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Fondamenti di ANALISI DI BILANCIO1

L’analisi di bilancio è rappresentata da quell’insieme di tecniche volte ad


elaborare i dati di uno o più bilanci d’esercizio al fine interpretare particolari aspetti
della gestione aziendale e, in particolare:
− aspetto patrimoniale;
− aspetto finanziario;
− aspetto economico.
A seconda del soggetto che compie l’analisi si possono avere:
− analisi interne
− analisi esterne
Infatti diverso è il piano dell’analista di bilancio esterno all’azienda che basa le
sue elaborazioni sul bilancio reso pubblico, piuttosto che non quello di un analista
interno alla realtà oggetto di osservazione che può basare le proprie elaborazioni su
una massa di informazioni più consistenti e rilevanti.
A tale fine con riferimento all’oggetto e alla finalità di osservazione della realtà
aziendale si possono, infatti, avere:
− analisi statiche e dinamiche;
− analisi storiche e prospettiche;
− analisi formali ed operative;
− analisi di trend, di posizione e di simulazione.
Inoltre a seconda delle tecniche utilizzare si possono distinguere le seguenti
metodologie di elaborazione dei dati di bilancio:
− analisi per margini e indici;
− analisi per flussi.

A prescindere dal tipo di analisi da condurre l’iter procedurale da seguire è:


1. espressione di un giudizio sulla correttezza dei dati di bilancio;
2. riclassificazione del bilancio
3. applicazione delle tecniche di analisi
4. formulazione di un giudizio sui risultati raggiunti

1
Dispensa a cura di Simone D. Scagnelli e Maura Campra, Università degli Studi di Torino.
1. Espressione di un giudizio sulla correttezza dei dati di bilancio
Il principale oggetto dell’analisi è il bilancio d’esercizio destinato a pubblicazione
annuale formato da stato patrimoniale, conto economico e nota integrativa. Prima di
procedere ad elaborare i dati in esso contenuti, occorre accertare l’attendibilità
convenzionale dei valori stessi in relazione alle norme di legge e ai corretti principi
contabili a meno che il bilancio non sia già stato sottoposto a certificazione.
In particolare questa fase rappresenta un “esame critico” dei dati e dei valori
rappresentati nel bilancio d’esercizio stesso al fine di accertare un giudizio sulla:
− “espressività” dei dati medesimi, cioè mira ad individuare la “capacità
espressiva” del bilancio come fonte di dati rielaborabili ed interpretabili
agli effetti dell’analisi stessa;
− “attendibilità” del bilancio nel suo complesso, cioè è volta ad accertare la
“credibilità” dei dati di bilancio.
Al fine della formulazione dei giudizi di espressività e di attendibilità, si devono
analizzare:
− il processo di formazione (valutazione degli elementi del patrimonio) dei
valori di bilancio;
− il processo di rappresentazione dei valori esposti negli schemi di stato
patrimoniale e conto economico, nonché nella nota integrativa.
Questo procedimento comporta sia la verifica della corretta applicazione dei
postulati di bilancio e dei principi contabili, sia l’esistenza di una coerenza dei dati e
dei risultati.
Pertanto, gli interventi connessi con l’attendibilità dei valori di bilancio possono
portare, così, alla rettifica dei valori di bilancio con la conseguente variazione del
reddito d’esercizio e del connesso capitale di funzionamento.

2. Riclassificazione del bilancio


Gli schemi del bilancio d’esercizio redatti secondo la normativa civilistica italiana
presentano alcune limitazioni all’applicazione diretta delle metodologie di analisi che
vengono di seguito affrontate. Occorre, pertanto, riclassificare le voci contenute negli
schemi civilistici al fine di presentare le informazioni secondo alcuni criteri
omogenei.
In linea generale, la riclassificazione dei valori di bilancio non dovrebbe
modificare i due risultati di sintesi della gestione (reddito e patrimonio) ma anzi
dovrebbe riesporli in modo tale da facilitare le successive elaborazioni
Per quanto riguarda lo stato patrimoniale, le voci dell’attivo dello schema
civilistico sono presentate principalmente secondo il criterio della destinazione mentre
quelle del passivo seguono principalmente il criterio della provenienza. Pertanto per
omogeneizzare gli elementi dell’attivo e del passivo ed incrementare il loro livello
informativo, si possono attuare delle riclassificazioni riconducibili principalmente a:
− criterio finanziario che tiene conto della varia attitudine alla trasformazione in
denaro più o meno lontana delle varie voci;
− criterio funzionale che tiene conto della pertinenza gestionale delle varie voci.

