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Virus

Un virus è un microrganismo acellulare, costituito essenzialmente da:

A. Acido nucleico, di un solo tipo tra DNA e RNA, che costituisce il genoma virale

B. Capside proteico, che contiene e protegge il materiale genetico

Talvolta può essere presente anche un pericapside, anche detto envelope.

Le dimensioni dei virus sono estremamente variabili: i virus più piccoli misurano circa 8nm, mentre i
più grandi arrivano a 200nm, potere risolutivo del microscopio ottico (possono essere intravisti). In
media le dimensioni vanno dai 10nm ai 20nm.

A differenza delle altre forme di vita, i virus sono privi di qualsiasi funzione biologica, ma
contengono nel loro genoma le informazioni per la sopravvivenza e la propagazione. Sono definiti
parassiti endocellulari obbligati in quanto necessitano di una cellula per lo svolgimento delle
funzioni biologiche.

La particella virale al di fuori della cellula ospite prende il nome di virione. Esso incontra casualmente
una cellula bersaglio e vi penetra all’interno, sfruttandola per la riproduzione, che porta alla
formazione della progenie virale, cioè di un pool di virioni che vengono nuovamente liberati
nell’ambiente.

Genoma
Il materiale genetico dei diversi virus può essere costituito da:

A. DNA a doppia elica, con doppia polarità

B. DNA a singola elica, che può avere:

a. Polarità positiva

b. Polarità negativa

C. RNA a doppia elica, con doppia polarità

D. RNA a singola elica, che può avere:

a. Polarità positiva

b. Polarità negativa

Le dimensioni del genoma variano, generalmente, con il variare delle dimensioni del virione. Esistono
virus con un genoma di 3,2 Kb, fino a virus con un genoma di 250-300 Kb. Essi accrescono la loro
capacità di codificazione sfruttando processi come lo splicing alternativo oppure utilizzando frame
di lettura differenti (frame shift, resa possibile dalla presenza del codone ATG, che ne permette
l’inizio).

Sono numerosi, inoltre, i virus che “derogano per una parte dei geni”, cioè che contengono geni non
essenziali (sono superflui per l’infezione) che si suppongono essere importanti per l’adattamento
all’ospite (come gli herpes virus).

Il tipo di acido nucleico sfruttato da un virus è fondamentale e permette di intuire quali proteine
vengono codificate dal suo genoma, proteine necessarie ai processi di riproduzione. Virus diversi
con il medesimo acido nucleico sono somiglianti per le proteine codificate e per i processi (ad
esempio i virus a DNA generalmente si replicano nel nucleo della cellula, mentre quelli a RNA si
replicano nel citoplasma). Questa caratteristica dei virus viene sfruttata nella classificazione di
Baltimore.

I virus non possiedono necessariamente DNA e pertanto si sottraggono al primo dogma della
biologia (trascrizione), ma sottostanno comunque al secondo (traduzione).

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Coltivazione
In laboratorio, per lo studio dei virus, è necessario un substrato cellulare per poter maneggiare i
virus, in quanto non compiono alcuna funzione biologica senza di esso. I substrati possono essere
modelli cellulari o modelli animali. È storicamente importante il modello costituito dall’uovo
embrionato di pollo, caratterizzato da elevata attività metabolica che permette una rapida crescita
del virus. Spesso, però, l’impiego dell’uovo embrionato di pollo ha portato problemi, specialmente
nella produzione di vaccini (reazioni allergiche alle componenti dell’uovo che permangono
comunque).

Classificazione su base strutturale


Possiamo distinguere tra:

A. Virus enveloped, cioè dotati un bilayer


fosfolipidico (pericapside o envelope)
derivante dalla cellula ospite che include il
nucleocapside (o core, cioè capside + acido
n u c l e i c o ) . L’ e n v e l o p e s i f o r m a p e r
gemmazione e presenta proteine
recettoriali generalmente con funzione di
ancoraggio.

B. Virus naked, cioè presentanti


esclusivamente il nucleocapside. In questo
caso la funzione recettoriale è svolta dalle
proteine del capside.

Virus enveloped
Come accennato, alcuni virioni, durante la riproduzione, acquisiscono un pericapside, cioè un
bilayer fosfolipidico che include il core nucleocapsidico e che deriva dalle membrane della cellula
ospite per gemmazione (dalla membrana plasmatica, dal RE o dal Golgi). In generale il pericapside
non fornisce maggiore resistenza strutturale (anzi, i virus enveloped risultano essere più fragili di
quelli naked), ma accrescono l’entità delle infezioni in quanto le poche proteine esposte sono
difficilmente percepibili dalle cellule del sistema immunitario.

La funzione recettoriale per l’adesione viene quindi svolta, in questo caso, da proteine
transmembrana con un dominio rivolto verso l’esterno. Tali proteine non derivano dalla cellula
ospite, ma la loro traduzione è determinata dal virus.

Una seconda componente importante nei virus enveloped è la proteina della matrice, una proteina
in grado di polimerizzare esternamente al capside e interagire con i domini interni dei recettori,
andando a stabilizzare l’interna struttura.

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Classificazione su base geometrica
La ristretta capacità codificante del genoma virale fa si che il capside sia costituito da un limitato
numero di monomeri diversi (nei virus piccoli si ha addirittura solo un tipo di proteina ripetuta).
Questo in quanto per codificare un aminoacido, di piccole dimensioni, sono necessarie 3 basi
azotate, di dimensioni maggiori. I virus pertanto ottimizzano lo spazio occupato dal loro genoma
utilizzando unità ripetute.

Le proteine prodotte per la formazione del capside sono in grado di autoassemblarsi tramite legami
non covalenti. In generale, i capisci proteici presentano geometria, più spiccata in quelli più piccoli e
meno regolare in quelli di dimensioni maggiori.

Le proteine si possono disporre, generalmente, a formare due tipi di geometrie:

A. Geometria icosaedrica → Si tratta della struttura che più si avvicina a quella sferica e che
fornisce maggiore resistenza e stabilità. Le unità si uniscono a formare unità di piccole
dimensioni, solitamente triangolari, che si associano a formare unità di maggiori dimensioni,
pentagonali ed esagonali, che formano l’intero capside.

B. Geometria elicoidale → In questo caso il monomero proteico è di un solo tipo e le varie unità
si uniscono a forma una catena che superavvolgendosi forma uno spazio che accoglie il
materiale genetico.

Le proteine capsidiche svolgono più funzioni grazie ai diversi domini che presentano. Esse
presentano un dominio che presenta affinità per le cariche negative dell’acido nucleico al quale
devono ancorarsi. Inoltre devono presentare domini per la polimerizzazione, così da permettere
l’autoassemblaggio.

Tutte le interazioni, però, non sono covalenti ma sono reversibili in quanto deve essere possibile la
liberazione dell’acido nucleico in seguito al cambiamento dell’ambiente (da extra a intracellulare)
rilevato tramite sensing. Deve esserci quindi un equilibrio tra solidità e plasticità.

Virus naked
Le proteine capsidiche dei virus naked devono anche svolgere funzione recettoriale in quanto
sono adibite alla specificità e all’adesione. La specificità nel particolare è rivolta a componenti
strutturali esposte da determinate popolazioni cellulari. È quindi fondamentale che la sequenza
aminoacidica non presenti mutazioni e che subisca un corretto folding. Una caratteristica che
permette ciò è l’elevato costraint funzionale che coinvolge i geni codificanti le proteine cpasidiche
(ridotta soggezione a mutazioni).

Classificazione tassonomica
È ancora di difficile studio la tassonomia dei virus e la loro evoluzione in quanto, non presentando
cellule, non seguono le normali teorie della biologia. La loro tassonomia è empirica ed arbitraria e la
loro classificazione in un unico albero filogenetico non è plausibile. Si può solamente intuire
un’origine comune fra virus che presentano notevoli somiglianze.

I criteri impiegato nei tentativi di classificazione tassonomica sono:

1. Malattia causata (come i virus dell’epatite)

2. Effetto citopatico indotto alla cellula (come il virus sinciziale)

3. Primo sito di isolamento (come gli adenovirus dalle adenoidi o gli enterovirus dall’intestino)

4. Nome dello scopritore (come il virus Epstein-Barr)

5. Origine geografica (come il West-Nile virus ed il Toscana virus)

Non si tratta di classificazioni oggettive in quanto non tengono conto delle caratteristiche biologiche.
Come vedremo in seguito la classificazione più impiegata è quella di baltimore.

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Classificazione di Baltimore
La classificazione di Blatimore è strettamente legata al diverso acido nucleico contenuto da un virus
e di conseguenza dalle proteine codificate. In generale, la classificazione sfrutta, come criterio, le
diverse strategie replicative. Distinguiamo 7 classi:

1. Classe I → DNA a doppio filamento, dsDNA. Esempi: herpes virus, adenovirus, papillomavirus

2. Classe II → DNA a singolo filamento, ssDNA. Esempi: parvovirus, picornaviridae e flavivirus


(questi ultimi due a polarità positiva)

3. Classe III → RNA a doppio filamento, dsRNA. Esempi: rotavirus

4. Classe IV → RNA a singolo filamento con polarità positiva, ssRNA+. Esempi: virus influenzali,
del morbillo e paramixovirus.

5. Classe V → RNA a singolo filamento con polarità negativa, ssRNA-.

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6. Classe VI → RNA a singolo filamento con capacità retrotrascrizionale, ssRNA RT. Questi virus
non inducono la diretta trascrizione del loro messaggero, ma in primo luogo inducono la sua
trascrizione a DNA, che viene incorporato nel genoma dell’ospite, grazie alle retrotrascrittasi.

7. Classe VII → DNA a doppio filamento con capacità retrotrascrizionale, dsDNA RT. Si tratta di
virus che trascrivono il proprio genoma a RNA, che viene per una parte retrotrascritto a DNA e
per la restante parte tradotto.

Tale classificazione risulta molto utile in ambito clinico, ma in essa possono essere inclusi anche i
virus che non colpiscono gli umani.

Replicazione
Il ciclo replicativo dei virus è costituito da 6 fasi, le prime 3 delle quali sono definite fasi precoci,
mentre le ultime 3 sono definite fasi tardive.

Fasi precoci
1. Aggancio della cellula ospite → Questo processo è permesso dalla presenza dei recettori
virali (sul capside o sul pericapside). Le componenti cellulari riconosciute dai recettori
prendono il nome di antirecettori virali.

2. Ingresso nella cellula ospite → Si tratta di un processo che può avvenire in due modalità
distinte (nel caso delle cellule eucariotiche):

I. Per endocitosi mediata da recettore, che avviene in seguito alla formazione di un


legame tra il recettore virale e l’antirecettore, evento che scatena un riarrangiamento del
citoscheletro portando alla formazione di un endosoma. Questa modalità è caratteristica
dei virus naked e degli virus dell’influenza (enveloped). In ogni caso, l’endosoma sarà
indirizzato al nucleo.

II. Per fusione, cioè unione dei fosfolipidi dell’envelope e della membrana della cellula
bersaglio. Si tratta della modalità caratteristica dei virus enveloped.

III. Per inoculo del materiale genetico nella cellula bersaglio, come avviene per i batteriofagi.
Questa modalità avviene solo con cellule procariotiche.

3. Disassemblaggio o scapsidamento→ Una volta entrato, il virus va incontro ad un processo


di disassemblaggio delle sue componenti, così da rendere disponibile l’acido nucleico da esso
contenuto. Il materiale genetico va incontro a due destini: m

I. Replicazione, producendo altre copie che verranno incorporate nella progenie virale

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II. Trascrizione, che porta alla formazione dei messaggeri i quali, una volta tradotti, daranno
origine alle proteine virus-specifiche.

Fasi tardive
4. Replicazione del materiale genetico e sintesi delle macromolecole virali → L’acido
nucleico rilasciato va incontro a processi differenti a seconda della sua natura (DNA o RNA).

I. L’RNA va incontro a processi catalizzati da enzimi virus-specifici in quanto la cellula


eucariotica non li esprime:

i. RNA polimerasi RNA dipendente, codificata in virus a RNA con polarità negativa.
Tale enzima permette la replicazione del genoma a RNA producendo numerose copie
con polarità positiva che possono essere quindi tradotte. Tale enzima non è prodotto
(o è prodotto in casi particolari) dai virus a RNA con polarità positiva, che hanno un
genoma che può direttamente essere tradotto.

ii. Retrotrascrittasi, codificata da virus a RNA con capacità trascrizionale. Tale enzima
permette di produrre DNA a partire dall’RNA virale. Il DNA può poi sfruttare gli enzimi
della cellula per essere trascritto e tradotto.

II. Il DNA, invece, normalmente sfruttano semplicemente gli enzimi della cellula ospite per
effettuare trascrizione e traduzione. Fanno eccezione alcuni virus come gli Herpes, che
codificando per enzimi virus-specifici sono in grado di accelerare i processi replicativi.

5. Assemblaggio → Una parte dell’acido nucleico prodotto, come detto, viene tradotto per la
produzione delle proteine virus-specifiche (fra le quali quelle del capside). Un’altra parte
dell’acido nucleico prodotto, invece, verrà incorporata nella progenie virale. Generalmente, le
proteine capsidiche costituiscono il cpaside per autoassemblaggio, ma talvolta possono
essere coinvolti i processi cellulari.

6. Rilascio dei virioni → Si tratta di un processo che avviene secondo differenti modalità:

I. Lisi cellulare, che provoca la liberazione di tutto il suo contenuto, nel quale sono presenti
anche i virioni: non si ha quindi il mantenimento dell’integrità cellulare. Tale modalità è
caratteristiche dei virus naked.

II. Esocitosi, cioè espulsione mediata da citoscheletro e vescicole. Si ha il mantenimento


dell’integrità cellulare. Tale modalità è caratteristica sia di virus naked sia enveloped (che
devono, però, aver già assunto l’envelope nel sistema membranoso interno).

III. Gemmazione o budding, cioè l’uscita del virione con corrispondente distacco di una
porzione di membrana sotto forma di vescicola. Si tratta di una modalità impiegata dai
virus enveloped che tramite questo processo acquisiscono proprio il pericapside.

A conclusione di questo processo, la cui durata va da 6 a 21 ore, si ha il rilascio di un numero di


virioni che varia da 100 a 1000 per ogni cellula infettata inizialmente da un solo virione. Si tratta di
una replicazione molto più efficiente di quella che normalmente coinvolge le cellule, ed i virioni
appena liberati possono infettare altrettante cellule, amplificando ulteriormente l’effetto secondo un
andamento esponenziale.

Sono state condotte misurazioni della concentrazione di virioni nel surnatante di un centrifugato. A
breve distanza dall’infezione non si registra presenza di virus e si parla di periodo di latenza. Dopo
20-36 ore si passa ad una concentrazione dell’ordine di milioni di particelle virali per singolo ml.
Virus con bersagli multipli, come HIV o quello dell’epatite B, producono in un giorno circa 109
particelle virali.

Recettori
I recettori sfruttati dai virus possono essere di 2 tipi:

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1. Recettori proteici, i quali sono altamente specifici. Un esempio è HIV, che presenta un
recettore specifico per CD4, espresso solo negli umani e pertanto è in grado di infettare solo
gli umani.

2. Recettori polisaccaridici, costituiti principalmente da acido sialico e che presentano un


minore grado di specificità. È il caso del virus dell’influenza, poco specifico e altamente
infettante.

È da sottolineare che l’adesione e l’entrata nella cellula ospite non siano condizioni sufficienti perché
si porti a conclusione il ciclo replicativo in quanto possono intervenire meccanismi di difesa che
impediscono al virus di replicare oppure la bassa attività metabolica della cellula non favorisca la
replicazione (come cellule senescenti).

Maturazione
Con il termine di maturazione si indicano i cambiamenti che devono avvenire a carico delle particelle
virali, a ancora immature, in seguito all’uscita dalla cellula ospite, cambiamenti che li portano ad
essere mature e infettanti. I processi sono molto vari in base alle diverse specie.

Un tipo di trasformazione è la riorganizzazione delle macromolecole che costituiscono il capside e


la matrice (spazio tra pericapside e capside).

Talvolta deve avvenire una vera e propria attivazione, come nel caso del Rotavirus, che una volta
espulso dalla cellula presenta dei prorecettori che solamente in ambiente acido divengono recettori
(caratteristica che permette di ricercare le condizioni ottimali perla sopravvivenza e l’infezione, che
nel caso di Rotavirus si trovano nell’intestino).

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Papilloma virus
Il papilloma virus umano (HPV) è stato per lungo tempo associato a lesioni verrucose degli epiteli
squamosi, ma solo negli ultimi anni si è riconosciuta la sua capacità carcinogenetica, specialmente
nella formazione del carcinoma della cervice uterina (un tumore maligno).

I papilloma virus (PV) fanno parte della famiglia Papillomaviridae. I vari PV sono specie-specifici:
esistono papilloma virus in grado di infettare solo una specie di animali.

La trasmissione avviene per contatto diretto, ad esempio durante rapporti sessuali o tramite
oggetti contaminati. Questo virus presenta elevatissima resistenza ed è in grado di resistere
nell’ambiente per lunghissimo tempo (in ambiente umido anche per mesi).

Struttura
HPV è privo di envelope presenta un capside icoasedrico costituito da due tipi di proteine:

1. L1, maggiormente espressa (80% del totale) e che ha permesso la formulazione di vaccini

2. L2, espressa in maniera minore

HPV è un virus con genoma a DNA a doppio filamento circolare, in cui sono presenti 8 geni:

A. Geni E, early, con natura funzionale:

a. E 1 e E 2 c o d i fi c a n o p e r p ro t e i n e
responsabili della replicazione del DNA
virale. E1, nel particolare, è responsabile
del mantenimento della forma episomale
(circolare, non integrata nel genoma della
cellula ospite).

b. E4 è responsabile della maturazione,


quindi della formazione del coilocita

c. E5 è responsabile della proliferazione del


virus attivando i recettori per i fattori di
crescita

d. E6 e E7 sono responsabili dell’oncogenicità del virus e nel particolare E6 induce la


degradazione di p53 (oncosoppressore), mentre E7 inattiva la proteina pRb legandola.

e. E3 ed E8 non sono sempre espressi

B. Geni L, late, con natura strutturale:

a. L1 e L2 codificano per le proteine capsidiche

Il segmento di DNA compreso tra i geni L ed i geni E prende il nome di LCR (long control region) e
contiene i siti di legame per E1 ed E2, andando a regolare l’espressione dei geni a valle.

Replicazione
Il papilloma virus presenta tropismo tissutale per le cellule epiteliali, nel particolare del tessuto
epiteliale squamoso (cheratinizzato). Per penetrare, il virus deve incontrare una soluzione di
continuo a livello dell’epitelio, come una lesione o una microlesione. Il virus si porta, poi, a livello
degli strati più profondi, per penetrare nelle cellule staminali dello strato più basso e andare
incontro a scapsidazione.

Nelle cellule, il virus si trova ancora in forma episomale, con basso numero di copie di DNA.
L’espressione dei geni E6 e E7 stimola la proliferazione delle cellule infettate, aumentando il numero
di cellule con genoma virale. Con la proliferazione, le cellule migrano gradualmente attraverso lo
strano spinoso e quello granuloso e contemporaneamente esprimono gli altri geni E, alcuni dei quali

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permettono la replicazione del genoma virale. Negli strati superficiali (granuloso e corneo) si ha
l’espressione dei geni L e quindi l’assemblaggio di virioni maturi (incapsidamento) e infettanti che
vengono lasciati dallo strato corneo insieme alle cellule che vanno incontro a desquamazione.

Trasformazione
In caso di compromissione del sistema immunitario, le lesioni persistono per lungo tempo
permettendo a genotipi ad alto rischio di PV di sviluppare variazioni del ciclo replicativo che
portano ad immortalizzazione delle cellule infettate e trasformazione neoplastica. L’evento chiave
è il passaggio dalla fase episomale alla fase di integrazione: normalmente la proteina E2 agisce da
regolatore della trascrizione e impedisce la trascrizione di E6 ed E7. L’integrazione del genoma virale
in quello della cellula ospite determina la rottura dell’ORF (open reading frame) del gene E2, che
quindi non viene espresso portando all’espressione di E6 ed E7.

I geni E6 ed E7 vanno ad interferire con le proteine responsabili dei checkpoint cellulari, i ponti di
controllo dell’eventuale passaggio a fasi successive del ciclo cellulare (in caso di assenza di
mutazioni) o all’apoptosi (in caso di mutazioni che non si possono correggere). E6 determina la
degradazione ubiquitino-dipendente della proteine p53, mentre E7 determina la degradazione di
pRB. La cellula infettata, quindi, procede nel suo ciclo cellulare nonostante abbia accumulato
mutazioni e ad ogni ciclo tende ad accumularne di nuove.

Espletando la loro funzione, queste proteine precoci determinano l’immortalizzazione delle cellule
infettate e la trasformazione tumorale, che attraversa tre stadi:

1. Displasia lieve

2. Displasia moderata

3. Carcinoma maligno

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Manifestazioni cliniche
Le lesioni causate dai Papilloma virus sono denominate papillomi e colpiscono due tipi di tessuti:

1. Epitelio pavimentoso pluristratificato cheratinizzato (cute), manifestandosi come verruche

2. Mucose, manifestandosi come condilomi genitali

Le lesioni, in generale, son caratterizzato dall’accumulo di cellule infettate. In base allo strato si parla
di:

A. Acantosi, cioè accumulo di cellule dello strato spinoso

B. Paracheratosi, cioè accumulo delle cellule dello strato granuloso

C. Cheratosi, cioè accumulo delle cellule dello strato corneo

Le cellule infettate a livello dello strato corneo prendono il nome di coilociti, caratterizzati da nuclei
molto grandi, aloni citoplasmatici e anomali granuli di cromatina.

Oltre ai papillomi, come detto, in caso di genotipi ad alto rischio si può incorrere in formazioni
tumorali.

