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I singoli virus hanno ruoli differenti nel processo di trasformazione

cellulare e specifici ceppi possono avere diverso potere oncogeno. I


virus associati a tumori sono caratterizzati dalla capacità di
instaurare infezione persistente nell'uomo e non essendo
esclusivamente agenti carcinogenetici, lo sviluppo del tumore
rappresenta un evento accidentale nel corso della storia naturale
dell'infezione. Tra l'infezione iniziale e la comparsa del tumore
possono intercorrere parecchi anni, sebbene i processi di
carcinogenesi nei tumori associati a virus possano essere oltre che
di tipo indiretto, anche di tipo diretto. I virus possono causare
tumori con meccanismi diretti, cioè collegati alla presenza di
proteine virali ad azione tumorale (oncogeni), oppure con
meccanismi indiretti che provocano una iperattività cellulare o la
perdita del controllo immunitario favorendo l’insorgenza del tumore.

La scoperta del polyomavirus


All’inizio degli anni Cinquanta, l’immunologo Ludwig Gross aveva condotto degli esperimenti sui
topi che lo avevano portato a ipotizzare la connessione fra un particolare tipo di “agente oncogeno”
e la leucemia. Dopo aver iniettato una soluzione estratta dai topi malati nel corpo di topi appena
nati, aveva appurato che anche questi ultimi si ammalavano.
Colpita da questa ricerca, Stewart contatta la virologa Bernice Eddy e le propone di replicare
l’esperimento. Il risultato è sorprendente: anziché ammalarsi di leucemia, i topi sottoposti a
trattamento sviluppano un tumore della ghiandola parotide. Le due scienziate scoprono che il
misterioso agente oncogeno è in grado di causare ben venti diversi tipi di tumore nei topi e
potenzialmente in altri mammiferi. All’inizio non si sbilanciano, ma nel 1957 – dopo aver condotto
numerosi altri esperimenti – pubblicano un articolo in cui affermano che l’ipotesi più ragionevole è
che la causa dei tumori sia un virus. Su suggerimento di Eddy, si decide di chiamarlo polyoma, che
letteralmente significa “molti tumori”. In seguito sarà ribattezzato polyomavirus SE (Stewart-Eddy).

I Coronavirus hanno morfologia rotondeggiante e dimensioni di 100-150 nm di diametro (circa


600 volte più piccolo del diametro di un capello umano!).
Partendo dallo strato più esterno e procedendo via via verso l’interno del virus, è possibile notare
diverse componenti:
•Glicoproteina S (“spike”): il virus mostra delle proiezioni sulla propria superficie, della
lunghezza di circa 20 nm. Tali proiezioni sono formate dalla glicoproteina S (“spike”,
dall’inglese “punta”, “spuntone”). Tre glicoproteine S unite compongono un trimero; i
trimeri di questa proteina formano le strutture che, nel loro insieme, somigliano a una
corona che circonda il virione. Le differenze principali di questo nuovo Coronavirus rispetto
al virus della SARS sembrano essere localizzate proprio in questa proteina spike. La
glicoproteina S è quella che determina la specificità del virus per le cellule epiteliali del
tratto respiratorio: il modello 3D infatti suggerisce che SARS-CoV-2 sia in grado di legare
il recettore ACE2 (angiotensin converting enzyme 2), espresso dalle cellule dei capillari dei
polmoni.

•Proteina M: la proteina di membrana (M) attraversa il rivestimento (envelope)


interagendo all’interno del virione con il complesso RNA-proteina

•Dimero emagglutinina-esterasi (HE): questa proteina del rivestimento, più piccola della
glicoproteina S, svolge una funzione importante durante la fase di rilascio del virus
all’interno della cellula ospite

•Proteina E: l’espressione di questa proteina aiuta la glicoproteina S (e quindi il virus) ad


attaccarsi alla membrana della cellula bersaglio

•Envelope: è il rivestimento del virus, costituito da una membrana che il virus “eredita”
dalla cellula ospite dopo averla infettata

•RNA e proteina N: il genoma dei Coronavirus è costituito da un singolo filamento di


RNA a polarità positiva di grande taglia (da 27 a 32 kb nei diversi virus); non sono noti
virus a RNA di taglia maggiore. L’RNA dà origine a 7 proteine virali ed è associato alla
proteina N, che ne aumenta la stabilità.

Quando un virus si replica o crea copie di se stesso a volte cambia leggermente. Questi
cambiamenti sono chiamati "mutazioni". Un virus con una o più nuove mutazioni viene
indicato come una "variante" del virus originale.

Variante cosiddetta Inglese (Variante VOC 202012/01, nota anche come B.1.1.7)
identificata per la prima volta nel Regno Unito.
Questa variante ha dimostrato di avere una maggiore trasmissibilità rispetto alle varianti
circolanti in precedenza (trasmissibilità superiore del 37% rispetto ai ceppi non varianti,
con una grande incertezza statistica, tra il 18% e il 60%). La maggiore trasmissibilità di
questa variante si traduce in un maggior numero assoluto di infezioni, determinando così
un aumento del numero di casi gravi.
Variante cosiddetta Africana (Variante 501Y.V2, nota anche come B.1.351) identificata
in Sud Africa.
Dati preliminari indicano che anche questa variante possa essere caratterizzata da
maggiore trasmissibilità (50% più trasmissibile rispetto alle varianti circolanti
precedentemente in Sud Africa), mentre al momento non è chiaro se provochi differenze
nella gravità della malattia.

Variante cosiddetta Brasiliana (Variante P.1) con origine in Brasile.


Gli studi hanno dimostrato una potenziale maggiore trasmissibilità. Non sono disponibili
evidenze sulla gravità della malattia.

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