La riclassificazione finanziaria dello stato patrimoniale


Secondo il criterio “finanziario” lo stato patrimoniale attivo è rielaborato al fine
di rappresentare il “criterio della trasformabilità in denaro” dei suoi elementi ovvero
dell’attitudine a ritornare in forma liquida entro un certo periodo di tempo.
Convenzionalmente il limite di tempo utilizzato è quello dell’anno.
Secondo tale criterio la struttura dell’attivo ovvero del capitale investito (K) viene
ad essere suddivisa in:
− attivo immobilizzato costituito dagli investimenti in essere, la cui
trasformabilità in denaro è a ciclo pluriennale;
− attivo circolante comprensivo delle liquidità immediate e degli investimenti in
essere la cui trasformabilità in denaro è a ciclo annuale, o ciclo inferiore
all’anno.
L’attivo immobilizzato può ulteriormente essere suddiviso in:
• Immobilizzazioni materiali, al netto dei relativi fondi
• Immobilizzazioni immateriali, al netto dei relativi fondi
• Immobilizzazioni finanziarie: partecipazioni e titoli destinati ad una
permanenza durevole in azienda; crediti (di qualsivoglia natura) con
scadenza oltre l’esercizio successivo.
L’attivo circolante può ulteriormente essere suddiviso in
• Magazzino: le rimanenze di magazzino suscettibili di trasformazione
monetaria futura (vendibili, non obsolete).
• Liquidità differite: crediti (di qualsivoglia realizzabili entro l’esercizio
successivo.
• Liquidità immediate: disponibilità monetarie (cassa, banche) e titoli di
immediata realizzabilità
Nella prassi, occorre sempre privilegiare l’aspetto sostanziale a quello formale e, a
volte, in mancanza di adeguate informazioni è possibile permeare di una certa
soggettività il procedimento di analisi. Di seguito si riportano alcune delle
problematiche oggetto di riscontro nella riclassificazione di alcune voci dell’attivo
dello stato patrimoniale:
− i crediti verso soci per versamenti ancora dovuti quando già richiamati devono
essere ricompresi nelle liquidità differite o nell’attivo immobilizzato a seconda
della data prevista per il versamento. Quelli non ancora richiamati devono
essere portati in detrazione dal capitale sociale;
− le azioni proprie vanno comprese fra le immobilizzazioni solo se sono
acquistate per essere mantenute in portafoglio. Se sono destinate ad essere
vendute a breve, vanno indicate fra le attività disponibili. Nel caso in cui le
azioni proprie siano state acquistate al fine di procedere poi al loro
annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale sociale, il loro
importo va dedotto dal patrimonio netto, compensandolo con la “Riserva per
azioni proprie in portafoglio”.
− i ratei attivi sono considerati liquidità differite. I risconti attivi sono di norma
compresi tra le liquidità differite ma, se legati a costi da rinviare a più esercizi
successivi devono in parte essere ricompresi nell’attivo immobilizzato.
L’eventuale disaggio su prestiti può essere trattato al pari di una
immobilizzazione immateriale.

Le voci del passivo dello stato patrimoniale rappresentano le fonti di


finanziamento ovvero il capitale acquisito (K) che l’impresa utilizza per fronteggiare i
fabbisogni espressi dal capitale investito (K).
Anche la riclassificazione finanziaria del capitale acquisito ovvero del passivo
dello stato patrimoniale, prevede che le sue diverse componenti siano distinte secondo
la loro durata (o scadenza o esigibilità). Questa suddivisione dei finanziamenti si
fonda sul periodo di rimborso che è individuato nel medesimo parametro temporale di
un anno utilizzato per gli impieghi. Pertanto, secondo il criterio della durata è
possibile individuare la suddivisione delle fonti di finanziamento in:
− capitale permanente, costituito dal capitale proprio (patrimonio netto) e dai
finanziamenti a lunga scadenza (passività consolidate);
− capitale corrente, costituito da finanziamenti a breve “ciclo di estinzione” (debiti
a breve scadenza) o breve “ciclo di utilizzo” (debiti fluttuanti es: c/c bancario).
Accanto al criterio della durata, è sovente affiancato il criterio della “provenienza”
delle fonti di finanziamento, che porta a classificare il capitale acquisito in:
− capitale proprio, cioè il patrimonio netto dell’impresa vincolato a pieno rischio
alla gestione (capitale sociale, riserve e reddito netto per la parte non distribuita
nell’esercizio successivo);
− capitale di terzi, cioè il capitale vincolato alla gestione col vincolo del rischio
limitato (passività)
Anche per la riclassificazione di alcune voci del passivo si possono porre alcune
problematiche:
− l’utile di esercizio, che rappresenta la fonte di finanziamento interna, va indicato
tra i valori del patrimonio netto solo se e per la parte non destinata alla
distribuzione ai soci. Quest’ultima, se conosciuta e già deliberata, va indicata tra
le passività correnti;
− i fondi per rischi e oneri vanno analizzati al fine di comprendere quei rischi/oneri
che daranno luogo ad uscite finanziarie entro l’anno e che saranno così da
includere nelle passività correnti e quei rischi/oneri la cui manifestazione
finanziaria avverrà probabilmente oltre l’anno e che saranno, pertanto, da
includere tra le passività consolidate;
− per i ratei e risconti passivi vale il discorso fatto per quelli di tipo attivo.
− se è presente l’informazione sui beni in leasing (prospetto all’interno della nota
integrativa come da nuovo art. 2427 voce n.22) può essere opportuno indicare
rispettivamente il valore dei beni al netto dei corrispondenti ammortamenti nel
capitale immobilizzato e il relativo debito legato ai canoni da pagare
rispettivamente per la quota entro l’anno tra le passività correnti e la quota oltre
l’anno tra quelle consolidate.
Si perviene così alla costruzione del cosiddetto “stato patrimoniale finanziario” che
assume tale forma:
IMPIEGHI FONTI

Immateriali

Cap.proprio
Immobilizzazioni

Patrimonio netto

Capitale permanente [P]


[N]
[I]

Materiali

Finanziarie Passività consolidate


[π]
Magazzino
Attivo circolante [

Capitale di terzi
[C]

Capitale
Liquidità differite [Ld] Passività correnti

corrente
[p]
Liquidità immediate [Li]

CAPITALE INVESTITO (K) CAPITALE ACQUISITO (K)

Lo “stato patrimoniale finanziario” costituisce il documento base per analizzare,


mediante opportuni indicatori:
o la struttura e la situazione patrimoniale;
o la struttura e la situazione finanziaria.

