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Materia: Biologia

Argomento: Basi molecolari della trasmissione ereditaria e struttura tridimensionale DNA


Data: 17/03/20
Prof.ssa: F: Zalfa

DA COSA È COSTITUITO IL MATERIALE GENETICO ?


Oggi sappiamo che il costituente fondamentale del materiale genetico è il DNA, l’acido
desossiribonucleico. Ma questa che per noi oggi è una certezza, per potersi affermare come tale,
ha dovuto attraversare una serie di tappe storiche e scientifiche.

Elenchiamo ora le tappe principali che hanno portato alla scoperta del DNA quale principale
costituente del materiale genetico, e quindi del gene. (Ricorda infatti che il gene, essendo il
depositario dell’informazione genetica, deve essere costituito da materiale genetico, che grazie
alle tappe di cui parleremo in seguito è stato dimostrato essere costituito da DNA).

L E TAPPE DELLA IDENTIFICAZIONE DEL DNA QUALE PRINCIPALE


COSTITUENTE DEL MATERIALE GENETICO ( GENE )

 1860: Mendel fu il primo a parlare di gene come unità discreta per l’eredità e si occupò di
studiare come le caratteristiche fenotipiche determinate dalla espressione di questi geni
venissero trasmesse da una generazione all’altra. Per facilitare il suo lavoro, prese in
considerazione dei caratteri che avevano un’espressione fenotipica dicotomica e stabilì le leggi
alla base dell’ereditarietà.

 1880: Fleming scoprì i cromosomi. Li chiamò cosi perché erano dei corpuscoli che potevano
essere colorati. Li chiamò “pacchetti di informazione genetica”, in quanto venivano ripartiti in
modo equo al momento della divisione cellulare.

 1903: Sutton scoprì i cromosomi omologhi. Egli capì che ogni tipo di cromosoma, in una cellula
diploide, era costituito da due copie di esso detti “omologhi”, che durante la prima fase della
meiosi si appaiano a formare “tetradi”.

 1909-1911: Morgan scoprì che quando questi cromosomi omologhi si andavano ad appaiare in
tetradi, si scambiavano tra loro dei pezzettini di cromatidi. E chiamò questo processo di
appaiamento e di scambio di materiale genetico che avveniva durante la prima fase della
meiosi, crossing-over.

 1911: Sturtevant scoprì che i geni potevano essere mappati in ordine lungo i cromosomi.

Durante questi primi anni, i genetisti classici si erano dunque occupati dello studio delle
caratteristiche genetiche degli individui e di come queste si trasmettessero di generazione in
generazione. Senza sapere cosa fossero i geni da un punto di vista molecolare riuscirono a capire
che i geni, situati sui cromosomi, fossero i responsabili dell’espressione di svariate caratteristiche
fenotipiche.
All’epoca, l’idea che ci potesse essere una doppia composizione del gene (DNA+proteine istoniche)
mise in crisi gli studiosi, che cercarono con i loro esperimenti e attraverso numerosi dibattiti, di
capire quale fosse il costituente principale del materiale genetico, se le proteine o il DNA.

Ecco infatti che, parallelamente agli studi di genetica classica, un gruppo di studiosi si occupò
invece di capire cosa ci fosse all’interno del nucleo delle cellule.

 1868: Miesher isolò il materiale genetico (che lui chiamò nucleina) contenuto all’interno del
nucleo delle cellule, dallo sperma di salmone e dai globuli bianchi;

 1889: Altmann capì che l’acido nucleico (acido deossiribonucleico) fosse un costituente
importante della nucleina e perfezionò metodi di estrazione del DNA dai vari tessuti e dal
lievito.

 1884: Zacharias e Hertwing scoprirono che la nucleina fosse un costituente fondamentale dei
cromosomi e capirono che la nucleina non era costituita solo da DNA, ma anche da proteine.

 1929: Levene capì che lo zucchero pentoso costituente il DNA fosse il 2-desossiribosio.

Lo studio accurato chimico e biochimico della composizione chimica del DNA da un lato e delle
proteine dall’altro evidenziava una scarsa complessità chimica del DNA che appariva come un
polimero costituito solo da 4 nucleotidi al contrario delle proteine, polimeri costituiti da ben 20
amminoacidi diversi.

