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Lezione 10/11/2022 – Malattie infettive

1. Introduzione
Il concetto di malattie infettive: le malattie infettive comprendono una serie di fattori
che non dipendono solo dal microorganismo. Le malattie infettive dipendono anche
da fattori psicosociali, economici, socio-culturali. Le malattie infettive hanno un link,
ad esempio avere l’HIV favorisce anche l’infezione dal batterio della tubercolosi. Il
passo più importante, forse, nella storia della medicina è forse l’applicazione della
medicina, ad esempio alcune malattie sono state eradicate, un esempio è il vaiolo.
Le cause delle malattie infettive sono:
- prioni;
- virus;
- batteri;
- protozoi;
- elminti;
- miceti;
- alghe.
Il concetto di malattie infettive, con il passare degli anni, e grazie anche alle nuove
scoperte e conoscenze, evolve. Ed è proprio per questo che da poco è stato scoperto
che, in un organo ritenuto da sempre sterile, ovvero il polmone, vive una flora
batterica non patogena, la cui qualità e quantità aiuta e coopera nel nostro organismo
per funzionare correttamente e difendersi da aggressioni esterne, perciò ha un ruolo
protettivo. Facendo delle considerazioni generali, le malattie infettive avvengono
anche in maniera indiretta, causate da fattori psico-sociali: si può prendere in
considerazione l’HIV o la tubercolosi, che non sono malattie diffuse in maniera
ubiquitaria, nel senso che il mondo comprende paesi decisamente più sviluppati, che
si contrappongono a quelli meno sviluppati, dove il tasso di contagio riguardante
queste malattie sarà più alto, prendendo in considerazione fattori socioeconomici,
pensate all’Africa dove è molto diffusa l’infezione da HIV proprio per motivi
socioeconomici. Le malattie infettive tra di loro hanno un link, con ciò si vuol intendere
che se si contrae l'infezione da HIV, e quindi avere un deficit del sistema immunitario,
ciò potrebbe favorire anche l’insorgenza dell’infezione tubercolare, se il nostro
sistema immunitario funziona in maniera ottimale allora riuscirà a gestirle entrambe,
nel caso contrario porterà allo sviluppo della malattia. È certo che il nostro sistema
immunitario si attiverà laddove sarà presente un evento infettivo, ma conta anche il
contesto socioeconomico. L’ HIV potrebbe essere una malattia di provenienza
animale mutata nel tempo: i virus coesistono negli animali, anche in maniera
asintomatica; si avrà una rimescolanza del materiale genetico, quindi delle
caratteristiche del virus, che renderanno la sua sopravvivenza adattabile in nuove
cellule ospiti (come l’uomo). Ovviamente è anche possibile prevenire l’insorgenza di
alcune malattie infettive tramite la vaccinazione, ricordiamo che alcune malattie
infettive sono state eradicate proprio grazie alla prevenzione, un esempio è il vaiolo.
Le cause delle malattie infettive: le cause delle malattie infettive sono i batteri, i virus.
I funghi e i parassiti. I microrganismi possono assumere un ruolo diverso: possono
essere commensali, patogeni, opportunisti, ad esempio, la flora batterica del cavo
orale o intestinale si definisce commensale; il meningococco è invece un patogeno,
che non causa sempre la meningite e infine ci sono gli opportunisti, che normalmente
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sono innocui, ma in grado di provocare malattie gravi se il nostro organismo è
indebolito. Prendendo sempre come esempio l’infezione da HIV, ma in questo caso
nel suo stato avanzato, quindi AIDS, in un soggetto che ha un sistema immunitario
normale, ovvero che ha un normale numero di linfociti T CD4, (nonché bersaglio
principale dell’HIV e responsabili di una reazione di difesa dell’organismo nei
confronti di alcuni patogeni), non creerebbe alcun tipo di malattia, per altri sono
invece in grado di darla. Altro esempio è la toxoplasmosi, protozoo, che l’uomo è in
grado di contrarre tramite cibi contaminati da parte di cani, gatti o generalmente da
animali. Normalmente nell’uomo questa malattia la si contrae quasi in maniera
asintomatica, (escludendola in maniera acuta nella donna in gravidanza), il protozoo
non viene eradicato dall’organismo, ma viene tenuto a bada dal sistema immunitario,
che se in questo caso viene meno, diviene una delle patologie più frequenti e gravi
nel malato di AIDS. Altro esempio potrebbe essere un uomo con un linfoma che si
sottopone alla chemioterapia, che porta ad una neutropenia, ovvero i globuli bianchi
si azzerano. La chemioterapia oltre ad uccidere i globuli, agisce solo su cellule che
si replicano più rapidamente, perciò un paziente con una malattia patologica, che ha
una chemioterapia citotossica, ha molto spesso una distruzione della mucosa
intestinale, da ciò la complicanza più frequente post terapia, ovvero la sepsi.
I postulati di Koch: tutto ciò non sono altro che i postulati di Koch, il primo che
storicamente postulò i meccanismi fisiopatologici: in questi postulati spiegava che:
- l’agente causale di una malattia infettiva doveva essere presente in tutti i casi di
quella malattia;
- non doveva essere presente in un’altra malattia;
- doveva essere isolato il microrganismo dall'ospite malato e farlo crescere in coltura
pura, attraverso un’infezione sperimentale doveva essere in grado di riprodurre la
malattia. Questi postulati sono stati superati.
Il Port-A-Carth: il port-a-cath viene messo ai pazienti che fanno chemioterapia, esso
è un catetere venoso particolare che viene inserito
tramite un mini intervento chirurgico, sotto la cute viene
introdotto un bottoncino con un gommino, che viene
bucato con un ago attraverso cui si infonde il
medicinale e vengono fatti i lavaggi. Il
port è stato creato principalmente per evitare che
durante la chemioterapia si prendano infezioni, ma non
è stato così, perciò sono stati creati altri dispositivi
come il PICC (Catetere Venoso Centrale ad inserzione
periferica) formato da un tubicino esterno che viene coperto da un cerotto trasparente
idrorepellente; questo viene considerato il più efficiente in caso di infusioni continue
anche perché è più semplice da rimuovere. Per quanto riguarda la catena di
infezione, esistono patogeni che causano malattie, che entrano in contatto con la
flora batterica ed essa impedisce il clostridium difficile, batterio gram positivo
anaerobio ovvero che vive senza ossigeno ma è in grado di produrre tossine, esso
può essere presente nel nostro intestino ma in fase “dormiente” quindi non è in grado
di produrre la tossina. Su 326 casi in cui è stato isolato il 64,1% erano asintomatici,
quindi il patogeno può anche non causare la malattia, lo avete visto con il Covid-19
dove un soggetto in famiglia era positivo è un altro no.

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Il sistema immunitario: il sistema immunitario funziona in diversi modi, è molto
complicato. Noi abbiamo diversi stadi, in cui il sistema immunitario riconosce il
microrganismo e applica la sua strategia difensiva. Alcuni microrganismi noi li
combattiamo tramite delle cellule che si chiamano linfociti B, che producono anticorpi
specifici contro parti del microrganismo. Basta pensare al SARS-CoV-2, il vaccino
funziona andando a stimolare gli anticorpi specifici nei confronti di una proteina
denominata spike, che è quella che viene occlusa per entrare nelle cellule. Se gli
anticorpi lo bloccano, si va a bloccare l’ingresso del virus nelle cellule. Ci sono
pazienti però, che non producono anticorpi, ma in qualche modo l’inglobulazione
dell’RNA, o del materiale di cui è fatto il vaccino, ad esempio le sospensioni delle
proteine o degli antigeni, fanno in modo che si attivino delle cellule in modo specifico,
quindi si ha un’immunità cellulo-mediata. Questo tipo di immunità è detta immunità
umorale, che è diretta nei confronti dell’agente patogeno soprattutto sulla base degli
anticorpi. L’immunità Umorale è quella basata sugli anticorpi, come anche quella
cellulare, perché nei confronti dei batteri incapsulati, soprattutto lo stafilococco, noi
usiamo i granulociti, ovvero i neutrofili, che sono quelli maggiormente applicati nella
difesa nei confronti dei batteri comuni. Per altri batteri a seconda di come sono
strutturati, c’è anche l’immunità anticorpale, ma soprattutto cambia il tipo di cellule
nel sistema immunitario, per esempio la tubercolosi utilizza questa attivazione da
parte dei macrofagi.

2. Sepsi
La Sepsi è una sindrome, che ha un’incidenza altissima soprattutto nei pazienti
ospedalizzati, ma non solo, essa supera sia l’incidenza dell’infarto del miocardio, che
quella dei tumori. In Italia si stima la morte di 50.000 persone l’anno, può colpire
chiunque senza distinzioni di sesso, età, condizione di salute anche se ovviamente
sono più esposte le persone con più fragilità. La Sepsi consiste in una disfunzione
d’organo, causata da una risposta sregolata dell’ospite a un agente infettivo. Non
significa avere un batterio nel sangue. Ad esempio, ci sono persone che non hanno
febbre, quindi asintomatiche, a cui viene effettuata un’emocultura con conseguente
risultato positivo, il paziente non avverte sintomi, apparentemente sta bene, eppure
ha una setticemia, ovvero un'infezione del torrente ematico. In realtà la differenza
nella prognosi tra un paziente e un altro, è la risposta che l’organismo attiva nei
confronti dell’agente infettivo che in quel momento si trova nel sangue. Quella al
torrente ematico è una delle forme più gravi tra le infezioni. Normalmente attraverso
il termine sepsi, ci riferiamo alle infezioni batteriche, in realtà la definizione è molto
più ampia, ed è indipendente dallo stimolo infettivo. Si definisce shock settico quando
nell’ambito di una sepsi il coinvolgimento degli organi coinvolge il sistema circolatorio
e il sistema cellulare metabolico e, questo vuol dire che c’è un metabolismo tossico
alterato, tale da incrementare la produzione di acido lattico che acidifica il pH del
sangue, oppure quando c’è una risposta circolatoria di tipo vasodilatativa che causa
un’ipotensione, per cui è necessario agire con agenti detti inotropi, ovvero agenti che
vasocostringono, come l’adrenalina. La sepsi era basata soprattutto su quelli che
sono gli agenti fungini nei termini infettivi, ma negli ultimi anni c’è stato un incremento
importantissimo, che va da 25.000 a 250.000 casi di sepsi, causate da batteri gram-
positivi, gram-negativi o da funghi. Uno dei fattori che ha causato questo incremento
è l’ospedale, attraverso un alto grado di medicalizzazione, inteso come terapia.
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Pensate che se un paziente ha sepsi o shock settico, il rischio di morte aumenta del
40%. Se un paziente che ha più di 55 anni è affetto da sepsi, ha la possibilità di
guarire maggiore del 1,86% rispetto a un paziente che ha meno di 55 anni. Sappiate
che la sepsi o lo shock settico aumenta più di 4 volte il rischio di morire, quindi prima
si riconosce, prima si cura e maggiore è la possibilità di curare il paziente. Una cosa
fondamentale per noi medici è che una terapia antibiotica empirica può tardare il suo
effetto in caso di sepsi. Quindi l’approccio deve esse più tempestivo possibile e più
corretto possibile per salvare la vita al paziente.
La diagnosi e il SOFA: per fare diagnosi di sepsi è stato inventato un punteggio
sperimentato sui pazienti in cui si è vista la mortalità, il SOFA (Sequential Organ
Failure Assessment score). Per cui prevede che noi definiamo un punteggio avendo
una serie di parametri tipo: la saturazione dell’ossigeno ma anche altri parametri da
laboratorio. Questo sofa score è difficile da ottenere (a causa dei numerosi esami da
laboratorio ecc), così è stato ideato il Quick sofa con il quale è possibile calcolare lo
score al letto del paziente senza esami da laboratorio. Si prendono in considerazione
3 semplici parametri:
- pressione sistolica < 100;
- stato mentale alterato;
- frequenza respiratoria >= 22;
- quindi si controllano le parti più importanti del corpo.
Se il paziente presenta almeno 2 punti abbiamo fatto diagnosi di sepsi.

3. Il lavaggio delle mani


Ci sono delle regole da rispettare, infatti bisogna lavarsi le mani. Lavarsi bene le mani
è un mezzo di prevenzione delle malattie infettive e costituisce la misura più
importante per interrompere la trasmissione di agenti patogeni. Ma attenzione, non
è sufficiente passare le mani sotto l’acqua con del sapone. Bisogna dedicare circa
un minuto al lavaggio delle mani e seguire alcune indicazioni.
Le regole per lavare bene le mani: ripassiamo le 10 regole che trasformano acqua e
sapone in un potente alleato contro le infezioni:
- togliere anelli e bracciali;
- bagnare le mani con l’acqua;
- usare la dose di sapone sufficiente per coprire tutta la superficie delle mani;
- frizionare le mani palmo contro palmo e palmo contro dorso, intrecciando le dita;
- frizionare il dorso delle dita contro il palmo opposto, tenendo le dita strette tra loro
(come per fare il pugno);
- frizionare il pollice sinistro tenendolo stretto nel palmo opposto. Fare lo stesso con
il pollice destro;
- risciacquare con acqua;
- asciugare con salvietta monouso e usarla per chiudere il rubinetto;
- la pratica deve durare almeno 40-60 secondi;
- ricordarsi che le soluzioni igienizzanti sono un’alternativa valida, soprattutto se si è
fuori casa, ma non possono essere considerate alla pari di acqua e sapone. Le
soluzioni igienizzanti eliminano comunque la flora batterica superficiale attraverso
una soluzione che evapora a contatto con l’aria e contribuisce a ridurre la
trasmissione di germi.

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Indicazioni del Ministero della salute: lavare le mani è molto importante quando si sta
fuori casa ma anche quando si svolgono attività casalinghe, non solo quando sono
sporche in modo visibile. Ecco le indicazioni del Ministero della Salute. Bisogna
lavare le mani prima di:
- mangiare;
- maneggiare o consumare alimenti;
- somministrare farmaci;
- medicare o toccare una ferita;
- applicare o rimuovere le lenti a contatto;
- usare il bagno;
- cambiare un pannolino;
- toccare un ammalato.
Bisogna lavare le mani dopo di:
- aver tossito, starnutito o soffiato il naso;
- essere stati a stretto contatto con persone ammalate;
- essere stati a contatto con animali;
- aver usato il bagno;
- aver cambiato un pannolino;
- aver toccato cibo crudo, in particolare carne, pesce, pollame e uva;
- aver maneggiato spazzatura;
- aver usato un telefono pubblico, la tastiera del computer, maneggiato soldi;
- aver usato un mezzo di trasporto (bus, taxi, auto, ecc.);
- aver soggiornato in luoghi molto affollati come palestre, sale d’aspetto di ferrovie,
aeroporti.