La riclassificazione funzionale dello stato patrimoniale


Secondo il criterio “funzionale” o della “pertinenza gestionale” lo stato
patrimoniale è riletto e rielaborato “in chiave gestionale”; la finalità è individuare il
capitale investito nelle varie gestioni aziendali e la relativa copertura in termini di
provenienza delle fonti di finanziamento.
In particolare le gestioni oggetto di osservazione sono la gestione operativa e
quella finanziaria.
Tale riclassificazione deve rappresentare il capitale investito per il funzionamento
operativo dell’azienda (Capitale Investito Netto, o CIN) e deve inoltre individuare la
provenienza della sua copertura finanziaria (capitale proprio o di terzi).
Il capitale investito netto (CIN) è formato dalla somma delle seguenti componenti:
− capitale immobilizzato, costituito dalla somma delle immobilizzazioni al netto
dei relativi fondi e delle eventuali passività operative consolidate (TFR, fondi
rischi)
− capitale d’esercizio, costituito dalla somma dell’attivo circolante di natura
operativa (non sono incluse le disponibilità liquide e le eventuali attività
finanziarie assimilate alla liquidità) al netto delle relative passività di natura
operativa.
Le componenti da cui trae origine il CIN in termini di fonti di finanziamento sono:
− capitale proprio, cioè il patrimonio netto dell’impresa vincolato a pieno
rischio alla gestione (capitale sociale, riserve di capitale e di utili nonché
reddito netto per la parte che non sarà distribuita);
− posizione finanziaria netta: costituita dalla somme delle passività di natura
finanziaria (debiti verso banche, verso soci, verso altri finanziatori) al netto
delle attività di natura finanziaria (disponibilità liquide e attività finanziarie
assimilate e realizzabili)
Lo schema si stato patrimoniale riclassificato può quindi assumere una forma “a
scalare” come la seguente.
STATO PATRIMONIALE
A. Totale Immobilizzazioni
Immobilizzazioni immateriali
Immobilizzazioni materiali
Immobilizzazioni finanziarie
-TFR
-F.di rischi
B. Capitale d'esercizio
Rimanenze di magazzino
Crediti commerciali
- Passività operative (es: fornitori, dipendenti,
debiti tributari, ecc.)

Capitale Investito Netto (A+B)


coperto da
C. Capitale Proprio
Capitale sociale
Riserve
Utile d’esercizio (per la parte non distribuita)
D. Posizione finanziaria netta
Debiti finanziari
-Liquidità

A+B = C+D
La riclassificazione del conto economico
I dati del conto economico, in Italia già strutturato in forma progressiva, vengono,
di solito, rielaborati in modo da distinguere l’apporto in termini di reddito delle varie
gestioni aziendali (operativa, finanziaria, straordinaria e tributaria). Invece altre
riclassificazioni del conto economico, più utilizzate nei paesi anglossassoni, essendo
basate su componenti classificati per destinazione mettono in luce l’utile lordo sulle
vendite e/o il margine lordo di contribuzione.
Pensando alle elaborazioni riguardanti l’aspetto economico della gestione può
essere opportuno comprendere come riclassificare lo schema di conto economico del
bilancio d’esercizio. Infatti, i dati in esso contenuti devono essere opportunamente
riclassificati per giungere alla predisposizione di un “conto economico di analisi
reddituale”. Il conto economico di analisi reddituale può essere articolato in diversi
modi (conto economico della produzione effettuata, conto economico della
produzione venduta, ecc.), aventi ciascuno finalità informative differenti.
Caratteristica comune a tutti gli schemi è comunque quella di mettere in evidenza non
solo il reddito d’esercizio nel suo valore finale, ma anche, e soprattutto, il risultato
prodotto dalle diverse “aree” o “sub-gestioni” in cui è possibile suddividere la
gestione dell’impresa.
Tali sub-gestioni sono principalmente riferibili a:
− area tipica o caratteristica, la quale comprende quelle operazioni volte a
perseguire direttamente gli obiettivi della gestione e l’oggetto caratteristico
dell’attività economica svolta dall’impresa. Con riferimento a tale area, si
individua il cosiddetto “reddito operativo” dell’esercizio, derivante dalla
contrapposizione tra ricavi e costi afferenti l’area “tipica”;
− area atipica, di cui fanno parte le operazioni di gestione estranee all’oggetto
tipico dell’attività aziendale. Con riferimento a tale area, si individua il
cosiddetto “risultato della gestione atipica” dell’esercizio, derivante dalla
contrapposizione tra ricavi e costi afferenti l’area “atipica” (ad esempio per
un’azienda industriale i proventi da affitto di immobili civili ed i relativi costi
di gestione);
− area finanziaria, cioè il complesso delle operazioni d’esercizio legate alle
politiche di finanziamento e di gestione della liquidità. Con riferimento a tale
area, si individua il cosiddetto “risultato della gestione finanziaria”
dell’esercizio, derivante dalla contrapposizione tra proventi ed oneri di natura
finanziaria;
− area straordinaria, in cui rientrano le operazioni legate o all’attività tipica o
all’attività atipica o quella finanziaria che, data la loro non ricorrenza o il loro
carattere eccezionale, devono essere “isolate” dalle altre aree della gestione.
Con riferimento a tale area, si individua il cosiddetto “risultato della gestione
straordinaria” dell’esercizio, derivante dalla contrapposizione tra proventi ed
oneri di natura straordinaria;
− area tributaria, relativa agli oneri tributari dell’impresa (IRES, IRAP, ecc.).
Infine, il “reddito netto” dell’esercizio, deriva dalla contrapposizione di tutti i
componenti positivi e negativi di reddito giudicati di competenza dell’esercizio,
indipendentemente dall’area della gestione cui afferiscono.
Anche con riferimento a questa suddivisione in aree gestionali si possono elencare
le seguenti problematiche:
− le plusvalenze/minusvalenze patrimoniali indipendentemente dallo loro
iscrizione, se di importo rilevante, cioè capace di influenzare sensibilmente il
risultato andrebbero isolate nell’area straordinaria;
− se le voci che accolgono i costi d’acquisto e i ricavi di vendita comprendono
oneri e proventi finanziari impliciti, gli importi corrispondenti devono essere
trasferiti nell’area finanziaria (es: interessi impliciti su canoni leasing);
− se gli importi dello stato patrimoniale sono stati rettificati per tenere conto dei
beni in leasing, l’importo di conto economico riferita ai canoni di leasing oltre
a subire lo storno descritto al punto precedente va interamente azzerato. Si
iscrivono quindi i relativi ammortamenti sui beni in leasing per la quota di
competenza dell’esercizio.
Un possibile schema riclassificato di conto economico di analisi reddituale,
secondo il criterio della produzione effettuata, è riportato di seguito:
Ricavi operativi
-Costi operativi
Reddito operativo
Risultato gestione atipica
Risultato gestione finanziaria
Reddito corrente
Risultato gestione straordinaria
Risultato gestione tributaria
Reddito netto
Inoltre, quando il conto economico oggetto di analisi utilizza una suddivisione dei
costi per natura ovvero a Valore della produzione, il Reddito operativo può essere
determinato attraverso la determinazione di ulteriori risultati intermedi:
VALORE DELLA PRODUZIONE (A.1.2.3.4.5)
- COSTI ESTERNI (B.6.7.8.11.14)
= VALORE AGGIUNTO
- COSTI INTERNI (B.9)
= MARGINE OPERATIVO LORDO [MOL o EBITDA]
- AMM. SVAL. ACCANT. (B.10.12.13)
=RISULTATO OPERATIVO [EBIT]

