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CAP2 AIDS (SINDROME DA IMMUNODEFICIENZA ACQUISITA)


2.1 IL VIRUS HIV

L’HIV appartiene alla sottofamiglia dei lentivirus della famiglia dei retrovirus umani. I retrovirus non
oncogeni sono patogeni in molte specie animali, mentre quelli umani identificati sono 4:
- HTLV 1 e HTLV2, che sono retrovirus trasformanti;
- HIV1 e HIV2, che sono citopatici
L’HIV1 appartiene alla epidemiologia americana ed europea, l’HIV2 è africano, correlato con il siv.

Questi virus condividono morfologia e comportamento clinico. Come si vede nella casella accanto, il virus
ha forma icosaedrica, con una serie di aculei che
contengono le due principali proteine di adesione, la gp120
e la gp41. Inoltre, nella membrana esterna si trovano le
proteine cellulari che il virus acquisisce quando si libera
dalla cellula per gemmazione, come l’mhc2.

Ciclo vitale Fig 308.2 b


Essendo un rna virus, la sua caratteristica è la trascrizione
inversa del suo genoma tramite la trascrittasi.

Legame del virus alla cellula: interazione gp120 e recettore


principale cellulare, CD4, tramite la porzione v1
dell’estremità N terminale del gp120. Il CD4 è espresso su:
- macrofagi
- linfociti TH1
- cellule dendridiche
- cellule di Langherans
inoltre, recentemente è stata dimostrata la presenza di un corecettore, che deve essere presente
contemporaneamente nella cellula per rendere efficace l’adesione dell’HIV. Tale corecettore è una proteina
transmembrana a 7 domini. Esso è diverso per le varie categorie di cellule che il virus infetta, ed esattamente:
- CXCR4 per i linfociti
- CCR5 (recettore per una chemochina) per i macrofagi .
Essendo questo recettore una proteina ridondante, esiste una teoria secondo la quale alcuni dei soggetti “non
responders” all’infezione siano in realtà mutanti delettivi per questa proteina.

Fusione del virione con la membrana della cellula, a carico della gp41 che funziona da integrasi per la
membrana fosfolipidica.

Trascrizione del genoma ad opera della trascrittasi, in DNA a doppia elica; il genoma integrato (detto
provirus), rimane permanentemente nella cellula e può essere attivato da particolari stimoli o rimanere
silente.
L’attivazione cellulare riveste un ruolo fondamentale nella attivazione del virus. Oltre a questo, che vedremo
dopo, pare che lo stesso provirus non riesca ad integrarsi con efficienza se la cellula ospite non viene attivata
da qualche stimolo esterno, e che sia indispensabile tale evento anche per iniziare la attività della trascrittasi.

Assemblaggio delle proteine trascritte e tradotte a livello della membrana, dopo che esse hanno subito una
serie di glicosilazioni e di miristilizzazioni. Al nucleo virale si aggiunge una copia dell’rna virale e avviene
la gemmazione dalla membrana della cellula. Importante processo è quello del taglio delle proteine ad opera
della proteasi virale, enzima indispensabile dato che il genoma integrato viene trascritto tutto intero, e le
proteine prodotte devono essere tagliate per poter essere utilizzate.

La figura sottostante rappresenta il genoma dell’HIV. Esso mantiene la struttura trigenica degli altri
retrovirus, con Gag, Pol ed Env, ma a differenza di questi è corredato di altri sei geni che sono indispensabili
all’attività virale e ne forniscono la regolazione (tat, rev, nef, vif, vpr e vpu). All’estremo iniziale e terminale
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le sequenze LTR permettono l’integrazione del provirus nel dna. Fra HIV1 e 2 la differenza è che nel
secondo il vpr è sostituito dal vpu.

Importanti sono:
- VIF (viral infectivity factor) interviene nell’elaborazione finale dell’env. Indispensabile
- VPU (p16) fa il budding
- TAT (trans activator) p14. Permette la trascrizione del virione integrato nella cellula. E’ la proteina
che viene attivata da fattori mitogeni per la cellula infettata. A sua volta, agisce come enhancer della
sequenza LTR e quindi produce la trascrizione del virione. A differenza dei retrovirus oncogeni
come HTLV1, il TAT è tossico per la cellula e per le cellule vicine, e non produce l’attivazione del
gene per l’IL2. Non si crea quindi una immortalizzazione ad effetto oncogeno, perché la cellula
muore poco dopo aver prodotto altre copie del virione. E’ essenzialmente per questo che l’HIV è
citopatico e non oncogeno.

L’HIV è estremamente variabile. A parte la distinzione dei ceppi 1 e 2 (a loro volta distinti in varie entità
epidemiologiche) ogni virus isolato ha mostrato un grado di differenza rispetto agli altri delle proteine di
membrana dal 3 al 50 per cento. La variabilità si concentra in alcune regioni, dette ipervariabili, che sono
probabilmente la sede degli antigeni della risposta immunitaria che viene montata contro i virus.

Trasmissione dell’HIV
Il virus si trasmette per via parenterale, tramite il contatto con i liquidi biologici, sangue e sperma in prima
linea. Inoltre è trasmissibile con emoderivati, per il canale del parto (anche attraverso la placenta), attraverso
il latte materno.

Rapporto anale: rischio elevato per la fragilità della mucosa e la sua sottigliezza, per la presenza delle
cellule di Langerhans molto recettive subito sotto di essa, per la facilità con cui queste pratiche sono
traumatiche e danneggiano la mucosa.

Rapporto vaginale: rischio minore perché la parete della vagina è meno soggetta ai traumi. La donna può
contagiare il partner tramite i fluidi vaginali infetti, ma il rischio è F:M 20:1, perché il maschio è esposto per
un periodo breve all’ambiente infetto, mentre lo sperma rimane nella cervice e nell’endometrio per molto
tempo. Inoltre, i sottotipi di HIV hanno diversa velocità di penetrazione fino alle cellule mucose e sono
quindi diversamente infettanti. Esiste una correlazione diretta fra presenza di lesioni genitali e rischio di
infezione.

Rapporto orale: meno rischioso degli altri, si associa comunque a buone possibilità di contagio, sia omo che
eterosessuale, praticato su entrambi i genitali maschili e femminili
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Scambio di sangue o emoderivati: Il virus è poco concentrato nel sangue, circa 1000 u/mm3, ma questo è
sufficiente a far si che il 95% dei soggetti trasfusi con sangue infetto abbia contratto l’infezione. Categorie a
rischio sono: emofilici, tossicodipendenti (non solo le siringhe ma anche gli oggetti per la preparazione delle
droghe), trasfusi con sangue intero e anche con piastrine, soggetti che hanno fatto utilizzo delle gamma
globuline perché cronici o per altro motivo. Il rischio di infezione con trasfusione ed emoderivati è negli anni
dal 1970 al 1985, quando è diventata obbligatoria la ricerca del virione nel sangue.

Operatori sanitari: Il rischio di infettarsi dopo puntura con strumento chirurgico contaminato è basso, circa
dello 0,3%, contro il 20-30% dell’epatite B. Il rischio è basso finché rimane poca la quantità di sangue, a
causa della poca concentrazione di virus nel sangue. Il rischio di infezione dopo contatto con le mucose è
ancora più basso (0,01-0,05%).

Trasmissione madre – feto: L’infezione avviene sia durante la gravidanza che al momento del parto e
durante il periodo neonatale. Fortunatamente è più facile che si abbia infezione dopo la nascita e al momento
del parto. Il cesareo riduce notevolmente il rischio di trasmissione. Il rischio di trasmissione da madre non
trattata al feto o neonato è del 25%, ed è proporzionale all’avanzamento della malattia e alla viremia. Se la
madre contrae la malattia durante la gravidanza, il rischio infettivo è maggiore, a causa dell’elevata viremia
che si verifica subito dopo il contagio. Colostro e latte materno sono certamente un buon veicolo di
infezione.

Trasmissione attraverso altri liquidi corporei:


• Saliva: virus isolato solo in una bassa percentuale dei soggetti infetti e in quantità non sufficienti a
dare infezione. La proteina salivare inibitrice delle attività delle proteasi leucocitarie dimostra attività
anti-HIV1. Il morso umano risulta pericoloso non per la saliva, ma per la frequenza con cui si
trovano lesioni sanguinanti delle gengive e della mucosa orale.
• Infezione della madre dal figlio poppante se infetto. Infatti può accadere che il neonato si infetti con
trasfusioni post parto, e che possa infettare la madre attraverso ulcerazioni della mucosa gengivale
che vengono a contatto con i capezzoli.
• Tutti i liquidi corporei sono infettati dal virus, anche urine, sudore e lacrime. Non risulta però che la
sua concentrazione sia rilevante da questo punto di vista, a meno che il liquido in questione non sia
contaminato da sangue (ematuria, lesioni congiuntivali, ulcerazioni cutanee).

2.2 LA PROGRESSIONE CLINICA DELL’INFEZIONE

Patogenesi dell’AIDS
La malattia è legata alla progressiva e
continua deplezione delle cellule TH1,
organizzatori centrali delle risposte
immune, e di tutte le cellule in
generali CD4+, a seguito dell’effetto
citopatico del virus, e alle 2
manifestazioni secondarie di tipo
neurologico legate all’infezione
diretta delle cellule nervose.
Sotto ad un certo livello di cellule
Th1, il paziente diviene suscettibile
alle infezioni opportunistiche che
determinano lo stato di AIDS
conclamato. Oggi, oltre alla presenza di queste infezioni specifiche, si indica come AIDS conclamato ogni
condizione associata a positività per HIV e conta dei CD4 minore di 200 u/mm3.
Manifestazioni neurologiche e il sarcoma di Kaposi non possono essere associati alla diagnosi di AIDS
conclamato perché esse decorrono prima di un grave decadimento della funzione immunitaria.
I meccanismi patogenetici cambiano attivamente durante le varie fasi dell’infezione, che devono quindi
essere esaminati uno per uno.
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Infezione iniziale e disseminazione


Una volta entrato, l’HIV viene a stabilizzarsi nelle zone
paracorticali dei linfonodi, dove si mantiene stabile per Se il virus entra localmente nelle mucose,
diversi anni. Lo scenario più probabile e quello della sono le cellule dendridiche mucosali, le
rimozione dal sangue da parte delle cellule dendridiche cellule di Langerhans, a portarlo in giro ai
circolanti, che sono degli ottimi veicolatori del virus ai linfonodi regionali, dove avviene una
linfociti TH4 e ai monociti linfonodali, i bersagli più replicazione e successivamente la
colpiti. Il virus viene quindi sequestrato nel linfatico e disseminazione come nel quadro
nella milza, dove si replica incessantemente fino a sistemico.
raggiungere un valore critico dopo il quale da una prima
e intensa fase di viremia, che si osserva nelle prime settimane dell’infezione. La fase di disseminazione
ematica che è caratteristica delle prime settimane di infezione si manifesta prima che sia possibile per
l’organismo montare una risposta immune efficace. Questo produce una disseminazione a tutti i tessuti
compreso il cervello.
Spesso questa sintomatologia è sovrapponibile a quella della mononucleosi infettiva.

Meccanismi di cronicizzazione della malattia


L’AIDS è una malattia particolare perché nonostante ci sia una potente risposta immune contro il virus e la
fase acuta dell’infezione, quella con la viremia, sia superata praticamente dalla totalità dei pazienti, il virus
non è praticamente mai eliminato dall’organismo, ma rimane stabilmente all’interno dell’organismo, con una
latenza media di 10 anni prima che si manifesti l’AIDS conclamato. Inoltre, altra importante particolarità, la
latenza clinica non è accompagnata dalla latenza biologica, ma la replicazione del virus è
continuamente presente anche durante la fase asintomatica.

Contrariamente a quanto si pensa, non c’è nel virus una strategia mutazionale che gli arrechi qualche
vantaggio: in effetti, il virus che crea la risposta immune primaria e quello che riesce a sfuggire e a creare
uno stato cronico sono la stessa copia genomica, e quindi non è la variabilità che nelle fasi iniziali impedisce
all’organismo di evitare la cronicizzazione dell’infezione.
I meccanismi che invece appaiono importanti sono:
• Saturazione delle Apc follicolari con gli Ag del virus, che si estende anche ai CTL. Queste cellule, che
sono quelle in grado di controllare l’infezione, si espandono nella prima fase della disseminazione, ma in
seguito il loro clone viene deleto dalla iperstimolazione da parte delle APC follicolari.
• Localizzazione dei processi replicativi ed infettivi del virus nella zona paracorticale del linfonodo, dove
le cellule CTL sono presenti in concentrazione molto bassa e con poche eccezioni non ricevono uno
stimolo adeguato
• Cronicizzazione dell’infezione: dopo un certo tempo, le cellule infettate che non sono state lisate dai
CTL entrano nello stadio di portatrici del provirus integrato, senza esprimere gli Ag virali. A questo
punto, esse non sono più riconosciute dai CTL e non si può più eradicare l’infezione.
Una volta che tutte le cellule infette sono in questa fase di “portatrici”, non si presentano più in circolo gli
antigeni virali, ed il paziente entra nella fase di latenza clinica.

La fase di latenza clinica


Inizialmente si pensava che durante questo processo il virus non si replicasse, ma si è visto che non è così: in
effetti, anche durante la latenza, con tecniche di PCR molto sensibili è possibile dimostrare una certa viremia
plasmatica. Siccome una cellula infettata vive 1,6 giorni e un virione circa 6 ore, è stato calcolato che per
mantenere il virus nell’organismo è necessario un turnover virale di circa 1010 virioni al giorno. Il sito dove
avviene la replicazione e che mantiene la viremia plasmatica, che è sempre presente anche se subliminale,
sono i linfonodi.
Si definisce set point l’equilibrio di viremia plasmatica che si stabilisce dopo 6 mesi – 1 anno dall’infezione.
Il livello del set point è direttamente correlato con la velocità di evoluzione della malattia.
Negli individui infetti, il livello di CD4 scende costantemente e inesorabilmente, rimanendo il paziente
asintomatico per tutta la durata di quella che viene detta appunto latenza clinica (che non significa latenza di
malattia).
Si è detto che in questa fase le cellule infettate vengono continuamente sostituite da altre che vengono
contaminate dalla viremia periferica e soprattutto dalla presenza del virus nelle APC follicolari dendridiche.
Questo processo subisce un massiccio incremento soprattutto in quelle condizioni in cui le cellule infette
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vengono ad essere attivate. Numerosissime infezioni, allergie, stati di stress provocano la produzione di
specifiche citochine che attivano la proliferazione T. L’andamento della malattia è invariabilmente
progressivo, nel senso che per ogni cellula che muore un numero più grande di cellule viene infettato, mentre
contemporaneamente diminuiscono le cellule target (i CD4+). Questo processo che se pure lento è
esponenziale è aumentato drasticamente dalle infezioni, nelle quali il metabolismo e la riproduzione dei T
aumenta e si porta dietro un incremento della sintesi di nuove particelle virali.
Questo spiega perché, appena uscito dalla fase di latenza clinica, che corrisponde con un livello di CD4 così
basso (200 – 300 u/mm3) da non controllare più le infezioni, il quadro si aggrava rapidamente: ogni nuova
infezione aumenta la progressione della malattia, diminuisce il numero di TH1 attivi e aumenta la
suscettibilità a nuove infezioni, in un circolo vizioso che diventa rapidamente un quadro terminale.
Nella fase di latenza, dunque, si assiste ad una progressione che decorre però al di sotto delle evidenze
cliniche. La terapia, attualmente, è mirata a prolungare il più a lungo possibile questo stato di cose.

Fase di infezione avanzata di HIV Cause di morte nei malati AIDS


Si ha quando, indipendentemente dalla
sintomatologia, il soggetto registra una conta dei 1. Polmonite da pneumocystis carinii
CD4 minore di 200. In quasi tutti i pazienti questo 2. Meningoencefalite da criptococco
corrisponde ad una massiccia attivazione di 3. Toxoplasmosi celebrale.
patogeni opportunisti e di riattivazione di batteri e 4. Infezioni da CMV
virus endogeni, più o meno controllati dal sistema
immune, che risultano ora liberi e attivi. Nell’età adulta le infezioni da batteri tipici, come lo
I malati oggi ricevono cure così aggressive e sono staffilococco, non sono frequenti come si aspetterebbe
così attivamente seguiti che si osservano casi in da una grave immunodeficienza, perché bloccate alla
cui non si possono più contare CD4 porta di ingresso dalle attività anticorpali delle
nell’organismo. plasmacellule. Infatti quando sia già avvenuta una
immunizzazione verso un Ag, l’attività Th1 non è più
strettamente necessaria. Diverse sono le cose
nell’AIDS pediatrico.
Non tutti i pazienti hanno un identico decorso
clinico e non tutti possono essere considerati uniformabili a questo tipo di andamento. In effetti, esistono
almeno due tipi di eccezioni per quello che riguarda la clinica.

Pazienti “long term survivors”: sono così definiti quei soggetti che ad una durata di 15 anni dalla malattia
iniziale sono ancora vivi. La maggior parte di essi presenta sintomi gravi ed immunodeficienza, ma una
percentuale di questi soggeti non scende mai al di sotto dei 200 CD4 senza che si conosca il motivo di tale
latenza.
Pazienti “long term non progressors”: soggetti che a una distanza di 10 anni dall’infezione hanno un
numero di CD4 assolutamente normale in assenza di una terapia specifica antiretrovirale.

In particolare questi ultimi mostrano una bassa carica virale (cioè il numero di cellule infettate dal virus), una
viremia plasmatica poco elevata, normale funzionalità immunitaria secondo i test reattivi, una buona risposta
immunitaria HIV specifica ed un tessuto linfoide assolutamente normale. La non progressività appare
causata da una combinazione di fattori, fra cui difetti del virus e eterozigosi per la mancanza del CCR5.

2.3 PATOGENESI E MECCANISMI MOLECOLARI DELL’AIDS

AIDS e linfonodi
I linfociti del sangue periferico sono solo il 2% del pool dell’organismo. Di conseguenza il luogo dove si
svolge tutta la patogenesi della malattia è necessariamente il linfonodo, la milza e il tessuto linfoide delle
mucose. Inoltre, tutta la replicazione avviene nel linfonodo e non nel sangue.
Tutti i pazienti con HIV hanno una iperplasia follicolare notevole, che rappresenta la reazione del sistema
immune alle cellule infette. In diversi di questi, tale attività si traduce in una linfoadenopatia generalizzata.
Attraverso lo studio dei linfonodi nelle varie fasi della malattia è possibile capirne l’evoluzione.

Nella fase iniziale (CD4 > 500) l’espressione del virus nelle cellule plasmatiche e la viremia sono poco o per
niente rilevabili. In questo momento molti virioni sono intrappolati nei processi delle cellule follicolari
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dendriche, le APC, nei centri germinativi dei linfonodi. Tale sequestro è responsabile del passaggio da
una fase di viremia acuta ed elevata alla fase di latenza clinica, attraverso l’instaurazione di una potente
risposta immune, responsabile del calo della viremia plasmatica.
Quando il virus è sequestrato, si formano dei centri germinativi dove il virus che è intrappolato dalle CFD,
che avvolgono nei loro prolungamenti i linfociti B e i T periferici che ricircolano (fenomeno che può dare
l’iperplasia follicolare). Tale normale funzione di APC di queste cellule provoca il passaggio dell’infezione
nella estesa popolazione linfocitaria. Inoltre la presenza di HIV è uno stimolo continuo alla proliferazione
delle cellule che si sono già infettate che replicandosi producono altre copie del virus.
E’ quindi un ciclo continuo che finisce per produrre da un lato un progressivo aumento della viremia e
diminuzione di CD4 funzionali, dall’altro una degenerazione del linfonodo con diminuzione dell’efficienza
del sequestro del virus dal circolo, cosa che ovviamente contribuisce ad incrementare la viremia stessa. Nelle
fasi terminali della latenza clinica e nella malattia conclamata, il centro germinativo è completamente
distrutto, le CFD muoiono e viene del tutto perduta la capacità di sequestro, cosi che il virus si riversa
intermente nel sangue. La distruzione del sistema linfatico (i linfonodi sono detti “bruciati”) è responsabile
assieme alla carenza di CD4 dell’incapacità di controllare le infezioni. Inoltre, nelle fasi terminali il virus
diventa libero di riprodursi senza che il SI si opponga in alcun modo.

Ruolo dell’attivazione cellulare nello Infezione primaria


sviluppo dell’infezione
Il sistema immune (SI) è di solito trattenuto in uno
stato di omeostasi in attesa di essere attivato da Progressione nel tessuto linfoide
una perturbazione esterna. Invece con l’HIV si
trova in uno stato di cronica attivazione per via
della cronicità dell’infezione.
I segni di questo sono: Viremia primaria massiva
• Ipergammaglobulinemia dovuta all’attivazione
dei B CTL specifici per il virus
• Spontanea proliferazione dei linfociti Stanno in periferia
Anziché nel linfonodo
• Attivazione dei monociti Parziale controllo
• Iperplasia linfoide (fasi precoci, poi
Della replicazione
distruzione) Il clone di CTL reattivi
• Elevati livelli di citochine Viene deleto per motivi poco
Chiari.
• Fenomeni di autoimmunità

Questi segni clinici sono accompagnati da una Sequestro del virus nei linfonodi
serie di importanti conseguenze a livello cellulare,
che spiegano come mai sia proprio la cronica
attivazione del SI a favorire in maniera
Accelerazione della replicazione del virus
evidente la progressione della malattia:
• Il SI se cronicamente attivato da un Ag perde
la capacità di essere responsivo nei suoi
confronti deplezione del clone di CTL Distruzione del SI
reattivo
• L’integrazione virale, l’attività della
trascrittasi sono molto più efficaci in una cellula attivata piuttosto che in un linfocita quiescente
• Un SI cronicamente attivo può essere alterato nell’esercizio delle sue funzioni, perdere la capacità di
coordinare le sue attività contro ogni tipo di antigene ed essere soggetto ad apoptosi per auto-regolarsi.

In effetti, è l’HIV stesso che nel legarsi al CD4 con la gp120 invia nel linfocita un segnale che promuove
l’apoptosi della cellula. Le copie di gp120 vengono liberate in massa dalle cellule infette durante la
trascrizione virale (a causa dell’effetto citolitico del virus) e questo aggrava moltissimo la situazione.
Con questo meccanismo, anche cellule non infettate risultano danneggiate gravemente, e questo
contribuisce a spiegare l’enorme deplezione di cellule T che si accompagna ad una carica virale invece
piuttosto bassa.
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Un’altra teoria indica nello squilibrio del network citochinico la causa dell’apoptosi che colpisce tutte le
linee linfoidi, non solo i CD4.
Inoltre si sta cercando di capire se l’HIV possa anche codificare per un superantigene, una molecola che
attiva in maniera clonale i T legandosi alla catena beta del recettore TCR. Sulla base della catena beta, i T
possono essere distinti in 24 famiglie, che occupano in media dal 3 al 10% della popolazione completa. Una
attivazione clonale di così tante cellule porta a fenomeni di anergia clonale che possono essere imputati nella
patogenesi della malattia.

Ruolo dell’attivazione cellulare nella riproduzione dell’HIV


Tutti questi fattori sono importanti anche nella attivazione dell’HIV latente in una cellula cronicamente
infettata; ma il vero cuore del processo è l’attivazione
della cellula ospite da parte di una delle citochine Oltre alle citochine, molti microrganismi
fisiologicamente deputata a questa funzione. possono funzionare in vario modo da
Esse hanno dimostrato un ruolo importante e diretto attivatori esogeni del virus HIV
nell’espressione dell’HIV in vitro. Le più potenti sono cronicizzato. I principali sono herpes 6,
IL1, IL6 e TNFalfa. Invece pare che altre citochine EBV, HBV, adenovirus, HTLV1,
abbiano un ruolo opposto, ad esempio INF e IL10, e SDF Micobacterium, Mycoplasa. La causa di
e betachemochine (ligandi naturali dei corecettori) e che questo è la attivazione dei T, responsivi
alcuni fattori blocchino la proliferazione dell’infezione con per l’antigene in questione, che
il passaggio da una cellula cronicamente infettata all’altra contengono anche l’HIV.
sana.
Tutto questo conduce al concetto che l’espressione dell’HIV è direttamente dipendente dal tipo e dalla
quantità di citochine che vengono a trovarsi all’interno dell’organismo.
E’ chiaro che nell’ospite il bilancio fra citochine proinfiammatorie e citochine soppressive sia determinante
nel definire la proliferazione del virus, e che il virus stesso altera questo bilancio.
Un caratteristico squilibrio che è spia di queste alterazioni è la prevalenza nel malato delle risposte TH2 su
quelle TH1: questo squilibrio si accentua con il progredire della malattia ed è indice di un prossimo
aggravamento delle condizioni generali.

Bersagli cellulari dell’HIV


Ogni cellula CD4 positiva che esprima i corecettori descritti all’inizio.
- Linfociti T CD4
- Cellule monocitiche CD4
- Cellule di Langerhans
- Cellule follicolari dendridiche? (bassi livelli di CD4)
Inoltre, moltissime cellule di quasi tutti gli organi parenchimatosi (rene, cuore, fegato, polmone, prostata…)
e delle mucose possiedono CD4 in quantità subliminale o almeno l’mrna di esso. Esse sono infettate dal
virus, ma non è ancora stata dimostrata la capacità di riprodurre i virioni.

• Le cellule serbatoio dell’infezione, in cui il virus cronicizza con più efficacia, sfuggendo a tutte le
terapie ed alla risposta immune sono i macrofagi.
• Le cellule timiche precursori dei CD4 maturi sono infettate con efficacia, e questo contribuisce ad
abbassare il livello periferico dei Th anche quando la terapia antiretrovirale si rivela efficace nel
contrastare la replicazione del virus

Non tutti i tipi di HIV isolati hanno la stessa capacità di infettare le stesse cellule: alcuni possono replicarsi
anche nei monociti (monocitotropi) e raramente solo in essi, altri infettano solo i linfociti (linfotropi). La
differenza sta nei domini variabili della gp120 e quindi nel gene ENV. I primi sono predominanti all’inizio
della malattia e non inducono la formazione di sincizi, mentre i secondi sono predominanti nelle fasi
avanzate e hanno effetto di formazione di sincizi. Osservare il passaggio da un tipo all’altro indica un
prossimo aggravamento della malattia e della conta T periferica.
Oltre alla gp120, è principalmente il tipo di corecettore (CCR5 per i monocitotropi, il recettore per la
chemochina beta, e CXCR4 per i linfotropi) a determinare il tropismo del virus per queste due classi di
cellule. In uno studio per coorte di 1400 persone non è stato mai trovato un solo individuo omoziogote per il
difetto CCR5. Tale difetto è importante perché ci sono più virus HIV monocitotropi che linfotropi.
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A proposito di questi due recettori, i ligandi naturali di essi, ovviamente, inibiscono la infezione della
cellula bloccando l’adesione virale. Essi sono rispettivamente l’SDF e le beta-chemochine, due
molecole che abbiamo descritto fra quelle capaci di inibire la proliferazione virale.
Tuttavia vi sono molti recettori che possono far entrare il virus agendo sinergicamente al CD4, e
l’azione inibitoria di questi ligandi è parziale.

Anomalie delle cellule infettate

Cellule T
Sebbene praticamente tutte le alterazioni della funzione immunitaria siano alla fine spiegabili con una
diminuzione del numero di cellule CD4, fin dall’inizio sono presenti delle alterazioni importanti. Il grado e la
variabilità delle disfunzioni aumentano con il progredire della malattia. Ogni funzione T può essere alterata
nel corso della malattia. Le più comuni sono elencate di seguito.
• Perdita delle risposte agli antigeni di richiamo (tossoide tetanico, influenza…)
• Alterazione della risposta alle sostanza mitogene, anomala produzione/reattività all’IL2.
• Diminuita stimolazione alle cellule B per la produzione di Ab
• Iniziale linfocitosi CD8+, e successiva diminuzione del numero di CTL. Il motivo di tutto questo non è
chiaro. E’ evidente che all’inizio la linfocitosi deriva dal tentativo di compensare la perdita di CD4 e
dall’espansione del clone reattivo all’HIV, che successivamente viene deleto. E’ proprio questa
delezione ad essere responsabile della diminuzione complessiva del numero di CTL. Non si conosce la
ragione per cui le CTL residue risultino
alterate nella capacità di formare colonie
e di rispondere all’IL2, ma sembra che i
ceppi CD38+ siano associati ad una
prognosi migliore di quelli CD38-

Le cellule CD4 diminuiscono di numero ma Fig 308.7


non in maniera così intensa, almeno
all’inizio, da giustificare la profonda
immunosoppressione a cui il paziente va in
corso. In effetti fin dall’inizio esistono
numerose altre alterazioni della funzione
CD4, descritte nella tabella a fianco, che
spiegano come ami si possano avere tutti
questi danni. Ricordarsi che il danno nelle TH1 è determinante nello spiegare il perché si possono alterare
completamente tutte le fasi della risposta immune.

- Il virus induce sincizi nelle cellule CD4, in maniera evidente soltanto nella fase acuta.
- Le cellule che controllano l’infezione lisano i CD4 anche se si trovano vicino ad una cellula infetta,
aumentando notevolmente l’effetto citopatico del virus.
- Le molecole gp120 solubili possono indurre l’apoptosi e opsonizzare tutte le cellule con il CD4: se si è
instaurata una risposta umorale efficace, esse andranno incontro a fenomeni di ADCC.
- Alcuni tipi di MCH II possiedono determinanti simili alla gp120, e possono essere bersaglio di Ab cross-
reattivi.
- Il sistema immune mantiene il livello di T alla cieca, senza discriminare fra CD4 e CD8. Così la
deplezione di CD4 è aggravata dal fatto che lo stimolo alla proliferazione arriva anche ai CD8, che
finiscono per diventare la popolazione predominante.
- Il legame gp120-CD4 può causare, oltre all’apoptosi, un blocco nella produzione delle citochine
necessarie alla normale funzione T e un’alterazione della risposta ad esse.
- Le cellule CD4 non sono efficacemente rigenerate sia perché il virus infetta i precursori, sia perché viene
distrutto il microambiente linfocitico necessario alla loro maturazione.

Cellule B
Le cellule B non possono essere infettate dall’HIV, ma i prodotti virali ne causano uno stato di cronica
attivazione, che si esprime con una ipergammaglobulinemia, aumentata secrezione di TNF e di IL6,
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circolazione di immunocomplessi e di autoAb e proliferazione spontanea. Il gp41 è un attivatore


policlonale delle cellule B.
Le cellule B durante le infezioni da HIV non sono capaci di rispondere con efficacia alle stimolazioni di
antigene.
Questo è probabilmente alla base dei fenomeni di infezioni da batteri osservate negli adulti (i quali sono già
immunizzati in teoria, e un difetto CD4 non dovrebbe cambiare questo stato di cose, ma qui il problema non
è la stimolazione TH1, ma la produzione di Ab).

Monociti, macrofagi e cellule NK


I monociti sono i serbatoi dell’infezione, e il motivo è il fatto che esse hanno nei confronti dell’HIV una
buona produttività, ma una scarso effetto citopatico, e quindi il virus si replica al loro interno a lungo
e abbondantemente. Il comportamento anomalo delle cellule e la loro atipia è spiegabile con l’infezione
midollare dei precursori e con la loro esposizione alla gp120.
Anche le cellule NK trovano difficoltà operative, mediate comunque probabilmente dalla scarsità della
stimolazione da parte dei CD4.

Neuropatogenesi
Gli effetti celebrali sono dovuti sia all’infezione del virus direttamente che all’immunosoppressione e
all’insorgenza di neoplasie. Nel primo caso, ci sono diversi meccanismi di danno. Le cellule infettate sono
quelle della linea monocitica/macrofagica, che entrano nel cervello grazie all’espressione di molecole di
adesione come ICAM1 e VCAM1, che sono aumentate dalla presenza di gp120 solubile nella cellula. In
effetti il virus che in genere si ritrova nel cervello è monocitotropo.
Non sembra che il virus infetti direttamente i neuroni in vivo, anche se lo fa in provetta, ma comunque pare
che il galattosil ceramide delle cellule nervose sia un adatto recettore per la gp120.
Invece il danno provocato dal virus sui neuroni è indiretto, e mediato da:
- effetti tossici della gp120
- neurotossine secrete da macrofagi, astroglia e neuoroglia infettate che uccidono il neurone legandosi
all’NMDA
- citochine prodotte dalle cellule infette (IL1, IL6, TNF, TGFbeta, INF)
- eicosanoidi di cellule di derivazione monocitica attivate
Le manifestazioni neurologiche migliorano molto con la terapia antiretrovirale, soprattutto nei bambini.

Patogenesi del sarcoma di Kaposi


E’ una malattia opportunistica, a carattere proliferativo, che non è strettamente un tumore, ma una
disregolazione mediata da citochine, non direttamente correlata al numero di CD4.
Eccessiva proliferazione di cellule fusiformi, con origine vascolare e caratteristiche comuni alle cellule
endoteliali lisce.
Il sarcoma non è una malattia unicamente associata all’HIV, in quanto è presente anche fra soggetti
omosessuali non sieropositivi. E’ stato identificato come agente eziologico l’herpes virus 8, che si trasmette
per via sessuale. L’aumento dell’incidenza della malattia fra i pazienti AIDS è legato a diversi fattori:
- stimolazione che certe citochine, prodotte in abbondanza nell’infezione da HIV, hanno sul virus e sulle
cellule neoplastiche (TNF, IL1, IL6, GM-CSF…)
- stimolazione che ha il prodotto del gene TAT
- l’immunosoppressione che permette lo sviluppo dell’HHV8 nel sangue e quindi una maggior probabilità
di infezione.

2.5 LA RISPOSTA IMMUNE ALL’HIV E IL SUO FOLLOW-UP IN LABORATORIO

Dopo l’infezione primaria ad alta viremia si ha una risposta immune, sia cellulare che umorale, che mette un
freno all’espansione virale e che probabilmente è alla base della latenza clinica che si crea. Essa è diretta sia
verso gli epitopi virali che sono molti e le sue proteine solubili nell’interno delle cellule.
Le cellule che vengono in contatto con il virus per via CD4 sono le stesse che sono deputate alla sua
eliminazione. Questo rende il sistema immune destinato a perdere la sua battaglia, per lo squilibrio che si
crea fra attivazione e produzione virale da una parte, e effetto protettivo dei CTL, sempre meno attivo,
dall’altra.
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Risposta umorale
Gli anticorpi diretti contro il virus si
evidenziano dalle 2 alle 8 settimane dopo
l’infezione, e rimangono per tutte le fasi
della malattia, anche se quelli anti p24
crollano alla fine della malattia e sono
un indice prognostico negativo. Fig 318.17
Di solito gli anticorpi compaiono dopo la
scomparsa della viremia plasmatica,
perché questa è correlata con l’attività dei
CTL piuttosto che con gli Ab.
Compaiono Ab contro tutte le proteine
virali, prima quelle di GAG, in particolare
la p24, usata, sia come antigene che come
Ab relativo, per il dosaggio dei test di
laboratorio, poi quelli di POL ed ENV, ed infine i geni minori, TAT, REV, VPR…

Anticorpi importanti sono quelli diretti verso il complesso gp161 (gp41 + gp120). In particolare sono diretti
contro il dominio ipervariabile V3 (aa da 579 a 613), che è la regione dove si creano molte variazioni che
non sono facilmente riconosciute dal sistema immune. Gli anticorpi possono avere vari effetti, e risultare
realmente protettivi (ADCC e neutralizzazione del virus solubile) oppure promuovere, attraverso
l’opsonizzazione, il contatto fra virus e macrofagi (antibody enhancement). Gli anticorpi realmente
neutralizzanti sono divisi in due categorie: tipo-specifici, attivi su pochi isolati o su uno solo, e gruppo
specifici, attivi su più isolati.
Le stesse regioni del virus che inducono la produzione di anticorpi ADCC promuovono anche Ab capaci di
fare l’enhancement sui macrofagi.
Altro meccanismo è quello di bystanders killing, cioè il processo per cui l’ADCC si estende anche alle
cellule, non infettate, che hanno assorbito la gp120. E’ ovviamente un importante meccanismo di danno.

Risposta cellulare
1. Ci sono linfociti CD4 capaci di interagire con il loro TCR con gli epitopi comuni dell’HIV. Queste
cellule, che ovviamente iniziano la risposta anticorpale efficace, sono anche molto rapidamente infettate
e distrutte, perché entrano in contatto con il virus ad alta affinità. Ci sono anche dei CTL CD4+ con
significato oscuro.
2. La parte cellulare CTL è la risposta più potente contro il virus; quando c’è una buona proliferazione di
CTl di più cloni specifici per antigeni diversi, c’è una prognosi migliore. Si è visto che la diminuzione
nel numero di CD4 comporta una riduzione delle attività dei CTL, a conferma della centralità della TH1.
3. Soppressione della replicazione virale mediata dalle CD8 attraverso una inibizione non citolitica. Questo
meccanismo è semplicemente mediato dalla secrezione di beta chemochine che si legano al CCR5.
Esistono però altri fattori solubili, secreti dalle CTL, che non sono identificati e che inibiscono la
trascrittasi inversa.
4. Attività citolitica mediata da ADCC delle cellule NK
5. Attività citolitica delle NK indipendente dalla ADCC: meccanismo primitivo di difesa contro le infezioni
virali e le neoplasie, basato sulle alterazioni delle MHC1.

Diagnosi di laboratorio
Si fonda sulla dimostrazione di Ab antivirali in circolo dopo 4-8 settimane dall’infezione primaria. Il test di
elezione è l’ELISA, che si basa sull’assorbimento in una piastra con fissati antigeni dell’HIV 1 e 2 che
vengono legati agli eventuali Ab del siero del paziente, che poi sono evidenziati con Ab anti FC marcati con
un enzima.
Il test è altamente sensibile (99,5%) ma poco specifico, per cui di fronte alla positività ELISA si devono
eseguire test di conferma.
Il migliore è il western blotting, sugli antigeni che sono trovati nel siero, separati in base alla loro
dimensione, e poi ibridati con il siero del paziente. La positività al western è definita come la presenza di
bande in corrispondenza di tutti e tre i prodotti di Env, Gag e Pol, (almeno due fra gp160/120, gp41 e p24) ed
è una prova conclusiva della positività da HIV.
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Alcuni western sono dubbi per via del fatto che alcuni antigeni dell’HIV possono interagire con alcuni Ab
normalmente presenti (sono la p24 e la p55). In questo caso deve essere eseguito un altro test dopo un mese.
Comunque anche lui può dare falsi positivi ed in alcuni casi è necessario (ad esempio con ELISA negativo e
western positivo) ricorrere alla PCR dell’RNA e del DNA virale.
Un parametro utile per eseguire un controllo della progressione della malattia è il dosaggio dell’antigene
p24 nel siero. Esso risulta dapprima ad un brusco aumento di esso, poi si instaura la risposta specifica e i
suoi livelli scendono gradualmente (tendono a scomparire con la terapia), rimanendo comunque dimostrabili
nel 30-50% dei soggetti. Infine, con la ripresa dell’attività virale, la [p24] aumenta gradualmente fino alla
morte.
C’è correlazione diretta fra [p24] e aggressività della malattia, anche a parità di numero di CD4. Esso può
essere usato come test di screening precoce perché la p24 si trova in circolo prima degli Ab a cui è sensibile
l’ELISA.

La PCR è estremamente sensibile e senza accurati controlli da dei falsi +, ma è utilissima. Si usano due
metodi, a DNA e a Rna, e la metodica è utile per analizzare le sequenze dei geni, e come diagnosi precoce .

