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I dati epidemiologici relativi all’AIDS indicano un quadro allarmante di costante espansione dell’infezione, che
attualmente è la prima causa di morte in Africa e una tra le principali a livello mondiale.
3-VIE DI TRASMISSIONE
Il virus HIV può diffondersi per via sessuale, ematica e materna.
L’uso di contraccettivi non protegge dall’infezione; solo l’uso del profilattico costituisce una valida barriera.
Anche le trasfusioni possono costituire una via di contagio, se il sangue infetto o suoi derivati vengono introdotti
erroneamente in un paziente sano. Un individuo che non sia a conoscenza della propria sieropositività, infatti, potrebbe
donare il proprio sangue, diffondendo il virus in modo inconsapevole. Casi di questo tipo si verificarono effettivamente
nei primi anni dopo la scoperta dell’HIV; come conseguenza, dal 1985 furono imposti nuovi protocolli per la selezione
dei donatori, l’esecuzione dei test di routine nelle emoteche e la conservazione degli emoderivati, per cui questa via di
trasmissione è oggi praticamente scomparsa.
Dal rivestimento esterno del virus sporgono due tipi di glicoproteine, le gp120 e le gp41. La gp120 viene riconosciuta e
legata dai recettori CD4; questo fenomeno induce una modificazione della struttura della gp120, che si lega anche al
recettore CCR5. La formazione di tale complesso a sua volta determina uno scatto della glicoproteina gp41 verso la
membrana plasmatica della cellula ospite e, dunque, l’avvio dell’infezione da parte del virus. L’HIV inietta il suo
patrimonio genetico, ovvero i due filamenti di acido ribonucleico (RNA), e i suoi enzimi (trascrittasi inversa, proteasi e
integrasi), nel citoplasma della cellula ospite.
La trascrittasi inversa dà inizio alla sintesi di un filamento di acido desossiribonucleico (DNA) complementare a
ciascun filamento di RNA; si forma dunque un doppio filamento ibrido di DNA e RNA. Infine, l’enzima degrada la
porzione di RNA e completa la sintesi di una molecola di DNA a doppio filamento.
L’enzima integrasi determina l’integrazione del DNA virale entro il DNA della cellula ospite (formazione del
cosiddetto provirus); questo patrimonio genetico ibrido, sfruttando gli organuli della cellula ospite, dirige la sintesi di
nuove proteine e componenti virali. Le proteine virali neosintetizzate si trovano in una forma inattiva; per azione
dell’enzima proteasi, vengono tagliate in modo da convertirsi nella forma attiva. Quando i virus neoformati fuoriescono
dalla cellula ospite, rimangono avviluppati da una porzione della membrana plasmatica, che costituisce il rivestimento
esterno al capside proteico, tipico di questi retrovirus. La cellula ospite, ormai degradata, muore.
Nella fase acuta la viremia aumenta drasticamente, passando da 0 a circa 1 milione di copie di RNA/ml di sangue; si
assiste invece a una notevole diminuzione del numero di linfociti T-CD4+, che da 1000-1100/µl di sangue scendono a
450-500.
5.3-FASE ASINTOMATICA
Dopo circa 4-6 mesi dall’infezione, la risposta immunitaria dell’organismo contro l’agente patogeno determina il
raggiungimento di un equilibrio (set point) tra i virus di nuova formazione e quelli che vengono distrutti. I sintomi
scompaiono e l’individuo infetto, detto sieropositivo, entra in una “fase asintomatica”, che in media si protrae per 6-7
anni.
Nella fase asintomatica la diminuzione dei linfociti T-CD4+ sembra inizialmente arrestarsi; per 1-2 anni il numero può
risalire fino a 600-650 linfociti/µl di sangue. Negli anni successivi, si verifica nuovamente un lento decremento che
determina, dopo circa 6-7 anni dall’infezione, una discesa fino al valore di 300 linfociti T-CD4+/µl di sangue. La
viremia, dopo il picco raggiunto nella fase acuta, scende fino a 3500 copie di RNA/ml di sangue; dopo circa 1-2 anni
dall’infezione, ricomincia a salire gradualmente e, dopo 6-7 anni dall’infezione, assume il valore di circa 4500. La fase
asintomatica rappresenta lo stadio della malattia più pericoloso da un punto di vista epidemiologico, perché per un
tempo piuttosto lungo permette il mantenimento di condizioni di salute generalmente buone e, quindi, non induce nel
sieropositivo la consapevolezza della sua condizione e l’attuazione di comportamenti volti a evitare il contagio di altri
individui (ad esempio, l’uso del preservativo durante il rapporto sessuale).