Associazione tra manifestazioni cliniche e genotipi


I papilloma virus umani sono stati catalogati in primo luogo in due generi in base al tropismo:

A. HPV α, che colpiscono prevalentemente le mucose e includono famiglie sia a basso sia ad
alto rischio

B. HPV β, che colpiscono principalmente la cute e includono anche in questo caso famiglie sia
ad alto sia a basso rischio

All’interno delle medesime famiglie si riscontra omologia di sequenza intorno all’80-90%. All’interno
dei diversi genotipi possiamo distinguere anche dei sotto-tipi che presentano omologia di oltre il
98%.

Distretto Lesioni cutanee Genotipi responsabili

Verruche comuni, plantari e palmari 1 2 3 4 7 10 26-29

Carcinomi cutanei 16, 18 (genotipi ad alto rischio)

Cute Verruche in soggetti con 589


epidermodisplasia verruciforme (EV)

Carcinomi cutanei in soggetti con 5 8 14


epidermodistrofia verruciforme (EV)

Distretto Lesioni mucosali Genotipi responsabili

Papillomi 6 11
Vie respiratorie
Carcinomi laringe-bronchiali 16 18

Congiuntiva Papillomi 6, 11

Iperplasia epiteliale focale 13 32


Cavità orale
Carcinomi oro-faringei 16 18

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Distretto Lesioni mucosali Genotipi responsabili

Condilomi acuminati 6 11

Condilomi piani 6 11 16 18 31

Tratto genitale Papulosi bowenoide 16

Carcinomi vulvari, penieni, anali 16 18 31 33 …

Carcinomi della cervice uterina 16 18 31 33 …

I più comuni PV a basso potere oncogeno sono i genotipi HPV6 e HPV11. Le infezioni che derivano
da questi agenti eziologici sono verruche comuni a livello cutaneo (specialmente piante dei piedi e
palmi delle mani). Talvolta compaiono in altre sedi sotto forma di condilomi a livello del tratto
genitale. Questo tipo di infezioni sono benigne e tendono a scomparire. Esse non presentano cura e
l’unico intervento per il piano estetico è l’aportazione tramite crioterapia o tramite chirurgia o un
trattamento tramite interferone (per stimolare il SI).

I più comuni PV ad alto potere oncogeno, invece, sono HPV16 e HPV18. Essi colpiscono sia cute
sia mucose e tendono, dopo aver formato una lesione primaria (primo stadio), a evolversi in un
carcinoma invasivo. È interessante notare che in individui affetti da epidermodisplasia
verruciforme (malattia genetica rara che rende suscettibili all’azione degli HPV) anche genotipi
normalmente a basso potere oncogeno divengono genotipi ad elevato potere oncogeno, come
HPV5 e HPV8.

Aspetti clinici
Epidemiologia
Le infezioni da papillomavirus sono principalmente a carico della donna in quanto questa presenta
una maggiore estensione delle mucose genitali.

L’incidenza delle infezioni genitali è correlata a:

1. Numero di partner sessuali

2. Età (in quanto in individui 15-25 si ha un maggior numero di partner sessuali)

3. Stato immunitario

4. Abitudini (NB i contraccettivi orali aumentano la probabilità)

HPV è la terza causa di tumore nella donna, dopo il cancro al seno e quello al polmone. Nel
particolare esso causa carcinoma della cervice uterina che se non tempestivamente diagnosticato
risulta mortale.

Diagnosi
Il campione consiste in cellule epiteliali della cute o della mucosa, prelevate meccanicamente.

I metodi indiretti avvengono in ambito anatomo-patologico e consistono nella ricerca dei coilociti
oppure dei carcinomi. Queste metodologie non permettono di individuare infezioni latenti. Esempi
sono in PAP-TEST, l’esame bioetico e la colposcopia (quest’ultimo è un esame ginecologico di
osservazione e permette di individuare carcinomi). Ampiamente impiegato è il PAP-TEST, eseguito
su cellule prelevate per spazzolamento e colorate tramite ematossilina-eosina, andando a ricercare
cellule dalla morfologia alterata.

I metodi diretti, a differenza dai precedenti, permettono anche di individuare infezioni latenti che non
si sono ancora presentate sotto forma di lesioni (che possono comparire anni dopo il contatto con
HPV). Questi test ricercano la presenza del DNA virale (HPV DNA) e pertanto si tratta di tecniche di
biologia molecolare. Le tecniche in questione sono principalmente le tecnologie PCR. In genere il

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primo passo è l’impiego di primer specifici per zone conservate nei diversi genotipi di HPV. Solo in
seguito si passa alla genotipizzazione, che permette di conoscere esattamente quale genotipo si è
incontrato andando a verificare i geni codificanti proteine presenti (tramite tecniche di ibridazione
come i microarray).

Gli esami sierologici non vengono impiegati in quanto l’organismo non sviluppa una consistente
quantità di anticorpi.

Nella regione Lombardia è in corso un programma di screening di HPV per le donne tra i 25 e i 45
anni: viene effettuato un HPV test per ricercare donne a rischio (che presentano genotipi ad alto
rischio). Quando questo test è negativo viene ripetuto 5 anni dopo, mentre quando è positivo viene
ripetuto l’anno seguente. In caso di ulteriore positività, si procede al PAP-TEST, che se evidenzia
cellule anomale induce a pensare a carcinoma, eventualmente confermato con colposcopia.

Immunoprofilassi
Mentre le terapie contro HPV hanno ancora scarsi risultati, risultano molto utili i vaccini, che vengono
definiti VLP (virus like particle) in quanto costituiti dalla capsula proteica formata dalle proteine L1.
Si è notato, infatti, che queste sono sempre in grado di autoassemblarsi in strutture simili al capside
e con alta capacità immunogenica.

Il primo vaccino era bivalente, contro HPV 16 e 18 (quindi solamente contro i genotipi ad elevata
capacità oncogenetica). Un vaccino molto diffuso (Gardasil) è tetravalente e protegge contro i
genotipi HPV 16, 18, 6 e 11. Uno più recente, invece, è nonavalente e amplia i genotipi per cui
fornisce copertura.

Il vaccino non è obbligatorio e viene offerto gratuitamente al 12 anno di età.


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Herpes virus
Herpesviridae è la famiglia di virus più comuni con cui il nostro organismo viene in contatto, che
hanno distribuzione ubiquitaria e di cui ne esistono 8 specie di interesse clinico per le infezioni
causate negli umani:

1. Herpes simplex di tipo 1, HSV-1 (o HHV-1, herpes labiale)

2. Herpes simplex virus di tipo 2, HSV-2 (o HHV-2, herpes genitale)

3. Virus varicella-zoster, VZV (o HHV-3),

4. Virus di Epstein-Barr, EBV (o HHV-4)

5. Citomegalovirus, CMV (o HHV-5)

6. Herpesvirus umano di tipo 6

7. Herpesvirus umano di tipo 7

8. Herpesvirus umano di tipo 8

In realtà non vi sono grandi similitudini tra le diverse specie e la denominazione herpesvirus deriva
dalla somiglianza morfologica del capside e per il comportamento. Le uniche somiglianze
intercorrono tra gli HHV 1 e 2, che presentando omologia per il 50% delle sequenze genetiche, e tra
gli HHV 6 e 70, che presentano omologia del 30-50% del genoma.

Queste 8 specie vengono raggruppate in tre sotto-famiglie in base ad alcune caratteristiche:

Sotto-famiglia Specie Sede infezione primaria Sede latenza Trasmissione

HHV-1 (HSV-1)

Alphaherpesvirinae HHV-2 (HSV-2) Cellule muco-epiteliali Neuroni Contatto*

HHV-3 (VZV)

Monociti, linfociti, cellule


HHV-5 (CMV) Monociti, linfociti
epiteliali

Betaherpevirinae HHV-6 Linfociti T Linfociti T Contatto*

HHV-7 Linfociti T Linfociti T

HHV-4 (EBV) Linfociti B, cellule epiteliali Linfociti B


Gammaherpesvirinae Saliva
HHV-8 (KSHV) - -

Struttura
Gli herpesvirus sono virus di notevoli dimensioni, i cui visioni hanno diametro di circa 150-200 nm
(raggiungono anche i 300nm, rendendoli comparabili a Chlamydia). Essi presentano poi un capside
icosaedrico costituito da 162 capsomeri.

Esternamente presentano un envelope lipidico sul quale sono esposte glicoproteine (definite
spicole) con funzione recettoriale. L’envelope è fondamentale per il processo infettivo in quanto si
fonde con le membrane plasmatiche permettendo l’entrata del virus. L’envelope è molto labile (alla

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disidratazione, al contatto con l’aria) e danni a livello di questo inibiscono la capacitò infettiva del
virione.

Il capside protegge il materiale genetico, consistente in una molecola di DNA a doppia elica. Il
genoma include numerosi geni, molti dei quali sono ripetuti. Sono presenti anche numerose
sequenze di basi ripetute sia agli estremi sia internamente (brevi o lunghe). Quelle interne
permettono di distinguere il genoma in due segmenti:

1. UL, regione unica lunga

2. US, regione unica breve

I geni presenti codificano per circa 100 di proteine delle quali 30-40 strutturali, per capside e
pericapside, e altre per enzimi virus-specifici.

I geni ripetuti sono codificanti per enzimi e sono fondamentali per i processi di latenza del virus, che
gli permettono di rimanere in forma integrata nel genoma della cellula ospite per lunghi tempi (e li
rendono ottimi vettori nell’ambito dell’ingegneria genetica). I geni non ripetuti, invece, sono quelli
esclusivamente strutturali.

Replicazione
Si tratta di un processo che varia notevolmente nelle diverse specie, specialmente per quanto
riguarda la durata. HSV-1 e 2 hanno un ciclo che si completa in 18 ore, mentre il CMV ha un ciclo
che necessita anche di 70 ore.

Il processo replicativo può essere schematizzato in fasi:

1. Penetrazione → Le glicoproteine esposte sull’envelope si legano a recettori specifici della


cellula ospite (solitamente GAG, da qui il tropismo tissutale). Il virus fonde, quindi, l’envelope
alla membrana plasmatica della cellula, inoculando interamente il nucleocapside (capside +
acido nucleico). L’envelope, quindi, rimane a livello della membrana e l’esposizione delle
glicoproteine del capside segnalando ad altri virioni di non effettuare attacco a quella cellula.
Inoltre, l’esposizione delle glicoproteine pericapsidiche può talvolta determinare la fusione di
cellule infettate adiacenti (per interazione dei recettori), portando alla formazione di sincizi. In
vitro tutti gli herpesvirus si presentano come sinciziogeni, mentre in vivo è peculiarità solo di
alcuni tipi di virus.

2. Importazione → Il nucleocapside si porta a livello del nucleo e va incontro a scapsidazione,


liberando la molecola di DNA, veicolata da proteine virus-specifiche (trasportatori fosforilati
analoghi a UDP-glucosio). Queste proteine trasportatrici sono delle nuclear targeting
proteins, cioè caratterizzate da residui di Arg e Lys che permettono l’interazione con le

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importine α e β. In primo luogo la proteina trasportatrice si lega all’importina α, ed in seguito
si aggiunge al complesso anche l’importina β, formando il complesso delle importine. Si
aggiunge al complesso anche RAN-GDP, che permette quindi l’importazione dei complesso
attraverso il poro nucleare. Una volta all’interno, RAN-UDP viene fosforilato a RAN-UTP: tale
fosforilazione determina la scissione del legame tra RAN-UTP ed il complesso delle importine,
che quindi viene rilasciato nel nucleo (RAN-UTP esce dal nucleo trasportando mRNA). Il DNA
virale, giunto nel nucleo, si circolarizza e può andare incontro al processo di duplicazione e
trascrizione.

3. Replicazione, trascrizione e traduzione →

I. La replicazione del DNA, che in questo momento è circolare,


avviene secondo un processo a rolling circle. Nel particolare
avviene l’apertura (nick) e lo “svolgimento” di uno solo dei due
filamenti (il 5’ si allontana), mentre l’altro viene impiegato da
stampo per la replicazione. Anche il secondo filamento, poi, viene
usato come stampo (nel particolare replicato come filamento
lagging).

II. La trascrizione del DNA avviene grazie alla RNA polimerasi DNA dipendente della cellula
(con fattori sia cellulari sia virali). In ordine si ha la trascrizione dei geni immediati precoci
(IE), dei geni precoci (E) e infine dei geni tardivi (L). Gli mRNA vengono esportati grazie a
RNA-GTP nel citoplasma, per raggiungere i ribosomi.

III. La traduzione porta alla formazione delle proteine virus-specifiche caratterizzate, come
le precedenti, dall’essere delle nuclear targeting proteins: secondo i meccanismi prima
analizzati queste vengono trasportate a livello nucleare, dove avviene l’autoassemblaggio
delle componenti a formare nuovi virioni.

4. Uscita → I virioni assemblati hanno dimensioni troppo grandi per l’uscita tramite poro nucleare
(il poro si dilata fino a 26 nm) e pertanto l’uscita avviene per gemmazione, cosicché si ha la
formazione intorno al capside di due bilayer fosfolipidici e su quello più interno avviene
l’integrazione della componente glicoproteica tipica dell’envelope. A questo punto possono
avvenire due fenomeni:

I. La particella in questione si dirige verso la membrana plasmatica, a livello della quale


avviene la fusione del bilayer più esterno, permettendo l’uscita del virione completamente
formato. Questo avviene nelle cellule in grado di mantenere in fase di latenza gli
herpesvirus, latenza garantita dall’assenza di danni alla cellula (questo avviene nei
neuroni).

II. La particella in questione si dirige verso reticolo endoplasmatico o apparato di Golgi.


Questo fenomeno avviene ripetutamente con numerose particelle virali che si accumulano
portando ad un ingolfamento della cellula e poi alla sua lisi (si parla infatti di ciclo litico). È
ciò che avviene negli epiteli, nelle cui cellule è prediletto il traffico di vescicole verso il
sistema reticolare interno piuttosto che la membrana. Un classico esempio è la lesione
labiale bollosa causata dal HSV-1).

Il diverso destino non avviene in base alla diversa specie di virus, bensì dalla diversa tipologia
cellulare (in base ai meccanismi di screzione).

Herpes simplex
Come detto esistono due specie di Herpes simplex, entrambi causa di lesioni a tessuti epiteliali di
transizione tra cute e mucose dovute all’effetto citolitico del ciclo replicativo. Questi due virus

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presentano una certa omologia nel genoma, ma differiscono per la localizzazione delle lesioni (anche
se talvolta possono scambiarsi dando origine a sintomi più lievi) e dei siti di latenza:

1. HSV-1 provoca lesioni agli epiteli di transizione del distretto testa e nella fase di latenza si
localizza nei gangli dei neuroni sensitivi del trigemino.

2. HSV-2 provoca lesioni agli epiteli di transizione del distretto genitale e nella fase di latenza si
localizza nei gangli sensitivi sacrali.

In caso di abbassamento delle difese immunitarie, i virus sono in grado di riattivarsi e raggiungere
i distretti di invezione tramite il trasporto assonico in direzione centrifuga.

Herpes simplex di tipo 1


L’HSV-1, o herpes labiale, viene trasmesso tramite la saliva (ad esempio con i baci o con la
condivisione di bicchieri) o tramite goccioline respiratorie.

La manifestazione dell’infezione dipende dallo stato immunitario del paziente. In individui


immunocompetenti, il virus tende a rimanere in fase di latenza a livello dei gangli sensitivi del
trigemino (nella maggior parte dei casi quelli dei neuroni che terminano a livello della cute labiale) e
solo in seguito particolari trigger ambientali è in grado di replicare a livello epiteliale determinando la
comparsa della lesione primaria. Le condizioni che favoriscono il passaggio dalla fase di latenza a
quella di infezione primaria sono:

A. Abbassamento delle difese immunitarie

B. Stress emotivo (viaggi, mancanza di sonno…)

C. Febbre

D. Variazioni ormonali

E. Sostante stupefacenti

La lesione primaria si presenta si presenta come una vescicola è accompagnata da dolore e


formicolio dovuti al processo flogistico in atto, dovuto alla secrezione di citochine e chemochine
che richiamano le cellule del sistema immunitario. Spesso si ha, nelle manifestazioni più importanti,
linfadenopatia regionale, febbre e malessere generale. In caso di dolore e formicolio si può prevenire
la comparsa della lesione tramite farmaci.

Gli individui, quando non si ha la manifestazione della lesione vescicolare, non sono contagiosi in
quanto una sufficiente quantità di sIgA permette di eliminare i virioni. Durante la infestazione della
lesione, invece, le sIgA non sono sufficienti e l’individuo è contagioso.

Oltre alla classica vescicola labiale, Herpes simplex 1 è agente eziologico anche di altre
manifestazioni:

1. Gengivostomatite erpetica, caratterizzata dalla comparsa di vescicola sparse nel cavo orale
e da un odore fetido delle lesioni. Si tratta di una condizione pericolosa in quanto il virus può
raggiungere facilmente l’encefalo, portando a complicazioni come encefalite erpetica o
meningite ascendente.

2. Faringite e tonsillite, che vanno incontro a spontanea risoluzione

3. Esofagite

4. Cheratocongiuntivite, caratterizzata dal vescicole sulla palpebra e ulcere corneali

5. Cheratite erpetica, forma evolutiva della precedente, che porta a cecità e necessità di
trapianto di cornea

6. Meningite

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7. Encefalite erpetica, condizione gravissima con mortalità, se non trattata, del 70%. Anche
dopo la guarigione permangono deficit neurologici gravi. Si tratta di una complicazione che
origina dalla gengivostomatite erpetica in neonati o in immunocompromessi.

8. Patereccio erpetico, caratterizzato dalla comparsa di vescicole sulle dita dovute al contatto di
queste con una lesione labiale (solitamente i bambini che succhiano il dito o personale
sanitario che opera senza guanti).

Herpes simplex di tipo 2


La trasmissione di HSV-2, o herpes genitale, avviene per contatto diretto, nella maggior parte dei
casi tramite rapporti sessuali oppure attraverso i canali del parto (nel bambino).

Anche in questo caso l’infezione, in individui immunocompetenti, il virus passa alla fase di latenza (a
livello dei gangli sacrali), ma a differenza del precedente, l’herpes simplex 2 si riattiva molto più
facilmente e frequentemente. Nel particolare, la riattivazione avviene con cadenza praticamente
mensile negli individui di sesso femminile, a causa delle variazioni ormonali che determinano il
ciclo ovarico. Le donne sono anche quelle più soggette in quanto presentano una mucosa molto
più estesa.

In generale, l’infezione si localizza a livello vaginale, penineo, perineale e anale (la più dolorosa) e si
manifesta con la comparsa di vescicole ulceranti estremamente dolorose (e resistenti a terapie
antidolorifiche), in virtù del grande numero di terminazioni sensitive distribuite in queste zone. Le
lesioni portano grande dolore durante azioni come la defecazione, la minzione, la deambulazione e
gli eventuali rapporti sessuali.

Nonostante il dolore sia molto elevato in tutti gli individui, le donne risultano estremamente debilitate
da questa malattia a causa della sua continua ricorrenza. Ogni mese, infatti, le lesioni si manifestano
nuovamente, senza che quelle precedenti siano guarite. In caso di donne incinte, il cui sistema
immunitario è compromesso per un periodo prolungato, vi sono grosse difficoltà nel portare a
termine la gravidanza.

Talvolta si può presentare un’infezione congenita del neonato, in quanto il virus può raggiugnere il
feto per via transplacentare e provocare danni molto gravi come ritardo nella crescita e nello sviluppo
psicomotorio, comparsa di calcificazioni intracraniche, microcefalia, convulsioni, cicatrici cutanee e
comrpomissione degli occhi.

L’infezione neonatale, invece, viene acquisita durante il passaggio del nascituro nei canali del
parto di una donna che non sa di essere infetta. Generalmente si tratta di una condizione tipica dei
paesi con bassi standard sanitari, in quanto nei paesi industrializzati in donne con herpes genitale
viene eseguito un parto cesareo. In genere il neonato manifesta una delle seguenti tre forme, ed è
rara un’infezione asintomatica:

1. Infezione localizzata a cute, occhi o bocca

2. Infezione disseminata

3. Encefalite, con eventuale interessamento di cute, occhi e bocca

Diagnosi
La diagnosi viene effettuata tramite esame clinico (per osservazione delle lesioni), tramite indagine
indiretta (osservazione delle cellule infettate o ricerca di anticorpi nel siero del paziente) o tramite
indagine indiretta, specialmente tramite tecniche molecolari come l’immunofluorescenza o la PCR.

Epidemiologia e prevenzione
I soggetti più a rischio per HSV-1 sono i bambini, mentre per HSV-2 sono gli individui
sessualmente più attivi. Nel caso dei rapporti sessuali aumenta enormemente il rischio di contrarre
herpes genitale in concomitanza all’aumentare del numero di partner sessuali (10% con 1 partner,

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20% con 2-10 partner, percentuali raddoppiate nelle donne). Un’altra categoria a rischio, come già
detto, è quella degli operatori sanitari, esposti a secrezioni e contatti con il paziente. In generale gli
immunocompromessi risultano suscettibili ad entrambe le infezioni.

Pratiche di prevenzione sono:

1. Rapporti sessuali sicuri

2. Parto cesareo per bambini con madri infette

3. Utilizzo di DPI per gli operatori sanitari

4. Evitare il contatto con persone infette

Terapia
Numerosi farmaci sono attivi contro Herpes simplex, ma il principale è Aciclovir, ACV. Si tratta di
farmaci impiegati per curare la fase di lesione primaria, ma non per eradicare il virus in fase di latenza
in quanto il farmaco non è in grado di raggiungere i gangli e perché il virus non è in attiva
replicazione. Si tratta quindi di farmaci impiegati per ridurre la sintomatologia ed impedire ad una
fase precoce di lesione di evolvere. È comunque possibile l’esistenza di ceppi virali
farmacoresistenti.