Follow-up clinico di laboratorio


Attualmente la conta dei CD4 è il test considerato più efficace nel controllo della progressione della malattia,
ma esistono anche altri test, fra cui è importante il controllo dell’rna dell’HIV nel siero, che si è rivelato
predittivo nel determinare l’andamento della conta dei CD4.
La conta, che si fa ogni 6 mesi, viene correlata a differenti rischi infettivi, come riportato nella tabella a
fianco.Il motivo per cui è necessaria una conta dei CD4 così bassa per manifestare le infezioni da CMV è il
fatto che ci sono moltissimi TH1 attivi contro questo virus, ospite abituale dell’organismo e sempre pronto
alla riattivazione endogena.
La conta va eseguita ogni 6 mesi, e al di sotto di 500 è necessario iniziare una terapia antivirale con INF,
mentre al di sotto di 200 è indicata la profilassi per il Pneumocystis.
CD4 Tipi di infezioni
I test che misurano la carica virale (cioè 200-500 u/ul Candidiosi orale e TBC
danno un’idea del numero di cellule 100 – 200 Criptosporidium
infettate dal virus) sono la misura della p24 50 – 100 Pneumocystis carinii, MAC, Criptococco
antigene e la misura diretta dell’HIV-rna. Il neoformans, Toxoplasma Gondi (riattivazione
secondo è molto specifico e misura le bradizoiti).
variazioni di carica virale che avvengono <50 Infezioni da CMV
nell’arco di ore.

Livelli di beta2 microglobulina: aumentano in tutte le condizioni in cui c’è una distruzione di linfociti. E’
considerata come l’indicatore più attendibile della progressione verso la malattia conclamata.

2.6 MANIFESTAZIONI CLINICHE DELLA MALATTIA

Variano a seconda degli stadi clinici della malattia, passando da una fase acuta infettiva alle manifestazioni
della fase avanzata. Si può empiricamente
distinguere uno stadio precoce, uno intermedio
e uno avanzato basandosi sulla conta dei CD4;
mentre molte delle manifestazioni infettive 308.11
sono tipiche dello stadio avanzato, il sarcoma
di Kaposi e la malattia neurologica non sono
correlate allo stato di immunodeficienza: si
trovano solo nella malattia avanzata perché il virus ha avuto tempo di prova care questi danni.
Esistono due sistemi diffusi di stadiazione della malattia:
CDC: Da importanza alle manifestazioni cliniche della malattia
Walter Reed: E’ basato sulle manifestazioni immunitarie e sulla conta dei CD4.

Manifestazioni della fase acuta


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Fig 308.12

Circa il 50 – 70% dei pazienti tende ad avere una serie di manifestazioni acute nel primo mese dopo
l'infezione. Tali manifestazioni sono variabili e si accompagnano ad una elevata viremia e alti livelli di p24.
E’ una sindrome che si presenta come una tipica infezione virale ed è paragonabile alla mononucleosi
acuta.
I sintomi più comuni sono: febbre, faringite, linfangite, cefalea con dolori retroculari, anoressia, disturbi
digestivi, letargia; meningite, encefalite, neuoropatia periferica, mielopatia; esantema maculo- papuloso,
ulcere cutanee e mucose.

La presenza di elevati livelli virali nella fase acuta produce una grande serie di alterazioni immunologiche e
di inattivazione dei CD4 che porta allo sviluppo di alcune infezioni opportunistiche che sono del tutto
distinte da quelle della fase avanzata. La principale perturbazione dei linfociti è l’inversione del rapporto
CD4/CD8, che si verifica fin dalle prime fasi.
La maggior parte dei pazienti ha uno stabile deterioramento del numero di CD4, che procede nella fase di
latenza, ma alcuni possono transitoriamente riacquistare un livello di CD4 normale. Circa il 10% dei casi
muore nella fase acuta.

Manifestazioni della fase di latenza


In questo periodo di asintomatismo la malattia progredisce con una velocità che è proporzionale alla quantità
di HIV-rna presente nel siero. Molti pazienti non sono sintomatici per nulla, e lo sviluppo di una infezione
opportunistica è il loro primo segno; altri hanno per tutto questo periodo di tempo una linfoadenopatia
generalizzata.
Con pochissime eccezioni, il numero dei CD4 diminuisce costantemente ad un ritmo di 50 u/ul all’anno.

Fase tardiva iniziale (CD4<500 u/ul)


Questo stadio è il periodo di transizione fra la fase di latenza clinica e la fase di AIDS conclamato. In passato
era molto noto come ARC (AIDS related complex). E’ caratterizzato da una convivenza di sintomi specifici
e caratteristici dell’AIDS e infezioni opportunistiche non direttamente correlate alla malattia primaria.

• Linfoadenopatia generalizzata: presenza senza causa di due o più sedi extrainguinali di linfonodi
ingrossati (>1cm) per oltre 3 mesi. Essendo un indice della attività immune contro l’HIV, la sua
scomparsa è un segno prognostico negativo. Bisogna fare la diagnosi differenziale verso il sarcoma di
Kaposi nella fase iniziale, e verso le infezioni batteriche opportuniste nella fase tarda (CD4 <200u/ul).
• Lesioni orali: candida, mughetto, leucoplachia correlata ad EBV (queste ultime due correlate ad una
imminente progressione a stadio peggiore), ed ulcere. Il mughetto è un essudato cremoso e biancastro
che viene da una superficie iperemica, che si ritrova prima nel palato molle. La leucoplachia è fatta da
lesioni filamentose bianche. Le ulcere hanno eziologia ignota.
• Riattivazione dell’Herpes Zoster: precoce, sintomo di un declino poco marcato dell’immunità. Il fuoco
di S. Antonio è comune fra i pazienti AIDS ma non grave, con raro coinvolgimento degli organi interni.
• Trombocitopenia: la maggior parte mantiene livelli superiori alle 50000 u e non presenta necessità di
particolari trattamenti. Manifestano sanguinamento delle gengive e petecchie nelle estremità. L’esame
midollare è normale, e il danno piastrinico è mediato, come nella porpora trompocitopenica idiopatica,
dalla presenza di IMMUNOCOMPLESSI adsorbiti sulla superficie delle piastrine e fatti anticorpi anti
gp120 e anti-anticorpi anti gp120. Inoltre ci sono Ab anti piastrine. C’è poi probabilmente anche un
effetto diretto dell’HIV, in questo una terapia antiretrovirale porta ad un innalzamento stabile del numero
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delle piastrine. Oggi si ricorre anche alla splenectomia per quei casi refrattari alla terapia, considerando
però che questa danneggia la capacità di difesa contro i batteri capsulati e può fornire indicazioni fasulle
alla conta dei CD4.
• Altre condizioni: porpora trombotica trombocitopenica (malattia con anemia emolitica, trombosi,
emorragie e danno renale), cefalea, carcinoma a cellule basali della cute, riattivazioni dell’herpes
simplex.

Manifestazioni neurologiche
Queste manifestazioni sono responsabili della maggior parte della mortalità. Oltre all’HIV, un nutrito
numero di virus e di batteri e alcuni tumori ne sono responsabili (toxoplasma, CMV, micobacterium, sifilide,
HTLV1). Complessivamente colpiscono 1/3 dei pazienti, e quelle specifiche per l’AIDS conclamato sono
solo la demenza AIDS. Il danno si è detto è legato alla infezione di macrofagi e glia o anche dalla produzione
di citochine da parte di essi.
Praticamente tutti i malati hanno una infezione del SNC che però non sempre è sintomatica. Eventi molto
comuni sono pleiocitosi, isolamento del virus, proteinorrachia e sintesi intratecale di Ab.

• Meningite asettica: può apparire in tutte le fasi dell’infezione eccetto che in quelle avanzate, e si
manifesta con proteinorrachia, linforrachia e normoglicorrachia. In certi casi si ha menigite franca con
nausea, vomito e fotofobia. La malattia classicamente compare nella fase acuta e tende a sparire durante
la fase successiva, risultando difficile il suo manifestarsi nella fase avanzata. Questo suggerisce che si
tratti di una malattia immunomediata.
• Encefalopatia da HIV: detta anche
demenza associata all’AIDS, è un
insieme di segni e sintomi che sono
associati alla fase terminale della
malattia. Il principale è il declino delle
capacità cognitive, di apprendimento e
di concentrazione, all’inizio
indistinguibili dalla depressione o
dall’affaticamento. In seguito possono
comparire alterazioni della
deambulazione, andatura incerta,
mancanza di equilibrio e difficoltà ad
eseguire movimenti rapidi alternati. TAB. 308.16
L’eziologia non è del tutto chiarita, ma
comunque riguarda la microglia della
sostanza bianca sottocorticale, cosa che
cataloga la malattia come una demenza
subcorticale al pari del Parkinson e della
Corea, ma distinta dall’Alzheimer. E’
difficile porre una diagnosi di demenza
AIDS, perché non è specifica la
condizione di HIV nel liquor e si
devono prima escludere altre malattie.
La terapia è incentrata sull’uso di
farmaci antiretrovirali dai quali la
malattia trae vantaggio.
• Convulsioni: associate a parecchie delle infezioni che accompagnano l’AIDS, ma anche all’HIV stesso.
In molti pazienti la soglia convulsiva è bassa perché sono presentano squilibri elettrici.
• Disturbi del midollo spinale: Il 20% dei pazienti AIDS ha una mielopatia, nel 90% dei quali essa è il
frutto di una demenza. Può assumere tre caratteristiche:
o Mielopatia vacuolare, identica alla degenerazione dei cordoni posteriori dell’AP, ma senza che
si evidenzi carenza di B12. Inizia con difficoltà atassiche della deambulazione e può progredire
fino alla perdita del controllo degli sfinteri, presentando aumento dei riflessi tendinei profondi e
Babinsky positivo.
o Atassia sensitiva dei cordoni posteriori
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o Parestesie e disestesie delle estremità inferiori


A contrario di quel che avviene per la demenza, queste malattie non migliorano con la terapia antivirale e si
trattano in maniera sintomatica.
• Neuropatie periferiche: possono decorrere in varie forme e sono comuni. Tipica è una
demielinizzazione periferica infiammatoria che comporta alterazioni della sensibilità, del movimento e
dei riflessi. L’eziologia è autoimmune come documentato dalla presenza di infiltrati perivascolari. Altra
cosa comune è la polineuropatia distale, simmetrica e dolorosa, dovuta invece ad una degenerazione
assonale mediata dall’HIV. Si manifesta con dolore alle mani e piedi di tipo bruciante. Accanto a queste
due, esistono varie possibilità di effetti collaterali della terapia. Di solito la terapia è sintomatica per il
dolore.
• Miopatie: possono essere causate sia dall’HIV che dalla terapia, e hanno varia intensità clinica, dalla
sindrome asintomatica con aumento della creatina, alla mialgia con debolezza grave.

2.7 LE INFEZIONI OPPORTUNISTICHE DA HIV


Si tratta di solito di complicazioni tardive dell’infezione quando i CD4 scendono sotto a 200, e sono
sostenute sia da batteri e virus opportunisti che da franchi patogeni, i quali fanno registrare infezioni di
eccezionale gravità e frequenza inusuale. Circa l’80% dei malati di AIDS muore per una di queste infezioni,
più spesso di tipo batterico.
Protozoi
Pneumocystis carinii
Il protozoo più comune, tenuto adesso sottocontrollo da una attenta profilassi, responsabile della polmonite
più diffusa fra pazienti AIDS, attualmente è responsabile della diagnosi di AIDS conclamato nel 20% dei
casi.
Oggi la mortalità per questa infezione (singolo episodio) è di circa il 2%, e si crede che si tratti della
riattivazione di una infezione latente o comunque di un patogeno ubiquitario. In assenza di profilassi c’è un
alta frequenza di recidive, che raggiunge il 66% entro 12 mesi. Questi rischi riguardano quasi esclusivamente
pazienti con CD4<200.
Polmonite con febbre, tosse poco produttiva e dolore retrosternale che peggiora con il respiro. In contrasto
con i casi non correlati all’AIDS, la malattia è associata ad un decorso subdolo e poco aggressivo, di difficile
interpretazione (si tratta di una atipica con assenza di ronchi e sibili, normotrasmissione del murmore
fisiologico e assenza di infiltrati radiologicamente evidenti). Nel 2% dei casi si associa a pneumotorace. La
diagnosi richiede la dimostrazione delle cisti del trofozoita nell’espettorato o nel lavaggio bronchioalveolare.
Oltre alla polmonite, possono essere presenti altre manifestazioni che sono favorite dalla profilassi contro la
polmonite stessa, dando infezioni extrapolmonari che si manifestano nel 5% dei pazienti. Una importante è
una infezione auricolare che può avere conseguenze anche serie sull’udito.
Inoltre ci sono: retinite, vasculite necrotizzante, ostruzione intestinale, linfoadenopatia, coinvolgimento del
midollo osseo, ascite, tiroidite, che sono manifestazioni extrapolmonari della polmonite, e
coinvolgimento disseminato di pressoché tutti i parenchimi.
La profilassi è il presidio più importante per il paziente AIDS, con trimetoprim sulfametoxazolo, che però
è molto mal tollerato e quindi necessita di alternative efficaci.

Toxoplasmosi
Responsabile del 60% delle lesioni al SNC e del 38% di tutte le infezioni secondarie. E’ presente nel 15%
dei malati, è una complicazione tardiva e si presenta quando il paziente scende sotto a 100 CD4/ul. Essendo
molto più comune nei pazienti con anticorpi, si pensa cha sia una sindrome da riattivazione. Si deve cercare
di evitare il contagio, non mangiando carne cruda che potrebbe contenere i bradizoiti ed evitando il contatto
con i felini e con il terreno da loro contaminato, che possono portare le cisti. Tuttavia, l’infezione primaria di
solito avviene nell’infanzia in forma asintomatica, ed è raro che la forma acuta si verifichi nel malato di
AIDS (anche se quando avviene si dissemina in modo spesso fatale a cuore, fegato, polmoni e cervello).

I più comuni segni di una riattivazione del toxoplasma sono febbre, cefalea e segni neurologici focali,
soprattutto compressivi correlati all’edema, e simili a quelli dell’encafalopatia. La diagnosi è radiologica con
segni di necrosi focale a volte circondati da un alone di edema. La conferma viene dalla biopsia celebrale,
ma a causa della elevata mortalità di essa si tende a farla solo nei soggetti sieronegativi.
Altre manifestazioni comuni sono corioretinite, orchite, polmonite, ascite.
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Terapia: pirimetanina e sulfadiazina. Glucocorticoidi per l’edema celebrale.


La profilassi è difficile per via degli effetti collaterali.

Diarrea da protozoi
Criptosporidium, microsporidium e isospora belli sono i patogeni più comuni del tratto intestinale dei malati
di AIDS.
• Il primo comincia con una diarrea intermittente che evolve in alcuni mesi verso una forma cronica,
composta da scariche di diversi litri al giorno di feci acquose, con crampi addominali e nausea
(CD4<100), intolleranza al lattosio e sindrome da malassorbimento. A questo si può aggiungere una
manifestazione di colangite con colecistite. Diagnosi su campioni di feci mettendo in evidenza le cisti.
• Microsporidium è un endocellulare obbligato, che da una sintomatologia identica al precedente, e può
essere difficile da evidenziare nelle feci per via delle piccole dimensioni.
• Isospora belli: la differenza è la sensibilità alla terapia con trimetoprim sulfametoxazolo, che ne
impedisce le ricadute, altrimenti frequenti.
• Giardia, Entamoeba Histolytica, Blastocystis Hominis sono franchi patogeni che aumentano la loro
incidenza nei malati AIDS.

Altre da protozoi
• Leishamniosi con splenomegalia, febbre ed alterazioni ematologiche
• Malattia di Chagas
• Meningoencefalite da Acanthamoeba

Batteri
Sono la prima causa di morte del paziente HIV positivo. Sebbene siano associate spesso con le fasi terminali
della malattia, si trovano frequentemente anche nelle fasi precoci. Negli States la forma più comune sono le
infezioni da MAC, associate al 40% dei pazienti in vita e all’80% delle autopsie.

Infezioni da micobatteri atipici


Il Micobacterium Avium
Complex è un gruppo di batteri • Aspetto radiologico comune del polmone: infiltrato nodulare di
imparentati con il bacillo di tipo miliare, prevalentemente interstiziale ma anche diffuso
Kooch e normalmente non agli alveoli , con adenopatia ilare e mediastinica.
patogeni per l’uomo, che sono • Altre manifestazioni cliniche: linfoadenopatie, dolori
ubiquitari nei terreni e addominali, diarrea
nell’acqua. E’ una complicanza • Diagnosi con dimostrazione di bacilli acido resistenti nel
tardiva, in media in pazienti con midollo osseo, feci, linfonodi, tessuto epatico.
50 CD4/ul. La sopravvivenza • Terapia: claritromicina ed etanbutolo
all’infezione, di 6-10 mesi, è
condizionata dallo stadio
evolutivo tardivo in cui si presenta.
Sintomi:
-febbre
-sudorazione notturna
-calo ponderale
-micobatteriemia nell’85% dei casi
-aumento della ALP
-coinvolgimento epatico

Ci sono molti altri micobatteri atipici oltre al MAC che possono dare infezioni importanti nei malati di
AIDS:
• M. Kansasii: da infezioni polmonari con febbre e calo ponderale, che si associano a lesioni cavitarie o ad
una disseminazione di tipo miliare. E’ importante riconoscerlo perché ha una terapia specifica che è
molto efficace.
• Foruitum, Chelonee, Marinum, Scrofulaceum ecc possono dare lesioni cutanee.
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• M. Gordonae, M. Xenopi non sono di solito patogeni per l’uomo, ma infettano l’acqua e in questi casi
curare le infezioni risulta difficile.

Tubercolosi
La diffusione della TBC nello scenario mondiale è andata diminuendo fino al 1986, quando la diffusione
della malattia ha provocato una inversione di tendenza che ha portato allo sviluppo di un nuovo equilibrio di
incidenza e, a causa delle terapie ad ampio spettro, alla diffusione di ceppi più aggressivi e resistenti a molti
antibiotici.
Il malati di AIDS ha un rischio di contrarre la TBC attiva di 30 volte maggiore, e il 5% dei malati la contrae
davvero. Sebbene si tratti spesso di una riattivazione, diventano sempre più frequenti casi di nuova infezione,
spesso da focolai che hanno acquisito la tendenza a resistere ai comuni antibiotici di profilassi e si
diffondono in forma micro-epidemica. Nelle aree a rischio (comunità nere di NJC, Miami e Paesi in via di
sviluppo), solo il 30-70% dei nuovi casi sono malati di AIDS, dato che indica il rischio epidemiologico.
La malattia è un evento anche precoce dell’infezione (mediana: 326 CD4/ul), e spesso può essere il primo
sintomo di AIDS conclamato. Nei pazienti con alta conta si ha la riattivazione dell’infezione polmonare con
lesioni cavitarie, mentre nei malati a bassa conta si tende alla forma miliare. L’infezione può colpire osso,
muscoli, fegato, encefalo, meningi, tratto gastro-intestinale, e dare anche ascessi epatici e prostatici.
Il malato deve essere isolato in camere a pressione negativa. Il paziente nel 50% dei casi presenta anergia
all’intradermoreazione.
La TBC è una delle poche manifestazioni secondarie dell’infezione da HIV che sia completamente
curabile, ma data la tendenza a sviluppare la resistenza ai farmaci, la terapia deve essere combinata,
aggressiva e protrarsi a lungo.
Se si definisce la sensibilità dei ceppi multiresistenti ai farmaci in modo esatto, la mortalità si abbassa.
Ultimamente si assiste ad una diminuzione dei ceppi resistenti, per la diffusione della valutazione della
resistenza dei micobatteri.
Un’altra buona pratica è la protezione dei pazienti a rischio, o che siano positivi alla tubercolina, con un
trattamento di un anno di isoniazide.

Altre infezioni batteriche


Per lo più sono infezioni delle vie aeree o gastroenteriche, ma si osservano anche manifestazioni atipiche
della sifilide e di altre malattie.
• I malati sono particolarmente sensibili alle infezioni da germi capsulati, specie S. pneumonie e H.
influenzae, che sono responsabili delle frequenti polmoniti e delle otiti, che aumentano nei pazienti con
AIDS. Anche lo S. aureus fa registrare casi di infezioni con elevata frequenza, in particolare come
infezioni di catetere e piomiosite in associazione con lesioni muscolari.
• Salmonella, shigella, ed altri batteri intestinali nel 20% degli omosessuali maschi.Nei malati di AIDS la
shigellosi provoca una malattia grave. Anche Campylobacter si associa a diarrea con crampi addominali
ed eventualmente proctite, e tutte queste infezioni hanno una tendenza alla recidiva e sono resistenti alle
terapie.
• Treponema pallidum: la sifilide si manifesta negli HIV+ in maniera del tutto tipica, ma si possono anche
frequentemente osservare delle forme particolarmente aggressive e che decorrono in maniera atipica, con
lue maligna (vasculite necrotizzante con lesioni cutanee), febbri sconosciute, sindrome nefrosica e
neurosifilide. L’incidenza della neurosifilide, che si manifesta con meningite, retinite, sordità e lesioni
ischemiche, è particolarmente alta fra i consumatori di crack. LA diagnosi, di solito affidata alla ricerca
di Ab, può risultare difficile per le anomali immunitarie del paziente AIDS, e quindi si ricorre alla
ricerca del batterio in campo oscuro.
• Bartonella: batterio simile alle Ricketsie, associato con agiomatosi, febbre quintana, malattia da graffio
del gatto. Le malattie sono associate ad una conta di CD4 < 60 u/ul, e la febbre quintana è associata ai
pidocchi.

Funghi
Candidiosi
Sono le più frequenti, e praticamente tutti i malati di AIDS ne hanno una, che spesso rappresenta l’esordio di
una immunodeficienza rilevante dal punto di vista clinico. Di solito il malato di AIDS non è associato alla
candidiosi disseminata e il fungo interessa solo le mucose, a causa del fatto che la malattia è controllata
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dai neutrofili che non sono particolarmente messi male nell’HIV. Le manifestazioni della candidiosi
sono:
• Mughetto, con essudato biancastro cremoso associato ad iperemia del palato
• Infezioni vaginali da candida
• Estensione dell’infezione all’esofago, ai bronchi, agli alveoli. Sono segni della malattia conclamata e
decorrono quando la conta dei CD4 scende al di sotto di 100
L’associazione mughetto, odinofagia, e pirosi retrosternale è il segno più comune di grave infezione da
candida. L’esofago appare coperto da grossolane alterazioni della mucosa evidenziabili con il solfato di
bario.

Criptococcosi
Fungo dimorfico capsulato a 37°C, è la principale causa di meningite nei pazienti AIDS, e la sopravvivenza
media dall’infezione è di 9 mesi, specie in Africa dove infetta il 20% dei malati. Coinvolge il SNC quasi
sempre e quasi esclusivamente, con i segni di una meningoencefalite subacuta. Sintomi: febbre, nausea e
vomito (40%), alterazioni dello stato di coscienza (25%). In circa metà dei casi c’è interessamento
polmonare (la porta di ingresso è il respiratorio per le spore) con tosse, dispnea e infiltrati alveolari. Sono
una minoranza quei pazienti in cui i sintomi polmonari e la fungemia decorrono in assenza di lesioni
rivelatrici del SNC. Diagnosi morfologica con vetrina di Indian Blue e coltura di prelievi liquorali e ematici.
Praticamente sempre nella meningite da criptococco è presente il suo antigene nel liquor.

Istoplasmosi
Istoplasma capsulatum è particolarmente frequente in specifiche aree di endemia, dove però infetta
raramente i soggetti normali. Sono a rischio gli immunodeficienti che vivono in questi luoghi. Il fungo è

AA/AB

associato agli escrementi di pipistrello, e libera le spore nell’aria nelle vicinanze.


Numero medio di CD4 nei malati infetti: 33/ul (complicanza tardiva). Nonostante sia tipicamente una
infezione polmonare, nel malato di AIDS si presenta come una riattivazione con diffusione disseminata. Essa
può dare:
-coinvolgimento del SNC
-epatosplenomegalia
-ulcere cutanee
-infiltrazione midollare con pancitopenia
-rari sintomi polmonari, di solito blandi
Diagnosi: ricerca antigeni nel sangue e isolamento colturale dal sangue e dal midollo.
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Herpes Virus
E’ il problema principale delle infezioni secondarie perché oltre a causare malattie agiscono tutti come
cofattori della replicazione dell’HIV.

Citomegalovirus
Associato ad una conta di CD4 bassissima, sotto a 50. Si tratta nel 95% dei casi di una riattivazione, che da
segni soltanto in fase terminale, ma la replica del CMV è dimostrabile già in precedenza. Le manifestazioni
più comuni sono retinite, colite e esofagite. La prima causa una infiammazione necrotizzante con perdita
irreversibile del campo visivo, la seconda non è emorragica e si associa ad anoressia e dimagrimento, la terza
è accompagnata da dolori retrosternali ed odinofagia.
Altri segni poco tipici sono:
-epatite (solo nei bambini)
-colangite sclerosante
-malattia polmonare clinicamente evidente (rara, ma è frequente l’infezione asintomatica del polmone)
La terapia è fatta con ganciclovir, foscarnet e cidofovir

Herpes Simplex
Lesioni ricorrenti nella mucosa orale, genitale e anale, che diventano sempre più ricorrenti e dolorose al
progredire dell’AIDS. In concomitanza con le lesioni orali spesso compare una esofagite, che si distingue dal
CMV perché anziché un’ulcera sola di grande dimensione, c’è una disseminazione di piccole lesioni.
Patereccio Herpetico, forma di vescicole pruriginose diffuse in forma più grave di analoghe manifestazioni
negli immunocompetenti. Sia il simplex che lo zooster possono accompagnarsi ad una forma di retinite acuta
dolorosa, diversa da quella del CMV.
Terapia: aciclovir

Herpes Zoster
La riattivazione dello zoster può essere una indicazione all’indagine per immunodeficienza, specie da HIV,
essendo una delle più frequenti manifestazioni precoci della malattia. Il male di solito decorre bene, in
contrasto con altre immunodeficienze, e non si ha quasi mai interessamento viscerale. Invece se si verifica
una infezione primaria (varicella) può essere letale. Il trattamento con aciclovir aiuta la cicatrizzazione delle
lesioni.

EBV
Molto frequente, si associa con il linfoma di Burkit e con la leucoplachia capelluta della mucosa orale, con
lesioni che possono essere confuse con la candida ma che comunque vanno incontro a remissione spontanea;
indicano un grave stato di immunodeficienza.

Altri Herpes
• HHV 6: induce la replicazione dell’HIV in modo molto potente, essendo linfotropo. Si associa
probabilmente alla retinite da CMV come fattore predisponente
• HHV 8: induce il sarcoma di Kaposi.

Altri virus
Virus JC
Agente della leucoencefalopatia multifocale progressiva (LMP), che è una importante causa di morte nei
malati di AIDS. Quasi tutti i soggetti hanno segni di una pregressa infezione. Nei malati AIDS tardivi non è
infrequente riscontrare una attiva replicazione con segni di demielinizzazione focale subcorticale che
tendono a confluire. L’infezione interessa la glia, che muore lasciando scoperte le fibre. Il decorso clinico è
lento e si associa a deficit neurologici focali senza segni di ritardo mentale.

Aumentano anche le infezioni da:


• Papillomavirus umano
• Virus dell’epatite: in particolar modo importante l’associazione con l’HBV, il quale dimostra una
[antigene] superiore di tre volte ai soggetti sani, ma molta minor tendenza alle lesioni epatiche, a causa
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della loro genesi immunitaria. L’alto grado di replicazione B si accompagna ad una maggior incidenza
di epatite difettiva D.

2.8 MALATTIE NEOPLASTICHE ASSOCIATE CON L’AIDS

Sarcoma di Kaposi
Neoplasia a diffusione multicentrica, con noduli vascolari sulla cute (che hanno un caratteristico aspetto di
lesioni violacee, per il notevole contenuto di sangue), sulle superfici delle mucose e dei visceri. L’andamento
è vario, da una forma asintomatica ad una grave forma fulminante, che si estende rapidamente a tutto
l’organismo. E’ associato con un fattore virale (probabilmente l’HHV8) che si trasmette per via sessuale. In
effetti, la malattia risulta negli ultimi anni notevolmente diminuita di incidenza, a causa della diffusione di
pratiche sessuali più sicure. Può essere associato ad una fase precoce della malattia, ma oggi si trova per lo
più nelle fasi terminali, a causa della miglior protezione contro le infezioni secondarie e le migliori
condizioni di vita.
Sembra che sia una manifestazione di una disregolazione della funzione delle citochine piuttosto che
una vera neoplasia, in quanto di solito rispetta l’architettura del tessuto ed è raramente invasivo. Di
solito le lesioni compaiono senza una relazione con la conta dei CD4, nelle regioni fotoesposte, tipica la
punta del naso, e tendono a svilupparsi sui siti di precedenti traumatismi. Le lesioni sono rosso porpora con
aspetto di ecchimosi, e tendono alla confluenza. Sono spesso macule rilevate che quando confluiscono
provocano un linfedema del volto o danni disabilitanti delle estremità. Linfonodi polmone e intestino sono i
più colpiti, spesso è presente diarrea, ma praticamente ogni tessuto può essere interessato dalla malattia,
compreso cuore e SNC. Il coinvolgimento del linfatico non è associato a metastasi, è precoce ed è privo
di ogni significato prognostico, positivo o negativo che sia.
Sintomi particolari:
• Coinvolgimento polmonare: tosse e dispnea da sforzo, con infiltrati caratteristici che si sovrappongono ai
margini del diaframma e sono un reperto radiologico importante
• Coinvolgimento intestinale emorragico, con edema della mucosa che può anche dare ostruzione
intestinale
• Coinvolgimento delle vie biliari, con ittero ingravescente
La diagnosi è basata sulla biopsia delle lesioni che interessa i noduli di proliferazione con coinvolgimento
delle cellule endoteliali, cellule fusate e stravaso dei globuli rossi.
Siccome meno del 10% dei pazienti muore per le manifestazioni del sarcoma, non si tratta mai con terapia
immunosoppressiva, ma si usa sempre un approccio sintomatico, al fine di evitare l’occlusione intestinale e
di rimuovere le lesioni deturpanti.

Linfomi
Aumenta l’incidenza di essi in tutte le immunodeficienze, e l’AIDS non fa eccezione. In essa l’incidenza è al
6%, circa 120 volte maggiore che nei soggetti sani. Al contrario del sarcoma di Kaposi, il rischio di linfoma
cresce esponenzialmente al peggiorare della conta dei CD4, ed è quindi di solito una manifestazione tardiva
dell’infezione.
I linfomi associati all’AIDS sono 3:
- linfoma immunoblastico a cellule B di stadio III e IV
- linfoma di Burkit
- linfoma primitivo del SNC
Questi fenotipi sono probabilmente associati ad un elevato livello di attivazione policlonale B che si verifica
nell’infezione da HIV.
La malattia può interessare tutti i siti del corpo, si presenta con sintomi vari che sono di solito di natura “B
linfoide”, come febbre, sudorazione e dimagrimento. Il sito extranodale di insorgenza più comune è il SNC,
con il 60% delle origini, ed è associato a segni neurologici focali, come cefalea, ottundimento,
interessamento di singoli nervi cranici e convulsioni. Si osservano delle lesioni di 3-5 cm con inclusione ad
anello del mezzo di contrasto, similmente a quanto si osserva nella toxoplasmosi.
Un altro 25% dei casi di insorgenza extranodale è il tratto digestivo, in qualsiasi forma e sito, e il midollo
osseo.

Displasia intraepiteliae della cervice e dell’ano


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Associata al papillomavirus, è una condizione che predispone all’insorgenza di una neoplasia in loco e in
seguito alla formazione di una malattia invasiva. Fino ad ora, si è osservata solo una modesta quota di
incidenza in più nei pazienti AIDS, dovuta anche alle abitudini sessuali di molti di loro. Tuttavia, con
l’estensione dell’epidemia a gruppi più eterogenei, e con l’aumento della sopravvivenza all’infezione, ci si
aspetta una ridefinizione del rapporto fra le due malattie.

2.9 SINDROMI ORGANOSPECIFICHE

Quasi tutti gli organi sono bersaglio di una qualche manifestazione specifica della malattia da AIDS, ma non
tutte le manifestazioni hanno un agente eziologico secondario definito. In questa sessione descriviamo
apparato per apparato le manifestazioni considerate primitive dell’HIV.

Polmone
Ci sono due forme di polmonite idiopatica di non certa classificazione.
• Polmonite interstiziale linfoide: pediatrica, caratterizzata da un infiltrato leucocitario benigno,
provocato dalla attivazione policlonale dei B. E’ rara.
• Polmonite interstiziale non specifica: comune, fino ad 1/3 dei pazienti, con infiltrati di leucociti e
plasmacellule che si addensano attorno ai vasi sanguigni.

Oltre a ciò, nell’apparato respiratorio si osserva una alta incidenza di sinusiti a causa della frequenza delle
infezioni di streptococco ed hemofilus.

Manifestazioni ematologiche
• Soppressione midollare dovuta all’infezione da HIV che infetta i precursori delle cellule ematiche, ma
anche a micobatterio, funghi e linfomi.
• Anemia, presente nel 18% dei pazienti asintomatici, e nel 75% dei malati di AIDS. E’ di solito
contenuta, ma a volte raggiunge livelli tali da richiedere la trasfusione. Il caso più grave è l’associazione
con linfomi e con l’infezione da parvovirus eritrolitico B19. Altre condizioni predisponenti sono la
tossicità dei farmaci, e il malassorbimento derivato dalla patologia gastroenterica, con deficit di folati e
di B12.
• Leucopenia, di solito modesta, dovuta soprattutto alla terapia antiproliferativa contro i linfomi e le
leucoplachie.
• Piastrinopenia anche precoce con le caratteristiche della porpora trombotica trombocitopenica, vedi
sopra.

Linfoadenopatia
Comune, sia per la iperplasia follicolare reattiva dell’infezione primaria che per la conseguenza delle
secondarie. Anche Kaposi può dare linfadenite, ma non si traggono giovamenti da una individuazione della
malattia ad uno stadio così precoce.

Nefropatia
Molte volte condizionata dai farmaci, esiste anche la possibilità di una nefropatia diretta da HIV, simile a
quella che si osserva nei tossicomani. Colpisce anche i bambini ed è associata alla razza nera più di
frequente. Tipicamente è una glomerulosclerosi segmentale focale, con intensa proteinuria senza
ipertensione. Evolve entro l’anno nell’insufficienza renale.

Miocardio
All’HIV nelle fasi tardive è associata una miocardiopatia dilatativa con insufficienza cardiaca congestizia.
Sebbene si trovi spesso l’HIV nel miocardio, non si sa se la malattia dipende da questo o dalla associazione
con la terapia.

Alterazioni immunologiche e reumatiche


Sebbene siamo davanti ad una grave immunodeficienza, spesso si trovano manifestazioni che variano dalle
reazioni di ipersensibilità immediata ad un aumento di incidenza delle artriti reattive, fino alla linfocitosi
infiltrativa diffusa.
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Le reazioni ai farmaci sono molto comuni, sia per la atipicità dei farmaci impiegati, che per la preponderanza
della risposta TH1 su quella TH2, come detto all’inizio.
Comunque, i pazienti AIDS non vanno mai incontro a reazioni anafilattiche, motivo per cui è possibile in
ogni caso continuare la terapia.
L’infezione da HIV presenta molti aspetti sovrapponibili ai quadri delle tipiche malattie autoimmuni, fra cui
importante è la attivazione policlonale B che trova riscontro nella produzione di Ab antifosfolipidi e
antinucleo. Invece, alcune malattie autoimmuni risultano diminuite nella loro gravità in presenza delle
infezioni da HIV, come il lupus, l’artrite reumatoide, e anche l’immunodeficienza comune variabile,
cosa che spinge a pensare che per queste malattie sia necessaria la competenza del comparto TH1.
Unica malattia davvero aumentata è una variante atipica della S. di Sjogren, che normalmente è sostenuta dai
CD4 e qui invece dai CD8, e si accompagna ad infiltrato leucocitario nelle ghiandole salivari e nel polmone,
secchezza della congiuntiva e del cavo orale.
Aumentano spesso anche le artriti reattive che sono spesso scatenate da infezioni, ma anche forme primitive
che vengono classificate come artropatie da HIV, e sono forme subacute, non erosive e scarsamente
infiammatorie, delle anche e delle ginocchia, durano qualche settimana. Invece la sindrome dolorosa
articolare si manifesta con un dolore acuto al gomito o alle ginocchia che dura 2-24 ore e necessita a volte
anche degli oppiacei, che può essere l’effetto diretto del virus sull’articolazione.

Alterazioni oculari
Diffusa in oltre il 50% dei casi. Si tratta spesso di macchie di ischemia retinica da microangiopatia, con
aspetto cotonoso e bordi irregolari. Difficile distinguerle dalla retinite da CMV, ma sono al contrario benigne
Nel resto dei casi, sono numerosi i virus e i batteri che danno alterazioni oculari.

Alterazioni endocrine e metaboliche


• Iponatriemia, associata alla sindrome da inappropriata secrezione di ADH, che produce ritenzione di
liquidi e diluizione del plasma. Se associata a iperkalemia, indica una insufficienza surrenalica
• Alta frequenza di disfunzioni genitali, maschili e femminili, di attribuzione varia fra terapia ed infezioni
secondarie.
• Cachessia generalizzata¸definita come perdita di peso superiore al 10%, febbre, diarrea cronica, astenia
per più i 30 giorni. E’ contenuta fra le condizioni che indicano uno stadio di AIDS conclamato, ed è
attualmente la causa più frequente di diagnosi di AIDS (95% di esordi) negli USA. Una sua
caratteristica è la diffusa degenerazione fibrillare del muscolo con occasionale miosite. Sembra essere un
effetto diretto della presenza dell’HIV

2.10 TERAPIA DELL’AIDS

Sul numero di JAMA del 1° Luglio 1998 (JAMA. 1998;280:78-86) sono state pubblicate le raccomandazioni
per la terapia antiretrovirale frutto di un consensus statement di un gruppo di esperti della società
internazionale dell'AIDS. Tra gli autori di questo articolo, figura anche l'italiano Stefano Vella. I dati clinici
e quelli degli studi epidemiologici accumulatisi finora, continuano a supportare la necessità di instaurare una
potente terapia antiretrovirale nei pazienti con infezione da HIV. Un monitoraggio plasmatico dei livelli
plasmatici di RNA virale (HIV RNA) è fondamentale, d'altro canto maggiori dati sono necessari per
determinare precisamente i livelli di HIV RNA che definiscono il fallimento di una terapia. Effetti collaterali
a lungo termine della terapia antiretrovirale stanno cominciando a comparire, ciò richiede una attenta
sorveglianza. La crescente complessità della gestione dell'infezione da HIV richiede l'aquisizione di nuovi
dati per ottimizzare il trattamento anti HIV.
L'alto tasso di replicazione virale e la tendenza all'errore della trascriptasi inversa virale, sono gli elementi
che supportano l'uso dei potenti antiretrovirali in combinazione per mantenere sotto controllo la replicazione
virale.Iniziali osservazioni sulla dinamica della replicazione virale hanno dimostrato l'esistenza di una fase
iniziale di declino in seguito all'inizio della terapia antiretrovirale. Una seconda fase di declino osservata è
stata attribuita al contributo di cellule infettate a lunga sopravvivenza. Il riconoscimento di questa seconda
fase di declino rafforza l'ipotesi che il reservoir cellulare dell'HIV possa morire naturalmente (con un'emivita
stimata di circa 14-28 giorni). e che l'HIV poptrebbe essere eradicato dopo circa tre anni di completa
soppressione virale. Ma dati recenti hanno modificato tale concetto, esisterebbe un piccolo ma critico pool di
cellule quiescenti (linfociti CD4+) che potrebbero contribuire alla persistenza di HIV con capacità replicanti
in soggetti con soppressione della carica virale dopo più di due anni di terapia antiretrovirale. La longevità di
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tali cellule non è conosciuta ma potrebbe oscillare da mesi ad anni, e l'importanza clinica e il rilievo
biologico di queste cellule non sono ancora conosciuti. L'implicazione pratica di tutto ciò si traduce nel fatto
che l'inizio della terapia antiretrovirale rappresenta un trattamento a lungo termine del quale non si può
prevedere il termine. L'aderenza a breve e a lungo termine dei pazienti, la presenza di effetti collaterali, la
compliance dei malati, l'evoluzione dell'infezione, l'insorgenza di ceppi resistenti fanno sì che ogni terapia
debba essere personalizzata al singolo individuo.
Esiste comunque un messaggio positivo in queste ultime evidenze, la mancata insorgenza di ceppi farmaco-
resistenti in pazienti in trattamento per più di due anni e con carica virale al di sotto di 20-50 copie di RNA
virale per ml. L'uso della potente terapia antiretrovirale ha permesso un marcato decremento dei ricoveri
ospedalieri, della morbidità e della mortalità. Bisogna, infine, considerare alcune note cautelative: la risposta
virale alla terapia con un inibitore della proteasi (PI) e due inibitori della trascriptasi inversa (NRTI) è
compresa tra il 60% e il 90% e il successo della terapia è minore nei casi avanzati; la durata della
soppressione virale oltre i due anni di trattamento è ancora dubbia; una rigida aderenza al regime terapeutico
è essenziale per prevenire reistenze virali, tale regime inoltre è di difficile applicazione; farmaci che
interagiscono con il metabolismo epatico dei PI e degli inibitori non nucleosidici della trascriptasi inversa
(NNRTI) aumentano la complessità della terapia; l'impatto di tale trattamento sulla qualità della vita
raprrsenta la maggiore considerazione; nuovi effetti collaterali a lungo termine stanno comparendo,
soprattutto con gli PI.

