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Griffith

Verso la fine del 1920 lo scienziato Griffith sta cercando un vaccino per
combattere il batterio della polmonite, streptococcus pneumoniae. Nel 1928
isola il batterio dal muco dei pazienti, e lo fa crescere in laboratorio all’interno di
una capsula petri. Egli osserva che ci sono due popolazioni diverse:
- il ceppo S: smooth, forma colonie lisce, è virulento: provoca la morte dei topi
in cui viene iniettato;
- il ceppo R: rough, forma colonie rugose, è innocuo: i topi rimangono vivi.
Sapendo che il calore uccide i batteri, decide di riscaldare il ceppo S e poi
iniettarlo nei topi; egli vuole capire se questa popolazione è virulenta pure
quando i batteri sono morti: osserva che i batteri S uccisi dal calore sono innocui
e i topi non muoiono.
Allora decide di iniettare 2 ceppi innocui: i batteri S uccisi e i batteri R.
I topi qui muoiono: il ceppo S deve contenere qualche sostanza chimica che
resiste al calore e che può passare da un batterio all’altro, trasformando i
batteri innocui in batteri virulenti. Inoltre una volta trasmessa, la virulenza si
conserva nel tempo e si trasmette alle generazioni batteriche successive.
Griffith chiama questa sostanza fattore di trasformazione o fattore
trasformante.

Avery
Nel 1930 Avery riprende gli esperimenti di Griffith, perché vuole capire la natura
chimica della sostanza, del principio trasformante, cioè il materiale ereditario
o genetico, in particolare dove fosse situato. Egli condusse due esperimenti
differenti.
Nel primo ruppe il capside dei batteri S, quelli virulenti, e ne prese l’estratto
cellulare chiamato lisato; separò a questo punto le principali biomolecole,
ovvero le proteine, i polisaccaridi, i lipidi e gli acidi nucleici contenute nel
lisato e le iniettò ciascuna in un topolino diverso assieme a dei batteri S morti,
quindi non virulenti.
Il suo obiettivo era riprodurre l’ultimo esperimento compiuto da Griffith
separando però le biomolecole dei batteri S vivi per comprendere in quale di
esse fosse contenuta l’informazione.
Il topolino in cui furono iniettate proteine e i batteri S non morì, così come nel
caso dei polisaccaridi e dei lipidi; l’unico topolino a morire fu quello in cui
furono iniettati gli acidi nucleici insieme ai batteri S morti.
Le prime deduzioni di Avery furono quindi che il fattore trasformante, ossia il
materiale genetico, era contenuto all’interno degli acidi nucleici. Rimaneva solo
da scoprire se esso fosse contenuto all’interno del RNA o del DNA.

Condusse quindi un secondo esperimento.


Egli riscaldò il ceppo S di pneumococco per uccidere i batteri e poi divise il
campione in 3 provette diverse:
- nella prima aggiunge delle rnasi, enzimi che distruggono l’RNA;
- nella seconda aggiunge delle proteasi, enzimi che distruggono le proteine;
- nella terza aggiunge delle dnasi, enzimi che distruggono il DNA;
Dopo versa il contenuto delle provette in tre culture di ceppo R e vede quale si
trasforma. L’idea è che in ciascuna provetta è stato eliminato un componente
cellulare del batterio per vedere se è quella la sostanza in grado di rendere letale
un ceppo innocuo.
Il risultato è che i batteri R delle prime 2 provette si trasformano in S, quelli nella
terza rimangono innocui. Capisce quindi che solo il DNA può essere la sostanza
trasformante, perché se viene distrutto dagli enzimi non avviene la
trasformazione.

