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Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

Il principio dell’unicità del vero


dalla bolla Apostolici regiminis (1513)
alla Rivoluzione scientifica*

Introduzione

«Semper existimavi duas quaestiones, de Deo et de Anima, praecipuas esse ex


iis quae Philosophiae potius quam Theologiae ope sunt demonstrandae» – scri-
veva Descartes nelle Meditationes, all’interno della celebre epistola dedicatoria
al Decano e ai Dottori della facoltà di Teologia di Parigi; «nam quamvis nobis
fidelibus animam humanam cum corpore non interire, Deumque existere, fide
credere sufficiat, certe infidelibus nulla religio, nec fere etiam ulla moralis vir-
tus, videtur posse persuaderi, nisi prius illis ista duo ratione naturali proben-
tur»1. Era al buon filosofo cristiano, in altri termini, che andava attribuita la
responsabilità di garantire una felice interazione ontologica, epistemologica ed
etica tra la ragione naturale e la fede: egli doveva avocare a sé la competenza
di due cruciali oggetti teologici – Dio e l’anima umana –, dimostrare in base al
proprio metodo e livello di conoscenza la veridicità dell’esistenza del primo e
dell’incorruttibilità del secondo, e in tal modo convalidare sul piano razionale
due condizioni indispensabili all’agire morale virtuoso.
Per quel che attiene in particolare all’anima e alla dimostrazione filosofi-
ca della sua immortalità, la professione di concordismo descartesiana faceva
esplicitamente eco alle ingiunzioni dell’ottava sessione del V Concilio Late-
ranense:

«Atque quantum ad animam, etsi multi ejus naturam non facile investigari posse judi-
carint, et nonnulli etiam dicere ausi sint rationes humanas persuadere illam simul cum
corpore interire, solaque fide contrarium teneri, quia tamen hos condemnat Concilium
Lateranense sub Leone 10 habitum, sessione 8, et expresse mandat Christianis Phi-

* Il contributo è stato pensato e discusso insieme dai due autori. In particolare, si devono ad Annalisa
Cappiello l’Introduzione e i paragrafi 1-4, a Marco Lamanna il paragrafo 5.
1 R. Descartes, Meditationes De Prima Philosophia, in Id., Opere 1637-1649, a cura di G. Belgioioso,

testo latino e francese a fronte, Bompiani, Milano 2009, p. 680.

Quaestio, 14 (2014), 229-256 • 10.1484/j.quaestio.5.103614


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losophis ut eorum argumenta dissolvant, et veritatem pro viribus probent, hoc etiam
aggredi non dubitavi»2.

Si trattava della bolla Apostolici regiminis (19 dicembre 1513), che aveva
segnato una cesura nel tradizionale rapporto di non ingerenza delle autorità
ecclesiastiche nella didattica delle Università italiane – un rapporto che, sia
pure per motivi squisitamente istituzionali, e cioè per l’inesistenza in Italia di
una facoltà di Teologia che potesse esercitare una qualche forma di controllo,
era durato più di due secoli3.
Stando alla lettura del decreto, scopo incipitario dell’intervento lateranense
era stata l’urgenza di tutelare il dogma dell’immortalità dell’anima umana ini-
bendo certe infestanti derive interpretative di stampo averroista e alessandrista:
posto che l’anima era essenzialmente forma del corpo (come già statuito dal Con-
cilio di Vienne del 1311), immortale, infusa da Dio (cioè creata e non generata)
e moltiplicata per il numero degli uomini, la bolla aveva proceduto a censurare
chiunque ne asserisse la corruttibilità («omnes asserentes animam intellectivam
mortalem esse») o l’unicità per l’intero genere umano («aut unicam in cunctis
hominibus»), così come chiunque ne mettesse in dubbio la definizione dogma-
tica appena prescritta («et haec in dubium vertentes»), quand’anche rivendi-
cando alle proprie argomentazioni soltanto una qualche legittimità dal punto
di vista filosofico («secundum saltem philosophiam»)4. Per i padri conciliari,
infatti, la certezza dell’immortalità dell’anima individuale scaturiva direttamen-
te dal dettato evangelico; senza un simile prerequisito, inoltre, la prospettiva
di premi e castighi eterni a seconda dei meriti, l’incarnazione di Cristo, l’attesa
della resurrezione dei morti e tutti gli altri misteri della fede sarebbero stati
destituiti di senso; pertanto, poiché «verum vero minime contradicat» – poiché
il vero (filosofico) non poteva smentire il vero (teologico) – si doveva dichia-
rare «omnino falsam» qualunque asserzione entrasse in conflitto col dogma e
condannare come «haereticos & infedeles» quanti si fossero ostinati ad «aliter
dogmatizare»5.
Sulla base di questi presupposti, in seconda istanza, il decreto aveva messo
a punto una metodologia preventiva della diffusione di errori, a cui i professori
di filosofia dovevano attenersi quando, nel corso delle lezioni, si trovavano a
dibattere di teorie in palese contrasto con la fede, ad esempio «de animae mor-

2 Descartes, Meditationes cit., p. 682.


3 Su questo punto cf. lo studio di J. Monfasani, Aristotelians, Platonists, and the Missing Ockhamists:
Philosophical Liberty in Pre-Reformation Italy, in Renaissance Quarterly, 46 (1993), pp. 247-276, in part.
pp. 252-256.
4 J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, Expensis Huberti Welter, Bibliopo-

lae, Parisiis 1902, vol. XXXII, col. 842.


5 Mansi, Sacrorum conciliorum cit., col. 842.
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talitate aut unitate, & mundi aeternitate, ac alia hujusmodi»6. Come rammentava
Descartes, la strategia prevedeva che i docenti si sforzassero di rendere manife-
sta la verità cristiana e di insegnarla in modo persuasivo («veritatem religionis
Christianae omni conatu manifestam facere, & persuadendo pro posse docere»),
confutando a misura delle proprie capacità («pro viribus») gli argomenti ad
essa contrari7. Allo scopo di «purgare & sanare» le «infectas philosophiae &
poesis radices», si era provveduto infine a porre sotto regolamentazione anche
le attività curriculari dei chierici, stabilendo che essi non potessero dedicarsi
allo studio di quelle due discipline, una volta conclusa la fase di apprendimento
della grammatica e della dialettica, se non a patto di proseguire per almeno un
quinquennio la loro formazione in teologia o diritto canonico8.
La commissione papale, in breve, congegnava ben tre rimedi di bonifica «in
agro Domini»9: il rimedio ex post della condanna di quei seminatori di zizzania
che andavano diffondendo teorie eterodosse sull’anima umana; i due rimedi ex
ante concernenti la pianificazione di precisi indirizzi di insegnamento (ai docen-
ti) e di studio (ai religiosi) – con l’esplicita sottolineatura, in quest’ultimo caso,
della necessità di estirpare le radici infette del paganismo. Tenendo dunque
conto sinotticamente dei tre momenti del decreto, si vede come l’azione latera-
nense mirasse di fatto a incentivare un impiego quanto più possibile apologetico,
strumentale e ancillare della filosofia nei confronti della fede. Ne era criterio
chiave il principio dell’unicità del vero, espressione dell’illegalità logica di ogni
assunto filosofico contrastante con i contenuti della verità cristiana: l’eresia re-
cava inevitabilmente su di sé lo stigma della contraddizione.
È cosa nota che l’esercizio di una simile politica da parte della Santa Sede
sarebbe culminato nell’affaire Galilei, quando l’applicazione dei provvedimenti
dell’Apostolici regiminis sarebbe stata estesa agli scienziati10. Quel che però qui
si vuol tentare non è tanto una valutazione dell’impatto del decreto sulla libertà
di ricerca di filosofi e scienziati, quanto piuttosto una panoramica del quadro
composito delle posizioni riguardo alla massima concordista verum vero minime
contradicit nell’arco temporale che va dalla promulgazione della bolla lateranen-
se agli albori della scienza moderna. Si comincerà dal modo in cui la questione
dell’unicità del vero fu interpretata, nella prima metà del sec. XVI, da parte di
alcuni dei principali protagonisti del dibattito sulla psicologia aristotelica.

6 Mansi, Sacrorum conciliorum cit., col. 842.


7 Mansi, Sacrorum conciliorum cit., col. 842.
8 Mansi, Sacrorum conciliorum cit., coll. 842-843.
9 Mansi, Sacrorum conciliorum cit., col. 842.
10 Sul ruolo giocato dall’Apostolici regiminis nella condanna di Galileo, cf. L. Bianchi, Pour une his-

toire de la “double verité”, Vrin, Paris 2008, pp. 144-156.


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1. Antiaverroismo e commissione lateranense

Se è nella controversia rinascimentale sull’immortalità dell’anima e sull’auten-


tica opinione di Aristotele al riguardo che si deve individuare la prima sede di
ricezione del principio dell’unicità del vero, è perché tale principio, come si è
visto, fu formulato contestualmente alla sanzione del dogma dell’anima indivi-
duale. La storia di quel che effettivamente accadde in seno alla commissione
di lavoro «super materia pragmatica, & rebus fidem tangentibus», incaricata
della stesura dell’Apostolici regiminis, resta forse ancora da scrivere11. Ciò non
toglie, però, che la biografia intellettuale di alcuni dei Padri che ne fecero parte
consenta di risalire agevolmente a quelle che furono le principali matrici del
documento del 1513.
Non è certo un mistero, ad esempio, che il nome di Antonio Trombetta – pre-
sente in Concilio in qualità di vescovo di Urbino (Reverendus dominus Urbina-
tensis) – sia legato a quella significativa ordinanza nella quale si è visto una sorta
di prodromo dell’Apostolici regiminis: l’editto antiaverroista del 4 maggio 1489,
fatto affiggere alle porte della Basilica di Sant’Antonio a Padova dal vescovo
della città, Pietro Barozzi, e dall’inquisitore Martino da Lendinara, dell’Ordine
dei Frati Minori Conventuali12. Il provvedimento vedeva la luce nel torno di
anni in cui domenicani e francescani conventuali andavano consolidando la
loro posizione presso l’Università patavina e, proprio in Trombetta, professore di
metafisica scotista a Padova dal 1469, avrebbe trovato uno dei suoi più illustri
sostenitori13. Si deve infatti rammentare che, su incarico di Barozzi, il rinomato
docente figurava tra i revisori delle Quaestiones de pluralitate intellectus (termi-
nate nel 1492), con le quali il maestro Nicoletto Vernia aveva tentato di fugare
ogni sospetto circa una sua collusione con l’averroismo14, e che egli stesso aveva
dato alle stampe nel 1498 un Tractatus singularis contra Averroystas de huma-
narum animarum plurificatione, salutato dal vescovo di Padova come un’acuta
critica agli argomenti di quegli «auctores Averroym pluris quam ipsum evan-
gelium facientes»15. Tanto più che Trombetta non condivideva neppure i dubbi
di Scoto sul valore probante delle argomentazioni razionali addotte a sostegno
dell’immortalità dell’anima e sull’effettivo punto di vista dello Stagirita; anzi,

11 Per l’elenco dei membri della commissione, cf. Mansi, Sacrorum conciliorum cit., col. 797.
12 Cf. P. Gios, L’attività pastorale del vescovo Pietro Barozzi a Padova (1487-1507), Istituto per la
Storia Ecclesiastica Padovana, Padova 1977, pp. 293-297.
13 Cf. Monfasani, Aristotelians cit., pp. 258-259.
14 Cf. Gios, L’attività pastorale cit., p. 302; E. De Bellis, Nicoletto Vernia. Studi sull’aristotelismo del

XV secolo, Olschki, Firenze 2012 (Quaderni di Rinascimento), pp. 94-97, 121-131.