Quando invece il conto economico oggetto di analisi utilizza una suddivisione dei
costi per destinazione ovvero a Costo del venduto, il Reddito operativo può essere
può essere determinato attraverso la determinazione di un ulteriore risultato
intermedio:
FATTURATO
- COSTI VARIABILI (1^ parte Costo del venduto)
= MARGINE LORDO DI CONTRIBUZIONE
-COSTI FISSI Industriali (2^ parte Costo del venduto)
= UTILE LORDO INDUSTRIALE
- Spese comm.li, gen.li e amm.ve (SG&A)
- Spese di Ricerca & Sviluppo
- Altri costi generali
=RISULTATO OPERATIVO [EBIT]
3. Applicazione delle tecniche di analisi di bilancio

L’analisi della situazione finanziaria


La situazione finanziaria dell’impresa, con riferimento ad un dato periodo ed al
corrispondente movimento monetario-finanziario della gestione, è normalmente intesa
in uno dei seguenti modi:
− come attitudine a fronteggiare le uscite imposte dallo svolgimento della
gestione, tempestivamente ed in modo economico;
− come capacità di disporre, economicamente ed in ogni istante, dei mezzi di
pagamento necessari e sufficienti agli effetti del conveniente esplicarsi della
gestione medesima.
Nell’impresa in funzionamento, la situazione finanziaria è sempre riferita ad un
periodo futuro, ed è osservata come presunta relazione fra le disponibilità monetarie
su cui l’impresa potrà fare affidamento e quelle che saranno richieste svolgimento
della gestione nel periodo futuro preso in esame.
A tal proposito, occorre mettere in evidenza come non sempre i sintomi di breve
periodo di efficienza finanziaria rappresentino anche sintomi di efficienza economica.
Infatti, una situazione finanziaria efficiente, ad esempio, può derivare da un
equilibrio tra entrate ed uscite monetarie. Ma, se tale situazione si collega ad un
complesso di realizzi affrettati ed antieconomici e di investimenti totalmente o
parzialmente “improduttivi”, allora, l’efficienza finanziaria è solo apparente e
temporanea. Nel lungo periodo, infatti, essa risentirà dell’influenza negativa degli
errori che si sono commessi in passato nel giudicare la convenienza economica di
determinate operazioni di gestione.
In tali situazioni di squilibrio sul piano finanziario, il reddito d’esercizio è
destinato a risentirne, con conseguenze negative per quanto riguarda sia l’acquisizione
di nuove fonti di finanziamento sia la possibilità di mantenere quelle preesistenti.

Alcuni indicatori finanziari


Il capitale circolante netto (CCN) è la grandezza finanziaria più impiegata nei vari
tipi di analisi. Leggendo i valori di breve periodo esso è dato dalla differenza fra
l’attivo circolante (C) e le passività correnti (p):
CCN = C – p
In una lettura di lungo periodo il medesimo margine si può esporre come il
margine di struttura più le passività consolidate:
CCN= N+π - I
Il capitale circolante netto indica quindi:
− da un lato, la capacità o l’incapacità dell’impresa di far fronte ai propri
impegni finanziari di breve periodo con le risorse della gestione corrente;
− dall’altro, l’esistente situazione di equilibrio o squilibrio tra investimenti in
immobilizzazioni e capitale consolidato.
Il correlato indice di disponibilità varia in funzione diretta dell’elasticità del
capitale investito ed in funzione inversa di quella del corrispondente capitale
acquisito. Una situazione solitamente ritenuta congrua è quella in cui il numeratore
(attivo circolante) è circa il doppio del denominatore (passività correnti):

indice di disponibilità = ≅2

Il margine di tesoreria (ed il correlato indice di liquidità) esprime l’attitudine


dell’impresa a soddisfare gli impegni finanziari a “breve”, mediante l’utilizzazione
della parte di circolante lordo costituita dalle disponibilità liquide immediate e da
quelle che possono divenire tali a breve termine. Viene cioè escluso, rispetto al
capitale circolante netto, l’influsso del valore delle rimanenze di magazzino che non
sempre potrebbero risultare di facile realizzo.
Margine di tesoreria = Ld + Li – p

Il valore minimo che l’indice di liquidità dovrebbe assumere, secondo la prassi


internazionale, è almeno pari ad uno, in realtà per le aziende italiane il valore medio
di riferimento si attesta sullo 0,75.Ciò significherebbe che la fascia di circolante a più
elevata mobilità (Ld + Li, liquidità correnti e differite) dovrebbe almeno essere uguale
alle passività correnti.