Hershey and Chase


Questi due biologi lavorano ancora per comprendere la natura del principio
trasformante, cioè il materiale ereditario e genetico; vogliono dimostrare che il
fattore trasformante è il DNA.
Nel loro esperimento introducono un nuovo elemento: il batteriofago T2, un
virus che infetta i batteri di Escherichia coli e che è costituito da DNA
impacchettato in una capsula proteica.
Quando un batteriofago T2 attacca un batterio, una parte del virus penetra nella
cellula batterica. Circa 20 minuti dopo l’infezione, la cellula va incontro a lisi e
libera decine di particelle virali. Evidentemente il virus è in qualche modo
capace di riprodursi all’interno del batterio. Hershey e Chase ne dedussero che
l’ingresso di una qualche componente virale agisse sul programma genetico
della cellula batterica ospite, trasformandola in una fabbrica di batteriofagi. I
due scienziati si chiedono se il materiale iniettato all’interno della cellula, che è
responsabile della replicazione, coincida con il DNA o con le proteine. Per
rintracciare le due componenti del virus, i due ricercatori le marcarono con
isotopi radioattivi selettivi:
- le proteine contengono zolfo, un elemento che non compare nel DNA. Lo zolfo
presenta un isotopo radioattivo, 35S. Hershey e Chase fecero sviluppare il
batteriofago T2 in una coltura batterica contenente 35S, in modo da marcare
con questo isotopo radioattivo le proteine delle particelle virali.
- Il DNA è ricco di fosforo, un elemento normalmente assente nelle proteine.
Anche il fosforo presenta un isotopo radioattivo, 32P. Così i ricercatori fecero
sviluppare un altro batteriofago di T2 in una coltura batterica contenente 32P,
in modo da marcare con questo isotopo radioattivo il DNA virale.
Usando questi virus marcati con isotopi radioattivi, Hershey e Chase eseguirono
i loro esperimenti.
In un primo esperimento, i ricercatori lasciarono che i batteri venissero infettati
da un batteriofago marcato con 32P e in un secondo esperimento da un
batteriofago marcato con 35S.
Dopo pochi minuti dall’infezione, le soluzioni contenenti i batteri infettati
furono prima agitate in un frullatore, in modo abbastanza energico da staccare
dalla superficie batterica le parti del virus che non erano penetrate nel
batterio; poi furono sottoposte a centrifugazione per separare i batteri.
Se si centrifuga ad alta velocità una soluzione, i soluti o le particelle sospese si
separano secondo un gradiente di densità:
- i residui del virus, cioè le parti che non sono penetrate nel batterio, che sono
più leggeri, rimangono nel liquido surnatante;
- le cellule batteriche, che sono più pesanti, si addensano e si depositano sul
fondo della provetta.
Hershey e Chase scoprirono così che la maggior parte delle proteine marcate
con l’isotopo radioattivo dello zolfo, 35S, era contenuta nel liquido surnatante
ed era rimasta in superficie, mentre la maggior parte del DNA marcato
dall'isotopo virale del fosforo 32S, rimaneva all’interno dei batteri e quindi si
depositava sul fondo.
Questi risultati suggerivano che a trasferirsi nei batteri era stato il DNA: quindi
era proprio questa la sostanza capace di modificare il programma genetico della
cellula batterica.

Struttura e composizione chimica DNA


Nello stesso periodo in cui i biologi utilizzano i virus per dimostrare che il
materiale ereditario era il DNA, i biochimici stanno provando a determinare la
configurazione molecolare degli acidi nucleici. All’inizio del Novecento si
scoprì che gli acidi nucleici erano formati dai nucleotidi, cioè molecole
costituite da una base azotata, un gruppo fosfato e uno zucchero pentoso, cioè
con cinque atomi di carbonio.
Il DNA, acido desossiribonucleico, è un polimero di nucleotidi, cioè contiene
quattro diversi tipi di nucleotidi, ognuno formato da uno zucchero, un fosfato e
una base azotata. Gli zuccheri e i gruppi fosfato sono uniti tra loro con legami
covalenti che formano lo scheletro della molecola; le basi azotate sono legate
tra loro da un legame idrogeno e sono inserite lateralmente allo scheletro.
Due delle basi, ovvero l’adenina e la guanina, sono caratterizzate da un doppio
anello e sono chiamate purine, le altre due, la timina e la citosina, sono formate
da anello singolo e sono chiamate pirimidine.
Come il DNA, l’RNA, acido ribonucleico, è un polimero di nucleotidi, contiene
cioè quattro diversi tipi di nucleotidi. Così come nel DNA, nell’RNA ogni
nucleotide è formato da una base azotata, un gruppo fosfato e uno zucchero.
L’RNA però differenzia dal DNA per il tipo di zucchero che contiene, ovvero il
ribosio e perché, al posto della timina, si trova un altra pirimidina, l’uracile.