15 Antonius Trombeta, Tractatus singularis contra Averroystas de humanarum animarum plurificatio-

ne ad catholice fidei obsequium Patavii editus, nobilis viri d. Octaviani Scoti civis Modoetiensis: impensa
cura vero atque diligenti artificio presbyteri Boneti Locatelli impressus, Venetiis 1498, f. 1v.
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prendeva chiaramente posizione «contra nonnullos asserentes immortalitate


animae non posse ratione naturali probari et Aristotelem non sensisse animam
intellectivam esse immortalem», sebbene senza mai nominare il Dottor Sottile16.
Ma era verosimilmente questa «la Via de Schoto» nella quale Barozzi sosteneva
di poter trovare «come una medicina de li errori de aeternitate mundi, de unitate
intellectus, et de hoc quod de nihilo nihil fiat et altri simili, i quali pullulano da
li philosophi»17.
L’editto antiaverroista del 1489 condannava latae sententiae le pubbliche
discussioni sul tema dell’unità dell’intelletto18. La principale premura sembra-
va essere quella di impedire che la dottrina del monopsichismo suggestionasse
e fuorviasse le coscienze dei più semplici e imperiti in materia. A tale scopo,
Barozzi e Lendinara si raccomandavano duplicemente:

«ut et hi qui Philosophiam discunt sic discant ut christianam philosophiam que longe
omnium prestantissima est non dediscant; et hi qui docent dum se philosophos esse
meminerunt non obliviscantur, se etiam cristianos existere, ac venena disputationum
malarum juxta epulas philosophice discipline non ponant, ne forte de ipsis dicatur
quod in Epistola ad Roman. Paulus Apostolus de quibusdam scribit dicentes se esse
sapientes stulti facti sunt»19.

Non si richiedeva ancora ai professori né una smentita dell’averroismo, né


una difesa dottrinale della posizione ortodossa sul tema dell’anima, ma che al-
meno per cristiana sollecitudine evitassero di intossicare la disciplina filosofica
col veleno delle cattive dispute. «Qui venenum juxta epulas ponit» – si ammo-
niva infatti fin dall’incipit – «a veneficii scelere alienus non est», se anche «non
necandi hominis gratia illud ponit» – clausola che però difficilmente poteva
esser fatta valere per chi armeggiava con quel letale veleno per anime che era
il monopsichismo, nel qual caso l’editto imputava al reo di tentato veneficio
l’aggravante della malafede, cioè a dire l’intenzione di rimuovere, insieme con
l’immortalità personale, il problema del giudizio divino nell’altra vita, così da
poter commettere più liberamente le proprie nefandezze in questa20.
Dieci anni più tardi, col beneplacito del vescovo, il professor Trombetta e il
suo segretario personale nonché successore di Martino da Lendinara, Antonio

16 Trombeta, Tractatus cit., f. 5v.


17 Le parole sono tratte dalla lettera con la quale Barozzi chiedeva al Senato veneto di aumentare la
paga di Maurizio O’Fihely, professore di teologia scotista a Padova, cit. da A. Poppi, L’antiaverroismo della
scolastica padovana alla fine del secolo XV, in Id., La filosofia nello studio francescano del Santo a Padova,
Centro Studi Antoniani, Padova 1989, p. 93.
18 Il testo dell’editto è riprodotto in P. Ragnisco, Documenti inediti e rari intorno alla vita e agli scritti

di Nicoletto Vernia e di Elia del Medigo, in Atti e memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in
Padova, 7 (1891), pp. 278-279.
19 Ragnisco, Documenti inediti cit., p. 279; Rm 1,22.
20 Cf. Ragnisco, Documenti inediti cit., p. 278.
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Mazzuchello, nella chiusa del De humanarum animarum plurificatione, puntua-


lizzavano la faccenda: poiché la plurità delle anime «ex Articulis seu principiis
Orthodoxe fidei clare sequatur», la posizione del Commentatore andava denun-
ciata «ut hereticam et pestiferam»; di qui il divieto per tutti i residenti nelle
diocesi padovana e vicentina di dichiarare «veram et certam» la tesi dell’unità
dell’intelletto, fatta salva la concessione di affermare che «talem fuisse Averrois
sententiam»21. Soltanto in sede di Concilio, tuttavia, sarebbe maturato il convin-
cimento che non bastasse tenere il veleno «conclusum sub clavi»22. Bisognava,
per così dire, somministrarne l’antidoto: il che certamente implicava la condan-
na dottrinale della psicologia averroista, così come di quella alessandrista o di
qualunque altra teoria contraria ai principi cristiani, ma anche e soprattutto la
delegittimazione di una consuetudine invalsa da secoli tra i maestri averroisti,
quella cioè di «dissocier ses responsabilités d’interprète de celles de l’auctoritas
qui faisat l’object de ses cours»23. Ciò che appunto i professori di filosofia non
potevano più fare, secondo le disposizioni del 1513, era esimersi dalle proprie
responsabilità di interpreti cristiani, e dunque dal prendere partito, risolvendo
a favore della fede gli argomenti eterodossi di cui dibattevano nelle loro lezioni.
In verità, in quegli stessi anni in cui l’ortodossia pluralista e immortalista ca-
peggiata da Barozzi dichiarava guerra agli averroisti padovani, il divino Marsilio
andava ultimando il suo lavoro di commento alle Enneadi di Plotino (stampato
nel 1492), la cui lettera prefatoria, dedicata a Lorenzo de’ Medici, conteneva
precise indicazioni sui controveleni più efficaci a neutralizzare la «divulgatam
impietatem» della quale erano responsabili le principali sette peripatetiche,
la «Alexandrinam» e la «Averroicam»24. Per quanto infatti i partigiani dell’u-
na sostenessero «intellectum nostrum esse mortalem», mentre quelli dell’altra
«unicum esse», da entrambe le parti si tentava di sradicare il fondamento della
religione cristiana25. Contro costoro, pertanto, non si poteva pensare di interve-
nire se non con mezzi più potenti che con la «simplici praedicatione fidei», e
cioè «vel divinis miraculis ubique patentibus vel saltem philosophica quadam
religione philosophis eam libentius audituris, quandoque persuasura»26.
Che il platonismo fiorentino avesse già creato un clima favorevole all’ema-
nazione dell’editto antiaverroista patavino non è cosa da escludere27. Più che

21 Trombeta, Tractatus cit., f. 30r; cf. Poppi, L’antiaverroismo cit., p. 95.


22 Ragnisco, Documenti inediti cit., p. 278.
23 Bianchi, Pour une histoire cit., p.135.
24 Marsilius Ficinus, In Plotini Epitomae, seu Argumenta, Commentaria, & Annotationes, in Id., Opera

omnia, con una lettera introduttiva di Paul Oskar Kristeller e una premessa di Mario Sancipriano, Bottega
d’Erasmo, Torino 1962, p. 1537.
25 Ficinus, In Plotini cit., p. 2917.
26 Ficinus, In Plotini cit., p. 2917.
27 Sulla possibile origine ficiniana dell’editto Barozzi, cf. Monfasani, Aristotelians cit., pp. 267-268.
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probabile, però, è che il tentativo di imporre agli aristotelici del tempo una pia
philosophia rientrasse tra gli obiettivi dell’Apostolici regiminis. A parte il fatto
che lo stesso Papa Leone X – al secolo Giovanni de’ Medici – era il secon-
dogenito del Magnifico, non si può trascurare che sedessero in commissione
lateranense almeno due Padri di orientamento platonista: il Reverendus domi-
nus Nazarenus, Giorgio Benigno Salviati, e il Reverendus dominus Melfitanus,
Alessio Celadonio, entrambi intimi del Cardinale Bessarione28. Non è peraltro
inattendibile l’ipotesi che un altro personaggio molto legato al Pontefice, nonché
studioso appassionato di Ficino, il generale degli Agostiniani, Egidio da Viterbo
– il quale pure non è elencato tra coloro che redassero le misure disciplinari del
1513 – avesse giocato un ruolo importante quantomeno in sede di approvazione
della bolla, dove in effetti è attestata la sua presenza29.
A quest’ultima fase dell’iter burocratico del provvedimento lateranense
avrebbero inoltre partecipato anche i due nipoti del celebre Mirandolano, Gio-
vanfrancesco Pico e Alberto Pio da Carpi. Il condizionale è d’obbligo nel caso
del primo, giacché il suo nome non risulta dagli atti conciliari. Ciononostante,
in un passo della sua opera più nota, l’Examen vanitatis doctrinae gentium et
veritatis Christianae disciplinae (1521), egli stesso fa un chiaro accenno al suo
intervento in quella circostanza. Particolarmente interessante è il contesto in cui
Pico riferiva tale notizia, e cioè il capitolo XIII del libro I, in cui affrontava il pro-
blema del dissenso «inter philosophos Gentium» sul tema dell’anima umana30.
Dopo aver sottolineato la divergenza d’opinione tra i due intepreti di Aristotele,
Alessandro di Afrodisia e Averroè, Giovanfrancesco aggiungeva, assieme alla te-
stimonianza della sua partecipazione al Concilio, una considerazione personale
sui peripatetici contemporanei:

«nec desunt nostra tempestate qui blatterent eorum opinionem saltem secundum phi-
losophiam veram esse, quasi Averrois & Alexandri schola sit universa philosophia,
& quasi verum possit esse adversum vero, quorum errorem etiam nuper Leo decimus
Pont. Maximus in Laterano concilio condemnavit, anno a Christiana salute tertio de-

28 Cf. C. Vasoli, Giorgio Benigno Salviati (Dragišić), in M. Reeves (ed.), Prophetic Rome in the High

Renaissance Period, Clarendon Press, Oxford 1992, pp. 121-156; J. Monfasani, Alexius Celadenus and
Ottaviano Ubaldini: An Epilogue to Bessarion’s Relashionship with the Court of Urbino, in Bibliothèque
d’Humanisme et Renaissance, 46 (1984), pp. 95-110; N.E. Minnich, Alexios Celadenus: A Disciple of
Bessarion in Renaissance Italy, in Historical Reflections / Réflexions Historiques, 15 (1988), pp. 47-64.
29 Cf. J.W. O’Malley, Giles of Viterbo: A Reformer’s Thought on Renaissance Rome, in Id., Rome and

the Renaissance. Studies in Culture and Religion, Variorum Reprints, London 1981, p. 8; J.W. O’Malley,
Giles of Viterbo on Church and Reform: a Study in Renaissance Thought, Brill, Leiden 1968 (Studies in
medieval and Reformation thought), p. 7.
30 Joannes Franciscus Picus Mirandulanus, Examen vanitatis doctrinae gentium et veritatis Christi-

anae disciplinae, in Id., Opera omnia, Olms, Hildedheim, 1969, p. 778.


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cimo supra millesimum & quingentesimum, quarto decimo Kalen. Ianuarii octava in
Sessione, in qua & ipse sedi, & pronunciari decretum ipsum vidi»31.