Indice di liquidità = ≅1
In tal caso, la fascia di circolante caratterizzata da minore mobilità, cioè il
magazzino, dovrebbe trovare copertura finanziaria nelle “fonti rigide” del capitale
permanente, al pari degli investimenti rigidi costituiti dalle attività immobilizzate.
Tale indicatore è, a volte denominato anche indice di liquidità secco o acid test ratio

Una sintesi del significato concettuale dei margini appena descritti è presentata nel
seguente schema:

IMPIEGHI FONTI
K FISSO

PROPIO
IMMOBILIZZAZIONI
PATRIMONIO
NETTO
MAGAZZINO
K CIRCOLANTE

CCN
PASSIVITA’
Margine di
LIQUIDITA’ CONSOLIDATE
Tesoreria
DIFFERITE

DI TERZI
PASSIVITA’
LIQUIDITA’ CORRENTI
IMMEDIATE
TOTALE K INVESTITO/ACQUISITO

L’analisi patrimoniale

I concetti di struttura e situazione patrimoniale si ricollegano all’analisi della


solidità dell’impresa. Per solidità patrimoniale possiamo intendere l’attitudine
dell’impresa ad opporre una propria forza di resistenza alle erosioni patrimoniali, che
la gestione o altre circostanze possono determinare.

In particolare, le analisi di struttura e situazione patrimoniale indagano le relazioni


esistenti tra:
− patrimonio netto e capitale di debito;
− patrimonio netto e capitale sociale;
− patrimonio netto e immobilizzazioni immateriali.

Per quanto riguarda la relazione tra patrimonio netto e capitale di debito, le


“analisi di bilancio per indici” mirano a mettere in evidenza il maggiore o minore
grado di solidità patrimoniale, ovvero la capacità di mantenersi in condizioni di
indipendenza finanziaria.
L’indicatore utilizzato è solitamente denominato “indice di indipendenza
finanziaria”:

Indice di indipendenza finanziaria = ≤1

(N= patrimonio netto, K=totale attivo)


L’indice di indipendenza finanziaria segnala la solidità dell’impresa sul versante
patrimoniale. Infatti, tale indice mostra in quale misura il totale dei mezzi investiti
nell’impresa sia stato finanziato con “capitale proprio”. Il suo reciproco (K/N) indica
il grado di indebitamento, o l’indicatore di leverage anche calcolato come (K/N-1
ovvero debiti/N).
L’espressione “indipendenza finanziaria” è da intendersi nel senso che un basso
valore dell’indice segnala un elevato indebitamento, il quale comporta maggiori
condizionamenti esterni (da parte dei finanziatori) e, potenziali od effettive, restrizioni
alla libertà di amministrazione dell’impresa, nonché la possibilità che l’impresa non
riesca a fronteggiare i propri impegni, trovandosi così in difficoltà nel reperimento
delle risorse finanziarie.
Inoltre, la solidità patrimoniale dipende anche dalla composizione del patrimonio
netto, in particolare dall’ammontare delle riserve rispetto al patrimonio netto
complessivo.
Infatti, la solidità patrimoniale è conseguibile solo attraverso un sistematico
processo di autointegrazione patrimoniale rappresentato dall’accantonamento a
riserva di quote residuali di utile (extra-reddito), dopo che questo è andato a
remunerare in maniera congrua tutti i fattori produttivi. La formazione di extra-redditi
in determinati periodi non deve remunerare oltre la misura “congrua” i fattori
produttivi, ma deve essere accumulata ed utilizzata al fine di:
− stabilizzare la remunerazione di tutti i fattori produttivi in periodi sfavorevoli,
in modo da essere sempre in linea con le condizioni di mercato;
− permettere di preservare con maggiore facilità l’ammontare del capitale
sociale.
Il quoziente utilizzato per l’analisi della “solidità del capitale sociale” è così
determinato:
Solidità del capitale sociale =

n= capitale sociale + eventuale riserva sovrapprezzo


Tale relazione mette in evidenza il “peso” delle componenti patrimoniali diverse
dall’apporto dei soci.
La solidità del capitale sociale si evolve nel tempo a seguito delle seguenti
variazioni di patrimonio netto:
− integrazioni di patrimonio: utili netti non distribuiti, sovrapprezzi di emissione
delle azioni, rivalutazioni patrimoniali, ecc.;
− erosioni di patrimonio: perdite nette di gestione, distribuzione o utilizzo di
riserve, svalutazioni patrimoniali, ecc.
In tale ambito, l’integrità del capitale sociale (situazione in cui il capitale proprio
coincide con il capitale sociale) rappresenta il livello minimo di solidità del

patrimonio ( = 1).