Lezione 14/11/2022 – Malattie infettive

4. Profilassi delle malattie infettive


La trasmissione di batteri multi-resistenti: la trasmissione di batterimultiresistenti, in
particolare di altri tipi di patologie infettive, nell’ambito soprattutto delle infezioni
nosocomiali, ovvero infezioni causate generalmente da batteri che vengono
trasmessi all’interno degli ospedali. I pazienti affetti da queste infezioni sono pazienti
che nel corso della degenza vengono colonizzati da batteri che sono presenti
all’interno dell’ospedale e che sono sottoposti a una importante pressione antibiotica,
e infatti i batteri di queste infezioni sono antibiotico-resistenti. Vengono definiti batteri
multi resistenti i batteri capaci di resistere all’azione di più antibiotici. La principale
modalità di trasmissione di batteri multi resistenti è rappresentata dalle mani del
personale. Particolare attenzione va posta sulle superfici e alle apparecchiature che
vengono frequentemente in contatto con le mani degli operatori sanitari. La prima
strategia per contenere la trasmissione di batteri ed anche la più efficace è il lavaggio
delle mani. La procedura del lavaggio delle mani si conosce molto bene essendo una
delle procedure di prevenzione del Covid-19. La durata va dai 40-60 secondi. Questa
procedura è finalizzata alla rimozione dello sporco e della flora microbica transitoria,
che è caratterizzata da microrganismi che si raccolgono con le mani a seguito del
contatto con le persone assistite. È previsto il lavaggio delle mani prima di ogni
contatto con il paziente e alla fine.

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I dispositivi di protezione individuale: per dispositivi di protezione individuale (DPI) si
intende qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore
allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi che sono in grado di minacciarne la
sicurezza o la salute durante il lavoro. I DPI utilizzati in riferimento all’ambito sanitario
sono diversi, esempio quelli impiegati per la protezione respiratoria (mascherina), per
la protezione congiuntivale (schermi facciali, occhiali) per la protezione delle mani
(guanti); per le protezioni del corpo (tute, camici). Ci sono svariati tipi di precauzioni,
oltre quelle standard, che sono importanti per prevenire la trasmissione di agenti
patogeni che si trasmettono per contatto diretto o indiretto.
Il contatto diretto e indiretto: il contatto diretto è il contatto che c’è tra un paziente e
un altro, in caso di contagio diretto l’individuo viene contaminato direttamente dalla
sorgente d’infezione, per esempio mediante contatto sessuale o per trasmissione
aerea. Il contatto indiretto, è anche il più frequente: è mediato da vettori animati o
inanimati, in caso di contagio indiretto l’individuo viene contaminato indirettamente
dalla sorgente d’infezione, ad esempio con le nostre mani, insetti, oggetti. Ci sono
studi che hanno dimostrato che il fonendoscopio ha una percentuale di
contaminazione fino all’85%, perché non vengono adeguatamente disinfettati e usati
da un paziente all’altro trasmettendo gli agenti patogeni. Le precauzioni per il contatto
sono:
- predisporre il paziente in una camera singola, o con pazienti aventi la stessa
infezione;
- indossare i guanti se si entra nella stanza;
- rimuovere i guanti prima di lasciare la camera;
- usare un camice pulito aggiuntivo, se si è a rischio di contatto ravvicinato con il
paziente (ad esempio durante l’igiene) che deve essere poi smaltito in un contenitore
apposito per rifiuti speciali prima di uscire dalla stanza;
- limitare il trasporto del paziente;
- se c’è il rischio di venire a contatto con agenti patogeni durante una particolare
procedura è bene usare la visiera;
- usare attrezzatura riservata solo a quel determinato individuo. Le infezioni da
contatto sono: infezioni gastrointestinali; respiratorie; della cute o delle ferite o
colonizzazione con batteri multi-resistenti; infezioni enteriche da C difficile; infezione
da E. coli enteroemorragico per pazienti incontinenti;
- infezioni da Shigella, Epatite A, virus respiratorio sinciziale, infezioni virali enteriche,
infezioni cutanee da Herpes Simplex e ulcere e da decubito.
Precauzioni per malattie trasmesse da goccioline per via aerea: i pazienti di queste
malattie sono affetti da malattie che si trasmettono attraverso particelle piccole, con
diametro inferiore a 5 micron, anche a lunga distanza, attraverso l’aria, perché vi
rimangono sospese. Le precauzioni sono:
- porre il paziente in camera singola con pressione negativa atmosferica, ovvero si
deve mantenere un gradiente per cui la pressione atmosferica nella stanza è
negativa rispetto al reparto (questo perché così l’aria non esce dalla stanza) e
monitoraggio, 6-12 ricambi di aria per ora;
- indossare dispositivi respiratori in ogni caso;
- il personale ricettivo non dovrebbe entrare in camere di pazienti senza indossare la
mascherina, N95 o FFP2, che permettono un filtraggio dell’aria fino al 95%, che è un
livello di protezione molto alto;
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- limitare il trasporto del paziente, ad esempio in caso di esami strumentali, o fargli
fare gli esami, come una Tac, per ultimo rispetto agli altri pazienti, in modo da
garantire un’adeguata aerazione della stanza per il paziente successivo. Quando il
paziente con tubercolosi esce dalla sua stanza deve indossare una mascherina
chirurgica.
Un esempio di malattia per cui è necessario l’isolamento per via aerea è la
tubercolosi, ma anche le infezioni virali come morbillo e varicella, proprio perché le
particelle virali rimangono sospese nell’ambiente. Ci sono anche delle precauzioni
per malattie trasmesse da grandi goccioline, diametro di oltre i 5 micron, che non
rimangono sospese nell’aria (per cui si chiede comunque una distanza dal soggetto
di almeno 2-3 metri). Il paziente va sempre posto in stanza singola, o si usa
l’isolamento di coorte (pazienti con la stessa infezione possono essere ricoverati
nella stessa stanza). In caso, ad esempio, di colonizzazioni del cavo faringeo di germi
molto resistenti, il paziente deve essere possibilmente isolato in stanza singola, e se
non è così si deve garantire una distanza di almeno 2 metri tra un paziente e l’altro,
o usare un separé se si scopre l’infezione e i pazienti sono già nella stessa stanza.
Quando ci si avvicina al paziente si utilizza la mascherina, preferibilmente la FFP2.
La malattia del Covid-19 mette in funzione tutte queste metodologie e precauzioni
per malattie infettive. Il Covid è anche una pandemia, quindi un’infezione che ha va
a un’alta diffusibilità e in cui non tutti i soggetti sono immunologicamente preparati.
Succede la stessa cosa per il virus influenzale, perché i virus che circolano non sono
quelli degli anni precedenti, contro cui si ha una protezione immunologica. Quando
arriva un virus nuovo e causa una pandemia è la stessa cosa. Le precauzioni contro
il Covid sono da contatto e da droplet (goccioline), e anche per vie aerea. È
necessario garantire un’adeguata sanificazione degli ambienti, perché se ad
esempio ci si lava le mani tra un paziente e un altro, ma se si viene a contatto con il
letto o il comodino contaminati di un paziente, si contaminano anche gli altri pazienti.
Molte volte è stato dimostrato che non sempre la contaminazione è tra un paziente
e un altro, e si va a dimostrare andando a vedere geneticamente come sono i batteri.
Se tra un paziente e un altro i batteri sono simili, ma geneticamente diversi, vuol dire
che la contaminazione è più ambientale, che tra un paziente e un altro. Un discorso
molto importante che riguarda i medici è l’attenzione all’uso degli antibiotici, cioè
quella che viene chiamata antimicrobial stewardship, ovvero l’utilizzo corretto nelle
indicazioni, nella somministrazione, nell’utilizzo per la specifica infezione, evitando di
usare antibiotici di nuova generazione o di più ampio spettro quando non si può.
Questo perché se, ad esempio, si ha un’infezione da pneumococco (Streptococcus
pneumoniae), che è una delle cause principali di polmoniti, o anche di meningiti, e
per cui il trattamento di scelta è la penicillina, non serve usare il Meropenem. Si può,
quindi, utilizzare un antibiotico che è a più basso livello come spettro di azione ma
specifico e reattivo nei confronti di quel batterio. C’è l’abitudine inveterata di errare
della prescrizione di antibiotici nelle profilassi perioperatorie, cioè la profilassi che si
fa negli interventi in cui è necessario garantire che l’antibiotico sia in circolo durante
l’operazione chirurgica. Ad esempio, nel caso di un intervento chirurgico sul colon,
che è pieno di batteri, per evitare che quest’ultimi possano andare in circolo si fa una
profilassi mezz’ora prima dell’intervento, e al massimo si ripete dopo quattro ore, che
nella maggior parte dei casi si fa con la Cefazolina, se l’intervento si prolunga. Può

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succedere di incontrare pazienti il cui uso di antibiotici dura fino a due settimane: in
questo caso è assolutamente scorretto.
La profilassi aspecifica: per profilassi si intendono tutte quelle norme che tendono a
prevenire qualcosa. La prevenzione primaria è, per esempio, effettuare campagne
informative. Si definiscono infatti aspecifiche perché non si sta facendo uno specifico
intervento, ma si garantiscono in generale delle norme di profilassi di igiene in
assoluto. Per fare un esempio, se si va a fare un viaggio in Africa, o in zone in cui
non c’è prevenzione delle acque, la profilassi aspecifica è non bere acqua dal
rubinetto, ma quella in bottiglia.
La profilassi specifica: la profilassi specifica può essere una chemioprofilassi (chemio
significa farmaco), che quindi garantisce una protezione limitatamente al periodo in
cui viene assunto o prescritto. Ad esempio per la malaria non esiste un vaccino,
perciò chi viaggia in Africa (soprattutto nell’area sub sahariana) in zone in cui la
malaria è presente è necessario fare una profilassi con un farmaco antimalarico.
Questo farmaco (il più frequente è il Malarone) deve essere assunto almeno due
giorni e poi si deve continuare fino a una settimana dopo il rientro, assumendolo
quotidianamente per tutta la durata del soggiorno. Nel caso della malaria, oltre alla
chemioprofilassi, durante il soggiorno in Africa si può fare anche una profilassi
aspecifica, che consiste nell’indossare maniche e pantaloni lunghi, calzini alti, cioè
un abbigliamento tale da evitare zone del corpo scoperte, e dormendo la notte
all’interno di apposite zanzariere. C’è anche la profilassi da immunizzazione, cioè la
profilassi specifica rivolta contro uno specifico agente eziologico che può essere di
due tipi: o con immunizzazione passiva, o con immunizzazione attiva tramite la
profilassi vaccinale.
L’immunizzazione attiva e l’immunizzazione passiva: la differenza tra i due tipi di
immunità è che nel caso dell’immunizzazione attiva si stimola il sistema immunitario
del soggetto a produrre le difese contro l’agente patogeno con i vaccini. Nel caso in
cui non si ha la possibilità di avere un vaccino, oppure quest’ultimo non è stato
efficace, oppure ancora il soggetto non era stato vaccinato e non si fa in tempo a
vaccinarlo perché ha avuto un contatto con l’agente patogeno, si possono infondere
nel paziente delle immunoglobuline. Le immunoglobuline sono degli anticorpi esterni
all’organismo che vengono iniettati supplendo quella che è una reazione immunitaria
con anticorpi che il soggetto non ha non avendo fatto la vaccinazione. Questo
succede per esempio con la varicella nelle donne in gravidanza: se avviene un
contatto e la donna gravida non è immunizzata è necessario infondere al più presto
possibile le immunoglobuline. Nel caso del Covid-19 possono esserci soggetti che
non sono responsivi alla vaccinazione, perché hanno già fatto delle terapie
immunosoppressive che bloccano la possibilità all’organismo di produrre anticorpi
Nel 2021 è stato inserito in commercio un anticorpo monoclonale; gli anticorpi
monoclonali sono anticorpi, in questo caso specifici contro la proteina spike del virus,
che durano un tot di mesi e proteggono dal virus nel caso di un possibile contagio.
C’è un’enorme discrepanza tra i paesi più ricchi e quelli più poveri per quanto
riguarda la possibilità di accedere alle vaccinazioni in quanto sono più limitate. Si
deve ricordare che i vaccini sono la più grande scoperta e il più grande traguardo
ottenuto nella storia della medicina per la salute pubblica in generale, perché sono
in grado di prevenire milioni di morti ogni anno. Nonostante questo, nel 2015 sono
stati registrati più di duecento casi di morbillo in soggetti giovani adulti, la maggior
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parte dei quali non era vaccinata, non aveva ricevuto il vaccino in età infantile e le
persone morirono delle malattie più altamente contagiose. Tutto questo ha portato
ad un alto tasso di ospedalizzazione e un alto tasso di complicanze, perché se da
una parte il morbillo, così come le altre infezioni virali, nel bambino sono più lievi,
raramente si hanno delle complicanze, dall’altra nei giovani adulti sono più frequenti
le complicanze, ad esempio nel caso del morbillo la complicanza più importante e
frequente è la polmonite interstiziale. Se la campagna nei confronti del morbillo fosse
stata attivamente rivolta anche a soggetti giovani adulti che non erano stati
precedentemente vaccinati, l’epidemia non ci sarebbe stata. Il vaccino è l’unica arma
che attualmente esiste per eradicare una malattia. Il vaiolo è stato eradicato; i casi di
poliomielite riguardano solo pochi paesi, come l’Afghanistan, il Pakistan, la Nigeria.
Esistono tre sierotipi di poliomielite: dopo aver eradicato il primo sierotipo, nel 2019
è stato eradicato anche il terzo sierotipo (WPV3). I casi attuali riguardano il sierotipo
2 contro cui è l’importante obiettivo dell’Oms arrivare all’eradicazione completa.
Edward Jenner introdusse la vaccinazione contro il vaiolo nel 1802. All’epoca si
credeva che chiunque si vaccinava si trasforma in un animale, perché il vaccino era
base animale (periodo dell’oscurantismo). Un gruppo di autori aveva pubblicato un
articolo in cui veniva dimostrato che il vaccino del morbillo poteva causare autismo:
in realtà metodologicamente non c’era nessuna interazione di fatto. L’articolo venne
molto criticato, tanto che venne eliminato. Tanti studi hanno dimostrato che non c’è
alcuna cooperazione tra il vaccino del morbillo e l’autismo, fare ricerca vuol dire
adottare una metodologia corretta e non si poteva tenere conto solo dei bambini con
l’autismo che avevano fatto il vaccino per cercare una correlazione. La storia delle
teorie contro i vaccini è piena di falsi miti che nella stragrande maggioranza dei casi
non tengono conto che per arrivare a commercializzare e a promuovere la
vaccinazione sono stati fatti studi di serie di sicurezza con qualsiasi farmaco. I vaccini
non solo prevengono la morte causata dalle diverse patologie. Una ragazza di 27
anni, Ilaria Caccia, è morta per meningite fulminante da meningococco, una delle
forme più fulminanti che possono esistere. Della casistica dei bambini che hanno
avuto la meningite batterica, il 62% dei bambini che sono sopravvissuti hanno
presentato delle sequele neurologiche, cioè delle complicanze, che vanno dalla
sordità alle crisi compulsive etc. Per alcune tipi di vaccinazioni la copertura non è
ottimale, ma l’obiettivo in generale è ottenere quella che è l’immunità di gregge, cioè
ottenere che la maggior parte dei soggetti, oltre il 95%, siano immuni in modo che
nei soggetti più fragili si riduca il rischio di trasmettere l’infezione. C’è stato il caso di
una classe di bambini che si è sottoposta alle vaccinazioni perché un loro compagno
aveva la leucemia e non poteva fare i vaccini: questa è proprio l’immunità di gregge.
Si sono superati anche tanti falsi miti, ad esempio ora il vaccino influenzale è
raccomandato anche alle donne in gravidanza, proprio perché protegge sia la madre
che il bambino; è stata raccomandata anche la vaccinazione DTaP dalla 27esima
alla 36esima settimana di gravidanza, perché, dal momento che la copertura
anticorpale data dal vaccino si riduce abbastanza brevemente nel tempo (magari è
diminuita proprio mentre la donna è in attesa), è necessario un richiamo del tossoide
tetano-difterite-pertosse (e non esiste il richiamo solo per il tossoide, ma anche per
altri vaccini). Questo perché il livello di anticorpi decade, quindi la madre non può
trasmetterli al feto, per cui il nascituro finché non arriva all’età giusta per fare il
vaccino rimane scoperto. Il richiamo per la donna a ridosso del parto garantisce che
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la madre risviluppi, in seguito a questo booster, gli anticorpi e li trasmetta in maniera
adeguata al nascituro. Inoltre, se si riducono i casi, ad esempio, di polmonite da
pneumococco, che colpisce soprattutto i soggetti anziani, infatti la vaccinazione è
raccomandata ai bambini, si riduce la possibilità che il paziente debba essere
ricoverato per questa malattia e quindi si riduce il consumo di antibiotici, si riducono
l’ospedalizzazione e il rischio di antibiotico resistenza, perché a un soggetto che non
ha quella malattia non si ricovera e non si prende le infezioni nosocomiali. Tutto
questo è una catena, alla cui base ci sono le vaccinazioni, la prevenzione alle
infezioni.