Nel 1950, Chargaff determina la composizione chimica del DNA:


la quantità totale delle purine (basi azotate adenina e guanina) è pari a quella
delle pirimidine (basi azotate timina e citosina).

Nel 1952, Watson e Crick determinarono la struttura tridimensionale del DNA. I


loro studi si basano soprattutto sui risultati dei lavori di Rosalind Franklin e
Wilkins. Entrambe avevano studiato la struttura del DNA utilizzando la tecnica
della cristallografia a raggi X. Franklin scoprì che se si prepara una soluzione
concentrata e molto densa di DNA, essa può essere separata in fibre e che se
operate in condizioni adatte queste fibre appaiono abbastanza simili a un
cristallo, una sostanza solida i cui atomi sono disposti in posizioni fisse
determinate, e si possono quindi sottoporre a diffrazione con raggi X.
La figura di diffrazione tipica ottenuta dal DNA suggerì a Watson e Crick che la
forma fosse quella di una doppia elica.
In natura, il DNA si presenta con una struttura a doppia elica, una sorta di scala a
pioli formata da:
- i montanti sono costituiti dallo scheletro, formato dal legame tra lo zucchero
e il gruppo fosfato;
- i pioli, rappresentati dalla basi azotate che, unendosi con legami a idrogeno,
rendono possibile il legame fra le due catene.
L'abbinamento fra i nucleotidi può realizzarsi soltanto tra basi complementari,
cioè fra adenina e timina mediante due legami a idrogeno, o tra citosina e
guanina, mediante tre legami a idrogeno.
Le due catene, inoltre, presentano una direzionalità inversa, per cui è nato il
termine di eliche antiparallele: gli zuccheri del filamento di destra sono ribaltati
rispetto a quelli del filamento di sinistra.
Inoltre possiamo evidenziare il diverso orientamento delle due catene
considerando la disposizione dei gruppi terminali liberi, cioè non legati a un
altro nucleotide, all'estremità di ciascuna di esse.
Ogni catena presenta:
- a un'estremità, detta estremità 5’ un gruppo fosfato (-OPO);
- all'altra estremità, detta estremità 3', un gruppo ossidrile (-OH).
In una doppia elica di DNA, l'estremità 5' di un filamento corrisponde
all'estremità 3' dell'altro filamento; in altre parole, se per ciascun filamento si
traccia una freccia che va da 5' a 3', le due frecce puntano in direzione opposta.
Il segreto per cui il DNA funziona come materiale genetico risiede nella sua
sequenza di basi.