Infatti, valori al di sotto di tale livello ( < 1) segnalano situazioni in cui il

capitale proprio è positivo ma d’importo inferiore al capitale sociale, eroso in tutto o


in parte da perdite d’esercizio. Addirittura, in caso di cosiddetto “deficit patrimoniale”
(cioè di capitale proprio negativo a causa di perdite d’esercizio superiori al capitale
sociale), il quoziente assume valori inferiori allo zero.
Correttamente intesa, la solidità del capitale sociale è misurata solo da un
quoziente che assuma valori maggiori di uno, che segnalano la potenziale capacità del
patrimonio di accrescersi indipendentemente da incrementi del capitale sociale.
Un ulteriore aspetto della solidità patrimoniale dell’impresa è rappresentato dalla
“congruità” del patrimonio netto aziendale rispetto agli investimenti immobilizzati.
In particolare, un indicatore che si è soliti considerare è dato dalla relazione
intercorrente tra le dimensioni dei seguenti aggregati di bilancio: patrimonio netto e
immobilizzazioni immateriali.
Il confronto tra le indicate grandezze è denominato, nella sua misura in valore
assoluto, “patrimonio netto tangibile”:
Patrimonio netto tangibile = N – Immobilizzazioni immateriali
Il patrimonio netto tangibile indica in valore assoluto, la dimensione del
patrimonio netto che è disponibile per il finanziamento degli investimenti “tangibili”
dell’impresa (cioè immobilizzazioni materiali e finanziarie).
In pratica, tale indicatore tiene conto del differente grado di “rischiosità” delle
varie tipologie di investimenti e mette in evidenza la “capienza” del patrimonio netto
a finanziare almeno gli investimenti considerati più rischiosi (ad esempio i costi di
impianto e di ampliamento, i costi di ricerca, sviluppo e pubblicità capitalizzati,
brevetti, concessioni, marchi ed avviamento). Questi ultimi infatti, a volte, in caso di
crisi finanziaria sono di difficile se non impossibile realizzo.

Le analisi di redditività

Per redditività si intende la stabilizzata capacità di remunerare congruamente,


attraverso la periodica determinazione del reddito, sia il capitale proprio sia tutti gli
altri fattori produttivi in base a quelle che sono le condizioni di acquisizione di volta
in volta vigenti nei loro rispettivi mercati.
Solo l’impresa dotata di redditività, e cioè in grado di remunerare congruamente e
stabilmente ogni tipologia di fattore produttivo, riesce ad attrarre e trattenere tali
fattori in modo durevole nel tempo, assicurandosi essa stessa la durabilità.
Il capitale proprio è un fattore produttivo cosiddetto “a remunerazione residuale”,
cioè dipendente dal reddito d’esercizio, la redditività è anche intesa come la capacità
dell’impresa di produrre reddito.
Nell’ambito delle analisi di bilancio, non ci si può limitare ad indagare la capacità
della gestione di produrre “reddito netto” d’esercizio. Tale reddito deve essere
scomposto nei risultati parziali derivanti dalle diverse “aree” della gestione d’impresa.
Oggetto particolare di osservazione è la genesi del “reddito operativo” ed del
“reddito netto” d’esercizio che costituiscono la base per formulare rispettivamente
giudizi di:
− redditività operativa;
− redditività globale.
La redditività operativa, è l’attitudine dell’impresa a rendere congruamente
proficui gli investimenti di capitale al servizio della “gestione tipica”, trova la sua
sintesi quantitativa nel rapporto istituibile tra il “reddito operativo” (Ro) del periodo
considerato ed il corrispondente capitale investito mediamente nella gestione
caratteristica (Ko) riferibile al medesimo periodo.
Il capitale investito nella gestione caratteristica deriva dalla differenza tra capitale
investito globale, capitale investito nella gestione atipica e finanziaria e le eventuali
disponibilità liquide assimilabili ad investimenti finanziari di breve termine (Ko = K –
Ka – Li).
L’indicatore di riferimento utilizzato per la misurazione della redditività operativa
suole denominarsi ROI (Return on Investments):