5. HIV
Nel periodo del 1981 a Los Angeles, dove esiste storicamente una delle comunità
omosessuali più grandi nel mondo, iniziarono a esserci degli strani casi di una
polmonite particolarmente grave, che portava a insufficienza respiratoria molto
importante e anche alla morte, in una serie di soggetti prevalentemente omosessuali.
Contemporaneamente ci fu un aumento sia a New York che in California anche di
casi di un tumore endoteliale delle cellule dei vasi, il sarcoma di Kaposi. Non si capiva
la genesi di questi casi: la polmonite si trasmetteva per via aerea, e nonostante il
soggetto che l’aveva contratta vivesse con altre persone, come la madre, il fratello,
questi non la contraevano. Da qui si iniziò a capire che probabilmente la causa non
era di per sé la polmonite, ma qualcosa che riguardava i soggetti omosessuali, e
quindi probabilmente una malattia contagiosa a trasmissione sessuale. Si arrivò
quindi a scoprire nel 1984 che la causa di queste patologie era il virus Hiv, che fino
al 1995 ha portato a una epidemia con un picco enorme di mortalità annuale. I primi
casi si sono registrati nell’ ’81, mentre il virus è stato scoperto nell’ ’84. Fino al 1995
non è stato possibile trovare una soluzione, che si è avuta nel 1996, in cui sono stati
prodotti una serie di farmaci e si è capito qual è la strategia migliore dal punto di vista
terapeutico: la HAART, la terapia antiretrovirale altamente attiva combinata. La
HAART è data da una combinazione di farmaci, che in realtà erano stati inventati
ancora prima (come la zidovudina, o AZT). Un farmaco da solo aveva delle
resistenze da parte del virus, quindi era inefficace. Si è capito che, come per la
tubercolosi, la terapia doveva essere in grado di aggredire il virus su più fronti in
modo da evitare che diventasse resistente. Questo si è capito nel 1996 perché in
quell’anno sono state scoperte nuove classi di farmaci contro il virus dell’HIV. Nel
caso del Covid-19 i primi casi sono stati a dicembre, e il virus è stato scoperto poche
settimane dopo. In poco tempo si è già scoperto molto di questa infezione e in un
anno sono stati prodotti i vaccini e degli antivirali estremamente efficaci. Questo fa
riflettere su quali sono stati i progressi della scienza. Per fare un riepilogo: dal 1985
è iniziata la diagnosi senologica, nel 1987 è stato prodotto il primo farmaco, cioè la
zidovudina, ma finché non si è giunti alla terapia di combinazione del 1996, fino al
1995 c’è stato un progressivo aumento della mortalità e della diffusione.
Nell’immagine accanto sono presenti i dati raccolti nel 2021. Oggi si calcola che nel
2020 circa 40 milioni di soggetti erano portatori di un’infezione da Hiv, con un tasso
di nuove infezioni pari a 1,5 milioni all’anno. La mortalità è molto alta: circa 700 mila
persone muoiono di Hiv in un anno. Questi sono dati relativi alla prevalenza
dell’infezione da Hiv nel mondo, come sono distribuiti questi 38 milioni, e si può
vedere che 30 milioni si concentrano essenzialmente in un mondo che è capovolto.
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Se si facesse una mappa dell’infezione da Hiv e si ricostruisse il mondo si vedrebbe
che l’infezione è sostanzialmente nell’Africa subsahariana e nel Sud-Est asiatico,
dove è più prevalente. Nell’immagine è stato riportato il numero di nuove diagnosi di
infezione da Hiv in Italia dal 2010 al 2013, e da qui si può vedere che sostanzialmente
il numero di dati è sempre uguale. Cioè, l’infezione da HIV di fatto continua a essere
un problema, e continua anche se non se ne parla più, non è cambiato niente. Sono
Cambiate alcune cose importanti però: la misura in cui la terapia antiretrovirale
permette alla gente di sopravvivere più a lungo. La PrEP, ovvero la profilassi pre-
esposizione, viene molto usata, soprattutto nella comunità gay, e di fatto se ne
apprezza il valore perché consiste nel prendere un farmaco, e non la combinazione,
perché di fatto si è visto che riduce l’incidenza di contagio (è come una
chemioprofilassi). Riduce notevolmente, in maniera molto importante, la possibilità
di contagio a seguito di rapporti sessuali non protetti con soggetti eventualmente
positivi. Esiste anche la PEP, la profilassi post esposizione, che verrà affrontata in
futuro in questo corso.
I fattori di rischio: i fattori di rischio della trasmissione della malattia cambiano a
seconda delle condizioni socio culturali:
- in Italia oltre la metà dei casi di infezione di HIV accade in soggetti omosessuali, e
la seconda percentuale maggiore di trasmissione è costituita da soggetti
eterosessuali;
- in Africa, invece la via di trasmissione maggiore è tra soggetti eterosessuali;
- in America Latina la via di trasmissione oltre l’80% di trasmissione avviene tra
soggetti omosessuali. Negli anni la trasmissione dell’infezione da HIV per via
endovenosa, dovuta allo scambio di siringa, è andata scemando: adesso si vedono
pochissime diagnosi di infezione da HIV per via endovenosa, questo perché
culturalmente si conosce il rischio di infezione, e inoltre tutto si riconduce a uno stile
di vita diverso da quello del passato. È stato dimostrato che molto spesso gli
immigrati acquisiscono l’infezione da HIV dopo essere immigrati, e che siano loro a
trasmetterlo è un altro falso mito. In questa mappa epidemiologica dell’Europa
notiamo che in Italia i tassi di diagnosi, cioè quando i livelli TCD4 sono molto bassi,
e quindi quando c’è un livello di gravità dell’immunosoppressione e il paziente è in
una fase pericolosa per la sua vita perché si avvicina a quella dell’AIDS conclamato,
sono oltre il 50%. I pazienti infatti giungono alla diagnosi con già la malattia di AIDS
conclamata. Questo è un gran peccato, perché dal punto di vista clinico c’è una fase
di latenza per cui il paziente è clinicamente asintomatico e non sa di avere l’Hiv (e
potrebbe anche trasmetterlo). Se ci fosse una campagna di screening, cioè di offerta
del test in larga scala, molti pazienti vivrebbero e non avrebbero i danni che possono
avere nella fase grave di malattia. Questo dipende dal fatto che in Italia le persone
non fanno spesso lo screening per l’HIV perché viene vista erroneamente come la
malattia dei tossici e degli omosessuali. In Italia per fare il test dell’HIV bisogna
firmare il consenso informato. Se viene somministrato il test dell’Hiv a un paziente
senza il suo consenso può anche denunciare il professionista che glielo ha fatto.
Grazie a uno specifico enzima, la trascrittasi inversa,i retrovirus sono in grado di
trasformare il proprio patrimonio genetico a RNA in un doppio filamento di DNA. In
questo modo il virus si integra nel genoma umano. Questo va ad inserirsi nel DNA
della cellula infettata, detta "cellula ospite" o “cellula bersaglio”, e da lì dirige la
produzione di nuove particelle virali. Le principali cellule bersaglio dell’HIV sono
11
particolari cellule del sistema immunitario, i linfociti T di tipo CD4, fondamentali nella
risposta adattativa contro svariati tipi di agenti patogeni e oncogeni. L’infezione da
HIV provoca, quindi, un indebolimento progressivo del sistema immunitario
(immunodepressione). Il virus dell’immunodeficienza umana HIV è un retrovirus
quindi è capace di trascrivere l’RNA in DNA. L’HIV, il virus dell'immunodeficienza
umana, è un Lentivirus, appunto l’infezione ha un percorso lento nel tempo, della
sottofamiglia dei retrovirus a RNA il quale contiene:
- 2 copie di RNA (target delle terapie antiretrovirali);
- enzimi, quali trascrittasi inversa (quella che trascrive l’RNA in DNA), integrasi e
proteasi;
- due principali proteine dell'involucro: gp120 gp41 che sono i recettori di membrana.
Ciclo di vita del virus dell'immunodeficienza umana nella cellula ospite: il virus entra
al livello dell’organismo si replica nelle cellule del sistema immunitario e continua a
replicarsi e invadere il sistema linfatico dove stabilisce l’infezione e dove poi
continuerà a replicarsi e a indebolirlo. Il ciclo replicativo: penetrazione, trascrizione
inversa; cioè trascrive il proprio materiale genetico e quindi le proprie proteine, con
le proteasi le taglia in modo che siano opportunamente valide per costituire un nuovo
virione e poi gemma, va al di fuori e infetta altre cellule. La cellula bersaglio principale
sono i linfociti T CD4 +. Il CD4 è un antigene caratteristico di questi linfociti che
intervengono in alcune fasi e in alcune situazioni nell’attivazione del sistema
immunitario. Le conseguenze dell’HIV sono dovute appunto dalla distruzione
continua di queste cellule, e questo porta allo sviluppo delle malattie e delle infezioni
opportunistiche nelle persone con grave deficit immunitario, in cui sono in grado di
causare la malattia. Il virus non solo porta all’apoptosi, quindi alla morte di questi
linfociti. In seguito ci sarà una morte che si instaura cronicamente e si arriverà anche
alla riduzione del numero di questi linfociti al livello del midollo, il numero assoluto
nel sangue decrescerà progressivamente fino a raggiungere un livello critico. L'HIV
tende a infettare le cellule T CD4+, poiché il recettore CD4 ha un'elevata affinità per
gp120 (proteina dell'involucro virale dell'HIV). Le cellule T CD4+ inizialmente
muoiono in fase acuta a causa del danno citopatologico da parte del virus. Le cellule
T CD4+ poi muoiono cronicamente a causa di:
- attivazione cronica delle cellule T;
- inibizione della produzione timica delle cellule T;
- soppressione del midollo osseo;
- distruzione dell'architettura dei linfonodi;
- infezione in corso di basso livello delle cellule T CD4+ della memoria.
L’HIV tipicamente ha un’altissima affinità gp120 con le cellule CD4+ ma è in grado di
infettare anche altre cellule di altri tipi: linfociti B, monociti-macrofagiche fanno parte
del sistema immunitario, cellule dendritiche e cellule gliali che sono cellule del
cervello, fibroblasti, cellule endoteliali quelle dei vasi e anche precursori
ematopoietici al livello del midollo osseo. Il numero normale di CD4 nell’organismo
normale è intorno a 1200 per microlitro, quando iniziano a scendere al di sotto di 800
il soggetto inizia progressivamente a essere più vulnerabile cioè il sistema
immunitario non è già immunocompetente. Quando il numero di linfociti CD4+ arriva
a 500 i soggetti iniziano a sviluppare candidosi orale o episodi di herpes zoster
comunemente detto fuoco di sant’Antonio. La situazione diventa critica quando il
numero assoluto di linfociti CD4 nel sangue diventa inferiore a 200 per microlitro. In
12
questo caso il soggetto entra nella fase di AIDS: Sindrome Da Immunodeficienza
Acquisita. Il virus si tramette principalmente per via parenterale tramite sangue ed
emoderivati ma anche per via sessuale con un rischio che può variare secondo il tipo
di rapporto, ad esempio in rapporti di tipo anale recettivo è più rischioso, o tramite la
trasmissione verticale, cioè dalla mamma al figlio. La trasmissione avviene tramite
rapporti sessuali non protetti, in gravidanza, uso di siringhe contaminate, operatori
sanitari proprio per il rischio biologico legato alle possibilità di incidenti con materiale
contaminato, oppure tramite trasfusioni. Il virus è presente in tutto l’organismo ma ci
sono dei liquidi o dei materiali altamente infettanti come il sangue, lo sperma e le
secrezioni vaginali, e liquidi o materiali che sono potenzialmente infettanti. Questo
relativamente al fatto che questo tipo di possibile trasmissione di infezione e
contaminazione avviene a livello ospedaliero, attraverso ad esempio con il liquido
sinoviale, il liquido cefalorachidiano. Questo perché dato che anche nel cervello il
virus è in grado di riprodursi, dal momento che ci sono le cellule dendritiche, le cellule
gliali etc., il liquido che avvolge il cervello talvolta prende contatti con il virus. E per
questo motivo è importante che vengono scelti farmaci che hanno un’alta capacità di