Fu proprio a seguito di questi studi che fu elaborata la “Teoria del Tetranucleotide” nel 1931 da
Levene.
La comunità scientifica di quell’epoca esclusero completamente che l’acido desossiribonucleico
potesse essere il costituente del materiale genetico, perché appunto troppo semplice
strutturalmente.
Le proteine invece mostravano una complessità maggiore e perciò più adatta (secondo loro).
Questa teoria rallentò di molto il raggiungimento della scoperta del DNA come costituente del
materiale genetico.
Ma nonostante ciò, già nel 1928, Griffith aveva cominciato a fare una serie di esperimenti sui topi,
che andavano a minare queste teorie.
S COPERTA DEL DNA QUALE MATERIALE GENETICO
Griffith e la scoperta del principio
trasformante

Nel 1928, Griffith iniziò a fare esperimenti


e studi su un certo tipo di batterio, lo
Streptococcus Pneumioniae, che causava
una grave forma di polmonite nei topi.
Egli distinse due ceppi di questo batterio;
uno più virulento e uno meno.

-Il ceppo più virulento, se iniettato nei


topi ne provocava la morte in poco
tempo.
Inoltre, i batteri che costituivano questo
ceppo erano dotati di una capsula
polisaccaridi esterna alla loro parete
cellulare, in grado di proteggerli dagli
attacchi provenienti dai componenti del
sistema immunitario dell’ospite nel quale
venivano iniettati (in questo caso l’ospite
era il topo). Questo ceppo è stato definito
“Ceppo S”, dove “S” sta per smooth, che
in inglese vuol dire “liscio”, proprio come
l’aspetto che questa capsula liscia
conferiva al batterio.

-Il secondo ceppo invece, quello meno virulento era costituito da batteri senza capsula, quindi
aventi aspetto ruvido, non più liscio. Ecco perché questo ceppo venne chiamato “Ceppo R”, dove
“R” sta per “rough”, che in inglese vuol dire “ruvido”.
Non avendo la capsula esterna, questi batteri erano facilmente attaccabili dal sistema immunitario
dell’ospite (il topo) e quindi distrutto facilmente. Ecco perché iniettando i batteri R di questo
ceppo meno virulento all’interno del topo, quest’ultimo era in grado di sopravvivere.

Griffith notò poi che iniettando invece “batteri S” uccisi dal calore (prima dell’iniezione), i topi
erano in grado di sopravvivere perché i batteri erano stati uccisi e quindi innocui.

Ma cosa sarebbe successo invece iniettando nel topo batteri R misti a Batteri S precedentemente
uccisi dal calore? Griffith si aspettava che i topi riuscissero a sopravvivere essendo solo i batteri R
(quelli meno virulenti) gli unici batteri vivi tra quelli iniettati nel topo.
Invece i topi morivano di polmonite! E per di più, dai polmoni di questi topi morti si potevano
isolare dei batteri di tipo S, con capsula polissaccaridica e virulenti! Ma perché?

Griffith ipotizzò che fosse passato qualcosa dai batteri S morti ai batteri R vivi, in grado di
trasformare questi in Batteri S vivi. Griffith chiamò questo qualcosa, “agente trasformante” e capì
che doveva coincidere con il materiale genetico perché era in grado di specificare per la
caratteristica “presenza di capsula polisaccaridica”. Ma ancora non si era capito da cosa fosse
costituito il materiale genetico; di conseguenza non si poteva capire neanche da cosa fosse
molecolarmente costituito questo principio trasformante.

N.B.= Noi oggi sappiamo cos’era successo! Il calore aveva frammentato il DNA dei batteri S in tanti
pezzettini. In alcuni di questi pezzettini c’erano dei geni responsabili della sintesi della capsula.
Tutti questi pezzettini, una volta entrati nel Batterio R si erano mescolati al suo DNA, dandogli così
la possibilità di sintetizzare la capsula e trasformarsi di fatto in un Batterio S, con capsula e
virulento. Questo processo di entrata di DNA esogeno nei batteri è un processo che si chiama
“Trasformazione batterica”, termine coniato proprio da Griffith nel 1928.

Negli anni successivi, tre scienziati: Oswald Avery, Colin Munto Macleod e Maclyn Mccarty
introdussero un nuovo metodo grazie al quale riuscirono a realizzare una preparazione “grezza” di
questo agente trasformante. Presero poi, un insieme di Batteri del ceppo S, li fecero crescere e li
lisarono (ruppero la loro capsula, parete e membrana esterna senza rovinare il loro contenuto
cellulare) e notarono che il contenuto aveva ancora proprietà trasformanti poiché mescolando
questo preparato grezzo di Batteri S con dei Batteri R, questi si trasformavano in Batteri S.
Dunque, avevano capito che il principio trasformante di cui parlava Griffith si trovava nel
contenuto cellulare dei batteri S.