Agli occhi dello scettico Pico, lungi dal costituire l’unica possibile forma di
filosofia, l’aristotelismo rappresentava un caso particolare – il più emblematico
– della vanitas pagana, e cioè di ogni ricerca della verità che fosse indirizzata
altrove che alle Scritture32. Ne era conferma non solo il fatto che certi aristotelici
del momento andassero blaterando che almeno filosoficamente la tesi alessan-
drista o l’averroista avessero una certa validità, come se esistesse una verità in
grado di rivaleggiare con quella cristiana, ma anche lo stesso atavico disaccordo
che divideva gli uni dagli altri, gli alessandristi dagli averroisti, e che in ultima
istanza derivava dall’incapacità di Aristotele di fornire una reale soluzione ad al-
cuni problemi, tra cui quello dell’anima, del quale lo Stagirita «ita obscure locu-
tus est, ut adhuc quid de anima senserit immortalitate magna sit disceptatio»33.
Era viceversa sicuramente presente in Concilio il cugino di Pico, Alberto
Pio, il quale peraltro doveva trovarsi presso la curia pontificia già dal 1512, in
qualità di ambasciatore di Massimiliano I34. Singolare è che il nome di Alberto
si trovasse associato alla publicazione di un testo che verosimilmente aveva co-
stituito un ulteriore fattore di nervosismo per i custodi della dottrina cristiana,
l’edizione aldina del De rerum natura (1500), della quale proprio il principe di
Carpi era il dedicatario35. A lui, tuttavia, l’amico e precettore Aldo Manuzio si
era affrettato a spiegare in quella dedica che una simile scelta editoriale non
equivaleva minimamente alla convinzione che Lucrezio avesse scritto «vera»
o «credenda nobis, nam ab academicis etiam peripateticis, nedum a theologis
nostris multum dissentit», ma risultava giustificata soltanto dal fatto che «epi-
cureae sectae dogmata eleganter et docte mandavit carminibus»36. D’altra parte,
per una strana ironia della sorte, il nome di Alberto era anche legato a quello di
chi, dopo l’emanazione della bolla lateranense, avrebbe dato fuoco alle polveri,
e cioè il famoso Pietro Pomponazzi, il quale nel 1496 aveva lasciato l’Università
di Padova (dove sarebbe rientrato soltanto nel 1499), per trasferirsi alla corte di
Carpi. Col tempo, il principe mecenate avrebbe preso le distanze dai giovanili
insegnamenti che gli aveva impartito il Peretto, ma è probabile che i due siano

31 Joannes Franciscus Picus, Examen vanitatis cit., p. 781.


32 Sull’atteggiamento generale di Gianfrancesco Pico nei confronti della filosofia ‘gentile’, cf. Ch.B.
Schmitt, Gianfrancesco Pico della Mirandola (1469-1533) and His Critique of Aristotle, Martinus Nijhoff,
The Hague 1967, pp. 43-54.
33 Joannes Franciscus Picus, Examen vanitatis cit., p. 781.
34 Cf. H. Semper / F.O. Schulze et Al., Carpi: una sede principesca del Rinascimento (Dresda, 1882),

trad. it. di A. D’Amelio / A.E. Werdehausen, a cura di L. Giordano, ets, Pisa 1999, pp. 114-115.
35 Di questa opinione è F. Gilbert, Cristianesimo, Umanesimo e la Bolla “Apostolici regiminis” del

1513, in Rivista storica italiana, 79 (1967), pp. 967-990.


36 Cf. Gilbert, Cristianesimo, Umanesimo cit., p. 967.
Il principio dell’unicità del vero 237

rimasti in contatto anche in seguito, quando quest’ultimo assunse l’incarico di


docente presso l’Università di Bologna37.

2. La polemica pomponazziana

A qualche anno dalla promulgazione dell’Apostolici regiminis, traendo pretesto


dalle domande di chiarimento rivoltegli da uno studente domenicano, il maestro
Pomponazzi metteva da parte propositi concordistici e miracoli per procedere
alla verifica di tenuta «pure infra limites naturales» della tesi tomista, secondo
la quale l’anima umana sarebbe ad un tempo atto di un corpo fisico organico e
sostanza intellettuale capace di sopravvivere alla corruzione di quest’ultimo38.
Si trattava nientemeno che di porre la dottrina cristiana dell’immortalità, recen-
temente sanzionata dal V Concilio Lateranense, al vaglio della ragione, dell’e-
sperienza e delle testimonianze aristoteliche.
Su tali basi nasceva il Tractatus de immortalitate animae (Bologna 1516),
forse al di là delle intenzioni del suo autore uno dei libri «più scandalosi e
irreligiosi del Rinascimento», di certo l’esito di un serrato contraddittorio con
Tommaso, nel corso del quale il Peretto elaborava il proprio punto di vista in
modo specularmente antitetico a quello dell’Aquinate39: se per Tommaso l’anima
umana era simpliciter immortalis e mortalis secundum quid, cioè una forma es-
senzialmente sussistente e incorruttibile, che può dirsi in un certo senso mortale
in quanto radice delle funzioni vegetative e sensitive (le quali necessitano di
strumenti organici e corruttibili), per Pomponazzi, viceversa, l’anima era sim-
pliciter mortalis e immortalis secundum quid, cioè una forma fondamentalmente
materiale, che si corrompe insieme col corpo di cui è atto primo, e della quale si
può al limite dire che «aliquid immaterialitatis odorat», per il fatto che nell’at-
tività intellettiva non si serve di organi, ma soltanto di oggetti della conoscenza
corporea, vale a dire delle immagini sensibili dalle quali astrae i suoi concetti40.
Per quanto tuttavia il Peretto rubricasse come «deliramenta et principiis
philosophiae repugnantia» le argomentazioni tommasiane, finalizzate com’era-

37 Cf. Semper / Schulze et Al., Carpi cit., pp. 108-109.


38 Petrus Pomponatius, Tractatus de immortalitate animae, in Id., Tutti i trattati peripatetici, a cura
di F.P. Raimondi e J.M. García Valverde, testo latino a fronte, Bompiani, Milano 2013, p. 926. Della ster-
minata bibliografia pomponazziana vanno almeno citati: É. Gilson, Autour de Pomponazzi. Problématique
de l’immortalité de l’ame en Italie au début du XVIe siècle, in Archives d’histoire doctrinale et littèraire du
Moyen Age, 28 (1961), pp. 163-279; M. Pine, Pietro Pomponazzi: Radical Philosopher of the Renaissance,
Antenore, Padova 1986; V. Perrone Compagni, Introduzione, in Pietro Pomponazzi, Trattato sull’immor-
talità dell’anima, a cura di V. Perrone Compagni, Olschki, Firenze 1999, pp.v-ci.
39 Le parole citate sono di G. Gentile, Prefazione, in Petrus Pomponatius, Tractatus de immortalitate

animae, a cura di G. Gentile, Principato, Messina-Roma 1925, p. iii.


40 Cf. Pomponatius, Tractatus cit., cap. VII, pp. 958-964; cap. IX, pp. 984-1014.
238 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

no, a suo avviso, ad attribuire arbitrariamente all’anima umana una duplicità


ontologica e operativa del tutto inesperibile, oltre che inammissibile in sede
aristotelica (quella cioè di forma bisognosa di un corpo organico in stato di
congiunzione e di forma sussistente capace di pensare senza il corcorso delle
immagini in stato di separazione), scopo precipuo del De immortalitate animae
non era tentare di riabilitare la psicologia alessandrista, quanto piuttosto ri-
durre all’assurdo le pretese concordistiche conciliari, qualificando la tesi della
mortalità dell’anima come «rationabilius» rispetto a quella dell’immortalità41.
In quest’ottica Pomponazzi ridefiniva in termini del tutto intramondani anche la
questione collaterale della moralità, autonomizzando il fondamento della prassi
etica dal vincolo dell’esistenza di un tribunale divino ultraterreno e facendo del-
la virtù e del vizio, rispettivamente, premio e pena a se stessi42. Non si trattava
di «aliter dogmatizare», ma di dar conto della totale percorribilità, sia esegetica
che razionale, dell’ipotesi mortalista, giacché essa trovava conforto tanto nell’o-
pera aristotelica, quanto nelle argomentazioni della ragione naturale.
L’epilogo ragionevole di un’indagine i cui risultati giungevano a scontrarsi
con la verità cristiana non poteva che essere allora, agli occhi del Peretto, quel-
lo di rivendicare una distinzione metodologica tra filosofia e teologia. Questo
era il senso che Pomponazzi attribuiva al monito paolino ai sapienti brandito
dall’editto antiaverroista del 148943. Non era questione di tenere quanto più
possibile celate certe interpretazioni anticristiane della psicologia aristotelica,
come chiedevano Barozzi e Martino da Lendinara, né tantomeno di orientare la
lettura dello Stagirita e la ricerca filosofica ad una forzosa concordia con i dati
di fede, come chiedevano i Padri del Concilio. Se non si voleva diventare stolti
da sapienti si doveva semplicemente ammettere che parlare in via veritatis di
immortalità dell’anima significava sottindere la sola garanzia della Rivelazione
e delle Scritture44; «in naturalibus», viceversa, non potevano darsi certezze, ma
solo «coniecturae» – spiegava il Peretto in un altro celebre luogo dei suoi trattati
mere peripatetici, il De nutritione et augmentatione, in cui non a caso tornava ad
allegare il versetto della Lettera ai Romani, a conferma delle oscillazioni e delle
irresolutezze che contraddistinguevano a suo avviso il modo di procedere del
filosofo naturale: «ego magis approbo eos, qui se religionibus dicarunt, et pie ac
sancte vivunt quam illos, qui se scientiis tradunt, hi enim dum sapientes fieri
student, insipientes fiunt»45.
È interessante altresì segnalare come proprio nel De nutritione e sempre

41Pomponatius, Tractatus cit., pp. 996, 998.


42Cf. Pomponatius, Tractatus cit., cap. XIV, in part. pp. 1070-1072.
43 Cf. Pomponatius, Tractatus cit., p. 1102.
44 Cf. Pomponatius, Tractatus cit., p. 1100.
45 Petrus Pomponatius, De nutritione et augmentatione, in Id., Tutti i trattati peripatetici, a cura di F.P.

Raimondi / J.M. García Valverde, Bompiani, Milano 2013, p. 2390.


Il principio dell’unicità del vero 239

contestualmente alla sottolineatura dei limiti procedurali della conoscenza in


naturalibus, Pomponazzi trovasse spazio per un riferimento al principio dell’uni-
cità del vero – non tuttavia nella formula con cui era codificato nel testo dell’A-
postolici regiminis, bensì in quella con cui figurava tra le Auctoritates Aristotelis
(omnia vera vero consonant), e che derivava da un passo del I libro dell’Etica
Nicomachea46. A fronte delle difficoltà che si incontrano nell’analisi del proble-
ma dell’accrescimento, Pomponazzi concedeva che «magis conandum sit vera
astruere quam falsa destruere», in quanto lo Stagirita insegna nel I libro della
Metafisica che «veritatem undique sibi viam facere» e nel I libro dell’Etica
Nicomachea che «vero omnia consonant»; tuttavia non poteva fare a meno di
notare come la sua indagine dovesse avanzare nel modo esattamente inverso
(e cioè, tentando di demolire il falso), giacché, quando non si può pervenire ad
una prova sicura, è più utile cercare di non discostarsi troppo dal bersaglio che
mirare dritto al segno47.
Se persino nel campo dell’esperienza un «certum et firmum iudicium» si
rivelava spesso temerario e fallace, la determinazione dimostrativa di un articolo
di fede non poteva che risultare una richiesta del tutto insolvibile per il Peretto,
il quale tuttavia non mancava di difendere, insieme alla liceità del suo punto
di vista, la genuinità del suo sentimento religioso48. Così nella sua Apologia
(1518), replicando soprattutto ad Ambrogio Fiandino, vescovo di Lamosa e suf-
fraganeo di Mantova, che lo attaccava dal pulpito nella Quaresima del 1517, e
ai frati e predicatori veneziani a causa delle cui rimostranze presso il Patriarca
di S. Marco e i Senatori della città il De immortalitate era stato bruciato nella
pubblica piazza e ne era stata interdetta la vendita, Pomponazzi stornava da sé
l’accusa di eresia, negando di aver difeso con fermezza un’opinione individuale:
il termine «haeresis» – puntualizzava – deriva da «haerendo», il che indica che
l’eretico «suae opinioni vehementer inhaeret»; egli, al contrario, professava l’im-
mortalità degli animi «per totum ut Sedes Apostolica affirmat et determinat»49.
Che poi avesse attribuito ad Aristotele la tesi della mortalità dell’anima umana
non costituiva di per sé una manifestazione di dissidenza, sia perché «innumeri
alii, animos esse mortales Aristotelem sensisse palam enuntiant» (tra i quali
il Peretto annovera la «gravissima Universitas Parisiensis» colpita dall’editto
di Tempier del 1277, la quale «determinavit Aristotelem sensisse aut unicum
esse intellectum, veluti Averroi placuit, aut animos esse mortales, uti Alexander