superare la barriera ematoencefalica. La barriera ematoencefalica è una barriera che
divide il sangue dal cervello, ed è una barriera che purtroppo spesso impedisce a
molti farmaci di penetrare dal sangue all’interno del sistema nervoso centrale, quindi
questo è molto importante perché se si deve curare un’infezione del sistema nervoso
centrale si devono scegliere molecole in grado di superare la barriera
ematoencefalica. Eventualmente si possono utilizzare molecole al dosaggio doppio
in modo che garantiscono la penetrazione del sistema nervoso centrale. I liquidi
ritenuti non infettanti sono: la saliva, il sudore, le feci, le urine, sempre in assenza di
sangue. Il rischio ovviamente aumenta se il paziente ha ematuria, melena o
rettorragia. La possibilità di trasmissione è influenzata: dalla quantità di materiale
biologico in cui si è esposti, una goccia è diversa da una quantità massiva; dalla fase
della malattia del soggetto fonte di esposizione cioè da quanto è alta la carica virale
e quindi dalla quantità di virus circolante. E se il soggetto fonte con cui avviene il
contagio non è in terapia antiretrovirale. Con il bacio non ci si contagia, neanche
dandosi la mano, a meno che entrambi non siano presenti delle ferite che vengono
in contatto; non c’è il rischio in piscina, e nemmeno tramite insetti o animali.
Diagnosi da infezione da HIV: tra le diagnosi abbiamo:
- la diagnosi sierologica, si basa sulla determinazione di anticorpi virus-specifici, cioè
il virus dell’Hiv sfugge all’immunità anticorpale;
- la diagnosi molecolare, cioè l’amplificazione genica mediante reazione a catena
della polimerasi (PCR) che consiste nell’amplificazione dell’RNA del virus oltre che
essere un metodo su cui si basa la quantificazione delle copie del sangue;
- l’antogenemia p24: quantificazione della proteina del core p24 del plasma.
L’isolamento virale: le peculiarità dell’isolamento virale sono ovviamente la diagnosi
sierologica ha un periodo in cui, anche se il soggetto è contagiato, non riusciamo a
definire la misura in cui il soggetto ha prodotto gli anticorpi. Per cui se andiamo ad
effettuare il test su una persona che si è contagiato 2 settimane fa o 10 giorni fa e
non ha ancora prodotto gli anticorpi il test risulterà negativo. Se si vuole andare a
ricercare direttamente il virus si effettua una PCR. Per la ricerca degli Ab-HIV-
specifici si va a valutare la “finestra sierologica” che è il periodo di tempo che
intercorre tra l’inizio dell’infezione e la produzione di anticorpi. La maggior parte degli
13
individui infetti produce anticorpi entro 4-8 settimane dal contagio. Gli Ab anti-HIV
perdurano per tutta la vita. Gli Ab anti-p24 ed anti-env (gp41 e gp160) sono quelli più
precocemente evidenziabili nella fase di siero-conversione. Il metodo standard per
la diagnosi sierologica è un metodo immuno-enzimatico definito ELISA che ha
un’ottima sensibilità > 99,5% cioè che non dà quasi mai falsi negativi e una specificità
del 95% a parte nel periodo in cui non abbiamo sviluppato gli anticorpi. Può essere
positivo quindi altamente reattivo, negativo quindi non reattivo, il soggetto non è
infetto o si trova nella finestra sierologica o indeterminato, quindi parzialmente
reattivo. Quando risulta indeterminato va ripetuto. Quando invece risulta positivo va
confermato con un altro test più specifico in cui il siero viene posto a contatto con
diverse proteine virali e tale test viene definito western blot. Ovviamente i test nel
corso degli anni hanno aumentato la sensibilità per cui ormai nei test sierologici di
ultima generazione, dopo 15-20 giorni sono già positivi, possiamo dire quindi che il
Le fasi dell’infezione: distinguiamo tre fasi sequenziali:
- infezione primaria da HIV, fase in cui abbiamo il contagio, cioè che segue
immediatamente il contagio;
- fase di latenza clinica, che ha una durata di 8-10 anni, ttali anni non vengono molto
considerati in quanto la latenza clinica cambia da soggetto a soggetto. Magari ci sono
soggetti che sono un più resistenti all’azione del virus per cui non sviluppano mai gli
anticorpi in quegli anni. In genere la fase di latenza clinica si avvia dopo l’infezione
primaria che nella maggior parte dei casi è asintomatica o paucisintomatica, ovvero
non dà sintomi specifici e questo è un problema perché le persone non sanno di
avere l’HIV;
- fase sintomatica che è quando il livello dei linfociti CD4 scende il suo livello sotto i
200 e arrivano tutte le manifestazioni correlate all’AIDS, quindi la sindrome da
immunodeficenza acquisita.
In un soggetto non trattato la contagiosità, che dipende dalla carica virale, è altissima
nelle prime fasi a seconda del contagio e poi generalmente molto più alta man mano
che si progredisce. L’infezione acuta è il periodo che intercorre dal momento del
contagio e sostanzialmente la completa siero-conversione. È un periodo che
generalmente viene considerato nell’arco dei 6 mesi. In questa fase a ridosso
dell’infezione può esserci qualche sintomatologia.
La sintomatologia: tra i sintomi abbiamo febbre 96%, linfoadenopatia 94%
(ingrossamento delle ghiandole linfonodali), faringite 70%, rash maculopapulare
70%, e possono essere presente artomialgie 54%. Questi sono i sintomi, se ci sono,
più frequenti. Poi ci può essere diarrea, cefalea, epatosplenomegalia, calo
ponderale, mughetto, sintomi neurologici. La diagnosi differenziale porta:
mononucleosi, infezione da CMV, S. influenzale. Nella maggior parte dei casi dà
sintomi paragonabili a quelli dell’influenza tranne nel caso in cui non ci siano delle
forme più gravi in cui vi è un coinvolgimento del sistema nervoso centrale. La
diagnosi differenziale è come la sindrome della mononucleosi, infatti è una sindrome
mononucleosica. La fase di latenza è caratterizzata da una progressiva riduzione
della replicazione del virus nel sangue periferico associato allo sviluppo degli
anticorpi, la durata è variabile, ed è caratterizzata da una latenza clinica non
biologica: negli organi linfoidi dove vi sono i linfociti vi è una replicazione virale
altamente presente. Finché poi nella fase sintomatica, si arriva ad un progressivo
depapeuramento dei linfociti CD4+ con un’inversione anche del rapporto CD4/CD8
14
anche difetti funzionali, per cui si entra nella fase di AIDS. In questa fase il virus inizia
a replicare in maniera tumultuosa.
Le condizioni che fefiniscono l’AIDS: Le condizioni che definiscono l’AIDS sono
malattie opportunistiche che si verificano più frequentemente o più gravemente a
causa dell’immunosoprressione. Questi includono principalmente infezioni
opportunistiche ma anche alcuni tumori maligni e condizioni senza una chiara
eziologia alternativa ritenuta correlata alla stessa infezione da HIV incontrollata,
come deperimento o encefalopatia. Anche se in alcuni casi è direttamente il virus ad
essere responsabile di alcune di queste condizioni ma nella maggior parte dei casi
sono condizioni che sopraggiungono, come le infezioni opportunistiche, quando il
livello del sistema immunitario è gravemente compromesso e la replicazione dell’HIV
non è controllata. Infezioni batteriche ricorrenti, candidiasi dell’esofago, cancro della
cervice uterina (questo è legato perché molto spesso, in generale un qualche agente
che, anche se è un tumore è causato da qualche virus oncogeno, in questo caso è
causato da Papilloma Virus); quindi il difetto dell’immunità va anche a bloccare da un
lato altri eventi patogeni che possono con più frequenza e meno inibizione avere un
effetto cancerogeno. Un altro esempio è il Sarcoma di Kaposi che è legato all’azione
oncogena del virus HHV8. I linfomi che nell’HIV sono causati da un altro virus
oncogeno che è quello della mononucleosi. Sono tutti virus erpetici. L’infezione da
polmonite di cui si parlava nel 1981 nei casi a Los Angeles il cui agente patogeno si
chiama pneumocystis jirovecii (canini) che era considerato come un protozoo mentre
ora è considerato come un fungo che non ha nessun impatto nelle persone che
hanno un buon sistema immunitario: ci sono anche condizioni che definiscono l’AIDS
che sono derivate dall’azione diretta del virus come per esempio l’encefalopatia da
HIV. Ogni patologia dipende dal tipo di coinvolgimento che la malattia ha sugli organi.
Al livello del sistema nervoso centrale un'altra patologia che ha una prognosi molto
brutta è la leucoencefalopatia multifocale progressiva che è mediata da un virus che
si chiama JC per la quale purtroppo non c’è una terapia specifica e molto spesso la
progressione è talmente rapida che anche se viene utilizzata la terapia dell’HIV
questa non basta.
Considerazioni sulla terapia da HIV: la terapia è stata fondamentale. Dal 1996 in poi
la storia naturale dell’HIV è assolutamente mutata, da quando si è capito che lo
schema terapeutico efficace è un sistema di combinazioni che non solo ha effetto sul
virus ma anche su tumori provocati dal virus e altre condizioni dipendenti dal virus
stesso. L’obiettivo è ridurre la morbilità e la mortalità, migliorare la qualità della vita,
ripristino e preservazione del sistema immunitario, soppressione duratura dell’HIV.
La terapia antiretrovirale è capace di bloccare la replicazione del virus. Quindi il primo
obiettivo della terapia antiretrovirale è stato: il paziente ha 100mila copie di virus nel
sangue, quindi con la terapia entro qualche settimana arriva ad azzerarsi andando
sotto i valori soglia della metodica. Se il virus non si replica più, pian piano il numero
dei CD4+, aumenta fino a tornare ad un livello normale tale da proteggere il paziente
da tutti quegli eventi che si riferiscono all’AIDS. Per cui se prima la progressione era
rapida, era evolutiva adesso anche se si arriva alla fase di AIDS, come purtroppo in
Italia avviene spesso, hai sì la patologia ma con la terapia si ritorna indietro allo stato
di latenza clinica. Ovviamente è una terapia cronica, di notevole impatto economico,
è impegnativa su entrambi i fronti medico-pazienti, necessità di stretto controllo e
quindi di rapporto di fiducia medico paziente ma soprattutto non è in grado di
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eradicare il virus. Se il paziente smette di assumere la terapia il virus torna a
replicarsi, se invece l’assume in maniera scorretta il virus ogni tanto vedendosi
scoperto si replica perché diventa resistente. Bisogna avere aderenza alla terapia
perché è meglio la non assunzione perché questa reca meno danni di una “male
assunzione” poiché questa crea resistenze oltre che esserci tossicità e interazioni.
Per la terapia esistono delle combinazioni che si tratta di esserci più farmaci in
un'unica compressa garantendo quindi al paziente di assumere una compressa al
giorno, a differenza degli anni 90 in cui magari il paziente ne doveva assumere 15.
La terapia si dà in gravidanza, e l’obiettivo in gravidanza è fare terapia per abbattere
la carica virale, e questo ha ridotto notevolmente la trasmissione fetale del virus. Più
precocemente si dà, ma soprattutto in soggetti immunosoppressi), più il rischio di
trasmissione si abbassa, ma questo purtroppo non succede mai. C’è la PrEP: oggi
si sa che se un soggetto assume la terapia antiretrovirale ed ha una viremia non
rilevabile non è in grado di trasmetterla sessualmente. Questo riportato in slide è
l’impatto epidemiologico che ha la terapia. Se un soggetto ha l’infezione e non lo sa
e assume la terapia non trasmette l’infezione e questo è stato un ottimo traguardo.
Tant’è che dall’1984 al 2007 la mortalità è scesa di molto. La mortalità era collegata
ad eventi cardiaci perché sicuramente la terapia ha i suoi risvolti, può causare
dislipidemie quindi aumentare il rischio cardiovascolare ed oggi la gestione sul
paziente HIV positivo non riguarda l’HIV ma riguarda tutta la situazione dal punto di
vista globale che il paziente può sviluppare, che viene monitorata affinché possa
essere prevenuta. Il paziente con HIV oggi è anziano.