Ma fu Avery colui che, usando nei suoi esperimenti questo processo di preparazione del preparato
grezzo a partire dalla lisi dei batteri S, diede il contributo maggiore allo sviluppo della scienza.

Esperimento di Avery

Avery trattò questo estratto ottenuto col metodo della


lisi di cui abbiamo parlato sopra, con enzimi in grado di
degradare un certo tipo di macromolecola:

 Tratto prima l’estratto di partenza con proteasi


(enzimi in grado di degradare le proteine) e poi mescolò
l’estratto cosi trattato, con i batteri R. L’estratto era
ancora in grado di trasformare i batteri R in batteri S.

Poi trattò sempre lo stesso estratto di partenza


con ribonucleasi pancreatica (enzima in grado di
degradare l’RNA) e poi li mescolò con i Batteri R.
L’estratto cosi trattato era ancora in grado di
trasformare i Batteri R in Batteri S.

Infine, lo trattò con desossiribonucleasi


pancreatica (enzima in grado di degradare molecole di
DNA) e poi lo mescolò con i Batteri R. L’estratto cosi
trattato non era più in grado di trasformare i Batteri R
in Batteri S.
Dunque, il principio trasformante si conservava nei primi due casi mentre non veniva conservato
nell’ultimo caso. Avery aveva appena dimostrato che il principio trasformante fosse costituito da
DNA e non dalle proteine (come si era sempre creduto fino ad allora).

Esperimento di Harsey e Chase

Più tardi, nel 1952 due Scienziati Harsey e Chase ottennero


importanti evidenze sperimentali facendo una serie di
esperimenti per rafforzare quanto scoperto sul DNA. Per
capire da cosa fosse costituito il materiale genetico
analizzarono un organismo costituito solo da queste due
componenti, cioè i virus; più nello specifico i virus dei
batteri, chiamati “batteriofagi”. Essi sono costituiti da: una
testa proteica a forma elicosaedrica (capside) contenente il
materiale genetico (DNA), un corpo proteico e una piastra
basale alla base di quest’ultimo, dalla quale si dipartono
delle fibre proteiche dette “fibre della coda” con le quali il
virus si ancora alla cellula batterica parassitata.

Dunque, Harsey e Chase presero in considerazione due popolazioni diverse di batteriofago T2 e


marcarono la prima popolazione a livello del DNA con P32 (fosforo radioattivo che si va a legare al
DNA dei fagi) e la seconda popolazione a livello proteico con S35 (zolfo radioattivo 35 che si
andava ad attaccare al capisce dei fagi).
Dopo di che infettarono i batteri prima con una popolazione di fagi e poi con l’altra. Prima della lisi
dei batteri, questi venivano omogeneizzati per far staccare le ombre fagiche cioè la parte dei fagi
che non era entrata nelle cellule batteriche. Osservarono così che solo quando veniva marcato
radioattivamente il DNA con P32, la radioattività veniva riscontrata all’interno dei batteri mentre
le ombre fagiche non erano radioattive. Questo rappresentava la prova inconfutabile che il DNA
fosse il materiale genetico.
Il ciclo litico del batterio Escherichia Coli, uno dei batteri più studiati.

Quando il batteriofago infetta una cellula batterica si attacca con le fibre della coda alla superficie
del batterio dopodiché con il corpo cilindrico inietta il DNA all’interno del batterio. A questo
punto, alcuni enzimi specifici degradano il cromosoma batterico e il cromosoma fagico utilizzando
il macchinario di replicazione batterica si replica molte volte all’interno delle cellule, poi
utilizzando il macchinario di espressione genica del batterio il fago esprime le proprie proteine
strutturali e i genomi virali vengono inclusi nei capsidi proteici a formare nuove particelle fagiche.
Quando la cellula si riempie di particelle fagiche, lisa rilasciando all’esterno la progenie virale.