Meccanismo di Aciclovir
L’efficacia di Aciclovir (acicloguanosina) è dovuta al fatto che si tratta di un farmaco virus-specifico,
che attacca le cellule infette, ma non quelle sane. Esso è un analogo della guanosina e svolge il
ruolo di inibitore competitivo della DNA polimerasi, impedendo quindi la replicazione del DNA
nelle cellule infette (e quindi la replicazione del DNA virale).

La selettività è dovuta dal fatto che Aciclovir, per essere impiegato come nucleotide, deve possedere
tre gruppi fosfato, analogamente agli altri nucleotidi. L’aggiunta del primo gruppo fosfato viene
operata da una chinasi virus-specifica: ne deriva che si ha l’attivazione del farmaco solamente nelle
cellule infettate dal virus e solo in queste si avrà l’arresto dell’attività replicativa. Dopo il primo
gruppo fosfato aggiunto, sono le chinasi cellulari che aggiungono gli altri.

Virus varicella-zoster
Il Virus varicella-zoster presenta diverse analogie con gli HSV, come la fase di latenza a livello
neuronale, nei gangli sensitivi.

La trasmissione avviene per via aere, tramite goccioline di Flugge, oppure tramite contatto diretto
con le lesioni.

Immunopatogenesi
Il virus penetra nelle prime vie respiratorie oppure nella congiuntiva, si porta a livello dei linfonodi
regionali (tonsille e adenoidi) per poi diffondere nel circolo sanguigno e attraverso questo a tutto
l’organismo.

La replicazione del virus a livello degli endoteli determina la comparsa a livello cutaneo delle lesioni
vescicolari (distaccamento dell’ultimo strato dell’epidermide con accumulo di essudato). Le
vescicole sono estremamente pruriginose in quanto l’infezione richiama gli eosinofili, i quali
rilasciano istamina (che causa prurito). Queste sono le manifestazioni più frequenti dell’infezione
primaria, anche se raramente possono essere colpiti i polmoni (polmonite) oppure il SNC (encefalite
erpetica). L’infezione primaria (varicella) ha breve decorso e si risolve in poco tempo.

Dopo questa infezione primaria il virus passa alla fase di latenza, localizzandosi a livello dei gangli
sensitivi delle radici dorsali oppure nei gangli sensitivi del distretto cervicale. In caso di
compromissione del sistema immunitario (spesso a causa della vecchiaia), poi, si può avere la

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riattivazione del virus che percorre in direzione centrifuga gli assoni e giunge a livello della cute,
determinato un rash cutaneo localizzato su di un dermatomero.

Le lesioni nella forma contratta dagli adulti, uguale a quella ricorrente, sono esattamente identiche a
quelle dall’infezione primaria, ma a cambiare è la risposta dell’ospite. Nell’adulto, infatti, la risposta
immunitaria è più potente e tende a portare importanti danni alle cellule, determinando necrosi del
tessuto nelle aree infette. Conviene quindi entrare in contatto con il virus da bambini, sviluppando
immunità permanente.

Manifestazioni cliniche
Distinguiamo le manifestazioni in:

1. Varicella, che consiste nell’infezione primaria. Presenta un periodo di incubazione di 10-20


giorni e nella fase iniziale si ha la comparsa di febbre, malessere generale, cefalea e dolori
addominali. Si ha poi la rapida comparsa delle vescicole (eritema maculo-papulare). In poche
ore le vescicole si trasformano in croste che non lasciano traccia, a meno che il prurito induce
a eliminare le croste, evento che espone a sovrainfezioni batteriche che lasciano cicatrici
(talvolta viene consigliato in talco mentolato per alleviare il prurito). Nei bambini sani la
prognosi è benigna e la risoluzione è spontanea. Quando l’infezione primaria insorge negli
adulti o in bambini immunocompromessi, questi possono contrarre una polmonite interstiziale,
che può essere fatale, oppure altre complicanze come insufficienza epatica o cerebellite
benigna.

2. Herpes zoster, o fuoco di Sant’Antonio, che consiste nella forma di ricorrenza. Questa
insorge per riattivazione del virus in seguito a calo delle difese immunitarie. In primo luogo si
ha la comparsa di intenso dolore nell’area in cui poi si manifestano le vescicole, molto simili a
quelle della varicella (ma con diffusione ad un solo dermatomero). In molti pazienti oltre i 60
anni la complicazione più frequente è la nevralgia post-erpetica, che può persistere per mesi
accompagnata da dolore intenso. Negli immunocompromessi l’herpes zoster si manifesta in
maniera disseminata, con esito spesso fatale.

Diagnosi
Nella maggior parte dei casi, per la diagnosi è sufficiente l’esame clinico in quanto le manifestazioni
sono tipiche. Negli immunocompromessi, invece, la malattia è facilmente confondibile con altre e
quindi è appropriato l’approfondimento.

In genere il materiale prelevato tramite tampone è l’essudato delle vescicole, che contiene elevate
quantità di virioni.

Test immunologici come ELISA permettono di rilevare il titolo anticorpale sviluppato dal paziente (e
verificare se questo è già immunizzato). In generale si tratta di test effettuati sulle donne incinte per
assicurarsi siano immunizzate (esame STORCH, che verifica la presenza di IgG e IgM per diverse
infezioni).

Test biomolecolari, infine, permettono con precisione di verificare la presenza del genoma virale.

Terapia e profilassi
Nei bambini sani non è prevista alcuna terapia in virtù del suo decorso benigno. Al contrario è
prevista terapia per individui immunocompromessi.

I farmaci di elezione sono Aciclovir, Famciclovir e Velaciclovir. Ovviamente questi non vanno ad
eradicare il virus a livello dei gangli, ma ne impediscono la sola replicazione a livello cutaneo.

Molto utile è l’immunoterapia tramite anticorpi umani specifici (l’immunizzazione passiva, però dura
circa un mese).

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Esiste un vaccino costituito da virus attenuato che dal 2009 è obbligatorio. SI tratta di una
formulazione tetravalente, il vaccino Varicella-Mobillo-Rosolia-Parotite. Questo vaccino, a
differenza dell’immunità acquisita dopo infezione, non protegge tutta la vita.

Virus Epstein-Barr
Il virus di Epstein-Barr (EBV) è stato scoperto nel 1958 durante ricerche sulla possibile trasmissibilità
di un particolare tumore, che venne chiamato linfoma di Burkitt. Sei anni dopo si riuscì a isolare il
virus da tali cellule tumorali e si comprese anche che mentre nei paesi africani il virus tendeva ad
avere attività oncogenetica, a latitudini maggiori si limitava a dare infezioni innocue come la
mononucleosi infettiva.

Caratteristiche
EBV è un virus appartenente alla famiglia degli Herpesviridae e alla sotto-famiglia dei
gammaherpesvirinae. Esso presenta caratteristiche simili agli altri herpesvirus umani e si presenta
di dimensioni leggermente minori ad Herpes simplex, con un diametro di circa 100 nm ed un
capside di 162 capsomeri. Come tutti i virus erpetici presenta un genoma a DNA a doppia elica.

EBV è in grado di infettare principalmente i linfociti B (ma anche le cellule epiteliali della
rinofaringe e dell’orofaringe) in quanto queste cellule esprimono recettori specifici legati dal virus,
cioè il CD21. L’infezione presenta diversi potenziali decorsi:

1. Il virus può replicare in linfociti B oppure in cellule epiteliali permissive

2. Il virus può determinare infezione latente nei linfociti B in presenza di linfociti T competenti

3. Il virus può immortalizzare i linfociti B

La diversa infezione dipende da quale gruppo di geni vengono espressi dal virus (in totale ne
possiede 70-80).

Durante un’infezione permissiva le cellule epiteliali ed i linfociti B permissivi consentono la


trascrizione e la traduzione di messaggeri in proteine virus-specifiche, nel particolare di quel gruppo
di proteine caratteristiche del ciclo litico del virus ((il tutto coadiuvato dalla prima proteina tradotta, il
potente fattore di trascrizione ZEBRA)).

Nel caso di infezione non permissiva dei linfociti B (fase di latenza), nelle cellule infette sono
presenti solo un ristretto numero di genomi di EBV episomiali, che si replicano solo quando la cellula
si divide. Durante un’infezione non permissiva avviene l’espressione selettiva di un gruppo di geni:

A. 6 geni EBNA (antigeni nucleari di Epstein-Barr), dei quali EBNA-1 è l’unico espresso dai
linfociti B memoria in cui il virus è in latenza

B. Geni LMP 1 e 2 (proteine latenti di membrana). Nel particolare queste proteine sono
responsabili della trasformazione immortalizzante e dell’inibizione dell’apoptosi: LMP-1 è il
principale agente oncogenetico e viene coadiuvata da LMP-2.

C. Geni EBER 1 e 2, degli RNA non codificanti che latinizzano il genoma

Patogenesi
La trasmissione avviene tramite saliva e secrezioni faringee, in maniera diretta (effusioni) o per
scambio di utensili come posate, bicchieri o spazzolini. La presenza di virioni nella saliva è dovuta
alla proliferazione delle cellule infettate a livello dei linfonodi.

Le manifestazioni da EBV derivano una risposta immune iperattiva (mononucleosi infettiva) oppure
dalla mancanza di un controllo immunitario efficace (linfoma).

Le proteine prodotte da EBV attivano la crescita delle cellule B e impediscono l’apoptosi. I linfociti T,
di solito, controllano la proliferazione delle cellule B ed in assenza di cellule T (come ad esempio in
vitro, visibile con prelievo di sangue periferico e coltura) le cellule B vengono immortalizzate. La

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linfadenopatia (ma anche la linfocitosi del sangue periferico) che caratterizza gli individui con
infezione da EBV è dovuta alla iperproliferazione di linfociti B trasformati e di linfociti T attivati che
combattono i precedenti. L’infezione si risolve completamente quando i linfociti T citotossici e NK
hanno completamente eliminato i linfociti B infettati (riconoscendo gli antigeni virus-specifici esposti).
Una piccola porzione di linfociti B della memoria, però, contengono il virus in forma latente
(esprimente EBNA-1), che persiste durante tutta la vita del paziente e può andare incontro a
riattivazione.

Manifestazioni cliniche
Le manifestazioni cliniche sono diverse:

1. Mononucleosi infettiva, o malattia del bacio. Questa condizione è l’infezione primaria , la


quale insorge 30-40 giorni dopo il contagio ed è caratterizzata da malessere generale,
astenia, febbre, faringite, epatosplenomegalia e linfadenopatia regionale (spesso nucale).
Generalmente i sintomi si risolvono in 22-4 settimane, ma spesso astenia e rialzi febbrili si
ripresentano per mesi dopo la guarigione. Nei bambini in realtà, come altri herpesvirus, dà
infezioni asintomatiche dato che il sistema immunitario reagisce blandamente, mentre si hanno
iper-reazioni immunitarie negli adulti (anche in questo caso è auspicabile contrarre l’infezione
in giovane età). In soggetti sani è raramente fatale, ma in alcuni soggetti può comportare
complicazioni soprattutto di natura neurologica, fra le quali la sindrome di Guillan-Barré e
una meningoencefalite asettica.

2. Forme linfoproliferativa legata al cromosoma X, che compare in individui affetti da sindrome


linfoproliferativa legata al cromosoma X (una condizione ereditaria caratterizzata da ridotta

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funzionalità dei linfociti T): in questi individui l’infezione primaria si presenta in maniera più
grave (con ammassi linfocitari simil tumorali ma benigni) e generalmente è seguita da necrosi
epatica (dovuta a infiltrati linfocitari), che generalmente è fatale.

3. Infezione cronica attiva, una forma di ricorrenza caratterizzata da spossatezza, cefalea,


febbricola, ma da non confondere con la sindrome da fatica cronica, di gravità maggiore.

4. Linfoma di Burkitt, un tumore tipico di bambini e adolescenti che vivono in regioni dell’Africa
sub-sahariana (dove è endemica anche la malaria). Si tratta di un linfoma extralinfonodale
che si forma in seguito all’infiltrazione di linfociti B infettati nelle ossa e nei tessuti del cranio
(effetti devastanti).

5. Carcinoma nasofaringeo, molto comune tra le popolazioni del sud-est asiatico. Anche
questo tipo di tumore è dovuto alla proliferazione di linfociti B infetti e a livello della cintura
malarica.

6. Infezione in immunocompromessi, in cui si ha un proliferazione incontrollata delle cellule B e


la loro immortalizzazione. Il tutto non può essere controllato dai linfociti T che non sono
funzionali.

7. Disordini linfoproliferativi a cellule B, condizioni che insorgono in pazienti che hanno subito
trapianti, anche qui risultanti dalla proliferazione delle cellule B. Un esempio di manifestazione
è la comparsa di leucoplachie orali, caratterizzate da cellule capellute.

Si annovera EBV anche tra le concause di linfomi di Hodgkins.

Epidemiologia
EPV causa alcune manifestazioni solamente in determinati luoghi: ad esempio nei paesi sviluppati
non si ha incidenza del linfoma di Burkitt, mentre questa è più elevata in zone come il continente
africano. Questa diversa distribuzione è dovuta alla diversa immunità acquisita con l’evoluzione
(quella delle popolazioni africane risente della presenza di altri parassiti come il plasmodio della
malaria).

Diagnosi
Molto spesso la diagnosi di mononucleosi infettiva può avvenire tramite esame clinico, in virtù della
peculiarità della malattia.

Molto impiegati sono i metodi indiretti, cioè i test sierologici.

Un metodo consiste nella reazione di Paul-Bunnel e Davidsohn, che si basa sulla proprietà dei
linfociti B infettati di produrre grandi quantità di anticorpi eterofili (non presenti normalmente) in
grado di riconoscere un particolare antigene (detto di Paul-Bunnel) presente sugli eritrociti di diverse
specie animali. Il siero del paziente malato, quindi, se messo in contatto con sangue animale darà
agglutinazione (formazione di ammassi di eritrociti). Questo è l’approccio impiegato per primo.

Un esame più preciso è il saggio ELISA. Nel particolare, la presenza di IgM specifiche per le
proteine virali (VCA) indica un’infezione in corso, mentre la presenza di IgG per le proteine virali (VCA)
indica l’immunizzazione avvenuta (le IgG hanno maggiore affinità).

Terapia
Non sono al momento esistenti terapie farmacologiche funzionanti, anche se in caso di difese
immunitarie compromesse talvolta viene impiegato l’aciclovir (per evitare linfoplachia o malattia
linfoproliferativo).

Analogamente agli altri herpesvirus, nemmeno per EBV esiste un vaccino funzionante, ed il miglior
metodo di prevenzione delle manifestazioni più gravi è l’esposizione al virus durante i primi anni di
vita.

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Citomegalovirus
Il citomegalovirus, anche indicato con CMV o HHV-5, è un virus appartenente alla famiglia degli
Herpesviridae e alla sotto-famiglia dei Betaherpesvirinae (di cui costituisce la specie a maggiore
potere patogenetico). Esso ha distribuzione ubiquitaria e l’unico ospite è l’uomo, per cui è
particolarmente adatto (si dice sia il virus erpetico più adatto all’uomo).

Caratteristiche
Il citomegalovirus presenta caratteristiche tipiche degli herpesvirus, come l’ampio tropismo,
l’essere specie-specifico e l’opportunismo (spesso determina infezioni in seguito a cali delle difese
immunitarie) e fra questi costituisce la specie dalle dimensioni maggiori, introno ai 200-300 nm.
Presenta un capside icosaedrico ed esternamente un envelope connesso al capside tramite un
complesso tegumento. L’envelope espone 20 glicoproteine virus-specifiche con funzione
recettoriale (in media glialtri virus ne espongono 2-3) che sono responsabili del tropismo ampio di
questo virus. Il tegumento che occupa la matrice è un insieme complesso di proteine, all’interno del
quale spesso vengono incluse proteine cellulari che accrescono la capacità adattiva del virus.

Presenta un tropismo molto ampio e numerose cellule infettate possono sostenere sia il ciclo litico
sia quello di latenza.

Esso ha genoma a DNA a doppia elica, della lunghezza di 230 Kbp. La complessità del suo
genoma è responsabile dell’ampiezza del suo tropismo. Esso è costituito da geni conservati nei
diversi ceppi (che quindi svolgono funzioni fondamentali) e geni specifici solo di alcuni ceppi (e
quindi responsabili della diversa patogenicità e aggressività). A causa della variabilità dei geni
presenti si definisce il patrimonio dei citomegalovirus “a mosaico”. Il ceppo di riferimento è il D169,
poco patogeno rispetto a quelli che si incontrano in clinica.

Il ciclo replicativo è analogo a quello di tutti gli herpesvirus e l’entrata del virus avviene tramite
fusione delle membrane indotta dal legame delle glicoproteine virali gB e gH (non sono le uniche,
ma le più studiate) e recettori cellulari specifici. In prossimità del nucleo avviene la scapsidazione ed
il genoma viene rilasciato ed entra nel nucleo. In questa sede, il genoma a DNA a doppia elica lineare
circolarizza, permettendo la replicazione tramite meccanismo a rolling circle, che permette la
produzione di numerose copie nuovamente lineari. A livello nucleare avviene anche la trascrizione dei
geni e l’autoassemblaggio dei virioni, che vengono eliminati per gemmazione.

Patogenesi
La trasmissione avviene tramite contatto e a causa del suo ampio tropismo esso può proliferare a
livello di numerosissimi tessuti ed essere eliminato tramite numerosi fluidi corporei, quali:

1. Urine, per cui presenta spiccata diffusibilità

2. Latte materno

3. Secrezioni vaginali e cervicali

4. Lacrime

5. Sangue

La trasmissione quindi può avvenire per via transplacentare, lungo i canali del parto, per contatto
salivare con il neonato (persone diverse dalla madre biologica), per via sessuale negli adulti e
tramite trapianti (specialmente di rene e di midollo osseo, in quanto CMV ha spiccato tropismo per
questi tessuti ).

Il grande adattamento all’ospite umano del CMV gli conferisce la capacità di modulare le funzioni
delle cellule dell’ospite:

23
1. CMV è in grado di evitare i meccanismi per i quali la cellula infettata viene riconosciuta come
non self in quanto presentante HLA variati (o assenti). Questa caratteristica permette al virus
di indire l’azione immunitaria sia in fase di latenza sia in fase di replicazione attiva.

2. CMV è in grado di indire i processi delle cellule NK

3. CMV è in grado di produrre proteine chemokine-like, cioè in grado di riprodurre l’azione delle
chemochine inducendo risposte immunitarie dannose

In generale l’intensità dell’infezione è strettamente legata allo stato immunitario (difese immunitarie
minori determinano infezione maggiore).

Analogamente agli altri herpesvirus, anche CMV presenta fasi di latenza alternate a fasi di
replicazione. Mentre negli altri herpesvirus, però, il dualismo è netto e si conoscono i meccanismi
che determinano il passaggio da una fase all’altra, nel caso di CMV i meccanismi non sono chiari. In
generale, però, possiamo distinguere:

1. Infezione primaria, che avviene quando un sieronegativo viene in contatto con il virus per la
prima volta.

2. Riattivazione, che avviene in un sieropositivo nel cui organismo è presente il virus in fase di
latenza in caso di estremo abbassamento delle difese immunitarie. La riattivazione viene detta
infezione endogena da citomegalovirus.

Esistono casi di reinfezione, o infezione esogena da citomegalovirus, causati nel particolare dal
contatto con ceppi differenti da quello precedentemente contratto: gli anticorpi non riconoscono il
nuovo ceppo, che può scatenare una nuova infezione. Proprio a causa di questo fatto, le probabilità
di contrarre un’infezione da CMV sono praticamente le stesse per un individuo precedentemente
immunizzato ed uno sieronegativo.

Nei soggetti immunocompetenti l’infezione è nella maggior parte dei casi asintomatica o simil-
mononucleosica, caratterizzata da linfadenopatia, astenia, febbre e mialgia. Negli adulti si può
presentare innalzamento degli enzimi epatici in quando gli epatociti sono cellule per cui CMV ha
spiccato tropismo.

Nei soggetti immunocompromessi (affetti da AIDS, sottoposti a trapianti e donne in gravidanza)


l’infezione varia in gravità in concomitanza con la gravità dell’immunosoppressione in questione.

Manifestazioni cliniche
Le manifestazioni cliniche principali sono:

1. Infezioni congenite, che derivano principalmente da infezioni primarie contratte dalle madri
(che essendo gravide sono immunocompromesse) durante la gravidanza e per cui non
presentano anticorpi da passare al bambino. Se invece la madre ha contratto
precedentemente l’infezione, ella passa gli anticorpi al figlio abbattendo le probabilità di
infezione congenita. In italia lo 0,3-0,4% (1% a livello mondiale) dei bambini presentano
infezione congenita da CMV. Il 90% di questi bambini nasce asintomatico (anche se alcuni
possono sviluppare i sintomi in seguito), mentre il restante 10% presentano danni permanenti
come sordità profonda, calcificazione cerebrali, ritardo mentale grave, microcefalia,
corioretinite. Nel complesso si tratta di condizioni altamente debilitanti per l’individuo che
interferirebbero enormemente con la qualità della vita.

2. Infezioni perinatali, contratte dai bambini lungo i canali del parto oppure per allattamento
durante un periodo di riattivazione del virus nella madre, la quale ha le difese immunitarie
abbassate. In questo caso le condizioni sono meno gravi in quanto la madre passa comunque
gli anticorpi al figlio (ma è bene che madri immunocompromesse non allattino in quanto non
passano anticorpi al figlio).

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3. Infezioni in bambini, adolescenti e adulti, sono quelle asintomatiche o simil-
mononucleosiche

4. Infezioni negli immunocompromessi, per i quali CMV agisce da patogeno opportunista. In


questi individui si possono presentare polmoniti interstiziali (condizioni più gravi),
corioretiniti, esofagiti.