46 J. Hamesse, Les auctoritates Aristotelis. Un florilège médiéval. Étude historique et édition critique,

Publications Universitaires / Béatrice-Nauwelaerts, Louvain-Paris 1974, p. 233, §15; Arist., Ethica Nico-
machea, I, 8, 1098b10-11.
47 Cf. Pomponatius, De nutritione cit., pp. 2096-2098, in part. p. 2098; Arist., Metaphysica, I, 10,

933a27.
48 Pomponatius, De nutritione cit., pp. 2390.
49 Petrus Pomponatius, Apologia, in Id., Tutti i trattati peripatetici cit., pp. 1498-1500.
240 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

dixit»); sia perché dubitare che si debba prestar fede alla fede «si quod fides
affirmat naturali ratione probari non possit», significa sminuire il senso auten-
tico del credere50.
Per tali motivi Pomponazzi si era più volte autoesonerato dall’adempimento
agli obblighi lateranensi. Nella chiusa del De immortalitate, infatti, egli aveva
creduto di aggirare il problema limitandosi a rinviare il lettore alla consultazione
del “Divino Tommaso”51. Quanto invece al Defensorium (1519) – composto in
risposta al De immortalitate animae libellus di Agostino Nifo – egli si era sot-
tratto alla scure dell’inquisizione richiedendo l’intervento del teologo Crisosto-
mo Javelli, reggente dello Studio domenicano di Bologna: «artium quarumlibet
professores» – gli aveva scritto il Peretto a sua discolpa – «aptius de iis loqui et
iudicare quam qui eas non profitentur»52.
Javelli, dal canto suo, accettando l’incarico di risolvere tutte le argomentazio-
ni pomponazziane a sostegno della mortalità «principiis quidem non Aristotelis»,
bensì «sacrae theologiae et verissimae philosophiae quam arbitramur nostrae
catholicae fidei subministrare», per un verso aveva sottolineato l’indispensabile
ruolo della filosofia come ministra della fede, per l’altro verso aveva messo in
evidenza la parzialità della filosofia aristotelica, giustificando in tal modo l’a-
stensionismo pomponazziano53. Non che il tomista Javelli mettesse in dubbio la
correttezza dell’esegesi cristiana di Aristotele tramandata dal Dottore Angelico;
tantomeno egli riscontrava un’incompatibilità tra i principi della filosofia peri-
patetica e le verità della fede. Di certo però era pronto ad ammettere che a mano
a mano che perdeva la guida del senso, elevandosi dalla considerazione degli
enti materiali a quella degli enti immateriali, Aristotele finiva per esprimersi in
modo tanto oscuro «ut dicta sua oppositos sensus videntur posse recipere»54.
Similmente, nel suo Tractatus de animae humanae indeficientia del 1536, in cui
ripercorreva a distanza di una quindicina d’anni le fasi salienti della querelle
pomponazziana, Javelli aveva finito per dare conforto alla protesta del Peretto
contro Nifo, il quale aveva preteso di disquisire delle condizioni dell’anima uma-
na in stato di separazione dal corpo, del suo modo di conoscere senza l’impiego
dei sensi, ad esempio, o dei premi che riceve per le sue virtù e delle pene che
subisce per i suoi vizi. Il teologo, infatti, aveva tentato di mediare, ipotizzando
che, «et si haec expresse non habeantur in philosophia Aristotelis, quoniam ex
sensu, a quo semper incepit philosophari, deprehendere non potuit», lo Stagirita

50 Pomponatius, Apologia cit., pp. 1500-1502.


51 Cf. Pomponatius, Tractatus cit., p. 1098.
52 Il carteggio tra Javelli e Pomponazzi è riportato da quest’ultimo in calce al testo del Defensorium

nell’edizione del 1525 dei suoi Tractatus acutissimi utillimi et mere peripatetici. Petrus Pomponatius,
Defensorium, in Id., Tutti i trattati peripatetici cit., p. 2064.
53 Pomponatius, Defensorium cit., p. 2068.
54 Pomponatius, Defensorium cit., p. 2066.
Il principio dell’unicità del vero 241

«non negasse eas», se soltanto qualcuno avesse potuto mostrargliele55; ma così


dicendo aveva di fatto confessato che l’aristotelismo non era di per se stesso
sufficiente a garantire la concordia tra la razionalità e la fede senza la sapiente
supervisione dell’esegeta cristiano.

3. Aristotelismo e concordismo

Pomponazzi non era stato il primo a manifestare segni di insofferenza nei con-
fronti del decreto del 1513, reclamando una distinzione di ruoli tra filosofo e
teologo. Le prime rimostranze avevano infatti avuto luogo già nel corso della
votazione di ratifica dell’Apostolici regiminis. Come si ricava dagli atti conciliari,
al termine della lettura del testo della bolla, l’arcivescovo di Gniezno, Jan Laski,

«petiit, an placerent paternitatibus suis contenta in schedula. Et omnes responderunt


simpliciter placere, excepto reverendo patre domino Nicolao episcopo Bergomensi,
qui dixit, quod non placebat sibi, quod theologi imponerent philosophis disputantibus
de veritate intellectus, tanquam de materia posita de mente Aristotelis, quam sibi
imponit Averrois, licet secundum veritatem talis opinio est falsa. Et reverendus pater
dominus Thomas generalis ordinis Praedicatorum dixit, quod non placet secunda pars
bullae, praecipiens philosophis, ut publice persuadendo doceant veritatem fidei»56.

Se assai scarse sono le notizie sul vescovo di Bergamo, Niccolò Lippomano,


ben documentata è invece la carriera scientifica del maestro generale dell’Or-
dine dei Predicatori, Tommaso de Vio Gaetano. È noto infatti che nel 1510,
soltanto tre anni prima di quel non placet, il Gaetano aveva dato alle stampe un
commento al De anima di Aristotele, nel quale – essendosi proposto di interroga-
re il testo dello Stagirita «omissis affectionibus ad hunc vel illum», e cioè senza
seguire la strada spianata dagli illustri expositores che lo avevano preceduto (ivi
compreso lo stesso maestro Tommaso) – era arrivato a scoprire che «secundum
doctrinam Aristotelis necessario videtur sequi animam intellectivam non esse
separabilem a corpore»57. Certo, egli aveva anche soggiunto che non si doveva
prestar credito alla versione di «istius Graeci», in quanto «falsam secundum
philosophiae principia», giacché «ex principiis philosophiae utpote veris non

55 Chrysostomus Javellus, Tractatus de animae humanae indeficientia, in quatruplici via s. peripa-

tetica, academica, naturali, et Christiana, revisus per authorem et nunc primo editus, in officina Aureli
Pinci Veneti, Venetiis 1536, f. 41r.
56 Mansi, Sacrorum conciliorum cit., col. 842.
57 Thomas De Vio Cardinalis Caietanus, Scripta Philosophica. Commentaria in De anima Aristotelis,

vol. I, ed. P.I. Coquelle, Angelicum, Romae 1938, p. 33, § 31, p. 40, §43. Sul Gaetano e la psicologia ari-
stotelica resta fondamentale M.-H. Laurent, Le commentaire de Cajétan sur le «De Anima», in Caietanus,
Scripta Philosophica cit., pp. vii-lii.
242 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

deducitur recte nisi verum» – e che l’anima umana fosse separabile dal corpo
e incorruttibile era per il Gaetano una verità di fede inoppugnabile58. Tuttavia
egli non era giunto a tale risultato se non al prezzo di una distinzione tra verità
esegetica – l’autentica opinione (mortalista) di Aristotele – e verità filosofica –
quella insegnata da Tommaso in accordo con la fede.
Di lì a poco, il suo nome fu inserito nella lista dei Padri incaricati di redi-
gere il testo della bolla lateranense. Non è chiaro cosa spinse Leone X a questa
scelta, se cioè – per citare qualche ipotesi – il Pontefice aveva voluto mostrarsi
equanime o se, viceversa, aveva visto nel Gaetano un modello positivo di ciò
che ci si aspettava dai docenti59. Dopotutto, infatti, de Vio si era affrettato a ri-
cucire secundum philosophiae principia quella concordia tra ragione e fede che
secundum Philosophi principia gli era apparsa inverosimile. Di sicuro la scuola
tomista non aveva incassato senza malumori quel tentativo di emancipazione
dall’Aquinate, visto che ancora a distanza di anni, in un capitolo del suo De
strigimagarum daemonumque mirandis (1521), il Maestro del Sacro Palazzo,
Silvestro Mazzolini da Prierio, non perdeva occasione di smontare i passaggi
più controversi del commento gaetaniano, né di riconoscere in quella tendenza
a discutere più «de mente philosophorum» che «de rerum veritate» un’auten-
tica forma di malcostume intellettuale, quasi che non si potesse dar prova del
proprio talento, senza piccarsi di smentire la fede cristiana in forza dell’autorità
di Averroè o dello stesso Aristotele60.
Ad ogni modo, sulla scorta degli ultimi sviluppi della sua ricerca, il Gaetano
aveva manifestato chiaramente in Concilio la sua indisponibilità a demandare
l’onere di un convincente insegnamento della dottrina cristiana ai professori di
filosofia, se non già la consapevolezza che certi argomenti sfuggono alla presa
della ragione naturale. Tale consapevolezza emergerà però con evidenza soltanto
più tardi, nelle fugaci annotazioni al problema dell’anima vergate dal Gaetano a
margine dei suoi Commenti alle Scritture. L’esempio più eloquente lo si rintrac-
cia in un passaggio del suo Commento alla Lettera di s. Paolo ai Romani (com-
pletato nel 1528), in cui De Vio apriva una parentesi sul rapporto tra predestina-

58 Thomas De Vio Cardinalis Caietanus, Commentaria in libros Aristotelis De anima. Liber 3, ed. G.

Picard-J.Pelland, Desclèe de Brouwer, Bruges-Paris 1965 (Studia. Travaux de recherche, 19), p. 65, §
102.
59 Per le due ipotesi cf. rispettivamente Monfasani, Aristotelians cit., p. 269 e E.A. Constant, A Rein-

terpretation of the Fifth Lateran Council Decree Apostolici regiminis (1513), in Sixteenth Century Journal,
33/2 (2002), pp. 353-379, in part. p. 374.
60 Cf. Sylvester Prierias, De strigimagarum daemonumque mirandis libri tres, una cum praxi exac-

tissima, et ratione formandi processus contra ipsas, a mendis innumeris, quibus scatebant, in hac ultima
impressione purgati, & indice locupletissimo illustrati, in aedibus Populi Romani, Romae 1575, foll. 19-42
(cit. fol. 30). Per una ricostruzione dell’antagonismo tra Mazzolini e il Gaetano, cf. M. Tavuzzi, Prierias.
The Life and Works of Silvestro Mazzolini da Prierio (1456-1527), Duke University Press, Durham 1997
(Duke Monographs in Medieval and Renaissance Studies, 16), pp. 91-115.
Il principio dell’unicità del vero 243

zione e libero arbitrio. Il Gaetano valutava il problema secondo un doppio ordine


di idee, e cioè «inchoando ab iis, quae se tenent ex parte Dei, et descendendo
ad nos» e «inchoando ab iis, quae se tenent ex parte nostri, et ascendendo ad
Deum»61. Dal primo punto di vista, egli sosteneva che Dio scegliesse ab aeterno
singolarmente per ciascun uomo e che la divina elezione avesse infallibilmente,
sebbene non necessariamente, il suo effetto, cioè la salvezza; dal secondo punto
di vista, invece, egli affermava che chiunque fosse libero di scegliere tra il bene
e il male, e che scegliendo di operare per la salvezza alla fine sarebbe stato sal-
vato per divina grazia. Ciò che però gli restava oscuro era il modo in cui queste
due vie potessero congiungersi. Di qui il suo imbarazzo:

«cum obiicies: coniuge haec verba» – sc. predestinazione e libero arbitrio – «respondeo
me scire quod verum vero non est contrarium, sed nescire haec iungere: sicut ne-
scio mysterium Trinitatis, sicut nescio animam immortalem, sicut nescio Verbum caro
factum est, et similia, quae tamen omnia credo. Et sicut credo reliqua fidei mysteria,
ita credo et haec mysteria predestinationis et reprobationis. Meum est tenere quod
mihi certum est (scilicet uti libero arbitrio et reliquis bonis mihi a Deo concessis omni
studio ad consequendam vitam aeternam) et expectare ut videam, in patria mysterium
divinae electionis mihi modo ignotum, sicut et reliqua fidei mysteria. Haec ignorantia
quietat intellectum meum»62.

Sarebbe stata questa, dunque, la sentenza definitiva di de Vio, la cui inquie-


tudine intellettuale non avrebbe trovato altra soluzione se non quella di arren-
dersi all’ignoranza e all’attesa della vita ultraterrena. L’immortalità dell’anima,
al pari della grazia, della trinità di Dio, dell’incarnazione del Verbo, andava
rubricata come mistero di fede e la dimostrazione dell’unicità del vero come un
compito troppo arduo per la ragione umana.
Nel momento in cui scriveva, il domenicano Bartolomeo Spina non poteva
sapere che la difesa di un’esegesi mortalista e antitomista di Aristotele avrebbe
condotto il Gaetano ad un approdo agnostico. Tuttavia, già a quell’epoca, frate
Spina si era affannato a spiegare che non poteva darsi concordismo senza Aristo-
tele. Pupillo di Mazzolini, egli era stato tra i confratelli tomisti il più aggressivo
censore del commento gaetaniano al De anima, nel quale aveva ritenuto di inter-
cettare il focolaio dell’infezione esplosa col De immortalitate di Pomponazzi63.
Non c’era alcun dubbio, a suo avviso, sul fatto che tra la posizione del Gaetano
e quella del Peretto esistesse un rapporto di filiazione diretta, anche perché in

61 Thomas De Vio Cardinalis Caietanus, In omnes Pauli et aliorum Apostolorum epistolas commen-

tarii, in Id., Opera omnia quotquot in Sacrae Scripturae expositionem reperiuntur, sumpt. Iacobi & Petri
Prost, Lugduni 1639, t. 5, fol. 58, col. I.
62 Caietanus, In omnes cit., fol. 58, col. II.
63 Sul rapporto tra Spina e Mazzolini nella disputa pomponazziana, cf. M. Tavuzzi, Silvestro da Prierio

and the Pomponazzi Affair, in Renaissance and Reformation, 19 (1995), pp. 47-61.
244 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

effetti tra i due erano certamente intercorsi rapporti personali, essendo stati col-
leghi a Padova dal 1493 al 1496. Di qui la decisione di procedere ad un attacco
congiunto. Nel 1519 infatti Spina aveva pubblicato a Venezia gli Opuscula, una
raccolta di ben tre trattati: il Propugnaculum Aristotelis de immortalitate anime
contra Thomam Caietanum, nel quale si occupava di confutare de Vio; la Tute-
la veritatis de immortalitate animae contra Petrum Pomponatium Mantuanum
cognominatum Perettum, nella quale si dedicava a controbattere alle scanda-
lose argomentazioni del De immortalitate animae del Peretto; il Flagellum in
tres libros Apologiae Peretti, nel quale traeva alimento dalle repliche fornite da
Pomponazzi nell’Apologia per rinforzare le obiezioni già sviluppate nella Tutela
e forniva man forte ai religiosi veneziani che avevano accusato il Peretto di ere-
sia. E tuttavia eradicare il rischio di un ulteriore contagio significava soprattutto
emendare gli ‘errori esegetici’ del Gaetano. Rinunciare infatti al sostegno di
Aristotele su una questione decisiva come quella dell’immortalità – decisiva in
quanto «salus omnis atque felicitas nostra ex ea oriatur atque in ipsa finiatur»
– non costituiva una perdita di poco conto per la fede:

«Solatium etenim non mediocre fidelibus affert tam celebrati philosophi testimonium
in re tanta, infirmis inter christianos extreme ruine clauditur precipitium: infidelibus
autem ex veritate hac facilis ad fidem preparatur via»64.

Per questo, sebbene non fosse giunto a parlare «adeo assertive contra ea que
fidei fondamenta sunt» quanto aveva fatto Pomponazzi «dictante diabolo», il
Gaetano si era macchiato agli occhi di Spina di una colpa altrettanto grave, se
non forse peggiore, giacché aveva mostrato come fosse concettualmente possi-
bile, dall’interno dell’orizzonte dottrinale tomista, seguire tutt’altra via rispetto
a quella di un’interpretazione ‘ortodossa’ di Tommaso65.

4. Fideismo e discordismo

È per lo più rimasto in ombra il fatto che Martin Lutero aveva espresso delle
chiare opinioni sulla delibera del 1513, e che tali opinioni avevano inasprito
i toni della sua rivolta, scoppiata a soli sei mesi della chiusura del Concilio66.
Non è del resto senza significato che nell’opera del monaco tedesco i riferimenti

64 Bartholomeus de Spina, Propugnaculum Aristotelis de immortalitate animae contra Thomam

Caietanus, in Id., Opulscula ‹sic!› edita, per Gregorium de Gregorijs, Venetijs 1519, prohemialis epistola.
65 Bartholomeus de Spina, Flagellum in tres libros Apologiae Peretti, in Id., Opulscula ‹sic!› edita, per

Gregorium de Gregorijs, Venetijs 1519, fol. K4v.


66 Cf. J. Headley, Luther and the Fifth Lateran Council, in Archiv für Reformationsgeschichte, 64

(1973), pp. 55-78.


Il principio dell’unicità del vero 245

all’Apostolici regiminis, pur coprendo un arco temporale che va dal 1519 al 1531,
si facciano particolarmente insistenti nel triennio 1519-1521, e cioè esattamente
negli anni in cui si consumava la definitiva rottura con la Chiesa di Roma. Se
infatti nel 1518, nella lettera a Leone X che accompagnava il testo delle Reso-
lutiones disputationum de indulgentiarum virtute, pubblicato all’indomani della
diffusione delle 95 Tesi, il futuro riformatore dichiarava ancora di «nihil dicere
aut tenere velle, nisi quod in et ex Sacris literis primo, deinde Ecclesiasticis
patribus, ab Ecclesia Romana receptis, hucusque servatis et ex Canonibus ac
decretalis Pontificiis habetur et haberi potest», già a partire dall’anno succes-
sivo egli riservava al decreto pontificio parole sprezzanti, spesso aspramente
ironiche, cogliendo l’occasione per esprimere la sua condanna nei confronti
delle autorità ecclesiastiche67.
Lutero riconosceva fondamentalmente nell’operato conciliare un sintomo
della condizione di decadenza in cui versava la Chiesa, costretta a legiferare
l’ovvio, come si legge nella Resolutio Lutheriana super propositione sua decima
tertia de potestate papae del 1519:

«Denique eo devenit legum Rhomanarum studium et evangelii neglectus, ut necesse


habuerint statuere in concilio novissimo, Animam hominis esse immortalem. Quid,
putas, hoc decretum indicat?»68.

Altrove, la sua presa di posizione si coniugava con la denuncia del rischio


cui la Chiesa esponeva i fedeli, fuorviandoli con simili sanzioni legislative. In
tal senso sembra doversi intendere il passo del Commento alla Lettera ai Ga-
lati (1519) in cui Lutero esibiva un confronto tra Turchi e Cristiani, risolto a
tutto svantaggio di questi ultimi. Mentre infatti la tirannide turca si limitava a
falcidiare corpi sulla terra, i Cristiani privavano di anime il cielo – sempre che
fosse vera la definizione approvata dal Concilio, «animas scilicet esse immor-
tales, praesertim Christianorum», chiosava beffardamente il teologo69. Un’ulte-
riore ridicolizzazione del provvedimento lateranense è quella reperibile nella
replica di Lutero all’Epitome del Prieriate, del 1520, dove la ratifica giuridica
dell’immortalità dell’anima era equiparata al disciplinamento della riscossione
delle decime «pro ventre Romano»70. Con toni invece più amari che ironici,
nel trattato Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca (1520), Lutero addita-

67 M. Luther, Resolutiones disputationum de indulgentiarum virtute. 1518, in Id., Werke. Weimarer

Ausgabe (WA) 1, Hermann Böhlau, Weimar 1883, pp. 529-530, ll. 33-1.
68 Luther, Resolutio Lutheriana super propositione sua decima tertia de potestate papae (per autorem

locupletata). 1519, in Id., WA 2, Hermann Böhlau, Weimar 1884, p. 226, ll. 38-40.
69 Luther, In epistolam Pauli ad Galatas. 1519, in Id., WA 2, Hermann Böhlau, Weimar 1884, p.

541, ll. 20-24 (cit. ll. 23-24).


70 Cf. Luther, Epitoma responsionis ad Martinum Luther (per Fratrem Silvestrum de Prierio). 1520, in

Id., WA 6, Hermann Böhlau, Weimar 1888, p. 338, ll. 30-32 (cit. l. 31).
246 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

va negli eccessi della corte papale – superiore, quanto a pompa mondana e a


stravaganze, a qualunque corte reale – la causa della mancanza di impegno dei
chierici nello studio e nella preghiera, e della loro incompetenza in materia di
fede, ampiamente dimostrata in occasione del V Concilio Lateranense, quando,
fra gli altri frivoli articoli («leychtfertigen artikel»), era stato deciso che l’anima
umana fosse immortale71.
Ciò che risultava del tutto inaccettabile agli occhi di Lutero era che una que-
stione di fede come il credere nella vita eterna si trovasse ad essere rielaborata,
o per meglio dire parodiata, secondo le formule della filosofia aristotelica: «Ani-
mam esse formam substantialem» e «Animam esse immortalem» sono due degli
«infinita portenta» contenuti «in Romano sterquilinio Decretorum» – come si
legge nella Assertio omnium articulorum per bullam Leonis X del 152072. Simil-
mente, nelle Operationes in Psalmos (1519-1521) – dove il lavoro del Concilio
Lateranense era associato all’apparire dell’Anticristo – Lutero condannava le
disposizioni della Chiesa come sacrileghe, in quanto abbandonavano lo spirito
delle Scritture per procedere «secundum inanes traditiones hominum», e alle-
gava una serie di articoli tra i quali era incluso quello secondo cui «Animam
esse formam corporis substantialem»73. Nella Grund und Ursach aller Artikel
del 1521 si trovava poi esplicitamente citato il nome di Aristotele. Trovando
conforto in quel passaggio della Lettera ai Colossesi in cui l’Apostolo insegna a
non seguire la vana filosofia e le tradizioni degli uomini, ma a rimanere radicati
in Cristo, Lutero individuava nell’ispirazione aristotelica del provvedimento del
1513 il surrogato di un’autentica fede cristiana nella vita ultraterrena74.
L’opinione complessiva del riformatore era dunque che la Chiesa si fosse
del tutto identificata nelle dottrine dello Stagirita, e che tali falsità si fossero
propagate a discapito della verità evangelica:

«Evangelium extinxistis et damnastis. Mendacia vestra et Aristotelis docetis, et spiri-


tus Satanae regnat in omnibus libris et doctrinis vestris»75.