Lezione 25/11/2022 – Malattie Infettive

6. Tubercolosi
Per definire meglio la tubercolosi partiamo da un esempio importante: abbiamo una
donna in buono stato di salute ma assistente di volo. È importante definire che è
un’assistente di volo perché è in contatto con molte persone, ma c’è un altro motivo
importante nel nostro caso, ovvero, se lei ha una malattia infettiva e questa si rivela
contagiosa per via aerea in un periodo precovid, quindi senza l’uso obbligatorio della
mascherina, è potenzialmente a rischio di contagiare moltissime persone. La signora
nella fattispecie a luglio inizia ad accusare tosse senza febbre e, recandosi dal
medico curante, le vengono prescritti diversi cicli di antibiotici per un sospetto di una
polmonite batterica. Questi antibiotici coprono tutti gli agenti che più frequentemente
sono causa di polmonite batterica. A questo punto, se non avesse risposto a questi
cicli antibiotici, il medico avrebbe dovuto prescrivere una radiografia, cosa che non è
stata fatta e quindi la paziente ha continuato ad avere questa tosse e nel frattempo
perde 4kg in maniera non motivata. Arrivati a settembre questa lampadina si
accende, quindi viene svolta una radiografia, viene fatta una TAC e si scopre che la
paziente ha una polmonite basale destra e una bella lesione cavitaria. Per cui la
paziente viene inviata al pronto soccorso svolgendo gli esami preposti, viene fatta
immediatamente una ricerca dei micobatteri, che sono gli agenti della tubercolosi e
che per la loro struttura sono alcol-acido resistenti per la capacità di trattenere il
colorante utilizzato per l’analisi microscopica in seguito ad un lavaggio effettuato con
una soluzione acida. Viene fatto un esame microscopico diretto su un campione
(strisciato sul vetrino): è un test rapido che permette di evidenziare i micobatteri
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quando sono presenti in carica elevata nel campione clinico, detto test di Ziehl-
Neelsen. Nonostante la bassa sensibilità esso può essere eseguito su tutti i materiali,
l’unica eccezione è rappresentata dai campioni di sangue, nei quali l’eventuale carica
batterica è praticamente sempre inferiore alla soglia di sensibilità del metodo.
L’esame microscopico della paziente risulta negativo, ricordiamoci bene questo
particolare perché lo incontreremo dopo. Verrà svolta anche la ricerca del DNA
mediante PCR del mycobacterium tuberculosis complex, esame molto più sensibile
perché non occorre che ci sia fisicamente il micobatterio, infatti se ci sono i
micobatteri nelle secrezioni della paziente, il dna dei micobatteri morti è molto più
sensibile come metodica nel ricercare il DNA. La lesione cavitaria è la lesione
caratteristica della tubercolosi, ciò è possibile anche in una fase più precoce; non è
detto che però ci sia sempre, ma quando c’è risulta molto contagiosa.
Le cause delle lesioni cavitarie polmonari: le cause delle lesioni cavitarie polmonari
sono carcinomi, patologie autoimmuni, embolie vascolari, infezioni di cui in primis la
tubercolosi e fungine, trauma e patologie congenite.
Il micobatterio della tubercolosi: la tubercolosi è definita come una malattia causata
dai membri dei micobatteri appartenenti al micobatterio della tuberculosis complex. I
micobatteri sono circa un centinaio, quelli che però non rientrano nella famiglia dei
micobatteri della tuberculosis complex causano infezioni e malattie di tipo diverso,
che non sottintendono una contagiosità interumana. Tra questi, anche se sono molto
molto rari, il più frequente in assoluto è il mycobacterium tubercolosis. Esistono
anche malattie causate dal mycobacterium africanum e si tratta di un’infezione solo
umana e si diffonde per via aerea da individui con casi di malattia e ha meno
probabilità di progredire in malattia clinica in un individuo immunocompetente. Si
conosce anche il mycobacterium bovis, che è causa delle tubercolosi dei bovini in
particolare, sottostimata come prevalenza, soprattutto in Italia, e la trasmissione può
avvenire per via aerea con contatto stretto con animali infetti, ma anche per via
gastrointestinale. È una trasmissione presente ma molto spesso in laboratorio non
viene identificata; quindi, molto probabile che la prevalenza sia maggiore di quanto
noi sospettiamo.
La percezione della tubercolosi: sostanzialmente dopo il secondo dopoguerra la
malnutrizione, la povertà, la scarsa condizione igienico sanitaria e tutti questi fattori
portarono ad un indebolimento del nostro organismo e quindi ad una prevalenza
maggiore della tubercolosi. In realtà da una trentina d’anni la tubercolosi è venuta
alla ribalta, dovuta alle problematiche sociali e politiche e sanitarie come HIV che ha
portato un aumento ai casi della tubercolosi. I casi di tubercolosi negli anni 80-90
sono aumentati anche in Italia, in relazione all’immunosoppressione, soprattutto nei
pazienti con HIV; poi è stata istituita la terapia che è risultata efficace,
l’immunosoppressione si è ridotta e di conseguenza anche i casi di tubercolosi sono
diminuiti. In realtà, per molte malattie (soprattutto autoimmunitarie), la ricerca è
andata avanti e ha scoperto quali sono i meccanismi alterati del sistema immunitario
che vengono intaccati; tante terapie attualmente disponibili, per tante e sempre
crescenti patologie, sono costituite da farmaci che bloccano alcuni punti della catena
del nostro sistema immunitario fondamentali per la gestione da parte del nostro
sistema immunitario del batterio della tubercolosi; in questo modo si può dire che la
prevalenza della tubercolosi è associata all’immunosoppressione che noi stessi