Epidemiologia
L’infezione da CMV è endemica in tutto il mondo e nelle popolazioni ad alta endemia si arriva ad una
sieroprevalenza del 100% (70% per HSV), mentre in popolazioni a bassa endemicità si arriva ad una
sieroprevalenza del 60% (50% per HSV). In Italia la sieroprevalenza si aggira attorno al 60% degli
individui.

Diagnosi
Si distinguono le tecniche di diagnosi in base al soggetto:

A. Negli adulti immunocompetenti e nelle donne in gravidanza si ricercano IgM (che indicano
infezione primaria in corso) e IgG (che indicano infezione avvenuta in passato)

B. Negli immunocompromessi è necessaria una risposta sicura e veloce e pertanto si


prediligono le tecniche di biologia molecolare come la real time PCR (quantitativa),
impiegando com campione il sangue (dato che si ha viremia). La ripetizione di questo esame a
distanza di giorni permette di capite se il virus è in fase latente (non si ha aumento del
materiale genetico) o in fase di proliferazione (se il materiale genetico è aumentato).

C. Nei neonati spesso si procede con l’isolamento del virus in popolazioni cellulari a partire
dall’urina, per poi osservare tramite immunofluorescenza diretta.

Risulta molto utile anche il saggio ELISA.

Terapia
I farmaci impiegati, tutti con successo, sono:

1. Ganciclovir (diidrossipropossimetil guanosina), molto simile ad Aciclovir anche per quanto


riguarda il meccanismo d’azione. Questo farmaco non può essere somministrato per via orale
ma per via endovenosa.

2. Valganciclovir, estere del precedente, è somminnistrabile per via orale in quanto modificato
(“protettore dello stomaco”)

3. Foscarnet, anch’esso analogo delle basi azotate ma già trifosforilato: non è attivato
specificamente dalle cellule infette, ma risulta attivo su tutte e quindi anche tossico su tutte (è
tossico ma molto più efficace)

4. Cidofovir, analogo alla citidina e con caratteristiche simili al precedente.

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Retrovirus
Retroviridae è una delle famiglie di virus più studiare. Questi virus possiedono genoma a RNA
diploide a polarità positiva e presentano un peculiare ciclo replicativo che include un intermedio a
DNA, prodotto grazie all’enzima trascrittasi inversa.

La famiglia dei Retrovirdae si suddivide in tre sottofamiglie:

1. Oncovirinae, alla quale appartengono numerosi generi:

I. Alfaretrovirus

II. Betaretrovirus

III. Gammaretrovirus

IV. Deltaretrovirus, fra i quali troviamo HTLV (human T-cell leukemia virus)

V. Epsilonretrovirus

2. Lentivirinae, a cui appartengono molti virus causa di immunodeficienze in diversi animali e di


altre condizioni:

I. HIV, responsabile dell’immunodeficienza nell’uomo

II. BIV, responsabile dell’immunodeficienza nel bovini

III. FIV, responsabile dell’immunodeficienza nei felini

IV. SIV, responsabile dell’immunodeficienza nei primati

V. EIAV, responsabile dell’anemia negli equini

VI. CAEV, responsabile dell’ardite-encefalite negli equini

3. Spumavirinae

HIV
La teoria più accreditata ipotizza che HIV sia un virus derivato dall’adattamento del virus SIV (che
causa immunodeficienza nelle scimmie) all’uomo in seguito al contatto con questo (quindi si trattava
di una zoonosi). Le prime infezioni si ipotizza siano comparse negli anni 30, ma dagli anni 50 è
iniziata la vera e propria diffusione nella specie umana.

Negli anni 70 si iniziarono a registrare le prime evidenze dell’infezione, ma il primo caso accertato di
malattia che venne poi chiamata AIDS risale al 1981. Inizialmente il virus venne denominato GRID
(gay-related immune deficiency virus) in quanto la maggior parte dei casi si registrava nella comunità
omosessuale. In seguito si comprese che la sindrome coinvolgeva tutti gli umani. Nell’85 venne
sviluppato il test diagnostico per l’infezione da HIV, ancora oggi impiegato. Nell’87 venne prodotto il
primo farmaco in grado di contrastare gli effetti dell’HIV, mentre nel 96 venne introdotta la tecnica
HAART, caratterizzata dall’uso di più farmaci contemporaneamente. Negli anni 2000 sono state
raggiunte terapie appropriate per il trattamento della malattia.

Classificazione
Lo Human Immune deficiency virus appartiene alla sotto-famiglia dei lentivirus (così chiamati per
la caratteristica lunghezza della fase di latenza). HIV mostra notevole variabilità genetica, dovuta ai
numerosi riarrangiamenti, ricombinazioni e mutazioni, che permette di distinguere dei sottotipi,
talvolta indicati con quasispecie. L’estrema variabilità è la principale causa della mancanza di un
vaccino funzionante.

Ad oggi siamo in grado comunque di distinguere i diversi HIV in due sierotipi:

1. HIV-1, all’interno del quale possiamo distinguere dei gruppi:

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I. Gruppo M (main), il maggiore responsabile delle infezioni nel mondo, che include 11
sottotipi (clades) denominati con le lettere A-K. In Italia il più diffuso è il D.

II. Gruppo N (new), limitato all’Africa centro-occidentale

III. Gruppo O (outlier), limitato all’Africa centro-occidentale

2. HIV-2, all’intero del quale possiamo distinguere 6 linee filogenetiche, denominate tramite le
lettere A-F

Caratteristiche
HIV possiede diametro di circa 100 nm ed è costituito da un capside (a forma di tronco di cono)
avvolto da envelope.

Sull’envelope sono esposte proteine virus-specifiche:

1. Glicoproteina gp120, con funzione di antirecettore

2. Glicoproteina gp41, transmembranaria e responsabile della fusione con altre membrane

Esse sono organizzate a formare protuberanze sulla superficie dell’envelope che prendono il nome di
spike, o peplomeri, ciascuno costruito da 4 eterodimeri, ciascuno formato da gp120 e gp41.

Oltre a queste, sulla faccia interna dell’envelope è presente una proteina p17, la proteina della
matrice. Ciascuna p17 è sottoposta a processo di miristilazione (aggiunta di acido miristico sui
residui di Gly), fondamentale per il corretto montaggio delle proteine virus-specifiche sull’envelope (e
quindi della capacità infettiva).

Il capside possiede morfologia a tronco di cono


ed è costituto dalla proteine p24 (l’antigene più
facilmente rilevabile tramite ELISA).

Ogni virione, all’interno del capside, contiene:

A. Due copie di RNA a singolo filamento e


a polarità positiva (diploide)

B. Molecole di tRNA, che svolgono il ruolo


di primer per la trascrizione inversa

C. Enzimi retrotrascrittasi inversa (RT)

D. Integrasi

E. Proteasi

F. Proteine p7 e p9, probabilmente con


funzione di legare l’acido nucleico

Genoma
Il genoma di HIV (9,2 Kbp) è presente in ciascun visioni in due copie di RNA a singolo filamento
con polarità positiva (recenti studi evidenziano che le due molecole potrebbero non essere
identiche). I due RNA sono mantenuti vicini grazie a legami idrogeno tra sequenze complementari al
5’.

Ai due estremi del genoma sono presenti delle sequenze ripetute che prendono il nome di
sequenze R. Tali sequenze sono affiancate (più internamente) da sequenze uniche U, nel particolare
al 5’ dalla sequenza U5, mentre al 3’ dalla sequenza U3. Dopo il processo di retrotrasscrizione si
formano molecole di DNA più lunghe rispetto agli RNA stampo, portando alla formazione, ai lati della
molecola di DNA, delle cosiddette sequenze LTR (long terminal repeats), formate
dall’accostamento U3-R-U5 e necessarie per l’inserzione del DNA virale in quello della cellula ospite
e per la sua trascrizione:

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A. U3 al 5’ contiene informazioni per la trascrizione del DNA provirale, cioè le sequenze TATA box
(importante per l’inizio della trascrizione) e CAT box (per la regolazione).

B. R e U5 al 3’ contengono invece le sequenze di stop alla trascrizione

Adiacentemente alla LTR del 5’ si trova la sequenza PBS (primer binding site), che si lega ai tRNA
primer per l’inizio della trascrizione.

Il genoma contiene poi 3 geni strutturali fondamentali che in ordine 5’-3’ sono:

1. GAG (group specific antigen) che codifica per la proteina p55, che viene poi scissa nelle tre
proteine strutturali:

I. p15, ulteriormente scissa in p6 e p7, che legano RNA

II. p17, la proteina della matrice

III. p24, la proteina del capside

2. POL (polymerase), che dà origine a diverse proteine:

I. Retrotrascrittasi, un eterodimero di p51 e p66

II. Proteasi, responsabile delle varie scissioni che avvengono per i tre geni

III. Intergasi, coinvolta nell’integrazione del genoma

3. ENV (envelope), che codifica per:

I. p41 o proteina di fusione

II. p120 o proteina antirecettoriale

I geni GAG e POL vengono inizialmente tradotti come un’unica proteina p160 successivamente
scissa.

Sono presenti poi dei geni che codificano per proteine non strutturali, ma con funzione regolatoria:

1. TAT (trans activator of transcriptions), che codifica per una proteina chearriva nel nucleo e
lega la sequenza TAR (tat responsive region), determinando attivazione della trascrizione

2. REV (regulator of vision expression), che codifica un proteina che lega le sequenze RRE (rev
responsive elements) sugli mRNA per trasportarlo al di fuori del nucleo e proteggerlo da
eventuale splicing.

3. NEF (negative expression regulatory factor), fondamentale per l’infezione virale, che codifica
per una proteina che influenza lo stato di attivazione delle cellule ospite aumentando la loro
capacità di supporto della replicazione del virus. Nel particolare è reposanbile della down-
regolazione sequestrando i CD4 esposti dalle cellule e impedendo l’ingresso di nuovi virioni
(così da impedire una superinfezione che farebbe morire la cellula).

4. VPR, che codifica per una proteina che insieme a p17 fa parte del complesso di
preintegrazione che supporta l’integrazione del DNA

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5. VIF, che codifica per una proteina del ruolo non chiaro ma dall’estrema importanza per la
replicazione del virus

6. VPU, che induce degradazione dei CD4, permettendo un maggior rilasci di virioni dalla cellula
infetta (impedendo che in virioni si leghino alla cellula stessa)

Tropismo
Il recettore che permette l’entrata nella cellula di HIV è il CD 4 (, caratteristico dei linfociti T, ma anche
di altre popolazioni cellulari come monociti, macrofagi, cellule dendritiche e cellule gliali.

In realtà la presenza del CD4 è condizione necessaria, ma non sufficiente per l’infezione, ma son
necessari dei corecettori, fra i quali i più importanti sono CXCR4 (espresso dai linfociti T) e CCR5
(espresso dai macrofagi).

In base alle cellule infettate si può distinguere tra ceppi virali differenti:

1. Ceppi T-tropici, se infettanti i linfociti T (anche detti ceppi X4)

2. Ceppi M-tropici, se infettano i macrofagi (anche detti ceppi R5)

3. Ceppi dual-tropici, che legano entrambi i correttori e possono infettare sia Linfociti T sia i
monocit-macrofagi

Ciclo replicativo
1. Entrata →L’entrata del virus nelle cellule inizia grazie alla formazione del legame tra i CD4 e la
glicoproteina gp120, esposta sull’envelope. Questo legame permette l’attacco, ma per
l’entrata del virus deve avvenire il legame della gp120 con il corecettore, evento che induce un
cambio conformazione della gp120, che espone la proteina di fusione. Questi eventi
permettono alle due membrane di fondersi e quindi l’entrata del nucleocapside nella cellula
ospite. Si hanno poche informazioni su come avvenga la scapsidazione (o spogliazione)

2. Retrotrascrizione → La retrotrascrittasi va a retrotrascrivere una molecola di RNA, portando


alla formazione di un ibrido RNA (+) e cDNA (-). La RT, poi, svolge il ruolo di ribonucleasi H e
degrada il filamento di RNA, lasciando quello di DNA. La RT svolge il ruolo anche di DNA
polimerasi classica e riproduce il secondo filamento. A questo punto di è quindi formato il
DNA provirale a doppia elica e lineare. Esso si associa a integrasi, p17 e VPR formando il
complesso di preintegrazione, che si porta a livello nucleare: mentre gli altri retrovirus
devono attendere la divisione cellulare per entrare nel nucleo, HIV è in grado di meccanismo
attivo per l’entrata. È da sottolineare che la retrotrascrittasi non è dotata di attività di
proofreading e pertanto da qui deriva l’elevata variabilità genomica di HIV.

3. Integrazione → L’integrazione avviene ad opera dell’enzima integrasi, che in primo luogo


rimuove due nucleotidi dal capo 3’ e poi inserisce il DNA provirale all’interno di quello della
cellula ospite. Il processo è coadiuvato dai meccanismi di correzione cellulari. L’integrazione è
permanente, ed il solo modo per eliminarla è la morte della cellula.

4. Replicazione, trascrizione e traduzione →

I. Il DNA virale va incontro a replicazione insieme a quello cellulare e grazie alla DNA
polimerasi (II) eucariotica.

II. La trascrizione, che avviene grazie ai meccanismi cellulari, porta alla formazione di tre tipi
di mRNA

i. mRNA che codificano per proteine regolatrici, sottoposti a molti splincing

ii. mRNA che codificano per proteine strutturali, sottoposti ad un solo splicing

iii. mRNA che vanno a costituire il genoma della progenie e non sono sottoposti a splicing

III. La traduzione sfrutta anch’essa i processi della cellula

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5. Autoassemblaggio → Le proteine gp120 e gp41 dopo essere state prodotte vengono
sottoposte a glicosilazione nel RER ed in seguito, insieme alle altre, si accumulano in
prossimità della membrana plasmatica (gp120 gp41 vi si legano). Avviene la gemmazione che
porta all’acquisizione dell’envelope, all’interno del quale, però, non è ancora costituito il
capside: il virus viene infatti rilasciato in forma immatura e non infettante. La maturazione
avviene nell’ambiente esterno ed è determinata dalla proteasi, che effettua tagli proteolitici
completando l’autoassemblaggio del capside.

Trasmissione e patogenesi
La presenza di virioni HIV in un liquido non lo rende necessariamente infettante in quanto i virioni
devono essere infettanti (nella saliva ad esempio vengono inattivati dal lisozima). I liquidi infettanti
sono:

1. Sangue

2. Sperma

3. Secrezioni vaginali

Potenzialmente infettanti risultano essere anche il liquido sinoviale ed il latte materno. Non sono
infettanti, invece, urine, feci, lacrime, saliva e sudore.

Per questo motivo, le vie di trasmissione risultano essere:

1. Via sessuale, la più frequente in questi tempi

2. Perinatale, che viene facilmente tenuta sotto controllo tramite trattamenti antivirali

3. Tramite trasfusioni, oggi ridottissima grazie ai controlli

4. Tramite aghi contaminati (o altri oggetti che possono incolpare il virus), la più frequente in
passato (in tossicodipendenti)

La trasmissione non può avvenire tramite puntura di insetti ematofagi in quanto questi non iniettano
sangue, bensì saliva.

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I danni causati dall’infezione da HIV sono legati principalmente alla compromissione delle cellule
infettate. Essendo queste cellule quelle che forniscono difesa immunitaria, ne consegue una
immunocompromissione del paziente. L’organismo è in grado di sviluppare anticorpi specifici per
porzioni di HIV, ma questi anticorpi non risultano essere funzionali nel combatterlo (a differenza di
molti altri virus) in quanto il virus è in continua mutazione.

Manifestazioni cliniche
L’infezione da HIV si può suddividere in tre fasi:

1. Fase primaria, che origina con l’entrata del virus nell’organismo e principalmente nei
macrofagi residenti (sistema endoreticolare, genitale o rettale). Tramite questi, esso è in grado
di migrare attraverso il circolo sanguigno, portando a viremia. Tramite il sangue il virus
raggiunge le cellule dendritiche, dalle quali a sua volta è in grado di raggiugnere i linfociti T
nel sistema linfatico. L’incubazione dura 3-6 settimane e può essere asintomatica oppure
simil-mononucleosica o simi-influenzale (con risoluzione spontanea in circa 2 settimane)
date dalla viremia. La sieroconversione è tardiva e può avvenire dopo mesi.

2. Fase di latenza, in cui non si ha nessun sintomo, ma il virus continua a replicare per anni. Si
ha solo una diminuzione del rapporto CD4/CD8. Solo verso la fine della fase latente si
manifestano le prime infezioni opportunistiche dovute all’abbassamento del rapport CD4/CD8.

3. Fase conclamata, o AIDS (acquired immune deficiency syndrome) che viene decretata
quando il numero di CD4 scende al di sotto delle 200 cellule/µl. In questo stadio il soggetto è
estremamente suscettibile a qualsiasi infezione opportunistica come ad esempio tubercolosi,
criptococcosi, Herpes zoster, dermatite seborroica, mollusco contagioso e molte altre.
Possiamo anche distinguere uno stadio terminale, caratterizzato da:

I. Diffusione del virus a diversi livelli dell’organismo

II. Accumulo di infezioni opportunistiche

III. Neoplasie, come:

i. Sarcoma di Kaposi, che si sviluppa gradualmente a livello di cute, mucose e visceri e


si manifesta con delle macchie sulla cute e nel cavo orale.

ii. Linfomi, specialmente cerebrali

iii. Molti altri tumori

Diagnosi
Si definisce periodo finestra quel periodo che precede la sieroconversione: durante questo lasso
di tempo non è possibile verificare la presenza di infezione tramite metodi sierologici ma solo
ricercando il genoma virale.

Gli approcci per la diagnosi sono:

A. Test sierologico → La valutazione della presenza di anticorpi specifici per HIV nel siero del
paziente viene eseguita tramite tecniche come ELISA (metodo indiretto). Il saggio ELISA viene
solitamente confermato dalla western blot (immunoblotting).

B. Test molecolari → Questi test forniscono conferma dell’infezione virale ed inoltre permettono
di verificare un’infezione anche durante il periodo finestra (metodo diretto).

I test non hanno solo scopo diagnostico, ma sono impiegati anche per verificare la funzionalità della
terapia farmacologica. In primo luogo, per valutare la risposta ad un farmaco, si effettua una conta
dei CD4 (se presenti) e si verifica la viremia. Test più approfonditi, poi, sono:

A. Test fenotipici, che permettono di valutare in vitro la replicazione del virus in presenza di
diverse concentrazioni del farmaco. Si tratta in realtà di test lunghi e dispendiosi quindi poco
usati.

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B. Test genotipici, che permettono di sequenziare zone in cui sono note mutazioni che
forniscono resistenza agli antivirali. In questo modo si può conoscere la mutazione prima Chee
questa si manifesti fenotipicamente e quindi cambiare terapia prima che aumenti la viremia.

Epidemiologia
Ad oggi nel mondo sono presenti circa 40 milioni di persone infette da HIV e mentre al 2002 era stata
registrata una diminuzione dei casi, dal 2013 i casi sono riiniziati a crescere. In Italia le regioni più
colpite son Lazio e Lombardia. Prima del 2002 la fascia d’età più colpita era quella 30-35, ma ora si
aggira intorno ai 25-30.

Terapia
Il primo farmaco con successo fu AZT
(zidovudina). Ad oggi esistono 27
farmaci, suddivisibili in 6 classi:

1. Inibitori nucleotidici della


trascrittasi inversa
2. Inibitori non nucleotidici della
trascrittasi inversa
3. Inibitori della proteasi
4. Inibitori della fusione tramite
CCR5
5. Inibitori dell’entrata
6. Inibitori dell’integrasi
La terapie normalmente sono costruite
dalla combinazione di più farmaci
così da attaccare il virus su diversi
fronti.

Il fallimento della terapia può derivare dalla resistenza del ceppo ad un farmaco (grazie alla sua
variabilità) oppure a causa del gran numero di farmaci da assumere (spesso i pazienti commettono
errori oppure si rifiutano).

Al momento non esiste alcun vaccino in grado di immunizzare contro HIV. L’antigene esposto da HIV
che potrebbe essere sfruttato per la produzione di un vaccino è la glicoproteina gp120, ma questa
presenta epitomi estremamente variabili e mutevoli.

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HTLV
HTLV-1 e HTLV-2 (human T cell lymphotropic virus type 1 and 2) sono due virus della famiglia dei
retrovirus. HTLV-1 è associato alla comparsa di due malattia. Diversamente, HTLV-2 non è associato
alla comparsa di alcuna malattia conosciuta.

Il virus è endemico in Giappone, in lacune aree dell’Asia e dell’Africa equatoriale. In Europa e in Nord
America, invece, risulta poco diffuso.

Caratteristiche
Questo virus presenta caratteristiche tipiche dei retrovirus e nel particolare caratteristiche comuni ad
HIV. Esso presenta un capside icosaedrico avvolto da envelope su cui sono esposte importanti
proteine glicosilate, alcune delle quali hanno funzione antirecettoriale. Delle importanti proteine
prodotte dal virus sono le retrotrscrittasi inverse. All’interno, poi, troviamo anche il genoma costituito
da due molecole identiche di RNA a singolo filamento e a polarità positiva e due tRNA. Il genoma
ricalca quello di HIV e si possono distinguere i geni gag, pol ed env.

HTLV-1 attacca principalmente i linfociti T (con più efficienza i CD4). Il principale recettore cellulare
sfruttato per l’entrata è il trasportatore GLUT-1, espresso da numerosissime cellule. All’interno della
cellula presenta un ciclo replicativo tipico dei retrovirus e simile ad HIV.

La trasmissione avviene tramite fluidi corporei quali sangue, liquido spermatico e sangue materno.
La trasmissione non è frequente in quanto è necessario il passaggio di intere cellule infette.
Importante è anche la trasmissione transplacentare. In Giappone l’incidenza è abbastanza alta e
sono in corso programmi di screening.