A questo si deve peraltro aggiungere che la pretesa ecclesiastica di codificare


un dogma di fede secondo i principi della filosofia peripatetica doveva sembrar-

71 Cf. Luther, An den christlichen Adel deutscher Nation von des christlichen Standes Besserung. 1520,

in Id., WA 6, Hermann Böhlau, Weimar 1888, p. 433, ll. 2-5 (cit. p. 432, l. 32).
72 Cf. Luther, Assertio omnium articulorum M. Lutheri per bullam Leonis X novissimam damnatorum.

1520, in Id., WA 7, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1897, p. 132, ll. 1-4 (cit. p. 432, l. 32).
73 Luther, Operationes in Psalmos. 1519-1521, in Id., WA 5, Hermann Böhlau, Weimar 1892, p.

652, ll. 29-30.


74 Cf. Luther, Grund und Ursach aller Artikel D. Martin Luthers, so durch römische Bulle unrechtlich

verdammt sind. 1521, in Id., WA 7, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1897, p. 425, ll. 22-29.
75 Luther, De abroganda missa privata Martini Lutheri sententia. 1521, in Id., WA 8, Hermann Böh-

lau, Weimar 1889, p. 425, ll. 23-25.


Il principio dell’unicità del vero 247

gli tanto più assurda nel caso dell’anima, in quanto ai suoi occhi Aristotele non
aveva minimamente sostenuto la tesi dell’immortalità76. Al contrario, nelle An-
notationes in Ecclesiasten del 1532, il riformatore sottolineava come lo Stagirita
avesse «diligenter et callide» evitato di disquisire del problema e di esprimere
il suo punto di vista77. Un punto di vista che doveva essere stato orientato, più
verosimilmente, verso la mortalità, se si tiene conto di ciò che tramanda Ales-
sandro di Afrodisia – e per Lutero non c’era alcun dubbio sul fatto che «talem
discipulum perfecte nosse praeceptoris sui sententiam»78.
Né, d’altra parte, si poteva pretendere altrimenti, avendo a che fare con una
verità che «est extra solem»79. O meglio, con una verità che è «extra, intra,
supra, infra, citra, ultra omnem veritatem dialecticam», – come il riformatore
preciserà nella Disputation de Sententia: Verbum caro factum est (Joh, 1, 14)
del 1539, in cui sarebbe giunto a confutare esplicitamente l’unicità del vero80.
Stavolta, però, egli non si scagliava contro i Padri conciliari. Era infatti contro la
Sorbona «mater errorum» e contro i teologi parigini, «qui omnia volunt theologi-
ca sua ratione philosophica metiri», che Lutero faceva professione di discordi-
smo, negando che il detto «Omne verum vero consonat» fosse «verum in diversis
professionibus»81. «In theologia» – esemplificava – «verum est, verbum carnem
factum», mentre «in philosophia simpliciter impossibile et absurdum»82. Non
si trattava tuttavia di concludere che il vero filosofico potesse confliggere col
vero teologico, quanto piuttosto di ammettere che un contenuto di fede «in an-
gustias rationis seu syllogismorum includi non potest»83. In tal modo, a più di
due secoli e mezzo di distanza dall’editto parigino del 1277, Lutero sembrava
fornire una replica alla motivazione con cui l’articolo 216 («quod resurrectio
futura non debet concedi a philosopho, quia impossibile est eam investigare per
rationem») era stato condannato da Tempier: «etiam philosophus debet capti-
vare intellectum in obsequium Christi» – aveva rimbeccato il vescovo84. Agli
occhi di Lutero, l’insegnamento paolino secondo il quale «captivandum esse

76 Su Lutero e la questione della psicologia aristotelica, cf. E. Andreatta, Lutero e Aristotele, Cusl

Nuova Vita, Padova 1996, pp. 219-240.


77 Luther, Annotationes in Ecclesiasten.1532, in Id., WA 20, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar

1898, p. 70, l. 28.


78 Luther, Die philosophischen Thesen der Heidelberg Disputation mit ihren Probationes (1518), in Id.,

WA 59, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1938, p. 413, ll. 1-2.


79 Luther, Annotationes in Ecclesiasten cit., p. 70, l. 31.
80 Luther, Die Disputation de sententia: Verbum caro factum est (Joh. 1, 14). 11 Jannar 1539, in Id.,

WA 39/2, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1932, p. 4, ll. 34-35.


81 Luther, Die Disputation cit., p. 3, ll. 1-2, 7; p. 7, ll. 30-31.
82 Luther, Die Disputation cit., p. 3, ll. 3-4.
83 Luther, Die Disputation cit., p. 4, l. 33.
84 R. Hissette, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, Publications Universi-

taires / Vander-Oyez, Louvain-Paris 1977, p. 309; L. Bianchi, Captivare intellectum in obsequium Christi,
in Rivista critica di storia della filosofia, 38 (1983), pp. 81-87, in part. p. 85.
248 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

omnem intellectum (haud dubie et philosophiam) in obsequium Christi» non


significava affatto «captivare articulos fidei sub judicium rationis humanae»,
come aveva preteso la Sorbona con la sua «sententia abominabili», in forza della
quale «damnavit eos, qui contrarium disputaverunt»85. Se infatti una falla c’era,
essa non andava individuata nella contraddizione, bensì nel fatto stesso di aver
abilitato il principio di non contraddizione a criterio di validità generale, senza
tener conto del fatto che una cosa era il «credere», un’altra l’«intelligere»86.

5. Dalla Apostolici regiminis alla Rivoluzione scientifica:


il contributo di Benet Perera

È interessante notare che la lunga serie di prese di posizione – anche veementi


– di Lutero nei confronti della bolla Apostolici regiminis, del criterio dell’unicità
del vero e del sapere impartito alla Sorbona, inscrivendosi all’interno del suo
più generale antiaristotelismo, avrebbe condotto il riformatore tedesco – già
nei primi anni Venti del Cinquecento – a prendere posizione anche contro la
metafisica come scienza.
Quando Lutero si esprimeva in maniera apparentemente generica contro la
philosophia, intendeva perlopiù opporsi all’insegnamento impartito nelle scuole
e nelle accademie della Germania (ma non solo, come appunto nel caso della
Sorbona) dei suoi anni. In particolare la sua contestazione era rivolta contro
l’aristotelismo e l’aristotelismo scolastico. È nota l’insofferenza e la profonda in-
soddisfazione maturata da Lutero nei confronti della formazione ricevuta presso
l’Università di Erfurt, dove – lo ricordiamo – ottenne il titolo di magister artium
nel 1505, prima di trasferirsi per gli studi dottorali di teologia a Wittenberg87.
Il cosiddetto “interdetto” di Lutero contro la filosofia è dunque in realtà un
interdetto rivolto anzitutto verso un particolare tipo di sapere, un sapere cioè
condotto su base esclusivamente naturale e razionale e che trovava in Aristotele
il suo principale propugnatore e difensore

«Hie were nu mein rad, das sie bucher Aristoteles, Phisicorum, Metaphysice, de Ani-
ma, Ethicorum, wilchs biszher die besten gehalten, gantz wurden abthan mit allen
andern, die von naturlichen dingen sich rumen»88.

85 Luther, Die Disputation cit., p. 4, l. 1-3, 6-7; 2 Cor, 10, 5.


86 Luther, Die Disputation cit., p. 7, l. 27.
87 Cf. C. Peters, „Erfurt ist Erfurt, wird’s bleiben und ist’s immer gewesen...“ – Luthers Einwirkungen

auf die Erfurter Reformation, in U. Weiss (Hrsg.), Erfurt (742-1992). Stadtgeschichte-Universitätsge-


schichte, Böhlaus, Weimar 1992, pp. 255-275.
88 Luther, An den christlichen Adel cit., p. 457, ll. 35-37. Più ampiamente su Lutero e la filosofia si

veda P. Büttgen, Luther et la philosophie. Études d’histoire, Vrin, Paris 2011.


Il principio dell’unicità del vero 249

Anche Filippo Melantone, fedele seguace di Lutero nei primi anni della Ri-
forma, terrà a precisare che

«Non damnat Lutherus eam philosophiae partem, quae mathemata, quae gemmarum,
plantarum & animantium naturas descripsit: Nam horum cognitionem fatetur ad sacra
necessariam esse, soletque in loco uti, quoties res postulat [...]. Damnat autem, si
ignoras, eam philosophiae partem, quae de rerum principijs, ventorum ac pluviarum
caussis, prodigiosas nugas comminiscitur, adeoque quidquid id est, quod Aristotele
vocat physica ἀκροάματα καὶ μετὰ τὰ φύσικα»89.

Secondo un’interpretazione radicale, se la ragione umana è mortalmente fe-


rita dal peccato originale, allora essa, agendo su base esclusivamente naturale,
non è in grado di conoscere i principi primi – sia fisici che soprattutto metafisici
– delle cose (rerum principiis). L’essere della realtà è, dunque, fondamentalmen-
te inaccessibile alla ragione umana; nessuna legittimità epistemica può essere
pertanto accordata, secondo Lutero, ad una fisica e una metafisica condotte
attraverso gli strumenti della sola ragione naturale. All’interno di questo sfondo
si situa anche la critica del riformatore verso quel plesso di conoscenze che, a
partire dal Timeo di Platone e soprattutto dal De anima di Aristotele, si erano
consolidate nella lunga tradizione di studi pervenutagli, attraverso una fitta serie
di commenti. Solo la Sacra Scrittura, ovvero la rivelazione divina, può offrire una
conoscenza certa su ciò che de re è la realtà naturale e quindi anche su ciò che
de re è l’anima umana.
In quest’ottica, perdono in qualche modo valore le letture che, come quella
di Pierre Bayle, fanno di Lutero un sicuro difensore del principio della doppia
verità90. A legittimare un simile criterio nel mondo luterano furono piuttosto
autori protestanti di seconda e terza generazione come Michael Piccart e altri
esponenti della Scuola di Altdorf. Essi si trovarono a far fronte alle difficoltà
emerse proprio a seguito dell’interdetto contro la metafisica, la fisica e la psico-
logia razionale. Era divenuto infatti necessario elaborare nuovi parametri epi-
stemici per supportare il dibattito teologico, come pure per rifondare i curricula
dei nuovi ginnasi e delle università riformate91.
Per Lutero, invece, conoscenze come quelle della metafisica e della fisica
non erano ammissibili neppure se fondate, per via di subalternazione, sulla

89 P. Melanchthon, Didymi Faventini adversus Thomam Placentinum, pro Martino Luthero theologo,

oratio, Cratander, Basel 1521, f. C1r.