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provochiamo come conseguenza alle terapie per diverse patologie. Come si può
vedere dalla slide a fianco, infatti, ci sono alcuni farmaci che aumentano la
percentuale di rischio anche fino a 30 volte in un paziente che è stato a contatto con
il batterio della tubercolosi; infatti, se questo viene a contatto con il batterio prima di
iniziare la cura, se precedentemente il suo sistema immunitario riusciva a tenere a
bada lo stato di incubazione, ora il rischio sarà aumentato anche di 30 volte in più.
L’incidenza, come si è visto anche per l’HIV, è concentrata (quasi l’80% dei casi) in
pochi paesi. I casi di tubercolosi in soggetti HIV positivi si concentrano in questo
modo: il numero dei casi di tubercolosi negli Stati Uniti dal ‘96 ai giorni nostri
evidenzia sempre più l’influenza dei farmaci per l’HIV; infatti, si può notare che
dall’inizio della diffusione della terapia per HIV e quindi con il progressivo
miglioramento del sistema immunitario nei soggetti HIV positivi ha impedito la
diffusione dell’infezione tubercolare.
La trasmissione della tubercolosi: la tubercolosi si diffonde per vie aeree, ovvero il
micobatterio viene espulso con la tosse, con gli starnuti e addirittura semplicemente
parlando, nei soggetti con alta carica batterica, e da lì possono essere inalate dal
soggetto ricettivo. L’infezione si ha quando il micobatterio raggiunge l’alveolo
polmonare (l’alveolo polmonare è l’unità in cui avviene lo scambio di ossigeno nei
polmoni). L’infezione dipende dalla suscettibilità dell’ospite e dall’infettività del
paziente; il rischio aumenta in base alla durata dell’esposizione e alla vicinanza con
il soggetto infetto, la tubercolosi infatti necessita di un contatto prolungato che viene
comunemente definito come “contatto di almeno 8 ore”, questo è importante per
andare poi ad effettuare un’eventuale azione di screening. Quando un soggetto viene
a contatto col micobatterio, si instaura una catena all’interno del sistema immunitario
che è la seguente: i macrofagi attivati, attivano a loro volta i linfociti T-helper 1 che
sono quelli responsabili della produzione dell’interferone (IFN) che stimola altri
macrofagi che crea il TNF e porta, se tutto va bene, al contenimento dell’infezione.
Quindi per riassumere: il micobatterio arriva all’alveolo polmonare, se è in carica
bassa viene bloccato ed eliminato subito; se questo non succede si attiva una serie
di risposte, che si attiva in un arco temporale di circa 4/6 settimane. Nel frattempo
che la risposta immunitaria si attiva, il micobatterio può circolare all’interno
dell’organismo tramite il sangue e raggiungere qualsiasi altro organo e anche i
linfonodi, proprio il processo di attivazione della difesa immunitaria può creare quella
lesione tipica, patologica che viene chiamata “granuloma” al cui interno è presente
materiale necrotico circondato da una serie di cellule specifiche che crea una barriera
di contenimento. Se il sistema immunitario conclude il processo di risposta,
l’infezione tubercolare non porta alla malattia attiva tubercolare ma si instaura
un’infezione latente, ovvero il micobatterio è presente nell’organismo ma viene tenuto
a bada dal sistema immunitario, non viene debellato. Nel 95% dei casi dopo il
contagio il sistema immunitario completa il processo di risposta e l’infezione rimane
latente per tutta la vita, c’è però la possibilità che la malattia si attivi nell’arco della
vita; nel rimanente 5% si può invece manifestare la malattia attiva. Quando qualcosa
nella catena viene spezzato, ad esempio a seguito della contrazione del virus HIV, il
granuloma di contenimento non è più efficace e l’infezione latente diventa attiva. Il
rischio di attivazione del micobatterio è più alto nei primi 2 anni poiché poi si inizia a
creare un deposito di calcio che rende il granuloma più resistente.

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Trasmissione e controllo della tubercolosi in ambito sanitario: ci sono casi in cui la
tubercolosi risulta più contagiosa, questo può dipendere anche dalla migrazione del
micobatterio in zone come la laringe (caso raro), che rendono più semplice la
trasmissione tramite le vie aeree. Alcune manovre, come l’intubazione di un paziente
o la broncoscopia, stimolano l’espulsione di mucose; è infatti bene raccogliere un
campione di espettorato a seguito di una stimolazione tramite aerosol con soluzione
ipersalina: il sale irriterà le vie aeree e il paziente tossirà in maniera più profonda,
questo naturalmente non deve essere fatto in pazienti in cui questa azione potrebbe
creare danni. Ci possono essere casi in un paziente che ha delle perdite di sangue
dall’albero bronchiale, che è tipico della tubercolosi nella fase avanzata; quindi, può
capitare di trovare delle tracce di sangue nell’espettorato o addirittura nelle forme più
gravi un’emorragia dall’albero bronchiale in quantità contingenti. Ovviamente in
queste situazioni bisogna proteggersi di più, preferibilmente nei casi in cui il paziente
sta effettuando l’aerosol per produrre un espettorato indotto, l’infermiere chiude la
stanza per poi non entrare in corso. Vedremo anche successivamente che la
tubercolosi può essere non solo polmonare ma anche manifestarsi in altri modi.
Facciamo 3 esempi per spiegare meglio questi casi extra polmonare:
- primo caso: una signora l’aveva sparsa in tutte le ossa e nemmeno un po’ a livello
polmonare, cioè disseminata ma a livello delle ossa;
- secondo caso: un altro paziente aveva un nodulo a livello polmonare ma soprattutto
l’aveva sparso in tutto il peritoneo ovvero i foglietti che ricoprono tutta la parte
dell’intestino. Generalmente una situazione del genere è tipica delle metastasi, tanto
è vero che questo paziente è stato visto da oncologi, sono state effettuate anche
delle biopsie e grazie all’esame istologico è stato rilevato che in realtà non si trattava
di un tumore ma dì granulomatosi, ovvero tubercolosi;
- terzo caso: una ragazza arrivò avendo tutto il quadro pelvico congelato, il che vuol
dire che tutte le pelvi (utero, ovaie, ecc) erano un unico blocco unito e non si
riconoscevano più le strutture singole. Fortunatamente per la ragazza era un caso di
tubercolosi extra polmonare e non un tumore ginecologico come si era
precedentemente ipotizzato.
La differenza tra i primi due casi è che la Tac del torace del caso della tubercolosi
ossea era completamente negativa, insieme alla Tac anche l’analisi dell’espettorato,
la ricerca del DNA e l’esame colturale; l’altra signora invece aveva una localizzazione
polmonare logicamente. Se escludiamo che il paziente abbia una tubercolosi a livello
polmonare ma solamente extra polmonare, cioè una tac negativa, un espettorato
negativo etc, possiamo sospendere l’isolamento del paziente. Questo perché la
tubercolosi si trasmette per via aerea e se questa è presente in altri organi ed
esclusivamente extra polmonare possiamo evitare di isolare il paziente perché viene
a mancare la contagiosità della malattia stessa che si ha solo nel momento in cui la
malattia è presente nel polmone. Questa però è una condizione che devono decidere
i medici infettivologi, andando proprio ad escluderla come ipotesi con indagini
radiologiche ed indagini in microbiologia. Il paziente del I caso aveva le ossa piene
di lesioni critiche ed è infatti una delle tubercolosi più devastanti, tanto da sembrare
all’inizio un tumore in uno stato avanzatissimo; aveva un ammasso più o meno
all’altezza della clavicola piena di tessuto di colore beige/marroncino. Quindi appena
è arrivata è stata portato subito in sala TAC, è stato inserito un ago in questa bozza

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aspirando una parte di questo materiale, che è stato preso e mandato in
microbiologia e lì il DNA del micobatterio è risultato positivo: a questo punto si può
effettuare una diagnosi. I pazienti con sospetto di malattia tubercolare devono essere
ricoverati in una stanza singola, preferibilmente in una stanza singola dedicata con
delle specifiche caratteristiche che per legge devono essere presenti nei reparti di
malattie infettive. Abbiamo la stanza del paziente e come noterete nello schema non
vi è la presenza di finestre. Non perché non possano esistere e la stanza debba
rimanere necessariamente al buio, ma perché l’attività principalmente funzionale
della finestra non si può svolgere poiché deve necessariamente restare chiusa. Ecco
perché non è stata inserita nel grafico, perché esiste ma per puro scopo estetico.
Una parte fondamentale è tutto il sistema di filtraggio che deve essere di almeno un
tot di ricicli all’ora, in cui viene aspirata, filtrata e quando arriva filtrata sono presenti
al suo interno degli agenti contenuti in goccioline micron. Questa stanza crea anche
un gradiente pressorio, il che vuol dire che se dentro la stanza del paziente c’è una
pressione negativa l’aria non può passare creando così un effetto simile a quello del
sottovuoto. Poi vi è l’anticamera, che ha lo scopo di non disperdere e quindi di
preservare quella che è la pressione negativa che si ha nella stanza del paziente. Se
l’anticamera non ci fosse, ogni qual volta verrebbe aperta la porta, una parte della
pressione si disperderebbe nell’aria antecedente alla stanza, ad esempio nel
corridoio, perdendo così il famoso gradiente di pressione. È infatti assolutamente
necessario che ogni volta che un infermiere o un medico entrino nell’anticamera si
assicurino che la porta esterna venga chiusa.
I dispositivi di protezione individuale da utilizzare: la mascherina N95 o la mascherina
FPP2, che è capace di filtrare fino al 95 % delle particelle aderendo bene al viso. Se
facciamo, però, una delle manovre in cui aumentiamo l’espulsione dei micobatteri da
parte del paziente come ad esempio la broncoscopia, l’espettorato indotto, entrando
nella stanza, deve essere assolutamente indossata la mascherina FPP3 che ha un
potere di filtraggio pari al 99%, questo perché dopo una manovra del genere quasi
sicuramente i micobatteri presenti nel paziente sono andati a contagiare anche l’aria.
La mascherina FPP2 e FPP3 differenziano molto spesso anche solo del laccetto,
magari nella FPP2 il laccetto è blu mentre nella FPP3 è di colore rosso Prima del
covid si utilizzavano le mascherine FPP2 o FPP3 con una placchetta davanti,
chiamata anche filtro e venivano utilizzate proprio per entrare nelle stanze con
pazienti affetti da tubercolosi. Bisogna fare attenzione però perché questo filtro
poiché è un filtro a ventosa, con la parte concava rivolta all’esterno quindi se io inspiro
la ventosa si blocca, se io espiro la ventosa si apre. Il filtro è adatto per fare espellere
l’aria in modo tale che questa non vada ad appannare per esempio le visiere o anche
semplicemente gli occhiali. Ora però non sono più in commercio come prima per il
loro costo troppo elevato. Capita spesso di sentire operatori sanitari o portantini che
fanno indossare la mascherina con il filtro al paziente, errore gravissimo da non fare
perché è un attimo che il paziente possa infettare tutti; per lui è infatti necessaria la
mascherina chirurgica. Il paziente, comunque, prima di uscire dalla stanza deve
essere istruito soprattutto a coprire la bocca e il naso con i fazzoletti quando
tossiscono o starnutiscono, non è necessario l’utilizzo quando il paziente è nella sua
stanza, quindi: paziente utilizzerà la mascherina chirurgica, mentre gli operatori
sanitari (medici, infermieri, OSS) la mascherina FPP2 o FPP3 La tubercolosi anche

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se semplicemente sospetta va assolutamente e immediatamente notificata dopo 48h
subito all’ASL o agli uffici preposti dall’ASL.
Le manifestazioni fiische: andiamo ora alle manifestazioni fisiche, facendo una
premessa:
- polmonare, la manifestazione fisica della stragrande maggioranza dei casi;
- polmonare e contemporaneamente extra polmonare;
- extra polmonare, in cui può essere inclusa l’ultima falange del corpo fino al cervello
passando per tutto quello che c’è in mezzo, questo per dire che può essere
veramente in ogni parte del corpo.
Ci sono dei sintomi che vanno al di là della localizzazione e possono essere: la
perdita dell’appetito, astenia, febbre, perdita inspiegata di peso, sudorazioni notturne.
Vi sono dei sintomi legati alla localizzazione della malattia. Se è polmonare sono:
tosse con tracce più o meno importanti di sangue, dolore toracico; nelle forme extra
polmonari, dipende dall’organo o apparato coinvolto, se sono le meningi, cefalea e
tanti altri, se è alla colonna vertebrali dolori alla stessa.
La diagnosi: la diagnosi si fa sul campione che si ritiene patologico, si fanno tre
esami:
- la medicoscopica;
- la ricerca del DNA;
- l’esame colturale, cioè una parte di campione si mette nel terreno di coltura, dove i
micobatteri sono in forte crescita, se è negativa la coltura, viene data in 45 giorni e
se crescono, a seconda della carica batterica del campione possono crescere fino a
dopo 2/3 settimane.
È quindi evidentemente un esame lungo. Dunque, bisogna avere esami più rapidi
come l’esame microscopico, che ci dice se ci sono micobatteri, però non se sono
tubercolari con una resa del 50/60%. Un esame molto più importante per i clinici è la
ricerca del DNA, essendo più sensibile va a cercare l’esame anche dei geni specifici
che sono associati all’esistenza delle terapie tubercolari elencati prima. Nei bambini
che hanno un apparato respiratorio molto piccolo la broncoscopia è poco fattibile,
perciò, si utilizza l’aspirato gastrico che entra nello stomaco, poiché il batterio
resisteall’acido gastrico.
I farmaci: i farmaci antitubercolari di prima linea sono 4:
- pirazinamide;
- rifampicina;
- isoniazide;
- etambutolo
Lo schema è di usare questi 4 farmaci per due mesi, poi sospenderli per altri due e
proseguire con Rifampicina e Pirazinamide, che sono i pilastri della terapia. Se si ha
una resistenza non si deve mai somministrare un solo farmaco, ma ci deve essere
la somministrazione di farmaci diversi e bisogna garantire la continuità della terapia.
L’Etambutolo può dare problemi ottici e il paziente va seguito costantemente con
esami in laboratorio. Questa terapia è lunga e potenzialmente tossica. Una cosa
molto importante è l’effetto che dà la Rifampicina, la quale tende a colorare i fluidi
(urine ecc.) di colore arancione, e questo fa capire che il paziente ha assorbito la
medicina. Il paziente va tenuto sotto controllo quando c’è una terapia attiva con i dati
dell’esame dei geni di resistenza, se il paziente dopo due settimane è migliorato nelle
forme polmonari, si devono ottenere 3 risultati negativi in tre giorni consecutivi
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dell'esame batterioscopico dell'espettorato. L’MDR si definisce un ceppo resistente
anche alla sola Rifampicina, poiché è il cardine della terapia. Il vaccino BCG (Bacillo
di Calmette-Guérin) è un vaccino vivo attenuato volto a proteggere gli individui naïve,
ormai si è visto da diversi studi che non protegge gli adulti dalla malattia tubercolare
polmonare attiva, si fa solo in alcuni paesi ai bambini perché li protegge dalla
meningite tubercolare.
L’infezione tubercolare latente: l’infezione tubercolare latente è la presenza di
organismi tubercolari nell’organismo senza segni e sintomi, evidenza radiografica o
batterica di malattia tubercolare, quindi è un’infezione asintomatica. Si diagnostica
con il test Mantoux o il test alla tubercolina oppure con l’igra test. Quest’ultimo tramite
prelievo permette di incubare le cellule dei globuli bianchi con antigeni glicobatteri,
se riconoscono l’antigene il quale c’è già l’infezione latente producono l’interferone
gamma e quindi il test va a misurare la produzione di questi. La causa della falsa
positività della Mantoux sono la precedente vaccinazione e l’infezione da micobatteri
non tubercolari. L’igra test al contrario non è positivo nei pazienti precedentemente
vaccinati e ci possono essere falsi negativi nei pazienti allergici con
immunosoppressione grave. L’infezione tubercolare latente si può trattare. Se tutti i
pazienti che fanno gli inibitori del TNF (farmaci immunodepressivi) lo facessero in
maniera sprovveduta sarebbero pieni di tubercolosi perché gli inibitori del TNF si
usano nei pazienti che hanno malattie infiammatorie croniche, ma anche psoriasi
ecc. Prima di dare il farmaco si deve fare prima o effettuare la Mantoux o il
Quantiferon e se il paziente ha l'infezione tubercolare latente, almeno un mese prima
di iniziare il farmaco si inizia il trattamento per la tubercolosi latente. Questo
trattamento è previsto anche negli operatori sanitari o nei soggetti che possono
essere a rischio.