Manifestazioni cliniche
Mentre a HTLV-2 non sono attualmente associate patologie, a HTLV-1 è associata l’insorgenza di
due condizioni:

A. ATL, o adult T-cell leukemia lymphoma, una malattia linfoproliferativa

B. HAM, o HTLV-1 associated myelopathy, una malattia neurodegenerativa

Per la diagnosi si impiegano test sierologici, specialmente ELISA, e per una maggiore precisione o
sensibilità dei metodi molecolari.

Non sono al momento conosciute terapie farmacologiche funzionanti e le ricerche si stanno


concentrando sulla produzione di un vaccino.

33
Virus dell’epatite
L’epatite è una patologia a carico del fegato e può essere determinata sia da agenti tossici sia
dall’infezione da parte di microorganismi. L’epatite di origine virale, nel particolare, è causata da
diversi tipi di virus detti epatotropi e le diverse epatiti virali vengono distinte con le lettere A-G. Tutti
i virus che causano epatite sono virus a RNA, ad eccezione di quello che causa la forma B, che
presenta genoma a DNA.

I sintomi delle diverse forme di epatite sono molto simili tra loro e pertanto è fondamentale l’analisi di
laboratorio per stabilire con certezza quale sia l’agente eziologico di una infezione.

La sintomatologia iniziale è abbastanza aspecifica: mal di testa, dolori muscolari, dolori articolari,
nausea e febbre. Solo inseguito compaiono segni più specifici della malattia, direttamente legati alla
compromissione della funzionalità epatica: le transaminasi (o amminotransferasi, specialmente
quelle per aspartato e alanina) presentano un aumento, che a sua volta determina un accumulo di
bilirubina in circolo, che determina l’ittero. Anche fino a questo punto, però, non si riesce a
distinguere la causa della condizione (i medesimi sintomi possono essere causati dall’alcolismo o da
altre infezioni come dal CMV).

Possiamo distinguere le epatiti a causa virale in due gruppi:

1. Epatiti a trasmissione oro-fecale (A E), con decorso acuto, cioè che si risolve in 6-12 mesi

2. Epatiti a trasmissione parenterale (B C D), con decorso cronico, cioè che si protrae oltre i
12 mesi, e che può portare a cirrosi e perfino a epatocarcinomi

Inoltre per motivi storici si distingue tra virus classici (A e B), in quanto i primi scoperti, dai virus
dell’epatite non A non B (NANB).

Virus dell’epatite A
Il virus dell’epatite A, HAV, appartiene alla famiglia dei PIcornaviridae ed al genere Hepatovirus, di
cui costituisce l’unica specie che infetta l’uomo. HAV è un virus naked, privo di envelope, che
presenta un capside icosaedrico al cui interno si trova il genoma a RNA a singolo filamento e
polarità positiva. Questo virus è altamente resistente in quanto resiste per 10 ore a 60°C oppure per
10 minuti a 100°C (ma viene inattivato dagli UV).

Ciclo replicativo
Esso presenta le modalità di replicazione dei virus a RNA con polarità positiva. Una volta entrato
all’interno della cellule, il genoma è già infettante in quanto può immediatamente legarsi ai ribosomi
per determinare la sintesi delle proteine virali. Fra queste proteine virali è presente una RNA
polimerasi RNA dipendente che permette la replicazione del genoma. Una volta completata dal
produzione di RNA e proteine, avvengono l’autoassemblaggio e l’esocitosi. L’uscita dei virioni
prodotti non determina lisi cellulari.

Patogenesi
La tramissione avviene per via oro-fecale (anche se rimane possibile la trasmissione tramite
sangue infetto). In genere avviene l’ingestione di materiale contaminato. Il virus procede attraverso
l’orofaringe, l’intestino e da qui, tramite il torrente circolatorio, è in grado di raggiungere il fegato,
dove continua a replicare. I virioni prodotti continuamente vengono eliminati nella bile, che poi viene
espulsa con le feci, ma solamente nei primi 10 giorni dell’infezione.

Manifestazioni cliniche
La malattia ha un periodo di incubazione che varia dai 15 ai 50 giorni. Spesso l’infezione è
asintomatica, ma quando sintomatica i segni che compaiono differiscono in base all’età:

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A. Nei bambini si manifestano nausea e vomito, mentre l’ittero si manifesta solo nel 10% dei
casi

B. Negli adulti si manifestano ittero (con maggiore frequenza), alterati valori delle transaminasi,
epatomegalia e altri sintomi aspecifici.

La malattia presenta un tasso di mortalità che cresce con il crescere dell’età.

Diagnosi
Lo sviluppo della malattia è caratterizzato da un periodo di incubazione in cui si ha eliminazione dei
virioni tramite le feci. Nelle feci però scompaiono le tracce di virus quando compaiono i sintomi.

Per la diagnosi si affiancano gli esami degli enzimi epatici (che indicano danni epatici) a tecniche
sierologiche per verificare la presenza di anticorpi specifici per il capside del virus, che saranno IgM
durante la fase acuta e IgG se l’infezione si è risolta.

Profilassi e prevenzione
È diffuso un vaccino per HAV costituito dal virus inattivato. Questo vaccino è spesso
somministrato con il vaccino per l’epatite B in un’unica formulazione. Il vaccino non è obbligatorio,
ma fortemente consigliato qualora ci si trovi in zone ad alta endemicità.

Le pratiche di prevenzione sono la buona igiene personale (specialmente delle mani) e degli alimenti.

Virus dell’epatite B
Il virus dell’epatite B, HBV, appartiene alla famiglia degli Hepadnaviridae, e costituisce l’unica
specie di questa famiglia ad essere in grado di infettare l’uomo.

Caratteristiche
HBV si presenta come una particella di circa 42 nm di diametro.

Esso presenta un capside icosaedrico costituito dalla proteina C (HBcAg, antigene C dell’epatite
B), ma anche da una proteina E (HBeAg).

Il capside è poi avvolto dall’envelope, sul quale sono esposte tre glicoproteine associate tra loro,
cioè preS1, preS2 la glicoproteina S (HBsAg), quest’ultima la più rappresentata. La proteina S
viene prodotta in eccesso dagli epatociti: si ha l’autoassemblaggio e la secrezione di particelle virali
sferiche o tubolari che non sono infettanti in quanto non contengono il genoma (molto più numerose
di quelle infettanti).

Si possono poi distinguere 5 diversi determinati antigienici (a livello della glicoproteina S) che
permettono di distinguere diversi sottotipi:

A. Il determinante a è comune a tutti i sottotipi

B. I determinanti d/y sono alternativamente esclusi

C. I determinanti w/r sono alternativamente esclusi

I sottotipi sono quindi adw, adr, ayw, ayr (quest’ultimo poco diffuso). I diversi sottotipi differiscono
per la diffusione geografica.

Internamente al capside si trova il genoma virale a DNA a doppia elica circolare, ma anche la
polimerasi, denominata proteina P5, che nel particolare è una retrotrascrittasi inversa.

Genoma
Il DNA è circolare ed è costituito da un filamento completo e da uno incompleto (questa
caratteristica impedisce di classificare questo virus nella classificazione di Baltimore). Il DNA di HBV
presenta 4 ORF (open reading frame), cioè regioni sovrapposto che costituiscono dei geni e grazie
ai quali il virus riesce a immagazzinare più informazioni in uno spazio minore:

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1. Regione preS/S, che codifica per le glicoproteine di superficie preS1, preS2 e S. Nel
particolare, tre diverse sequenze di inizio (AUG) permettono di produrre le tre proteine diverse
che vengono poi modificate:

I. La sola regione S (terzo AUG) codificano per gp27 (S, small)

II. Le regioni preS2+S (secondo AUG) codificano per gp36 (M, medium)

III. Le regioni preS1+preS2+S (primo AUG) codificano per gp42 (L, large)

2. Regione preC/C, che codifica per le proteine capsidiche.Anche in questo caso sono presenti
più codini d’inizio, che portano alla formazione di due proteine:

I. La regione C codifica per la proteina C del capside

II. Le regioni preC+C codificano per la proteina preC, che viene sottoposta a modificazione
nel Golgi, cioè subisce un taglio al C-terminale portando alla formazione di HBeAg, che
svolge un ruolo nell’uscita dei virioni dalla cellula ospite.

3. Regione P, che codifica per la polimerasi virale, che svolge tre ruoli:

I. Terminal protein, cioè lega con il suo amminoterminale il 5’ del filamento negativo di DNA

II. Pol/RT, cioè di polimerasi e retrotrascrittasi

III. RNasi H, cioè degrada la molecola di RNA nell’ibrido DNA/RNA

4. Regione X, che codifica per una piccola proteina con funzione regolatoria, HBx, un
transattivatore di alcuni geni della cellula (IFN-β, MHC) e di geni virali: nel particolare esso
regola geni dello stesso HBV, ma anche di HIV e infatti, come spesso accade, pazienti affetti
da HIV contraggono anche HBV, che ne aggrava la situazione. Inoltre questa proteina
interagisce con p53 ed è la responsabile dell’insorgenza di epatocarcinoma. Da notare è la
specularità tra il ciclo di HIV e HBV.

Ciclo replicativo
Il ciclo replicativo di HBV è schematizzatile in tre fasi:

1. Entrata → Il virus lega la membrana plasmatica degli epatociti ed entra per fusione delle
membrane fosfolipidiche, liberando all’interno dell’epatocita il nucleocapside. Il nucleocapside
si porta in prossimità del nucleo, sede in cui si ha il passaggio del genoma virale attraverso i
pori nucleari. All’interno del nucleo, gli enzimi replicativi cellulari provvedono alla riparazione
della molecola di DNA, che porta un filamento incompleto, portando alla formazione del

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cccDNA, il DNA completamente bicatenario. Alcune molecole di cccDNA permangono nel
nucleo mantenendo la cellula infettata.

2. Replicazione → Nel nucleo, la RNA polimerasi II cellulare opera la trascrizione del cccDNA,
portando alla formazione di due tipi di RNA:

I. mRNA sub-genomico, che una volta esportati da nucleo al citoplasma vengono tradotti
portando alla formazione delle proteine virali, che vanno incontro a modificazioni a livello
di RER e Golgi.

II. RNA pre-genomico a polarità positiva, che costituisce il precursore del genoma a DNA
del virus.

3. Autoassemblaggio e gemmezione → Le proteine virali prodotte ed l’RNA pre-genomico si


accumulano in prossimità della membrana e vanno incontro ad autoassemblaggio, portando
alla formazione di nuove particelle virali immature. Solo dopo la formazione del capside,
all’interno di questo avviene la retrotrascrizione dell’RNA pre-genomico a DNA genomico
con polarità negativa e la degradazione dell’RNA pre-genomico stampo (funzione di RNasi
H). Sempre all’interno delle particelle virali avviene anche la replicazione del filamento negativo
(attività polimerasica), processo che rimane incompleto in quanto la particella viene espulsa
prima che sia concluso (per questo il DNA circolare presenta un filamento incompleto). Avviene
infine l’uscita delle particelle virali per esocitosi, che gli conferisce anche l’envelope.

Patogenesi
I fluidi biologici attraverso i quali si ha eliminazione dei virioni sono distinguibili in base alla
concentrazione delle particelle virali:

1. Liquidi con alta concentrazione, come sangue, siero ed essudati

2. Liquidi con media concentrazione, come il liquido seminale, le secrezioni vaginali e la saliva

3. Liquidi con bassa concentrazione, come le urine, le feci, il sudore, le lacrime ed il latte
materno

Pertanto, le vie di trasmissione sono:

A. Via sessuale, quella più frequente

B. Via parenterale

C. Via perinatale, per allattamento (che viene sconsigliato a donne affette da HBV)

D. Scambio di fluidi corporei

Una volta avvenuta la trasmissione, il virus è in grado di raggiugnere il circolo sanguigno. Il virus
raggiunge gli epatociti ed inizia a replicare, portando un’iperproduzione di HBsAg, che possono
essere rilevate in circolo. In individui immunizzati sono presenti anticorpi anti HBsAg che stimolano
l’immunità cellulo-mediata ad intervenire. Talvolta anche in presenza di anticorpi, se l’immunità
cellulo-mediata non interviene correttamente, si possono formare immuncomplessi. Durante la
guarigione si riscontra comunque viremia e presenza di virus nei liquidi biologici.

La replicazione a livello epatico ha inizio a circa 3 giorni dal contagio ed i primi sintomi compaiono
dopo 45-90 giorni. Tale replicazione può essere silente in quanto non ha effetto citopatico, ma il
genoma si integra all’interno di quello dell’ospite portando a infezione latente.

L’infezione può essere totalmente asintomatica, e l’eventuale insorgenza di manifestazioni cliniche è


strettamente legata allo stato di immunità dell’individuo, nel particolare per quanto riguarda
l’immunità cellulo-mediata:

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A. Manifestazione acuta, che insorge se l’immunità cellulo-mediata è funzionante. In generale
nel 90% dei casi si ha guarigione, nel 9% dei casi si ha evoluzione alla manifestazione cronica
ed nell’1% dei casi direttamente epatite fulminante. La forma acuta è caratterizzata da tre fasi:

a. Periodo di incubazione, che dura oltre un mese

b. Periodo pre-itterico, caratterizzato da dolore all’ipocondrio destro, nausea, malessere


generale, anoressia.

c. Periodo itterico, caratterizzato da ittero, urine scure e feci chiare. Questi sintomi vanno
scemando in caso di guarigione.

B. Manifestazione cronica, che insorge se l’immunità cellulo-mediata è non funzionante.


Questa forma è dovuta alla persistenza del cccDNA nelle cellule anche dopo la replicazione
del virus ed è legata ad una variante del virus detta HBe minus, che presenta una mutazione
a livello di un codone di stop nel gene C. La fase cronica implica spesso la comparsa di cirrosi
ed epatocarcinomi. La forma cronica può evolvere in diversi modi:

a. Guarigione
b. Forma cronica persistente, asintomatica ma in corso (il paziente è portatore sano)

c. Epatite fulminante

C. Epatite fulminante, che insorge in caso di particolare compromissione delle difese


immunitarie e in caso di confezioni con ceppi particolarmente virulenti

I soggetti più a rischio sono soggetti che subiscono ripetute trasfusioni, trapianti, dialisi, neonati da
madre infetta e personale sanitario. I comportamenti che aumentano il rischio sono il tenere piercing,
tatuaggi, agopuntura, droghe e promiscuità sessuale.

Diagnosi
Inizialmente la diagnosi si basa sull’esame clinico dei sintomi e sulla misurazione degli enzimi
epatici nel sangue.

In seguito si può procedere con analisi di tipo sierologico, nel particolare andando a ricercare:

A. Antigeni virali, come:

a. HBsAg

b. HBeAg

B. Anticorpi umani specifici per proteine virali, come:

a. Anti-HBc (sia IgM sia IgG)

b. Anti-HBs

c. Anti-HBe

Sono comunque impiegabili anche tecniche di biologia molecolare per la ricerca degli acidi nucleici
del virus, sia per la diagnosi sia per il monitoraggio delle terapie in atto.

Decorsi sierologici
Per una corretta analisi sierologica è importante conoscere le diverse fasi della forme della malattia:

1. Forma acuta →

I. Abbiamo iperproduzione (riscontrabile nel sangue) di HBsAg nella prima fase


dell’infezione (fino alla 12 settimana dall’esposizione), ma anche HBeAg.

II. In seguito compaiono IgM anti-HBc, che rimangono costanti, e talvolta anti-HBe (questi
meno indicativi)

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III. In fine, in caso di avvio alla guarigione, compaiono anti-HBs (mentre HBsAg e HBeAg
vanno diminuendo), che indicano l’immunizzazione del paziente (e sono presenti da
principio nei vaccinati).

2. Forma cronica →

I. Nelle prime 12 settimane si ha crescita di HBsAg e HBeAg, che rimangono elevate e


costanti anche dopo anni

II. Nelle prime 12 settimane si ha comparsa di IgM anti-HBc, che però tendono a scomparire
dalla 36° settimana

III. Non si sviluppano anti-HBs

Terapia e profilassi
È largamente impiegata ed efficace l’immunoprofilassi contro HBV, che consiste da un vaccino
costituito da HBsAg, che somministrato induce la produzione di anticorpi anti-HBs, che
neutralizzano completamente il virus. In Italia la vaccinazione è obbligatoria per i neonati da molti
anni.

Esiste anche una profilassi post-esposizione, in caso di accidentale contatto con il virus. Questa
consiste nella somministrazione di anticorpi esogeni anti-HBs (profilassi passiva).

Per quanto riguarda la terapia farmacologica non sono al momento presenti farmaci in grado di
portare a guarigione, ma molti antivirali sono in grado di inibire la replicazione del virus o di
rallentarla. In realtà non viene normalmente impiegato data la maggioranza di infezioni
asintomatiche.

Virus dell’epatite C
Il virus dell’epatite C, HCV, appartiene alla famiglia dei Flaviviridae e al genere Hepacivirus. Si
tratta di un virus che fino agli anni 80 era solamente ipotizzato, ma risultava essere la causa della
maggior parte delle epatiti non-A/non-B. La sua esistenza venne confermata tramite tecnologie di
biologia molecolare.

Caratteristiche
La particella virale ha morfologia sferica ed un diametro di
circa 60 nm. Il capside è icosaedrico ed incluso da un
envelope, sulla cui superficie sono esposte delle
glicoproteine, la glicoproteina E1 (anche detta gp35), con
attività fusogena, e la glicoproteina E2 (anche detta gp70),
responsabile dell’attacco. Esse sono codificate da geni
ipervariabili e sono altamente glicosilate, pertanto possono
subire numerose variazioni. E1 ed E2 si complessano per
formare un eterodimero che svolge il ruolo di antirecettore,
che si lega al recettore CD81 (anche detto tetraspanina), al
recettore delle lipoproteine e ad altri recettori.

Nel circolo dell’ospite, le particelle virali di HCV si trovano in


tre forme:

1. Particelle virali libere

2. Legate alle lipoproteine LDL e VLDL

3. Legate a immunoglobuline

All’interno del capside è incluso il genoma a RNA a singolo filamento con polarità positiva (4°
classe di Baltimore) lungo circa 10 Kbp.

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Genoma
Il genoma contiene un unica ORF che comica per una proteina di circa 3000 aa, dalla quale
originano per scissione proteolitica (ad opera di proteasi sia cellulari sia virali). Ai lati del genoma, sui
capi 5’ e 3’, sono presenti due regioni non codificanti che prendono il nome di UTR (un-translated
regions):

A. All’estremità 5’ è presente una sequenza di 340 nucleotidi (altamente conservata tra i vari
HCV) che si comporta come una regione IRES in quanto coinvolta nel processo di traduzione
della poliproteina mediante interazione diretta con la subunità ribosomiale eucariotica 40S.

B. All’estremità 3’ è presente una sequenza di 200-235 nucleotidi (lunghezza variabile nei ceppi)
che è essenziale per la replicazione.

La poliproteina, che viene poi processata, contiene:

1. Proteine strutturali, in prossimità del 5’, che sono:

I. E1 ed E2, le proteine dell’envelope già affrontate

II. p21, la proteina del core. Questa è codificata dal gene C ed p in grado di legare l’RNA
genomico grazie alla sua basicità (Arg e Lys). L’oncogenicità di questa proteina è dovuta
al fatto che essa interagisca con diversi processi cellulari e sia in grado di inibire
l’apoptosi: essa inibisce p53 (oncosoppressore) e induce RAS (oncogene).

III. p7, una proteina importante per l’assemblaggio delle proteine virali e per la formazione dei
canali ionici, fondamentali per l’infettività del virus

2. Proteine non strutturali, in prossimità del 3’, fra le quali abbiamo:

I. NS3, che ha più funzioni (proteasi, elicasi)

II. NS4A, un cofattore critico per l’attività proteica di NS3: esso mantiene e ancora NS3 alle
membrane intracellulari

III. NS5A, una proteina di resistenza agli interferoni che lega il recettore per TNF e alla pkR
bloccando l’apoptosi

IV. NS5B, una RNA polimerasi RNA dipendente

Genotipi
L’insita variabilità della sequenza genomica di HCV lo rende molto eterogeneo. Mutando
rapidamente e frequentemente riduce l’efficacia delle terapie. Sulla base dell’analisi filogenetica delle
regioni del capside sono stati distintini 6 genotipi maggiori (ma se ne sospettano fino a 11)
ciascuno dei quali è suddiviso in sotto-tipi (in totale se ne conoscono 80-90). I genotipi sono:

1. Genotipo 1, diffuso in America ed Europa occidentale

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2. Genotipo 2, diffuso nei paesi mediterranei e nell’Estremo oriente

3. Genotipo 3, diffuso in Europa

4. Genotipo 4, diffuso in Medio Oriente

5. Genotipo 5, diffuso nell’Africa meridionale

6. Genotipo 6, diffuso in Australia, Vietnam e Hong Kong

In Italia troviamo principalmente il genotipo 1b (55%), il genotipo 2 (29%), il genotipo 3 (9%) ed il


genotipo 1a (7%). È inoltre presente una maggiore incidenza nelle persone oltre i 50 nel Meridione,
incidenza che scende spostandosi a Nord.

A livello del singolo paziente possiamo incontrare varianti spontanee o indotte dalla terapia che
prendono il nome di quasispecie.

Ciclo replicativo
Come già detto il virus entra nella cellula tramite legame tra l’antirecettore E1/E2 e il recettore CD81
oppure il recettore delle lipoproteine (ma anche altri). Una volta all’interno, l’RNA può essere
direttamente impiegato per la sintesi proteica, che porta alla formazione delle componenti strutturali
e componenti non strutturali. Le proteine strutturali sono quelle che andranno incontro ad
autoassemblaggio per formare i nuovi virioni, mentre quelle non strutturali sono responsabili della
replicazione dell’RNA a polarità positiva in un filamento di RNA con polarità negativa (grazie alla
RNA polimerasi RNA dipendente). Un ulteriore duplicazione dei filamenti con polarità negativa porta
a nuovi filamenti a polarità positiva, che vanno a costituire il genoma dei virioni nascenti.