Quando iniziare la terapia


Non ci sono novità decisive sul periodo migliore nel quale iniziare la terapia. Esiste comunque un consenso
crescente sul fatto che la terapia deba essere iniziata precocemente. Gli esperti raccomandano di iniziare la
terapia quando i livelli di HIV RNA nel plasma superano le 5000-10000 copie per ml. Dati della letteratura
confermano il cocentto che la carica virale rappresenta un forte e indipendente fattore predittivo
sull'andamento clinico. Il monitoraggio pretrattamento dei livelli di HIV RNA e dei linfociti CD4+ è
importante pre valutare la risposta al trattamento. In generale, prima di iniziare la terapia è necessario
effettuare due misurazioni della carica virale e dei livelli di CD4+, effettuate con la stessa metodica in due
separati momenti. Per i pazienti asintomatici con bassi livelli plasmatici di HIV RNA (< di 5.000-10.000
copie/ml.) e elevata conta di CD4+ (>350-500/microL) occorre uno stretto follow-up del paziente ed
un'attenta valutazione del rapporo costo benefici soprattutto riguardo il rischio dieffetti collaterali e di
insorgenza di resistenze virali; da considerare, infine, la possibilità che tali soggetti possano ricadere nella
categoria ampiamente descritta dei long-term nonprogressor. Per i pazienti con bassi livelli di HIV RNA
(<5.000-10.000 copie/ml.) e bassi livelli di CD4+ (<50/microL e in particolare <35/microL) è raccomandato
l'inizio della terapia.

Regimi terapeutici antiretrovirali iniziali


Lo scopo della terapia antiretrovirale è quello di migliorare la sopravvivenza e ridurre la morbidità mediante
la massima soppressione della replicazione dell'HIV. L'utilizzo di un regime terapeutico che riduca i tassi di
HIV RNA al di sotto dei limiti di misurazione è raccomandato perchè livelli così bassi di carica virale
consentono di prevenire l'insorgenza di resistenze virali e procurano durevoli benefici clinici. Sebbene anche
modeste riduzioni della carica virale determinino benefici clinici, un approccio che non determini la massima
soppressione della replicazione virale può condurre all'insorgenza di resistenze e al fallimento terapeutico.
esempi di combinazioni di uso corrente o sotto indagine per la terapia iniziale includono le seguenti: 2 PI
(inibitori della proteasi) associati ad 1 o 2 NRTI (inibitori nucleosidici della trascriptasi inversa); 1 NNRTI
(inibitore non nucleosidico della trascriptasi inversa) associato a due NRTI; 2 PI con o senza 1 o 2 NRTI; 1
PI e 1NNRTI con o senza 1 o 2 NRTI; e 3 NRTI. Questi regimi sono coronati da successo (riduzione della
carica virale) nel 60%-90% dei pazienti mai trattati prima, come valutati dalla riduzione della carica virale a
<500 copie/ml. in 24 settimane o meno. Ancora mancano dati comparativi per stabilire la maggiore validità a
lungo termine di un regime terapeutico sull'altro. Allo stato attuale, l'inizio della terapia con un potente PI e
con due NRTI rappresenta la primaria considerazione, sulla scorta dei dati clinici che supportano per la
durata di tale combinazione e su dati epidemiologici che documentano la riduzione della morbidità e della
morbilità. La combinazione tra due PI e due NRTI come terapia iniziale, deve ancora essere ben valutata,
essa sembra più appropriata nel trattamento delle forme avanzate di infezione da HIV. Se si desidera rinviare
un simile approccio, la combinazione tra un NNRTI con due PI rappresenta una approccio alternativo.
Durevoli risposte cliniche sono state osservate in quei regimi che associano un PI con un NNRTI (con o
senza un NRTI), come la combinazione tra indinavir ed efavirenz condotta per 60 settimane. L'associazione
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di tre farmaci di classi diverse comporta la conoscenza precisa delle interazioni tra di essi e degli effetti
collaterali, tale regime potrebbe essere responsabile dell'insorgenza di resistenze multiple. I dati
sull'associazione di tre farmaci NRTI (zidovudina, didanosina e lamivudina) sono ancora incerti.

Inibitori nucleosidici della Trascriptasi inversa


Sebbene un singolo NRTI possa essere utilizzato come parte di una combinazione di tre o quattro farmaci, le
combinazioni tra due NRTI sono quelle più cominemente usate. Nei pazienti naive le combinazioni più
frequentemente usate sono: zidovudina-lamivudina, stavudina-lamivudina, stavudina-didanosina,
zidovudina-didanosina, didanosina-lamivudina e zidovudina-zalcitabina. Le prime tre combinazioni sono
quelle più usate. La lamivudina dovrebbe essere usata solo in regimi che prevedano la massima soppressione
virale per prevenire la mutazione M184V con conseguente perdita dell'effetto antiretrovirale. Le evidenze
che la zidovudina può modificare il metabolismo (fosforilazione) della stavudina, richiede ancora ulteriori
conferme. Da evitare la combinazione zidovudina+stavudina perchè i due farmaci si antagonizzano a
vicenda.

Inibitori non nucleosidici della Trascriptasi inversa


La nevirapina è stata il primo composta di questa classe. La sua attività in combinazione con zidovudina e
didanosina in pazienti naive rappresnta una ragionevole alternativa all'aasociazione di 1 PI con due NRTI in
situazioni selezionate. La delavirdina ha mostrato rissultati positivi quando associata con la zidovudina e la
lamivudina. Gli studi sull'efavirenz mostrano risultati positivi a causa della potenza del farmaco e la
posologia limitata ad una sola somministrazione giornaliera. La presenza di alti livelli di resistenza virale
come risultato di una singola mutazione della trascriptasi inversa suggerisce che i farmaci di tale classe
debbano essere utilizzati solo in un regime di associazione che tenda alla massima soppressione possibile.

Inibitori della proteasi


La principale ragione per scegliere un PI è la potenza in vivo. Indinavir, ritonavir e nelfinavir sono stati
anche utilizzati in associazione tra di loro. La nuova formulazione in capsule gel di saquinavir ha migliorato
la biodisponibilità e, quando viene somministrato nelle dosi prescritte in combinazione con zidovudina e
lamivudina, produce una risposta virologica comparabile a quella di indinavir+zidovudina+lamivudina
somministrate per 24 settimane. I dati maggiori sull'associazione di due PI riguardano ritonavir e saquinavir,
con duratura soppressione virale per almeno 60 settimane.Comunque, con l'eccezione dell'associazione tra
indinavir e saquinavir, che mostrano antagonismo in vitro, le combinazioni di due PI (indinavir, ritonavir,
nelvinavir, saquinavir e amprenavir) sono in corso di investigazione.

CAMBIARE LA TERAPIA ANTIRETROVIRALE


Indicazioni di base
Le indicazioni di base per cambiare la terapia, il fallimento terapeutico, gli effetti collaterali, l'intolleranza, e
la non aderenza, non sono cambiati. Comunque ci sono dei miglioramenti negli strumenti di monitoraggio,
inclusa la maggiore complessità della definizione di fallimento, nuove considerazioni sulla modificazione del
trattamento in assenza di effetti collaterali o di inefficacia del farmaco, ed una maggiore attenzione per i
potenziali effetti collaterali a lungo termine.

Il monitoraggio della risposta alla terapia


Un maggiore progresso nel monitoraggio è stato ottenuto aumentando la sensibilità dei test sull'HIV RNA. L
aprecisione delle misurazioni ai limiti più bassi ancora deve essere definita, ma i risultati sono generalmente
riproducibili quando ottenuti con strumenti di misurazione che hanno come limite inferiore 50 copie/microL.
Livelli di carica virale al disotto di 50 copie/microL si associaano a basso rischio di resistenze virali sebbene
bassi livelli di replicazione virale possano persistere. Alcuni studi hanno evidenziato che la durata della
risposta virale era molto più grande quando la carica virale era al di sotto di 20 copie/microL rispetto a valori
compresi tra 20 e 500 copie/microL. L'utilizzo di strumenti di misurazione quanto più sensibili possibile, è
auspicabile. La frequenza del monitoraggio non dovrebbe essere aumentata (ogni due mesi) quando vengono
usate le metodiche più sensibili per rilevare eventuale rebound virale. Comunque, non esistono dati definitivi
che indichino una frequenza ottimale di monitoraggio. Altri strumenti di misurazione stanno per entrare
nell'arena clinica o vengono sviluppati. Sebbene esistano in commercio tool di valutazione delle alterazioni
del codone e della suscettibilità fenotipica, ancora non è chiaro il loro ruolo nella pratica clinica quotidiana.
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Il monitoraggio dei livelli dei farmaci comincia ad essere utilizzato dai clinici, ma la sua utilità come
strumento di monitoraggio rimane controversa.

Definizione di fallimento terapeutico


L'utilizzo di tecniche di misurazione dei livelli plasmatici di HIV RNA di sempre maggiore sensibilità, ha
focalizzato maggiore attenzione sulla definizione di fallimento terapeutico e sulla sua gestione. Il fallimento
terapeutico è un continuum biologico è presenta molte varianti. La definizione più stretta è quella che
conferma la presenza di valori misurabili di HIV RNA nel plasma (>50 copie/microL) in un paziente
aderente alla terapia che ha avuto un valore di carica virale al di sotto dei limiti di misurazione, e senza
esperienza di infezioni acute in atto o di vaccinazione. Molti di questi pazienti, comunque, sono asintomatici
e mostrano un buon livello di risposta dei CD4+, ed hanno una buona prognosi clinica almeno a breve
scadenza. La questione che sorge è quando, sulla scorta di una tale definizione di fallimento terapeutico,
debba essere cambiata la terapia. Continuando un regime in presenza di bassima misurabili livelli di HIV
RNA si rischia di provocare l'insorgenza graduale di resistenze virali, ma questo viene bilanciato dal fatto
che una sospensione prematura del trattamento possa inficiare future opzioni. Non esistono dati certi, studi
clinici comparativi fissano il livello di carica virale per cambiare terapia a diversi valori (50, 500, 5.000
copie/microL) e, così, la decisione dovrebbe essere personalizzata al singolo paziente previo accordo con il
medico curante. Comunque l'evoluzione delle mutazioni virali che inducono farmaco-resistenza continua
quando l'HIV non è soppresso al massimo, e la maggiore probabilità di successo si ottiene cambiando terapia
in presenza di valori quanto più bassi possibile di carica virale. Per i pazienti al secondo o terzo fallimento
terapeutico, le poche opzioni presenti suggeriscono di posticipare gli ulteriori cambi terapeutici fino
all'evidenza di un incremento dei livelli di HIV RNA o al decremento della conta dei CD4+. Dati crecenti
dimostrano che molti pazienti continuano ad ottenere benefici clinici da un potente regime terapeutico anche
dopo un rebound di viremia; per questi soggetti l'arresto della terapia potrebbe determinare un ulteriore
incremento della replicazione virale, ciò renderebbe ancora più difficile reinstaurare una nuova soppressione
virale.
Altre considerazioni sul fallimento terapeutico sono: la mancanza di una iniziale risposta virologica che
potrebbe essere causata da una cattiva aderenza, da un inadeguato assorbimento terapeutico, o da una
primaria resistenza virale; e la caduta dei CD4+. Quando la conta dei CD4+ cala e succede
contemporaneamente ad un aumento dei livelli di HIV RNA in un paziente aderente alla terapia, è ovvio che
ci si trova dinanzi ad un fallimento terapeutico. Più difficile è il problema quando ci si trova dinanzi a dati
disordanti (ad es. riduzione dei CD4+ in presenza di livelli di HIV RNA al di sotto della soglia di
rilevazione). La causa di questo non è chiara, anche se dovrebbero essere considerati gli effetti collaterali.
Per i pazienti con riduzione confermata dei C D4+ al di sotto di 100/microL, o con un rapido declino, un
cambiamento del trattamento può risultare utile. Sebbene la progressione clinica della malattia rimanga
un'indicazione per la modifica del regime terapeutico, l'insorgenza di infezioni opportunistiche deve essere
valutata in relazione alla durata del trattamento ed allo stato immunologico e virologico del paziente. Nuoveo
ricorrenti infezioni opportunistiche durante la ricostituzione delle difese immunitarie in seguito ad una
potente terapia e ciò non significa automaticamente che ci si trova difronte ad un fallimento terapeutico,
soprattutto se si assiste ad un aumento dei CD4+ o ad una riduzione della carica virale o ad entrambi i
fenomeni.

Modificazioni della terapia in assenza di fallimento terapeutico o di effetti collaterali


C'era stato un crescente interesse nelle modificazioni terapeutiche non dettate da un fallimento o da effetti
collaterali, così come il mantenimento di soppressione virale con regimi di induzione-mantenimento o il
potenziamento di regimi che apparivano efficaci senza però raggiungere la massima soppressione virale
(intensificazione). Dati compositi ottenuti da due studi clinici su stategie di induzione-mantenimento, da tre a
sei mesi di induzione con indinavir+zidovudina+lamivudina seguiti da randomizzati trattamenti con
zidovudina+lamivudina, zidovudina+indinavir e il solo indinavir quando i livelli plasmatici di HIV RNA
raggiungevano livelli compresi tra 200 e 500 copie/microL evidenziavano risultati peggiori al regime
continuo con i tre farmaci iniziali. Questi risultati, insieme con le osservazioni che virus capaci di replicarsi
sono stati scoperti in cellule Cd4+ reservori dopo due anni di potente terapia, suggeriscono che sono
necessari una più lunga durata dei regimi d'induzione, più potenti regimi di mantenimento o entrambi. Per i
regimi terapeutici che determinano una sostanziale e precoce riduzione dei livelli di HIV RNA, ma non al di
sotto i limiti dei più sensibili metosi di misurazione noti, uno stretto monitoraggio nei primi mesi della
terapia può consentire l'aggiunta di altri farmaci per intensificare il regime e massimizzare i benefici a lungo
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termine della terapia. Il razionale dell'intensificazione si basa su dati che suggeriscono che il nadir dello HIV
RNA in seguito all'inizio della terapia antiretrovirale è predittivo per la seguente soppressione virale e per la
durata della risposta. Comunque, i nuovi farmaci dovrebbero essere aggiunti prima della comparsa del
rebound virale, altrimenti la somministrazione del nuovo farmaco potrebbe essre considerata come un
incremento della terapia che può promuovere resistenza. Non esistono studi clinici controllati che
confrontino l'intensificazione di un precedente regime con il cambio totale dello stesso se una precoce e
ottimale risposta virale non viene raggiunta.
Sebbene il regime terapeutico con due NRTI sia generalmente considerato subottimale, molti clinici sono
colti da dubbi quando devono gestire pazienti in trattamento con due NRTI e che presentano livelli di HIV
RNA al di sotto di 500 copie/microL. In questa situazione una misurazione più sensibile del carico virale
sarebbe auspicabile. Se le concentrazioni di HIV RNA sono comprese tra 50 e 500 copie/microL,
bisognerebbe considerare di vcambiare la terapia, se invece i livelli sono al di sotto di 50 copie/microL, il
regime può essere continuato sotto stretto controllo.
Implicazioni degli effetti avversi a lungo termine
Esistono dati crescenti sulle complicazioni a lungo termine al trattamento antiretrovirale, fra tali effetti
avversi sono compresi l'iperglicemia, l'iperlipidemia, la redistribuzione del grasso periferico (lipodistrofia) e
l'accumulo di grasso viscerale. La precisa incidenza, i meccanismi patogenetici implicati e le implicazioni a
lungo termine di tali cambiamenti sono ancora da definire. In generale, la loro insorgenza non comporta
necessariamente un cambiamento terapeutico quando viene raggiunto un buon risultato terapeutico. Ogni
paziente, prima di iniziare il trattamento, deve essere informato sul rischio che tali effetti avversi si
manifestino.

Cosa cambiare e con che cosa


Quando viene presa la decisione di cam biare la terapia, l'approccio iniziale dovrebbe essere quello di
stabilire le ragioni del cambiamento. Per gli effetti collaterali, intolleranza, o aderenza non ottimale ad un
regime altrimenti coronato da successo (livelli di HIV RNA al di sotto dei limiti di misurazione), la selettiva
sostituzione di un componente sembra la più ragionevole delle opzioni.
Quando la modificazione della terapia è dovuta ad un fallimento del farmaco, valgono le stesse
considerazioni suesposte. Sforzi dovrebbero essere fatti per cambiare il regime nella sua interezza,
utilizzando farmaci con ilminore potenziale possibile di cross-resistenza con i farmaci da cambiare.
Comunque, dal momento che esistono svariate combinazioni di farmaci, non è possibile tracciare linee
alternative precise per ogni possibile regime iniziale. Una delle questioni cliniche più pressanti nel 1998 è
come gestire i pazienti nei quali la terapia con PI ha fallito. I dati attuali indicano che una efficace
soppressione virale dopo il fallimento di un regime iniziale è più facilemente ottenibile se la modificazione
del regime viene fatta ai livelli più bassi possibile di HIV RNA. Comunque, i dati sulla persistenza delle
risposte oltre le 48 settimane sono ancora mancanti. L'utilizzo di regimi basati su due PI in combinazione con
un nuovo NRTI e un NNRTI (non precedentemente usati) è l'approccio correntemente preferibile, ma
maggiori dati sono necessari per supportare un simile indirizzo terapeutico. Altri approcci potrebbero
comprendere l'inclusione di farmaci come l'idrossiurea, l'idrossiurea potenzia gli effetti della didanosina
alterando la grandezza normale del pool nucleotidico. Comunque, dati sull'efficacia e la tollerabilità di tale
sostanza sono ancora scarsi.

Quando sospendere la terapia


La massima soppressione dell'HIV solo per due anni non è sufficiente stante le attuali conoscenze sulla
patogenesi dell'infezione da HIV; per tale motivo la terapia dovrebbe essere continuata il più a lungo
possibile. Anche in presenza di un fallimento virologico molti pazienti ottengono benefici clinici e
immunologici dal prosieguo della terapia. In generale, la sospensione della terapia antiretrovirale è
ragionevole quando il paziente, dopo discussione con il medico curante, ritiene che gli effetti collaterali siano
superiori ai potenziali benefici terapeutici.
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CAP3 MALATTIE DA IPERSENSIBILITÀ IMMEDIATA

3.1 CARATTERISTICHE GENERALI


L’ipersensibilità immediata è l’effetto collaterale di uno dei meccanismi effettori più rapidi della risposta
immune, quello che, attraverso la deposizione delle IgE sulla superficie di eosinofili e basofili e soprattutto
mastociti, permette l’eliminazione di elminti e parassiti. Infatti l’effetto della liberazione di istamina a livello
intestinale finisce per aumentare la peristalsi e secernere un essudato infiammatorio che facilita la liberazione
dell’intestino dai vermi.
Oltre all’esocitosi dei granuli, l’attivazione crociata dei recettori per le IgE produce la sintesi di prodotti
reattivi come i derivati eicosanoidi e alcune citochine infiammatorie.
I mastociti non maturano nel midollo, ma si pensa che una forma immatura, non ancora identificata, entri nel
tessuto e vada a
differenziarsi
seguendo poi un
processo di
riproduzione regolata.
I mastociti sono
localizzati nella cute e
nelle mucose, e nei
tessuti più profondi A2
attorno alle venule,
sono una popolazione
che può essere
ampliata dall’attività
dei T e possono
regolare l’ingresso di
sostanze estranee
grazie alla loro rapida risposta.

La risposta allergica
La produzione di IgE è mediata dai TH2, che • I mastociti possono anche essere attivati dal
attraverso la secrezione di IL4 e 5 attivano complemento, cosa che spiega la presenza di
quelle plasmacellule E-secernenti che sono reazioni allergiche in condizioni, ad esempio, di
responsabili della risposta allergica verso un deposizione di complessi immuni.
particolare antigene. Si evidenziano nella • Le principali manifestazioni allergiche sono:
risposta immune allergica due fasi distinte: o Angioflogosi
1. umorale, che è legata alla liberazione di o Orticaria
istamina e di prodotti eicosanoidi, è o Vasodilatazione (fino allo shock)
caratterizzata da vasodilatazione, o Broncocostrizione
ipersecrezione mucosa, broncospasmo o Secrezione di muco
ed eritema ponfoide con prurito nella
cute; questi aspetti si presentano uniti o distinti a seconda della zona interessata.
2. cellulare, più tardiva, legata alla produzione di citochine ad effetto chemiotattico, e sono caratterizzate da
infiltrati cellulari costituiti da linfociti TH2, basofili ed eosinofili. Tale processo è considerato
responsabile del cronicizzarsi dei fenomeni allergici, come nella rinite perenne o nell’asma bronchiale.
La prima risposta si organizza già dopo alcuni minuti, la seconda richiede 6-8 ore ed una maggiore quantità
di antigene.
Gli studi sulla risposta allergica cercano anzitutto di capire perché una risposta così potente sia spesso
indirizzata verso una serie di sostanze innocue.
Una teoria è che la bassa prevalenza di infezioni porti attualmente ad uno sviluppo della risposta TH2 a
scapito di quella TH1.
Oppure, si pensa che il livello complessivo di IgE e la tendenza a sintetizzarle sia sotto il controllo di un
unico gene, e questo faccia sì che alcuni soggetti sintetizzino IgE per un gran numero di antigeni in quantità
sufficiente da provocare verso di essi una risposta immune. In ogni caso, i meccanismi sono oscuri, e i
soggetti con questo tipo di alterazione si chiamano soggetti atopici per l’antigene in questione.
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In ogni caso, la presenza di uno stato di allergia richiede che il soggetto si sia in precedenza sensibilizzato
nei confronti dell’antigene in questione. Tale sensibilizzazione può avvenire in un qualsiasi momento della
vita, ma è durante l’infanzia che si verifica più facilmente. Le cellule APC processano l’antigene e lo
presentano alle Th, che decidono del tipo di risposta da effettuare:
• TH1: INFy, attivazione dei macrofagi e dei CTL, dei linfociti B secernenti IgM
• TH2: IL4 e IL5, IL6, GM-CSF, PG, Tx, LTR, che promuovono la proliferazione dei mastociti e dei
granulociti, e la proliferazione delle plasmacellule secernenti IgE.
• Nessuna risposta, stato di anergia clonale.
Nel caso si verifichi una risposta di tipo TH2, abbiamo una produzione di IgE specifiche che oltre a legarsi
all’antigene, si legano al recettore Fc- εR1 che mantiene le IgE esposte all’esterno della membrana e pronte a
cross reagire alla nuova presenza dell’antigene. Tale recettore è presente in mastociti e basofili.

3.2 ANAFILASSI SISTEMICA

Definizione
Risposta di tipo immediato, intensa, minacciosa per la vita ad un antigene specifico, che si manifesta con
dispnea seguita da shock fino al collasso cardiovascolare, e da altre manifestazioni legate all’attività dei
mediatori mastocitari.
Non esistono correlazione fra atopia e predisposizione all’anafilassi, e non ci sono rischi particolari se non
l’esposizione diretta alla sostanza che scatena la malattia. In ogni caso, la reazione anafilattica si sviluppa
entro pochi minuti o secondi dal contatto, di solito per via parenterale, con l’antigene. Per la maggior
parte delle risposte anafilattiche non è necessaria una sensibilizzazione, nel senso che le sostanze antigeniche
sono immunogeni potenti, o perché agiscono come apteni formando immunocomplessi con le proteine del
sangue, o perché nei loro confronti sono presenti già Ab naturali di tipo IgE (è il caso del veleno di vespa).
Come per le sostanze normali, in altre occasioni anche lo shock anafilattico si può presentare per una ripetuta
sensibilizzazione o per la notevole quantità di sostanza in circolo. Quello che è importante e che, accanto ai
fenomeni di atopia, c’è una serie di sostanze che hanno la capacità di produrre l’anafilassi con alta frequenza.
• Proteine etorologhe (ormoni, enzimi, pollini, alimenti, antisieri, prodotti di lavorazione e veleno di
imenotteri)
• Polisaccaridi (ferro destrano)
• Farmaci (penmicilline, cefalosporine, anfotericina B, anestetici, vitamine)
• Alcune sostanze iniettate a scopo diagnostico
• Prodotti chimici industriali (ossido etilenico)

Fisiopatologia
• Angioedema: può essere anche letale se associato alla laringe. Nella cute si manifesta come una serie di
ponfi ben circoscritti di notevole dimensione, che possono confluire dando l’immagine di un alveare, e
che raramente resistono per più di 48 ore. Ci può essere bruciore e trafitture. L’edema associato alla
laringe può dare un cambiamento della voce con raucedine.
• Broncocostrizione: può associarsi a dispnea o dare una serie di soffi e ronchi udibili anche a distanza; i
polmoni risultano dilatati da un meccanismo di enfisema ostruttivo, e i bronchi presentano infiltrato
eosinofilo, congestione peribronchiale e ipersecrezione di muco.
• Orticaria cutanea, non sempre associata con angioedema
• Shock da vasodilatazione con infiltrazione dei connettivi, e riduzione del volume ematico. A questa
ipotensione fanno seguito ischemie celebrali e renali con anuria.
• Manifestazioni intestinali come diarrea, nausea, vomito e dolori crampiformi, legati al primitivo scopo
della risposta che è quello di eliminare i parassiti dal lume.

Diagnosi
Di solito basta l’anamnesi per correlare i sintomi ad una sostanza specifica. In alcune situazioni è necessaria
la presenza di una diagnosi differenziale per distinguere una reazione immune dall’effetto di alcune sostanze
che sono in grado di degranulare i mastociti e danno quindi una sintomatologia simile a quella dell’anafilassi.
Un altro modo è la dimostrazione di IgE nel siero del soggetto dopo l’attacco (di solito se il paziente è
deceduto questa è una pratica che sostituisce una anamnesi che può essere impossibile).
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Terapia
E’ essenziale riconoscere subito la reazione anafilattica. La terapia di eccellenza è l’adrenalina sottocute per
i sintomi lievi, e per via sistemica in caso di reazione grave. Nel trattamento degli episodi acuti sono
importanti anche l’antistaminico e alcuni antagonisti delle PG, mentre i glucocorticoidi servono nelle forme
leggere per evitarne l’aggravamento.

3.3 ORTICARIA E ANGIOEDEMA

Generalità
Sono due manifestazioni di ipersensibilità immediata a carico della cute che possono comparire insieme o
separatamente.
Orticaria: reazione allergica della cute e delle porzioni superficiali del derma, in forma di lesioni ben
circoscritte che hanno margini irregolari, sono arrossate e rilevate. Le piccole lesioni isolate possono
confluire dando l’aspetto di lesioni giganti.
Angioedema: reazione dello strato profondo del derma caratterizzata da un edema ben localizzato.
Sono considerati acuti gli episodi che durano meno di 6 settimane.
Queste reazioni ponfoidi pruriginose sono di solito benigne e sono considerate per lo più come non degne
dell’attenzione del medico.
Ci sono vari fattori che possono scatenare l’orticaria, in particolare:
• Antigeni che scatenano una risposta IgE mediata
• Reazione, sempre IgE mediata, ad uno stimolo fisico o chimico sulla cute
• Orticaria mediata dal complemento
• Orticaria non immunologica:
o sostanze che degranulano i mastociti
o sostanze che interferiscono con il metabolismo dell’acido arachidonico
• Orticaria idiopatica
Di solito gli antigeni più frequenti sono quelli alimentari e i farmaci, che possono anche dare una anafilassi
completa, più raramente quelli inalati. Oltre al caldo, al freddo, all’irritazione meccanica, anche la pressione
o la liberazione di acetilcolina dall’aumento della temperatura corporea sono da mettere in relazione a
particolari forme di orticaria.

Fisiopatologia
Lesioni circoscritte e pruriginose che scompaiono impallidendo in 24-48h. Zone più colpite sono mani,
piedi, genitali, viso (labbra e regioni periorbitali). Pericoloso l’angioedema della laringe; le manifestazioni
intestinali possono, occasionalmente, assumere le caratteristiche di una colica intestinale simulando una
occlusione.

Terapia
• Allontanamento del fattore scatenante
• Antistaminici

3.4 MASTOCITOSI SISTEMICA


Iperplasia benigna dei mastociti (che si evidenzia solo a livello midollare perché nel sangue scorrono forme
immature non identificabili), che si associa a 4 fenotipi clinici con crescente tendenza alla proliferazione
leucemica.
1. Forma indolente, considerata benigna ma che deve essere valutata attentamente per evitare l’insorgenza
di particolari complicazioni che sono quelle tipiche della malattia benigna, come l’iperplasia cutanea,
epatosplenomegalia e adenomegalia da proliferazione dei mastociti. Non tende comunque alla
progressione neoplastica.
2. Forma associata a disordini ematologici, la cui prognosi varia da una forma di dismielopoiesi alla franca
leucemia.
3. Forma aggressiva, iperplasia del fegato, milza e linfonodi associata ad una prognosi sfavorevole.
4. Leucemia mastocitica, rara e invariabilmente fatale.
Nelle forme 2 e 4 è presente una mutazione di c-kit, nelle forme 1 e 3 una eccessiva produzione del suo
ligando.
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Sintomi
• Dell’infiltrazione leucemica dei tessuti:
o Cute: orticaria pigmentosa con macule e papule rossastre che a seguito di un trauma provocano
un violento prurito (segno di Darier).
o Dolori ossei e malassorbimento
o Lesioni fibrotiche del fegato e della milza, e del midollo osseo
• Della risposta tissutale a tale massa infiltrante
• Dei mediatori rilasciati:
o prurito, palpitazioni, vampate, cefalea ricorrente
o collasso cardiocircolatorio recidivante con idiosincrasia anafilattica nei confronti dei FANS
o ipersecrezione mucosa intestinale istamino dipendente, che produce ulcera peptica, diarrea
cronica, associtate con la sindrome da malassorbimento

I sintomi peggiorano con l’assunzione di alcool o di altri farmaci in grado di interferire con l’assorbimento
dei mastociti e la loro degranulazione.

Terapia
Inibitori H1 per il prurito e le vampate
Inibitori H2 per la gastrite e l’ulcera (anche i più recenti inibitori della pompa protonica)

3.5 RINITE ALLERGICA


Forma di rinite (con irritazione mucosa, rinorrea, lacrimazione congiuntivale e prurito) che si manifesta in
seguito all’esposizione all’antigene e che di solito è stagionale, ma anche cronica se l’antigene è persistente.
Colpisce in forma familiare quei soggetti con parenti allergici o asmatici, prima del 4° decennio e tende a
scomparire con l’età. Allergeni più comuni sono il polline delle graminacee che impollinano per via aerea,
gli escrementi degli acari, la polvere e i prodotti volatili di lavorazione industriale. Gli allergeni che
inducono la rinite invece che sintomi asmatici sono solitamente più grandi di 10 um e non passano il
filtro nasale.

Fisiopatologia
Ipersecrezione nasale, starnuto, lacrimazione e prurito della congiuntiva, mucosa nasale e orofaringea, con
edema della congiuntiva.
Le narici sono congeste e provocano ostruzione, e l’edema delle ossa turbinate può dare sovrapposizione di
sinusiti nasali e otiti dell’orecchio medio per l’occlusione delle tube di Eustachio, tipico della rinite cronica.
Siccome i mastociti, responsabili delle reazioni allergiche, vivono in profondità delle mucose, il contatto con
l’antigene e quindi la sintomatologia è facilitato dal progredire della malattia, quando l’edema della mucosa
la rende più penetrabile, anche a causa dell’infiltrazione, prevalentemente eosinofila, che vi si verifica;
questo porta spesso alla formazione di polipi, infiltrati protrudenti della mucosa stessa. Inoltre
l’ipersecrezione di muco porta con se una notevole quantità di IgE, che diffondono il processo di
sensibilizzazione ai mastociti delle zone limitrofe.

Diagnosi
Diagnosi differenziale con infezioni (elevato numero di neutrofili), con anomalie congenite delle ossa
turbinate, irritazione da agenti irritanti, ed altre eziologie non allergiche. I polipi nasali possono essere
presenti in molte condizioni.
• Prick-test:inoculazione sottocute di allergene che si ritiene in grado di sensibilizzare i mastociti. Può
essere eseguito anche due o tre volte, ma si deve considerare che è sensibilizzante e può dare così dei
falsi positivi, come se il preparato è contaminato con istamina. Falsi negativi se il test è eseguito con
antigene denaturato.
• Test per misurare le IgE totali, compreso ELISA
• Test per misurare le IgE specifiche, tecnica RAST (radio allergo sorbent technique), cimentando gli
antigene in fase solida radiomarcati con il siero del paziente, e identificando fra le IG radioattive quelle
della classe E con un Ab anti FcE. Il RAST è meno sensibile ma più specifico del test cutaneo. Oggi poi
le nuove tecniche ne hanno elevato la sensibilità
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Terapia
Istaminici anti H1 sono in grado di controllare prurito, rinorrea e lacrimazione della congiuntiva ma non la
secrezione nasale, per i quali si possono usare gli alfa-adrenergici, come il disodiocromoglicato
somministrato per via nasale in maniera continuativa a scopo profilattico.
Immunoterapia: somministrazione ripetuta dell’allergene responsabile della malattia, a piccole dosi,
sottocute, a dosi gradualmente crescenti. Deve durare per almeno tre anni, ed essere effettuata sotto controllo
medico per evitare reazioni anafilattiche. Dopo un certo periodo di tempo, le IgE specifiche diminuiscono, e
il motivo sebbene non chiaro potrebbe essere una diminuita attività citochinica delle cellule TH2.

3.6 ASMA BRONCHIALE ALLERGICO


L’asma è una malattia respiratoria ostruttiva caratterizzata dalla diminuzione del lume delle vie aeree causata
dall’ipereattività dell’albero bronchiale ad uno stimolo di vari natura. Sebbene sulla patogenesi
dell’asma ci siano ancora molti lati oscuri, non ultima la attuale diatriba se si tratti o meno di una malattia
geneticamente determinata, il quadro dell’asma allergico si caratterizza come una risposta combinata di
TH2 e di mastociti ad un Antigene che presenta determinate caratteristiche, in un soggetto atopico. La
risposta si compone di una fase acuta di cui sono responsabili essenzialmente i mastociti con i loro
mediatori, ed una fase cronica, ad insorgenza più sfumata, di cui si rendono partecipi i linfociti TH2
con l’IL4.

Il prodotto della presentazione antigenica da parte delle APC è proprio la produzione di una risposta di tipo
TH2 che permette la sensibilizzazione dei mastociti e la liberazione, al successivo contatto, di mediatori
preformati e neoformati, che attivano efficacemente la risposta cellulare infiammatoria.

Mentre l’attivazione dei mastociti si rende responsabile della sintomatologia acuta (edema bronchiale,
broncospasmo, irritazione della mucosa), la componente TH2 si produce una sintomatologia cronica,
con proliferazione fibrosa della tonaca sottomucosa, infiltrazione leucocitaria della mucosa,
ispessimento della parete bronchiale e cronica ostruzione del lume. Questo meccanismo alla fine provoca
un fenomeno a valvola, con un ostacolo maggiore per l’uscita dell’aria che non per il suo ingresso, e la
produzione di un enfisema ostruttivo polmonare.

Attività dei mediatori mastocitari


Istamina, serotonina, acetilcolina e leucotriene C sono i responsabili della sintomatologia di fase acuta.
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• Acetilcolina: è responsabile della stimolazione dei recettori colinergici della muscolatura liscia
bronchiale, e determina broncospasmo. La distribuzione individuale di questi recettori è
responsabile, almeno in parte assieme alla atopia, della intensità dell’attacco asmatico. Oltre a
questo si deve valutare anche la tendenza dell’acetilcolina a stimolare la degranulazione
mastocitaria con il GMPc.
• Istamina e serotonina: aumentano la permeabilità vasale e provocano l’edema della mucosa, peggiorando
la sintomatologia legata alla broncocostrizione indotta dall’acetilcolina e del leucotriene.
• Leucotriene C: produce e mantiene la broncocostrizione, ed è in questo il principale effettore. Per
questo non si deve mai somministrare aspirina o altri inibitori della COX1 durante un attacco di
asma (l’acido arachidonico sarebbe metabolizzato dalla LOX con incremento della produzione di
leucotriene)

Tutti questi composti hanno un effetto immediato e sono i responsabili, attraverso il processo di
broncocostrizione, della sintomatologia acuta.

Attività dei linfociti


• Il linfocita CD4 è capace di rispondere direttamente all’antigene e permettere l’accumulo di
mastociti con la produzione di IL5, senza l’aiuto della componente delle IgE.
• Le cellule dell’infiammazione, e i linfociti stessi,
accumulandosi nei siti di produzione del
processo infiammatorio, provocano un infiltrato
che aggrava la costrizione bronchiale.
• Le APC della mucosa bronchiale sono cellule
diverse dalle cellule di Langerhans, e non
producendo IL12 favoriscono la risposta
TH2.
• L’infiltrato della mucosa bronchiale è ricco di
eosinofili, neutrofili, basofili e CD4<CD8, con
un alto numero di cellule attivate che si correla
con la gravità della malattia.
• Nel lavaggio broncoalveolari si trovano più CD4
attivi della norma, mentre questi diminuiscono
nel sangue periferico.

Tutte queste attività hanno come effetto comune quello di favorire la cronicizzazione del processo
lesivo, di aggravare la responsività di fase acuta allo stimolo e di mantenere la costrizione bronchiale
esistente.