COME FA UN TETRANUCLEOTIDE COSI SEMPLICE AD ESSERE


IL DEPOSITARIO DI COSI TANTE INFORMAZIONI
COSTITUENTI UN INDIVIDUO?
Per poterlo capire è necessario conoscere la struttura degli acidi nucleici, più in particolare del
DNA.
A livello chimico gli acidi nucleici sono polimeri costituiti da più monomeri (nucleotidi) legati tra
loro attraverso legami covalenti chiamati “legami fosfodiesterei”.
Ogni nucleotide è costituito da uno zucchero pentoso legato in posizione 1’ ad una base azotata e
in posizione 5’ a un gruppo fosfato.

 Lo zucchero pentoso nei nucleotidi dell’RNA è il ribosio, mentre quello del nucleotide del DNA
è il desossiribosio (che a differenza del ribosio non ha il gruppo OH in posizione 2’). In
posizione 3’ sia nel ribosio che nel desossiribosio c’è un gruppo ossidrile OH.
 Le basi azotate invece possono essere Purine (Guanina e Adenina), costituite da due anelli
eterociclici aromatici; oppure Pirimidine (Timina e Citosina per il DNA o Uracile e Citosina per
l’RNA), costituite da un solo anello eterociclico aromatico.
Ma che differenza c’è tra un
nucleoside e un nucleotide?
Nucleoside= zucchero
pentoso+ base azotata
Nucleotide= zucchero
pentoso+base
azotata+gruppo fosfato.
Per di più è utile sapere che
nucleosidi e nucleotidi, a
seconda di quale base
azotata li costituisce,
avranno nomi diversi e
specifici coi quali verranno
identificati. Vedi tabella.

MA COME SI FORMA PIU NELLO SPECIFICO IL LEGAME


FOSFODIESTEREO?
È un tipo di legame covalente grazie al quale più nucleotidi si uniscono tra loro a formare un
polimero. Il gruppo ossidrilico presente in posizione 3’ reagisce sempre con il gruppo fosfato in
posizione 5’ del nucleotide successivo.

N.B.= È importante ricordare che


l’allungamento del polinucleotide avviene
sempre in direzione 5’—->3’ e cioè il nuovo
nucleotide si aggiunge sempre al C3 dello
zucchero pentoso del nucleotide precedente, al
quale è attaccato un gruppo OH (ossidrilico). È
l’unico modo in cui può essere allungato il
polimero; per esempio l’allungamento non
avverrà mai aggiungendo un nuovo nucleotide
al C5 del pentoso. Di conseguenza il
polinucleotide avrà sempre una stessa polarità,
e cioè avrà sempre un’estremità chiamata
estremità 5’ avente il C5 dello zucchero legato
ad un gruppo fosfato, e un’altra estremità
libera, rivolta verso l’esterno detta estremità 3’
avente il C3 dello zucchero pentoso dell’ultimo
nucleotide del polimero legato a un gruppo OH.
Di conseguenza, qualsiasi sequenza di acido
nucleico avrà anch’essa direzione 5’—->3’ e
sarà letta seguendo questa medesima
direzione.
Se abbiamo un filamento nucleotidico che si sta accrescendo l’allungamento avviene sempre
nell’estremità 3’. Non possono essere aggiunti nucleotidi all’estremità 5’. Il nuovo nucleotide che
viene aggiunto a quello precedente per allungare la catena polinucleotidica, non giunge sotto
forma di nucleotide a quello precedente per potervisi legare, bensì sotto forma di nucleoside
trifosfato (dNTP). Si tratta di un nucleoside unito a tre gruppi fosfato (gruppo alpha, gruppo beta e
gruppo gamma), anziché a uno solo (come accade invece nella formazione del nucleotide classico).
Il legame pirofosfato è il legame che si instaura tra i due gruppi fosfato beta e gamma; mentre il
legame tra zucchero pentoso e il gruppo fosfato alpha rimasto ancora attaccato al nucleotide, si
chiama fosfodiestereo.
L’incorporazione di un nuovo nucleotide nel filamento crescente del DNA, quindi la formazione del
legame fosfodiestereo, avviene quando il gruppo ossidrilico che si trova all’estremità 3’ dell’ultimo
nucleotide del filamento crescente di DNA va a reagire con il fosfato in alpha del nucleoside
trifosfato entrante. Si viene così a rompere un legame fosfato-fosfato in alpha e beta, reazione
esoergonica. Viene rilasciata una molecola contenente due gruppi fosfato legati da un legame
pirofosfato che va in contro a successiva idrolisi con liberazione dei rispettivi fosfati. Anche la
rottura di questo legame rilascia energia. Questo secondo pacchetto di energia rilasciato sposta
ancora di più la reazione verso i prodotti. La formazione di questo legame è quindi esoergonica e
irreversibile ma ha bisogno di essere catalizzata dalla DNA polimerasi.
Q UAL È LA STRUTTURA TRIDIMENSIONALE DEL DNA?
È stato fondamentale studiare la struttura molecolare del DNA, oltre che la composizione chimica
dello stesso, per comprendere il suo funzionamento e il meccanismo di auto-replicazione che lo
caratterizza.
Un contributo molto importante nella scoperta della struttura tridimensionale del DNA fu dato da
due fisici che studiavano il fenomeno della diffrazione ai raggi X delle molecole, Maurice Wilkins e
Rosalind Franklin.
La diffrazione ai raggi X è una tecnica di fisica nucleare che permette di capire come sono disposti
gli atomi all’interno di una molecola grazie alla diffrazione, cioè alla deviazione di un fascio di raggi
X che impatta su una molecola. Quest’ultima deve essere cristallizzata per cercare di tenere i suoi
atomi più fermi possibili. Dopo la loro deviazione i raggi vanno a impattare su un’area detector,
dove risultano tanti spot neri che rappresentano la posizione assunta dagli atomi all’interno della
struttura molecolare.