Lezione 15/12/2022 – Malattie Infettive

7. Epatiti virali
Le epatiti virali riguardano il fegato. L’epatite virale è un’entità anatomo-clinica
caratterizzata dal punto di vista istologico da:
- rigonfiamento, degenerazione e necrosi degli epatociti);
- infiltrato di cellule mononucleate, polimorfonucleate e di eosinofili cioè del sistema
immunitario.
Per alcuni virus il danno provocato non è diretto dal virus, ovvero, l’effetto citopatico,
ma è causato dal sistema immunitario che riconosce particelle del virus estranee
esposte sull’epatocita infettato dal virus. Ci occuperemo dei virus ed in particolare
distinguiamo l’alfabeto delle epatiti virali. i virus epatici maggiori sono il virus
dell’epatite A, il virus dell’epatite B, il virus dell’epatite C, il virus dell’epatite D e il
virus dell’epatite E.
La trasmissione: fondamentale è la loro via di trasmissione. La trasmissione del virus
dell’epatite A e E è di tipo enterale quindi oro-fecale; mentre per il virus dell’epatite
B, C, D queste si trasmettono per via parenterale con il sangue e i fluidi biologici; la
loro infezione può cronicizzare e causare malattia cronica. Dunque:
- l’epatite A non cronicizza mai;
- l’epatite E, non si conosce ancora oggi l’ entità, l’epidemiologia, in generale non
cronicizza ma è alta nei pazienti trapiantati;
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- l’epatite B cronicizza;
- l’epatite C cronicizza;
- l’epatite D cronicizza.
Molti virus possono dare epatiti in un corso di malattia. Mentre i virus epatici maggiori
danno epatite acuta e i sintomi correlati sono abbastanza aspecifici, al contrario nelle
altre virosi, il quadro clinico è molto ampio. Ad esempio, si può prendere in
considerazione il Morbillo in cui si ha eruzione cutanea, tosse, tracheite, febbre,
linfadenopatia. Si ha inoltre un danno epatico minore d’entità del danno. Gli indici di
cito necrosi in cui viene valutato il danno epatico (transaminasi) in una epatite B acuta
sono 2-4 mila, in virosi minori il rapporto è 1su10 dai 300. Accanto all’evidenza del
danno epatico, in cui si ha, incremento delle transaminasi, aumento della bilirubina,
ittero (colorazione giallastra della cute e delle mucose, della sclera). Il fegato perde
le sue funzioni. Una parte del tessuto non danneggiato non assolve alle funzioni
proprie del fegato che sono sostanzialmente quelle di sintasi.
La sintomatologia clinica: il periodo prodromico riguarda i sintomi generali aspecifici
prima della comparsa della malattia. Troviamo: astenia, malessere generale, cefalea,
febbre, rash cutaneo, mialgie, artralgie, nausea e vomito, alterazioni del gusto e
dell’olfatto, inappetenza. Non tutti i sintomi sono presenti. Quando compare la
malattia manifesta, il sintomo cardine è l’ittero o subittero che dipende dai livelli di
bilirubina nel sangue che non viene coniugata e escreta attraverso il fegato che è
danneggiato. La bilirubina è escreta dal fegato nell’intestino. Questa è responsabile
del colore delle nostre feci, marrone pigmentata. Dunque, quando non viene escreta
correttamente dall’intestino le feci sono tipicamente ipocoliche cioè giallastre, mentre
la bilirubina viene escreta con le urine e queste sono ipercromiche, ovvero color
marsala (scure). Può essere presente dolore all’ipocondrio destro ed epatomegalia.
Significato dei test epatici: i test epatici vengono effettuati corso di danno epatico.
Distinguiamo quelli che derivano da danno epatocellulare e quindi in corso di epatite
e sono:
• aspartato aminotransferasi (AST, GOT);
• Alanina aminotransferasi (ALT, GPT).
Bilirubina totale e frazionata è un parametro che misura la captazione, la
coniugazione ed e l’escrezione. Colestasi avviene quando vi è una stasi della bile nel
fegato. Gli enzimi indici sono la fosfatasi alcalina e la gamma gt. Quelle molto
importanti che non vedremo alterati nell’epatiti acute sono gli indici di sintesi.
Andremo inoltre a monitorare l’albumina, il fibrinogeno. Il fegato produce molti fattori
della coagulazione (tempo di protrombina in particolare il tempo di quick). Quando il
tempo di protrombina si allunga iniziamo a preoccuparci.
L’epatite acuta: il quadro di laboratorio dell’epatite acuta è il seguente:
- ipertransaminasemia, in genere valori di >10 volte la norma; il picco precede o
segue di 2-3 giorni l’ittero;
- iperbilirubinemia, prevale la forma coniugata;
- iperfosfatasemia alcalina, in genere < di 3 volte la norma;
- ipergammaglobulinemia, non in tutti i pazienti;
- allungamento del tempo di Quick e riduzione dell’albumina nelle forme più severe.
Virus dell’epatite a: il virus dell’epatite A ha le seguenti caratteristiche:
- breve periodo d’incubazione;
- non esistono portatori asintomatici;
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- non cronicizza;
- può dare epatite fulminante raramente;
- virus a RNA;
- effetto del danno epatico può essere diretto dal virus ma non è chiaro se esclusivo;
- molto diffusa nell’emisfero meridionale, quindi in Africa, questo per la precarietà
delle condizioni igienico-sanitarie, potabilità delle acque, corretto smaltimento dei
rifiuti.
Per l’epatite A, la profilassi specifica è il vaccino, mentre quella aspecifica è quando
ci si reca in queste aree non bisogna bere l’acqua del rubinetto. I fattori di rischio
sono mangiare molluschi crudi 40%, viaggiare in aree endemiche 17% e bere acqua
contaminata8%. Tra il 1996 e il 1997 c’è stata un’epidemia in Puglia dovuta ad una
contaminazione delle acque (ingestione di cozze crude). Nel 2017 invece c’è stato
un boom solo nei maschi omosessuali. A partire dai 30 anni di età tutta la popolazione
era protetta. Fino ai 50 anni di età invece era tutta scoperta. Il virus viene ingerito, si
moltiplica nell’epitelio intestinale, passa nel sangue dando una viremia, entra nel
parenchima epatico e da lì attraverso la bile viene escreto dalle feci. Il virus nelle feci
è presente solo nei primi giorni. Dopo 4-5 giorni dalla comparsa dei sintomi e
dell’ittero il virus nelle feci non lo troviamo più. Pian piano crescono gli anticorpi prima
le IgM e poi gli anticorpi totali e si va incontro alla guarigione. All’interno degli ospedali
il paziente viene isolato per almeno 5 giorno dopo la comparsa dell’ittero.
Riassumendo:
• trasmissione feco-orale;
• incubazione: circa 3 settimane.
L’epatite A si risolve sempre. Il vaccino è inattivato per adulti e per bambini. La
somministrazione avviene per via intramuscolare nel deltoide. Conferisce un alto
livello di protezione se vi è un richiamo ad un anno. Non ci sono controindicazioni
specifiche, scarse reazioni e ben tollerato. Durata della protezione 10-15 anni. Le
categorie che si devono vaccinare sono: gli addetti al settore alimentare, i viaggiatori
internazionali, il personale medico che si rechino in aree endemiche, i familiari di
soggetti malati, il personale di asili e istituti per anziani e portatori di handicap, i
tossicodipendenti e gli omossessuali. La vaccinazione inoltre è consigliata alle
persone affette da altre forme di epatiti croniche, nelle quali una ulteriore epatite è
da evitare.
Virus dell’epatite E: si trasmette per via oro-fecale, quindi attraverso il consumo di
acqua ed alimenti contaminati da feci infette. È particolarmente grave nelle donne in
gravidanza e può essere associata a delle forme particolari. È un virus a RNA
generalmente ha un effetto citopatico diretto. È molto simile al virus dell’HAV, la
malattia ha le stesse caratteristiche tranne appunto le epatiti fulminanti le quali sono
a maggior rischio le donne in gravidanza soprattutto al terzo trimestre. Attenzione ai
viaggi perché ad esempio se si è vaccinati per l’epatite A e si va in Africa, magari
l’epatite A non si prende con l’assunzione di qualcosa di contaminato ma si potrà
essere contagiati dal virus per l’epatite E. Quindi astenersi da acqua e da alimenti
non confezionati o lavati. Ci sono 4 genotipi che hanno un’epidemiologia
completamente diversa. I genotipi sono le costituzioni genetiche di un organismo e
nel caso del virus HEV hanno delle specificità genetiche diverse cioè lo stesso virus
che ha delle caratteristiche diverse nel genoma. I genotipi 1 e 2 sono quelli che hanno
un contagio attraverso la via oro-fecale, hanno un’alta incidenza di epatite acuta
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clinicamente manifesta, avvolte ad esempio l’epatite A decorre in maniera
asintomatica soprattutto nei bambini, ha un’alta letalità nelle donne in gravidanza,
non cronicizza mai, non ci sono terapie e vaccini disponibili se non in Cina ma, al
momento non sono approvati in tutto il mondo, è quella a cui ci riferiamo dal punto di
vista epidemiologico quando si parla di viaggi. Mentre i genotipi 3 e 4 possono dare
casi autoctoni anche nei paesi più sviluppati come anche in Italia ci sono casi di
epatite E e ha una siero-prevalenza più alta ad esempio in Abruzzo legata alla
infezione nei maiali e alla diffusione con la produzione e consumo di salsicce e
fegato. Quindi si ha un andamento diverso dal punto di vista clinico. I genotipi 3 e 4
sono quelli responsabili delle forme individuate di epatite cronica (epatite E) quella
che è stata vista soprattutto in pazienti trapiantati di midollo quindi fortemente
immunodepressi. Il virus nelle feci rispetto all’epatite A si trasmette in più tempo per
questo la durata dei sintomi è più lunga, dopodiché generalmente anche in questo
caso si combatte con gli anticorpi e l’infezione si risolve.
Virus dell’epatite B: l’epatite B (HBV) è un virus che ha la peculiarità nel materiale
genetico di essere costituito da DNA. Le parti più importanti sono: l’antigene che è
una proteina di superficie del virus, quella del core interno, all’interno del core c’è
DNA e più l’enzima che serve per la replicazione. Nella distribuzione geografica
dell’infezione da HBV la diffusione nella zona Sud-Africana la prevalenza e alta più
dell’8% ma questo è dovuto ad atteggiamenti socioculturali e ai fattori di rischio del
sesso non protetto. Anche in Cina c’è un elevata incidenza di epatite B. La
trasmissione è parenterale quindi sangue e derivati, siringhe e aghi contaminati. È
una via parenterale in apparente cioè non necessariamente si deve vedere il sangue
che entra nella mucosa ma avvolte tracce del virus possono essere presenti su
oggetti in cui apparentemente non vediamo il sangue come rasoi, spazzolini da denti,
forbici per unghie, in cui magari è presente del sangue ma il virus dell’apatite B é in
grado resistere molto nell’ambiente, questo è anche responsabile della diffusione
dell’epatite, anche la via sessuale è molto importante e anche la via materno-fetale
(transplacentare). L’effetto non è diretto citopatico ma in realtà l’HBV infetta
l’epatocita il quale espone gli antigeni virali che vengono riconosciuti dal sistema
immunitario il cui reagisce contro il virus ma in realtà contro la cellula. L’epatite A non
cronicizza mai, se si ha un’epatite acuta da HBV c’è un rischio basso (0.1%) che però
è più alto dell’epatite A, è più raro per evolvere nella forma fulminante altrimenti
nell’80-90% dei casi si va incontro a guarigione. Nel 10-20% dei casi si può avere lo
stato di portatori cronici inattivo in cui il virus persiste ma non è responsabile del
danno epatico oppure epatite cronica attiva che porta all’evoluzione nel tempo che
evolve in 10-20 anni fino alla cirrosi ed eventualmente all’epatocarcinoma. La
peculiarità del virus dell’epatite B che sia un virus a DNA fa sì che il DNA del virus
anche dopo il superamento dell’infezione e vi è una guarigione, il virus persiste dentro
gli epatociti perché il DNA è in grado di permanere nelle cellule in forme non integrate
nel genoma umano ma permane nel nucleo delle cellule infettate in forma di
CCCDNA cioè sono frammenti di DNA. Nel caso di risposta immunitaria che
l’organismo ha creato e ha permesso la guarigione con la produzione degli anticorpi,
viene meno è possibile che anche in un soggetto guarito l’infezione possa riattivarsi
e dare forme fulminanti. Questo si è potuto costatare con i farmaci biologici nuovi,
uno dei primi utilizzato per il trattamento dei linfomi a cellule B che un anticorpo
monoclonale uccide specificamente i linfociti B, sono quelle cellule del sistema
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immunitario responsabili della produzione di anticorpi. Andando a eliminare i linfociti
B patologici con questo farmaco si eliminano anche i linfociti B che servono
all’organismo. Con l’utilizzo di questo farmaco si è visto che ci sono stati dei casi con
pregressa epatite B che hanno riattivato l’infezione dopo anni anche se prima erano
protetti perché distruggendo i linfociti B il livello anticorpale si abbassa, si annulla e
quindi se si hanno gli anticorpi dovuti al vaccino non succede niente, se non è
avvenuta la trasmissione di epatite B in quel periodo, se invece succede a un
paziente con una pregressa infezione la riattivazione del virus può dare forme di
epatite fulminante. Se gli anticorpi vanno in seguito all’azione di questi farmaci
vengono distrutti i linfociti B e si azzera il livello di anticorpi anti-epatite B. Ad
esempio, se si ha avuto il morbillo il fatto che permanga il materiale genetico in fondo
a questi CccDNA all’interno dell’epatocita fa si che il virus se non è tenuto a bada si
può riattivare. Se si ha avuta l’epatite A e si ha sviluppato gli anticorpi poi gli anticorpi
si abbassano il virus nell’organismo non ci sarà più, ma il rischio per questa epatite
si ha se durante il trattamento con questo farmaco (anticorpo monoclonale) ci si
reinfetta perché non si ha più la protezione che si ha sviluppato prima. Infatti anche
con il covid succede questo. Il problema non è per tutti quei virus o agenti patogeni
perché comunque una volta che noi sviluppiamo l’immunità debelliamo la malattia. Il
problema dell’epatite B è che persistendo per lungo tempo queste particelle in grado
poi di iniziare la replicazione del virus se si abbassa il sistema immunitario si
riattivano (come il morbillo che è un virus che persiste). I marcatori essenziali
dell’epatite B sono innanzitutto gli antigeni di superficie, l’HBsAg che è quello che si
ritrova nel sangue perché viene prodotto anche dagli epatociti e ci fa fare la diagnosi
della epatite B acuta o cronica ed è fondamentale nella risposta immunitaria perché
gli anticorpi protettivi sono quelli rivolti contro l’HBsAg e quindi anticorpi Anti-HBs che
sono quelli che si vanno a stimolare con il vaccino ma quelli che permettono se
vengono prodotti di andare incontro a guarigione, infatti l’epatite cronica B si definisce
quando per l’assenza di comparsa di anticorpi Anti-HBs per almeno 6 mesi e la
persistenza dell’HBsAg nel sangue per almeno 6 mesi in seguito all’epatite acuta.
Quando è presente l’epatite B, inizia ad essere riprodotto nel sangue l’HbsAg, ma
anche l’HBeAg, e c’è l’infezione acuta; a distanza di tempo, iniziano ad essere
prodotti gli anti-HBc, prima le IgM, che sono quelle indicative di infezione acuta,
dopodiché dopo un po’ iniziano a comparire gli antiHBs, che sono quelli che ci
permettono di guarire: quando iniziano a comparire, l’HbsAg declina e scompare; se
questo non avviene per 6 mesi, in quel 10-20% di casi che cronicizzano, l’organismo
non sviluppa gli anticorpi anti-HBs, per cui il virus non viene debellato e va incontro
a epatite cronica. Quindi la diagnosi si effettua cercando gli antigeni, che sono le
particelle virali, quindi l’HBsAg e l’HBeAg, e gli anticorpi, ossia gli anti-HBc (quindi le
IgM, che generalmente sono espressione di un’epatite acuta o possono essere
presenti nelle riacutizzazioni da epatite cronica), gli anti-HBs e gli anti-HBe.
Virus dell’epatite D: l’epatite D è un virus difettivo, cioè è un virus a RNA che però
non riesce a dare infezione da solo, non riesce a replicarsi: per replicarsi, dare danno
e infezione ha bisogno della struttura del virus dell’epatite B; quindi, ha bisogno di
una coinfezione contemporanea con il virus dell’epatite B. Quindi, senza un’infezione
da epatite B, non possiamo avere un’infezione da epatite D. Se viene inoculato il
virus dell’epatite D, iniettato in vena da solo, non succede niente, a meno che la
trasmissione non avviene o in chi è già portatore di HBV e ha un’epatite cronica,
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oppure da un soggetto che è coinfetto, e trasmettiamo sia l’epatite D che l’epatite B.
Questa è la distribuzione geografica, ovviamente è molto meno prevalente, e
generalmente è anche meno frequente, ma ovviamente vedete che in Cina, dove è
molto diffusa l’epatite B è anche più diffusa l’epatite D. La modalità di trasmissione
con esposizione percutanea avviene per uso di droghe endovena, mentre per
esposizione permucosale si intendono contatti sessuali. La modalità di trasmissione
è parenterale, in particolare per uso di droghe, quindi scambio di siringhe
contaminate da sangue, e contatti sessuali. Tra le caratteristiche cliniche ritroviamo:
- la coinfezione perché l’infezione avviene contemporaneamente;
- la malattia acuta severa;
- un basso rischio di cronicizzazione;
- la superinfezione, ossia l’infezione delta colpisce il portatore cronico di HBV;
- generalmente cronicizza;
- un alto rischio di malattia epatica severa Quindi possiamo avere due casi diversi:
- una coinfezione, in cui un soggetto viene infettato contemporaneamente da HBV e
HDV; in questo caso dà una malattia acuta molto severa, però il rischio di
cronicizzazione è più basso;
- l’infezione può avvenire in un paziente già portatore di HBV in maniera cronica, che
generalmente poi cronicizza anche l’HDV e la malattia evolve in maniera severa.
Virus dell’epatite C: l’epatite C è quella che si manifesta prevalentemente. In Africa
non è sconosciuta, ma non c’è un livello di screening alto. Noi siamo a prevalenza
bassa, ma discreta. Negli Stati Uniti l’incidenza si è abbassata notevolmente in
rapporto ai fattori di rischio che sono venuti a mancare, le “mode”: prima andava
l’eroina per via endovenosa, cosa che è cambiata da vari decenni; ma anche il
controllo delle trasfusioni, lo screening, ecc. La stessa cosa dei genotipi, ma molto
più complessa, l’abbiamo per l’HCV: abbiamo virus diversi: genotipi 1a, 1b, 2a, 2b,
2c, 3a, 3b, 4, 5, ecc., distribuiti in modo diverso, e questo è molto importante,
soprattutto perché ogni genotipo ha una risposta diversa ai vari farmaci antivirali.
Adesso con i nuovi farmaci questo discorso si è un po’ abbattuto, però alcuni genotipi
erano storicamente molto più difficili da eradicare, e anche con i nuovi farmaci, che
sono molti ma sono stati semplificati, ce ne sono solo 3 rimasti per varie scelte,
venivano utilizzati a seconda del genotipo individuato. La modalità di trasmissione
più diffusa è quella parenterale, anche in maniera inapparente, ad esempio in dialisi.
Generalmente la trasmissione sessuale rispetto all’HBV è meno trasmissibile da un
punto di vista anche di trasmissione inapparente, tranne appunto nelle dialisi. Tra le
modalità abbiamo:
- contatto con sangue infetto (di gran lunga la più frequente modalità);
- emodialisi;
- saliva (in caso di morsi);
- punture e tagli tra gli operatori sanitari;
- tatuaggi, piercing;
- trasmissione sessuale;
- trasmissione verticale.
Questo è un fegato cirrotico, evoluzione e rischio di epatite cronica all’incirca in 20
anni, ovviamente anche con altri fattori importanti che peggiorano il rischio di
progressione, come l’abuso di alcool, se c’è un’epatite cronica, si sviluppa una cirrosi
e poi può svilupparsi un’epatite cronica terminale, una cirrosi epatica scompensata.
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In realtà questa infezione ha un rischio di cronicizzare più alto dell’epatite B: circa
l’80% dei soggetti che vengono contagiati con il virus dell’HCV non riescono a
eliminare il virus, per cui si instaura epatite cronica, che quindi poi evolve in cirrosi
epatica ed eventualmente in carcinoma e si ha rischio di morte. Capitano pazienti
con gli anticorpi anti HCV positivi, ma RNA negativo: questi pz fanno quindi parte di
quel 20% dei casi che è riuscito ad eliminare il virus. Si può osservare nel grafico
quello che succede con o sviluppo degli anticorpi e la scomparsa dell’HCV RNA, e
invece quello che succede in chi non supera l’infezione e quindi nonostante lo
sviluppo di anticorpi continua ad avere una replicazione virale e quindi un danno
epatico con questo andamento negli anni fluttuante delle transaminasi.
Generalmente non c’è una terapia per l’epatite acuta. Ci sono i farmaci per l’epatite
B e già da tanti anni per l’epatite C. L’epatite C, che sia acuta o cronica appena
possibile la si tratta con i farmaci per evitare che cronicizzi. Per l’epatite B oggi ci
sono dei farmaci, ma ancora non è un protocollo stabilito. In generale per l’epatite
acuta non c’è una terapia, se non di supporto, quindi si consigliano una serie di cose:
- riposo;
- evitare di sovraccaricare il fegato delle sue funzioni;
- regime dietetico adeguato che eviti di intossicare il fegato ulteriormente;
- infusione endovenosa di glucosio, per migliorare l’apporto glucidico e calorico. Visto
che il fegato produce il glucosio, se lo somministro metto a riposo il fegato, anche se
si è visto che non serve molto;
- somministrazione di polivitaminici del gruppo B;
- somministrazione di vitamina K, nei casi di diminuzione del TAP;
- lassativi;
- cortisonici, solo nei casi di epatite A ad impronta colestatica;
- evitare farmaci epatotossici;
- abolizione dell’alcool.
Tuttavia, le epatiti croniche possono essere di tanti tipi, ci possono essere anche le
epatiti autoimmuni. L’epatite virale è causata dal virus, e il sistema immunitario serve
per eliminare la causa, in quel caso l’epatite è causata da una risposta disgregata
del sistema immunitario che attacca il fegato, e quindi si dà l’immunosoppressore.