Eterogenicità degli stimoli


Lo stimolo alla degranulazione mastocitaria non è unico e non sempre è legato al cross link dei recettori; altri
meccanismi sono illustrati nelle diapositive sottostanti.
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Schema generale della patogenesi

Epidemiologia
I dati italiani di mortalità indicano un aumento della frequenza della patologia asmatica dell’infanzia negli
ultimi decenni. Si tratta di un fenomeno mondiale. Nel 1995 è stato condotto in Italia uno studio
multicentrico di grandi dimensioni (SIDRIA – Studi italiani sui disturbi respiratori nell’infanzia e
l’ambiente) nell’ambito di una iniziativa internazionale (ISAAC, International Study on Asthma and
Allergies in Childhood) per stimare la prevalenza dei problemi respiratori e delle allergie tra i bambini e gli
adolescenti e per approfondire il ruolo di numerosi fattori di rischio per l’asma, la rinite allergica e la
dermatite atopica. Lo studio è stato condotto su 18.737 bambini in età compresa tra i 6 e 7 anni e 21.068
adolescenti con età compresa tra i 13 e 14 anni in dieci centri del Centro e Nord Italia, frequentanti 237
scuole elementari e 310 scuole medie in aree geografiche con livelli di urbanizzazione e condizioni
socioeconomiche diverse. Nel progetto sono stati impiegati gli strumenti standardizzati dell’indagine
internazionale (ISAAC). Il progetto è il risultato della collaborazione delle strutture di sanità pubblica e di
epidemiologia regionali e di ASL, istituti di ricerca, istituti universitari, strutture dedicate al controllo
ambientale tutte raccolte in un Gruppo Collaborativo. Sono state interessati dall’indagine migliaia di
operatori del mondo della sanità e della scuola.
I risultati del progetto italiano hanno contribuito a descrivere la realtà italiana nel contesto internazionale. Per
quanto riguarda la frequenza della patologia asmatica ed allergica, il nostro Paese si situa, infatti, in una
posizione intermedia tra le nazioni con una frequenza molto elevata come l’Inghilterra e l’Australia e quelli
con frequenza bassa come i paesi dell’Est europeo. Le differenze osservate all’interno delle aree italiane
sono di modesta entità, mentre più marcate sono le differenze relative alla esposizione a fattori di rischio:
fumo di sigarette, presenza di umidità e muffa nella abitazione, presenza di allergeni domestici. Nel
complesso SIDRIA ha riscosso un elevato interesse dal punto di vista scientifico e i dati raccolti
rappresentano una contributo importante per l’epidemiologia e la prevenzione delle esposizioni ambientali in
Italia.
In Italia, un bambino su 10-12 è affetto (o è stato affetto) da una franca sintomatologia di tipo asmatico,
mentre un bambino su 15 soffre di disturbi più lievi come sibili respiratori, costrizione toracica notturna,
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difficoltà a respirare dopo uno sforzo fisico.


I dati epidemiologici raccolti durante questa indagine hanno consentito mettere in rilievo le cause più
importanti della malattia. Pur di fronte ad una grande discussione scientifica su questo tema, i risultati del
SIDRIA hanno messo in rilievo i seguenti elementi.

• Il primo e più importante è l’esposizione al fumo passivo. È stato riscontrato, infatti, che più della
metà dei bambini italiani vive in famiglie in cui almeno uno dei genitori è fumatore. In questi
bambini è stato osservato un aumento dei casi di asma, o di malattie respiratorie in genere, proprio a
causa del fumo dei loro genitori. L’indagine ha potuto stimare che il 15% dei casi di asma in Italia
tra i bambini e i ragazzi sono proprio attribuibili al fumo dei genitori. Questo risultato è di elevato
importanza per la sanità pubblica, ha avuto una grande ripercussione sulle riviste internazionali,
soprattutto negli USA.
• Il secondo elemento da sottolineare, rispetto alla conoscenza sulle cause della malattia, è il riscontro
che, mentre non esiste una grande differenza nella frequenza della patologia nelle varie aree
geografiche italiane, esiste – all’interno di una specifica città o di una specifica area metropolitana –
una differenza di frequenza della malattia tra chi vive in strade ad alto traffico di mezzi pesanti e chi
vive invece in strade lontane dal traffico. Coloro che vivono in prossimità di scarichi diesel hanno,
infatti, una maggiore frequenza di sintomi di tipo bronchitico e di asma.
• Il terzo ed ultimo elemento, solo di recente evidenziato, è quello relativo alla dieta. I bambini che
fanno un basso uso di agrumi e di alimenti ricchi vitamina C, hanno una più elevata frequenza di
patologia. I bambini che consumano poca frutta, una dieta povera di antiossidanti, corrono un rischio
maggiore di sintomi respiratori e di infezioni respiratorie. I risultati relativi all’effetto della dieta e
del consumo di agrumi verranno pubblicati sul prossimo numero di Thorax, l’importante rivista
scientifica inglese di malattie respiratorie.

Diagnosi di asma

Attraverso la storia clinica

dalla quale si possono ottenere informazioni determinanti su:

o storia familiare del paziente

o storia lavorativa

o abitudini di vita

o caratteristiche dei sintomi

o fattori che si associano alla crisi asmatica

Attraverso un accurato esame fisico

che permetterà di fare diagnosi nel caso in cui il paziente venga visitato durante una crisi asmatica.
Ponendo il fonendoscopio sul torace è possibile sentire i rumori caratteristici per asma.
Frequentemente però l'asmatico si rivolge al medico a crisi già superata.

Attraverso le prove del respiro

L'esame più semplice è la misura del picco espiratorio (PEF) Un esame più preciso ma anch'esso di
semplice esecuzione è la spirometria altrettanto utile per la misurazione dei volumi e flussi espiratori.
Il paziente respira dentro un boccaglio ed il suo respiro verrà misurato da una macchina (spirometro).
Questo serve fondalmentalmente a misurare due valori:
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o CV= capacità vitale

o VEMS= volume espiratorio massimo nel 1º secondo di una espirazione forzata

Con il test di provocazione bronchiale

Attraverso stimoli di natura fisica o chimica (aria fredda, nebbia o test da sforzo) è possibile
provocare la riduzione del lume bronchiale. La risposta ai test è indicata da un'adeguata variazione di
specifici indici di funzionalità polmonare.
Aspetti particolari dell’asma
In questo capitolo sono trattati aspetti particolari della gestione dell'asma quali la gravidanza, gli interventi
chirurgici, l'attività fisica, l'asma associato a rinite, sinusite e polipi nasale, l'asma professionale, le infezioni
respiratorie, il reflusso gastroesofageo e l'asma da aspirina.

Gravidanza

Drante la gravidanza l'asma peggiora in circa un terzo delle donne, migliora leggermente in un altro terzo, e
resta invariato nei rimanenti casi. Pur se nel corso della gravidanza i farmaci vanno usati con cautela, va
anche detto chiaramente che l'asma in atto può avere effetti deleteri sul feto, con aumento della mortalità
perinatale, aumento dei parti prematuri, e riduzione dei peso alla nascita. Per questo è giustificato l'uso di
farmaci atti a mettere l'asma sotto controllo anche quando non sia stata inequivocabilmente provata la loro
sicurezza in corso di gravidanza. Ad eccezione di rari e poco usati farmaci (alfa-adrenergici, bromfeniramina
e 'adrenalina) per la maggior parte dei farmaci usati nell'asma e nella rinite esistono ben pochi solidi dati che
provino rischi per il feto. Se opportunamente dosati, la teofillina, il disodiocromoglicato, il beclometasone
dipropionato (BDP), il fluticasone ed i beta2 agonisti non aumentano la incidenza di alterazioni fetali. Le
riacutizzazioni asmatiche devono essere trattate in maniera pronta ed aggressiva allo scopo di prevenire la
comparsa di ipossia fetale. La terapia deve comprendere la nebulizzazione di beta2 agonisti a breve durata di
azione e l'ossigeno. II cortsone per via sistemica deve essere somministrato solo nei casi di effettiva
necessità. Come nelle altre situazioni, l'obiettivo della terapia dell'asma rimane il controllo dei sintomi ed il
mantenimento di un normale quadro funzionale respiratorio.

Tutti i pazienti hanno l'esigenza di discutere con il medico il grado di sicurezza delle terapie prescritte, ed in
particolare le donne che desiderano avere un figlio e le donne in gravidanza. Le donne in gravidanza
dovrebbero essere informate che vi è maggior rischio per il loro bambino se l'asma non è mantenuto sotto
adeguato controllo, e che la maggior parte dei moderni trattamenti antiasmatici non comporta rischi
significativi. Anche ove sia presente un ottimo rapporto medico-paziente, può essere utile rassicurare
ulteriormente le pazienti consegnando loro dei materiale scritto sull'asma in gravidanza.

Interventi chirurgici

L'iperresponsività bronchiale, l'ostruzione delle vie aeree, e l'ipersecrezione mucosa predispongono i pazientì
asmatici a complicazioni respiratorie in occasione di interventi chirurgici, sia intra che extra operatorie. La
probabilità che queste complicazioni si manifestino dipende da molti fattori, compresi:
1) la gravità dell'asma al momento dell'intervento,
2) il tipo di intervento chirurgico (ad esempio i rischi sono maggiori negli interventi di chirurgia toracica o
della parte superiore dell'addome che richiedano intubazione endotracheale), e
3) il tipo di anestesia (il rischio è maggiore negli interventi che richiedono anestesia generale con intubazione
endotracheale rispetto agli interventi che richiedono la sola anestesia (locale).
Questi fattori andrebbero valutati prima dell'intervento, a livello anamnestico e/o obiettivo, e soprattutto
mediante le prove di funzionalità respiratoria. Se possibile, queste visite andrebbero fatte numerosi giorni
prima dell'intervento, si da avere il tempo per un eventuale intervento terapeutico preparatorio. In particolare,
se i valori del VEMS sono inferiori all'80% dei migliore valore individuale, va fatto un breve trattamento con
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glucocorticoidi in modo da ridurre l'ostruzione delle vie aeree. Inoltre, nei pazienti che sono stati trattati con
glucocorticoidi per via sistemica nei 6 mesi precedenti l'intervento chirurgico, sarà opportuna una copertura
con cortisone per via sistemica nel giorno dell'intervento chirurgico (ad esempio, 100 mg di idrocortisone
endovena ogni 8 ore) e la dose andrà rapidamente ridotta nelle 24 ore che seguono l'intervento. Una terapia
prolungata con steroidi potrebbe infatti impedire la guarigione della ferita.

Attività fisica

Per la maggior parte dei pazienti asmatici, l'attività fisica può costituire un importante fattore scatenante
riacutizzazioni asmatiche. Anzi, in alcuni pazienti l'attività fisica rappresenta l'unico stimolo asmogeno.
L'ostruzione dei flusso aereo che si sviluppa dopo uno sforzo e che si risolve spontaneamente nell'arco dei
30-45 minuti successivi viene definita asma da sforzo. Alcuni tipi di sforzo, come la corsa, sono stimoli
asmogeni più potenti di altri, e l'asma da sforzo, che pur può svilupparsi in qualsiasi condizione climatica,
aumenta sostanzialmente di intensità se il paziente inala aria secca e fredda, perciò l'asma da sforzo è raro nei
climi umidi e caldi.

L'asma da sforzo è una espressione di iperresponsività bronchiale, e non una forma particolare di asma. In
molti casi la presenza di asma da sforzo significa che ('asma non è tenuto adeguatamente sotto controllo. Un
adeguato trattamento antinfiammatorio comporta in genere la scomparsa dei sintomi da sforzo. Per i pazienti
nei quali l'asma da sforzo permane nonostante un trattamento antíasmatico adeguato, o nei quali l'asma da
sforzo è l'unica manifestazione di asma, il più efficace trattamento preventivo consiste nella inalazione di
beta2 agonisti a breve durata di azione pochi minuti prima dello sforzo. Altri farmaci (disodiocromoglicato,
nedocromile sodico, anticolinergici, teofillina, steroidi per via inalatoria, antileukotrieni ed antagonisti
selettivi dei recettori H1 dell'istamina) sono in grado di modulare l'asma da sforzo. Anche l'allenamento ed
un adeguato preriscaldamento prìma dello sforzo sono in grado di ridurre l'incidenza e la gravità dell'asma da
sforzo.

Data la buona efficacia della terapia nella maggior parte dei casi dell'asma da sforzo, il paziente asmatico
non dovrebbe evitare le normali attività fisiche. Anzi, uno degli obiettivi della terapia dell'asma è proprio
quello di consentire al paziente asmatico di affrontare qualsiasi ragionevole attività fisica senza problemi.
Inoltre, l'attività fisica dovrebbe far parte del programma terapeutico dei paziente con asma da sforzo.
L'allenamento fisico riduce la ventilazione necessaria a mantenere un certo livello di attività fisica e quindi,
poiché la gravità dell'asma da sforzo dipende dalla entità della ventilazione, dopo un adeguato allenamento i
sintomi di asma da sforzo si manifesteranno a livelli di sforzo superiori rispetto a quanto avveniva prima dei
periodo di allenamento. E quindi importante incoraggiare il paziente che soffre dì asma da sforzo a
continuare le abituali attività sportive e fisiche in genere.

Rinite, sinusite, e polipi nasali

Nei paziente asmatico, malattie a carico delle vie aeree, superiori sono in grado di compromettere il quadro
funzionale delle vie aeree inferiori. Ad esempio, i pazienti con rinite allergica e/o sinusite in atto possono
avere un aggravamento dei sintomi asmatici.
Pur se non sono ancora stati chiariti i meccanismi alla base dei rapporto fra compromissione delle vie aeree
superiori e quella delle vie aeree inferiori, tale associazione clinica dovrebbe essere tenuta in considerazione
nel trattamento dell'asma.
Rinite allergica: quando la rinite allergica è in fase attiva, vi è, in alcuni pazienti, un aumento della reattívità
bronchiale e la comparsa di un vero e proprio quadro di asma. In uno studio è stato dimostrato che il
trattamento della rinite allergica con cortisone somministrato per via nasale è in grado di diminuire l'intensità
dei concomitanti sintomi asmatici . Non è ancora chìaro se gli antistaminici (antagonisti dei recettori H1
dell'istamina) o il disodiocromoglicato per via nasale hanno lo stesso effetto protettivo.
Sinusite: la sinusìte rappresenta una complicazione delle infezioni delle vie aeree superiori, della rinite
allergica, dei polipi nasali, e di altre forme di ostruzione nasale. Sia la sinusite acuta che la sinusite cronica
possono scatenare riacutizzazioni asmatiche. Inoltre, alcuni ricercatori ritengono che la sinusite cronica sia
uno dei principali fattori di mantenimento dell'asma persistente, ipotesi che tuttavia richiede ulteriori
conferme (153). La diagnosi di sinusite deve essere confermata sia con una radiografia che con la tomografia
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assiale computerizzata dei seni paranasali. A volte è difficile porre la diagnosi di sinusite perché il quadro
clinico è spesso molto sfumato.
La terapia antibiotica della sinusite a volte riduce anche la gravità dell'asma. Tale terapia è più efficace se
continuata per almeno 3 settimane. li trattamento deve comprendere anche farmaci in grado di
decongestionare la mucosa nasale (decongestionanti o glucocorticoidi, entrambi somministrati per via
nasale). Per quanto questi trattamenti siano importanti, essi sono però solo una terapia di supporto rispetto
alla terapia antiasmatica che resta la terapia principale dell'asma (154, 155).
Polipi nasali: La poliposi nasale che si trova in soggetti con asma e rinite, e spesso con ipersensibilità
all'aspirina , si osserva in genere in pazienti di età superiore ai 40 anni spesso con prove allergometriche
cutanee negative. I bambini con poliposi nasale dovrebbero essere esaminati con particolare attenzione, al
fine di escludere la presenza di fibrosi cistica o della sindrome delle cilia immobili. La poliposi nasale
risponde molto bene alla terapia con glucocorticoidi. I pazienti con ostruzione nasale cronica che non
rispondono a questo tipo di trattamento trovano a volte beneficio nell'intervento chirurgico.

Asma professionale

La diagnosi di asma professionale richiede un'accurata anamnesi dei tipo di lavoro del paziente. Si sospetta
asma professionale in tutti casi nei quali i sintomi asmatici compaiono durante o poco dopo l'esposizione a
fumi, gas o polveri, o nei quali i sintomi compaiono ciclicamente in rapporto al lavoro, con miglioramento
nei periodi di assenza dal lavoro. In alcuni casi la diminuzione dei PEF può essere ritardata, rispetto al
lavoro, di ore o anche di giorni (156). In condizioni ideali (a diagnosi di asma professionale deve essere
confermata con parametri obiettivi, quali il monitoraggio dei PEF a casa e ai lavoro o, in casi selezionati, con
prove di provocazione bronchiale eseguite in ambiente specialistico (156).
Una volta posta la diagnosi, è indispensabile evitare rigorosamente l'esposizione all'agente causale per
consentire la guarigione dell'asma professionale (25, 27, 156). Tuttavia, una volta comparso, l'asma
professionale può non guarire completamente (157). Se l'esposizione continua, il paziente può dìvenire
sensibile anche a minime concentrazioni di agente sensibilizzante, e le riacutizzazioni asmatìche possono
divenìre sempre più gravi e potenzialmente fatali (158), le probabilità di remissione diminuiscono e la
compromissione funzionale respiratoria può diventare permanente (159).
La terapia farmacologica dell'asma professionale non è diversa da quella di altre forme di asma, e non può
ovviamente sostituire un rigoroso programma di prevenzione dell'esposizione ambientale. In tutti i casi
affetti da asma professionale è consigliabile consultare uno specialista dell'asma o un medico del lavoro.
Anche se la presenza di asma, atopia, o l'abitudine al fumo di sigaretta possono predisporre alcuni lavoratori
ad un maggiore rischio dì asma professionale in alcune lavorazioni, si ritiene che nella maggior parte delle
industrie le visite di idoneità ai lavoro abbiano valore limitato (25, 26).E' certamente più importante la
prevenzione della sensibilizzazione attraverso corrette misure di igiene dei lavoro. Questo non toghe che si
possa consigliare, ad esempio, ai soggetti atopici di evitare certe lavorazioni.

Infezioni respiratorie

Le infezioni respiratorie possono avere un ruolo importante nella comparsa dell'asma e possono scatenare
riacutizzazioni asmatiche in molti pazienti. Le indagini epidemiologiche hanno dimostrato un'aumentata
prevalenza di sintomi asmatici nei soggetti con pregresse frequenti infezioni respiratorie da virus respiratori,
forse da clamidia, in rari casi da batteri. I virus più spesso ritenuti responsabili di riacutizzazioni asmatiche
sono i virus respiratori sinciziali, i virus parainfluenzali, i rhinovirus ed i virus dell'influenza (160, 161)..
Le infezioni respiratorie vengono ritenute un fattore dì potenziamento della risposta infiammatoria, in grado
di contribuire alla comparsa di lesioni delle vie aeree tramite un potenziamento della risposta infiammatoria
bronchiale (163). Il trattamento delle riacutizzazioni asmatiche dovute ad infezioni segue gli stessi principi
del trattamento delle comuni riacutizzazioni asmatiche, consistenti nella somministrazione di beta2 agonisti
inalatori a breve durata di azione e nella precoce somministrazione di steroidi per via orale o nell'aumento
degli steroidi per via inalatoria. Dal momento che i sintomi asmatici possono persistere per settimane dopo
l'episodio infettivo, il trattamento antinfiammatorio dovrebbe essere continuato per settimane, s'i da garantire
che l'asma sia mantenuto sotto adeguato controllo.
E' stato anche dimostrato che la vaccinazione antinfluenzale è in grado di diminuire il numero di
riacutizzazioni asmatiche indotte da infezioni.
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Reflusso gastroesofageo

il rapporto fra aggravamento dell'asma, ed in particolare fra la comparsa di asma notturno, e reflusso
gastroesofageo è ancora discusso, anche se va preso atto dei fatto che il reflusso gastroesofageo è circa 3
volte più frequente nei pazienti asmatici. La maggior parte di questi pazienti ha anche un'ernia fatale. Inoltre,
l'uso per l'asma di xantine che rilassano lo sfintere esofageo inferiore, può aumentare l'incidenza dei sintomi
di reflusso gastroesofageo. La diagnosi viene posta mediante monitoraggio simultaneo dei pH esofageo e
della funzionalità respiratoria. Il trattamento medico è relativamente semplice ed efficace, e consiste di pasti
piccoli e frequenti senza assunzione di altro cibo o bevande tra i pasti, in particolare al momento di coricarsi.
Vanno inoltre evitati grassi, alcool, teofillina e beta, agonisti orali, antagonisti dei recettori H, dell'istamina,
ed in genere i farmaci che aumentano la pressione esofagea inferiore.
E' inoltre consigliabile tenere il letto inclinato in modo che la testa sia più alta. L'intervento chirurgico va
riservato ai pazienti più gravi, con esofagite ben documentata, e nei quali la terapia medica non funziona,
tenendo ben presente che l'intervento chirurgico non è risolutivo in tutti i casi. Prima di consigliare ad un
paziente asmatico l'intervento chirurgico sarebbe bene dimostrare senza ombra di dubbio che il reflusso
gastroesofageo è effettivamente responsabile dei sintomi asmatici (164, 165).

Asma da aspirina

In circa il 4-28% degli adulti asmatici e, più raramente, in bambini asmatici, sia l'aspirina che altri farmaci
antinfiammatori non steroidei (FANS) scatenano gravi riacutizzazioni asmatiche. L'ampia variabilità della
prevalenza di asma da aspirina dipende dai criteri diagnostici (166). Le prove di provocazione per via orale
con acetilsalicilato per confermare una anamnesi di asma da aspirina sono pericolose, e dovrebbero essere
sostituite dalle più sicure prove di provocazione con acetilsalicilato di lisina somministrato per via inalatoria
.
ll decorso della malattia ed il quadro clinico sono caratteristici. Nella maggior parte dei pazienti l'asma da
aspirina esordisce clinicamente nella terza-quarta decade di vita. Tipicamente il paziente lamenta sintomi e
segni di intensa rinite vasomotoria, caratterizzata da rinorrea intermittente e profusa. Nell'arco di alcuni mesi
la congestione nasale diventa cronica, e all'esame obiettivo è possibile rilevare poliposi nasale. Asma
bronchiale ed intolleranza all'aspirina si sviluppano nei successivi stadi della malattia. In questi pazienti
l'asma ha un decorso protratto. L'intolleranza all'aspirina si manifesta con un unico quadro: entro 1 ora
dall'assunzione dell'aspirina si sviluppa una riacutizzazione asmatica, spesso accompagnata da rinorrea,
irritazione congiuntivale, ed un eritema di colore scarlatto dei viso e dei collo. Queste reazioni sono
pericolose: infatti una singola dose terapeutica di aspirina, o di altri farmaci inibitori delle cicloossigenasi,
può scatenare broncospasmo grave, shock, perdita di coscienza, ed arresto respiratorio.
Nei casi in cui sia strettamente necessario porre una diagnosi di certezza, il paziente può essere sottoposto a
prove di provocazione specifica con aspirina alle seguenti condizioni:
1) deve trovarsi in un periodo di remissione dell'asma e
2) il VEMS è superiore al 70% dei teorico o dei miglior valore individuale.
La prova di provocazione con aspirina viene di solito eseguita per via orale. Le prove di provocazione con
aspirina debbono essere eseguite al mattino in presenza di un medico esperto e di tutto quanto può servire per
il trattamento d'urgenza. La reazione va ritenuta positiva quando si osserva una riduzione di almeno il 15%
dei VEMS o dei PEF, accompagnata da sintomi di ostruzione bronchiale e di irritazione nasale od
oculocongiuntivale. In assenza di questi sintomi e segni concomitanti, la reazione va considerata positiva
solo in presenza di cadute dei VEMS o dei PEF superiori al 20%.
Una volta sviluppatasi, l'intolleranza all'aspirina o ad un FANS persiste per tutta la vita. I pazienti con asma
da aspirina devono evitare non solo l'aspirina, ma anche tutti i farmaci che la contengono, altri analgesici che
inibiscono la cicloossigenasi, e l'idrocortisone emisuccinato 1 pazienti con asma da FANS che debbono
essere trattati con FANS per altre malattie, possono essere sottoposti da uno specialista a terapia
desensibilizzante in ambiente ospedaliero.
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CAP4 MALATTIE AUTOIMMUNITARIE ORGANO-SPECIFICHE

4.1 LA SARCOIDOSI
Malattia sistemica cronica ad eziologia sconosciuta. Esordisce frequentemente con malessere, senso di
affaticamento e manifestazioni gastrointestinali, che pertanto vanno tenute bene in considerazione dal
medico che dovrà procedere eventualmente a un RX del torace.
La caratteristica è l’accumulo di granulociti PMN e di TH1 in praticamente tutti i distretti corporei, e la
formazione di granulomi epiteliodi non caseosi. I distretti più colpiti sono la polmone, linfonodi, SNC,
cute, occhi.
Assieme a granulomatosi di Wegener, malattia granulomatosa cronica, artite reumatoide, malattia di Churg-
Strauss forma il gruppo delle malattie granulomatose sistemiche autoimmuni.
Nonostante ci sia una profonda anergia cutanea e una depressa funzione immune, la malattia è causata
proprio da un aumento delle risposte mediate dagli helper.
L’eziologia rimane sconociuta, ma la cosa più probabile è una risposta abnorme ad una determinata classe di
antigeni che possono essere endogeni o esogeni.

Distribuzione
M<=F, no distribuzione raziale, ma è molto più comune fra le donne irlandesi che vivono a Londra (forse a
causa di esposizione a particolari antigeni). Età 20-40 più comune, distribuzione familiare anche se più
probabilmente legata alle condizioni di vita comuni dei gruppi familiari.

Fisiopatologia
• Accumulo di cellule infiammatorie mononucleate, e di linfociti, in forma di granuloma nei vari tessuti.
La struttura tipica del granuloma è un aggregato compatto di cellule giganti ed epitelioidi, attorniato da
un anello di linfociti T e B (in misura minore), e ben delimitato da una componente fibrillare. Nel
complesso la struttura è abbastanza demarcata. Le cellule giganti della sarcoidosi possono avere struttura
simile alle cellule da corpo incluso, con inclusioni stellate (corpi asteroidi), a forma di conchiglia (corpi
di Schaumann), o corpi rifrangenti contenenti calcio (corpi residui).
• Il danno che la malattia produce non è legato allo stimolo infiammatorio lesivo per il tessuto sano, ma
al fatto che le cellule che si accumulano, libere o sottoforma di granuloma, costituiscono un
ispessimento che finisce per danneggiare l’architettura dell’organo e quindi la sua funzione. Infatti
le manifestazioni patologiche si hanno quando un numero sufficiente di granulomi ha colpito l’organo in
questione.
• Dipende da quale organo è colpito il manifestarsi della malattia: essa infiltra ubiquitariamente tutti i
tessuti, ma sono l’occhio, il polmone, la cute e i linfonodi a dare evidenza clinica di questo, mentre ad
esempio il fegato sebbene infiltrato non reca segni clinici evidenti. Nel polmone invece la malattia
comprime le pareti degli alveoli, dei bronchi e dei vasi, producendo ectasia polmonare e ipoperfusione
alveolare.
• Nella remissione della malattia il granuloma guarisce per la dispersione delle cellule infiammatorie o per
la proliferazione dei fibroblasti dall’esterno, con formazione di una piccola cicatrice. Se la malattia si
protrae a lungo o se si sviluppa una infiammazione più intensa, il processo può trascendere il
granuloma ed estendersi al tessuto circostante, con lo sviluppo di una fibrosi che danneggia la
funzione dell’organo stesso.

Eziologia
Tutti i dati indicano una forte attivazione e proliferazione dei TH1 in risposta ad un antigene esogeno o
endogeno, con conseguente formazione granulomi, sotto lo stimolo dell’IL1 e dell’INF. Le teorie proposte
per spiegare questa iperattivazione sono diverse:
• Presenza di un antigene in grado di attivare selettivamente (e magari policlonalmente) i TH1
• Inefficacia del meccanismo soppressivo nei confronti dei TH1
• Difetto genetico di attivazione dei TH1, che si attivano in maniera esagerata

Per quel che riguarda invece il mantenimento della situazione di iperattivazione, essa è dovuta alla
produzione di IL2 e di INF, di CSF-GM ecc che producono la proliferazione ed il richiamo di macrofagi e
linfociti.
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Clinica
La malattia viene nella maggior parte dei casi diagnosticata attorno ai 40 anni per un esordio improvviso di
1-2 settimane, o sintomi subdoli di 2-3 mesi, quali anoressia, calo ponderale, febbre e affaticamento.
- Forma asintomatica: viene diagnosticata nel corso di esami di routine, e riguarda circa il 10-20% dei
casi. Soprattutto radiologie del torace.
- Forma acuta: esordisce in 1-2 settimane con sintomi di malessere generale e a volte sintomi polmonari.
Esiste la forma di Lofgren, tipica delle donne scandinave e irlandesi, con quadro radiologico di
addensamento linfonodale ilare e sintomatologia articolare, e la sindrome di Heerfordt – Waldenstroom
con febbre, tumefazione delle parotidi e paralisi del faciale.
-
• Alterazioni immunitarie: la malattia è un esempio della compartimentazione del sistema immune, in
quanto a livello periferico non si riscontrano le stesse alterazioni che si trovano a livello della lesione.
Infatti nel granuloma c’è iperattività dei T, rapporto CD4/CD8 1:10, e aumento dei TH1, mentre nel
sangue i T sono quiescienti, il rapporto CD4/CD8 è normale (1:2) e i TH1 possono anche essere
diminuiti. A livello sistemico sono presenti altre alterazioni, di cui la principale è
l’ipergammaglobulinemia, con Ab anti linfociti T, che non hanno un ruolo nella malattia ma sono
l’effetto della stimolazione dei B.
• Polmoni: la sintomatologia polmonare è presente nel 90% dei soggetti a livello radiologico, e nel 50% a
livello della funzionalità. 10-15% sviluppa fibrosi. Nel polmone la malattia è tipicamente interstiziale,
con interessamento infiammatorio per vicinanza delle pareti esterne di alveoli, bronchi e piccoli
vasi. Si possono ascoltare rumori secchi, ma l’emottisi è rara. A volte la compressione dei bronchioli
ad opera dei linfonodi polmonari infiltrati o di un grosso granuloma può produrre atelettasie distali. Nella
forma della granulomatosi necrotizzante sarcoidosica prevale invece la arterite dei grandi vasi
polmonari, provocando alterazioni cliniche importante. La pleura è poco interessata con un versamento,
con essudato ricco di linfociti.
• Linfonodi: molto comune la linfomegalia ilare, e anche quella sistemica, soprattutto inguinoascellare e
cervicale. Anche quelli retroperitoneali e della catena mesenterica. Mobili, non dolenti e di consistenza
compatta e gommosa, non vanno incontro ad ulcerazione come nella TBC; può dare problemi di
compressione.
• Cute: ci può essere una serie di alterazioni nel 25% dei casi.
o Eritema nodoso: noduli bilaterali dolenti e violacei sulle gambe, frequente nella forma acuta ed
associato con alterazioni delle articolazioni
o Lesioni cutanee: placche purpuree non dolenti, spesso rilevate nel viso, glutei ed estremità, e
papule maculari del viso e degli occhi, attorno al naso.
o Noduli sottocutanei delle estremità e del tronco.
o Lupus pernio: idurimento blu-violaceo, traslucido, localizzato al naso, guance, labbra, orecchie
e ginocchia. Nella punta delle dita assumono un aspetto a bulbo e sono associate a varicosità.
o Occasionalmente sono state osservate, come conseguenza della fibrosi polmonare estesa, dita a
bacchetta di tamburo.
• Occhi: più comune di tutti è l’uveite, che conduce a fotofobia, offuscamento del visus e lacrimazione, e
può anche portare alla cecità. Comune l’interessamento della congiuntiva, con noduli giallastri. Se viene
colpita la ghiandola lacrimale, si può produrre una cheratocongiuntivite secca.
• Vie respiratorie superiori
o Laringe
o Occlusione nasale
o Tonsille
o Raramente ostruzione completa
• Midollo osseo e milza: L’interessamento di questi siti è poco comune, e ancora più rare le
manifestazioni che sono una modesta anemia e la splenomegalia.
• Fegato: poco importanti alterazioni delle aree periportali, con alterazioni biochimiche di tipo colestatico.
Rara l’evoluzione a cirrosi.
• Rene: raro interessamento dei tubuli. Più comune e la nefrolitiasi associata ad aumentato riassorbimento
del calcio, a sua volta prodotto dalla ipersecrezione di 1,25(OH2)D3 da parte dei fagociti attivati.
• SNC: Il 5% dei pazienti presenta segni neurologici focali, che sono la paralisi del faciale, papilledema,
disfunzioni ipotalamo ipofisarie, meningite cronica e sviluppo di masse intracraniche.
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• Muscolo-scheletrico: Lesioni ossee cistiche rare, più comune l’atralgia delle grandi articolazioni e
l’artrite franca, che può essere migrante e transitoria oppure più raramente decorrere in maniera cronica e
dare origine a deformità.
• Cuore: 5% dei pazienti dimostra un interessamento del ventricolo sx che può condurre ad alterazioni
della conduzione e aritmie.
• Endocrino: asse ipotalamo ipofisario con diabete insipido. L’interessamento della adenoipofisi con
carenza di uno o più ormoni è abbastanza visto, mentre è raro l’interessamento di altre ghiandole.
• Digerente: Raramente segni esofagei o gastrici.

La complicazione più frequente è la mancata ossigenazione dei tessuti derivata dalla fibrosi. Più raramente
l’erosione del parenchima può produrre una massiva emottisi. Altri eventi mortali possono essere lo
scompenso di cuore e le alterazioni del SNC.

Diagnosi

• Esami di laboratorio: linfocitopenia, modesta eosinofilia, iperglobulinemia, aumento della VES e


aumento dei livelli di ACE.
• Radiologia del torace: tre quadri caratteristici.
o I: linfoadenopatia ilare bilaterale senza infiltrazione del parenchima
o II: “ “ “ con infiltrazione del parenchima
o IIIA: infiltrazione del parenchima senza adenopatia con fibrosi e retrazione del lobo superiore
o IIIB: “ “ “ “ “ senza “ “ “ “ “
Questi quadri radiologici non sono stadi della malattia, anche se il tipo I ha una prognosi migliore degli altri
due.
• PFR: diminuzione dei volumi polmonari e della capacità vitale, con normale VEMS.
• Scintigrafia con GA67 : indica una captazione maggiore del normale nelle aree nodulari.
• Lavaggio bronchioloalveolare: caratteristico aumento dei linfociti.

La diagnosi è complicata dalla somiglianza con molte patologie infiltrative e neoplastiche, soprattutto
linfomi. Il quadro classico, ma non sempre rispettato, è soggetto giovane con segni sistemici, eritema
nodoso, offuscamento del visus e adenopatia ilare bilaterale.
• Anergia cutanea, tipica ma non specifica
• Test di Kveim-Siltzbach: inoculazione sottocute di un estratto di milza con sarcoidosi, provoca nel 70-
80% dei soggetti una lesione caratteristica. E’ poco specifico (5%FP) e difficile da reperire il materiale.
• ACE: numerosi falsi + e anche falsi-
• Elemento diagnostico fondamentale è la biopsia linfonodale o polmonare, con ricerca di infiltrati di
cellule fagocitiche mononucleate a carattere di granuloma non caseoso. La diagnosi non è comunque
esclusiva e deve essere affiancata da tutti quegli altri elementi detti fino ad ora.

La prognosi della malattia è buona, di solito, e rappresenta la causa di morte solo nel 10% degli affetti. Di
solito se rimangono delle lesioni d’organo permanenti esse sono benigne e non progressive.

Terapia
Corticosteroidi. La terapia non viene intrapresa solo per risolvere il processo in se, in quanto esso si risolve
spontaneamente nel 50% dei casi, ma soprattutto per evitare le conseguenze dell’infiammazione polmonare.
Di solito se non ci sono segni di insufficienza respiratoria i pazienti con la sarcoidosi vengono tenuti in
osservazione per 2-3 mesi e si curano solo se l’infiammazione non regredisce.
Vengono trattati anche i pazienti con alterazioni cardiache e neurologiche.

4.2 MALATTIE TIROIDEE AUTOIMMUNI


Le malattie tiroidee autoimmuni rappresentano la causa più frequente di disfunzione della ghiandola tiroide e
comprendono la malattia di Graves (o Basedow), caratterizzata da ipertiroidismo e da altre manifestazioni
quali gozzo, oftalmopatia e mixedema localizzato, e la tiroidite di Hashimoto che causa ipotiroidismo, di
solito con gozzo molto modesto o assente e raramente pure interessamento oculare. Tali malattie sono
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definite autoimmuni in quanto compaiono in seguito ad una alterata regolazione del sistema immunitario
dell’individuo affetto.
Le tireopatie autoimmuni sono definite malattie organo-specifiche perché i fenomeni immunologici sono
ristretti ad un solo organo o ad una parte di questo e si riconoscono per la presenza di anticorpi nel sangue
dei pazienti affetti. Questi si definiscono "auto anticorpi' perché sono diretti contro proteine costitutive della
propria tiroide normale e definite "autoantigeni".

Malattia di Graves
L'ipertiroidismo in questa malattia è causato da una stimolazione protratta e incontrollata della tiroide a
produrre quantità eccessive di ormone tiroideo. Ciò che stimola le tiroide è un autoanticorpo diretto ad
interagire con il recettore del TSH, una proteina presente sulla superficie della cellula tiroidea normale che
lega l'ormone tireotropo o TSH di origine ipofisaria e che permette alla ghiandola di essere stimolata o inibita
in condizioni normali. Nei pazienti affetti da malattia di Graves compare questo anticorpo che, legandosi a
questo recettore, produce un effetto stimolatorio o inibitorio, però completamente disgiunto dalla regolazione
operata dall'ipofisi. Questo anticorpo, denominato anticorpo anti-recettore del TSH, è pure causa del gozzo in
quanto stimola la crescita della tiroide e, secondo alcuni studiosi, può essere responsabile anche
dell'insorgenza della oftalmopatia.
Diagnosi - Nella fase iniziale dell'ipertiroidismo questo autoanticorpo è presente nel sangue di circa il 90%
dei pazienti ma nella diagnosi di routine di questa malattia non viene di solito ricercato poiché la metodica di
dosaggio non è sempre disponibile, è costosa e non aggiunge nulla alla misurazione degli ormoni tiroidei e
del TSH. Per definire la natura autoimmunitaria dell'ipertiroidismo si preferisce ricercare la presenza di altri
auto anticorpi nel siero dei pazienti malati, gli anticorpi antitireoglobulina e quelli anti-perossidasi tiroidea
(prima conosciuti come anticorpi antimicrosomiali). Questi anticorpi sono diretti contro altre proteine
costitutive della cellula tiroidea e sono presenti nel siero di quasi il 97% dei pazienti con malattia di Graves
ed il loro dosaggio è eseguito quasi ovunque ad un costo piuttosto limitato. A differenza degli anticorpi
antirecettore del TSH questi auto anticorpi non stimolano la ghiandola tiroidea e non producono alcun effetto
immunologico conosciuto nella malattia. Sono semplicemente degli indicatori della malattia autoimmunitaria
in atto, e come tali vengono usati nella routine diagnostica. Il fatto che siano presenti nel sangue dei pazienti
in basse o alte quantità (o titoli) non deve indurre il paziente a ritenere che la sua malattia sia più o meno
grave.
Evoluzione - La malattia di Graves è perciò una malattia cronica le cui manifestazioni cliniche dipendono
dall'attivazione delle reazioni immunologiche autoimmuni del paziente. La terapia con formaci antitiroidei
(metimazolo, propiltiouraciie; permette di controllare gli effetti degli auto anticorpi stimolanti le tiroide, ma
non interferisce sui meccanismi immunologici. La storia naturale della malattia prevede che in una certa
percentuale di pazienti (50%) alla fase iniziale ipertiroidea segua una fase di remissione dell'ipertiroidismo
che però solo in circa il 15% dei pazienti è duratura. E' per questo che ad un periodo di terapia
farmacologica, se la malattia non va in remissione, si preferisce procedere con l’ablazione della ghiandola
tiroidea con terapia radiometabolica (somministrando una dose di iodio radioattivo) o chirurgica.