L’esperimento fu condotto dai due fisici su una molecola di DNA cristallizzata (precedentemente
frammentata in piccoli pezzi, dato che la lunghezza della stessa, in condizioni normali, non avrebbe
permesso di portare a termine l’esperimento). I frammenti della molecola furono analizzati
secondo la metodica precedentemente descritta fornendo delle immagini che diedero a Wilkins e
Franklin la possibilità di definire immediatamente delle caratteristiche fondamentali della
molecola di DNA:
 Il DNA risultava avere struttura elicoidale (forma a doppia elica)
 La distanza tra nucleotidi adiacenti risultava essere sempre costante e pari a 3,4 Å
Figura 1 Configurazione B DNA Figura 2 Configurazione A DNA
(Franklin R., Gosling R., 1953) (Wilkins M.H.F., 1956)

Queste due immagini raffigurano ciò che i due scienziati ottennero.

Parallelamente, degli studi chimici condotti da Erwin Chargaff nel 1950, dimostrarono che il DNA
preso da organismi di varie specie (ad es.: uomo, mais, drosophila melanogaster, euglena,
escherichia coli ecc.) aveva una percentuale variabile delle quattro basi azotate: adenina, timina,
citosina e guanina. Il chimico austriaco osservò che i rapporti A/T e i rapporti C/G erano sempre
pari ad 1 (1 ± l’errore sperimentale, ma non considerando l’errore questo rapporto era sempre pari
ad 1). Questo indicava chiaramente un rapporto diretto tra la base adenina e la timina e la base
guanina e la citosina all’interno della struttura del DNA. Questa osservazione oggi prende il nome
di Regola di Chargaff ([A]=[T] e [G]=[C], ma [A]+[T] ≠ [G]+[C]).

I L MODELLO DI W ATSON E C RICK (1953)


Nel 1953 due studiosi, Francis Crick e James Watson, presero in considerazione tutte le
informazioni chimico-fisiche disponibili a quel tempo sul DNA. Il loro intento era quello di cercare
di capire come fosse realmente strutturata questa molecola. Utilizzando dei modellini fisici
(ottenuti con plastica, metallo, ecc.), facendo tutte le possibili prove, risolvendo tutti i possibili
calcoli matematici e provando tutte le varie conformazioni possibili, trovarono la configurazione
energeticamente più favorevole e stereo-chimicamente compatibile sia con l’esperimento di
Chargaff che con l’esperimento di Wilkins e Franklin.
Questi studiosi riuscirono così a definire la struttura e le caratteristiche della molecola del DNA. I
due per questa scoperta ricevettero nel 1962, insieme a Wilkins, il premio Nobel per la Fisiologia e
la Medicina. Franklin fu esclusa perché sfortunatamente, a seguito delle radiazioni assorbite
durante i suoi esperimenti, morì nel 1958.
Figura 3 Rappresentazione riportata
nella pubblicazione originale di
Watson e Crick
(Rivista Nature, Aprile 1953)

I dati sulla struttura del DNA sono stati pubblicati nell’Aprile del
1953 su Nature, una delle riviste con il più alto “impact factor”
di tutta la comunità scientifica. Questo termine rappresenta una
misura di quanto gli articoli pubblicati su una determinata rivista
influiscono sulla scienza internazionale e molto spesso anche i
ricercatori vengono giudicati e valutati in base all’impact factor
totale che hanno per le loro pubblicazioni.
Questo perché, quanto affermato da Watson e Crick
rappresentò un cambiamento molto importante nella storia
della biologia. Grazie alla definizione della struttura
tridimensionale del DNA nacque infatti una nuova branca di
questa scienza: la biologia molecolare.