Lezione 20/12/2022 – Malattie Infettive

8. Emocolture e malattie nocosomiali


Per sangue umano non si intende solo quando esso è visibile. Bisogna considerare
nel rischio di trasmissione parenterale anche i campioni biologici che siano
componenti del sangue umano o derivati del sangue umano. Altri fluidi corporei che
sono assimilabili al sangue umano sono per esempio lo sperma, il liquido
cerebrospinale (liquido che avvolge il cervello all’interno delle meningi), liquido
pleurico, liquido pericardico, liquido sinoviale (presente nelle articolazioni), liquido
peritoneale, il liquido amniotico, la saliva. Quindi la contaminazione a cui si può
andare incontro non è solo il sangue. Qualsiasi di questi liquidi ha più alto o minor
rischio di contaminazione. I fluidi corporei per cui è più alto il rischio sono tutti i liquidi
corporei visibilmente contaminati da sangue o qualsiasi fluido corporeo di cui non è
possibile stabilire l’origine o la possibilità di contaminazione. Quelli a basso rischio
sono la saliva, le lacrime, il sudore, le urine, le feci ove ognuno di questi non sia
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visibilmente contaminato da sangue. I lavoratori esposti sono gli infermieri e tutto il
personale sanitario, ma anche il personale addetto alle pulizie o all’ordine pubblico.
Le modalità di esposizione sono le punture accidentali con aghi o strumenti taglienti
contaminati, taglio con bisturi o con l’ago da sutura. Meno frequente è la
contaminazione delle mucose e delle congiuntive con liquidi biologici. Gli agenti
patogeni trasmissibili più frequenti in corso di attività assistenziale sono la sifilide e
le epatiti. La possibilità della trasmissione parenterale c’è nella misura in cui il
patogeno si ritrova anche in una fase ristretta nel sangue. Ove è possibile risalire a
seguito di una contaminazione il paziente va testato. L’epatite B in ambito
assistenziale è trasmessa tramite la puntura di aghi contaminati ed è importante il
ruolo di trasmissione tramite contatto con materiale contaminato dall’antigene di
superficie. Ovviamente sulla base della sierologia, dello statuto sierologico e
virologico del paziente, il rischio può essere diverso. Ovvio che la copertura vaccinale
ha un'efficacia, che si sa essere del 90%. L’Epatite C ha una trasmissibilità molto più
elevata dell’HIV tramite contaminazioni di soggetti positivi. Si può contenere il rischio
con un utilizzo corretto di una serie di procedure o dispositivi di protezione, oltre che
la vaccinazione, laddove è possibile, ma per epatite C, per esempio, non esiste.
Quindi il contenimento si basa sull’attenzione e sul corretto stratagemma clinico. Si
utilizzano tutte le misure di protezione necessarie con tutti i pazienti,
indipendentemente dalla patologia, quando si è in un reparto di malattie infettive. Le
epatiti croniche possono essere silenti se non nelle forme più avanzate; l’HIV, dal
momento dell'infezione alla manifestazione dell’AIDS, presenta una lunga fase
asintomatica; quindi, è capitato venga diagnosticato a un paziente per caso, perché
in Italia, ed è un compito del medico, il test per HIV si può fare solo e solamente
previo consenso informato firmato dal paziente, infatti nei sierologici di screening si
rilevano senza le epatiti, ma non HIV, perché serve il consenso informato.
Ovviamente l’utilizzo dei dispositivi va commisurato alla manovra che si opera: se si
ha un rischio di splashing (schizzi) di liquidi biologici sicuramente si andranno a
proteggere cute e mucose. Le lesioni più a rischio sono quelle del cutaneo, ovvero
contatto con pelle o mucose non integre. La contaminazione della pelle integra è a
rischio nullo, perché la pelle è protettiva, a meno che non vi siano delle escoriazioni
che permettono il passaggio di sostanze. Maggiore è l'area di contaminazione,
maggiore è il rischio (es. massa di liquido biologico addosso). Il rischio risulta
maggiore se:
- la lesione è profonda;
- se il sangue è visibile sui dispositivi;
- se un ago è stato direttamente incanalato nella vena ed è cavo perché il sangue
resta all’interno;
- se un paziente è in fase avanzata di malattia con quantitativo incontrollato di agente
patogeno.
L’uso dei guanti risulta essenziale sia perché è una precauzione standard (perché le
mani sono a maggior rischio di contaminazione in quanto sono super esposte) e in
più i guanti riducono il rischio a seguito di puntura d’ago, perché l’ago deve comunque
penetrare prima il guanto, che in un certo senso lo ripulisce, e poi tocca la mano. Se
ci si contamina bisogna immediatamente cercare di far fuoriuscire, in caso di puntura
che ha causato un sanguinamento, la maggior quantità di sangue possibile e lavare
con acqua e sapone abbondante. L’utilizzo dei disinfettanti, gel, clorexidina, ecc., non
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è controindicato, però l’efficacia di fatti oggi non è dimostrata; quindi, lavare con
acqua e sapone è sicuramente il modo migliore; c’è un'altra cosa su cui molti
sbagliano: l’uso della candeggina, è sbagliato perché non è un disinfettante ma è un
liquido irritante a causa del pH ecc. Per cui se c’è una lesione, questa può causare
una vasodilatazione locale, quindi, il sangue defluisce più abbondantemente e quindi
può aumentare il rischio che il sangue contaminato entri a contatto con il proprio
sangue.
Precauzioni per la puntura da ago: innanzitutto, regola assoluta: non incappucciare
nuovamente l’ago. Per togliere la tentazione, quando si toglie il cappuccio dell’ago,
lo si butta. Adesso ci sono dei dispositivi di protezione su di essi: quando si usa un
Butterfly, si toglie la protezione, si incannula la vena (a seconda dei modelli e delle
marche) e si toglie via l’ago; ci sono dei bottoncini per cui si ritrae e rientra tutto
all’interno, in pratica quando tu quando hai incannulato la vena, prendi un tampone
di garza o di cotone e tirando indietro l’ago si retrae rientrando nel dispositivo di
protezione, per cui l’ago scompare. Ci sono per esempio alcune siringhe di emogas
che hanno il tappo che non si tira ma si apre tipo armadietto, quindi di lato, però
anche lì poi una volta tirato l’ago, appoggiandosi su una superficie solida, tipo il
carrello che usiamo, rincappucci l’ago e ti proteggi. Ovviamente i dispositivi di
protezione cambiano a seconda della siringa che andiamo ad usare o dal tipo di
marca. Quindi una volta che ritraete l’ago vi dovete assicurare che non possa più
pungere. Nel caso in cui non avessimo a disposizione una siringa con un sistema di
protezione, immediatamente dopo aver retratto l’ago dalla vena prima anche di
mettere il cerotto lo buttate. L’ago non va mai reincappucciato. Ovvio che se siamo
di fronte ad un paziente contagioso, esempio AIDS, non controllato, epidemia non
controllata, non gli faccio un prelievo tutti i giorni, cerco di concentrare in modo da
tale da concentrare i numeri di prelievi per evitare un rischio maggiore. Le categorie
professionali sono inprimis gli infermieri, in secundis i medici e poi in maniera
variabile altri tipi di operatori sanitari, ausiliari, ostetriche ecc. Generalmente si
considera una coltura a rischio da soggetto che ha una in questo caso il soggetto è
affetto da HIV quindi una epidemia non controllata; quindi, una puntura da ago ha la
trasmissione di circa lo 0.3% e dello 0.1% sull’esposizione su mucose. Ovviamente
il rischio sono numeri che lasciano il tempo che trovano, perché la misura più
assoluta dipende da quanto virus c’è nel sangue del paziente, da quanto è profonda
la coltura, da tutti i fattori che ci siamo detti, cioè da quanto sangue è presente
sull’ago che ci siamo contaminati; quindi, il rischio è notevolmente variabile da tanti
fattori. Il concetto è, che non bisogna pungersi e basta.
L’infortunio: qualora dovessimo infortunarci bisogna documentare le circostanze
dell’esposizione e la predisposizione. Dunque, va stilato un modulo d’infortunio sul
lavoro, questo è importante dal punto di vista della medicina del lavoro, e anche a
nostra tutela, se succede un caso del genere va immediatamente notificato sul
modulo d’infortunio dove si descrivono tutte le circostanze che sono successe, se
l’operatore indossava tutti i DPI, l’ora, ecc. In pratica un verbale. E questo si fa
all’interno dell’ospedale, magari l’ospedale ha dei protocolli diversi, ma il modulo
infortunio è una norma di legge, in più se è possibile identificare sempre la fonte, e
almeno per l’HIV, se acconsente effettuare il test. L’infettivologo poi, generalmente o
a seconda di qual è la procedura, cercherà di far effettuare i test al paziente, che
vengono fatti in tempi ferrati, parliamo di qualche ora, perché sono fondamentali per
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decidere il da farsi, e questo riguarda la valutazione infettivologica. In generale se
c’è una esposizione l’accaduto deve essere generalmente bisogno intervenire
immediatamente, perché per infezione da HIV fare una profilassi post esposizione
possa ridurre notevolmente il rischio di una eventuale infezione.
La profilassi postesposizione: la profilassi postesposizione è un trattamento
farmacologico che ha lo scopo di ridurre la probabilità di contagio dopo una possibile
esposizione all’HIV. Un esempio invece di chemio profilassi post esposizione, la
profilassi che si fa per la malaria. Quindi quando è noto che ci può essere un virus
ben venga fare post esposizione, se non è noto va sempre tenuto in considerazione
che è possibile In caso si sappia già che il paziente è HIV positivo, bisogna recarsi
subito in pronto soccorso: l’efficacia della profilassi post-esposizione è maggiore
quanto prima viene iniziata. Le linee guida indicano, se possibile, di iniziarla entro 4
ore. Un esempio di protocollo per la profilassi post-esposizione è il seguente:
- l’operatore deve contattare l’infettivologo, dopo aver fatto manovre di prima
disinfezione;
- l’infettivologo, se possibile, fa eseguire il test sul paziente fonte;
- valuta la situazione generale: il tipo di incidente che è avvenuto (ad es. la puntura
d’ago è diversa dalla contaminazione da urine non visibilmente contaminate da
sangue), la sede della contaminazione (cute, mucose, congiuntive).
Se per esempio l’incidente avviene di sera e la microbiologia è chiusa e quindi non
può eseguire il test per HIV, si può decidere di somministrare un farmaco
antiretrovirale da profilassi. Il paziente potrebbe comunque essere HIV negativo, a
meno che non si sia contagiato due settimane prima di ricoverarsi (finestra
sierologica in cui il test è negativo, ma il paziente è contagioso proprio perché il test
si basa sulla ricerca di anticorpi, i quali si formano dopo due-quattro settimane). La
profilassi post-esposizione può essere raccomandata o sconsigliata o considerata
sulla base delle variabili (modalità di esposizione, materiale biologico coinvolto,
caratteristiche del paziente fonte quindi un anziano piuttosto che un
tossicodipendente, il quale è molto più probabile che abbia avuto comportamenti
rischiosi nelle ultime settimane). Da diversi anni esiste la regola U=U
(Undetectable=Untrasmittable): con viralità negativa non trasmissibile, ovvero se un
paziente ha viremia negativa, è dimostrato che sessualmente non può trasmettere
l’infezione; ciò non è dimostrato per gli incidenti dovuti alla contaminazione con un
ago. Quindi con un paziente che ha viremia negativa va valutata comunque la
profilassi. Quest’ultima consiste in uno schema di terapia antiretrovirale
somministrata per quattro settimane (28 giorni) che si utilizza nel paziente HIV
positivo che ha avuto infezione; a ciò è associato un adeguato follow-up sierologico.
Tutte queste norme sono fondamentali per prevenire la trasmissione. L’ospedale di
Vienna era diviso in due padiglioni. In uno di questi padiglioni era presente la sala
settoria. Ad un certo punto il direttore di questo ospedale Semmelweis notò che il
numero di infezioni post-operatorie era aumentato del 16% in un padiglione piuttosto
che in un altro. Semmelweis pensò che l’unica cosa che differiva tra i due padiglioni
era la presenza della sala settoria. Dalla sala settoria gli operatori andavano nei
reparti e contaminano i pazienti, così lui ebbe un’intuizione e il 15 maggio del 1847
introdusse una nuova regola: chi usciva dalla sala settoria si doveva lavare le mani
con acqua e sapone prima di entrare negli altri reparti. Dopo l’introduzione di questa
regola si notò la riduzione del numero dei casi d’infezione. Fino agli anni 90 si
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classificavano le infezioni in due tipi: comunitarie o nosocomiali. Le infezioni
comunitarie sono divise in due categorie correlate o meno all’assistenza sanitaria e
sono quelle presenti all’ingresso in ospedale, i cui segni e sintomi insorgono entro 48
ore dal ricovero in ospedale, le infezioni nosocomiali che si verificano soprattutto
negli ospedali sono quelle i cui segni e sintomi insorgono almeno 48 ore dopo il
ricovero in ospedale. I fattori di rischio che aumentano le infezioni nosocomiali sono:
l’età, le malattie comunitarie, le alterazioni del sistema immunitario, le alterazioni
della barriera delle mucose, la malnutrizione e poi tutto quello che viene fatto negli
ospedali quindi anestesia, sedazione, uso di antibiotici, la colonizzazione da parte
dei batteri multi-resistenti ma soprattutto le infezioni nosocomiali sono il rischio molto
avventato in relazione all’utilizzo di dispositivi (es. CVC).
I fattori di rischio che aumentano le infezioni nocosomiali: i fattori di rischio che
aumentano le infezioni nocosomiali sono:
- malattie concomitanti;
- alterazioni del sistema immunitario;
- alterazioni mucose;
- malnutrizione;
- tutto ciò che viene fatto in ospedale come anestesia, sedazione, antibiotici,
colonizzazione batteri farmacoresistenti;
- utilizzo di delays.
Se si inserisce un qualsiasi device, questo abbatte le proprie barriere difensive. Ad
esempio nelle infezioni urinarie. Un batterio per entrare nelle urine (in un uomo molto
più che nella donna per motivi anatomici) deve seguire un percorso fino alla vescica
laddove riscontra vari microrganismi che lo combattono/ostacolano, ma se si
inserisce un catetere si abbatte l’intera barriera protettiva, perché si crea un
collegamento diretto con l’esterno, idem il catetere venoso centrale. I batteri, nei
materiali inerti delle plastiche di tutti questi delays, formano un biofilm difficile da
togliere e generano infezioni, tra cui la polmonite da ventilazione che è tra le più
frequenti e gravi. Un paziente che entra nella stanza occupata da un altro
precedentemente e che era colonizzato, ha due volte più rischio di colonizzarsi
rispetto a uno in cui entra in una stanza non colonizzata, quindi si parla
contaminazione ambientale. Così come i fonendoscopi: nell’ 85% dei casi sono
colonizzati.
Le emocolture: esistono due tipi di terapie antibiotiche: una eziologica e una
empirica. In quella empirica si fanno tutti i prelievi per capire da chi il tutto è causato
e, in attesa degli esiti positivi, si effettua una terapia di base, che non sempre è
urgente, dipende dai casi. Perché prima di iniziare nel sospetto di una infezione,
prima di iniziare una terapia empirica, è fondamentale sempre eseguire l’emocolture,
quindi tutte le colture possibili, se il paziente, non ha alcun device addosso, posso
anche decidere di anche se non ha sintomi di fare un’urinocoltura, ma se il paziente
ha un catetere venoso centrale, devo fare l’emocoltura dal catetere, devo capire se
un’infezione deriva dal catetere, se ha un drenaggio pleurico, è opportuno che
prelevo un po’ di liquido, lo mando in microbiologia per vedere che batteri ci sono,
poi gli faccio il torace per vedere se dipende da là. Quindi vado a tutti i posti che
possono essere soggetti ad infezione devo prelevare un esame colturale. Se io ho
un paziente con la febbre, è ha una infezione del torrente ematico, se io uso una
terapia antibiotica senza fare emocoltura, non so, se quella febbre (concetto non
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terminato), il paziente ha infezione alle vie urinarie, però ha 40 di febbre, e ha una
serie di cose che determinano una certa gravità, se io non faccio le emocolture, non
so se questa infezione alle vie urinarie è confinata o no, non so se quella infezione è
limitata alla vescica, o i batteri della vescica sono andati nel torrente ematico
portando alla sepsi. Questo, sapendolo o non sapendolo, mi cambia la terapia
antibiotica, perché, una infezione delle vie urinarie non complicata, può implicare solo
2 o 3 giorni di terapia antibiotica. Una sepsi complicata può avere una durata di
almeno 10 giorni. Quindi questo è un concetto, sapere o non sapere ma soprattutto
facendo l’emocoltura solo quali batteri, trasformando la terapia empirica ad ampio
spettro, usare antibiotici che sarebbe meglio non utilizzare per generare resistenze,
a volte può bastare la semplice penicillina inventata un secolo fa, se per esempio ho
un enterococco più tosto che un germe resistente al contrario se un germe resistente.
Quindi sapere di un organismo quanto più si può è necessario per questi due motivi
in primis. C’è un rischio diverso, c’è una probabilità (pretesto) che le emocolture siano
positive o negative a seconda della tipologia d’infezione, per fare solo un esempio,
una cellulite non complicata, una infezione della cute, dei tessuti molli, molto spesso
non causa il fatto che il batterio vada in circolo, a meno che non sia una cosa severa
e il paziente è immunodepresso, ma se io avendo endocardite, cioè una infezione
della valvola del cuore, dentro il sangue, la probabilità di avere una emocoltura
positiva è molto alta. Devono essere fatti almeno due set di emocolture, ogni, è
costituito da un terreno di coltura per germi comuni, batteri aerobi e miceti, e uno per
batteri anerobi, quelli che crescono in assenza di ossigeno. Ogni emocoltura prevede
che vengano riempiti entrambi i flaconi, quindi quando parliamo di un set intendiamo
la coppia di flaconi. Devono essere fatte almeno due emocolture prelevate da due
vene periferiche a distanza, cioè, ad esempio, la faccio al braccio destro l’altra al
braccio sinistro, meglio se sono tre se abbiamo la possibilità, e si determina anche
in base al quadro clinico, in base all’urgenza che abbiamo, e si effettuano a distanza
almeno di un quarto d’ora, poi posso decidere di farne tre a distanza di un ora per
esempio se sono siamo di fronte a endocardite, non devo iniziare una terapia, e
voglio a tutti i costi aumentare la sensibilità del test, per avere la possibilità di
individuare un batterio nel sangue perché il batterio non c’è sempre, magari fluttua,
e quindi facendolo in posti diversi, in tempi diversi, perché magari nel primo mi sfugge
ma nel secondo lo individuo. Evitare di prende tranne proprio quando non si debba
fare, da un dispositivo, l’emocoltura da un catetere endovascolare, soprattutto perché
sono tubicini li appesi, e hanno altissima probabilità di essere contaminati, e se io
non li disinfetto per bene prima di fare l’emocoltura, ho una altissima probabilità che
l’emocoltura siano falsamente positive, cioè il batterio che cresce è un batterio non
presente nel sangue ma nel tubicino del CVC e non ha nessun valore. A tal proposito
il motivo che dovrebbe far pensare è proprio dovuto al fatto che è possibile, ma non
succede se le emolcolture sono fatte in un dovuto modo, le emocoluture siano
contaminate. Nel senso che io faccio tre emocolture. Con mezz’ora di distanza l’una
dall’altra, a tre punti tutti diversi, e il prelievo lo faccio da vena, se per qualche motivo,
e motivi ce ne son o tanti, impercettibili, in qualche modo c’è una contaminazione dei
batteri della cute e il sangue che arriva nel flaconcino, l’emocoltura diventa positiva.
Se io ho un’emocoltura. positiva, per esempio da uno sta filococco epidermis, cioè
un batterio della cute, ma gli altri due campioni sono negativi, gli altri due set, è il
paziente ha una infezione da polmonite, non ha nessun devace all’interno, e quindi
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ha una possibilità scarsissima che l’infezione sia portata da quel batterio
dell’epidermide, io so che se una su tre porta quel batterio sono autorizzato a dire
che una è contaminata. Cioè vuol dire che in quel momento quel batterio non è la
causa dell’infezione. Se io ho un sospetto all’ecografia endocardite, se faccio
solamente una emocoltura o solo due, e mi spunta quel batterio, io non posso fare a
mano di dire che quel batterio è la causa. Tutta la zona dell’emocoltura deve rimanere
sterile. Bisogna individuare la vena, disinfettare e utilizzare tutto in maniera sterile.
Se si ha bisogno di risentire la vena, dopo aver disinfettato, togliere i guanti e mettere
quelli sterili, in modo tale che quando si va a toccare è tutto pulito. Il sito del prelievo
deve essere disinfettato con Clorexidina alcolica o con un preparato a contenuto di
alcol, mentre la tintura di iodio o le preparazioni di iodiopovidone che non contengono
alcol non devono essere utilizzate. Dopo aver disinfettato abbondantemente bisogna
lasciare asciugare per 60 secondi. Il numero degli ml è di circa 10 ml per flacone
nell’adulto. Si è visto che fare emocolture a distanza di tempo aumenta la possibilità
che le emocolture possano risultare positive, quindi aumenta la sensibilità del test.
Se possibile, sarebbe opportuno che le emocolture vengano fatte appena prima
dell'inizio della febbre; poiché non è possibile anticiparlo, è pratica comune prelevare
emocolture quando viene rilevata la febbre. Di fondamentale importanza è
l’emocoltura da CVC. Se il paziente infetto ha un CVC, bisogna sapere se l’infezione
è correlata al catetere. Questo perché se l’infezione è legata al catetere bisogna fare
il controllo della fonte d’infezione; ciò è possibile saperlo facendo un’emocoltura del
catetere e una dal sangue periferico (vena periferica). Se entrambe le emocolture
sono positive, bisogna individuare dove si trova la maggiore concentrazione batterica
che causa una positivizzazione più veloce dell’emocoltura. Se l’emocoltura da CVC
si positivizza almeno due ore prima dell’emocoltura del sangue periferico, la diagnosi
è l’infezione da CVC. Per esempio, in un paziente con Leucemia, con la
chemioterapia da un lato vengono distrutte le cellule del sistema immunitario,
dall’altro vengono danneggiati anche i tessuti (in primis la mucosa del colon). Spesso
questo causa infezioni da batteri. Se vengono fatte le emocolture del CVC e del
sangue periferico e risultano entrambe positive, il CVC potrebbe avere o non avere
l’infezione.

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