90 «qu’il [sc. Luther] enseignoit qu’un même dogme est faux & vrai en même tems, faux en Philosophie,

vrai en Théologie, faux en Physique, vrai en Morale, &tc». Cf. «Luther (Martin)», in P. Bayle, Dictionnaire
historique et critique (éd. V), Brunel et al. Libraires, Amsterdam 1740, tome troisieme, p. 234.
91 Su questo si veda in particolare l’interessante studio di F.V. Tommasi, Zwischen radikalem Aristote-

lismus und lutherischer Orthodoxie. Die These der „doppelten Wahrheit“ in der Altdorfer Schule, in Archiv
für Begriffsgeschichte, 55 (2014), pp. 61-74.
250 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

teologia rivelata, cioè sulla conoscenza e la conformità al Testo Sacro: metafisica,


fisica e psicologia razionale semplicemente non erano in alcun modo scienze, ma
saperi illegittimi e perniciosi che, affermando la plausibilità della conoscenza
naturale, finivano spesso per confliggere con le verità di fede.
Come riconosciuto da Paul Richard Blum, è esattamente contro simili po-
sizioni che Benet Perera si scaglia nella Praefatio del De communibus, dove
appunto si afferma:

«Ac ego quidem mirari soleo, quenquam esse Christianorum hominum, qui Philo-
sophiam, tanquam rem Deo invisam, sacris literis contrariam, & noxiam iis qui Chri-
stianam doctrinam profitentur, vituperare audeat»92.

Il gesuita valenciano ambiva dunque a riproporre il criterio dell’unicità del


vero anche nella polemica contro Lutero e i protestanti, sviluppandone nessi e
implicazioni all’interno della sua intensa riflessione epistemologica. È così che,
sempre nel De communibus, Perera si cimenta in un originale tentativo di sintesi
rispetto alle indicazioni che gli provenivano dal dibattito cinquecentesco sulla
scientia de anima. Ribaltando le conclusioni di Lutero, il gesuita arriva a soste-
nere non che solo la fisica e la metafisica ottengono significative conoscenze,
per via naturale, rispetto all’anima umana, ma anche che la teologia rivelata
concorre a fornire tutta una serie di indicazioni sull’anima razionale, altrimenti
irraggiungibili: tra queste, quale sia il fine ultimo dell’anima umana, quale il suo
stato post-mortem e quale sia il rapporto con il corpo e la mortalità. La scientia
de anima non ha pertanto uno statuto epistemico unitario e autonomo, ma uno
vario e molteplice («non est scientia de anima rationalis una & simplex, sed
varia & multiplex»), che si compone delle conoscenze che provengono da queste
tre discipline:

«Hinc necessario efficitur, ut perfecta scientia eorum omnium quae conveniunt ani-
mae, sit mixta ex tribus doctrinis, nam partim est physica, partim metaphysica, partim
est doctrina revelata, ex quo fit, ut scientia illius sit maxime difficilis, praestans &
admirabilis. [...] ego non video quomodo talis scientia partim physica, partim metaphy-
sica, partim ex revelatione pendens, una & simplex scientia dici aut esse possit»93.

In continuità con il V Concilio Lateranense e la bolla Apostolici regiminis,

92 B. Perera, De communibus omnium rerum naturalium principiis et affectionibus, libri quindecim,

Zanettum, Roma 1576, Praefatio, f. 3. Su questo cf. P.R. Blum, Benedictus Pererius: Renaissance Culture
at the Origins of Jesuit Science, in Science and Education, 15 (2006), pp. 279-304, in part. p. 285.
93 Perera, De communibus cit., lib. I, c. 9, p. 21 e c. 10, p. 22. Più ampiamente, sullo statuto della

psicologia in Perera, si veda M. Lamanna, Theology in Psychology. The Impact of Theology in the Early
Modern Debate on Rational Psychology (1500-1660), in Wolfenbütteler Renaissance-Mitteilungen, 32/2
(2008-2010), pp. 163-183; si veda anche il contributo di Mário Santiago de Carvalho in questo volume.
Il principio dell’unicità del vero 251

Perera sembra dunque intenzionato a riaffermare l’unità del vero tra ragione e
rivelazione, riponendo al centro il tema dell’anima umana e della scientia de
anima. Allo stesso tempo, però, il gesuita proietta simili questioni in un quadro
diverso, che ha come suo principale interesse la chiarificazione epistemologica.
Come mostra tutto il primo libro del De communibus, Perera è assolutamente
convinto che per giungere a una più sicura verità della conoscenza serva an-
zitutto chiarire gli oggetti, i confini e le finalità delle singole scienze, oltre ai
rapporti che intercorrono tra di esse. Questo vasto programma di ridefinizione
disciplinare era stato avviato sin dai corsi al Collegio Romano, durante i quali
il gesuita aveva insistito sullo statuto sui generis della scientia de anima come
“luogo” epistemico privilegiato per mostrare la fondamentale unità e concordan-
za del vero: in continuità con il V Concilio lateranense, Perera elegge Tommaso
d’Aquino a massima autorità su questi temi94.
Oltre che a Tommaso, tuttavia, l’interesse del gesuita si rivolge anche ad
Agostino. È infatti il vescovo di Ippona a fungere da autorità principale nel primo
tomo dei Commentaria in Genesim (1591) di Perera, nel quale il gesuita, giunto
al culmine della sua attività accademica e di studio, intende sottoporre anche
la teologia e l’esegesi testamentaria a una seria verifica epistemologica. Perera
riteneva, infatti, di poter offrire un buon servizio allo studio delle Scritture e
alla conoscenza di Cristo fissando alcune generali regole che ne favorissero la
corretta interpretazione.
Perché si desse una vera scienza del Testo Sacro era necessario infatti, se-
condo Perera, anzitutto riaffermare l’intrinseco valore storico (plane historica)
della narrazione mosaica della creazione, fondando poi su di essa la necessità di
un’interpretazione letterale (litteralis sensus verborum) del testo biblico: è questa
la prima regula che Perera fissa attraverso l’autorità di alcuni padri della Chiesa:
Agostino, Basilio e Beda in primis

«Doctrina Mosis, quae de creatione mundi traditur, est plane historica. [...] Ex his
perspicue intelligitur, si narratio Mosis est historica, consequens esse, ut is proprius
& germanus, atque, ut vocant, litteralis sensus sit verborum Mosis, quem reddunt
verba eius secundum propriam, et vulgo usitatam eorum significationem accepta. Si
enim Mosis historice scripsit, procul dubio id docere voluit, quod verba eius proprie
sumpta declarant»95.

94 «Ad quartam dubitationem respondendum est, quod Anima rationalis non consideratur a Physico

omni ex parte, nec est simpliciter forma Physicae, de quo alio loco copiose diximus. Ita<que> quatenus
Anima rationalis est actus corporis operans in eo cohaerens sensibus [...] consideratur a Physico, sed qua-
tenus habet naturam quandam separabilem immortalem, et immaterialem pertinet ad aliam scientiam vel
Metaphysicam, vel revelatam; quod affirmat D. Thomas in II Physic. super tex. 2». Benedictus Pererius,
Opus metaphysicum, ms. BAV, Urb. Lat. 1308, ff. 16v-17r.
95 B. Perera, Commentariorum et disputationum in Genesim tomi quatuor, Hierat, Coloniae Agrippi-

nae 1606, tomus I, col. 5a. – Di Agostino è citato il De Genesi ad litteram (VIII, 1); di Basilio la Homilia
252 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

Historia e littera sono dunque i due capisaldi che il gesuita pone all’inizio
della sua indagine, rifiutando conseguentemente ogni lettura mistica e allegorica
del Testo Sacro: simili letture avrebbero infatti esposto il dettato biblico – vale a
dire quella che per il gesuita costituisce una storia da intendere alla lettera – alla
molteplicità e all’incertezza delle interpretazioni, ricadendo così, per certi versi,
nell’impasse in cui si era venuta a trovare la teologia riformata, in particolare
quella zwingliana e calvinista96. Contro l’interpretazione personale si era espres-
so, peraltro, il V Concilio Lateranense, seguito in maniera ancora più energica
e perentoria dal Concilio di Trento97:

«Adiicio unum hoc, velut clausulam huius regulae; si, quae tradit Moses hoc loco,
non historice ac proprie, sed figurate et allegorice sunt accipienda, fore, ut ex Mose
aut nullam, aut certe non stabilem, ratam certamque habeamus de mundi origine et
effectione doctrinam, cum tamen, quam ea de re tenet Ecclesia Catholica, quamque
in fidei articulos retulit, ex hoc potissimum libro Mosis acceperit. Etenim sensus
Mysticus et allegoricus, praeterquam quod non est ad docendum quippiam, proban-
dumque satis idoneus et firmus, est etiam varius, multiplex, et incertus, tantaque in
varietate constitutus, quanta est hominum ad eos sensus fingendos solertia, et ubertas
ingenii»98.

Corrado Dollo legge in questo passo «un’esplicita dichiarazione di dottrina


che porta Pereira, e quanti ne accettavano la regola, assai lontano da forzature
innovative»99: in questo senso il gesuita si sarebbe posto in continuità con i suoi
predecessori sulla cattedra di Sacra Scriptura del Collegio Romano, da Juan de
Mariana a Emmanuel de Sa, entrambi seguaci dell’interpretazione «secundum
sensum literalem»100. Eppure, paradossalmente, sarà proprio il profilo “con-

IX super Genesim; per quanto riguarda Beda il rimando è al Super Hexameron. Su questo si veda anche
Dollo, Le ragioni del geocentrismo nel Collegio Romano (1562-1612), in Id., Galileo Galilei e la cultura
della tradizione, Rubettino, Soveria Mannelli 2003, VI, pp. 167-233, in part. pp. 173-174.
96 A riguardo cf. G. Roncaglia, Palestra rationis. Discussioni su natura della copula e modalità nella

filosofia ‘scolastica’ tedesca del XVII secolo, Olschki, Firenze 1996; M. Lamanna, Tópos e Trópos: Ramo,
i ramisti e le controversie eucaristiche nella Germania riformata, in D. Giovannozzi / M. Veneziani (a cura
di), Locus-Spatium, Atti del XIV Colloquio internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, Olschki,
Firenze 2014, pp. 237-248.
97 Su simili questioni si rimanda al contributo di Paolo Ponzio presente in questo volume.
98 Perera, Commentariorum et disputationum in Genesim cit., tomus I, coll. 5b-6a.
99 Dollo, Le ragioni del geocentrismo nel Collegio Romano (1562-1612), in Id., Galileo Galilei e la

cultura della tradizione cit., VI, pp. 167-233, in part. p. 174.


100 Scrive infatti Manuel de Sá, docente di Scrittura negli anni 1557-1564 e 1569-1570: «Brevissime

Scripturam totam sic explicant, secundum sensum litteralem, ut a nemine (quod sciam) adhuc praestitum:
ingenio enim quisque in Scripturae singulos libros volumina edit, nos aliam longe sententiam (ut vide)
secuti». M. de Sá, Notationes in totam Scripturam Sacram, apud Horatium Cordon, Lugduni 1591, p. 3.
Su questo cf. anche Dollo, Le ragioni del geocentrismo nel Collegio Romano (1562-1612), in Id., Galileo
Galilei e la cultura della tradizione cit., VI, pp. 167-233, in part. p. 170; su Mariana si rimanda invece
a P. Ponzio, Copernicanesimo e teologia. Scrittura e natura in Campanella, Galilei e Foscarini, Levante,
Bari 1998, pp. 32-35.
Il principio dell’unicità del vero 253

servatore” di questa regola a suscitare l’interesse di Galilei, nel momento in


cui essa verrà fatta, per così dire, “interagire” con la quarta regola epistemica
enunciata da Perera nei Commentaria in Genesim

«Illud etiam diligenter cavendum, et omnino fugiendum est, ne in tractanda Mosis


doctrina, quicquam affirmate et asseveranter sentiamus, et dicamus, quod repu-
gnet manifestis experimentis, et rationibus philosophiae, vel aliarum disciplinarum:
namque cum verum omne semper cum vero congruat: non potest veritas Sacrarum
Litterarum, veris rationibus et experimentis humanarum doctrinarum esse contra-
ria»101.