L E CARATTERISTICHE DEL MODELLO DI W ATSON E C RICK


1. Il DNA è una doppia elica formata da due catene polinucleotidiche che si avvolgono l'una
sull'altra con avvolgimento destrorso.

2. Le due catene polinucleotidiche sono unite tra loro per mezzo di legami a idrogeno che si
stabiliscono tra le coppie di basi azotate. Queste coppie sono disposte perpendicolarmente
all'asse lungo della molecola e sono legate tra di loro da questi legami idrogeno.

3. Lo scheletro di zucchero-fosfato è situato all'esterno della molecola, mentre le coppie di


basi azotate sono impilate le une sulle altre e giacciono su piani perpendicolari all'asse
della doppia elica. Paragonare la struttura del DNA a quella di una scala a chiocciola
risulterebbe scorretto dato che nella scala a chiocciola c'è un solo asse e un solo filamento
che gira intorno a quest’ultimo. Nel DNA invece i filamenti sono due, quindi sarebbe più
consono paragonarla ad una scala a pioli, in cui i due assi laterali vengono ruotati l'uno
rispetto all'altro con direzione destrorsa (con avvolgimento destrorso), producendo un
avvolgimento della molecola in senso orario se osservata dall’alto.
4. La molecola è percorsa in tutta la sua lunghezza da due solchi: uno minore che ha
un'ampiezza di 12 Å, e uno maggiore che ha un’ampiezza di 22 Å, derivanti dalla sfasatura
delle due catene polinuocletidiche. Questi solchi evidenziano chiaramente nella struttura
molecolare una parte più ristretta, creata dal solco più stretto e una parte invece più
allargata, creata dal solco più largo. La loro importanza nasce dal fatto che questi sono i
punti in cui poi le proteine vanno a interagire col DNA, infilandosi nella struttura per
leggere la sequenza di coppie di basi che si trova all’interno della molecola.

5. La distanza tra i piani delle coppie di basi è di 3,4 Å. Ogni giro interno della doppia elica
comprende 10 basi (10 coppie di nucleotidi). Il passo della doppia elica (un giro intero)
risulta essere quindi pari a 34 Å (o 3,4 nm).

6. Gli atomi di fosforo distano 10 Å dall'asse della molecola. Lo spessore della doppia elica è
quindi pari a 20 Å (2nm) in accordo con la distanza calcolata da Wilkins e Franklin con
l’esperimento sulla diffrazione dei raggi X.
7. Nel DNA le basi azotate si appaiano sempre in modo che una purina si combini sempre con
una pirimidina. Questo appaiamento purina-pirimidina, base grande-base piccola, fa in
modo che lo spessore della doppia elica, vale a dire il suo diametro, sia sempre uguale e
cosante per tutta la lunghezza della molecola di DNA.

8. Le basi azotate tuttavia non si possono appaiare in qualunque modo possibile.


Le uniche combinazioni possibili, i cosiddetti appaiamenti complementari, sono infatti A-T
e C-G (ecco perché il rapporto tra le adenine e le timine e le citosine e le guanine è sempre
pari ad 1, in accordo con la regola di Chargaff). Grazie a questa complementarietà, la
sequenza di basi di una emi-elica è determinata dalla sequenza di basi dell’elica opposta.
La stabilità termica della molecola del DNA è tanto maggiore quanto maggiore è il
contenuto in appaiamenti C-G. Questo perché nell’appaiamento A-T si formano solo 2
legami a idrogeno mentre quando la citosina si appaia la guanina se ne formano 3. Più
appaiamenti C-G sono presenti in una certa regione del DNA, maggiore sarà la stabilità
termica di quel tratto; questo vuol dire che sarà necessaria una quantità di energia
maggiore per separare i due filamenti della molecola. Viceversa, vedremo come in alcune
regioni dove i filamenti si devono separare (ad es.: nelle regioni di origine della replicazione
del DNA o nelle regioni di inizio della trascrizione) vi siano molti più appaiamenti A-T,
questo perché, necessitando di una minore energia per essere rotti, favoriscono il processo
biologico.