Tiroidite di Hashimoto
Questa è una malattia cronica, nota anche con il nome di tiroidite cronica autoimmune (o linfocitaria), ed è la
causa più frequente di ipotiroidismo nella popolazione adulta. Anche in questo caso la disfunzione è causata
dall'attivazione di meccanismi immunologici contro antigeni propri della cellula tiroidea tra cui prevalgono
reazioni infiammatorie croniche che progressivamente distruggono la ghiandola.
Eziologia - Autoimmunitaria, dimostrata dal fatto che ci sono nel siero anticorpi contro la tireoglobulina,
identificati tramite la tecnica dell’agglutinazione delle emazie tannate, e gli anticorpi anti microsomiali, che
si identificano con l’ELISA. Non si sa bene se la presenza di questi anticorpi sia dovuta alla distruzione della
ghiandola o viceversa. Per diagnosticare con certezza la malattia è necessario riscontrare un indice di
entrambi gli anticorpi > 1600 u/ul
Diagnosi ed evoluzione - Nella quasi totalità dei pazienti affetti vi sono auto anticorpi circolanti diretti
contro la tireoglobulina, proteina per mezzo della quale è possibile la produzione dell'ormone tiroideo e la
perossidasi tiroidea, enzima che permette l'attivazione di tale reazione. Sembra probabile che gli anticorpi
antiperossidasi provochino distruzione delle cellule tiroidee fino a ridurre la massa ghiandolare necessaria a
mantenere una produzione ormonale adeguata, da cui l'insorgenza dell’ipotiroidismo.
L'evoluzione della malattia è di solito di lunga durata e riflette la progressione delle reazioni infiammatorie
autoimmunitarie. Ecco perché la diagnosi della tiroidite di Hashimoto è solo raramente clinica e più spesso
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sospettata e confermata da esami di laboratorio, quali il dosaggio del TSH e degli auto anticorpi
antitireoglobulina e antiperossidasi. Si pone diagnosi di ipotiroidismo subclinico quando sono presenti auto
anticorpi e i valori del TSH sono appena superiori al normale. Il trattamento sostitutivo con ormone tiroideo
(L-Tiroxina) è comunque da iniziare perché l'evoluzione della malattia sarà inevitabilmente verso una forma
di ipotiroidismo clinicamente evidente.

Oftalmopatia tiroidea
Questa malattia era in precedenza denominata 'esoftalmo' ed è conosciuta anche come oftalmopatia di Graves
per la sua associazione con la malattia ipertiroidea. In realtà si può associare più raramente anche alla
tiroidite di Hashimoto e pertanto la denominazione attuale è più corretta. Si tratta di una forma infiammatoria
oculare che interessa progressivamente i tessuti che costituiscono il contenuto dell'orbita esternamente
all’occhio vero e proprio. In particolare l'infiammazione inizia dalle palpebre causando retrazione delle
stesse e lacrimazione, coinvolgendo poi i muscoli oculari alterando la motilità dell'occhio e successivamente
il grasso retro-oculare, causando la protrusione dall'orbita del globo oculare. L'infiammazione oculare è il
risultato di reazioni autoimmunitarie contro le varie componenti dell'orbita sia da parte di linfociti che di auto
anticorpi. Non si conoscono ancora quali sono i meccanismi immunologici che iniziano tali reazioni, così
come non è chiaro come queste si associno a quelle che avvengono nella tiroide. Si ipotizza che i linfociti o
gli auto anticorpi diretti contro antigeni della tiroide riconoscano 'immunologicamente' anche antigeni
presenti nelle cellule dei muscoli oculari e degli altri componenti orbitali. In pratica perché ci sia una
oftalmopatia ci deve prime essere una malattia autoimmune della tiroide. Anche nei pazienti che presentano
una forma rara di oftalmopatia 'isolata', cioè senza evidente disfunzione tiroidea, vi sono elementi diagnostici
(anticorpi o altro) per dimostrare reazioni autoimmuni a carico della tiroide.
Evoluzione - Non esiste una terapia specifica per l’oftalmopatia, in quanto non conosciamo ancora quali
siano gli specifici anticorpi o linfociti che agiscono a livello orbitale. Pertanto possiamo solo intervenire con
una terapia immunosoppressiva generica che riduca cioè l'entità delle reazioni immunologiche di tutto
l'organismo incluse quelle 'autoimmuni'. Tale terapia si fonda sostanzialmente su farmaci cortisonici ad alte
dosi che hanno un effetto antiinfiammatorio e immunodeprimente. Fortunatamente l'oftalmopatia è una
malattia le cui manifestazioni infiammatorie si autolimitano nel tempo, durando nella gran parte dei casi da
pochi mesi a 2-3 anni. Inoltre solo un 50% dei pazienti sviluppa una oftalmopatia di gravità tale da richiedere
un trattamento immunosoppressivo. Nei casi più gravi invece, le reazioni infiammatorie nell'orbita
progrediscono fino a provocare una compressione del nervo ottico posteriormente all'occhio, causando un
rischio di cecità. In questi casi la terapia immunosoppressiva non riesce ad agire in tempo e pertanto si
interviene chirurgicamente ingrandendo la cavità ossea dell'orbita (decompressione orbitaria).

4.3 DIABETE MELLITO DI TIPO 1

Il diabete mellito di tipo 1, o diabete mellito insulino-dipendente, è una malattia multifattoriale caratterizzata
dalla distruzione delle cellule b nelle insule pancreatiche del Langerhans. Attualmente, nonostante la rapida
evoluzione delle conoscenze scientifiche e delle tecniche di laboratorio, l'evento eziologico scatenante è
indeterminato e sono numerosi i meccanismi patogenetici riconosciuti. E' interessante rilevare che la nuova
classificazione del diabete mellito proposta dall'American Diabetes Association (1) sottolinea l'eterogeneità
eziopatogenetica del diabete di tipo 1 distinguendo due categorie: una forma immunomediata caratterizzata
dalla presenza del tipico movimento autoanticorpale e una forma idiopatica, meno frequente, nella quale non
è presente alcun segno di autoimmunità. I dati epidemiologici, nonché gli studi sperimentali condotti su
animali sostengono il ruolo deterninante sia di fattori genetici sia di fattori ambientali. Nel corso dell'ultimo
decennio sono divenuti sempre più numerosi gli studi epidemiologici volti a valutare l'incidenza del diabete
di tipo 1 e, in molte parti del mondo, sono stati istituiti registri del diabete di tipo 1 utilizzando criteri
standardizzati per la raccolta dei dati.
Studi familiari. Il diabete di tipo 1 colpisce circa 1 soggetto su 300 nella popolazione generale dei Paesi
occidentali, ma la proporzione sale a 1 su 20 se si considerano i parenti di primo grado di soggetti diabetici di
tipo 1; due studi eseguiti presso il Joslin Diabetes Center evidenziano un rischio pari al 2% di sviluppare
diabete di tipo 1 entro i 20 anni di età per i figli di madri diabetiche (10), mentre il rischio sale al 5% se il
genitore affetto è il padre (11). Particolarmente interessanti risultano gli studi su gemelli monozigoti: il
rischio di sviluppare la malattia per un gemello identico di un diabetico di tipo 1 oscilla, a seconda degli
studi, tra il 13 e il 30% . Studi eseguiti nel Regno Unito evidenziano che il 90% di concordanza per il diabete
di tipo 1 nei gemelli monozigoti si verifica entro 6 anni (12 e voci bibliografiche in esso contenute); risulta
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inoltre che nel 60% dei gemelli destinati a sviluppare il diabete il periodo di discordanza non supera i 3 anni
(13). E' verosimile che il tasso di concordanza sia sottostimato a causa del breve periodo di osservazione: con
un'osservazione più prolungata del tempo (fino a 39 anni) risulta che la concordanza dopo 10 anni
dall'esordio nel gemello-indice è pari al 23%, mentre dopo 31 anni la concordanza risulta pari al 38% (14);
inoltre, i due terzi dei gemelli rimasti discordanti presentano evidenza di autoimmunità diretta contro le b -
cellule pancreatiche e/o di disfunzione b -cellulare valutata con l'IVGTT (14). Interessante è inoltre il lavoro
di Kumar et al.(13) che hanno valutato, oltre alle coppie di gemelli monozigoti, anche le coppie di gemelli
dizigoti rilevando che, se il gemello indice ha sviluppato il diabete prima dei 15 anni, il rischio a lungo
termine risulta pari al 44% nel gemello monozigote e al 19% nel gemello dizigote; il rischio raggiunge il
65% nel gemello identico di un diabetico di tipo 1 con età di esordio inferiore ai 5 anni. E' inoltre da rilevare
che il rischio per il gemello dizigote di un soggetto affetto risulta significativamente più elevato di quello di
un parente di primo grado non gemello (13). Dall'insieme dei dati epidemiologici presentati emergono alcune
considerazioni: 1. Il ruolo della componente genetica è confermato dall'aggregazione familiare, bisogna
peraltro considerare che i diabetici di tipo 1 nel 90% dei casi non hanno storia familiare di diabete (15); 2.
Gli studi su gemelli monozigoti, identici quindi in termini di fattori di rischio genetici, evidenziano una
concordanza nettamente inferiore al 100% (quella attesa se la componente genetica fosse l'unica in causa)
suggerendo quindi il ruolo di determinanti ambientali nell'eziologia del diabete di tipo 1; questo dato risulta
avvalorato dal rischio più elevato nei gemelli dizigoti rispetto ad altri parenti di primo grado (maggiore
condivisione di fattori ambientali ?); 3. L'incremento temporale nell'incidenza del diabete di tipo 1 in un arco
di tempo troppo limitato perché possano essere considerate modificazioni della composizione genetica delle
popolazioni studiate e il rilievo di una progressiva acquisizione del rischio del Paese di residenza in
popolazioni migranti depongono a favore del ruolo di determinanti ambientali; 4. Le variazioni stagionali e
di tipo simil-epidemico sembrano suggerire il ruolo di agenti infettivi nella eziologia del diabete di tipo 1.

Come emerge dai dati esposti nelle premesse epidemiologiche, la predisposizione genetica riveste un
ruolo importante nell'eziologia del diabete di tipo 1, tuttavia la ricerca dei geni di suscettibilità a questa
patologia risulta complessa poiché si tratta di una malattia multifattoriale e i geni coinvolti sono delle
varianti alleliche normali. L'aggregazione familiare di una patologia può essere valutata dal rapporto tra la
prevalenza della malattia tra i parenti di un soggetto affetto e la prevalenza nella popolazione generale; tale
rapporto, definito *s, si avvicina a 1 quando non c'è evidenza di una aggregazione familiare ed è tanto più
elevato quanto più l'aggregazione familiare è rilevante: nel caso del diabete di tipo 1 il valore di *s è pari a
15 (17) (tab. 3).

Ovviamente l'aggregazione familiare non implica un coinvolgimento esclusivo di fattori genetici, in


quanto i membri di una stessa famiglia verosimilmente condividono anche alcuni fattori ambientali. Per
l'identificazione dei geni predisponenti sono disponibili due strategie differenti (16): a) la ricerca del legame
tra la malattia e il polimorfismo di geni che codificano prodotti potenzialmente implicati nel processo
patogenetico (ad esempio il maggior complesso di istocompatibilità) b) la ricerca di una associazione tra la
segregazione della malattia e la segregazione di marcatori polimorfi distribuiti nell'ambito dell'intero
genoma.
I marcatori sono rappresentati da sequenze dette microsatelliti che si ripetono nel genoma dei mammiferi
e presentano una notevole variabilità; in tal modo è possibile valutare, nelle famiglie, la eventuale
associazione tra la trasmissione di tali marcatori e la trasmissione della malattia in studio. Il numero di
microsatelliti necessari per una valutazione estesa di tutto il genoma risulta pari a 100 marcatori nelle
famiglie di topi e circa 300 marcatori nelle famiglie umane (17). Con questa metodica sono stati evidenziati
circa 20 loci potenzialmente associati al diabete di tipo 1 (17).

Il ruolo del complesso HLA (human leukocyte antigens) o locus IDDM1. I geni codificati dal
complesso HLA, localizzato sul braccio corto del cromosoma 6, rappresentano i principali determinanti della
suscettibilità genetica al diabete di tipo 1. Gli antigeni di superficie codificati dai geni del complesso HLA si
distinguono in antigeni di classe I (A, B, C), costituiti da una catena altamente polimorfa associata alla b2
microglobulina, e in antigeni di classe II (DR, DQ, DP) che sono degli eterodimeri costituiti da una catena a
e da una catena b. Entrambe le catene delle molecole DQ e DP e la catena b delle molecole DR sono
altamente polimorfe e possono essere codificate da geni localizzati sul medesimo aplotipo (in cis) oppure su
differenti aplotipi (in trans); ogni soggetto, quindi, può esprimere fino a quattro differenti varianti delle
molecole DQ e DP. Una caratteristica dei geni HLA è rappresentata dal "linkage disequilibrium", per cui
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alcuni alleli di un locus, ad esempio il DQ, sono associati ad alcuni particolari alleli di un altro locus, ad
esempio il DR, con una frequenza nettamente superiore a quella attesa se l'associazione fosse puramente
casuale. Gli antigeni HLA di classe I sono espressi su tutte le cellule nucleate dell'organismo e i peptidi di
origine tumorale oppure provenienti da virus e da batteri endocellulari che vengono presentati in
associazione a queste molecole inducono una risposta delle cellule T citotossiche (CD8 positive). Gli
antigeni di classe II sono presenti sulla superficie dei linfociti B e delle cellule specializzate nella
presentazione dell'antigene (monociti, macrofagi, cellule dendritiche), ma la loro espressione può essere
indotta anche in altre cellule nucleate da parte di alcuni stimoli, tra cui l'interferon *; gli antigeni presentati in
associazione a queste molecole, essenzialmente antigeni esogeni idrolizzati all'interno della cellula, inducono
una attivazione delle cellule T helper (CD4 positive) (per una rassegna sull'argomento vedere la voce 18).
Il rilievo di un'associazione tra il diabete di tipo 1 e alcuni antigeni HLA risale ai primi anni '70, quando,
grazie all'uso di marcatori sierologici per la determinazione del polimorfismo degli antigeni di classe I, è
emersa una associazione con le specificità HLA-B8, B15 e B18 (19). In seguito, la disponibilità di marcatori
sierologici per gli antigeni HLA di classe II ha consentito di evidenziare nei diabetici di razza caucasica una
più elevata frequenza di alcuni antigeni, in particolare delle specificità DR3 e DR4 (rischio relativo 3-6 e 6-7
rispettivamente), che sono in "linkage disequilibrium" con gli antigeni B8 e B15; un'associazione più debole
è risultata con le specificità DR1 e DR8. Di rilievo è l'osservazione che il rischio associato all'eterozigosi
DR3/DR4 è maggiore del rischio rilevato per l'omozigosi DR3 o DR4. Alcuni antigeni risultano invece
protettivi: tra questi ricordiamo l'antigene DR15, un sottotipo del DR2 (rischio relativo 0.2); nei pazienti
giapponesi sono risultati più rappresentati gli antigeni DR4 e DR9 (19). Una svolta fondamentale si è avuta
negli anni '80 con l'introduzione di metodiche di biologia molecolare che hanno consentito la determinazione
del polimorfismo degli alleli HLA, in particolare degli alleli DQ, e il rilievo di una associazione
preferenziale di alcuni di questi alleli con il diabete di tipo 1 (20); è risultata significativa l'osservazione che
gli alleli protettivi codificano un residuo di acido aspartico in posizione 57 della catena b, mentre gli alleli a
rischio per il diabete di tipo 1 non codificano l'acido aspartico, ma un residuo aminoacidico neutro (alanina,
valina o serina) (21) (tab. 4).

D'altra parte non sempre gli aplotipi privi dell'acido aspartico b 57 conferiscono suscettibilità al diabete
insulino-dipendente, come risulta dalla constatazione che l'allele DQB1*0201 (Asp 57 negativo) è associato
al diabete nell'aplotipo DR3-DQB1*0201, mentre non è associato a un maggiore rischio di malattia
nell'aplotipo DR7-DQB1a0201 (22,23); inoltre nei diabetici di razza nera la catena DQa associata alle
specificità DR 7 e DR 9 (a maggiore rischio di diabete) è identica alla catena DQ* associata alla specificità
DR4, a rischio di diabete nei soggetti di razza caucasica, come risulta dall'analisi molecolare dei geni DQA1
(24).
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Si è quindi supposto che il polimorfismo degli alleli DQA1 sia coinvolto nel determinare il rischio HLA
dipendente (25); in particolare, gli alleli che codificano l'aminoacido arginina in posizione 52 della catena a
si associano a un rischio più elevato di diabete di tipo 1 (tab. 4); si può quindi supporre che gli eterodimeri
DQa/b, codificati in cis o in trans e costituiti da una catena a Arg 52 positiva e da una catena b Asp 57
negativa determinino un rischio più elevato di diabete. Dal lavoro di Khalil et al. (26), in cui sono stati
studiati 115 diabetici di razza caucasica e 108 controlli non diabetici, risulta infatti che:
1. gli eterodimeri DQ a Arg52/DQb non-Asp57 sono fortemente associati al diabete di tipo 1, poiché il
97% dei diabetici e il 46% dei controlli presenta almeno un eterodimero a rischio (RR 32); 2. il numero di
eterodimeri prevedibili sulla base del genotipo DQA1-DQB1 condiziona il grado di suscettibilità alla
malattia; infatti i soggetti con 4 eterodimeri DQ di suscettibilità presentano il più elevato rischio relativo (RR
41); 3. soltanto alcuni degli eterodimeri a rischio sono più rappresentati nei diabetici, per cui esiste una
differente influenza dei vari genotipi; il più elevato rischio relativo (35.3) è conferito dalla combinazione in
trans DQA1*0501-DQB1*0302, seguito dalla combinazione in cis o in trans DQA1*0301-DQB1*0201
(15.6);
4. la presenza simultanea di quattro eterodimeri di suscettibilità giustifica il rischio più elevato degli
eterozigoti DR3-DQA1*0501-DQB1*0201/DR4-DQA1*0301-DQB1*0302 rispetto agli omozigoti DR3 o
DR4.
E' inoltre interessante rilevare, come già accennato in precedenza, che lo studio di soggetti di etnie
differenti (Neri, Caucasici, Giapponesi) ha dimostrato che la suscettibilità al diabete di tipo 1 si associa a
particolari combinazioni dei geni DQA1 e DQB1 in ciascuna etnia; in particolare gli alleli DQA1*0301,
DQB1*0302, DQA1*0501 e DQB1*0201 risultano associati al diabete in tutti i gruppi etnici (27).
E' inoltre da ricordare l'effetto protettivo dell'aplotipo DRB1*1501/ DQA1* 0102-DQB1*0602, uno degli
aplotipi della specificità DR2; questo aplotipo si trova infatti in meno dell'1% dei diabetici di tipo 1 in
numerosi gruppi etnici differenti. In effetti, i casi di associazione tra DR2 e diabete sono da attribuire ad altri
aplotipi privi dell'allele DQB1*0602, i quali possono svolgere un ruolo debolmente predisponente o neutro.
E' quindi evidente che l'allele DQB*0602 è l'unico allele rilevato esclusivamente negli aplotipi DR2
protettivi, inoltre la sua presenza può risultare protettiva anche in associazione con alleli HLA a elevato
rischio (28).
Risulta poi da considerare che l'associazione degli alleli DR con il diabete di tipo 1 non è la semplice
conseguenza del "linkage disequilibrium" con gli alleli DQ a rischio, poiché il polimorfismo della catena DR
b è in grado di condizionare il rischio intrinseco alla specificità DQ ad essa associata (19). Infatti, il rischio
relativo determinato dall'aplotipo DQA1-DQB1 può essere modificato dal tipo di allele DR4 ad esso
associato (tab. 5).

La suscettibilità al diabete è osservata nei soggetti portatori degli alleli DRB1 0402 e 0405 e 0401, mentre
gli alleli 0403, 0406, 0404 e 0407 conferiscono protezione; in particolare la protezione conferita dagli alleli
0403 e 0406 è dominante rispetto al rischio associato all'aplotipo DQA1* 0301-DQB1*0302. E' significativo
rilevare che nei diabetici giapponesi e cinesi la frequenza dell'allele DQB1*0302 è particolarmente ridotta, a
differenza di quanto si rileva nelle popolazioni caucasiche; ciò è verosimilmente spiegato dal fatto che nei
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Giapponesi e nei Cinesi questo allele è in "linkage disequilibrium" con gli alleli DRB1*0403 e 0406, che
risultano fortemente protettivi (19).
Anche nel caso delle specificità DR sembra essere importante il ruolo di un residuo di acido aspartico in
posizione 57 della catena b: la presenza dell'aspartato sembra svolgere un ruolo protettivo, mentre la
presenza di aminoacidi differenti sembra determinare suscettibilità (29).
Il maggior complesso di istocompatibilità anche nei topi NOD rappresenta il principale determinante della
predisposizione genetica allo sviluppo del diabete di tipo 1. Nel topo NOD è localizzato sul cromosoma 17 e
comprende almeno due loci distinti (Idd1 e Idd16). Il locus Idd1, a sua volta costituito da più di un gene, è
localizzato nella regione codificante gli antigeni di classe II e corrisponde a mutazioni nell'esone 2 del gene
IA (analogo al gene DQ nell'uomo) e a una delezione nel gene IE (analoga al gene DR nell'uomo) che
determina la mancata espressione del corrispondente antigene. In topi NOD transgenici, il ripristino
dell'espressione dell'antigene IE e del tipo nativo dell'antigene IA previene la comparsa della malattia (30).
Anche nel topo NOD è dimostrato il ruolo chiave dell'aminoacido in posizione b 57 nelle molecole IE e IA:
gli alleli che presentano un residuo di acido aspartico in questa posizione risultano protettivi (29).
Attualmente non è ancora chiaro il ruolo svolto dagli alleli HLA di classe II nella patogenesi del diabete
di tipo 1, tuttavia è possibile ipotizzare un coinvolgimento dei meccanismi di presentazione dell'antigene: il
notevole polimorfismo degli antigeni di classe II potrebbe infatti determinare una notevole variabilità
nell'affinità di legame con differenti peptidi. Come risulta dall'esauriente rassegna di Wucherphennig e
Strominger (31), l'analisi strutturale dei complessi HLA-antigene e l'identificazione dei siti specifici di
legame hanno consentito un notevole passo in avanti. La notevole eterogeneità di struttura ha reso
particolarmente difficile definire i siti di legame degli antigeni HLA di classe II, tuttavia la struttura
cristallografica dell'antigene DR1 ha dimostrato l'esistenza, nei potenziali ligandi, di un sito di ancoraggio
dominante (P1), in corrispondenza della regione aminoterminale, e di altri siti secondari. Il sito di legame
principale è costituito dal primo dominio delle catene DRa e DRb che formano una tasca idrofobica in grado
di ospitare il primo sito di ancoraggio del peptide. Le molecole DR1, inoltre, presentano altre tasche più
strette che interagiscono con catene laterali del potenziale ligando, dette P4, P6, P7, P9. In pratica, i peptidi
che si legano alle molecole DR presentano tutti un residuo idrofobico in P1, mentre la variabilità nelle
dimensioni e nella carica delle tasche che ospitano le catene laterali determina le differenti affinità di legame
delle specificità DR. In particolare, risulta critico il ruolo degli aminoacidi localizzati in corrispondenza delle
posizioni b71 e a57 della molecola DR, interagenti rispettivamente con le posizioni P4 e P9 del ligando:
residui aminoacidici dotati di carica elettrica in b71 e a57 condizionano la carica consentita in corripondenza
delle posizioni P4 e P9 del ligando; in pratica, peptidi dotati di scarsa specificità presentano residui
aminoacidici neutri nelle posizioni P4 e P9, mentre i peptidi dotati di carica elettrica in P4 e P9 possono
legarsi a una particolare molecola DR esclusivamente se questa presenta un aminoacido di carica opposta o
neutra nelle posizioni chiave suddette.
Particolarmente significativo a questo proposito è l'esempio dell'associazione di due malattie autoimmuni,
l'artrite reumatoide e il pemfigo volgare, con alcuni alleli DR4; l'artrite reumatoide è associata con gli alleli
DRB1*0401 e 0404, mentre il pemfigo volgare è associato con l'allele DRB1*0402. E' infatti stato
dimostrato che gli alleli DRB1*0404 e DRB1*0402, i quali differiscono esclusivamente nella regione b67-
71, hanno una capacità di legame condizionata dalla carica presentata dal ligando nella posizione P4:
precisamente, i peptidi con carica negativa in P4 si legano alle molecole codificate dall'allele DRB1*0404 e
non a quelle codificate dall'allele DRB1*0402 e viceversa.
La variabilità nella posizione b71 risulta essere la responsabile di questa selettività di legame, in quanto le
molecole codificate dall'allele DRB1*0404 presentano un residuo di arginina in posizione b71 e legano
selettivamente peptidi con carica negativa in P4, mentre l'allele DRB1*0402 codifica una molecola con un
residuo di glutamato in b71 che lega preferenzialmente peptidi carichi positivamente in P4 (31 e voci
biliografiche in esso contenute). Come già accennato in precedenza, un ruolo chiave nel determinare la
specificità delle molecole HLA di classe II, sia DR sia DQ, è svolto dal dimorfismo Asp/non-Asp in
posizione b57; Nepom et al. (32) hanno studiato la capacità di legame di molecole DR e DQ strettamente
omologhe, ma differenti per l'aminoacido in posizione b57 rilevando che i peptidi carichi negativamente in
posizione P9 sono dotati di affinità per le molecole prive dell'acido aspartico b57, ma non sono in grado di
legarsi a molecole Asp b57 positive; viceversa, modificando i peptidi in corrispondenza del singolo residuo
aminoacidico interagente con la posizione b57, hanno ottenuto un'inversione dell'affinità di legame. Si tratta
a questo punto di stabilire in quale modo la differente affinità di legame dei vari alleli HLA di classe II possa
condizionare il meccanismo autoimmune alla base del danno b-cellulare; tra le numerose ipotesi possiamo
ricordare le seguenti:
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a) le molecole codificate dagli alleli HLA a rischio sarebbero associate al diabete di tipo 1 poichè capaci
di legare in maniera più efficiente particolari peptidi (autoantigeni?) in grado di indurre una risposta
autoimmune contro le b-cellule (33) e inoltre, tra alleli a
rischio e alleli protettivi, si verificherebbe una competizione Punti salienti della patogenesi del diabete:
per il legame con peptidi potenzialmente diabetogeni (fig. Processo multifasico legato alla trasmissione
2); in pratica, l'affinità di legame per i potenziali peptidi familiare, legato forse all’imprintig sessuale
diabetogeni sarebbe maggiore negli antigeni protettivi paterno (rischio 5X se è malato il padre,
rispetto agli antigeni a rischio e questi, a loro volta, rispetto a quello della madre), di una
presenterebbero una affinità maggiore rispetto agli antigeni suscettibilità genetica alla malattia. A seguito
neutri; di una serie di stimoli (come una infezione
virale delle cellule del pancreas) o anche senza
nessuna stimolazione, abbiamo una
infiltrazione di macrofagi e CTL detta
insulite, che di solito è clinicamente silente, In
questa fase, che è detta prediabete, esiste un
titolo anticorpale contro le cellule beta del
pancreas. Questo stato è prolungato, può
essere intermittente, e sfocia alla fine in una
carenza acuta di insulina e perdita del
controllo sulla glicemia.

fattori ambientali scatenanti (aggravano


una predisposizione genetica)
-Infezione da Coxsackievirus B4 ed altri, che
provoca insulite tramite infezione diretta e
innesco di una reazione infiammatoria in loco,
perché la lisi del virus provocherebbe
l’esposizione di antigeni altrimenti nascosti
-Assunzione di latte vaccino in età precoce;
l’albumina bovina produce Ab che sono diretti
contro di essa ma cross-reagiscono con le
cellule beta del pancreas.
b) gli alleli HLA negativamente associati al diabete -Altri antigeni estranei che fanno un fenomeno
codificherebbero degli antigeni di superficie capaci di di mimetismo antigene, come le proteine del
legare con una elevata affinità e presentare nella corretta coxsackievirus e la glutammico decarbossilasi
posizione ipotetici peptidi b-cellulari (autoantigeni?), delle cellule beta.
-Ipotesi che l’infezione virale possa far
inducendo in tal modo una più efficace acquisizione della
esprimere alle cellule B antigeni nuovi.
tolleranza immunitaria (tab. 6); gli antigeni HLA a rischio -Presenza di cellule T autoreattive come tara
presenterebbero invece una scarsa affinità per i medesimi genetica.
peptidi (34) o li presenterebbero in maniera inadeguata;
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c) gli alleli HLA di classe II a rischio si legherebbero preferenzialmente a peptidi in grado di stimolare
prevalentemente le cellule Th1, mentre gli alleli protettivi presenterebbero una maggiore affinità per peptidi
capaci di indurre una proliferazione delle cellule Th2; questa ipotesi è particolarmente suggestiva
considerando, come verrà esposto in dettaglio successivamente, che lo squilibrio tra le cellule T helper di
tipo 1 (Th1) e le cellule T helper di tipo 2 (Th2) potrebbe svolgere un ruolo determinante nella patogenesi del
danno b-cellulare; in topi NOD transgenici esprimenti alleli IA Aspb57 positivi si è ottenuta una riduzione
dell'incidenza di diabete di tipo 1 e alcuni studi suggeriscono che questa ridotta incidenza sia il risultato di un
risposta T cellulare prevalentemente di tipo Th2, ma al momento mancano dati definitivi a favore di questa
ipotesi (29).

4.4 SCLEROSI MULTIPLA


EPIDEMIOLOGIA
L'epidemiologia studia il verificarsi di una malattia in relazione a variabili geografiche, demografiche,
socioeconomiche, genetiche e infettive. Sembra che nella SM concorrano nel determinare la malattia cause
virali, ambientali, genetiche e immunitarie. Gli epidemiologi contribuiscono alla nostra conoscenza della SM
valutando le relazioni tra questi fattori, anche attraverso la valutazione delle migrazioni di popolazioni da
aree ad alta ad aree a bassa incidenza di malattia. Tra le osservazioni epidemiologiche sulla SM più
generalmente riconosciute vi sono:
• Malattia a diffusione ubiquitaria, la SM si manifesta più frequentemente alle latitudini nord (sopra il
40° parallelo) piuttosto che in quelle sud.
Se un individuo, nato in un'area ad alto rischio di SM, si trasferisce in un'area a basso rischio, acquista il
rischio del nuovo paese se lo spostamento avviene prima dei 15 anni.
• La SM è più comune nei caucasici (particolarmente quelli con antenati rovenienti dal Nord Europa)
che nelle altre razze, ed è quasi sconosciuta in certe popolazioni.
• E' due volte più comune tra le donne che tra gli uomini.
• Nella distribuzione della SM sono stati identificati alcuni focolai "grappoli" (aree geografiche
ristrette o popolazioni circoscritte con tasso molto elevato di malattia).
Ciò suggerisce che un fattore ambientale, ad esempio un virus, possa essere implicato nel
determinare la malattia; inoltre, particolari caratteristiche genetiche sono state riscontrate in
popolazioni, o gruppi familiari, in cui la frequenza della malattia è più elevata, rispetto a popolazioni
che non esprimano lo stesso marker genetico.
Questi e altri studi hanno contribuito alla elaborazione della teoria patogenetica secondo la quale
un'esposizione precoce a un agente ambientale potrebbe essere un fattore scatenante dello sviluppo della SM
in persone geneticamente predisposte.
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EZIOLOGIA
I fattori causali precisi della SM non sono ancora noti, ma sulla base dei risultati di molte ricerche è
probabile una genesi multifattoriale, ossia l'intervento contemporaneo di più fattori. Le principali teorie
scientifiche sono:
1. Immunologica: è oggi generalmente accettato che la SM implica un processo autoimmunitario, cioè
una risposta immunitaria anomala diretta contro il sistema nervoso centrale (SNC) dell'individuo
stesso. Mentre l'antigene esatto (il bersaglio verso il quale le cellule immunitarie sono sensibilizzate)
rimane sconosciuto, i ricercatori sono stati in grado negli ultimi anni di identificare quali cellule
immunitarie siano coinvolte, come vengano attivate contro il SNC e quali siti o recettori sulle cellule
stesse riconoscano la mielina ed inneschino il processo autoimmune. Queste scoperte stanno
conducendo alla elaborazione di terapie immunosoppressive e immunomodulanti sempre più
specifiche e selettive; lo scopo finale è infatti quello di arrestare la progressione della malattia senza
interferire con il normale funzionamento del sistema immunitario.
2. Virale o ambientale: Studi epidemiologici e fenomeni migratori hanno mostrato che i pazienti nati in
un'area del mondo ad alto rischio di SM, e che si sono trasferiti in un'area a rischio più basso,
acquisiscono le probabilità di rischio del nuovo luogo di residenza, se il trasferimento avviene prima
dei 15 anni di età. Questi dati epidemiologici suggeriscono che un'esposizione a un qualche agente
ambientale che si verifichi prima della pubertà predisponga a sviluppare, in seguito, la SM. Visto che
la prima esposizione a numerosi virus avviene durante l'infanzia, e visto che questi agenti sono una
causa ben riconosciuta di demielinizzazione e di risposte di tipo infiammatorio nel sistema nervoso
centrale, è possibile che sia un virus il fattore scatenante.
Tuttavia, nonostante numerosi virus siano stati implicati nello sviluppo della SM, non è stato ancora
possibile dimostrare in maniera definitiva che un virus specifico sia l'agente causale della SM.
3. Genetica: Sono in corso numerosi studi sia epidemiologici che laboratoristici relativi
all'individuazione dei fattori genetici nella eziologia della SM. Numerose ricerche hanno dimostrato
che nelle popolazioni o nei gruppi familiari in cui l'incidenza della SM è maggiore è anche più
frequente l'espressione di determinati geni. L'ipotesi più accreditata attualmente è che nei pazienti
affetti da SM esista una predisposizione genetica a reagire contro un agente ambientale; da questi
eventi originerebbe la reazione autoimmunitaria che è alla base della malattia. Analisi
epidemiologiche hanno dimostrato che il rischio che un individuo sviluppi la SM è maggiore nelle
persone che hanno un familiare affetto dalla stessa malattia.
La probabilità è più elevata tra i gemelli monozigoti (identici), nei quali il rischio relativo è del 50%
circa. E' importante però ricordare che oltre l'80% dei pazienti con SM non ha un parente di primo
grado colpito dalla malattia. Questo è un altro elemento che dimostra che l'influenza dell'ereditarietà
non è diretta, ma vi sono coinvolti molti altri fattori.

SINTOMI
I sintomi della SM possono essere molteplici, in quanto sono il risultato di una demielinizzazione diffusa nel
sistema nervoso centrale che porta a una trasmissione elettrica deteriorata degli impulsi nervosi dalle diverse
zone cerebrali.

I sintomi iniziali della SM sono il più delle volte rappresentati da difficoltà nel camminare o sensazioni come
intorpidimento e formicolio. Il calo del visus (dolore e perdita della vista dovuti a un'infiammazione del
nervo ottico) è un altro sintomo che si verifica comunemente. Più raramente i sintomi iniziali possono
includere tremore, incoordinazione dei movimenti, alterazioni dell'articolazione della parola e difficoltà nel
movimento di uno o più arti. Molto raramente si osservano, all'esordio, disturbi della funzione cognitiva.

E' utile dividere i sintomi della SM in primari, secondari e terziari.

Sintomi primari: sono quelli che derivano direttamente dalla demielinizzazione, come la debolezza,
l'intorpidimento, il tremore, la perdita della vista, o disfunzione della vescica. Anche se non ci sono
trattamenti causali per questi sintomi, molti di essi possono essere controllati efficacemente per mezzo di
terapie mediche o riabilitative.

Sintomi secondari: sono quelle complicanze che insorgono come conseguenza dei sintomi primari. Per
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esempio, la disfunzione della vescica può portare a infezioni ripetute del tratto urinario. L'immobilizzazione
dovuta alla paralisi può condurre a lesioni cutanee quali le piaghe da decubito. Benché i sintomi secondari
possano essere curati, l'obiettivo primario è di evitarli, trattando per tempo i sintomi primari.

Sintomi terziari: sono le implicazioni sociali, professionali e psicologiche dei sintomi primari e secondari.
Una persona che non è più in grado di camminare o guidare può perdere i mezzi per il proprio
sostentamento. La tensione familiare causata dal dover affrontare una malattia neurologica cronica può
condurre al divorzio. La depressione è molto comune tra i pazienti con SM. Per trattare i sintomi terziari è
indicato l'intervento di psicologi, assistenti sociali ed enti della sanità pubblica.

E' importante ricordare che molti dei sintomi della SM possono essere trattati in maniera efficace, evitando
quindi le complicanze, mediante controlli regolari da parte di un neurologo e di operatori sanitari collegati.

ESACERBAZIONE O RICADUTA
Il decorso clinico più comune dei pazienti con SM è quello di tipo ricadute/remissioni. Un'esacerbazione
viene di solito definita dai neurologi come un peggioramento acuto di sintomi preesistenti, o la comparsa di
nuovi sintomi neurologici che durino almeno 24 ore. Un'esacerbazione può essere lieve o può interferire
decisamente nelle funzioni quotidiane dell'individuo. Un esempio di esacerbazione tipico della SM è lo
sviluppo di sintomi di neurite ottica, vale a dire di un'infiammazione del nervo ottico la cui conseguenza è un
calo improvviso e rilevante della vista. I sintomi delle esacerbazioni solitamente durano varie settimane,
anche se possono protrarsi per mesi. Viene generalmente riconosciuto che un ciclo di corticosteroidi di breve
durata, ma ad alto dosaggio (il cosiddetto "bolo steroideo") possa modificare la durata e la gravità di
un'esacerbazione. Una remissione non significa che tutti i sintomi della SM scompaiono, ma piuttosto che il
quadro clinico del paziente è tornato allo stato precedente l'esacerbazione.

Quando un paziente manifesta un'esacerbazione transitoria, collegata a un fattore precipitante, come un


aumento della temperatura corporea (causata, ad esempio, dalla febbre o da un bagno caldo), tale quadro
viene definito pseudoesacerbazione.
Alcuni pazienti riferiscono un'esacerbazione dopo periodi di stress psicofisico intenso. Sono attualmente in
corso ricerche per valutare gli effetti dello stress sul sistema immunitario e quindi su un suo possibile
coinvolgimento nella SM.

DIAGNOSI
Il termine "patognomonico" si riferisce a un test di laboratorio, un sintomo, un elemento fisico che, se
presente o positivo, denota sempre la presenza di una particolare malattia, e si manifesta solo in quella
malattia. Al momento attuale non esiste alcun elemento patognomonico in grado di permettere la diagnosi di
SM, in quanto altre malattie possono avere un quadro simile. La diagnosi di SM può quindi essere posta solo
mediante la valutazione di più dati compatibili con la SM e escludendo altre cause. Elemento "base" per la
diagnosi di SM è la dimostrazione di multiple aree demielinizzate (più di una) a carico del sistema nervoso
centrale, formatesi in momenti successivi (più di uno) nel tempo, che non siano dovute ad un altro processo
patologico che possa causare demielinizzazione.
La sofferenza del Sistema Nervoso Centrale (SNC) può essere dimostrata tramite l'esame neurologico, dalla
Risonanza Magnetica dell'encefalo e del midollo spinale, dall'esame del liquor e dai Potenziali Evocati.
Vengono inoltre presi in considerazione sesso, età d'inizio dei sintomi, luogo di nascita e storia familiare del
paziente. In genere non è necessario eseguire tutti gli esami, ma solo quelli che servono a soddisfare i criteri
diagnostici sopracitati in associazione con i dati forniti dall'esame clinico.