Per questo motivo, è consigliabile che tutti gli individui che hanno comportamenti “a rischio”, ad esempio frequenti
rapporti con partner diversi, o che abbiano comunque il sospetto di avere avuto uno scambio di sangue con un
sieropositivo, si sottopongano a test diagnostici, come il test ELISA (vedi oltre), per accertare se vi è stata trasmissione
del virus.
Il decesso per AIDS non è dovuto direttamente all’infezione da HIV ma alle malattie opportuniste. Le patologie
attualmente considerate come correlate all’AIDS sono circa 25. L’infezione più comune è la polmonite da
Pneumocystis carinii, causata da un protozoo che normalmente colonizza in modo innocuo le vie respiratorie. Anche la
polmonite batterica da Streptococcus pneumoniae e da Haemophilus influenzae e la tubercolosi sono spesso associate
all’AIDS. Nell’ultimo stadio, infezioni diffuse da Mycobacterium avium possono causare febbre, perdita di peso,
anemia e diarrea. Altre infezioni batteriche dell’apparato digerente (dovute a Salmonella, Campylobacter, Shigella o
altri batteri) provocano spesso diarrea, perdita di peso, anoressia e febbre.
Nei pazienti con AIDS si osservano frequentemente micosi o infezioni da funghi. Il mughetto o candidosi orale
(infezione della bocca da Candida albicans) si presenta precocemente nella “fase sintomatica” in un alto numero di
pazienti. Altre micosi sono le infezioni dovute a varie specie di Cryptococcus, importante causa di meningite che
colpisce il 13% dei pazienti affetti da AIDS. Inoltre, può presentarsi l’istoplasmosi, dovuta al fungo Histoplasma
capsulatum, che colpisce fino al 10% dei pazienti, provocando perdita di peso, febbre e complicazioni respiratorie o, se
l’infezione raggiunge il cervello, complicanze gravi del sistema nervoso centrale, fra cui alcune forme di demenza.
Sono comuni anche infezioni virali, causate soprattutto da membri della famiglia degli Herpesvirus, tra cui quella da
Citomegalovirus (CMV), che colpisce la retina e può causare cecità, e l’infezione da virus di Epstein-Barr (EBV), che
può provocare una trasformazione cancerosa delle cellule del sangue. Sono inoltre comuni le infezioni da virus Herpes
simplex (HSV) di tipo 1 e 2, che causano lesioni orali e perianali.
Molti pazienti con AIDS sviluppano vari tipi di cancro, il più comune dei quali è il sarcoma di Kaposi.
5.5-PAZIENTI LTNP E PR
In una piccola percentuale di soggetti sieropositivi (circa il 5%) l’insorgenza dell’AIDS conclamata non avviene o
avviene in tempi molto più lunghi di quelli indicati; tali soggetti sono detti LTNP (Long Terms Non Progressors),
ovvero “non 4hemio chine”, caratterizzati da valori di viremia piuttosto bassi. Al contrario, in altri individui la fase
sintomatica è assai più breve e l’insorgenza della sindrome conclamata avviene più precocemente: si parla in questo
caso di pazienti PR, cioè “4hemio chine rapidi”. Si è dimostrata anche la presenza di individui che resistono al contagio
pur avendo avuto frequenti contatti con portatori del virus. Non sono ancora state chiarite tutte le caratteristiche
genetiche, biochimiche e immunitarie che favoriscono la condizione di resistenza.
Nel 1995 il medico statunitense Robert Gallo e il virologo italiano Paolo Lusso identificarono le 4hemio chine,
molecole che sembravano corrispondere al cosiddetto “fattore antivirale Caf”, prodotto dai linfociti T-CD8, ipotizzato
dieci anni prima dal medico statunitense Jay Levy per spiegare la resistenza degli individui LTNP.