Come è noto, nella Lettera a Cristina di Lorena (1615), Galilei aveva mostrato
di riprendere proprio dai Commentaria in Genesim di Perera l’adagio «cum ve-
rum omne semper cum vero congruat», traducendolo poi nella formula «due veri
non possono mai contrariarsi»102. Anche nel Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo (1632) viene ribadita una simile soluzione, attraverso l’espressione
«perché chiara cosa è che due veri non si posson contrariare»103. Una formula
che Perera aveva desunto, per sua esplicita ammissione, dall’Epistola ad Mar-
cellinum (n. 143, 7)104 di Agostino, e che segna ancora una volta la continuità con
la bolla Apostolici regiminis, serve dunque allo scienziato pisano per sostenere il
chiaro concordismo tra verità di scienza e verità di fede. Nella Lettera a Cristina
di Lorena, infatti, l’unità del vero con il vero diventa, oltre che congruenza, anche
esplicita concordanza

«Stante questo, ed essendo, come si è detto che due verità non possono contrariarsi,
è officio de’ saggi espositori affaticarsi per penetrare i veri sensi de’ luoghi sacri, che

101 Perera, Commentariorum et disputationum in Genesim cit., tomus I, col. 6a. – Una traduzione

del passo di Perera è rinvenibile in M. Ciliberto (a cura di), Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia
moderna, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 441, n. 58: «Deve essere accuratamente evitato e rifuggito che, nel
trattare la dottrina di Mosè, non si capisca e si affermi con assoluta certezza qualcosa che vada eviden-
temente contro le esperienze e le ragioni della filosofia e di altre discipline; certamente, poiché tutto ciò
che è vero si accorda con il vero, a verità delle Sacre Scritture non può essere contraria alle vere ragioni
e alle esperienze umane».
102 G. Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena (1615), in A. Favaro (a cura di), Le Opere di

Galileo Galilei, Edizione Nazionale Barbera, Firenze 1890-1909, vol. V, pp. 307-348, in part. p. 330.
103 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Le Opere di Galileo Galilei cit., vol.

VII, p. 80.
104 «Si manifestae certaeque rationi velut Sanctarum Scripturarum obiicitur authoritas, non intelligit

qui hoc facit; et non Scripturae sensum, ad quem penetrare non potuit, sed suum potius, obiicit veritati;
nec quod in ea, sed in se ipso, velut pro ea, invenit, opponit. [Se d’altro canto, a una ragione evidentissima
e sicura si cercasse di contrapporre l’autorità delle Sacre Scritture, chi fa questo non comprende e oppone
alla verità non il senso genuino delle Scritture, che non è riuscito a penetrare, ma il proprio pensiero,
vale a dire non ciò che trovò nelle Scritture, ma ciò che trovò in se stesso, come se fosse in esse]». Per la
traduzione italiana e il testo latino parzialmente emendato rispetto all’originale di Perera e Galilei si veda
Epistola 143,7, in Augustinus, Epistolae – Le lettere, II, trad. it. di L. Carrozzi, Città Nuova Editrice, Roma
1971 (Opere di Sant’Agostino, vol. XXII), pp. 329-344, in part. pp. 338-339.
254 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

indubitabilmente saranno concordanti con quelle conclusioni naturali, delle quali il


senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avessero prima resi certi e sicuri»105.

«La via che Galileo sceglie di percorrere per perorare la causa di Coperni-
co – scrive Pietro Redondi – è quella dell’unità della verità»106. La ripresa di
Perera da parte di Galilei non è tuttavia riducibile all’adagio cum verum omne
semper cum vero congruat. «Le Lettere copernicane – scrive ancora Redondi – si
iscrivono infatti nelle grandi linee direttive dell’ortodossia cattolica di allora:
conformità alla tradizione patristica e teologica; infallibilità della Bibbia in toto
(anche nelle sue parti poetiche o astronomiche); ricorso molto parsimonioso ai
miracoli; esegesi letterale sempre, o almeno fin dove è possibile»107. Si può
dire, dunque, che Galilei accetti per intero il programma proposto da Perera
con le quattro regole epistemiche dei Commentaria in Genesim, condividendo
per intero l’“epistemologia del Testo Sacro” messa a punto dal gesuita. Giunto a
suffragare le posizioni di Galilei, la formula del cum verum omne semper cum vero
congruat diventa così uno strumento epistemico ancora più ambizioso e potente,
perché intende «concordare un luogo della Scrittura con una posizione naturale
dimostrata»108 alla luce degli esiti dirompenti che la Rivoluzione scientifica sta-
va apportando. Il concordismo della verità avviene dunque, in Galilei, all’inter-
no di una prospettiva “al rialzo” da un punto di vista epistemologico: da un lato,
infatti, il nuovo metodo galileiano rivendicava la verità delle sensate esperienze
e delle dimostrazioni necessarie, dall’altro lo scienziato pisano non intendeva
ridimensionare il valore di verità dell’interpretazione letterale della Bibbia. Al
contrario, «Galileo sarà il primo a dimostrare che la Bibbia dice sempre la ve-
rità e a salvare così in una volta sola tre cose: la realtà del miracolo di Giosué;
l’esegesi letterale della Scrittura; e la dignità della scienza»109. Nella Lettera a
Cristina di Lorena la confutazione della lettura geocentrica del passo di Giosué
(Ios 10,14), stetit itaque sol in medio caeli, viene svolta, infatti, senza indebolire
nessuno dei due poli, natura e Scrittura, che dovevano andarsi a concordare110.
La rivendicazione potente dell’interpretazione letterale del Testo Sacro svolta
da Perera (regola I dei Commentaria in Genesim) interessava dunque allo scien-
ziato pisano almeno quanto il cum verum omne semper cum vero congruat (regola
IV). Nonostante questo, nel 1633, il gesuita Melchior Inchofer, riaffermando il
principio del verum enim non contradicit vero, era giunto ad accusare Galilei di

105 Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena cit., p. 320.


106 P. Redondi, Natura e Scrittura, in M. Bucciantini / M. Camerota / F. Giudice, Il caso Galileo. Una
rilettura storica, filosofica, teologica, Olschki, Firenze 2011, pp. 153-162, in part. p. 160.
107 Redondi, Natura e Scrittura cit., p. 159.
108 Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena cit., p. 331.
109 Redondi, Natura e Scrittura cit., p. 159.
110 Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena cit., pp. 343-344.
Il principio dell’unicità del vero 255

aver proposto una ingeniosa distinctio tra verità teologica e verità filosofica, cioè
di aver in fondo sostenuto una doppia verità in merito al rapporto tra geocentri-
smo biblico ed eliocentrismo copernicano111: saranno accuse su cui Galilei si
soffermerà in una lettera a Elia Diodati del 25 luglio 1634112. Più acuti saranno
invece i rilievi di Bellarmino che, istituendo un regime epistemico differente
tra verità rivelata e verosimiglianza scientifica, si rivolgeranno di fatto contro
il concordismo di Galilei e quindi contro l’interpretazione di Perera data da
quest’ultimo113. Per quanto il cardinale si basasse su una differente concezione
dell’astronomia rispetto a quella dello scienziato pisano – intendendo l’astrono-
mia fondata sulla matematica e non sulla fisica –, si può dire, a livello più gene-
rale, che Bellarmino fosse cosciente dei profondi mutamenti a cui stava andando
incontro il paradigma scientifico nei suoi anni. Anche il principio dell’unicità
del vero andava pertanto ripensato a fronte delle pretese di verità avanzate dalla
scienza moderna.

111 M. Inchofer, Tractatus syllepticus, Grignanus, Roma 1633, pp. 91-92. Su questa accusa di Inchofer

si vedano anche F. Beretta, «Omnibus Christianae, Catholicaeque Philosophiae amantibus. D.D.». Le


Tractatus syllepticus de Melchior Inchofer, censeur de Galilée, in Freiburger Zeitschrift für Philosophie
und Theologie, 48 (2001), pp. 301-328, in part. pp. 317-318; Bianchi, Pour une histoire cit., pp. 152-154.
112 «Il Fromondo si ridusse a sommerger fin presso alla bocca la mobilità della terra nell’eresia. Ma

ultimamente un Padre Gesuita ha stampato in Roma che tale opinione è tanto horribile, perniziosa e
scandalosa, che se bene si permette che nelle cathedre, nei circoli, nelle pubbliche dispute e nelle stampe,
si portino argomenti contro ai principalissimi articoli della fede, come contro all’immortalità dell’anima,
alla creazione, all’Incarnazione etc., non però si deve permetter che si disputi nè si argomenti contro alla
stabilità della terra, sì che questo solo articolo sopra tutti si ha talmente a tener per sicuro, che in modo
alcuno si habbia, nè anco per modo di disputa e per sua maggior corroborazione, a instargli contro. Il
titolo di questo libro è: Melchioris Inchofer, e Societate Iesu, Tractatus syllepticus». Cf. G. Galilei, Lettera
a Elia Diodati (25 luglio 1634), in Le Opere di Galileo Galilei cit., vol. XVI, pp. 115-119, in part. p. 118.
113 Basti far riferimento a questo proposito a quanto scrive Bellarmino nella lettera a Paolo Antonio

Foscarini del 12 aprile 1615: «P.o Dico che mi pare che V.P. et il Sig.r Galileo facciano prudentemente a
contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che habbia parlato
il Copernico. Perché il dire, che supposto che la terra si muova et il sole stia fermo si salvano tutte l’ap-
parenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e
questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il sole stia nel centro del mondo, e solo si
rivolti in sè stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la terra stia 3° nel cielo e giri con somma
velocità intorno al sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma
anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante; perchè la P.V. ha bene dimostrato
molti modi di esporre le Sante Scritture, ma non li ha applicati in particolare, chè senza dubbio havria
trovate grandissime difficultà se havesse voluto esporre tutti quei luoghi che lei stessa ha citati». La lettera
si rinviene in Le Opere di Galileo Galilei cit., vol. XII, pp. 171-172. Più ampiamente, su questi temi, si
rimanda al contributo di Paolo Ponzio in questo volume.
256 Annalisa Cappiello • Marco Lamanna

Abstract: On December 19th 1513, the papal bull Apostolici regiminis sanctioned the
dogma of the immortality of the soul, imposing the defence of the Christian doctrine during
the courses in philosophy. In their lectures, the Christian teachers had to contrast some
unorthodox topics such as the mortality of the individual soul, the unity of the intellect
and the eternity of the world. All of their arguments should be based on the principle of
the unity of truth (verum vero minime contradicit), according to which philosophical truths
cannot deny or contradict truths of the faith. The paper aims to trace the history of the re-
ception of the adagio verum vero minime contradicit, starting from the promulgation of the
bull and the debate on the Aristotelian psychology up to the Age of Galileo and Scientific
Revolution, showing the important role Benet Perera played in this debate.
Key words: Bulla Apostolici regiminis; Aristotelianism; Averroism/anti-Averroism; Sci-
entific Revolution; Pope Leo X, Pomponazzi; Luther; Perera; Galileo.

Annalisa Cappiello
• Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Palazzo Strozzi
I-50123 Firenze
annalisacappiello19@gmail.com

Marco Lamanna
• Scuola Normale Superiore (Pisa), Centro di Filosofia
Palazzo della Canonica, P.zza dei Cavalieri, 8
I-56126 Pisa
marco.lamanna@sns.it

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