Le modificazioni che permettono di passare dalla poliproteina sono operati dalle proteasi cellulari e
virali.

Le particelle virali nascenti acquisiscono l’envelope dal RER, a livello del quale avviene anche
l’inserimento di E1/E2, e poi passano nel Golgi dove E1 ed E2 vengono glicosilate. Una volta
completato il processo avviene l’eliminazione dei virioni per esocitosi.

Patogenesi
La trasmissione è molto simile a quella di HBV: la via preferenziale è per scambio di sangue e per via
sessuale.

In generale quindi HCV non è citopatico, e gli effetti patogenetici sono dovuti alle proteine che
produce, le quali vanno stimolare l’azione del sistema immunitario il quale determina citolisi
immunomediata, portando a necrosi gli epatociti. Si ha quindi un importante processo
infiammatorio a livello epatico, al quale si aggiunge anche la possibilità di insorgenza di cirrosi e
epatocarcinomi.

Manifestazioni
Solo il 20-30% di chi entra in contatto con il virus, dopo la fase di latenza (in media 6-7 settimane)
sviluppa un’infezione acuta (caratterizzata da ittero), mentre i restanti 70-80% sviluppano
un’infezione asintomatica (epatite anitterica). Degli affetti, il 15% dei pazienti va incontro a
guarigione, mentre diviene infezione cronica nell’85% dei casi: il 6% di questi sviluppa
insufficienza epatica, il 20% cirrosi ed il 4% epatocarcinoma.

Diagnosi
I test di laboratorio impiegati sono:

A. Test sierologici, atti a rilevare la presenza di anticorpi anti-HCV (evidenziano positività 5-8
settimane dopo l’infezione). Questi saggi rischiano di fornire falsi-positivi e per conferma si una
RIBA (immunoblotting).

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B. HCV RNA è il migliore approccio per i pazienti che non sviluppano anticorpi o in pazienti che
non l’hanno ancora sviluppati

C. Test LIPA, un test che permettere di discriminare i genotipi (per formulare una migliore terapia)

D. Misurazione delle transaminasi

E. Biopsia

In infezioni acute abbiamo un picco della


presenza di RNA HCV e degli enzimi epatici
che poi decadono in seguito alla guarigione.
Non decade, invece, la presenza di anticorpi. In
caso di infezione cronica, invece, il quadro è il
medesimo, ma si presentano per lungo tempo
variazioni della concentrazione di RNA HIV ed
enzimi epatici.

Terapia
Dato che HCV non si integra nel genoma della
cellula ospite, la cura consiste nel bloccare la replicazione del virus, cosicché il genoma venga
degradato (data l’instabilità dell’RNA), tramite trattamento detti sustained virological response. I
farmaci che fanno ciò sono detti DAA, direct acting antivirals, in quanto hanno come target diretto
alcune delle proteine del ciclo replicativo del virus.Questi farmaci hanno successo nel 90% dei casi e
la WHO punta a debellare l’epatite C entro il 2030.

Non esiste al momento alcun vaccino funzionante.

Virus dell’epatite D
Il virus dell’epatite D, HDV o deltavirus, è un virus difettivo in grado di infettare individui
precedentemente infettati da HBV, di cui sfrutta le HBsAg (che non è in grado di produrre).
L’infezione può essere concomitante a quella da HBV (coinfezione) oppure successiva
(sovrainfezione). La distribuzione geografica è ovviamente sovrapponibile a quella da HBV.

Caratteristiche
Il virione di HDV presenta morfologia sferica e diametro di 35 nm. Il capside è costruito da numerose
coppie dell’antigene δ, anche indicato con HDAg, di cui esistono una forma S (small) predominante
ed una forma L (large).

L’envelope si presenta molto simile a quello di HBV in quanto ne sfrutta il recettore HBsAg.

Il genoma a RNA a singolo filamento non codifica per le proteine dell’involucro ed è quindi di
piccole dimensioni, cioè circa 1,7 Kbp.

Patogenesi e manifestazione clinica


L’envelope è molto simile a quello di HBV e pertanto ne ricalca anche le modalità di trasmissione
(quella prediletta è quella parenterale).

In caso di infezione il tempo di incubazione è molto più lungo in quanto HDV deve attendere la
produzione dei HBsAg da parte di HBV e la sua replicazione. Invece in caso di sovrainfezione il
tempo di incubazione è molto più breve in quanto HBV è già in fase replicativa.

In entrambi i casi i virus causa epatite fulminante (necrosi massiva del tessuto epatico), cirrosi e
infezione δ-cronica.

Diagnosi

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Le principali tecniche di diagnosi si basano sulla ricerca sierologica di IgM e IgG specifiche per
HDV. Per analisi già approfondite si può ricercare il genoma del virus tramite biologia molecolare.

Il profilo diagnostico è caratterizzato dalla comparsa del genoma di HDV dopo il periodo di
incubazione, si riscontra un aumento del genoma (RNA HDV) delle IgM anti-HDV e delle
transaminasi, il tutto in aggiunta a HBsAg (data dalla riattivazione di HBV). Con il progredire della
malattia Progressivamente i precedenti valori calano a causa della formazione di anticorpi anti-HBV,
che forniscono immunità anche contro HDV.

Terapia
L’unica terapia funzionante è l’interferone α ricombinante.

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Orthomyxoviridae
La famiglia Orthmyxoviridae include i virus influenzali, dei quali ne esistono tre tipi in grado di
infettare l’uomo:

1. Influenzavirus A

2. Influenzavirus B

3. Influenzavirus C (secondo Caruso questi no)

I virus influenzali A e B vengon poi classificati in sotto-tipi sulla base della loro struttura antigenica
determinata dalle glicoproteine di superficie emagglutinina (HA) e neuramidasi (NA). Di questi nei
virus A che infettano l’uomo si trovano solamente 3 tipi di HA (H1 H2 H3) e due tipi di NA (N1 N2).
Per quanto riguarda i virus B è presente un solo tipo di HA ed un solo tipo di NA.

La nomenclatura dei virus A avviene circa così: A/London/5/2016/H1N1

Caratteristiche
Il virione ha diametro di 80-120 nm e presenta morfologica pleiomorfica data dalla variabilità
genetica.

Esternamente presenta un envelope dal quale spuntanocirca 500 spike (spicole) costituite da
emagglutinina (HA) oppure da neuramidasi (NA). Le spicole presentano struttura differente:

A. Spike di HA → Si tratta di un trimero, costituito da 3 molecole di emagglutinina. Essa viene


prodotta sotto forma di un’unica proteine HA0 che andrà incontro a taglio proteolitico
portando alla formazione di HA1 e HA2, che rimangono unite longitudinalmente grazie ad un
ponte disolfuro (in prossimità di C e N terminali originari). Una porzione rimane rivolta verso la
matrice e si lega alla proteina della matrice M2, mentre la porzione opposta (N-terminali) è
esposta nell’ambiente esterno e svolge il ruolo di antirecettore: è specifica per le molecole di
acido sialico.

B. Spicola di NA → Si tratta di un tetramero, costituito da 4 molecole di neuramidasi. Anch’essa


si ancora alla matrice ma, a differenza del precedente, tramite i suoi N-terminali. Essa ha
attività sialidasica, cioè di degradazione dell’acido sialico esposto dalla cellula. Facendo ciò si
impedisce che i virioni vadano tutti ad infettare la medesima cellula (regolazione virale) ed
inoltre si impedisce il fenomeno di tethering, cioè il legame all’acido sialico esposto dei virioni
prodotti ed eliminati.

Internamente all’envelope è presente la matrice, la quale viene costituita dalla proteina M,


precursore delle proteine M1 e M2, responsabili del supporto all’envelope e dell’interazione con il

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nucleocapside durante l’assemblaggio. M2, inoltre, svolge il ruolo di pompa ionica modulando il pH
dei lisosomi e favorire la scapsidazione.

Il genoma del virus p costituito RNA a singolo filamento frammentato in 8 (7 nel tipo C) filamenti di
RNA a polarità negativa. Si vengono quindi a formare 8 nucleocapsidi differenti:

1. Frammenti 1, 2 e 3 → Essi codificano per 3 diverse proteine non strutturali, rispettivamente


denominate PA, PB1 e PB2, che si uniscono a formare un trimero che svolge il ruolo di
polimerasi RNA dipendente.

2. Frammento 4 → Esso codifica per l’emoagglutinina, una glicoproteina che contribuisce alla
formazione degli spike esposti dall’envelope

3. Frammento 5 → Esso codifica per una nucleoproteina che si associa ai diversi frammenti di
genoma del virus mediando la loro importazione nel nucleo (interagisce con le importine). In
questo gli orthomyxovirus si discostano dagli altri virus a RNA in quanto si replicano a livello
nucleare.

4. Frammento 6 → Esso codifica per la neuramidasi, espressa in rapport di circa ⅕ rispetto


all’emoagglutinina.

5. Frammento 7 → Codifica per le due proteine della matrice M1 e M2.

6. Frammento 8 → Esso codifica per le proteine NS1 e NS2 ed è presente solamente nei virus di
tipo A e B. Queste proteine sono probabilmente legate al processo di silenziamento cellulare,
cioè quel processo che impedisce la trascrizione dei messaggeri cellulari per favorire quelli
virali (si ipotizza ciò avvenga per interazione con le esportine). La funzione non è approfondita
ma è la caratteristica che distingue i virus umani da quelli animali.

Ciclo replicativo
Il virus si lega tramite le spicole ai recettori specifici della cellula, che sono molecole contenti acido
sialico. Questo legame scatena il processo di endocitosi mediata da recettori, che porta alla
formazione di un endosoma con all’interno il virus. L’endosoma si fonde ad un lisosoma formando
un endolisosoma, in cui si ha abbassamento del pH grazie alle pompe protoniche, ma anche grazie a
M2. L’abbassamento del pH attiva gli enzimi lisosomiali, fra i quali una proteasi effettua un taglio a
livello dell’emoagglutinina, attivando la subunità HA2, che ha attività fusogena. A questo punto
avviene la fusione della membrana dell’endolisosoma a quella dell’envelope, riversando il
nucleocapside nel citosol che va subito incontro a scapsidazione.

Gli otto frammenti di genoma, legati alle proprie proteine, giungono in prossimità del nucleo e
sfruttano le importine, in un processo mediato da RAN-GDP, per attraversare i pori nucleari e
portarsi nel nucleo. Qui avviene la trascrizione primaria, che consiste nella produzione di RNA
complementari a polarità positiva ad opera di RNA polimerasi che sfruttano come primer degli
oligonucleotidi cellulari (che hanno sequenze cap che poi permettono l’esportazione). Gli RNA a
polarità positiva sono veri e propri mRNA e sono trasportati ai ribosomi che li traducono in proteine.,
alcune delle quali sono responsabili della replicazione del genoma virale.

Le proteine vanno incontro a glicosilazione nel RER e nel Golgi. Le varie componenti si accumulano
poi in prossimità della membrana plasmatica e vanno incontro ad autoassemblaggio, per poi uscire
dalla cellula per gemmazione, che gli fornisce l’envelope. L’azione delle sialidasi impedisce il
fenomeno di tethering.

Patogenesi
La trasmissione avviene per via aerogena (droplet, goccioline di Flugge contengono alti titoli) ed il
virus si impianta nelle cellule mucosali delle alte vie respiratorie.

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Il periodo di incubazione è breve (circa 3 giorni) e non si osservano fasi viremiche. La sintomatologia
dell’influenza è molto variabile, può essere asintomatica oppure andare da sintomi lievi a sintomi
molto più gravi. In generale l’influenza è un’infezione delle vie respiratorie a cui però si associano
sintomi sistemici (malattia febbrile delle vie respiratorie). Le condizioni generalmente associate
sono:

1. Sindrome da raffreddamento

2. Laringite

3. Faringite

4. Bronchite

5. Broncopolmonite (nei più deboli immunologicamente)

E a queste si sommano i sintomi sistemici, che permettono di distinguere la conduzione da una


manifestazione simil-influenzale/parainfluenzale:

1. Astenia

2. Malessere generale

Sono sintomi ricorrenti, poi, gastroenteriti e otiti. In persone che hanno subito interventi cerebrali il
virus si può portare a livello dell’encefalo per replicare nel lobo frontale, portando encefaliti, spesso
caratterizzate da dissociazione totale. Questa condizione è reversibile e la guarigione avviene con
la produzione di anticorpi.

Data la compromissione delle mucose è alto il rischio di sovrainfezioni batteriche, come una
polmonite pneumococcica.

Epidemiologia
Il virus dell’influenza rappresenta uno dei virus più diffuso su scala globale e una delle maggiori
cause di infezione alle vie respiratorie. Grazie alla sua capacità di variare il suo assetto genetico e
antigenico è in grado di causare epidemie e pandemie (queste solo A).

Esistono due tipi di variazioni antigeniche:

1. Antigen drift (deriva antigenica), che consiste nella comparsa di nuove varianti virali in seguito
all’accumulo più o meno graduale di mutazioni puntiformi nei geni codificanti per HA e NA.
Ovviamente persone che sono state infettate da uno stesso sotto-tipo possono essere
reinfettate: questo è il meccanismo della ricorrenza annuale dell’influenza stagionale. La
pericolosità deriva dal fatto che queste mutazioni forniscono variabilità genetica al virus,
mentre il sistema immunitario degli individui fornisce un meccanismo di selezione del più
andatto, selezionando le varianti più resistenti e permettendo evoluzione del virus. Ogni anno
in Italia circa 3 milioni di persone vengono nuovamente infettate da un virus influenzale.

2. Antigenic shift (deviazione antigenica), che consiste nella comparsa di un virus influenzale
nuovo (con una nuova HA o un anuova NA, non come prima con piccole variazioni) e quindi
potenzialmente pandemico. In questo caso la causa non sono delle semplici mutazioni
puntiformi, ma veri e propri riassorbimenti genetici tra virus differenti (scambio dei diversi
filamenti di RNA, condizione che avviene solo in caso di infezioni contemporanee di due virus).
Ovviamente i due virus compresenti da cui scaturisce un virus completamente nuovo devono
essere uno umano ed uno animale (altrimenti non assisteremmo ad un’estrema variazione):
l’unico animale che può essere infettato contemporaneamente da più specie virali è il maiale.
Risulta quindi fondamentale seguire le norme igieniche e ad oggi la maggior parte delle
pandemie si è sviluppata dall’estremo oriente. Sono di notevole importante storica le
pandemie da virus influenzale del passato:

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I. Influenza spagnola (A, H1N1) → Si diffuse tra il 1928 ed il 1920, dopo la Prima Guerra
Mondiale, in una popolazione immunologicamente debole: i soldati costretti alla vita in
trincea e la popolazione nella povertà dilagante. Si stima vi furono 500 000 000 di casi, di
cui 50 000 000 di vittime. Si ricostruì l’origine della pandemia nel territorio spagnolo e si
pensa questo sia il primo virus patogeno per l’uomo e l’unico fino agli anni 40-45.

II. Influenza asiatica (A, H2N2) → Si riconduce l’origine al 1957 a Singapore, in cui si
scoprirono HA e NA differenti dalle uniche conosciute fino a quel momento: questo virus
derivava da una ricombinazione tra un virus umano ed uno aviario. Dall’ultima pandemia
erano stati introdotti gli antibiotici, che permettono almeno di eliminare le sovrainfezioni
batteriche come la polmonite pneumococcica, che era la principale causa di morte. Le
vittime si riducono a 2 000 000. Comunque però le fasce più deboli della popolazione
rimangono estremamente sensibili al virus (bambini, anziani, malati).

III. Influenza di Hong Kong (A, H3N2) comparsa nel 1968 che varia dal precedente
solamente per l’emoagglutinina. Proprio per la persistenza della neuramidasi la difesa
risultava più facile per il sistema immunitario ed inoltre in quegli anni lo sviluppo della
farmacologia era ampiamente migliorato.

Dal 1968 non sono più avvenuti eventi di antigen shift che portassero nuovi virus pandemici, ma
sono stati frequenti gli eventi di antigen drifting che hanno portato nuovamente alla ribalta
(pandemie) i virus del passato.

La mortalità dell’influenza stagionale è molto bassa e coinvolge persone con un sistema immunitario
debilitato. Il 90% delle vittime è costituito da persone con oltre 65 anni e problemi cardiaci.

Le più veloci tecniche di diagnosi sono le tecniche di immunenzimatica, immunocromatografia e


immunofluorescenza.

Terapia e profilassi
Esistono due classi di farmaci contro questi virus:

1. Inibitori della proteina M2, che impediscono quindi la scapsidazione, fra i quali:

I. Amantadina

II. Rimantadina

2. Inibitori della neuramidasi, permettendo il tethering e quindi l’arresto dell’infezione, fra i quali:

I. Oseltamivir

II. Zanamivir

Questi farmaci inibiscono la proliferazione, dando il tempo al sistema immunitario di agire.

Di fondamentale importanza sono i farmaci per la cura dei sintomi (antipiretici) e per evitare
sovrainfezioni (antibiotici).

Sono di fondamentale importanza le immunoprofilassi proposte stagionalmente alle categorie più


a rischio. Questi vaccini hanno diversa natura:

1. Vaccini a subunità, costituiti dalle sole proteine virali ed i più impiegati

2. Vaccino a virus disgregati, costituiti da particelle virali trattate per essere disgregate

3. Vaccino virosomali, costituiti la liposomi contenenti le proteine virali

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Paramyxoviridae
La famiglia dei Paramyxoviridae è un’importante e grande famiglia di virus, molti dei quali sono
agenti eziologici di malattie con elevata frequenza nell’uomo. Caratteristica comune dei vari generi
inclusi è l’induzione della formazione di sincizi in vitro.

La famiglia Paramyxoviridae include diversi generi:

1. Respirovirus, che include i virus parainfluenzali 1 e 3

2. Rubulavirus, che include il virus della parotite e i virus parainfluenzali 2 e 4

3. Morbillivirus, che include il virus del morbillo


Di recente, a causa delle importanti differenze, si è proposta l’introduzione di una nuova famiglia,
cioè la famiglia degli Pneumoviridae (pneumovirus, termine già impiegato), che includa virus prima
associati ai Paramyxovirus.

4. Orthopneumovirus, che include il virus respiratorio sinciziale

5. Metapneumovirus, che include il metapneumovirus umano

Caratteristiche
I paramyxovirus sono costituiti da un nucleocapside
elicoidale, avvolto esternamente da un’envelope
caratterizzato da pleiomorfismo, con diametro di
150-300 nm.

I paramyxovirus possiedono un genoma a RNA


lineare monocatenario a polarità negativa. Sono
presenti poi diverse proteine con varie funzioni che
possono subire cambiamenti nei diversi generi:

1. Nucleoproteina N o NP, che formano il


nucleocapside

2. Proteine L e P (fosfoproteina) responsabili dei


processi di trascrizione e replicazione dell’RNA

3. Proteina M della matrice

4. Glicoproteina recettoriale, che può essere:

I. Proteina HN, se dotata di attività sia emoagglutinante sia neuramidasica

II. Proteina H, solo dotata di attività emoagglutinante

III. Proteina G, non dotata di queste due attività

5. Proteina F, con attività fusogena

Ciclo replicativo
L’entrata avviene con la formazione del legame tra glicoproteina recettoriale (HN, H o G, in base al
virus) e recettori cellulari contenuti acido sialico. In seguito a questo legame la proteina F subisce
taglio proteolitico e le sue due subunità inducono la fusione dell’envelope alla membrana, fusione
che avviene a pH neutro, evitando l’internalizzazione per via endosomiale. Il genoma RNA- viene
replicato ad antigenoma RNA+, che può essere tradotto (usato come mRNA) oppure nuovamente
replicato a RNA-, che sarà il genoma dei nuovi virioni. Le modificazioni avvengono in RER e Golgi e
le proteine poi passano in prossimità della membrana, dove avviene l’autoassemblaggio. Per
gemmazione, poi, si ha l’uscita dei virioni che acquistano l’envelope.

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Si discostano i generi che ora si tende a classificare sotto la famiglia di Penumoviridae, fra i quali il
virus respiratorio sinciziale, che possiedono la proteina G (non ha ne attività emoagglutinasica ne
sialidasica): in questo caso i meccanismi di legame che scatenano la fusione non sono ancora noti.
L’unica differenza nota è il tropismo più specifico degli Orthopneumovirus per gli epiteli respiratori
(mentre gli altri possono infettare una varietà maggiore di cellule).

Virus parainfluenzali
I virus parainfluenzali sono virus ubiquitari e sono causa di infezioni respiratorie in tutte le età.

Nel particolare essi replicano nelle cellule epiteliali delle alte vie respiratorie, con infezioni limitate
a naso e gola causate dalla secrezione, da parte delle cellule del sistema immuniatrio, di citochine e
chemochine che inducono l’infiammazione. Il virus è riscontrabile nelle secrezioni nasali e non
presenta invece fasi di viremia.

Le manifestazioni sono tutte acute e sono:

1. Riniti

2. Faringiti

3. Laringiti

4. Tracheiti

5. Bronchioliti

6. Polmoniti

La diagnosi avviene tramite tecniche sierologiche di ricerca degli anticorpi oppure di ricerca degli
antigeni virali.

La risposta immunitaria è robusta, ma l’immunizzazione non fornisce protezione da sierotipi


differenti, ma determina sintomi più lievi in caso di altre infezioni.

Sono inefficaci i vaccini e non sono presenti particolari terapie antivirali e spesso sono impiegate
quelle per l’influenza.

Virus respiratorio sinciziale

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Si tratta di un virus respiratorio scoperto nel 1956 che risulta essere la principale causa di infezioni
respiratorie dell’infanzia.

Caratteristiche
I virioni sono pleiomorfici, dotati di envelope e con genoma a RNA a singolo filamento con polarità
negativa. Sull’envelope sono esposte le glicoproteine G (funzione antirecettoriale) e F (funzione
fusogena), che costituiscono gli spike. Si distinguono dai paramyxovirus in quanto i recettori non
hanno né attività emoagglutinasica né sialidasica. La glicorproteina G, inoltre, presenta variazioni che
permettono di distinguere tra un sierotipo A ed un sierotipo B.