PROGNOSI
In generale è molto difficile prevedere il decorso della SM. Si deve sempre considerare, infatti, la grande
variabilità di questa malattia. Alcuni studi hanno dimostrato che dal grado di invalidità presente a 5 anni
dall'esordio dei sintomi si può avere una indicazione su quale sarà la disabilità a 10 o 15 anni dall'inizio. Altri
studi hanno indicato che i fattori che sembrano essere associati con una buona prognosi, decorso
relativamente benigno, sono la presenza, all'esordio, di sintomi sensoriali piuttosto che motorii o cerebellari e
di un esame neurologico negativo. La comparsa precoce di segni e sintomi cerebellari (ad es. tremore,
incoordinazione e difficoltà nell'articolazione della parola) tende a essere associato con un decorso di tipo
progressivo.
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Secondo un criterio semplificato, si possono distinguere 3 tipi fondamentali di decorso clinico: remittente
(puro o con sequele), remittente progressivo e primitivamente progressivo. La forma remittente pura prevale
negli esordi precoci, mentre il tipo progressivo rappresenta il 50% circa degli esordi tardivi.

TRATTAMENTI
Attualmente la SM è non è guaribile, ma é in larga misura curabile. La maggior parte dei trattamenti
disponibili sono farmaci "sintomatici", ossia alleviano un sintomo senza però modificare i meccanismi alla
base della malattia e quindi l'andamento della malattia stessa. Esempi di trattamenti sintomatici sono: i
corticosteroidi, gli antispastici, gli antidolorifici, i farmaci per l'incontinenza urinaria. Occorre includere in
questa categoria anche la riabilitazione che, insieme ai precedenti approcci, consente di migliorare la qualità
di vita del paziente.
I farmaci immunosoppressori e immunomodulanti, controllando la risposta immunitaria alterata, possono
invece rallentare l'evoluzione della malattia. Essi agiscono diminuendo e bloccando l'attività delle cellule del
sistema immunitario responsabili della "autoaggressione" al Sistema Nervoso Centrale. Attualmente, tali
terapie si sono dimostrate efficaci soprattutto nelle forme a ricadute e remissioni.
Non si deve dimenticare, comunque, che il programma terapeutico deve sempre essere il risultato di una
cooperazione attiva tra paziente e neurologo.

PROSPETTIVE TERAPEUTICHE
Nei laboratori di tutto il mondo sono in corso ricerche per realizzare la "cura" per la SM, cioè un trattamento
specifico che prevenga o blocchi il processo demielinizzante autoimmune o favorisca la rimielinizzazione
nelle aree già colpite. Naturalmente, l'avanzamento delle conoscenze nel campo della patogenesi della
malattia può permettere un sempre più specifico approccio terapeutico. Risultati importanti sono già stati
ottenuti nell'Encefalite Allergica Sperimentale, il modello animale della SM

4.5 Morbo di Crohn e colite ulcerosa

Per Malattie Infiammatorie Croniche dell'Intestino (d'ora in avanti "IBD"- Inflammatory Bowel Desease) si
intendono fondamentalmente Morbo di Crohn e Colite Ulcerosa, due malattie sostanzialmente diverse, ma
accomunate da diversi fattori.
Il Morbo di Crohn (d' ora in avanti MC) si localizza soprattutto nell'ultimo tratto dell'intestino tenue (ileite
terminale) e/o nel grosso intestino (ileo-colite o colite di Crohn), anche se, teoricamente, può colpire
qualunque tratto dell'apparato digerente, dalla bocca all'ano. La Colite Ulcerosa (CU), invece, coinvolge solo
il grosso intestino, a volte in tutta la sua estensione, dal retto al colon ascendente, ma più spesso in modo
parziale, coinvolgendo solo la parte sinistra o solo retto e sigma.
Entrambe sono patologie croniche caratterizzate dall'alternarsi di periodi di attività e di quiescenza. I sintomi
del MC e della CU, variabili da individuo a individuo, sono esposti nei rispettivi paragrafi.
Le cause delle IBD sono, allo stato, sconosciute, ma si conoscono alcuni fattori di rischio, come stress e
fumo (solo per il MC). Per questo motivo la terapia medica si limita a contenere l'attività della malattia e a
prevenire le recidive.
Spesso Il Morbo di Crohn e la Colite Ulcerosa comportano delle complicanze (intestinali o extra-intestinali)
la cui risoluzione può richiedere un intervento chirurgico.
Trattandosi di malattie croniche, che possono incidere in maniera anche molto grave sulla qualità di vita del
malato e con serie ripercussioni psicologiche, si consiglia, ai primi sintomi sospetti , di rivolgersi
immediatamente ad uno specialista esperto e valutare la possibilità di recarsi al più presto presso un centro
specializzato.
Una IBD trascurata può portare a complicanze ben più gravi e fastidiose della malattia stessa.

Morbo di crohn
Il MC è una infiammazione cronica che può colpire, in teoria, tutto il canale alimentare, ma che, in genere, si
localizza nell'ultima parte dell'intestino tenue (ileo) o nel colon o in entrambi (ileo-colite di Crohn).
I tratti colpiti sono interessati da una infiammazione che investe tutto lo spessore della parete intestinale, la
quale presenta gonfiore ed ulcerazioni. Il MC si presenta prevalentemente in età giovanile (18-30 anni) e in
terza età (65 anni), ma non sono rari casi in bambini e adolescenti. Le cause sono ignote, ma sicuramente
NON E' una malattia infettiva e, quindi, non è contagiosa, non è collegata all'alimentazione e non ha origine
psicosomatica (cioè non è dovuta a fattori psicologici individuali). Pur esistendo una predisposizione
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familiare per questa malattia, non si può definire tecnicamente "ereditaria": se un soggetto ne è affetto, vi è
una bassa probabilità che un figlio possa a sua volta contrarla.
Sintomi tipici, anche se piuttosto variabili da soggetto a soggetto, sono:

• dolore addominale;
• febbricola;
• diarrea;
• lesioni del cavo orale;
• anemia ferropriva;
• astenia e calo di peso (dovuti a malassorbimento).

Possono presentarsi anche disturbi extra-intestinali, come:

• artriti;
• lesioni oculari e cutanee;
• calcolosi renale;
• epatocolangiopatie.

Il Morbo di Crohn è caratterizzato dall'alternanza di periodi di attività e di remissione. La terapia medica,


non potendone eliminare la/e causa/e (in quanto ignota/e), mira a contenere i sintomi, ad evitare le
complicanze (piuttosto frequenti e più fastidiose della malattia stessa) e a prevenire le recidive. A seconda
dei casi, si adoperano diversi tipi di farmaci, quali:

• steroidi: prednisone, prednisolone, budesonide (in sperimentazione);


• antibiotici: ciprofloxacina, metronidazolo;
• antinfiammatori: mesalazina, sulfasalazina;
• immunosoppressori: mercaptopurina, azatioprina;
• anticorpi monoclonali: infliximab (in sperimentazione).

La risposta individuale alle cure varia a seconda della gravità dei casi, per cui è necessario che si abbia un
quadro completo della situazione, mediante analisi dei valori ematici e indagini endoscopiche, radiologiche
ed ecografiche. Tali tecniche d'indagine sono ormai giunte a un livello tale da essere assolutamente precise e
indolori, ma si raccomanda di rivolgersi a strutture adeguatamente attrezzate, con specialisti preparati
specificamente, sia all'esecuzione che alla interpretazione dei risultati.
Le complicanze, come detto, si rivelano spesso più gravi della malattia stessa. Nel caso del Morbo di Crohn,
la complicanza più comune è la stènosi (ostruzione) di un tratto più o meno esteso di tubo digerente, che può
comportare una occlusione intestinale, anche solo parziale (sub-occlusione). In questo caso i sintomi già
elencati si associano a nausea e vomito e spesso è necessario l'intervento chirurgico.
Complicanze più fastidiose sono ascessi e fistole. Un ascesso è costituito da una raccolta di materiale
purulento, spesso di provenienza intestinale, dovuto al fatto che la parete intestinale è interessata in tutto il
suo spessore dalla infiammazione; una fistola è una comunicazione anomala tra due parti di intestino o tra
intestino e cute che può svilupparsi da una cavità ascessuale. I sintomi di un ascesso o di una fistola
dipendono dalla loro localizzazione. Un ascesso di solito induce nel paziente febbre, dolore addominale e
senso di distensione alla parte interessata. Può risolversi spontaneamente o richiedere l'intervento chirurgico
(con il rischio di mancata rimarginazione che ciò può comportare). La cura di una fistola richiede quasi
sempre un intervento chirurgico, che consiste nella rimozione della parte di intestino interessata. In alcuni
casi la terapia medica, combinata con il riposo totale dell'intestino (alimentazione parenterale), può bastare.
Nel Morbo di Crohn la necessità del ricorso alla chirurgia viene valutata rispetto allo stato della malattia, alla
risposta del paziente alla terapia medica e confrontando la qualità di vita del paziente attuale e quella
prevedibile dopo l'eventuale intervento.

Colite ulcerosa
La Colite Ulcerosa (CU) è caratterizzata da una importante infiammazione del grosso intestino,il colon,
localizzata principalmente nel tratto terminale (retto-sigma). Il sintomo principale è costituito dalla diarrea,
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con feci miste a sangue e muco. Le scariche possono essere anche molto numerose, in relazione alla gravità
della malattia. In caso di localizzazione rettale (proctite) può comparire anche stipsi.
Per una corretta diagnosi sono necessari alcuni esami endoscopici, radiologici ed ecografici, tesi ad escludere
qualunque altra causa (infezioni, colite spastica ecc.). In caso di attacco severo, con più di sei scariche
diarroiche al giorno e disturbi generali, è necessario un trattamento intensivo in ospedale per alcuni giorni.
Come per il Morbo di Crohn, le cause della Colite Ulcerosa non sono note. Si riconosce nello stress un
fattore scatenante, ma verosimilmente l'origine della malattia è multifattoriale. Recenti studi propendono per
cause di tipo auto-immunitario, dando il via alla sperimentazione di farmaci immunosoppressori e di alcuni
anticorpi monoclonali.
Dovendosi limitare a contenere i sintomi, le forme moderate e lievi di Colite Ulcerosa possono essere curate
con applicazioni locali (clismi, supposte) di farmaci antinfiammatori (principalmente salazopirina), mentre i
casi più gravi possono essere portati in remissione mediante cortisonici (prednisone, prednisolone). Casi
refrattari vengono trattati contemporaneamente con salazopirina e cortisonici o con farmaci
immunosoppressori (mercaptopurina, ciclosporina, azatioprina). Anche nel controllo delle recidive si
utilizzano con successo mesalazina o salazopirina, in formulazioni gastroresistenti che liberano il principio
attivo proprio nel colon.
Il ricorso alla chirurgia è necessario raramente, ovvero quando la terapia medica è intervenuta tardivamente o
è inefficace per mancata risposta individuale del paziente. Anche nel caso di qualità di vita scadente da parte
del paziente si può optare per l'intervento, qualora si possa prevedere un giovamento. L'intervento consiste
nell'asportazione del tratto interessato. Tale tratto può comprendere anche tutto il colon, ma le ultime
tecniche chirurgiche consentono al paziente di recuperare una efficiente funzionalità senza ricorre a protesi o,
comunque, non per tutta la vita.

Terapia
L’eziologia delle malattie infiammatorie intestinali (IBD) è tuttora poco conosciuta ma si ritiene che il
sistema immunitario sia ampiamente coinvolto nella patogenesi sia del morbo di Crohn che della colite
ulcerosa. Sulla base di questo presupposto la terapia immunomodulante delle IBD ha trovato largo spazio nel
corso del tempo. Attualmente esistono almeno quattro approcci terapeutici basati sia su farmaci di sintesi
chimica o estrattivi, sia su proteine ricombinanti. Negli ultimi venti anni la tendenza di intervento terapeutico
si è spostata dai farmaci immunosoppressivi non-specifici agli immunomodulatori specifici nell’inibire le
funzioni linfocitarie, in particolare la capacità di bloccare la sintesi o la responsività alle citochine è divenuta
il punto focale della terapia delle IBD.
La mucosa intestinale rappresenta l’interface tra organismo e mondo esterno ovvero il confine tra la sterilità
degli organi e una miriade di agenti microbici potenzialmente patogeni. E’ dunque intuitivo che a questo
livello il sistema immunitario sia presente e funzionante per difendere l’ospite senza recare danno. Al
sistema immunitario è stato attribuito nel corso degli anni un ruolo sempre più importante nell’insorgenza e
nella cronicizzazione delle IBD anche se i meccanismi patogenetici non sono stati ancora chiariti
completamente. Sulla base di questa ipotesi si è dato inizio a terapie farmacologiche dirette a modulare le
risposte immunitarie in pazienti con IBD che hanno dato risultati clinicamente apprezzabili. Questo elaborato
ha lo scopo di riassumere sinteticamente lo stato dell’arte delle terapie immunomodulatorie che trovano
impiego nelle IBD. La classificazione dei farmaci immunomodulatori è stata redatta su basi funzionali
poiché l’eterogeneità delle classi chimiche di questi farmaci e la complessità delle risposte immunitarie che
l’organismo è capace di esprimere rendono estremamente difficile ricondurre ai minimi termini la strategia
che sottende l’intervento terapeutico in queste patologie.
-Anti-infiammatori steroidei
-Immunosoppressori citostatici non specifici
-Immunosoppressori specifici dell’attivazione linfocitaria
-Inibitori delle citochine infiammatorie
Questo tipo di classificazione ha lo scopo di avvalorare lo sforzo notevole che è stato compiuto negli ultimi
anni, sia a livello conoscitivo che applicativo, per giungere a terapie efficaci e riproducibili per le IBD.
L’approccio sperimentale si è andato sempre più perfezionando, passando dalle terapie non-specifiche con
farmaci citostatici a terapie basate su proteine endogene che le moderne tecniche di ingegneria genetica
rendono disponibili per l’impiego clinico sia come tali che modificate per esaltarne l’effetto farmacologico.

Quali fattori favoriscono l'insorgenza delle malattie infiammatorie intestinali o ne aggravano


l'andamento?
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E' abituale che i ricercatori che studiano malattie di cui non si conosce la causa, si concentrino sul tentativo
di identificare fattori che si associno ad un rischio aumentato di ammalarsi (o di avere una malattia più
grave), nella speranza che questo possa aiutare a risalire alla causa della malattia stessa.
Inevitabilmente, questo succede anche nel caso delle malattie infiammatorie intestinali: nella letteratura
scientifica compaiono pertanto molto di frequente nuove notizie riguardo associazioni fra la malattia di
Crohn o la colite ulcerosa da una parte, ed i più disparati fattori demografici, clinici, dietetici e via
discorrendo dall'altra. Poichè queste notizie sono spesso riprese da giornali divulgativi, e purtroppo non
sempre con la necessaria obiettività, è utile fare il punto della situazione.
In primo luogo, come molti dei pazienti già sanno, le malattie infiammatorie intestinali presentano una certa
tendenza alla familiarità: questo significa che i parenti prossimi (genitori, figli e fratelli) di un paziente
ammalato hanno un rischio di ammalarsi più alto rispetto al resto della popolazione, e questo rischio è,
all'incirca, pari all'uno per cento. Va subito notato che questo non significa che si tratti di malattie
"ereditarie" nel vero senso della parola (non si trasmettono cioè dai genitori ai figli con caratteri genetici) e
che il rischio di ammalarsi di un parente di un soggetto ammalato, se pur è aumentato, resta comunque basso
in termini assoluti: in pratica, 99 parenti su 100 di un soggetto ammalato non si ammaleranno mai. Non
esiste quindi motivo di allarmarsi per il destino dei propri congiunti, ma è sufficiente consigliar loro di farsi
visitare il più presto possibile qualore dovessero iniziare ad accusare disturbi intestinali.
Un fattore molto importante è invece rappresentato dal fumo di sigaretta: numerosi studi hanno
inequivocabilmente dimostrato che i fumatori hanno un rischio di ammalarsi di malattia di Crohn molto più
alto dei non fumatori. Non solo: i pazienti con malattia di Crohn che continuano a fumare hanno
riacutizzazioni della malattia più frequenti e se operati, tendono a riammalarsi più in fretta e più spesso.
Sembra inoltre che anche il fumo passivo (cioè il convivere con una persona che fuma pur non essendo a
propria volta fumatore) sia a questo proposito molto dannoso.
E' quindi molto importante che i pazienti con malattia di Crohn si astengano dal fumare.
Al contrario, la colite ulcerosa insorge più spesso nei non fumatori e ancora di più negli ex-fumatori, ed i
pazienti ammalati di colite ulcerosa che fumano, pare abbiano meno riacutizzazioni rispetto a chi non fuma.

Per quanto riguarda l'utilizzo dei contraccetivi orali, è effetivamente vero che le donne che ne fanno uso
hanno rischio di ammalarsi di malattia di Crohn (per la colite ulcerosa il problema non esiste) leggermente
più alto rispetto alle donne che non ne fanno uso.
Questo fatto è considerato interessante, dal punto di vista scientifico, come spunto per tentare di capire la
vera cusa della malattia, ma non deve in alcun modo generare allarme o indurre le pazienti a modificare il
loro comportamento
A prova di ciò, un'accurata revisione dei dati disponibili (pubblicata su un'autorevole rivista inglese) ha
dimostrato che il rischio di ammalarsi di una donna che utilizza questi farmaci è soltanto di una volta e
mezza più alto rispetto a quello di una donna che non li assume: tradotto in cifre, se una donna che non
assume i contraccettivi ha ogni anno 2 probabilità su centomila di ammalarsi, una che li assume ne ha 3 su
centomila (un rischio si, ma comunque bassissimo!).
Ancora più debole è il sospetto che l'uso dei contraccettivi possa aggravare l'andamento della malattia di
Crohn; alcuni studi hanno infatti suggerito una eventualità di questo tipo, ma altri l'hanno esclusa.
Un altro fattore importante è rappresentato dall'utilizzo dei cosidetti FANS o "farmaci antinfiammatori non
steroidei", vale a dire quell'ampia categoria di medicinali che vengono comunemente utilizzati a scopo
antinfiammatorio, antidolorifico e antifebbrile.
E' stato dimostrato che il loro utilizzo (che beninteso, in molte situazioni è assolutamente irrinunciabile) può
causare delle forme di colite o di enterite molto simili alla colite ulcerosa e alla malattia di Crohn. Inoltre nei
pazienti affetti da M.I.C.I. l'assunzione di questi farmaci sembra possa favorire (anche se non tutti sono
d'accordo) una riacutizzazone.
Per questo viene raccomandato ai pazienti di non assumere mai di propria iniziativa farmaci antidolorifici o
"antinfluenzali", ma di consultare prima il proprio medico, per essere consigliati per il meglio.
Per quanto riguarda la dieta, nonostante molte ricerche al riguardo, non è mai emerso nulla di sostanziale: nel
corso degli anni molti alimenti sono stati prima "incriminati" e successivamente "scagionati" dall'accusa di
favorire l'insorgenza delle M.I.C.I.: ultimo a salire sul banco degli imputati è stato il "fast-food" che in uno
studio è stato associato ad un elevato rischio di ammalarsi sia di malattia di Crohn sia di colite ulcerosa: in
mancanza di ulteriore conferme, tuttavia, anche questa segnalazione non deve essere presa sul serio.
Anche la teoria, abbastanza di moda qualche hanno fa, secondo cui molte riacutizzazioni della malattia di
Crohn potrebbero essere scatenate dalla intolleranza ad alcuni cibi (e, quindi, identificare e eliminare dalla
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dieta questi cibi potrebbe migliorare le cose) non è mai stata confermata e, anzi, sembra essere smentita dagli
studi più recenti.
Un pò più credibile sembra il fatto che la malattia di Crohn insorga più di frequente in chi assume molti
zuccheri raffinati e meno di frequente in chi assume molte fibre vegetali, ma non è chiaro come debba essere
interpretato questo fatto.
In ogni caso, non sembra che una modifica delle abitudini dietetiche nei pazienti già ammalati possa influire
sull'andamento della malattia.
Infine si può ricordare (ma è solo una curiosità) che le persone sottoposte ad asportazione dell'appendice pare
si ammalino di colite ulcerosa meno spesso di quelle che non hanno subito questa operazione: anche in
questo caso, se il dato può essere interessante per gli studiosi dell'argomento, non ha alcuna rilevanza ai fini
pratici (l'appendice va asportata soltanto quando è necessario!).
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CAP5 LE VASCULITI
Le vasculiti sono malattie infiammatorie dei vasi sanguigni, con restringimento del lume e conseguente
ischemia dei tessuti irrorati a valle. La sintomatologia può essere molto vasta perché si tratta di malattie che
colpiscono tutti i tipi di vasi e di arterie. Possono essere una malattia a parte, oppure la manifestazione
secondaria di un altro processo patologico.

5.1 CLASSIFICAZIONE E PATOGENESI

Classificazione
• Vasculiti sistemiche necrotizzanti
o Panarterite nodosa
ƒ PAN classica
ƒ Poliangioite microscopica
o Malattia di Churg-Strauss
o Sindromi da overlap
• Granulomatosi di Wegener
• Arterite temporale
• Arterite di Takayasu
• Vasculiti da ipersensibilità a stimoli esogeni (prevalente componente cutanea)
o Porpora di Schonlein-Henoch (da agenti infettivi)
o Malattia da siero
o Da farmaci
• Vasculiti da ipersensibilità a stimoli endogeni (Ab conto antigeni self)
o Vasculiti associate a neoplasie (soprattutto linfoidi)
o Vasculiti associate a connettiviti (LES, artrite reumatoide, sclerodermia, sindrome di Sjogren)

Patogenesi
Si pensa che la maggior parte di queste malattie riconosca una componente immunogenetica, in particolare
sembra comunemente implicato il ruolo degli immunocomplessi e la loro deposizione sulla parete del vaso,
anche se non si riesce ad identificarlo con certezza in tutte le malattie.

• Danno da immunocomplessi: in eccesso di Antigene, si formano complessi che precipitano nella parete
dei vasi, favoriti dai processi di flogosi infiammatoria. A questo livello, essi provocano la liberazione di
sostanze vasoattive attraverso il rilascio di C5a. La presenza di questo fattore chemiotattico e la
permeabilità vascolare rendono possibile l’infiltrazione di cellule neutrofile che fagocitano gli
IMMUNOCOMPLESSI dando luogo ad un danno endoteliale. Quando il processo si cronicizza,
abbiamo una infiltrazione di cellule stabile e visibile.
• Danno da immunità cellulo-mediata di tipo granulomatoso. La formazione di granulomi può anche
essere innescata dalla produzione di IMMUNOCOMPLESSI: se attivate dall’INF, le cellule endoteliali
possono presentare le MHC II, e secernere IL1 con attivazione dei CD4. A favorire l’aggregazione delle
cellule monocitiche necessarie alla formazione del granuloma provvederebbero le stesse cellule
endoteliali, con l’espressione delle ELAM-1 e VCAM-1.
• ADCC diretta contro le cellule endoteliali
• Azione dei CTL contro le cellule endoteliali
• Degranulazione dei neutrofili indotta dagli ANCA: Gli antineutrophil cytoplasmatic antibodies, sono
Ab diretti contro alcune proteine dei neutrofili che sono presenti nella malattia granulomatosica di
Wegener e in altre malattie. Ci sono due tipi di ANCA: i c-ANCA, affini ad antigeni citoplasmatici come
la proteinasi 3 (serina-proteasi) e i p-ANCA, affini ad antigeni nucleari o perinucleari, come la
mieloperossidasi. Sebbene non si capisca come vengono prodotti, gli ANCA possono contribuire alla
patogenesi delle vasculiti. Il fatto è che nei neutrofili attivati la proteinasi 3 è esposta nella membrana e
può essere attivata dagli ANCA, e a sua volta attivare la degranulazione neutrofila e la produzione
di radicali dell’ossigeno che mediano il danno tissutale.
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Oltre a questi processi esiste una serie di fattori di varia natura, compresa una predisposizione individuale.
Quando gli IMMUNOCOMPLESSI sono coinvolti nella malattia, allora la capacità dell’organismo e del
sistema reticolo endoteliale di rimuoverli è ovviamente determinante.

5.2 VASCULITI NECROTIZZANTI SISTEMICHE

PANARTERITE NODOSA CLASSICA


Vasculite necrotizzante sistemica che colpisce le arterie muscolari di piccolo e medio calibro, senza
interessare le arterie polmonari.
Una variante è la poliangioite microscopica in cui c’è scarsa o nulla la deposizione di immunocomplessi, ma
è più frequente la glomerulonefrite e la malattia dei capillari del polmone.

Fisiopatologia
Lesioni segmentari delle arterie che si estendono per pochi mm attorno alle biforcazioni e alle ramificazioni,
ma possono diffondere nei piani circostanti ed interessare le vene adiacenti, anche se questo non fa
parte del quadro della malattia classica.

Nella fase acuta, i neutrofili infiltrano tutti gli strati della parete vasale e le aree vicino al vaso. La parete
degenera, e si ha una proliferazione dell’intima. Il quadro è quello della necrosi fibrinoide, con
compromissione della pervietà del lume vascolare e trombosi, infarti e in alcuni casi emorragie. La
riparazione di queste lesioni può decorrere con deposizione di collagene, che produce un ulteriore
restringimento del lume vascolare.

• Sono caratteristiche e patognomoniche le dilatazioni aneurismatiche della parete, anche di 10mm


di diametro
• Non sono caratteristiche e non si trovano mai le infiltrazioni di eosinofili, tipiche della angioite
allergica e della granulomatosi.
Gli elementi patogenetici dispongono a favore di una deposizione di immunocomplessi, e pare che ci sia
almeno in una parte dei pazienti una sovrapposizione con l’infezione del virus dell’epatite B.

Clinica
Non interessa le arterie polmonari, ma può dare diverse manifestazioni sistemiche:
• Rene: insufficienza renale e ipertensione. Lesioni di natura arteritica, ma nel 35% dei casi glumerulitica.
• Muscoloscheletrico: Artrite, artralgie e mialgie
• SNP: mononeurite multipla
• Digerente: dolore addominale, nausea, vomito, sanguinamento, infarto, perforazione intestinale,
colecistite, infarto di pancreas e fegato.
• Cute: Rash, porpora, noduli, infarti cutanei e fenomeno di Raynaud
• Cuore: ICC, infarto, pericardite
• Genitali: dolore testicolare, ovarico o dell’epididimo.
• SNC: alterazioni mentali, accidenti vascolari celebrali e convulsioni

Possono essere presenti, nel 50% dei pazienti, sintomi sistemici come febbre, perdita di peso, malessere
generale, anoressia, cefalea, dolori addominali e mialgie.

• Laboratorio:
ƒ Aumento della VES, leucocitosi con neutrofilia.
ƒ ANCA positivi nei pazienti con poliangioite microscopica
ƒ Arteriografia positiva per alterazioni aneurismatiche

Diagnosi
Dimostrazione bioptica delle lesioni arteriose e osservazione di aneurismi all’arteriografia. La biopsia degli
organi sintomatici è spesso positiva, mentre quella alla cieca di organi silenti è per lo più negativa.
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Terapia
Prednisolone + ciclofosamide

ANGIOITE GRANULOMATOSA ALLERGICA (SINDROME DI CHURG-STRAUSS)


E’ una malattia simile alla panarterite nodosa, ma si distingue da essa per una serie di parametri, come:
• Elevata frequenza dell’interessamento polmonare
• Interessa anche le venule e i vasi sanguigni di tutti i tipi e le dimensioni
• Ci sono granulomi nella parete vascolare
• Ci sono infiltrati tissutali e nei granulomi stessi di eosinofili
• C’è una forte associazione con asma grave
• C’è eosinofilia periferica

Fisiopatologia
La caratteristica della malattia sono i granulomi con infiltrato eosinofilo, che si localizzano a livello
tissutale, ma anche dentro alle pareti dei vasi, e che sono diffusi per lo più nel polmone, in netto contrasto
con la PAN. La sua patogenesi non è chiarita, ma sembra associabile a fenomeni di ipersensibilità e senza
dubbio ad una alterazione immunitaria.

Clinica
• Sintomi non specifici analoghi alla PAN
• Interessamento polmonare: dominano il quadro clinico con attacchi asmatici e infiltrati polmonari.
• Lesioni cutanee: circa nel 75% dei pazienti, con noduli e porpora
• Sintomi sistemici come nella PAN, ma senza l’interessamento polmonare
• Rene: in genere meno grave della PAN e meno frequente
• Eosinofilia marcata (anche >1000u/ul)
• Positività per i p-ANCA

Diagnosi
Associazione di lesione bioptica di tipo granulomatoso con infiltrato eosinofilo e eosinofilia periferica. La
prognosi è sfavorevole se non trattata, per il coinvolgimento del cuore e del polmone

Terapia
Con glucocorticoidi si sopravvive a 5 anni in più del 50% dei casi.

SINDROME POLIANGIOITICA MISTA


Si da questo definizioni a tutte le condizioni di vasculite necrotizzante sistemica che non rientra in nessuna
forma classificativa precisa.

5.3 GRANULOMATOSI DI WEGENER


Malattia granulomatosa ben definita, abbastanza rara, caratterizzata da granulomi nelle vene, arterie e vie
aeree superiori e inferiori. Si distingue dalla malattia di Churg-Strauss per:
- La mancanza di eosinofilia periferica e di infiltrati eosinofili nel granuloma.
- L’interessamento delle vie aeree superiori
- Il grave e predominante interessamento renale
La malattia si manifesta con una serie di noduli cavi, multipli e bilaterali nel polmone, che possono dare,
per la loro genesi vascolare e quindi vicino ai bronchi, ostruzioni e atelettasie, prodotte anche dal processo
fibrotico di riparazione.

Patogenesi
Correlata probabilmente ad una ipersensibilità ad antigeni esogeni che entrano nelle vie aeree o endogeni che
qui si localizzano. Lo stato di portatore di S. Aureus si associa ad una maggior incidenza della malattia. Il
fatto che si localizzi a livello prevalente delle vie aeree o del polmone può far pensare ad una patologia da
corpo estraneo. Molti pazienti sono c-ANCA positivi. Aumenta costantemente nei granulomi polmonari
individuati il numero dei neutrofili.
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Clinica
Triade sintomatologica: Interessamento delle vie respiratorie superiori, inferiori e del rene.

• URW: sinusiti, dolore dei seni paranasali, secrezione purulenta ed ematica dal naso, con o senza
ulcerazioni della mucosa; otite media sierosa da blocco del condotto di Eustachio; perforazione del setto
nasale
• LRW: tosse, emottisi, dispnea e disturbi toracici; nel 16% dei pazienti stenosi subglottidea con grave
ostruzione delle vie aeree minacciosa per la vita del paziente.
• Occhi: dalla congiuntivite alla dacriocistite, sclerite e uveite.
• Cute: papule, macule e noduli ulcerati tutti con componente granulomatosa.
• SNC: neurite dei nervi cranici e più raramente vasculite encefalica.
• Cuore: 8% dei pazienti con pericarditi e vasculite delle coronarie
• Rene: di solito domina il quadro clinico. Inizia con una glomerulonefrite con proteinuria, ematuria e
cilindri ialino-epiteliali, e progredisce con insufficienza renale progressiva.
• Laboratorio: VES elevata, modesta anemia, iperglobulinemia, titolo di fattore reumatoide aumentato.
90% dei pazienti sono c-ANCA positivi.

Diagnosi
Dimostrazione di una infiammazione granulomatosa in pazienti con alto titolo di c-ANCA e interessamento
clinico delle vie aeree superiori ed inferiori, specie in presenza di glomerulonefrite in fase attiva.
Gli ANCA possono restare positivi anche per molti anni dopo la malattia senza indicare il segno di una
recidiva.

Terapia
Una volta si moriva; la terapia con glucocorticoidi ha indotto qualche miglioramento. Oggi si controlla la
malattia con la ciclofosfamide, che riesce a mantenere la remissione completa senza deprimere
eccessivamente il sistema immune (neutrofili >1500). Il 75% dei malati ottiene remissione completa, di
questi la metà va incontro a recidive, di solito ancora trattabili. Il limite è lo sviluppo di lesioni permanenti
soprattutto al rene, che possono portare alla necessità di un trapianto renale.
Nei casi di intolleranza al farmaco, è possibile sostituirlo con il metotrexate.

5.4 ARTERITE TEMPORALE


Arterite delle arterie di grosso e medio calibro, che colpisce caratteristicamente i rami della carotide, in
particolare l’arteria temporale, da cui il nome.
Malattia ad incidenza legata a particolari aplotipi HLA (DR4, DRB1*04), ed associata alla polimialgia
reumatica.

Fisiopatologia
Arterite estesa a tutta la parete delle arterie di calibro grande, con infiltrato di cellule mononucleate e
formazione di cellule giganti. Sebbene sia clinicamente più evidente nella temporale, colpisce tutte le arterie.
C’è una intensa proliferazione dell’intima e frammentazione della lamina elastica interna, che ha come
conseguenza il restringimento del lume e le lesioni ischemiche degli organi a valle.
L’eziologia autoimmune è suggerita da particolari pattern di produzione di citochine e dalla presenza di
linfociti T con specifici recettori antigenici, e ci sono segni che indicano la presenza di un clone di T
reattivi contro antigeni della parete vascolare.

Clinica e laboratorio
Febbre, anemia, VES elevata e cefalea in pazienti anziani; manifestazioni corollarie sono malessere,
affaticamento, anoressia e perdita di peso. La malattia è associata alla polimialgia reumatica, con rigidità e
dolore dei muscoli del collo e delle spalle, del tratto lombosacrale, delle anche e delle cosce.
Nei pazienti con arterite della temporale il segno più importante è la cefalea, con ispessimento nodulare
dell’arteria, e interessamento oculare dovuto a neurite ischemica del nervo ottico. Sebbene questa
manifestazione possa portare alla cecità, si hanno disturbi oculari per parecchi mesi prima che la malattia
degeneri in quel senso.
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VES elevata, lieve anemia, aumento della ALP e livelli elevati di IgG sono gli elementi di laboratorio più
comuni.

Diagnosi e terapia
Sintomi e segni descritti. Biopsia della temporale con prelievo di un segmento di qualche cm se le lesioni
non sono evidenti.
La malattia e le sindromi associate sono particolarmente sensibili alla terapia steroidea con prednisone.

5.5 ARTERITE DI TAKAYASU


Malattia infiammatoria stenosante dell’arco aortico e delle sue diramazioni, per questo detta anche sindrome
dell’arco aortico. La malattia predilige le diramazioni aortiche, succlavia in testa, e può colpire anche la
polmonare. Può anche interessare la polmonare e provocare la parziale occlusione della renale, con
conseguente ipertensione.
Morfologicamente c’è un infiltrato di cellule mononucleate e occasionalmente giganti in tutto lo spessore
della parete arteriosa. L’intima prolifera con fibrosi, la media prolifera e va incontro a processi di
vascolarizzazione e rottura della lamina elastica. Il risultato è la progressiva e irreversibile occlusione del
vaso.

Dal punto di vista clinico, si distinguono due gruppi di sintomi e segni: uno aspecifico, comprendente
malessere, febbre, anoressia e affaticamento, e uno comprendente tutti i segni derivati dall’occlusione del
distretto interessato.
Questa malattia perciò ha vari quadri di insorgenza a seconda delle arterie che interessa:
• Succlavia: claudicatio dell’arto superiore, scomparsa del polso succlavio. Circolo anastomotico con la
carotide interna tramite il poligono di Willis e la basilare. Lipotimia ogni volta che si usa l’arto del
vaso leso.
• Carotide comune: disturbi del visus e sincope. Circolo anastomotico inverso a quello precedente.
• Aorta addominale: disturbi ischemici dell’intestino, ipertensione, circolo anastomotico intercostale con
soffi da ipercinesi nella parte alta del torace posteriore
Interessa anche vertebrale, carotidi, tronco celiaco, mesenteriche, iliaca, polmonare. Il decorso può
essere improvviso e fulminante oppure stabilizzarsi e rendersi responsabile di una serie di manifestazioni
croniche e di alterazioni del circolo.

Si diagnostica per lo più nelle donne giovani, che presentano variazioni dei polsi periferici e anisosfigmia, ed
è confermata dalla presenza di lesioni angiografiche.
Il decorso è variabile e si possono avere remissioni spontanee. La mortalità è varia, ma la terapia associata
con prednisone eangioplastica chirurgica la abbassa al di sotto del 10%.

5.6 VASCULITI DA IPERSENSIBILITÀ A STIMOLI ESOGENI


Sono dette anche vasculiti con prevalente interessamento cutaneo¸ perché hanno come comune
denominatore l’interessamento dei vasi della cute. La maggior parte di queste forme ha come responsabilità
una risposta di ipersensibilità ad un antigene esogeno, che provoca una risposta di tipo linfocitolitico. Il
quadro comunque può avere anche molte variazioni, in relazione al fatto che non sempre interessa solo la
cute, ma anche gli altri tessuti, anche se in misura minore rispetto alle vasculiti necrotizzanti sistemiche.

Il tipico riscontro è la vasculite dei piccoli vasi, principalmente delle venule post-capillari. Nella fase
acuta è prevalente un infiltrato di neutrofili nella parete, mentre nelle fase cronica si riscontrano per lo più
monociti e a volte eosinofili. I detriti dei neutrofili della fase acuta danno un caratteristico quadro detto
leucocitoclasia.

La patogenesi è praticamente sempre legata ad un complesso immune che si forma con un antigene esogeno.
Le forme di vasculite associate ad uno stimolo endogeno sono una conseguenza della presenza di
anticorpi contro un antigene self, e questo provoca oltre alla vasculite lo sviluppo di una patologia ben
più grave. Queste malattie, che hanno una vasculite da ipersensibilità come associazione, verranno
trattate a se e sono:
- LES
- Sclerodermia
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- Artrite reumatoide
- Sindrome di Sjogren

Il quadro predominante è quello cutaneo, e si manifesta con porpora palpabile, e anche altre lesioni come
macule, papule, noduli, ulcere, vescicole, bolle, orticaria cronica o ricorrente. Si può avere anche
interessamento viscerale, ed anche nei pazienti con interessamento cutaneo e basta c’è spesso febbre,
malessere, astenia e anoressia.
Le lesioni sono più ricorrenti sulle zone declivi (per via della pressione idrostatica che grava sulle venule
postcapillari), come piedi e zona sacrale. Ci può essere edema e in corrispondenza delle lesioni croniche non
è incomune trovare iperpigmentazione.

Si diagnosticano con la biopsia vascolare, e attraverso l’anamnesi e tutta una serie di prove specifiche si
cerca di stabilire l’antigene esogeno implicato o la presenza contemporanea di un processo infiammatorio
sistemico.
Nella maggior parte dei casi si risolvono spontaneamente, ma altre forme hanno un quadro altalenante con
remissioni parziali. In genere non hanno una terapia soddisfacente che ne influenzi il decorso, ma la loro
relativa benignità non le rende minacciose per la vita del paziente. Nel caso di interessamento d’organo, la
malattia deve essere trattata con prednisone e se non basta con ciclosfamide, come le vasculiti sistemiche.