9. Le due catene sono antiparallele, cioè i due filamenti polinucleotidici del DNA sono
orientati in direzioni opposte. L'anti-parallelismo e la complementarietà rappresentano le
caratteristiche più importanti della molecola.
L E DIVERSE ISOFORME DEL DNA
Le caratteristiche appena elencate fanno riferimento alla struttura del DNA più comune in natura,
che prende il nome di “struttura B”. Bisogna però sottolineare che esistono altre isoforme del
DNA, che si possono trovare in funzione della situazione fisiologica oppure in vitro: la struttura A e
la struttura Z.

Forma A del DNA

 È un’ampia spirale destrorsa, con un diametro di 25,5 Å (leggermente maggiore rispetto alla
forma B).
 Passo dell’elica di 11 base-pair (bp), pari a 29 Å.
 Il suo solco maggiore è più stretto rispetto alla forma B, mentre il solco minore è più largo ma
poco profondo.
 È presente sia in condizioni non-fisiologiche, ad esempio quando il DNA viene disidratato; sia in
alcune condizioni fisiologiche, ad esempio nei lunghi tratti omo-purinici o omo-pirimidinici,
negli eteroduplex DNA-RNA (eteroduplex = quando DNA e RNA si appaiano tra loro) e in alcuni
complessi DNA-proteina.

Forma Z del DNA

 È una doppia elica sinistrorsa, con un diametro di 18,4 Å (leggermente minore rispetto alla
forma B).
 Passo dell’elica di 12 base-pair (bp), pari a 45,6 A°.
 Solco maggiore più superficiale rispetto alla forma B mentre il solco minore risulta essere più
stretto.
 È tipica delle sequenze che presentano modificazioni chimiche, ad esempio come la
metilazione, oppure nei tratti di DNA ricchi di basi C e G (o più in generale con composizione
purinica e pirimidinica alternata).
 Il ruolo non è ancora del tutto chiarito, anche se sembra essere presente solo in locazioni
specifiche del genoma e viene riconosciuto da specifiche proteine chiamate Z-DNA-binding
proteins.

I L MECCANISMO DI REPLICAZIONE DEL DNA


Nel brevissimo articolo pubblicato nell’Aprile del 1953, in seguito alle loro rivoluzionarie scoperte
sulla struttura tridimensionale del DNA, James Watson e Francis Crick scrissero:
“Non è sfuggito alla nostra attenzione il fatto che lo specifico appaiamento di basi, come da noi
postulato, ci suggerisce immediatamente un possibile meccanismo di copia per il materiale
genetico”.
I due studiosi ipotizzarono che, essendoci dei legami deboli (i legami a idrogeno) tra le coppie di
basi azotate, questi potevano essere facilmente rotti, portando così alla separazione dei due
filamenti e permettendo loro di fungere da stampo per i nuovi filamenti complementari.

Anche se apparse subito chiaro che durante la replicazione del DNA i due filamenti si dovessero
separare per poter ciascuno codificare per i nucleotidi presenti nei filamenti complementari,
all'inizio vennero comunque ipotizzati tre possibili modelli di replicazione: il modello
semiconservativo, il modello conservativo e il modello dispersivo.

Modello semiconservativo (quello corretto)


Secondo questo modello dopo la separazione dei due filamenti nella molecola parentale ciascuno
fa da stampo per il filamento complementare di neosintesi e poi quest’ultimi rimangono appaiati
con i filamenti parentali. Si formano così, dopo la prima divisione, due molecole ibride, in cui un
filamento è parentale e l’altro di neosintesi.

Modello conservativo
Secondo questo modello una volta separati i due filamenti del DNA parentale, questi fanno
ciascuno da stampo per il filamento complementare. Successivamente i due filamenti parentali si
riappaiano, formando così due nuove molecole: una totalmente composta da filamenti parentali,
l’altra invece esclusivamente da filamenti di neosintesi.