ROI =

La variazione dell’indice ROI dipende dal segno del reddito operativo, dal momento
che Ko è sempre positivo. In tal senso, il ROI. può quindi essere:
− > 0, quando Ro è positivo;
− = 0, quando Ro è nullo;
− < 0, quando Ro è negativo.
Il ROI consente soprattutto di giudicare l’efficienza degli organi di governo
dell’impresa, tenuti a rendere conto dell’amministrazione di un capitale impiegato
nella gestione caratteristica, a prescindere dalle fonti di finanziamento della gestione
medesima.
Tale indicatore segnala la capacità dell’impresa di remunerare il capitale
comunque acquisito (capitale proprio e capitale di credito), facendo leva sull’attività
caratteristica dell’impresa stessa.
Le principali variabili che influenzano il ROI dipendono dalle condizioni legate
alle politiche dell’impresa. In particolare le condizioni rilevanti sono:
− condizioni di attività aziendale;
− condizioni di efficienza;
− condizioni di elasticità.
Le condizioni di attività riguardano le fondamentali scelte di quali beni (o servizi)
produrre ed in quali quantità produrne, sulla base delle quali l’impresa si dimensiona
e si struttura in modo adeguato. Sono decisioni che coinvolgono in particolare l’area
operativa, la quale ha il compito di:
− definire, dal punto di vista qualitativo, la gamma dei prodotti e quindi la
tendenza dell’impresa alla specializzazione piuttosto che alla diversificazione
produttiva. La necessità di variare la gamma dei prodotti è causata dagli
stimoli provenienti dai mercati di sbocco e la sua concreta attuabilità dipende
dalla capacità dell’impresa di cogliere questi stimoli e di modificare il più
velocemente possibile la struttura produttiva in modo da adeguarla alle mutate
condizioni;
− stabilire, dal punto di vista quantitativo, il volume di produzione per ognuno
dei prodotti della gamma e di dimensionare opportunamente la struttura
tecnico-produttiva. Tale attività di dimensionamento e di predisposizione della
struttura produttiva si basa sullo studio della domanda e dell’offerta di
mercato, il quale ha come obiettivo quello di determinare la presumibile quota
di mercato.
Le scelte relative a cosa e quanto produrre influiscono sugli equilibri economico-
finanziari e sulla redditività, in quanto si traducono in flussi di costi e di ricavi ed in
investimenti (necessari per la predisposizione dell’”apparato” produttivo) per i quali
bisogna reperire le necessarie fonti di finanziamento.
Le condizioni di efficienza riguardano le modalità di realizzazione dei quantitativi
del prodotto o della gamma di prodotti scelti, relative alle fasi dell’acquisizione dei
fattori, della produzione e della vendita. La scelta di come combinare operativamente
l’elemento umano con quello materiale (intesi come “strumenti” per lo svolgimento
dell’attività produttiva) deve portare al conseguimento di condizioni di:
− efficienza interna o produttività, definibile come la conveniente ed opportuna,
dal punto di vista economico e tecnico, progettazione e realizzazione del
processo di produzione. La produttività è una caratteristica attitudinale
dell’impresa considerata nella sua unità e non può essere riferita
esclusivamente ad un singolo fattore o processo produttivo;
− efficienza esterna, cioè di competitività dell’impresa sia sui mercati di
acquisizione dei fattori produttivi che sui mercati di sbocco dei prodotti.
Anch’essa si presenta come caratteristica che misura l’attitudine dell’impresa
ad affrontare la concorrenza che le si presenta sul mercato.
Le condizioni di elasticità dipendono dalle modalità che l’impresa ha per ovviare,
attraverso la flessibilità del proprio “comportamento” (formalizzato dalle politiche e
dalle strategie di management) alla propria connaturale rigidità strutturale, che non le
consente di adattarsi con la dovuta rapidità ai continui mutamenti ambientali e di
mercato. Tale rigidità strutturale dell’impresa, per sua natura non eliminabile, è
causata dalla presenza di:
− costi fissi connessi ai fattori produttivi cosiddetti ad “acquisizione rigida”, la
cui incidenza quantitativa sul processo produttivo non è modificabile nel breve
periodo;
− vincoli relativamente all’utilizzo di alcuni fattori (ad esempio il fattore
produttivo lavoro, la cui flessibilità è veramente minima).
Ciascuna delle condizioni sopra esposte è sintetizzata e quantificata nel ROI.
Attraverso l’inserimento nella formula precedente del valore delle vendite è possibile
pervenire ai fattori costitutivi del ROI:

ROI. = = x

V=Fatturato
I fattori riportati nella formula esprimono rispettivamente l’indice di redditività
delle vendite (ROS.-Return on Sales) e il tasso di rotazione del capitale investito
operativo.
Il ROS è una misura della capacità remunerativa dei ricavi prodotti dalla gestione
caratteristica. Tale indicatore esprime il reddito medio operativo per unità di ricavo
netto. Il numeratore di tale indice esprime il risultato economico di un’attività
aziendale determinata dalle condizioni proprie della gestione tipica, mentre il
denominatore rappresenta, in termini monetari, il volume di tale attività, espresso in
termini di ricavi netti operativi.
Le variabili che influenzano il ROS sono:
− ricavi netti operativi, dipendenti da fattori quali le quantità fisiche vendute, il
mix ed i prezzi di vendita;
− costi operativi, costituiti da consumi di materie e servizi, costi di mano
d’opera, ammortamenti ed altri costi operativi.
Sulla base dei valori assunti dal ROS è possibile effettuare le seguenti
considerazioni:
− ROS > 0, esprime la porzione di ricavo netto ancora disponibile dopo la
copertura di tutti i costi attribuiti alla gestione tipica. Un valore positivo
dell’indice segnala l’ulteriore capacità dei ricavi operativi per la copertura sia
dei restanti costi ed oneri d’esercizio, sia della remunerazione del capitale
proprio.
− ROS = 0 indica che la capacità remunerativa dei ricavi tipici è limitata alla
sola copertura di tutti i costi tipici, restando così scoperti i rimanenti costi di
gestione, sempre che non intervengano proventi atipici o straordinari.
− ROS < 0 esprime l’impossibilità dei ricavi operativi di coprire almeno tutti i
costi operativi, la gestione tipica dell’impresa non è in grado di produrre utilità
economica, anzi la distrugge.
Il secondo fattore di scomposizione del ROI. è rappresentato dal cosiddetto tasso
di rotazione del capitale investito o turnover del capitale investito. Esso esprime, sotto
il profilo economico, il ricavo medio per ogni unità di investimento operativo
(espressa in termini monetari). In altri termini, tale indice segnala il numero di volte
in cui il capitale investito si è trasformato in risorse finanziarie per effetto della
vendita dei prodotti.
Dall’analisi congiunta dei due fattori esaminati in cui è possibile scomporre il
ROI., si evince che la redditività operativa della gestione dipende dai seguenti
elementi:
− margini di profitto che si ottengono per ciascuno dei processi acquisto materie
prime>produzione>vendita prodotti finiti” (ROS);
− velocità con cui tali cicli si ripetono nel corso di un esercizio (rotazione del
capitale investito).
È per tale motivo che, in teoria, esistono due possibili comportamenti delle
imprese:
− imprese che scelgono una politica di bassi margini sulle vendite e che, per
ottenere una redditività soddisfacente, debbono realizzare un’elevata rotazione
del capitale investito (ad esempio le imprese della grande distribuzione);
− imprese che scelgono una politica di elevati margini sulle vendite, accettando
di realizzare una minor velocità di rotazione del loro capitale investito (ad
esempio produttori di beni di lusso).