Nella particella virale sono presenti anche le proteine della matrice M1 e M2, delle nucleoproteine,
delle fosfoproteine, delle polimerasi e delle proteine non strutturali (1 e 2) che creano condizioni
ottimali per la replicazione del virus.

Patogenesi
Si tratta di una malattia stagionale, con cadenza in inverno o in primavera. Con le basse
temperature, infatti, le mucose respiratorie hanno ridotta temperatura e l’immunità adattiva è
compromessa a causa della ridotta circolazione in superficie.

La trasmissione avviene per via aerogena, cioè tramite droplet rilasciati da tosse/starnuti di
individui malati (si diventa infettanti dopo 1 settimana).

L’infezione origina a livello delle cellule epiteliali della rinofaringe ed in seguito può propagarsi in alle
vie aeree profonde. A livello di questi tessuto esso induce l’unione delle cellule portando alla
formazione di sincizi, privi di funzionalità.

La diffusione avviene quasi sempre per continuità, nel particolare proprio inducendo l’unione della
cellula ospite con quella adiacente. Inizialmente il danno è dovuta alla massiccia proliferazione del
virus, ma in un secondo momento diviene immunomediato (causa infiammazione e necrosi).
Linfociti T citotossici e NK, infatti, espletano attività citotossica, che si aggiunge all’infiammazione
causata dal rilascio da parte delle cellule infettate di chemochine e citochine. L’infiammazione porta
anche alla produzione di mucina (cioè muco), come tentativo di eliminazione del virus.

In individui normali esso si localizza a livello delle alte vie respiratorie e può causare sintomatologia
simile al raffreddore (oppure rimanere silente). Nei bambini, invece, sei ha massiccia produzione di
mucina e marcato edema per la forte infiammazione. Se non contrastato, con il tempo raggiunge le
vie profonde portando a bronchiolite oppure polmonite interstiziale (può risultare fatale portando
a insufficienza respiratoria).

I bambini infettanti che sviluppano casi più gravi vengono ricoverati in quanto sviluppano:

1. Sintomi primari con faringite, raffreddore, abbondanza di muco, febbre alta

2. Respiratory distress, un condizione di ritrazione della cassa toracica verso l’altro e inflessione
dell’addome associati a tachipnea, cioè respiro accelerato e affannoso

3. Ipossia, che manda in stato confusionario

4. Tosse intensa che accresce l’infiammazione, induce apnea, cianosi e perdita di conoscenza

L’immunità acquisita non protegge da eventuali nuove infezioni.

Epidemiologia
Negli Stati Uniti, ogni anno 100 000 bambini si ammalano e di questi oltre la metà necessita
diricovero ospedaliero.

L’infezione si presenta di importante gravità nei bambini entro i 6 mesi di vita, ma la gravità scende
con la crescita e oltre i 2 anni è causa solo di raffreddore.

50
Nel 99% dei casi si tratta di infezioni comunitarie trasportate da individui asintomatici e in una
minima parte si tratta di infezioni nosocomiali.

Ovviamente sono maggiormente a rischio i bambini entro i 6 mesi, specialmente quelli nati pre-
termine (in cui l’infezione ha elevata mortalità). Altri individui a rischio sono gli
immunocompromessi.

Diagnosi di laboratorio
In primo luogo esame clinico e diagnostica per immagini sono fondamentali. In una RX senza
contrasto di un bambino malato grave si nota la l’anormale colorazione che l’albero respiratorio
presenta: questo è dovuto all’ispessimento delle pareti dell’organo a causa della polmonite
interstiziale. La polmonite interstiziale è tipica dei virus, ma anche di alcuni batteri (Chlamydia
pneumoniae e Mycoplasma oneumoniae): sono necessari approfondimenti per comprendere l’agente
eziologico.

I campioni vengono prelevati tramite lavaggio nasale, in cui sono presenti grandi quantità di virus,
ma anche il lavaggio bronchiale (se l’infezione è profonda).

Per la diagnosi la tecnica gold standard è l’immunofluorescenza, che permette di visualizzare i


sincizi tramite anticorpi monoclonali marcati specifici per l’antigene virale che rimane esposto sulle
cellule infettate.

Un’altra tecnica è la biologia molecolare e nel particolare la RT PCR, che però sarà positiva anche
se il virus è presente ma non è la causa della patologia.

L’isolamento, di solito fatto con cellule HeLa, non è impiegato nella diagnosi in quanto molto lungo.

Terapia e profilassi
L’immunoprofliassi vaccinale non è una alternativa funzionale in quanto il vaccino andrebbe fatto alla
nascita, momento in cui l’immunità acquisita del neonato non è ancora attiva.

Per quanto riguarda la terapia risulta funzionante l’aerosol con ribavirina.

Metapneumovirus
Si tratta di un virus di recente scoperta, che però risulta essere in circolazione da molti anni in
seguito ad un salto di specie dagli uccelli all’uomo (deriverebbe dal Metapneumovirus aviario).

Esso presenta l’assetto genico del virus sinciziale respiratorio, eccetto per le due proteine non
strutturali (si ipotizza entrambi abbiano come antenato il metapneumovirus aviario e che il virus
respiratorio sinciziale abbiamo effettuato un salto intermedio nella scimmia acquisendo quei geni).
Mentre l’assetto genico è quasi identico, cambiano le sequenze delle proteine effettivamente
codificate.

La patogenesi è caratterizzata dalla formazione di sincizi ed è accostabile a quella di VRS.

Manifestazioni cliniche
Anche in questo caso la malattia è comune nei bambini più piccoli (2-3 anni) e talvolta negli
immunocompromessi.

I sintomi dell’infezione da metapneumovirus sono molto simili a quelli da VRS:

A. Bronchiolite

B. Tosse forte

C. Problemi respiratori più o meno gravi (a seconda di età e di stato immunologico)

D. Rinite e/o raffreddore

E. Sintomi sistemici nei bambini come febbre, vomito, sonnolenza

A differenza del VRS, le infezioni da metapneumovirus difficilmente hanno esito fatale.

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Diagnosi
In questo caso l’immunofluorescenza risulta avere bassa sensibilità e pertanto è favorita la biologia
molecolare, specialmente tramite RT PCR.

Virus del morbillo


Il virus del morbillo appartiene al genere Morbillivirus ed è agente eziologico del morbillo, una
malattia esantematica. L’uomo è l’unico ospite naturale.

Esso presenta la struttura generale dei paramyxovirus, con un envelope su cui espone glicoproteine
con funzione emoagglutinasica e sialidasica (neuramidasica). Sono presenti anche le altre tipiche
proteine dei paramyxovirus. La polimerasi è associata al genoma, il quale è a RNA a singolo
filamento con polarità negativa.

Anche il ciclo replicativo ricalca appieno i meccanismi tipici di Paramyxovirus. Il legame delle
glicoproteine antirecettoriali avviene principalmente con il CD46, esposto da un’ampia varietà di
cellule.

Patogenesi
La trasmissione avviene per via aerogena esclusivamente da uomo a uomo.

Il virus entra nell’organismo tramite l’apparato respiratorio e dopo aver replicato localmente si porta
a livello dei linfonodi regionali, in cui replica massicciamente. In seguito esso infetta le cellule del
sistema reticolo-endoteliale, che lo trasporta nel circolo sanguigno determinando viremia, per
portarlo a livello degli epiteli superficiali.

Manifestazioni cliniche
L’infezione ha un periodo di incubazione di circa una settimana ed è spesso asintomatica. In caso d
infezione sintomatica abbiamo due fasi:

1. Fase prodromica, con febbre e raffreddore (simil-influenzale) e, 2-3 giorni prima della fase
successiva, la comparsa nella mucosa orale delle macchie di Koplik (ulcerazioni biancastre)

2. Fase eruttiva, caratterizzata dalla comparsa del rash cutaneo, o esantema maculo-
papulare, dovuto all’azione della risposta cellula-mediata sulle cellule infette. Questo rash si
diffonde in pochi giorni a tutto il corpo.

Abbiamo poi complicazioni, che colpiscono principalmente gli adulti:

1. Otite media

2. Polmonite, fatale nel 90% dei casi, dovuta a sovrainfezioni batteriche

3. Complicazioni del SNC, fra cui:

I. Encefalite da proliferazione a livello dei neuroni

II. Encefalite post-infettiva (dopo 2-3 settimane) causata da una reazione autoimmune

III. Encefalite da corpi da inclusione

IV. Panencefalite sclerosante subacuta, la meno frequente, che insorge dopo anni
probabilmente in seguito a infezione di una variante a lenta proliferazione.

Diagnosi
Data la tipicità della malattia, normalmente la diagnosi è svolta solamente su base clinica.

In caso di necessaria conferma si attuano metodi sierologici, nel particolare di ricerca delle IgM
specifiche per il virus, di solito tramite ELISA. Risulta superflua generalmente una RT PCR,
comunque molto affidabile.

Terapia e profilassi

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Il virus è endemico e un ruolo importante è svolto dall’immunità di gregge, che impedisce qui
questo arrivi ad individui immunocompromessi o che comunque non diffonda. È facile notare quanto
sia importante l’esistenza di una immunoprofilassi.

Il vaccino è costituito dal virus attenuato e necessita di due dosi a distanza di 5-6 anni per
acquistare efficacia (questo proprio per la sua attenuazione che lo rende non in attiva replicazione e
quindi meno immunogenico).

Esso è normalmente incluso nel vaccino esavalente (marbillo-parotite-rosolia-difterite-tetano-


pertosse) oppure nel vaccino trivalente (morbillo-parotite-rosolia). L’efficacia è del 98-99% (98%
rosolia, 95% pertosse).

Il vaccino è consigliato a tutti i bambini, ma anche agli adulti o adolescenti che non hanno mai
contratto l’infezione.

Il vaccino attenuato potrebbe portare problemi negli affetti da AIDS non trattata (in quanto ancora
silente): il vaccino trovando un sistema immunitario lascivo inizia a replicare e provocare la malattia.

Lo stesso vaccino è inoltre fortemente sconsigliato a donne in gravidanza in quanto il virus anche se
attenuato potrebbe replicare a livello del feto portando ad un aborto.

Ad oggi in Italia circa il 90% della popolazione è vaccinata, ma per raggiungere l’immunità di gregge
è necessario almeno il 95%. È stato introdotto l’obbligo delle vaccinazione per i recenti 5000 casi
del 2017 (che nel 90% dei casi erano non vaccinati e nel 6% non avevano preso la seconda dose)
distribuiti in lacune regioni italiane. In europa solo la Romania ha più casi dei morbillo dell’italia.

Virus della parotite


Il virus della parotite causa una delle infezioni più comuni nell’infanzia a livello delle parotidi, la
parotide (conosciuta con il nome di orecchioni).

Patogenesi e manifestazioni cliniche


Il virus infetta in primo luogo le cellule epiteliali delle alte vie respiratorie, per poi diffondere ai
linfonodi regionali. Tramite il sistema linfatico, poi, il virus si propaga in altri linfonodi e tramite
questi al sistema reticolo-endoteliale. Tramite questo può quindi passare al sangue dando luogo
alla fase viremica. Tramite il sangue si distribuisce a molti organi fra cui le ghiandole parotidi,
testicoli, ovaie, pancreas e talvolta anche il SNC.

Dopo un periodo di incubazione di 2-4 settimane le forme sintomatiche (⅓ sono asintomatiche) nella
maggior parte dei casi si presentano con un infiammazione e ingrossamento delle parotidi. Questa
può essere preceduta da una fase prodromica con febbre e malessere generale.

Frequente è il coinvolgimento del sistema nervoso centrale (10-15% dei casi), che porta a meningite
asettica.

La guarigione porta a immunizzazione permanente in quanto esiste solo un stereotipo di questo


virus.

Il virus ha distribuzione ubiquitaria.

Diagnosi, terapia e profilassi


La diagnosi è prevalentemente clinica, ma per sospetta meningite si può effettuare tecniche
sierologiche per ricercare IgM sviluppate dal paziente, nel particolare tramite ELISA o
immunofluorescenza. I campioni sono principalmente tamponi nasofaringei oppure le urine (in cui il
virus permane per molto tempo).

Non esiste terapia antivirale specifica, ma risulta estremamente efficace il vaccino, nel particolare
costituito dl virus vivo attenuato. Questo vaccino viene somministrato in forma esavalente o
trivalente (vedi prima).

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Adenovirus
La famiglia Adenoviridae include 5 generi e fra questo quello che include specie infettanti l’uomo (e
altri imammiferi) è il genere Mastadenovirus. Esistono 7 specie (o gruppi) che colpiscono l’uomo,
raggruppate sotto la sigla HAdV e indicate con le lettere A-G.

Le specie infettanti l’uomo sono distinte in sierotipi (ma si può dire anche genotipi o solo tipi in
quanto vi è stretta correlazione) in base alle cosiddette fibre, nel particolare si conoscono più di 55
sierotipi differenti.

Caratteristiche
La particella virale presenta diametro di 70-100 nm ed è
costituita da un capside icosaedrico (o icosadeltaedrico)
privo di alcun rivestimento (si tratta di un virus naked). Il
capside è formato da 252 capsomeri organizzati in 240
esoni a loro volta organizzati in 12 pentoni. Il capside
presenta ad ogni vertice dei pentoni delle porzioni
proiettate verso l’esterno con funziona antirecettoriale
che prendono il nome di fibre e sono le porzioni che
forniscono tropismo tissutale e sono riconosciute dagli
anticorpi neutralizzanti.

Le proteine presenti sono:

1. Polipeptide II, che in tre copie forma l’esone, che è un trimero

2. Polipeptide III, che in tre copie forma la base del pentone

3. Polipeptide IV, che in tre copie forma la fibra (parte del pentone)

4. Polipeptidi VI, VIII e IX, che svolgono un ruolo stabilizzante per il capside

5. Polipeptidi V e VII, che legano il DNA

Il genoma è a DNA lineare a doppio filamento.

Ciclo replicativo
Il ciclo replicativo è schematizzatile in diverse fasi:

1. Entrata → L’entrata viene avviata in seguito al legame tra le fibre ed un recettore specifico
cellulare. Questo legame scatena riarrangiamenti energia dipendente che determinano
l’endocitosi mediata da recettori del virus (la formazione dell’endosoma è mediata dalle
integrine e clatrina). L’endosoma si fonde al lisosoma e l’abbassamento del pH induce
l’attivazione del pentone, il quale rompe la vescicola liberando il contenuto. In prossimità del

54
nucleo avviene la scapsidazione ed il DNA legato alle proteine del core attraversa i pori
nucleari per entrare nel nucleo.

2. Trascrizione e replicazione del genoma →

I. La trascrizione del genoma (bidirezionale in quanto entrambi i filamenti sono


codificanti) avviene ad opera di RNA polimerasi cellulari ed i geni sono distinti in E (early)
e L (late), i quali vengono sottoposti a diversi fenomeni di poliadenilazione e splicing
alternativo che portano alla formazione delle diverse proteine. Questa peculiarità permette
di ottenere tutte le proteine necessaria pur avendo in genoma limitato:

i. E1A, responsabile della stimolazione della trascrizione e della traduzione degli altri
geni, oltre che della stimolazione del metabolismo cellulare

ii. E1B e E4, che si legano a p53 impedendo i meccanismi di morte cellulare
programmata

iii. E2, che codifica per le proteine necessarie per la predicazione del genoma

iv. Geni tardivi L1-L5, codificanti per proteine strutturali e proteasi

II. La replicazione del genoma è resa possibile dalle varie proteine codificate dal gene E2,
fra le quali la polimerasi virale. Il processo di replicazione non è veloce, ma lento e
preciso. Il meccanismo viene definito a spiazzamento, cioè caratterizzato dal fatto che le
polimerasi separino due filamenti e su ciascuno dei due formino il complementare,
formando due doppie eliche.

3. Autoassemblaggio e uscita → Le proteine sono vengono prodotte mature, ma devono


andare incontro a dei tagli proteolitici: i tagli proteolitici che vanno a formare le proteine del
capside avvengono ad opera di una proteasi cellulare, mentre i tagli proteolitici che devono
avvenire nella particella virale assemblata sono effettuati dalla proteasi virale.
L’autoassemblaggio delle varie componenti avviene nel nucleo e porta alla formazione di una
particella immatura, la cui maturazione si completa quando al suo interno la proteasi completa
i tagli proteolitici. I virioni si accumulano nel nucleo ingolfando la cellula e portandola a lisi,
espletando funzione citopatica.

Patogenesi
La trasmissione avviene per via aerogena, nel particolare tramite goccioline di aerosol (Flugge)
oppure scambio di saliva. In realtà può avvenire anche per via oro-fecale oppure per via sessuale.

55
Essendo privo di envelope, esso è in grado di permanere nell’ambiente esterno per lunghissimi
periodi di tempo. Si trasmette spesso in saune, piscine, terme e altri luoghi chiusi e umidi.

La patogenesi deriva principalmente dall’effetto citopatico che deriva dalla replicazione del virus
nelle cellule infette, che vanno incontro a lisi.

La risposta immunitaria dell’ospite per un virus naked differisce da quella per un virus enveloped
(che di solito è cellulo-mediata), in quanto per i virus naked la risposta è di tipo umorale, cioè
operata da anticorpi che si legano alle fibre inibendo l’entrata dei virus nelle cellule.

Manifestazioni cliniche
Le condizioni cliniche che possono derivare da un’infezione da Adenovirus variano in base al tipo in
question in quanto questi hanno variabile tropismo tissutale.

Le condizioni cliniche sono:

1. Manifestazioni a carico delle vie aeree, fra cui raffreddore e farignite, ma anche
complicazioni come polmonite, epatite, encefalite, meningite

2. Cheratocongiuntivite epidemica, che viene contratta molto spesso dai nuotatori a causa
dell’acqua infetta. Questa condizione, se non curata, porta a lesioni cicatriziali della cornea che
portano a cecità.

3. Infezioni enteriche

4. Cistite emorragica

5. Miocardite
6. Infezioni in soggetti immuncompromessi, caratterizzate dalla maggiore gravità

Diagnosi e profilassi
Le tecniche dirette maggiormente usata è l’immunocromatografia.

Le tecniche indirette più impiegate sono le metodiche immunoenzimatiche, che permettono di


ricercare nel siero del paziente delle IgM (che indicano infezione in corso o recente) specifiche per
uno dei sierotipi di adenovirus.

Attualmente non esiste terapia specifica, ma farmaci come ribavirina e cidofovir si sono mostrati
attivi conto l’infezione in vitro, senza un univoco risultato in vivo.

È disponibile un vaccino costituito da virus vivo attenuato per i genotipi 4 e 7, che causano infezioni
all’apparato respiratorio negli adulti. Viene solitamente somministrato ai militari, dato che le
condizioni affrontate spesso portano e indebolimento del sistema immunitario.

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Parvovirus
I Parvoviriridae sono tra i virus più piccoli conosciuti, con un genoma a DNA lineare a singolo
filamento. I generi di maggiore interesse medico sono due:

1. Erythroparvovirus, genere che include il virus B19

2. Bocaparvovirus

Virus B19
La particella virale ha un diametro di circa 23 nm ed è costituita dal solo capside ed è priva di
envelope (virus naked). Il capside è icosaedrico, costituito da due proteine (si presenta molto simile
a quello dell’adenovirus, ma con dimensioni minori), e data la sua compattezza è estremamente
resistente (resiste agli acidi biliari). Si conosce un solo sierotipo.

All’interno del capside si trova il genoma a DNA lineare a singolo filamento di soli 5,6 Kbp (con
estremità non traducenti) con polarità variabile. Il genoma include due geni sovrapposti:

A. Gene non strutturale, codificante per la proteina non strutturale NS1 (con diverse funzioni
molte delle quali ignote).

B. Gene strutturale, codificante per le proteine del capside (viral protein) VP1 e VP2 (questa la
più rappresentata). La produzione di due proteine a partire da un messaggero avviene grazie
allo splicing alternativo.

La proteina NS1 non ha tra le sue funzioni quella di polimerasi e pertanto devono sfruttare quelle
cellulari oppure quelle di altri virus. Solitamente essi sfruttano le polimerasi fornite da un altro virus a
cui spesso si trovano associati, l’adenovirus. Si parla quindi di virus satellite o dependovirus
(mentre l’altro è il virus helper) e nel particolare di virus adeno-associati (AAV).

Ciclo replicativo
B19 penetra nella cellula tramite legame tra antirecettore (proteine capsidiche) e recettore cellulare
costituito dal globoside (antigene P), espresso da eritrociti maturi e altre cellule della linea
mieloide. La formazione del legame induce l’endocitosi mediata da recettori, che porta all’entrata
del capside in un endosoma.

Il materiale genetico viene liberato nel citoplasma in prossimità del nucleo, all’interno del quale entra
attraversando i pori nucleari grazie a RAN-GDP e importine. Il DNA a singolo filamento a polarità
positiva (codificante) è labile e deve essere tempestivamente duplicato in doppia elica. A fare ciò
subentrano DNA polimerasi cellulari oppure virali. La doppia elica subisce dei particolari tagli prima
della produzione dei messaggeri che permettono l’ulteriore duplicazione producendo il genoma virale
dei futuri virioni. La RNA polimerasi cellulare, poi, opera la trascrizione a mRNA, che vengono
esportati nel citoplasma dove vengono tradotti in proteine. Queste hanno sequenze NTS (nuclear
targeting sequences) che ne inducono l’importazione nel nucleo, in cui avviene l’autoassemblaggio.
Nelle particelle virali possono essere inclusi filamenti di DNA con polarità sia positiva sia negativa.
L’accumulo di particelle virali nel nucleo porta a ingolfamento e liberazione per lisi cellulare (attività
citopatica).