PORPORA DI SCHONLEIN-HENOCH
Porpora della cute (specie glutei e arti inferiori), associata con artralgie e interessamento gastroenterico.
Correlata alla deposizione di immunocomplessi di IgA e antigeni vari, derivati da infezioni delle vie aeree,
farmaci, alcuni alimenti e punture di insetto.

E’ una malattia tipicamente pediatrica, che si manifesta nella metà dei casi con sintomi cutanei, articolari e
intestinali. Avremo quindi rispettivamente porpora palpabile dei glutei e degli arti inferiori, artralgie in
assenza di una vera artrite, coliche addominali con nausea, vomito, diarrea o dissenteria ma anche stipsi.
Spesso c’è anche un coinvolgimento renale con ematuria e proteinuria microscopica, che in genere si risolve
spontaneamente, ma può anche complicarsi in una glomerulonefrite acuta che è la principale causa di morte
associata a questa malattia. Lieve leucocitosi e lieve aumento delle IgA.
La prognosi è eccellente e la maggior parte dei pazienti guarisce da solo. Indicato l’uso degli steroidi.

VASCULITE FARMACO-INDOTTA
Porpore palpabili, di solito delle estremità ma anche di altre aree, non infrequentemente associate a
vescicole, ulcere od orticaloidi.
Possono verificarsi anche reazioni sistemiche e non è infrequente la febbre e il malessere generale. Tra i
farmaci responsabili ci sono allopurinolo, tiazidici, penicillina, sulfonamidici, fenitoina.

VASCULITE DA SIERO
Il primo contatto con proteine eterologhe o con alcuni farmaci che hanno una reattività simil-siero, produce
entro 7-10 giorni una serie di manifestazioni come febbre, orticaria, poliartralgie e linfoadenopatia,
ovviamente legate alla deposizione di immunocomplessi. La malattia si manifesta in capo a 2-4 giorni alla
seconda esposizione all’antigene. Alcuni pazienti possono presentare una venulite cutanea tipica che
raramente evolve in una vasculite sistemica.

VASCULITI DA MALATTIE INFETTIVE


Occasionalmente si può manifestare una vasculite leucocitoclastica con prevalente interessamento cutaneo ed
estensione rara ad altri organi in corso di endocardite batterica subacuta, infezione da EBV, epatite cronica
attiva, HIV e colite ulcerosa.
La vasculite può anche essere associata a tumori maligni, specie linfoidi e reticolocitari. Importante
l’associazione fra la tricoleucemia e la PAN classica. In genere queste malattie interessano particolarmente
la cute, ma non è raro che possano “sconfinare” ad un coinvolgimento sistemico. Sebbene possano anche
essere aggressive, solitamente la neoplasia che le ha originate costituisce la causa di morte dei pazienti
interessati.
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5.7 MALATTIA DI BEHCET E CRIOGLOBULINEMIE

MALATTIA DI BEHCET
Malattia sistemica che esordisce con ulcere ricorrenti nei genitali, cavo orale e interessamento oculare.
Colpisce i giovani adulti, con manifestazioni peggiori nei maschi. E’ una malattia autoimmune ad eziologia
sconosciuta, in cui la lesione principale è costituita dalla vasculite, e nel 50% dei casi si trovano Ab contro la
membrana basale della mucosa orale e immunocomplessi.
La manifestazione principale sono le ulcere del cavo orale, e sono anche il primo criterio diagnostico.
Hanno un diametro di circa 2-10 mm, fondo profondo e centralmente un’area necrotica giallastra; si
distribuiscono a chiazze o a grappoli, nel cavo orale e nei genitali.
Nella cute è presente follicolite, esantema, eritema nodoso e raramente vasculite. L’interessamento oculare è
la manifestazione più temuta, perché si può avere irite, uveite, e neurite ottica. Talvolta è presente
sintomatologia trombotica imponente, come embolia polmonare e trombosi della cava superiore, con quadri
drammatici. L’interessamento delle arterie, con aortite o aneurismi è raro (5% dei pazienti arterite della
polmonare). Possibile anche l’interessamento del SNC con ipertensione endocranica benigna.

Il decorso è benigno, la malattia si attenua con il tempo. Se si esclude l’interessamento del SNC, la
complicazione più grave è la cecità. La terapia è del tutto sintomatica.

CRIOGLOBULINEMIE

Malattie legate all’accumulo di prodotti immunologici che precipitano a freddo. Caratterizzate da una
particolare forma di vasculite che si manifesta soltanto con l’esposizione alle basse temperature (e quindi è
tipica delle estremità), sono divise in 3 gruppi eziopatologici:
• Tipo 1: crioglobuline di tipo M prodotte in maniera monoclonale. La crioglobulinemia monoclonale si
associa alla macroglobulinemia di Waldenstrom, alle leucemie linfatiche e ai linfomi. La malattia
presenta porpora degli arti inferiori, infarti emorragici delle dita della mani e dei piedi, sindrome da
iperviscosità. La malattia peggiora alle basse temperature e in seguito alla disisdratazione. Precipitati
delle globuline nei vasi dermici, nel polmone e nel SNC, nei glomeruli renali.
• Tipo 2: forma mista essenziale, secondaria alla infezione cronica da HCV, nella qual condizione si
producono una buona quantità di ab contro gli antigeni del virus, probabilmente della classe IgM. Il
quadro clinico è caratterizzato da antigenemia, vasculiti ed epatomegalia.
• Tipo 3: forma in cui si producono una notevole quantità di ab contro antigeni self, come ad esempio il
DNA, in corso di malattie immunitarie sistemiche. Oltre agli effetti della malattia stessa, si producono in
queste malattie una serie di manifestazioni legate alla presenza di immunocomplessi circolanti. Un altro
tipo è quello in cui si produce fattore reumatoide, una IgM anti FC delle IgG, che legandosi con esse fa
produrre complessi immuni.
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CAP6 GRANDI MALATTIE ARTROSICHE


6.1 INTRODUZIONE ALLA MALATTIE REUMATICHE
Le malattie reumatiche sono malattie ad eziologia infiammatoria che colpiscono le articolazioni, i tessuti
extrarticolari, il connettivo. Sono associate ad una forte dolorabilità e ai segni di una eziologia
immunitaria. Sono malattie cronico-degenerative tipiche della senescenza con una incidenza del 10% ed una
grande rilevanza nel budget del SSN.

Artrite: processo infiammatorio a carico delle articolazioni. Si presenta con Arrossamento, Calore e
Gonfiore della parte lesa, e con artalgia, cioè dolore articolare. E’ una delle possibili cause di artrosi.
Artrosi: processo cronico degenerativo di una articolazione, causato da artrite o da varie cause, che si
presenta con Dolore, Invalidità, Deformità e Rigidità.

Esame del liquido sinoviale Iter patogenetico delle artrosi


• Visivo: Infezione – trauma – disordine immunologico - neoplasia
o Densità ottica: torbido o opalescente
o Colore: può evidenziare emartro
(trauma, neoplasia o scorbuto) Attivazione dei mastociti e macrofagi
• Cellularità: se > di 50-60 mila/mm3 indica
una infiammazione probabilmente infettiva. Ipotalamo Fegato Midollo
• Viscosità: diminuisce nell’infiammazione per
la depolimerizzazione della matrice.
• Cristalli:
Febbre aumento attività
o Urato monosodico Æ GOTTA linfocitaria
o Pirof. di Ca++ Æ PSEUDOGOTTA
o Colesterolo Surrene
o Steroidi
V.E.S.
• Materiale immunologico: Ab anti nucleo, aumentata
immunocomplessi, componenti del C’. Gli
immunocomplessi circolanti sono poco
indicativi perché le tecniche per rilevarli sono Cortisolo
poco sensibili e limitate.
Proteine della fase acuta
• VES: circa nel 25% dei pazienti è indice di un (dosaggio indicativo di
processo reumatico. Il suo andamento è processo artritico)
importante per il monitoraggio.
• Proteina C reattiva: è una delle proteine della fase acuta, e il suo dosaggio cresce con una cinetica che
rispecchia molto fedelmente l’andamento del processo infiammatorio. Invece si muove molto poco nelle
malattie immunitarie sistemiche, a differenza della VES, e permette una diagnosi differenziale.
• Fattore reumatoide: Autoanticorpo IgM diretto contro le FC delle IgG umane. Si rivela efficacemente
con la reazione di Waaler – Rose, per via del suo potere agglutinante. La tecnica di WR usa emazie di
montone incubate con siero eterologo di IgG di coniglio, contro le quali emazie si testa la capacità
agglutinante del siero del paziente. Il test al lattice, fatto con IgG umane, è più sensibile ma meno
specifico della WR. Il limite del fattore reumatoide è la sua distribuzione anche in altre malattie.
• T.A.O.S. : Titolo anticorpale anti O-streptolisina. Segno di infezione streptococcica che ha alcune
importanti complicazioni reumatiche: (poliartite, eritema marginato). La febbre reumatica, malattia
principale legata alla cross reattività delle proteine M dello streptococco beta emolitico di gruppo A, ha
la sua massima espressione nel danno endocardico (lambisce le articolazioni e morde il cuore), mentre la
artrite reumatoide fa esattamente l’opposto.

6.2 ARTRITE REUMATOIDE

Genetica ed eziologia
Malattia sistemica cronica, ad eziologia sconosciuta. Caratterizzata da molte manifestazioni cliniche, ma
principalmente da una sinovite infiammatoria persistente che interessa le articolazioni in modo
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simmetrico. L’artrite è simmetrica, erosiva e deformante. Ha un decorso molto variabile, da forme


destruenti e progressive, senza remissione, a forme più blande e legate ad un decorso intermittente.
Prevalenza 0,8% F>3M, prevalenza aumenta con l’età (picco di incidenza fra 35 e 50 anni).
Predisposizione genetica associata all’HLA-DR4, ma coadiuvata da fattori ambientali, come il clima e il
grado di urbanizzazione del territorio.

La causa della malattia rimane sconosciuta, ma ci sono varie teorie:


• Patogenesi infettiva: la malattia è legata alla produzione di una infiammazione cronica nella sinovia.
Questo evento a sua volta si verifica con diversi meccanismi, come sotto elencato. Gli agenti infettivi
chiamati in causa sono ubiquitari, vista la diffusione della malattia, e sono Mycoplasma, EBV, CMV
ecc…
o Infezione cronica diretta della sinovia
o Sequestro di antigeni virali nella sinovia
o Risposta immune produce Ab cross-reattivi
o Risposta immune fa esporre nelle articolazioni neo-antigeni.

• Eziologia da superantigeni, molecole che attiverebbero particolari tipi HLA, e che appartengono a
stafilococco, streptococco, e Mycoplasma. Il meccanismo di questi superantigeni e sconosciuto.

Istologia e patogenesi
• La lesione più precoce è un aumento delle cellule che rivestono la cavità articolare, associata ad un
danno microvascolare. Il passo successivo è una infiltrazione perivascolare dei linfociti, e una
ulteriore proliferazione delle cellule della sinovia, che cominciano a protrudere nella cavità articolare
sottoforma di villi (questo sia per la proliferazione cellulare che per l’edema che si crea nella sinovia). Le
cellule dell’endotelio dei vasi sinoviali mostrano segni di modificazioni tipiche delle citochine
permeabilizzanti.
• Le cellule infiltrate sono soprattutto linfociti T, con CD4>CD8, spesso esprimenti il complesso TCR
gamma-delta e il CD69, e linfociti B che si trasformano in plasmacellule, iniziando localmente una
forte produzione di ab. Inoltre nella AR i fibroblasti che ricoprono la sinovia sono particolarmente attivi
nel produrre proteine che degradano la matrice cartilaginea (catepsina e collagenasi). Nelle aree dove
c’è erosione ossea, sono attivi anche gli osteoclasti.
Le manifestazioni della artrite reumatoide, sia sistemiche che locali, sono mediate da una serie di citochine
prodotte a livello articolare dalla popolazione cellulare infiammatoria. Per vari motivi, fra cui l’importanza
dell’aplotipo HLA e la sensibilità alla ciclosporina, si ritiene che gli iniziatori del processo produttivo di
citochine siano i linfociti CD4. Fra queste importanti sono:
• IL-1, INF: Attivazione condrociti ed osteoclasti Æ distruzione articolare
• Il-1, TNF, IL6 Sintomi sistemici (febbre, malessere, astenia, aumento proteine fase acuta)
• GM-CFS, IL2, IL12, IL5: attivazione delle cellule infiammatorie e mantenimento del processo
• Attivazione dei linfociti B Æ produzione di ab e quindi di immunocomplessi Æ vasculite sistemica.
La produzione di immunoglobuline e di fattore reumatoide produce anche una attivazione del
complemento, con mantenimento del processo infiammatorio grazie alle citochine C3a e C5a.

Oltre a questo processo cronico infiammatorio del tessuto della sinovia si ha un processo altrettanto potente e
anche peggiore di infiammazione acuta del liquido sinoviale. Esso si manifesta con un essudato ricco in
PMN e in monociti, prodotto da vari fattori:
• Anafilotossine del complemento
• IL1, TNF, leucotriene B4
• PGE2 (facilita la permeabilizzazione dell’endotelio)
Una volta migrate nel liquido, le cellule infiammatorie possono danneggiare la cartilagine con le specie
reattive dell’ossigeno, e anche contribuire a mantenere il processo infiammatorio.
Non sono noti i meccanismi che danneggiano la cartilagine e l’osso: benché il liquido contenga molti
enzimi potenzialmente litici, il danno si verifica in corrispondenza del contatto fra la sinovia infiammata e la
cartilagine articolare. Questo tessuto è detto panno, ed è formato da tessuto di granulazione prodotto da
fibroblasti, piccoli vasi, e cellule mononucleati. Questo tessuto produce una grande quantità di proteine
litiche, come la collagenasi e la stromelisina.
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Questo tessuto è stimolato a produrre le proteine dall’IL1 e il TNF alfa, che contemporaneamente attivano i
condrociti a danneggiare la cartilagine localmente e gli osteoclasti a danneggiare l’osso.

La malattia si configura quindi come un processo progressivo a varie fasi: prima c’è una attivazione dei T
CD4 ad opera di un antigene che ancora non è noto. Questi producono un processo infiammatorio in grado di
stimolare la produzione di fattore reumatoide e di ab, nonché di attivare il danno articolare. Questo processo
infiammatorio, a lungo andare, produce la esposizione di neo antigeni e aggrava il danno articolare. Infine, la
funzione dei fibroblasti e di condociti viene alterata e si creano processi erosivi dell’osso.

I tempi e le modalità di insorgenza e di transizione da una fase all’altra di questo processo patologico
cambiano da paziente a paziente, mentre la malattia si evolve per tutto l’arco della sua durata.

Clinica

• Esordio: la malattia è una poliartrite cronica. All’esordio ci sono di solito sintomi insidiosi di
affaticamento e di malessere sistemico, finché non si presentano i segni di sinovite. Gradualmente
compaiono i segni specifici, con interessamento simmetrico di molte articolazioni, come mani, polsi,
ginocchia, piedi. Il 10% dei pazienti esordisce in maniera brusca con febbre, linfoadenomeglia e
splenomegalia. La simmetria è caratteristica della malattia, ma ci possono essere delle eccezioni.
• Sintomi articolari conclamati:
o Dolore aggravato dal movimento
o Rigonfiamento e pastosità
o Rigidità dopo periodi di riposo (tipica rigidità mattutina per più di un’ora)
o Articolazioni calde (specie il ginocchio) senza eritema.
Inizialmente il dolore rende impossibile il movimento: la capsula sinoviale è gonfia per l’accumulo
di liquido e per l’ipertrofia delle cellule sinoviali, e il paziente mantiene l’articolazione in flessione
per permettere la massima estensione articolare. In seguito l’anchilosi fibrosa ossea provoca
deformità stabili.
• Articolazioni più colpite:
o Interfalangee prossimali e metacarpo-falangee (difficilmente sono interessate le falangi
distali)
o Sinovite delle articolazione dei polsi con sindrome del tunnel carpale
o Sinovite del gomito; presenta spesso delle contratture in flessione che sono deturpanti.
o Ginocchio, con ipertofia sinoviale, versamento cronico e lassità legamentosa
o La colonna cervicale è interessata, ma mai quella lombare
Con il progredire della malattia, vari fenomeni concorrono alle manifestazioni di deformità permanenti: la
distruzione della capsula o dei tessuti molli di supporto, la lassità dei legamenti, la distruzione della
cartilagine, la trazione muscolare sbilanciata,
eccetera. Oltre alle deformazioni della mano
disegnate nella figura, esiste una deformazione a
zeta della mano, con deviazione radiale del polso
e deviazione ulnare delle dita, spesso associata a
sublussazione delle falangi prossimali.
Altra caratteristica è la deviazione interna del piede,
(paziente che cammina sulle tibie), sublussazione
dell’alluce e diverse altre.
Manifestazioni extrarticolari
Di solito non sono frequentissime, ma quando sono
presenti possono essere la predominanza del quadro
clinico. Sono associate a pazienti con alto titolo di
fattore reumatoide (IgM anti FC delle IgG).
• Noduli reumatoidi: a livello delle strutture
periarticolari, nelle aree soggette a pressione e nelle superfici estensiorie, ma anche nelle pleure o nelle
meningi. Tipici olecrano, tendine d’Achille e occipite. Sono in genere asintomatici ma possono rompersi
o infettarsi. Assomigliano a granulomi, e questo conferisce all’AR il titolo di malattia granulomatosa;
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sono costituiti da una zona centrale necrotica con fibrille di collagene, circondata da macrofagi a
palizzata e una zona più esterna formata da tessuto di granulazione.
• Atrofia muscolare dei gruppi presenti in sede periarticolare.
• Vasculite reumatoide: può esistere in forma molto grave (polineuropatia, mononeuriti multiple, ulcere
cutanee con necrosi del derma, gangrena digitale e infarto viscerale). Queste forme sono molto rare. Le
forme più comuni sono comunque associate a soggetti con alto fattore reumatoide, e possono essere una
neuropatia sensitiva distale o manifestazioni cutanee.
• Manifestazioni pleuriche e del polmone: pleurite, fibrosi interstiziale, polmonite e noduli, che se si
associano alla pneumoconiosi possono produrre un processo fibrotico diffuso (S. di Caplan). I noduli
possono ulcerarsi e dare origine a pneumotorace, o comprimere la laringe.
• Pericardite asintomatica nella maggioranza dei casi, ma che può anche diventare costrittiva.
• Sindrome di Felty: AR cronica associata a splenomegalia, trombocitopenia e neutropenia. Si ritrova in
soggetti che hanno la malattia da molto tempo, ed ha alto fattore reumatoide, noduli sottocutanei e
interessamento sistemico. La neutropenia, che è la principale evidenza clinica, porta allo sviluppo di
infezioni.
• Osteoporosi: comune ed è aggravata dall’uso di glucocorticoidi.

Dati di laboratorio
Il fattore reumatoide, sebbene sia il bersaglio di tutti i test per la malattia, non è affatto specifico ed è
presente anche nel 5% dei soggetti sani. Questo numero aumenta con l’età, cioè proprio con l’incidenza della
malattia, rendendolo ancor meno specifico. Oltre che nel 70% dei pazienti di AR, è presente anche nel LES,
nella sclerodermia e in altre malattie. Tuttavia ha un significato prognostico, essendo più frequente nei
pazienti con noduli o vasculite ed associato ad una prognosi peggiore.
La anemia e la leucopenia sono indici di elevata attività della malattia.
Ves elevata e proteina c-reattiva alta sono associati ad una prognosi peggiore.

Decorso clinico
Nel singolo paziente è difficile fare previsioni: in genere si tratta di un quadro di progressiva ingravescenza,
ma associato a fasi alterne di maggiore o minore attività della malattia. Ci sono alcuni fattori che possono
essere prognostici per indicare una maggior tendenza alla progressione maligna. Fra questi:
• Presenza di più di 20 articolazioni con flogosi
• Noduli
• Alterazioni radiologiche già esistenti
• Persistenza dello stato infiammatorio
• Età avanzata
• Alto titolo di fattore reumatoide
• Alto titolo di proteina c-reattiva
• Espressione di HLA-DR di particolari classi beta.
Circa il 15% dei malati va incontro ad una forma blanda con remissione spontanea e nessun danno
permanente. In genere le alterazioni progrediscono in maniera più lenta man mano che la malattia avanza,
con massima velocità solo nei primi sei anni. Ma quelle lesioni che fin dall’esordio compaiono
precocemente, progrediscono a velocità molto rapida.
La vita del paziente con AR è accorciata di 3-7 anni in media. In realtà la malattia di per se non è affatto
pericolosa, se non per quelle forme con grave neutropenia, e per le complicazioni entero-emorragiche della
terapia.

Diagnosi
Entro 1-2 anni assume un quadro tipico inconfondibile: poliartite simmetrica delle grandi articolazioni
con risparmio delle strutture scheletriche assiali, ad eccezione del rachide cervicale. Altri elementi sono
la rigidità mattutina, la presenza di noduli, il fattore reumatoide, le lesioni ossee particolari.

Terapia
Essenzialmente è sintomatica ed empirica, ed ha 5 scopi:
1. Attenuare il dolore
2. Ridurre l’infiammazione
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3. Proteggere le articolazioni
4. Mantenere la capacità funzionale
5. Controllare il coinvolgimento sistemico
Le varie terapie mirano ad una soppressione non specifica del processo infiammatorio, senza poter rimuovere
la causa eziologica. Importanti sono la fisioterapia e l’esercizio fisico corretto.

Ci sono 4 categorie di farmaci usati nel controllo della malattia:


1. Farmaci antinfiammatori non steroidei: Controllano rapidamente la sintomatologia, ma possono
far ben poco per limitare la progressione della malattia.
2. Farmaci antireumatici che modificano il decorso della malattia: sono la D-penicillamina, gli
antimalarici, la sulfasalazina e i sali d’oro. Nonostante la loro eterogenicità, questi farmaci sono
capaci di diminuire l’attività della malattia, la sua progressione e i livelli sierici delle proteine
reattive e del fattore reumatoide. Questi farmaci comprendono anche gli immunosoppressori blandi e
i citotossici, come il metotrexate.
3. Farmaci glucocorticoidi: riducono i sintomi, ma bisogna usarli il meno possibile perché hanno
importanti effetti tossici.
4. Immunosoppressivi: ciclofosfamide e azatioprina. Sono molto tossici e devono essere usati per quei
pazienti che non hanno risposto alla terapia antireumatica.

Un altro presidio terapeutico importante è la terapia chirurgica.

6.3 MORBO DI STILL


Il Morbo di Still, o artrite reumatoide giovanile, e' una collagenopatia, ad etiopatogenesi incerta (virus?,
immunocomplessi?, auto immunita'?), frequente nell'infanzia, talora già nel lattante, la cui caratteristica è
quella di colpire le piccole articolazioni della mano (interfalangee) ma anche le grosse articolazioni.
Colpisce in eguale misura i due sessi e può presentarsi lungo tutto l'arco della età evolutiva.
Si conoscono tre varietà principali della malattia:
Artrite cronica primaria, caratterizzata da febbre, compromissione degli organi interni, tumefazione delle
articolazioni specie del ginocchio, polso, caviglia, dita delle mani, rachialgie. E' presente anche
ingrossamento di milza e fegato;
Artrite reumatoide poliarticolare, con scarso interessamento sistemico e più spiccata compromissione
articolare. Nel 30% dei casi e' assente il Fattore Reumatoide (immunoglobulina con specificità anticorpale
diretta contro le IgG) e la prognosi e' migliore;
Artrite reumatoide pauciarticolare, alla quale però può associarsi una temibile iridociclite con danni
oculari permanenti.
Viene anche chiamata Malattia di Still, è simile alla forma che colpisce gli adulti e ne ha le stesse
conseguenze disabilitanti. La cosa peggiore è che colpisce generalmente i giovani al di sotto dei 16 anni, ma
può iniziare fin dalle 6 settimane di età, con picchi verso i 2-5 e i 9-12 anni.
In oltre la metà dei casi i sintomi spariscono da soli. Ma purtroppo in circa un sesto dei casi la malattia
colpisce severamente con infiammazione in una o più articolazioni.
Una delle più gravi manifestazioni dell' Artrite Reumatoide giovanile é l' infiammazione dell'iride che
qualche volta porta ad una visione difettosa.
Diagnosticare l' Artrite Reumatoide giovanile non è facile in quanto i bambini tendono a negare il dolore,
anche quando i segni dell'infiammazione alle articolazioni sono evidenti. I genitori dovrebbero tenere sotto
controllo i bambini che tendono a muoversi con precauzione ( in condizioni normali) e ad assumere posizioni
con le ginocchia piegate (accovacciati).

6.4 SPONDILORARTROPATIE
Gruppo di malattie caratterizzate da
-Spondilite anchilosante analogie genetiche, cliniche ed
-Artropatia psoriasica Colite ulcerosa anatomo-patologiche. Hanno una
-Spondiliti enteropatiche associate a ampio spettro clinico, variante da
-Sindrome di Reiter Morbo di Crohn forme asintomatiche fino alla spondilite
-Altre artriti reattive (si differenziano anchilosante multisistemica. Si può
dalle artriti settiche perché non c’è nes- passare da una forma morbosa all’altra.
suna evidenza del patogeno)
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La sindrome di Reiter è data da artriti, uretrite e congiuntivite, da cheratodermia blenorragica di mani e


piedi, e interessamento delle mucose.
Tutte queste forme di malattia hanno in comune la predisposizione genetica, legata al gene HLA B27, che
non è però da sola sufficiente allo sviluppo della malattia. La distribuzione di questo gene nella popolazione
cambia molto nei vari gruppi etnici:
Maschi sani 6-14 %
Scandinavi 14% Gli aspetti reumatologici di queste malattia sono alquanto
Neri < 1-4 % caratteristici:
• Associazione con enteropatie
Indiani 50%
• Interessamento assiale
Malati di spondilite 95% • Artrite periferica
Malati di uveite 30% • Entesite
Le entesi sono le strutture di passaggio fra osso e legamento. La manifestazione principale delle malattie
spondiliformi è proprio l’entesite, soprattutto a carico delle articolazioni sinoviali, articolazioni
cartilaginee, sinartosi (sinfisi pubica), siti extrarticolari (soprattutto calcagno). L’entesite provoca la
deposizione di sali di Ca++ e la neoformazione ossea nei siti interessati (Sindesmofite), che porta a rigidità
completa del rachide, soprattutto, per la fusione delle vertebre fra di loro.

Alcuni sintomi delle malattie sono:


• Dolore infiammatorio non meccanico (tipico invece delle discopatie) e quindi prevalentemente notturno,
con rigidità mattutina che si insatura lentamente e subdolamente, e regredisce con il movimento e con la
terapia antinfiammatoria.
• Interessamento extrarticolare: congiuntiva, uvea, intestino, cute e mucose.

Diagnosi differenziale con artrite reumatoide:


Artite reumatoide Spondiliti periferica
SIMMETRICA ASIMMETRICA
POLIARTICOLARE MONOARTICOLARE
PICCOLE ARTICOLAZIONI, MAI RACHIDE GRANDI ARTICOLAZIONI, SPESSO RACHIDE

SPONDILITE ANCHILOSANTE
Malattia infiammatoria ad eziologia sconosciuta che interessa prevalentemente lo scheletro assiale, e può
interessare anche altre articolazioni e tessuti extrarticolari. La malattia colpisce M >3F ed è frequente nel
secondo – terzo decennio di vita.
Presenta una stretta correlazione con l’antigene HLA B27, anche se non ne influenza la gravità. Inoltre,
l’associazione con malattie intestinali infiammatorie, come il morbo di Crohn, è un fattore di rischio
indipendente dalla predisposizione genetica (anche se il 70% dei malati di Crohn sono HLA B27 positivi).

Anatomia patologica
• Sacroileite: la lesione più frequente è una infiammazione dell’articolazione sacroiliaca, che inizia come
un infiltrato sottocondrale di un tessuto di granulazione costituito da linfociti, plamacellule, macrofagi,
mastociti e condrociti. Vengono dapprima erosi i margini iliaci, poi quelli sacrali: tali margini risultano
erosi irregolarmente e sostituiti dapprima da tessuto fibroso, e poi ossificati. Alla fine del processo
l’articolazione risulta completamente saldata.
• Colonna: lesione principale è la infiammazione con tessuto di granulazione alla congiunzione fra
l’anello fibroso della cartilagine distale e il margine dell’osso vertebrale. Le fibre più esterne dell’anello
vengono erose, ed infine sostituite da osso. Si forma così una escrescenza fra la vertebra e l’inizio della
successiva articolazione, che viene detta sindesmofita. Crescendo, esso forma un ponte osseo fra le due
vertebre adiacenti, dando alla fine il caratteristico aspetto della colonna a canna di bambù. Altre lesioni
della colonna sono vari eventi di natura erosiva ed infiammazione artritica delle articolazioni apofisarie,
con anchilosi ossea.
• Artrite periferica: mostra una iperplasia della sinovia, con infiltrazione linfoide e proliferazione del
panno sinoviale. Non si osservano però quelle estroflessioni a forma di villo che sono tipiche dell’artrite
reumatoide. Anche la cartilagine può essere erosa dal centro, per la proliferazione di tessuto di
granulazione endocondrale. Questo anche è fonte di diagnosi differenziale con l’AR.
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• Entesiti: le entesi sono i siti di inserimento di tendini e legamenti nell’osso, e sono una sede tipica di
danno, con infiammazioni che tendono a osseificare.
• Uveite anteriore acuta in circa il 20% dei pazienti.
• Insufficienza aortica in una piccola percentuale dei pazienti.
• Lesioni infiammatorie del colon e della valvola ciecale.

Patogenesi
Probabilmente immunomediata, per quello che riguarda l’elevato tasso sierico delle IgA, proteine di fase
acuta, aspetto istologico di tipo infiammatorio, stretta associazione fra HLA B27 e malattia. Data la
associazione fra questa malattia e le infiammazioni intestinali si indaga sulla possibile presenza di
significative reazioni crociate fra HLA-B27 e antigeni di batteri intestinali.

Clinica
- Dolore sordo, a comparsa progressiva, localizzato in profondità nella regione dorso-lombare, che si
acutizza al mattino e diminuisce gradualmente con il movimento. Dopo alcuni mesi dall’esordio, il
dolore diventa intenso, con aggravamento notturno, che obbliga il paziente ad alzarsi dal letto e
muoversi.
- Dolorabilità ossea che si accompagna (o precede) la rigidità può comunemente insorgere in: torace,
articolazioni condrosternali, trocanteri, processi spinosi, creste iliache, talloni, tuberosità ischiatiche,
anche e spalle.
- Artriti, generalmente asimmetriche, delle articolazioni periferiche.
- Pochi pazienti hanno anche dei sintomi sistemici
- Uveite anteriore acuta: è la manifestazione extrarticolare più comune, e si manifesta a volte come
esordio della malattia. E’ tipicamente unilaterale, tende alla recidiva, e si manifesta con fotofobia,
dolore e aumentata lacrimazione.
- Lesioni infiammatorie del colon e dell’ileo, associate del 5-10% dei casi con una malattia cronica
intestinale conclamata.
Nella fase iniziale della malattia è spesso presente una dolorabilità ossea provocata o spontanea, e predomina
il quadro clinico una rigidità articolare con scarsa mobilità di colonna vertebrale, assieme ad una ridotta
espansività del torace. Queste manifestazioni, che non pongono dubbi nella diagnosi differenziale con l’AR,
sono legate non tanto al grado di erosione ossea, quanto alla rigidità muscolare che viene provocata dal
dolore.
Test di Schober: paziente in piedi a piedi uniti. Si segnano due punti nella colonna, a 5cm sotto e 10cm
sopra la giunzione lombosacrale (linea che congiunge le spine iliache posterosuperiori). Si invita il soggetto
a piegarsi in avanti il più possibile: normalmente la distanza fra i due punti segnati aumenta di più di 5cm. Se
tale aumento è <4cm, si può diagnosticare ipomobilità della colonna.
Test di espansione toracica: Misura della circonferenza toracica al di sotto del 4° spazio intercostale (nella
donna: al di sotto della mammella) in espirazione e in ispirazione. Normale è >5cm.

Il decorso della malattia è variabile, sia dal punto di vista delle lesioni ossee e delle articolazioni interessate,
che da quello della gravità dell’anchilosi. In genere nelle fasi successive la malattia acquisisce un carattere
cronico, ma il dolore va incontro a fasi alterne di sollievo ed
esacerbazione. La postura del paziente cronico subisce delle
variazioni: riduzione della lordosi lombare con atrofia dei glutei,
incremento della cifosi toracica con avanzamento del collo. Inoltre
ci possono essere contratture in flessione delle anche che sono
compensate dalla flessione delle ginocchia.
In genere l’esordio della malattia in età giovanile è associato ad
una prognosi peggiore ed un interessamento articolare più grave.

Complicazioni
Frattura della colonna irrigidita, per traumi anche lievi. E’ la
complicazione più grave che può portare a tetraplegia. Altre
complicazioni meno frequenti sono l’insufficienza cardiaca, una
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fibrosi polmonare lentamente progressiva. Nella maggior parte dei casi i pazienti possono continuare la loro
attività lavorativa e non ci sono indicazioni di accorciamento della vita.

Diagnosi e laboratorio
1. Gene HLA B27 nel 90% dei pazienti
2. VES elevata
3. Aumento della proteina C reattiva
4. Lieve anemia, ALP lievemente aumentata
5. Aumento delle IgA sieriche
6. Assenza costante del fattore reumatoide e degli ab anti nucleo.

I criteri diagnostici per la spondilite anchilosante sono uno dei tre criteri sotto elencati in aggiunta alla
sacroileite radiologicamente documentabile:
• Anamnesi di dolore della colonna di tipo infiammatorio:
o Età inferiore a 40 anni al momento della insorgenza
o Esordio insidioso
o Durata superiore a tre mesi
o Rigidità mattutina
o Miglioramento con il movimento
• Riduzione della motilità del rachide (test di Schober positivo)
• Riduzione della espansione toracica

Terapia
La terapia è principalmente antinfiammatoria per consentire al paziente di ottenere una mobilità sufficiente
da poter partecipare con efficacia a programmi di esercizi fisici. Questi servono ad impedire che il paziente
assuma atteggiamenti posturali aberranti. I farmaci più comunemente usati sono i FANS, mentre gli
immunosoppressori non sembrano avere una efficacia certa.

SINDROME DI REITER ED ARTRITI REATTIVE


L’artrite reattiva è una sindrome artritica acuta non purulenta che complica un processo infettivo in corso in
un altro distretto dell’organismo. Si intendono principalmente delle spondiloartropatie che complicano
infezioni intestinali o urogenitali in soggetti HLA B27 positivi. Non si deve sovrapporre a queste malattie il
quadro della febbre reumatica che è decisamente un’altra cosa.
Queste malattie fanno tutte riferimento al quadro clinico particolare della sindrome di Reiter, che oltre
all’artrite presenta uveite e congiuntivite (spesso anche lesioni mucocutanee) in associazione alle infezioni da
Shigella e Chlamidia.
Oggi si considera la sindrome di Reiter non più come una entità nosologica distinta, ma come un aspetto
tipico e completo delle artriti reattive: si possono anche avere infatti casi di artriti in cui non sia presente tutta
la triade sintomatologica, ma con manifestazioni tipiche di una artrite reattiva (cioè assenza di quegli
elementi che permettono di classificarle fra l’AR e le spondiloartropatie). In questo caso si parla di forme di
spondiloartropatie indifferenziate.

Epidemiologia
Microrganismi concomitanti: Salmonella, Shigella, Campylobacter, Clamydia trachomatis.
Predisposizione genetica: HLA-B27
Picco di incidenza: 18-40 anni
M=F nelle forme reattive ad infezioni intestinali
M>F nelle forme reattive ad infezioni veneree
Aumenta l’incidenza nei pazienti AIDS.

Il massimo della correlazione fra patogeno e malattia si ha con Shigella flexneri. Il meccanismo patogenetico
non è chiaro, e tutti gli agenti correlati sono parassiti endocellulari. Non si riesce ancora a determinare se si
verifichi una risposta immune nei tessuti dell’ospite contro i batteri attivi o se si tratti di un fenomeno cross –
reattivo mediato da una qualche forma di cross-reattività.
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Clinica
(Triade sintomatologica: Uveite, Lesioni mucocutanee e artrite)

Varia da una clinica legata ad una artrite isolata monolaterale ad una patologia multisistemica. Nella
maggioranza dei casi questo è anamnesticamente riferibile ad una infezione nell’arco delle 4 settimane
precedenti.
-Sintomi sistemici di solito presenti
-Dolore muscolare con esordio acuto (diagnosi differenziale con artrite psoriasica)
-Asimmetrica
-Si diffonde ad ondate successive, interessando nuovi gruppi articolari a gruppi intervallati di 2-3 settimane.
-Più colpite tutte le articolazioni della gamba e del piede, meno frequentemente le falangi delle dita.
-Comuni le dattiliti con interessamento di tutto il dito, che si gonfia e assume l’aspetto “a salsicciotto”
-Tendiniti, fasciti e dolore al rachide lombare sono manifestazioni comuni.

Fuori dalle articolazioni, abbiamo:


-Comune interessamento urogenitale, e sia nel maschio che nella femmina possono essere causate
dall’agente infettante che causa anche la malattia, oppure dalla malattia come conseguenza di essa.
-Comune interessamento oculare, da una congiuntivite fino alla uveite anteriore aggressiva, che può causare
cecità
-Lesioni cutanee comuni e caratteristiche:
- ulcere del cavo orale
- dermatosi cheratosica blenorragica: manifestazione caratteristica di vesciche che diventano
ipercheratosiche, formano una crosta e poi scompaiono. Si formano con massima frequenza nella
pianta dei piedi e nel palmo nelle mani, ma possono formarsi dovunque. Nei malati sieropositivi per
HIV queste possono essere estremamente gravi ed estese.
- Nei maschi, balanite
circinata, una lesione
vescicolare multipla del
glande poco dolorosa

Dati di laboratorio:
- Nella fase acuta, VES
elevata, anemia e aumento
delle proteine di fase acuta
- Spesso è possibile rilevare
un titolo anticorpale elevato
per i patogeni responsabili,
a dimostrazione di una
infezione recente.
Raramente l’infezione è
ancora dimostrabile nella
fase attiva della malattia.
- Positività per HLA-B27
(50%)

Diagnosi
Lo schema a destra tiene conto della
differenziazione che occorre fare
nelle varie forme di
spondiloartropatia.
La diagnosi di artrite reattiva è
clinica su forme acute di artrite
recidivante e tendiniti asimettriche
prevalentemente delle estremità inferiori.
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Importante la diagnosi differenziale con l’artrite gonococcica, che si manifesta con artrite e uretrite come la
reattiva, ma interessa per lo più le estremità superiori. Inoltre differiscono per il dolore alla colonna, per la
positività della cultura del gonococco, e per altri parametri.
E’ importante anche la diagnosi differenziale con l’artropatia psoriasica:
Artrite reattiva Artropatia psoriasica
Terapia Hanno in comune una serie di manifestazioni
Asimmetria
La maggior parte dei pazienti trae Dita a salsicciotto
beneficio dai FANS, anche se non si Interessamento delle unghie
ottiene mai la remissione completa. Uveite e lesioni cutanee
L’uveite si tratta con glucocorticoidi Ma differiscono per altri parametri
Lesioni aftose del cavo orale MANCA
in maniera aggressiva, le
Sintomi gastrointestinali MANCA
complicazioni della tendinite invece HLA B27 MANCA
con glucocorticoidi topici. Importante Esordio acuto Esordio graduale
anche la fisioterapia riabilitazionale. Interessa le estremità inferiori Interessa le estremità superiori

SPONDILOARTROPATIE INDIFFERENZIATE
Sono malattie che si evolvono senza la presenza di una infezione pregressa, di una manifestazione psoriasica
e senza la sintomatologia di tipo Reiter, ma che hanno alcuni sintomi delle artriti reattive o spondilitiche.
Tipico ad esempio è una sinovite di un ginocchio, o una dattilite “a salsicciotto”. Spesso queste forme sono
spondiliti atipiche che finiscono in molti casi per evolvere, presentando alla fine i criteri per una delle forme
di artropatia.

