sed suum potius, obiicit veritati;
nec quod in ea, sed in se ipso, velut pro ea, invenit, opponit. [Se d’altro canto, a una ragione evidentissima
e sicura si cercasse di contrapporre l’autorità delle Sacre Scritture, chi fa questo non comprende e oppone
alla verità non il senso genuino delle Scritture, che non è riuscito a penetrare, ma il proprio pensiero,
vale a dire non ciò che trovò nelle Scritture, ma ciò che trovò in se stesso, come se fosse in esse]». Per la
traduzione italiana e il testo latino parzialmente emendato rispetto all’originale di Perera e Galilei si veda
Epistola 143,7, in Augustinus, Epistolae – Le lettere, II, trad. it. di L. Carrozzi, Città Nuova Editrice, Roma
1971 (Opere di Sant’Agostino, vol. XXII), pp. 329-344, in part. pp. 338-339.
254 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
«La via che Galileo sceglie di percorrere per perorare la causa di Coperni-
co – scrive Pietro Redondi – è quella dell’unità della verità»106. La ripresa di
Perera da parte di Galilei non è tuttavia riducibile all’adagio cum verum omne
semper cum vero congruat. «Le Lettere copernicane – scrive ancora Redondi – si
iscrivono infatti nelle grandi linee direttive dell’ortodossia cattolica di allora:
conformità alla tradizione patristica e teologica; infallibilità della Bibbia in toto
(anche nelle sue parti poetiche o astronomiche); ricorso molto parsimonioso ai
miracoli; esegesi letterale sempre, o almeno fin dove è possibile»107. Si può
dire, dunque, che Galilei accetti per intero il programma proposto da Perera
con le quattro regole epistemiche dei Commentaria in Genesim, condividendo
per intero l’“epistemologia del Testo Sacro” messa a punto dal gesuita. Giunto a
suffragare le posizioni di Galilei, la formula del cum verum omne semper cum vero
congruat diventa così uno strumento epistemico ancora più ambizioso e potente,
perché intende «concordare un luogo della Scrittura con una posizione naturale
dimostrata»108 alla luce degli esiti dirompenti che la Rivoluzione scientifica sta-
va apportando. Il concordismo della verità avviene dunque, in Galilei, all’inter-
no di una prospettiva “al rialzo” da un punto di vista epistemologico: da un lato,
infatti, il nuovo metodo galileiano rivendicava la verità delle sensate esperienze
e delle dimostrazioni necessarie, dall’altro lo scienziato pisano non intendeva
ridimensionare il valore di verità dell’interpretazione letterale della Bibbia. Al
contrario, «Galileo sarà il primo a dimostrare che la Bibbia dice sempre la ve-
rità e a salvare così in una volta sola tre cose: la realtà del miracolo di Giosué;
l’esegesi letterale della Scrittura; e la dignità della scienza»109. Nella Lettera a
Cristina di Lorena la confutazione della lettura geocentrica del passo di Giosué
(Ios 10,14), stetit itaque sol in medio caeli, viene svolta, infatti, senza indebolire
nessuno dei due poli, natura e Scrittura, che dovevano andarsi a concordare110.
La rivendicazione potente dell’interpretazione letterale del Testo Sacro svolta
da Perera (regola I dei Commentaria in Genesim) interessava dunque allo scien-
ziato pisano almeno quanto il cum verum omne semper cum vero congruat (regola
IV). Nonostante questo, nel 1633, il gesuita Melchior Inchofer, riaffermando il
principio del verum enim non contradicit vero, era giunto ad accusare Galilei di
aver proposto una ingeniosa distinctio tra verità teologica e verità filosofica, cioè
di aver in fondo sostenuto una doppia verità in merito al rapporto tra geocentri-
smo biblico ed eliocentrismo copernicano111: saranno accuse su cui Galilei si
soffermerà in una lettera a Elia Diodati del 25 luglio 1634112. Più acuti saranno
invece i rilievi di Bellarmino che, istituendo un regime epistemico differente
tra verità rivelata e verosimiglianza scientifica, si rivolgeranno di fatto contro
il concordismo di Galilei e quindi contro l’interpretazione di Perera data da
quest’ultimo113. Per quanto il cardinale si basasse su una differente concezione
dell’astronomia rispetto a quella dello scienziato pisano – intendendo l’astrono-
mia fondata sulla matematica e non sulla fisica –, si può dire, a livello più gene-
rale, che Bellarmino fosse cosciente dei profondi mutamenti a cui stava andando
incontro il paradigma scientifico nei suoi anni. Anche il principio dell’unicità
del vero andava pertanto ripensato a fronte delle pretese di verità avanzate dalla
scienza moderna.