I genetisti postularono che il materiale responsabile dei caratteri ereditabili


avrebbe dovuto avere tre caratteristiche principali:
- doveva possedere in forma stabile l’informazione relativa alla struttura,
funzione, sviluppo e riproduzione delle cellule di un organismo;
- doveva essere in grado di replicare accuratamente in modo che le cellule della
progenie avessero la stessa informazione genetica della cellula parentale;
- doveva essere in grado di andare incontro a variazione. Senza variabilità gli
organismi non sarebbero in grado di mutare e di adattarsi, e l’evoluzione non
potrebbe avere luogo.
Inizialmente molti scienziati ritenevano che il materiale ereditario fosse
costituito dalle proteine, immaginando che queste ultime dovessero avere
maggiore capacità di contenere informazioni in quanto composte da 20
amminoacidi. Il DNA, con i suoi quattro nucleotidi, sembrava una molecola
troppo semplice per rendere conto della variabilità degli organismi viventi.
Duplicazione DNA
Il DNA ha la capacità di duplicarsi originando due copie identiche. La
duplicazione avviene nella fase S del corso di vita della cellula. Ovviamente la
cellula è consapevole che deve disporre la stessa quantità di materiale genetico
che c’è dentro se stessa alle due cellule figlie, allora dovrà andare incontro a una
replicazione del DNA, copiarlo e produrre due copie.
Il processo di duplicazione si basa sul processo di appaiamento delle basi
azotate.
Il primo step è la separazione dei due filamenti che avviene grazie all’enzima
elicasi, che separa i due filamenti di DNA creando una forca di replicazione.
Ciascuna catena costituirà il modello per creare un nuovo filamento di DNA.
A questo punto c’è la necessità di un enzima che vada ad iniziare la nuova catena
di DNA chiamata RNA primasi: esso compone un piccolo pezzo di RNA, primer,
che segna il punto di partenza per la costruzione di un nuovo filamento DNA e
che è indispensabile per attivare un secondo enzima, ovvero la DNA polimerasi,
la quale andrà a costituire la catena del DNA.
La DNA polimerasi si lega al primer e va a costruire il nuovo filamento di DNA.
La particolarità della polimerasi è che essa può aggiungere basi azotate solo in
una direzione: 5’—3’.
Quindi il primo dei filamenti che viene creato, sarà fatto in maniera continua ed
è chiamato filamento leader (la polimerasi aggiunge basi azotate una per una in
direzione 5’—3’).
L’altro filamento invece è chiamato filamento lagging e non può essere
realizzato allo stesso modo, perché avrà direzione esattamente inversa al primo,
quindi la polimerasi non riuscirà a costruirlo in maniera continua; di
conseguenza potrà costruire questo filamento partendo da una serie di piccoli
pezzi di DNA chiamati frammenti Okazaki.
L’RNA primasi serve sempre, ovvero l’enzima che va a costituire il primo primer
di RNA per far partire la replicazione da parte della DNA polimerasi; senza il
primer la DNA polimerasi non può lavorare perché non troverà il sito a cui
agganciarsi.
Quindi ogni nuovo frammento del filamento lagging è anticipato da un primer
di RNA, sintetizzato dall’RNA e poi la DNA polimerasi aggiunge una breve serie
di basi azotate nella direzione 5’—3’, direzione opposta a quella con cui la
doppia elica di DNA si sta aprendo; questo processo viene ripetuto fino a
quando il filamento di DNA non sarà duplicato.
Una volta raggiunto ciò, l’enzima esonucleasi rimuove tutti i primer di RNA da
entrambi i filamenti di DNA. A questo punto un’altro tipo di DNA polimerasi
riempie i buchi lasciati dai primer rimossi aggiungendo delle basi azotate del
DNA.
Infine gli enzimi DNA ligasi sigillano i frammenti di DNA, scorrono lungo i
filamenti appena creati per andare a creare una doppia elica continua.
La duplicazione del DNA è chiamata semiconservativa, perché ogni molecola di
DNA è costituita sia da un filamento vecchio sia da un filamento nuovo.

Il meccanismo della duplicazione è preciso ma non perfetto.


La DNA polimerasi compie errori che provocherebbero mutazioni nelle cellule,
ma esistono dei meccanismi per limitarli e correggerli. La DNA polimerasi
stessa funge da correttore di bozze:
- individua gli appaiamenti sbagliati;
- rimuove il nucleotide errato e lo sostituisce.
Questo è possibile poiché, in presenza di un appaiamento scorretto, mancano le
interazioni tra le basi azotate che servono per stabilizzare il complesso
stampo-innesco.