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Manifestazioni cliniche
Nel 70% dei casi, l’infezione si presenta sintomatica oppure porta a danni non rilevabili data la
contemporanea infezione da adenovirus, dagli effetti ben più gravi. I danni possono essere causati
direttamente dal virus oppure dalla risposta immunitaria scatenata.

Le manifestazioni cliniche riscontrabili sono:

1. Eritema infettivo, anche conosciuto come quinta malattia o megaloeritema. Si tratta di una
manifestazione tipica dell’infanzia frequente in inverno e primavera con diffusione ubiquitaria.
In bambini sani le prime fasi sono asintomatiche oppure caratterizzate da febbre e simil-
influenza a causa della viremia. In seguito si ha la formazione di immunocomplessi, i quali
scatenano l’azione del complemento che va a danneggiare le cellule endoteliali dei capillari
(rete mirabile del viso) portando a extarvasazione di eritrociti. L’aspetto è simile ad un
ematoma e si parla di aspetto a “cute schiaffeggiata”.

2. Artropatia, che colpisce più gli adulti dei bambini e coinvolge principalmente le articolazioni
delle mani. È dovuta direttamente ai danni citopatici del virus.

3. Crisi aplastica transitoria, dovuta al temporaneo blocco della produzione di globuli rossi e
che quindi porta ad una grave anemia.

4. Fetopatia, nel particolare in donne incinte non precedentemente immunizzate. A causa


dell’elevata viremia, infatti, il virus può diffondere per via transplacentare verso il feto (che non
ha difese immunitarie) portando a aborto spontaneo oppure un edema generalizzato (idrope)
sempre dovuto alla formazione di immuncomplessi (che causa anche epatomegalia e
disfunzioni cardiache).

5. Anemia cronica, specialmente negli immunocompromessi, causata dalla persistenza del virus
a livello del midollo osseo.

Le persone più a rischio sono quindi bambini in età scolare, i loro genitori, madri incinte non ancora
immunizzate, immunocompromessi e soggetti già anemici.

Diagnosi, terapia e profilassi


Il campione principale è il sangue, data l’elevata viremia. Le principali tecniche di diagnosi sono
quelle immunenzimatiche (ricerca di IgM o IgG) oppure quelle di biologia molecolare. Nelle donne
incinte il test immunologico è incluso nel test TORCH.

Non esistono farmaci retrovirali specifici e nemmeno vaccini.

Bocavirus
Il Bocavirus umano, BoV, appartiene al genere dei Bocaparvovirus e alla famiglia dei Parvoviridae.
Esso è ubiquitario e causa infezioni nell’infanzia (la maggior parte dei bambini è sieropositivo).

Nell’uomo se ne conoscono 4 specie (BoV 1-4), tutte caratterizzate da un piccolo genoma


contenente 3 geni i quali codificano per proteine strutturali (VP1-3, virale particles) e proteine non
strutturali (NS1-4 e NP1).

Causa principalmente infezioni dell’apparato respiratorio, ma il virus si riscontra anche in feci, liquor,
tonsille, saliva e urina.

Reoviridae
La famiglia Reoviridae è una delle più grandi famiglie di virus e l’unica caratterizzata da virus con
genoma a RNA a doppio filamento in grado di infettare l’uomo. Questa famiglia include il genere
Rotavirus, il principale genere infettante l’uomo, mentre gli altri causano principalmente zoonosi.

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Rotavirus
I Rotavirus sono i principali agenti patogeni umani della famiglia Reoviridae.

La classificazione viene effettuata secondo criteri sierologici, sfruttando tre diverse proteine
antigeniche:

1. VP6 ha permesso di distinguere 8 diversi gruppi, denominati con le lettere A-G

2. VP7, o antigene G

3. VP4, o antigene P

Per ogni gruppo (A-G) si possono distinguere sottogruppi in base all’antigene G oppure al P. Ad
esempio, il gruppo A (il principale) include 15 diversi tipi G e 25 diversi tipi P e la nomenclatura
deve tenere conto di entrambe.

Caratteristiche
Il nome del genere deriva dal fatto che all’osservazione presentano morfologia. La particella virale ha
diametro di circa 70 nm ed è costituita dal capside icosaedrico che non presenta envelope (virus
naked). In realtà si possono distinguere tre capsidi a guscio.

Il genoma è a RNA a doppio filamento ed è costituito da 11 frammenti di dimensione variabile. In


generale ogni segmento presenta un ORF, ad eccezione dell’undicesimo, da cui derivano due
proteine.

I geni codificano per:

A. 6 proteine strutturali, VP:

a. VP1, la RNA polimerasi virale

b. VP2, che costituisce il capside interno

c. VP3, che lega il genoma

d. VP4, che costituisce gli spike del


capside esterno e che per maturazione
subisce taglio proteolitico (formando VP5
e VP8)

e. VP6, che compone il capside


intermedio (più spesso)

f. VP7, che compone il capside esterno


(più sottile)

B. 6 proteine non strutturali: NS1, NS2, NS3, NS4, NS5/6

Ciclo replicativo
I rotavirus espongono le proteine del capside esterno VP4 e VP7 si legano a specifici recettori
cellulari (alcuni contenenti acido sialico), nel particolare degli enterociti. Il legame determina
l’importazione del virione per endocitosi mediata da recettori, che porta alla formazione di un
endosoma. A questo punto l’endosoma si fonde ad un lisosoma, in cui avviene la scissione di VP4.
VP5 e VP8 sono liberi, quindi, di liberare il virione nel citoplasma, virione che in questo modo ha
perso l’involucro esterno. La trascrizione dell’RNA genomico a mRNA avviene direttamente
all’interno del virione in quanto l’RNA è molto labile e nel citosol andrebbe incontro a veloce
degradazione. Gli mRNA possono essere tradotti oppure essere impiegati come stampi per la
produzione del genoma per la progenie. La traduzione porta alla formazione delle proteine che si
aggregano in particelle subirai insieme agli 11 frammenti di dsRNA. Solo per ultime si aggiungono le
proteine del capside esterne, che devono essere prima glicosilate a livello del RER e del Golgi. I
virioni si accumulano nella cellula inducendola a lisi e venendo liberati (effetto citopatico).

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Patogenesi
La trasmissione avviene per via oro-fecale, nel particolare tramite ingestione di cibo o liquidi infetti,
anche se non è rara la trasmissione per via aerogena tramite droplet.

Una volta ingerito il virus resiste all’acidità dello stomaco e si porta a livello dell’intestino tenue,
dove è in grado di infettare gli enterociti maturi.

Dopo un periodo di incubazione di 2-3 giorni, la parete intestina inizia a venir danneggiata portando
ad appiattimento dei villi intestinali. Si tratta quindi di gastroenterite caratterizzata da diarrea
profusa (fino ad 1 settimana), febbre e vomito. È elevatissimo il numero di virioni eliminati con le
feci, circa 1012 virioni per grammo (nell’ambiente sopravvivono per molto tempo grazie alla loro
struttura capsidica, che li rende resistenti anche alla clorazione delle acque).

La diarrea è determinata dalla necrosi degli enterociti, con conseguente appiattimento dei villi e
sindrome da malassorbimento. In aggiunta, si ha un minore assorbimento degli zuccheri,
specialmente il lattosio, che intacca l’equilibrio osmotico richiamando altra acqua (aggravando il
quadro diarroico) e lasciando spazio alla crescita di molti batteri. La morte degli enterociti porta
anche alla rottura delle tight juction, impedendo ai tessuti di trattenere acqua e sostanze nutrienti,
sempre aggravando il quadro diarroico.

I quadri clinici di gastroenterite derivanti possono essere:

1. Forma subclinica, asintomatica in individui immunizzati

2. Forma mite

3. Forma severa, che porta a coma ed è potenzialmente fatale (principalmente nei neonati)

L’eliminazione del virus avviene grazie all’immunità umorale, nel particolare grazie ad IgA
secretorie neutralizzanti. Esse si legano alle varie componenti dei capsidi permettendo
l’eliminazione del virus ed in seguito il recupero di funzionalità dei villi. La continua esposizione a
queste infezioni durante l’età pediatrica contribuisce ad aumentare l’immunità, motivo per cui le
manifestazioni diventano sempre più rare con il procedere dell’età.

Epidemiologia
I Rotavirus sono i principali agenti eziologici di gastroenteriti nei bambini di tutto il mondo. Data il
caratteristico genoma frammentato, i meccanismi evolutivi di Rotavirus sono molto simili a quelli dei
virus influenzali. I meccanismi sono:

1. Antigen drifting, causato da mutazioni a carico delle proteine dei tre cpasidi che inducono
una migliore resistenza al sistema immunitario

2. Antigen shifting, causato da interi riarrangiamenti di frammenti di genoma tra virus umani e
virus animali

È molto importante quindi la sorveglianza degli allevamenti (sono registrati casi, anche a Brescia, di
ricombinazioni con virus del maiale) o degli animali in generale per evitare insorgenza di ceppi
totalmente nuovi ed estremamente pericolosi.

Diagnosi
I campioni principali sono ovviamente campioni fecali.

Le tecniche utilizzabili sono varie e fra queste abbiamo tecniche sierologiche come il test di
agglutinazione al lattice svolto sulle feci, tecniche immunocromatografiche oppure il saggio
ELISA.

Ovviamente poi è anche impiegabile la RT-PCR su campioni fecali, che presenta elevata specificità,
ma costi elevati.

Terapia e profilassi

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La terapia normalmente è limitata al combattere i sintomi e specialmente si consiglia una forte
reidratazione.

In passato sono esistiti vaccino che si rivelarono dannosi sul lungo termine. Ad oggi sono presenti
dei vaccini costituiti da virus vivo attenuato che si presentano efficaci e privi di effetti collaterali.
L’OMS consiglia di attuare strategie vaccinali nei Paesi dove queste gastroenteriti virali hanno un
pesante impatto sulla popolazione.

Togaviridae
La famiglia Togaviridae include virus caratterizzati da envelope lipidico strettamente adeso al
capside. La famiglia include due generi:

A. Alphavirus, all’interno del quale si trovano virus che causano zoonosi

B. Rubivirus, che include la sola specie Rubella virus, il virus della malattia esantematica rosolia

Caratteristiche
La particella virale ha diametro di circa 70 nm ed è costituita da un nucleocapside icosaedrico
avvolte esternamente da un enevelope lipidico strettamente adeso. Le glicoproteine esposte
sull’envelope sono dei trimeri, i cui monomeri sono a loro volta eterdimeri delle glicoproteine E1 e
E2, che si proiettano verso l’esterno per formare gli spike.

Il capside icosaedrico è formato dalla ripetizione di omodimeri di una proteina C che presenta
residui con carica positiva che gli permettono internamente di legare il genoma.

All’interno del capside è contenuto il genoma, costituito da una molecola di RNA a singolo
filamento a polarità positiva. Il genoma include due ORF, uno per proteine non strutturali e uno per
proteine strutturali.

Ciclo replicativo
Il ciclo inizia con la formazione del legame tra E2 ed un recettore cellulare (ha ampio tropismo
tissutale), che porta all’entrata del virus tramite endocitosi mediata da recettori. Dopo la
formazione dell’endolisosoma, l’abbassamento del pH induce la fusione della membrana vescicolare
con quella dell’envelope, portando alla liberazione del nucleocapside nel citoplasma, dove avviene la
scapsidazione (nel particolare l’ambiente acido induce un riarrangiamento delle proteine
dell’envleope che hanno anche funzione fusogena).

Una volta all’interno, il genoma a RNA viene immediatamente impiegato per tradurre le proteine
precoci non strutturali. Queste poi sono responsabili della replicazione del genoma ad un
intermedio a polarità negativa (antigenoma), per poi portare alla produzione di altri filamenti di RNA
a polarità positiva di due tipi: uno di 40S che è il genoma dei futuri virioni, mentre l’altro di 26S viene
tradotto. Le proteine del capside passano dal RER e dal Golgi per subire glicosilazione ed infine tutte
le proteine si accumulano in prossimità della membrana plasmatica, dove avviene
l’autoassemblaggio. Avviene infine l’uscita dei nuovi virioni nel particolare tramite gemmazione.

Manifestazioni cliniche
La trasmissione può avvenire sia per via orizzontale, nel particolare per via aerogena tramite le
goccioline di Fugge, sia per via verticale, nel particolare per via transplacentare.

In oltre il 20% dei casi l’infezione si presenta asintomatica, ma gli asintomatici possono comunque
trasmetterla.

Le classiche espressioni della malattia sono:

A. Sintomi simil-influenzali, specilamente febbre, mal di gola e malessere generale

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B. Rash cutaneo, un esantema che consiste nella comparsa di numerose macule cutanee rosse
in primo luogo a livello di orecchie, nuca e schiena che poi diffondono a tutto il corpo. Si
risolvono in 3-5 giorni.

C. Linfadenopatia, specialmente quelli della regione del collo posteriormente

D. Artralgia, cioè dolore alle articolazioni

Sono possibili però anche complicazioni, specialmente legate allo stato di immunodepressione. Di
particolare importanza a causa della gravità è la sindrome da rosolia congenita, che insorge in
seguito a trasmissione verticale della malattia. Questa sindrome include aborto spontaneo o
malformazioni congenite. In aggiunta, possono comparire cataratte, danni al fegato o al midollo
osseo e sul lungo termine diabete e problemi alla tiroide. La gravità della manifestazione dipende dal
grado di progressione della gravidanza (entro le 10 settimane l’infezione ha danni catastrofici).

Diagnosi
I campioni impiegabili per la diagnosi sono saliva e sangue. Le tecniche impiegate sono
principalmente tecniche indirette atte alla ricerca di anticorpi nel siero del paziente (ma anche nella
saliva) specifici per il Rubella virus. Ovviamente, presenza di IgM indica infezione in corso, mentre
IgG indica immunizzazione acquisita.

La diagnosi viene effettuata nelle donne incinte nell’ambito dell’esame TORCH insieme a molti altri
agenti eziologici.

Terapia e profilassi
Non esiste terapia antivirale specifica e si tende semplicemente a prescriver farmaci per i sintomi.
Nella maggior parte dei casi la malattia va incontro a risoluzione spontanea con conseguente
immunizzazione permanente.

Di notevole importanza è il vaccino, che dal 2017 è obbligatorio in Italia (non il solo).
L’immunoprofilassi viene effettuata tramite virus vivo attenuato. Non si tratta di un vaccino singolo,
ma viene somministrato nell’ambito del vaccino trivalente morbillo-parotite-rosolia.

Coronaviridae
La famiglia Coronaviridae è di particolare interesse clinico a causa della capacità di effettuare salti
di specie. Sono state registrate infezioni direttamente trasmesse dagli animali all’uomo: nella
maggior parte dei casi queste erano delle semplici zoonosi (non ulteriormente trasmissibili
dall’uomo), ma talvolta un virus può evolversi e presentarsi adatto all’uomo rendendo possibile la
trasmissione interurbana e dando luogo ad una situazione molto pericolosa in quanto virus nuovi
possono portare a potenziali epidemie di notevole gravità clinica. Dall’inizio del secolo si sono
registrate due epidemie da Coronavirus (SARS e MERS) ed una pandemia (COVID-19).

La famiglia Coronaviridae include due generi:

1. Coronavirus, di notevole interesse medico

2. Torovirus, di limitato interesse medico

Coronavirus
Il virione ha dimensioni di circa 100-150 nm con morfologia rotondeggiante. Esso è costituito da un
nucleocapside elicoidale, con carattere pleiomorfico, avvolto esternamente dall’envelope.
Sull’envelope è esposta la glicoproteina S, con ruolo antirecettoriale, che forma degli spike (trimeri)
caratterizzati dalla spiccata lunghezza e che conferiscono aspetto a corona. È poi presente la
proteina E (envelope).

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L’envelope è posto in comunicazione con il capside tramite la
proteina M che occupa la matrice ma che ha molti domini
transmembrana. Il nucleocapside è poi costituito dalla
n u c l e o p ro t e i n a N , c h e i n t e r a g i s c e c o n i l g e n i a m o
stabilizzandolo.

Il genoma è a RNA a singolo filamento con polarità positiva (di


circa 30 Kbp) in cui sono unclusi 6 ORF, che codificano per:

1. Proteine non strutturali, NSP. Questo è il primo ORF (che


occupa ⅔ del genoma) e che codifica per una singola
poliproteina che viene poi processata per portare alla
formazione di circa 16 proteine non strutturali la cui
funzione non è completamente chiarita. Le sequenze di
basi di diverse proteine sono separate dai cosiddetti checkpoint intergenici (6 nucleotidi).
Queste proteine vanno a costituire il complesso replicativo.

2. Proteine strutturali, che sono:

I. Proteina S (surface), con funzione antirecettoriale

II. Proteina E (envelope), probabilmente ad attività fusogena

III. Proteina M (membrana), coinvolta nelle fasi finali della replicazione come la gemmazione

IV. Proteina N (nucleocapside)

Possono poi essere presenti dei geni accessori non essenziali per il processo di replicazione, ma
responsabili dell’incremento della sua efficacia. Si è notato che i Coronavirus dotati di un maggior
numero di geni accessori sono quelli con maggior potenziale patogenetico.

Ciclo replicativo
La fase di entrata è operata dalla glicoproteina S, che svolge il ruolo di antirecettore, legandosi a
recettori cellulari. Alcuni recettori cellulari sono conosciuti come nel caso di SARS-CoV, che
manifesta interazione con il recettore hACE-2 (human angiotensin convertire enzyme 2), espresso
dalle cellule dell’albero respiratorio. Essendo il recettore di natura proteica, il tropismo è specie-
specifico (le sequenze proteica sono molto meno conservate nelle diverse specie), a differenza di
altri virus multi-specie che sfruttano recettori saccaridici (molto simili in specie differenti). Questo non
impedisce comunque il salto di specie, che avviene per variazioni del genoma. Il legame con il
recettore scatena l’entrata per fusione delle membrane, seguito dalla scapsidazione.

Analogamente a tutti i virus dell’ordine Nidovirales, il ciclo replicativo di Coronavirus è discontinuo.


Il genoma a RNA con polarità positiva è direttamente impiegabile per la sintesi proteica ed in primo
luogo avviene la traduzione del primo ORF, che porta alla formazione del complesso replicativo
(l’ORF è seguito sequenze di stop e di distacco del ribosoma). Nel complesso è presente anche la
RNA polimerasi RNA dipendente che darà origine all’antigenoma (intermedio a polarità negativa),
dal quale derivano due tipi di RNA: mRNA ed RNA genomico.

Si parla di replicazione discontinua per quanto riguarda la trascrizione di messaggeri: la RNA


polimerasi RNA dipendente, infatti, può distaccarsi dall’antigenoma ogni volta che incontra una delle
sequenze di checkpoint intergenico, portando alla formazione di segmenti di lunghezza differente.
Questi segmenti non sono mRNA utilizzabili in quanto non contengono la sequenza cap (che
sarebbe al 5’ ma essendo a polarità negativa in questo momento è al 3’). Questi checkpoint sono
inoltre degli hotspot di ricombinazione e stanno alla base della spiccata variabilità di questo virus e
della sua capacità di effettuare salti di specie.

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L’autoassemblaggio avviene tramite il passaggio di tutte le componenti attraverso RER e Golgi,
conformazione di vescicole cono doppi bilayer dette DMV. L’uscita del virus avviene per fusione del
bilayer più esterno, mentre quello più interno costituisce l’envelope.

Tipi di coronavirus e manifestazioni associate


Si tratta di un virus che seppur dotato di envelope si presenta molto resistente ed in grado di
resistere sulle superficie per lunghi periodi. La trasmissione avviene direttamente per via aerogena
(goccioline di Flugge), ma anche indirettamente per contatto delle superfici con le mani e poi sieste
con occhi-naso-bocca.

Diversi tipi di coronavirus sono stati studiati:

1. HCoV-NL63 → Scoperto dopo il 2003 ma presente da secoli e derivante dai pipistrelli, con
ottimo adattamento all’uomo. Esso è causa di banali malattie respiratorie come le riniti
(raffreddore).

2. HCoV-229E e HCoC-OC43 → Circolano fra gli umani da almeno 50-60 anni e presentano
come ospite intermedio il bovino (il serbatoio originario erano i roditori). Anche questi causano
banali malattie respiratorie e solo negli immunocompromessi possono avere effetti più gravi.

3. HCoV-HKU1 → Derivante dai roditori, causa malattie respiratorie più serie ma comunque non
particolarmente pericolose.

4. TGEV → Cornonavirus suino di importante interesse zoologico ed economico.

5. SARS-CoV → Questo virus causò un’epidemia nel 2003 partita da un mercato della provincia
cinese del Guandong, a seguito di un contatto diretto tra un turista ed un furetto, che si scopri
essere ospite intermedio tra l’uomo ed il pipistrello, vero serbatoio (si scoprirono popolazioni
di pipistrelli infetti da decine di coronavirus differenti e quindi con un ampissimo pool genetico
tramite il quale evolversi). L’infezione portava i pazienti ad una condizione denominata SARS
(severe acute respiratory syndrome) a cui si potevano sommare danni sistemici, di cui si
registrarono oltre 8000 casi ed una mortalità del 10%.

6. MERS-CoV → Questo virus causò un’epidemia nel 2012 nella Penisola arabica. Questo virus
era causa di una patologia respiratoria simile alla precedente e denominata MERS (Middle
East respiratorie syndrome). Esso si differenziava dal precedente e presentava una minore
trasmissibilità (1700 casi), ma con una mortalità del 35% (con picchi del 50% in alcune zone).
In realtà questa infezione si rivelò essere una zoonosi con serbatoio primario i pipistrelli e come
ospite intermedio i dromedari, e solo ospite casuale l’uomo (si pensa non abbia effettuato il
salto di specie).

7. SARS-CoV-2 → Causa condizione simile alla SARS denominata COVID-19

Diagnosi
La diagnosi avviene tramite metodi di biologia molecolare, nel particolare tramite RT PCR
impiegando kit con primer specifici.

Morale della favola: attenzione alle zoonosi perché son più pericolose

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