ARTRITE PSORIASICA
Sono una serie di manifestazioni cliniche che accompagnano il 5-8% dei soggetti affetti da psoriasi, e che per
alcuni aspetti possono dare dei problemi di diagnosi differenziale con le spondiliti anchilosanti e le artriti
reattive. Non essendo associate alla presenza di antigeni di microrganismi e all’HLA B27, queste forme sono
classificate fre le spondiliti sieronegative
• Forma asimmetrica: dita a salsicciotto, interessa le interfalangee delle mani, meno comunemente
ginocchia e caviglie. Caratteristico coinvolgimento delle unghie che non va parallelo all’artrite. La
psoriasi precede anche di molti anni la comparsa di queste manifestazioni. Scarsa evoluzione verso la
forma destruente.
• Forma simmetrica: simile all’AR, con rigidità mattutina e interessamento delle grandi articolazioni in
modo simmetrico. Esordisce assieme alla psoriasi ed ha una frequenza doppia nelle donne.
L’interessamento ungueale pressoché costante la differenzia dalla AR. Circa il 50% dei pazienti
sviluppano artriti destruenti e mutilanti.
• Forma spondilitica: precede la malattia una psoriasi di alcuni anni. Si manifesta con artrite della colonna
lombare associata a rigidità mattutina. Rispetto alla spondilite anchilosante tende a non essere erosiva e a
progredire in modo meno aggressivo. Caratteristica l’infiammazione dei legamenti specie del tendine
achilleo e della fossa plantare.
Per tutte queste forme la terapia elettiva sono i FANS, e nelle forme gravi ricorrere agli antireumatici di base.
In Italia di prassi si tratta la malattia in modo aggressivo anche nelle forme leggere per prevenirne il decorso.
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CAP 7 LE CONNETTIVITI
Le connettiviti sono malattie acquisite ad eziologia autoimmune del tessuto connettivo, che hanno alla base
la caratteristica di aver perso la tolleranza immunologica verso qualche antigene self.
Le forme principali di connettiviti sono:
• Artrite reumatoide (articolazioni)
• S. di Sjogen (ghiandole esocrine)
• Scelerosi sistemica (cute)
• Polimiosite (muscoli)
• Connettivite mista
• LES
Tutte queste forme di malattia hanno alcuni aspetti in comune:
- Clinici:
o artriti e artralgie
o febbre
o lesioni cutanee di vario tipo
o fenomeno di Raynaud
- Laboratoristici:
o iperglobulinemia
o aumento della VES
o anemia non emolitica
o leucopenia
o diminuzione della proteidemia complementare
o Lupus Band Test positivo (immunofluorescenza di biopsia cutanea che evidenzia
immunocomplessi alla giunzione dermo-epidermica)
o Fattore reumatoide
o Ab anti nucleo

7.1 SINDROME DI SJOGREN


Malattia autoimmune a decorso lentamente progressivo che colpisce con una infiltrazione linfocitaria le
ghiandole esocrine, e determina xerostomia (bocca secca) e secchezza oculare. Un terzo dei pazienti ha
anche sintomi extraghiandolari. La malattia può essere primitiva o associata ad altre patologie
reumatologiche autoimmuni.
Colpisce le donne di mezza età (F>M 9:1)

Patogenesi
- Infiltrazione linfocitaria delle ghiandole esocrine
- Attività oligo-monoclonale dei linfociti B che producono numerosi auto ab (si manifesta anche la
presenza nel siero di catene leggere monoclonali e di crioglobuline monoclonali).

Mentre la prima attività spiega le manifestazioni locali delle ghiandole, la seconda spiega le manifestazioni
sistemiche della malattia. Nel siero del paziente si trovano ab diretti contro le IgG (fattore reumatoide), e
contro antigeni nucleari e citoplasmatici (questi ultimi sono associati a manifestazioni peggiori, come
prognosi e come precocità).

Le cellule che formano l’infiltrato linfocitario delle ghiandole sono linfociti T e B attivati, e le cellule
epiteliali della ghiandola svolgono la funzione di APC. Tutto questo depone per una eziologia autoimmune
nei confronti delle cellule che presentano l’antigene, le quali assumono questa funzione forse in seguito
all’infezione da parte di un retrovirus.

Clinica
La principale manifestazione è la mancanza di secrezione oculare e salivare, che provoca la secchezza di
questi organi. A questo si associano una serie di manifestazioni legate all’interessamento di altre ghiandole e
di siti extraghiandolari. Infine sono presenti dei sintomi sistemici.
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 La riduzione della secrezione ghiandolare è frutto di una flogosi cronica. E’ essenzialmente una
distruzione bilaterale dell’epitelio congiuntivale e corneale (cheratocongiuntivite secca).I fenomeni più
rilevanti a carico dell’occhio sono:
- 80% sensazione di corpo estraneo
- 76% bruciore
- 59% dolore
- 38% fotosensibilità
- 17% sensazione di secchezza
Come si vede i sintomi dell’occhio sono per lo più correlati all’infiammazione piuttosto che alla secchezza.
Ci sono alcuni test per valutare la funzionalità lacrimale (principale: test di Schirmer) e l’integrità della
cornea (test al rosa Bengala).
Test di Shirmer: si mette una striscia di carta assorbente sul fornice congiuntivale: se l’imbibizione della
striscia è maggiore di 5mm, il test è positivo e la funzionalità lacrimale normale. Va ripetuto più volte perché
la sua affidabilità è relativa.
Test al rosa Bengala: si mette il colorante nella cornea e questo permette di valutarne l’integrità dopo
l’osservazione con la lampada a fessura.
Altre malattie che danno secchezza oculare sono la sclerosi multipla e l’ipovitaminosi A.

 La componente orale è responsabile di una difficoltà a deglutire i cibi secchi, atto che si accompagna a
bruciore. La mucosa orale si presenta secca ed iperemica. La carenza di salivazione produce anche un
aumento della suscettibilità alle infezioni, data la sua azione antibatterica.
Test importanti per valutare la funzionalità orale sono:
- Sialometria: incannulamento del dotto di Stenone e successiva stimolazione alla salivazione con succo
di limone. E’ un test invasivo.
- Scintigrafia: consente di svelare fenomeni flogistici con un isotopo radiomarcato
- Sialografia: infusione del mezzo di contrasto nel dotto di Stenone. L’albero ghiandolare della salivare è
alterato se ci sono stimoli flogistici.
- Biopsia: Evidenzia gli infiltrati linfocellulari focali tipici della malattia.
Altre condizioni di xerostomia sono psicogene, da traumi, da farmaci, infezioni batteriche, infezioni virali
(virus della parotite: singolo episodio), sarcoidosi (simula anche molti altri sintomi).

 Le manifestazioni delle altre ghiandole sono meno frequenti:


Trachea
Tratto gastroenterico con riduzione della attività della mucosa gastrica fino all’atrofia, pancreatite
Mucosa vaginale

 Manifestazioni extraghiandolari si hanno in un terzo dei pazienti.


- Poliartrite che può simulare l’artrite reumatoide ma non è erosiva
- Interessamento polmonare subclinico
- Polineurite da vasculite dei vasi dei nervi
- Nefrite interstiziale con interessamento dei tubuli che può anche associarsi alla sindrome di Fanconi.
Evento raro, limitato a quei pazienti che presentano la sindrome secondari ad altre manifestazioni
cliniche sistemiche (LES, ecc).
- Vasculite dei vasi piccoli e medi, con porpora, orticaria recidivante, ulcerazioni cutanee e mononeurite
multipla.
- Possibile insorgenza (associazione dimostrata) di linfomi a cellule B e di macroglobulinemia di
Waldenstrom.

Laboratorio e diagnosi
- Aumento della VES
- Anticorpi anti IgG, anti ENA e ANA (antigeni nucleari estraibili), anti SSA rho e SSA là
- Correlazione con HLA DR3
La diagnosi si fa con i test visti prima, con la valutazione clinica delle caratteristiche sintomatiche e con la
laboratoristica. La correlazione con altre malattie anche gravi impone al diagnosi differenziale con tutte le
condizioni che provocano xerostomia e secchezza oculare.
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Terapia
Sintomatica (resta una malattia incurabile). Preparati oftalmologici che sostituiscono le lacrime e gli altri
liquidi biologici che sono carenti.

7.2 SCLERODERMIA (SCLEROSI SISTEMICA)


Malattia autoimmune molto variabile, caratterizzata da una fibrosi progressiva dalla cute, dei vasi sanguigni
e di organi come il polmone, il rene, il tubo digerente e il cuore. La gravità delle lesioni e l’interessamento
sistemico variano nei pazienti. Esistono comunque due grandi raggruppamenti clinici, quello della
sclerodermia cutanea diffusa, che si manifesta con ispessimento cutaneo di tutti i distretti e un
interessamento viscerale più grave, e la sclerodermia cutanea limitata, con ispessimento della cute delle
estremità e del volto e prognosi più favorevole (cioè CREST: Calcinosi, fenomeno di Raynaud, Esofago
ipomobile, Sclerodattilia e Teleangectasia).
Infine c’è la sclerosi sistemica senza interessamento cutaneo. La sopravvivenza è legata alla gravità delle
manifestazioni a carico del cuore, dei reni e del polmone. La sclerosi sistemica può manifestarsi anche in
associazione con le manifestazioni di altre connettiviti. Questi quadri clinici sono stati denominati Overlap
Syndrome.

Colpisce prevalentemente le donne fra i 30 e 50 anni (F>M 15:1), con una incidenza di 1,4/105 e una
prevalenza di 19-75/105. Alcuni dati suggeriscono una predisposizione familiare, ma si è visto che le mogli
dei malati tendono ad ammalarsi, avvalorando l’importanza dei fattori ambientali.
Esposizione a certe condizioni ambientali, come la lavorazione del silicio, cloruro di vinile, resine epossiche
e composti aromatici.

Patogenesi
Eccessiva produzione di matrice extracellulare e di collagene a livello della cute e di altri organi. La malattia
è legata alla attivazione dei fibroblasti e al danno vascolare mediato da eventi di tipo immunologico.

 Sono le manifestazioni vascolari, evento precoce che si manifesta con il fenomeno di Raynauld, che
producono l’attivazione dei fibroblasti. Queste interessano prima di tutto le arterie di piccolo calibro, le
arteriole e i capillari cutanei degli organi interessati dai processi patologici.
Danno della cellula endotelialeÆ ispessimento dell’intima Æ ostruzione vasale Æ stato di ischemia cronica
dell’organo interessato. Il danno vascolare può anche essere osservato nei capillari cutanei con la
capillarografia. Molti meccanismo sono stati chiamati in causa per spiegare la patogenesi di questo danno:
• Citotossicità verso l’endotelio ad opera di una serina proteasi contentuta nei granuli delle cellule T
attivate.
• ADCC verso l’endotelio
• Anticorpi anti endotelio
• Eccesso di TNF (fibrosi e danno vascolare)
• Aumento di endotelina I, che produce Patogenesi della sclerodermia
vasocostrizione e stimola direttamente la
proliferazione dei fibroblasti. CD4 reattivi contro Danno endotelio
• Deficit di vasodilatatori primario o secondario a la lamina basale IL2
deficit nervosi.
Una volta realizzato il danno dell’endotelio, dalle Espressione CAM Adesione piastrine
cellule lese si libera il fattore di Von Willebrand,
che stimola l’adesione e la stimolazione piastrinica. (mastociti) edema iniziale PDGF
IL1, TNF TGF beta
Le piastrine secernono fattori edemigeni e Attivazione dei fibroblasti
chemotattici per i fibroblasti (PDGF), e fattori di
crescita per fibroblasti (TGFbeta) che induce la diffusione delle citochine
produzione di collageno. Essendo l’endotelio Ispessimento intima dall’endotelio danneggiato
danneggiato e permeabilizzato, queste citochine
entrano anche nella media e nell’avventizia, Ispessimento di tutta l’arteria
producendo una fibrosi completa e diffusa
nell’arteria.
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Infine, il danno endoteliale stimola la CID, con adesione delle piastrine e progressione verso l’anemia
emolitica microangiopatica e l’insufficienza renale.

Fra i fattori sopra indicati come responsabili del danno endoteliale sembra fondamentale il ruolo della
immunità cellulomediata; c’è la presenza di infiltrati monocitari in sedi perivascolare e c’è una correlazione
diretta fra livelli di IL2 e gravità della malattia. Sembra che ci sia un aumento dei CD4, in particolare per
quelle cellule reattive nei confronti del collagene di tipo IV della lamina basale.
L’endotelio infiammato, stimolato dai linfociti stessi, esprime protocolli di adesione (CAM e selectine)
favorendo l’aggregazione linfoide, mentre i linfociti attivati producono anche IL1 e TNF che mediano
sintomi sistemici e producono l’attivazione dei fibroblasti.
Anche i mastociti potrebbero essere implicati nella patogenesi della malattia, perché stimolati dai linfociti T
rilasciano istamina e producono una attivazione dei fibroblasti (e sono responsabili dell’edema della fase
iniziale della malattia).
Oltre a questo sono presenti anche anticorpi contro lamina basale e antinucleo, che però hanno un ruolo
incerto nello sviluppo della malattia.
I fibroblasti dei pazienti sembrano avere uno stato di attivazione permanente, e producono collagene di tipo
VII più di tutto, che è il più duro. Quando viene prodotto nel derma profondo, spiega la scarsa mobilità della
cute e l’induramento che caratterizzano la malattia.
Nei fibroblasti anomali esiste una particolarità importante: uno specifico network di citochine producece
l’attivazione dei fibroblasti scelorodermici. Essi infatti hanno i recettori per il PDGF, che si ricorderà viene
prodotto dalle piastrine che sono adese all’endotelio. Questo recettore è espresso di più sotto lo stimolo del
TGF beta. Quindi c’è una predisposizione dei fibroblasti ad essere iperattivati, che unita al danno endoteliale
produce la patogenesi. I fibroblasti poi legano i linfociti T con maggiore efficacia e sono capaci di stimolarli.

Clinica
• Cute: Un compatto strato di collagene è ricoperto da un sottile strato di epidermide, connesso ad esso da
una serie di digitazioni fatte dal collagene stesso. Inizialmente nello strato profondo del derma c’è un
infiltrato leucocitario. Gli annessi cutanei sono atrofici. La prima fase è edema delle aree interessate, che
sono prevalentemente avambracci, gambe e volto (le mani quasi mai). La fase edemigena, che dura
qualche mese, lascia poi il posto ad un induramento con stretta aderenza al connettivo sottostante (cute
ipomobile). Dopo qualche tempo (pochi anni) il processo finisce per interessare tutti i distretti. Un rapido
interessamento in poco tempo indica un rischio maggiore di interessamento viscerale; di solito le
manifestazioni durano 3-5 anni e poi cominciano a regredire, lasciando la cute rigida e atrofica, oppure si
ha un ritorno allo stato normale. Complicazioni delle lesioni cutanee possono essere:
o Contratture in flessione per la ridotta estensibilità della cute delle articolazioni
o Ulcere che possono infettarsi
o Intensa pigmentazione della cute del volto, delle mani e in corrispondenza dei vasi sanguigni
superficiali e dei tendini
o Secchezza della cute per la perdita delle componenti sebacee e sudoripare.
o Secchezza vaginale
• Gastroenterico: La manifestazione principale è una atrofia della tonaca muscolare dell’intestino, che
generalmente risparmia il terzo superiore dell’esofago. Questa condizione favorisce lo sviluppo di
diverticoli con larga base di impianto. Questa lassità della muscolatura provoca disturbi di svuotamento
gastrico, disfagia da ostacolo al transito esofageo, pseudostruzione intestinale per insufficienza della
peristalsi. L’ostruzione dei linfatici a causa della fibrosi può condurre invece ad una sindrome da
malassorbimento con cachessia e anemia. L’intestino crasso atonico può portare a stipsi cronica e
fecalomi, con ostruzione intestinale.
• Polmone: Fibrosi interstiziale diffusa, ispessimento della membrana alveolare e fibrosi peribronchiale. I
setti alveolari, divenuti fibrosi, sono meno resistenti e possono rompersi, dando delle aree di enfisema
bolloso. Altro filone sono i fenomeni di fibrosi delle arterie polmonari, con ipertensione e cuore
polmonare cronico. Oggi i sintomi polmonari sono la principale causa di morte dei pazienti con
sclerodermia (le manifestazioni renali si curano meglio). I sintomi evidenti sono la dispnea da sforzo
progressivamente ingravescente, cui segue infine insufficienza del cuore destro, e una diminuzione della
capacità vitale della VEMS, a causa della costrizione fibrosa dei bronchi. La prognosi dopo il verificarsi
della ipertensione polmonare è di circa due anni.
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• Muscoloscheletrico: Edema della sinovia con infiltrato leucocitario e fibrosi. Anche nel muscolo si
ripete lo stesso quadro, con infiltrazione linfocitaria prima e fibrosi poi. Dolore, rigidità e tumefazioni
delle dita delle mani e delle ginocchia. Si può avere una sindrome del tunnel carpale e artrite simmetrica
che ricorda l’AR. Caratteristico delle fasi avanzate è il crepitio tipo “cuoio vecchio” delle articolazioni in
movimento. Miosite. Riassorbimento osseo delle falangi distali, delle coste, delle clavicole e dell’angolo
mandibolare.
• Cuore:
o Degenerazione delle fibre cardiache e fibrosi interstiziale Æ scompenso cardiaco
o Fibrosi del sistema di conduzione Æ aritmie
o Ispessimento delle coronarie Æ cardiopatia ischemica (necrosi a zolle da spasmo intermittente
delle coronarie)
o Pericardite con o senza versamento
• Rene: Iperplasia delle arterie interlobulari, necrosi fibrinoide delle AA, ispessimento della membrana
basale del glomerulo. Queste alterazioni sono le stesse della ipertensione maligna ma non sempre si
associano all’aumento della pressione arteriosa. Nelle arterie intralobulari si verifica anche un fenomeno
di vasospasmo di tipo Raynaud, che si accentua con il freddo. La malattia renale è la causa di morte della
metà dei decessi associati a sclerodermia. Il rischio aumenta in quelli che sviluppano un ispessimento
cutaneo diffuso fin dall’inizio. Si manifesta ipertensione maligna, con encefalopatia ipertensiva e
oliguria e anuria fino all’insufficienza renale. Il motivo per cui si verifica questo è l’attivazione del
sistema renina angiotensina a causa della insufficiente vascolarizzazione del rene (meccanismo ace
dipendente).
• Fenomeno di Raynaud: vasocostrizione periodica e periferica, dipendente dal freddo, delle arterie delle
mani, dei piedi e dei padiglioni auricolari. Nella fase costrittiva c’è cianosi e intorpidimento, mentre la
fase di rivascolarizzazione si associa a dolore, arrossamento e parestesie. Il fenomeno può precedere la
malattia sclerodermica di parecchi mesi, ma non ne è obbligatoriamente associato.
• Xerostomia
• Ipotiroidismo con anticorpi antitiroide.

Laboratorio
Aumento della VES
Anemia da disordine cronico
Anemia emolitica microangiopatica da slerosi necrotiche
Aumento delle IgG
Fattore reumatoide a basso titolo
Anticorpi anti topoisomerasi I: si associano a fibrosi diffusa polmonare ed altre patologie viscerali
Anticorpi anti centromero
Anticorpi anti nucleari e anti nucleolari.

Diagnosi
Non ci sono problemi se c’è fenomeno di Raynaud, interessamento viscerale tipico e lesioni cutanee.
diagnosi differenziale difficile con le forme che non hanno un interessamento viscerale, e con l’artrite
reumatoide nelle fasi iniziale.
Il decorso della malattia è variabile e dipende dal tipo clinico della malattia. Quelli con sclerodermia cutanea
limitata (specie con Ab anti centromero) hanno una prognosi migliore (sopr. a 10 anni: 75%). La forma con
malattia cutanea diffusa è peggiore, specie in età avanzata (sopr. a 10 anni: 50%). Nei maschi tutte le
prognosi sono più gravi che nelle femmine.
Sclerosi inizia dalle estremità distali, poi quelle prossimali, poi al tronco. Dopo alcuni anni di malattia, la
cute può spontaneamente riammorbidirsi seguendo un ordine inverso.

Terapia
Non può essere guarita, ma è molto importante il trattamento della patologia d’organo. Importante è il
monitoraggio della funzione renale, polmonare e della crasi ematica.
Terapia antipiastrinica, che può prevenire il danno della parete vascolare;
Glucocorticoidi per prevenire il danno infiammatorio, soprattutto la pericardite;
Prevenzione del fenomeno di Raynaud;
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Antiacidi per trattamento della esofagite da reflusso


FANS per i sintomi articolari;
Ace inibitori contro l’ipertensione renale

7.3 DERMATOMIOSITE E POLIMIOSITE


Malattie a presunta eziologia autoimmune che provocano un danneggiamento del muscolo scheletrico
attraverso una infiammazione non suppurativa con infiltrato linfocitario. Polimiosite si ha quando viene
risparmiata la cute, mentre nella dermatomiosite c’è anche un caratteristico rash cutaneo. Un terzo di questi
casi si associa ad altre connettiviti, un decimo a neoplasie maligne.

L’eziologia più probabile sembra una reattività crociata, legata ad aplotipi HLA DR3 e DRw52, di proteine
muscolari ed antigeni del virus Coxsackie, capace già da solo di dare alcuni quadri di miosite. Di importanza
rilevante è sicuramente la presenza di un danno vascolare mediato dai CD8 che produce e precede la
distruzione del tessuto muscolare.

Ci sono 5 tipi di malattia:


1. Polimiosite idiopatica primitiva
2. Dermatomiosite idiopatica primitiva
3. Dermatomiosite (polimiosite) associata a neoplasia
4. Dermatomiosite (polimiosite) associata a vasculite (infantile)
5. Dermatomiosite (polimiosite) associata a collagenopatia
Incidenza complessiva: 2-3/100000 abitanti.

Clinica
Nel muscolo le lesioni principali sono riconducibili ad una patognomonica infiltrazione di cellule
infiammatorie (linfociti, macrofagi, plasmacellule e rari eosinofili) in sede perivenosa. Altro aspetto
caratteristico è la degenerazione delle cellule muscolari, che accompagna l’infiltrazione. Nelle forme che
hanno associata anche la dermatite si ha un interessamento notevole della componente capillare.

Polimiosite idiopatica primitiva – Un terzo di tutti i casi di malattia infiammatoria del muscolo. Di solito è
progressiva nell’arco di mesi o anni, mentre in casi più rari produce rabdomiolisi e debolezza muscolare in
pochi giorni (evento che prevale nelle donne, 2:1).
Il soggetto lamenta debolezza prima ai muscoli prossimali prima dell’arto inferiore (difficoltà a genuflettersi
e a salire le scale) poi di quelli superiori (difficoltà ad alzare le braccia e pettinarsi). Nella maggior parte dei
casi questo procede senza dolore. Se a questo si associano anche sintomi di disfagia e debolezza dei flessori
del capo, si deve cominciare a sospettare la polimiosite. Nel 75% dei casi sono risparmiati i muscoli distali e
quasi mai sono interessati quelli oculari.
Non si osservano di norma contratture e diminuzione dei riflessi, che anzi possono anche essere più vivaci
del normale, forse per irritazione dei recettori muscolari.
Complicazioni importanti ma non molto frequenti (5%) sono la grave compromissione respiratoria e
l’insufficienza cardiaca.

Dermatomiosite idiopatica primitiva – Un terzo dei casi di miosite è associato con interessamento
eritematoso della cute, diffuso o localizzato, eruzione maculo-papulare, dermatite da eczema (croste). Il
reperto più classico è un rash cutaneo violaceo (eliotropo), delle mani, guance, naso (distribuzione a
farfalla come quello del lupus), gomiti e ginocchia. Il rash si associa a volte a prurito, e la sua presenza in
associazione con la miosite permette di formulare la diagnosi di dermatomiosite. Essa può essere idiopatica o
associata al gruppo 3, 4 o 5 a seconda della patologia concomitante.

Dermatomiosite (polimiosite) associata a neoplasia – Non c’è differenza nei sintomi dalle altre forme. La
neoplasia può seguire o precedere la miosite di uno o due anni, ed è molto più frequente nell’età adulta
rispetto all’infanzia. E’ una situazione da tenere presente quando si effettua il follow-up di un paziente
malato di polimiosite, e si devono eseguire controlli di screenig periodici. Neoplasie più frequenti sono
quelle del polmone, ovaio, mammella, gastroenterico e malattie linfoproliferative.
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Dermatomiosite (polimiosite) associata a vasculite (infantile) – L’8-20% di tutti i casi di miosite. La


miopatia infiammatoria infantile è associata spesso a interessamento della cute e di altri organi con
degenerazione e perdita di capillari. Questo porta a lesioni necrotizzanti del rene, della cute e di altri organi,
escluso il cervello. Presenti spesso calcificazioni sottocutanee.

Dermatomiosite (polimiosite) associata a collagenopatia – Un quinto di tutti i casi di miosite compare in


associazione (gruppo di overlap) con le sindromi del connettivo, specie sclerosi sistemica progressiva, artrite
reumatoide, connettivite mista e LES. Per poter essere inserita fra le sindromi da overlap, la malattia deve
presentare criteri diagnostici della miosite e delle connettiviti. Per far questo può essere necessaria
l’elettromiografia, la biopsia muscolare e il dosaggio della CK. Nelle forme di artrite causate da connettiviti
può risultare poco evidente una concomitante miosite a causa del disuso delle fibre muscolari delle
articolazioni dolenti.

Altre affezioni associate alla miosite:


• Sarcoidosi: raramente sintomatica, in circa ¼ dei pazienti è presente una infiammazione granulomatosa
senza necrosi caseosa a carico dei muscoli.
• Miosite nodulare focale: sindrome ad evoluzione rapida con noduli focali infiammatori dolorosi, che
talvolta si sviluppa in modo sequenziale in muscoli diversi. La diagnosi differenziale comprende per un
nodulo singolo una neoplasia del tessuto muscolare per differenziarlo dall’infarto muscolare (poliarterite
nodosa) e da fasciti proliferativi.
• Forme secondarie ad infezioni, HIV, corpi inclusi
• Fascite eosinofila: Infiltrazione della fascia profonda della cute, del perimisio e dell’epimisio da parte di
cellule mononucleate ed eosinofili, con ispessimento cutaneo delle estremità, contratture e mioastenia.

Dati di laboratorio
• Enzimi muscolari. Al contrario di quello che si osserva nelle malattie epatiche, il grado di innalzamento
degli enzimi in ordine di entità è il seguente: Ck, aldolasi, GOT, LDH, GPT.
• Elevamento della VES, fattore reumatoide e anticorpi anti nucleo
• Altri auto anticorpi in associazione con altre malattie
• Mioglobinuria quando l’interessamento muscolare è esteso

Diagnosi
Rash cutaneo + ipostenia; sofferenza muscolare all’EMG (segni di attività spontanea in assenza di segnali
motori); elevati livelli di CK; biopsia muscolare.
I primi tre criteri sono richiesti per la diagnosi dei dermatomiosite, mentre nella polimiosite idiopatica ci
vogliono tutti e quattro.
La dermatomiosite ha poche malattia con sintomatologia sovrapponibile, mentre la polimiosite deve seguire
un iter di diagnosi differenziale con molte condizioni:
- Debolezza muscolare da denervazione
- Distrofie muscolari
- Miopatie metaboliche (glicogenosi)
- Affaticabilità da sforzo nella miastenia gravis
- Neuropatie acute con debolezza improvvisa
- Effetti di farmaci

Terapia
Trattamento con glucocorticoidi (prednisolone) ad alte dosi fino al miglioramento (in genere dopo 1-4
settimane) e poi progressiva riduzione del dosaggio di 5mg/die ogni settimana. Consigliabile il trattamento a
giorni alterni.
Farmaci citotossici se con gli steroidi non si ottengono miglioramenti in 1-3 mesi (azatioprina)

La malattia tende a chiudere il quadro per le complicanze polmonari, cardiache e renali, ma di norma nel
75% dei casi c’è sopravvivenza a 5 anni. La prognosi è migliore con i bambini e migliora con la precocità del
trattamento terapeutico. Molti pazienti riacquistano la normale funzionalità. Una recidiva si può manifestare
in ogni momento.
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7.4 LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO


Malattia ad eziologia sconosciuta con lesioni tissutali e cellulari provocate da auto anticorpi anti DNA e
deposizione di immunocomplessi. Colpisce le donne 9:1 nell’età fertile. I meccanismi immunopatogenetici
sono:
- attivazione policlonale e antigene-specifica dei B e dei T
- mancata regolazione di questa attivazione
Alla base di queste alterazioni ci sono sia fattori genetici che ambientali. Le associazioni più comuni sono
con alcuni aplotipi MHC (C4AQ0 e B8DR3DW2) e gli ab anti DNA. Altri dati suggeriscono la presenza di
fattori genetici distinti dall’HLA, che le femmine esprimerebbero più dei maschi.
I fattori ambientali sono ancor meno caratterizzati, in particolare risulta abbastanza chiarita solo
l’associazione fra raggi UVA e dermatite lupoide (essendo molti
Anticorpi comuni del LES freq
pazienti fotosensibili).
Antinucleo 98%
La produzione di auto anticorpi appare, nei modelli murini, legata
Anti-DNA 70%
essenzialmente alle anomalie dei linfociti e a vari squilibri del
Anti SM (peptidi associati a RNA) 30%
network citochinico. Gli antigeni che inducono la formazione di
auto anticorpi possono essere self (RNA, istoni, antigeni di Anti RNP 40%
superficie eritrocitaria) ed essere loro stessi il bersaglio del danno Anti RO SS-A 30%
o anche essere antigeni esterni che mimano il “self” (virus della Anti LA SS-B 10%
stomatite vescicolare) e legarsi alle cellule che poi sono bersaglio
Si considerano solo quegli anticorpi contro
della risposta o montare una risposta cross-reattiva. Ad esempio proteine intreacellulari di rilevanza
alcuni ab anti DNA reagiscono con la laminina della lamina basale. patognomonica
La mediazione del danno degli anticorpi è effettuata dal
complemento.
Insomma i soggetti hanno una predisposizione genetica al lupus: l’esposizione a differenti fattori ambientali
ed altre variabili individuali sconosciute concorrono poi per realizzare diversi quadri clinici, ognuno dei quali
soddisfa diversi criteri per la diagnosi di lupus con diverse manifestazioni cliniche.

Clinica
La malattia può esordire come patologia sistemica o interessare inizialmente un solo organo (nel qual caso
altre alterazioni si sviluppano presto). Gli auto anticorpi sono sempre presenti fin dall’inizio. La malattia di
norma segue un iter di continue riacutizzazioni dopo breve periodi di quiescenza, ma può anche avere una
forma aggressiva rapidamente fatale. Solo il 20% dei pazienti va incontro ad una remissione completa.

• Sintomi sistemici: Molto evidenti, nausea, febbre, anoressia, perdita di peso, malessere
• Muscoloscheletrico: Atralgie e mialgie con dolore spesso sproporzionato all’obbiettività clinica di un
gonfiore simmetrico delle articolazioni (interfalangee, polsi e ginocchia). Noduli sottocutani e miopatia
infiammatoria.
• Cute: Rash maculare “a farfalla” nelle guance e nel dorso del naso, fotosensibile e non cicatrizzante,
esteso anche alle orecchie. Comune anche un rash più diffuso delle aree esposte al sole, indice di una
prossima riacutizzzione. Alopecia, con tendenza alla ricrescita dei capelli. Alcuni pazienti presentano un
sottogruppo detto LECS (Lupus eritematoso cutaneo subacuto), caratterizzato da lesioni cutanee estese e
ricorrenti, fotosensibili, ipopigmentate e non cicatrizzanti, ma non c’è coinvolgimento del SNC e del
rene. Sia nel LECS, LES e LED si possono avere vasculiti, porpora, ulcera del cavo orale, gangrena delle
dita.
• LED (Lupus eritematoso discoide): caratterizzato da lesioni deturpanti circolari, con una zona centrale
cicatrizzante con perdita completa degli annessi. Tali lesioni sono del cuoio capelluto, del viso e delle
aree scoperte delle braccia, schiena e collo. Il 20% dei LES sviluppa LED; il viceversa avviene solo nel
5% dei casi.
• Rene: In quasi tutti i pazienti si riscontrano depositi glomerulari di Ig e di immunocomplessi, ma solo
nel 50% si ha una nefrite con proteinuria persistente. Di questi, molti presentano una glomerulonefrite
mesangiale o proliferativa focale. Questi si limitano alla nefrite e non c’è bisogno di una terapia
aggressiva. Altri sviluppano una GN proliferativa diffusa o una GN membrano-proliferativa, in cui la
progressione all’insufficienza renale è garantita se non c’è una terapia immunosoppressiva potente. Il
monitoraggio degli indici renali e la scelta della terapia sono cose importanti.
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• SNC: Tutti i distretti possono essere interessati, sia le meningi che i nervi che il midollo spinale. Spesso
le manifestazioni acute si hanno quando la malattia è già in fase avanzata. Le manifestazioni più
frequenti sono modeste alterazioni cognitive, convulsioni di qualunque tipo, depressione e ansia. Sono
presenti con minor frequenza una serie di manifestazioni neurologici focali. La diagnosi delle alterazioni
neurologiche non è sempre facile perché possono non essere correlate agli altri segni di malattia, e quindi
richiede l’esecuzione di analisi come l’osservazione del liquor e la RMN.
• Sistema vascolare: Una delle complicazioni più temute è il verificarsi di trombosi in ogni distretto.
Invece che alle vasculiti, sembrano legate all’associazione fra anticorpi antifosfolipidi e processi
coagulativi. Inoltre le continue alterazioni endoteliali associate alla deposizione degli immunocomplessi,
e l’iperlipidemia secondaria alla terapia steroidea possono provocare coronaropatia con angina instabile.
• Ematologia:
o Anemia da disordine cronico. In casi più rari anemia emolitca può essere provocata dalla
presenza di anticorpi anti-eritrociti.
o Piastrinopenia e linfocipenia in genere modeste
o Presenza di anticoagulante lupico, che è un ab anti fosfolipidi che può associarsi a
trombocitopenia e produrre un sanguinamento.
• Apparato cardiopolmonare:
o Pericardite con versamenti che possono causare tamponamento. La pericardite costrittiva è rara.
o Miocardite con aritmia e morte improvvisa
o Pleurite
o Polmonite lupica con infiltrato transitori
o Causa più comune di polmonite associata al LES è una atipica provocata da infezioni che evolve
verso la fibrosi.
o Complicazioni rare ma pericolose sono l’ARDS e l’emorragie intralveolare massiva
• Gastroenterico: Nausea, diarrea e senso di malessere correlabili con una peritonite lupica. Altre
manifestazioni possono essere vasculiti intestinali che possono portare alla perforazione. Come
manifestazione della malattia di base o effetto della terapia si può avere una pancreatite acuta.
• Manifestazioni oculari: Vasculite retinica. Brutta manifestazione che può portare a cecità nell’arco di
pochi giorni. Altre minori sono la congiuntivite, episclerite, neurite ottica e sindrome sicca.

Diagnosi e laboratorio
- ANA (anti nuclear antiobodies) sono il parametro più affidabile presente nel 95% dei malati con lupus ma
non sono specifici. Relativamente specifici sono invece gli anticorpi contro il DNA a doppia elica (ds-DNA)
ANA + dsDNA + complementemia ridotta indicano malattia in fase attiva.
- CH50 (test di attivazione del complemento) è la misura più specifica dell’attività complementare ma è
soggetto a molti errori di laboratorio.
Per la diagnosi di LES devono essere soddisfatti almeno 4 degli 11 criteri riportati qui di seguito:
1. Rash malare
2. Lupus discoide
3. Fotosensibilità
4. Ulcere al cavo orale
5. Artrite
6. Sierositi
7. Nefropatia
8. Danno neurologico
9. Alterazioni ematologiche
10. Disordini immunologici
11. Anticorpi antinucleo

Prognosi: 2 anni Æ 90-95%


5 anni Æ 82-90%
10 anni Æ 71-80%
20 anni Æ 63-75%
La causa più comune di morte è l’insufficienza renale, seguita dalle infezioni. I fattori associati ad una
prognosi infausta sono alti livelli di creatinina sierica (>1,4 mg/dl), sindrome nefrosica con proteinuria
>2,6g/24h, anemia, ipoalbuminemia e carenza del complemento.
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Molti pazienti vanno incontro a remissioni che possono durare anni. Circa il 50% di questi ci rimane per
decenni, spesso per sempre.

Terapia
Non si cura in maniera specifica. La terapia è sintomatica e mira a controllare le riacutizzazioni acute gravi e
a ridurre la sintomatologia a livelli accettabili, a costo degli effetti collaterali di alcuni farmaci.
FANS in quei pazienti che presentano malattia lieve senza manifestazioni che mettono in pericolo la vita
(20%).
Glucocorticoidi frazionati ad alte dosi nelle manifestazioni acute minacciose o gravemente debilitanti.
Agenti citotossici per controllare la malattia in fase acuta, ridurre gli effetti tossici degli steroidi ed impedire
le ricadute.
Anticoagulanti per impedire gli effetti della trombocitopenia e dell’anticoagulante lupoide.

7.5 CONNETTIVITE MISTA


Malattia caratterizzata dall’associazione di manifestazioni del LES, della sclerodermia, della polimiosite e
dell’artrite reumatoide. La presenza di anticorpi anti RNP plasmatici permette di catalogarla come una
malattia a se.
Insorge preferenzialmente nella seconda-terza decade e colpisce di più le donne.
I meccanismi patogenetici sono quelli delle malattie da cui deriva.

Clinica
Esordio classico: fenomeno di Raynaud, mani gonfie, artralgia, mialgia e astenia. Le varie manifestazioni
che completano il quadro si sviluppano nel corso di mesi o anni.
• Tumefazione delle dita con possibile evoluzione verso la sclerodattilia.
• Alterazioni di tipo sclerodermico della cute delle estremità distali e del volto, mai del tronco
• Alcuni rash maculare (a volte discoide) e fotosensibilità
• Dolori, rigidità e tumefazioni delle articolazioni periferiche
• Deformità delle mani come nell’AR ma senza erosione ossea
• Lesioni muscolari tipiche della polimiosite, con alterazioni dell’EMG e aumento degli enzimi muscolari
• 85% dei pazienti presenta interessamento polmonare in genere asintomatico. Abbastanza comune la
pleurite.
• 25% presenta glomerulopatia membranosa in genere molto lieve.
• 70% manifestazioni gastroenteriche, alterazioni dello sfintere esofageo e reflusso gastrico
• 30% pericardite e disturbi del cuore
• Anemia da disordine cronico
• Test di Coombs + nel 60% dei pazienti ma rara l’anemia emolitica
• Ipergammaglobulinemia e fattore reumatoide frequenti
• Anticorpi anti U1 RNP, specifici per una proteina di 70KD legata all’RNA a basso peso molecolare.

Il trattamento di questa patologia è lo stesso delle forme cliniche che si presentano. Di per sé è abbastanza
benigna, più della metà dei pazienti ha un decorso favorevole, ma dipende parecchio dal tipo di connettivite
che si sviluppa in seguito. La sopravvivenza a 10 anni è dell’80%.

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