111 M. Inchofer, Tractatus syllepticus, Grignanus, Roma 1633, pp. 91-92. Su questa accusa di Inchofer
ultimamente un Padre Gesuita ha stampato in Roma che tale opinione è tanto horribile, perniziosa e
scandalosa, che se bene si permette che nelle cathedre, nei circoli, nelle pubbliche dispute e nelle stampe,
si portino argomenti contro ai principalissimi articoli della fede, come contro all’immortalità dell’anima,
alla creazione, all’Incarnazione etc., non però si deve permetter che si disputi nè si argomenti contro alla
stabilità della terra, sì che questo solo articolo sopra tutti si ha talmente a tener per sicuro, che in modo
alcuno si habbia, nè anco per modo di disputa e per sua maggior corroborazione, a instargli contro. Il
titolo di questo libro è: Melchioris Inchofer, e Societate Iesu, Tractatus syllepticus». Cf. G. Galilei, Lettera
a Elia Diodati (25 luglio 1634), in Le Opere di Galileo Galilei cit., vol. XVI, pp. 115-119, in part. p. 118.
113 Basti far riferimento a questo proposito a quanto scrive Bellarmino nella lettera a Paolo Antonio
Foscarini del 12 aprile 1615: «P.o Dico che mi pare che V.P. et il Sig.r Galileo facciano prudentemente a
contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato
il Copernico. Perché il dire, che supposto che la terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte l’ap-
parenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e
questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il sole stia nel centro del mondo, e solo si
rivolti in sè stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la terra stia 3° nel cielo e giri con somma
velocità intorno al sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma
anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante; perchè la P.V. ha bene dimostrato
molti modi di esporre le Sante Scritture, ma non li ha applicati in particolare, chè senza dubbio havria
trovate grandissime difficultà se havesse voluto esporre tutti quei luoghi che lei stessa ha citati». La lettera
si rinviene in Le Opere di Galileo Galilei cit., vol. XII, pp. 171-172. Più ampiamente, su questi temi, si
rimanda al contributo di Paolo Ponzio in questo volume.
256 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna
Abstract: On December 19th 1513, the papal bull Apostolici regiminis sanctioned the
dogma of the immortality of the soul, imposing the defence of the Christian doctrine during
the courses in philosophy. In their lectures, the Christian teachers had to contrast some
unorthodox topics such as the mortality of the individual soul, the unity of the intellect
and the eternity of the world. All of their arguments should be based on the principle of
the unity of truth (verum vero minime contradicit), according to which philosophical truths
cannot deny or contradict truths of the faith. The paper aims to trace the history of the re-
ception of the adagio verum vero minime contradicit, starting from the promulgation of the
bull and the debate on the Aristotelian psychology up to the Age of Galileo and Scientific
Revolution, showing the important role Benet Perera played in this debate.
Key words: Bulla Apostolici regiminis; Aristotelianism; Averroism/anti-Averroism; Sci-
entific Revolution; Pope Leo X, Pomponazzi; Luther; Perera; Galileo.
Annalisa Cappiello
• Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Palazzo Strozzi
I-50123 Firenze
annalisacappiello19@gmail.com
Marco Lamanna
• Scuola Normale Superiore (Pisa), Centro di Filosofia
Palazzo della Canonica, P.zza dei Cavalieri, 8
I-56126 Pisa
marco.lamanna@sns.it