A queste si aggiungono le difensine (scoperte nel 2002), molecole coinvolte nel meccanismo dell’immunità mediata da
cellule. Le difensine non impedirebbero l’ingresso del virus nell’organismo ma ne limiterebbero la proliferazione;
tuttavia, non è ancora noto il loro meccanismo d’azione.
6-DIAGNOSI
Attraverso il prelievo di un campione di sangue è possibile accertare la condizione di sieropositività in tempi
relativamente rapidi rispetto al momento dell’infezione virale.
Il test ELISA si esegue come primo screening per la semplicità di esecuzione e il basso costo, anche se non garantisce
una sicurezza del 100%: la conferma della diagnosi di sieropositività si ha dal test Western blot, più costoso ma più
affidabile.
Entrambi i test non possono essere eseguiti dopo breve tempo dal contatto con il virus, perché occorrono 3-6 mesi prima
che gli anticorpi siano in concentrazioni rilevabili nel sangue. Quindi, prima di questo periodo il soggetto risulta sempre
negativo ai test sierologici e corre il rischio di trasmettere inconsapevolmente il virus; altri metodi diagnostici possono
però individuare precocemente la presenza di alcune componenti del virus nel sangue. Se il paziente risulta negativo ai
test dopo sei mesi dal momento del possibile contatto con l’HIV, esso può con sicurezza ritenersi non contagiato.
Poiché è stato accertato che vi sono due ceppi di HIV responsabili dell’AIDS, denominati HIV-1 e HIV-2, per rilevare
ciascuno dei due si sono resi necessari test sierologici differenti. Questi due ceppi, infatti, pur essendo strettamente
imparentati e pur causando la stessa malattia, mostrano differenze in alcune componenti proteiche che, a livello
diagnostico, ne permettono la distinzione.
7-TERAPIA
Allo stato attuale non esiste ancora una terapia in grado di debellare l’infezione da HIV; tuttavia, le cure possono
rallentarne la progressione e rendere più bassa la carica virale del sieropositivo, e, nella fase di AIDS conclamata,
possono controllare gli effetti delle infezioni opportuniste.
I farmaci più diffusi appartengono a due categorie: inibitori della trascrittasi inversa e inibitori delle proteasi. In
entrambi i casi, si tratta di principi attivi che bloccano la funzione di enzimi del virus. La capacità del virus di
mutazioni, sviluppando forme resistenti a un determinato principio attivo, può essere contrastata somministrando al
paziente varie combinazioni di farmaci.
Nonostante la loro azione sia specifica per l’enzima virale, questi composti non sono privi di effetti collaterali: rischiano
di interferire con il processo di duplicazione del DNA che avviene al momento della mitosi, provocando effetti di
intossicazione, specialmente nelle cellule in rapida divisione come quelle del midollo osseo.
7.3-ASSOCIAZIONI DI FARMACI
Attualmente è assai diffusa la terapia detta HAART (Highly active anti-retroviral therapy), un’associazione di farmaci
che ha risultati soddisfacenti se somministrata nelle prime settimane di infezione, finché la carica virale è ancora ridotta.
La realizzazione di un vaccino efficace è ancora oggetto di sperimentazione. Nell’arco di circa vent’anni, i laboratori di
tutto il mondo hanno messo a punto vaccini che hanno spesso superato la sperimentazione in vitro e in vivo sugli
animali; alcuni hanno dato ottimi risultati, non confermati però dalla sperimentazione clinica sull’uomo. Sembra
particolarmente promettente l’individuazione di vaccini mirati a potenziare la funzione dei linfociti T.
Dal momento che gran parte di questi trattamenti deve essere somministrata sotto controllo medico e per un lungo
periodo di tempo, nel tentativo di ridurre i costi correlati al ricovero ospedaliero dei malati si stanno diffondendo sistemi
di cura e di assistenza domiciliare (vedi Assistenza sanitaria). I servizi sociali forniti da strutture sanitarie pubbliche e da
associazioni di volontariato (come LILA e ANLAIDS) cercano, inoltre, di fornire ai malati di AIDS un sostegno morale
e materiale durante il decorso della malattia.