Invece, la redditività globale dell’impresa è misurata dalla capacità di


remunerazione insita nel reddito netto.
Tale capacità viene sintetizzata dal rapporto tra il reddito netto globale ed il
patrimonio netto. L’indice prende il nome di ROE (Return on Equity) e può essere
così rappresentato:
ROE. =

Rn= utile dell’esercizio


Il ROE può essere, anche, interpretato come tasso di redditività del capitale
proprio ed indica il livello a cui è commisurata la base di remunerazione del capitale
acquisito dall’impresa con il vincolo del pieno rischio. Tale indice rappresenta la
misura sintetica della redditività aziendale e viene, di solito, utilizzato sia in analisi
consuntive degli scostamenti tra la redditività attesa e quella realizzata sia in analisi
preventive per definire un obiettivo di sintesi, soprattutto nel medio e lungo periodo.
Il ROE inteso come misura di redditività globale è la sintesi di tutte le condizioni
operativo-finanziarie di redditività della gestione:
− condizioni operative, determinate dalle condizioni di attività, di efficienza e di
elasticità;
− condizioni finanziarie, determinate sia dalle condizioni di autofinanziamento,
relative al capitale generato dall’impresa, sia dalle condizioni di finanziamento
esterno, relative all’acquisizione di capitale con il vincolo del rischio limitato
o con il vincolo del capitale di rischio.
Tali condizioni divengono meglio analizzabili attraverso la scomposizione del
ROE:

ROE = = x x x

Il livello di redditività globale è dunque dato dalla varia composizione di:


− situazione economica dell’impresa espressa in termini di redditività operativa
(naturalmente condizionata da una data “struttura economica”). Infatti, il ROE

dipende in primo luogo dal ROI ( ), che sintetizza tutte le condizioni operative

della gestione (condizioni di attività, efficienza ed elasticità). L’effetto positivo o


negativo del ROI è tanto maggiore quanto più è elevata la percentuale di capitale

investito nell’area caratteristica ( ). Tale indice può assumere valori compresi

tra 0 (assenza di capitale investito nell’area operativa) e 1 (totalità del capitale


acquisito investito nell’area operativa).
− struttura finanziaria dell’impresa medesima espressa attraverso il quoziente che

esprime il “grado di indebitamento” ( ), il quale, implicitamente, riflette anche

una data situazione finanziaria. Tale rapporto ha un effetto moltiplicativo del ROI
poiché esso assume sempre valori superiori ad 1, tranne quando tutte le risorse

sono state acquisite con il vincolo del capitale proprio ( = 1).

− onerosità della gestione finanziaria e delle restanti aree extra-operative. Tale


onerosità è indirettamente misurata dall’indice di incidenza del reddito netto

globale sul reddito operativo ( ). Tale quoziente può assumere i più svariati

valori. Infatti, esso dipende dal segno di Rn e di Ro (che può essere positivo e
negativo) e dal loro valore assoluto.

Dunque, la redditività dell’impresa dipende da:


− efficienza ed efficacia della gestione operativa (ROI);
− struttura delle fonti (rapporto tra capitale di terzi e capitale proprio);
− costo del capitale di terzi.
A differenza del ROI il ROE tiene dunque conto delle modalità di finanziamento
dell’impresa. Infatti ROE e ROI risultano tanto più divergenti quanto maggiore è la
quota di capitale acquisito rappresentata da capitale di credito.
Tale divergenza è anche chiamata “effetto di leva”, ed è originata dallo
scostamento tra il ROI ed il costo del capitale legato alla gestione col vincolo del
rischio limitato (i, costo del capitale di credito). Tale effetto si può visualizzare in
un’opportuna trasformazione della formula del ROE:

p+π
ROE = ROI + (ROI-i) x x (1-t)
N

L’effetto leva ( =passività/N) influenza quindi il ROI, a parità dell’incidenza

delle gestioni extra-caratteristiche (1-t), a seconda del variare delle seguenti


situazioni:
− ROI = i, da cui ROE = ROI = i: la remunerazione del capitale proprio e quella del
capitale di credito coincidono, e l’impresa dimostra l’incapacità di effettuare
investimenti con rendimenti maggiori del tasso cui si indebita. In tal caso, non
sono tenute in debita considerazione le “attese” differenziate di remunerazione dei
diversi portatori di capitale.
− ROI < i, da cui ROE < ROI < i: la remunerazione del capitale proprio è inferiore a
quella del capitale di credito. L’impresa investe le risorse acquisite con il vincolo
del debito ottenendo una redditività operativa inferiore all’onerosità delle risorse
stesse. In tale situazione, il ROE diminuisce all’aumentare del rapporto tra capitale
di credito e capitale proprio. Senza adeguati interventi volti ad un recupero di
economicità e di redditività della gestione caratteristica, l’impresa sarebbe
destinata a scomparire, in quanto priva del requisito di stabilizzata attitudine alla
remunerazione congrua di tutti i fattori produttivi.
− ROI > i, da cui R.O.E > ROI > i: la remunerazione del capitale proprio è superiore
a quella del capitale di credito. L’impresa è in grado di investire le risorse acquisite
con il vincolo del debito ottenendo una redditività superiore all’onerosità delle
risorse stesse. In questo caso il ROE cresce all’aumentare del rapporto tra capitale
di terzi e capitale proprio.

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