Modello dispersivo
Secondo questo modello invece dopo che i filamenti complementari sono stati sintetizzati, questi
si frammenterebbero (sia quelli parentali che quelli di neosintesi) venendo poi rimescolati in
maniera casuale. Si formano così dopo la prima generazione due molecole anche in questo caso
ibride, nel senso che hanno parti di filamenti parentali e parte di filamenti di neosintesi.
E SPERIMENTO DI M ESELSON AND S TAHL (C ALIFORNIA I NSTITUTE OF
T ECHNOLOGY , 1957)
Quale di questi tre modelli fosse quello corretto venne stato stabilito in base a degli esperimenti
fatti da due studiosi, Matthew Meselson (1930- ) e Franklin Stahl (1929- ), nel 1957. L’esperimento
consisteva in una centrifugazione del DNA marcato con isotopi pesanti o leggeri dell'azoto (14N e
15
N) su gradiente di cloruro di cesio.
Veniva prima riempita una provetta da centrifuga con una soluzione contenente DNA, marcato
con azoto pesante o azoto leggero (rispettivamente 15N e 14N), poi questa provetta veniva
sottoposta a centrifugazione ad altissima velocità addirittura per alcuni giorni. Successivamente
all’interno della stessa si sviluppava un gradiente di densità del cloruro di cesio e il DNA migrava
nel punto cui la sua densità eguagliava quella del CsCl. Il DNA pesante, quello marcato con 15N si
spostava più verso il basso (quello rappresentato in blu) mentre quello leggero marcato con 14N
rimaneva più vicino alla parte superiore, separandosi così dal precedente.

Fecero quindi crescere dei batteri per tanti giorni, utilizzando una cultura di Escherichia Coli, su un
terreno contenente come unico isotopo l'azoto pesante (15N). Dopodiché i batteri vennero lisati
estraendo il loro materiale genetico. Ponendo il DNA a centrifugare su un gradiente di cloruro di
cesio osservarono chiaramente un'unica banda singola verso il fondo della provetta, che
corrispondeva al DNA completamente marcato con 15N.
Successivamente i due spostarono i batteri in un terreno contenente azoto leggero (14N) e
aspettarono il tempo di una replicazione (circa 20 minuti per una cultura batterica di quel tipo che
si trova in condizioni ottimali). Presero le cellule, estrassero il DNA e lo sottoposero nuovamente a
centrifugazione su gradiente di cloruro di cesio. Osservarono anche in questo caso una banda
singola avente una densità questa volta intermedia tra quella tipica del DNA pesante e quella
tipica del DNA leggero (dimostrando così il fatto che dopo la prima generazione si otteneva del
DNA completamente ibrido).
Aspettarono poi il tempo di un'altra duplicazione, estrassero sempre da queste cellule il DNA e lo
sottoposero a centrifugazione. Osservarono questa volta due bande: una che rimaneva a densità
intermedia e l'altra che compariva a densità più bassa, cioè nella zona corrispondente al DNA
completamente mercato con l'isotopo leggero 14N (banda rappresentata in rosso).
Aspettarono poi ancora il tempo di un altro ciclo di replicazione, vedendo in questo modo che
all'aumentare dei cicli di replicazione diminuiva la grandezza della banda a posizione intermedia e
aumentava sempre di più la banda rappresentata dall’isotopo leggero 14N (banda rossa).

Grazie a questo elegante esperimento Meselson e Stahl potettero così confermare l’ipotesi
semiconservativa ed escludere sia l'ipotesi conservativa che quella dispersiva.
Nell’immagine riportata di fianco si può infatti
osservare, per i diversi meccanismi di replicazione
ipotizzati per il DNA, quali sarebbero stati i risultati
che gli studiosi avrebbero ottenuto dopo una
generazione, dopo due e dopo tre.
La prima generazione sarebbe già bastata per
escludere l’ipotesi conservativa (si formano due
bande, se ne dovrebbe formare una sola a densità
intermedia) ma non avrebbe escluso l’ipotesi
dispersiva, dove effettivamente si va a formare una
banda intermedia.

Dopo la seconda generazione l'osservazione del


risultato ha permesso di escludere anche l'ipotesi
dispersiva. Secondo l'ipotesi semiconservativa si
formano due bande: una a densità intermedia e una a
densità completamente leggera, invece nell’ipotesi
dispersiva dopo la seconda generazione rimane
soltanto una banda sempre a densità intermedia che
cresce poi in intensità e in grandezza di generazione
in generazione, non rispettando quindi il modello precedentemente descritto.

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