I telomeri
Le estremità del DNA degli eucarioti sono contraddistinte da speciali sequenze
di nucleotidi, chiamate telomeri, che non codificano alcuna proteina. La
funzione dei telomeri è quella di impedire all'elica di sfibrarsi, preservando così
l'informazione genetica. Hanno un importante ruolo nel determinare la durata
della vita di ciascuna cellula. Infatti si accorciano costantemente a ogni
duplicazione. Sono costituiti da un gruppo caratteristico di nucleotidi, i mattoni
base del genoma (cioè timina, adenina, guanina e citosina). Nella maggior parte
dei mammiferi la sequenza telomerica è sempre la stessa, ed è TTAGGG.
Si è osservato che le cellule dei mammiferi in coltura si dividono una
cinquantina di volte e poi smettono di farlo, poiché durante ogni duplicazione
del DNA i telomeri si accorciano (di 50-200 basi). Dopo circa 20-30 duplicazioni,
queste sequenze ripetute vengono perse e la loro assenza segnala alla cellula di
non procedere a ulteriori divisioni.
L'accorciamento e la perdita dei telomeri sono processi legati
all'invecchiamento e alla morte cellulare.
Grazie all'enzima telomerasi i telomeri sono aggiunti ai cromosomi per formare
i gameti, poiché possiede al suo interno un primer.

Beadle e Tatum
Dopo la scoperta della doppia elica, gli scienziati cercarono di capire come
l'informazione contenuta nel DNA si traducesse nell’aspetto e nel carattere
degli organismi, che dipende da molecole che catalizzano le reazioni chimiche,
ovvero gli enzimi.
I due scienziati decidono di far un esperimento interessante da due punti di
vista:
- l'organismo modello da loro scelto, ovvero la muffa del pane;
- la tecnica utilizzata, mutagenesi random.
Scelsero questa muffa perché passa tutto il suo corso vitale aploide, cioè con
una sola copia di ciascun cromosoma. La tecnica mutagenesi random consiste
nel bombardare la muffa con raggi X, che sono agenti mutageni. Le radiazioni X
interagiscono con il DNA cambiandolo in maniera casuale.
In natura la muffa è capace di crescere su un terreno minimo, ovvero su un
terreno sul quale non è stata aggiunta nessuna molecola che la muffa non è in
grado di produrre autonomamente. La muffa è capace di produrre
l’amminoacido arginina a partire da un precursore che esiste nel terreno
minimo.
Questo precursore non viene trasformato subito in arginina, ma entra in una via
metabolica: nel primo passaggio il precursore viene trasformato in ornitina,
l’ornitina poi si traduce in citrullina, e la citrullina si traduce in arginina. Questi
passaggi sono possibili grazie a degli enzimi, codificati da geni differenti: A,B,C.

Un ceppo selvatico cresce in tutti i terreni, esso è in grado di sintetizzare


l’arginina di cui necessita:
- A è l'enzima che è capace di produrre l’ornitina a partire dal precursore del
terreno minimo;
- B è l’enzima che converte l’ornitina in citrullina;
- C è l'enzima che converte la citrullina in arginina.
Un ceppo mutante 1 cresce solo in presenza di arginina, ma non in presenza di
terreno minimo, non può convertire in arginina ne l’ornitina ne la citrullina.
Essi dedussero che questo mutante ha un difetto nel gene C che codifica
l’enzima C, quindi non è capace di convertire la citrullina in arginina.
Un ceppo mutante 2 cresce in presenza di arginina e in presenza di citrullina,
quindi ha l’enzima C funzionante, di conseguenza il gene C funziona
correttamente; è il gene B presenta il problema, non è in grado di codificare un
enzima B funzionante: non converte ornitina in citrullina.
Un ceppo mutante 3 cresce in presenza sia di arginina, e citrullina e di ornitina,
ma non è capace di crescere nel terreno minimo senza aggiunte. Presenta quindi
un problema nel gene A che non codifica un enzima A funzionale.
Questo esperimento ha permesso di trovare una correlazione lineare tra difetto
sul DNA e compromissione di qualche funzione biochimica dell’organismo. I
due coniarono l’espressione ‘un gene e un enzima’: quello che succede a un gene
succede a un enzima, quindi a ogni gene corrisponde un enzima.

Il dogma della biologia


Riguarda l’informazione genetica all’interno delle principali cellule biologiche.
Esso afferma che l'informazione genetica all’interno della cellula può fluire solo
in un modo: passare dai geni alle proteine, cioè dal DNA all’mRNA e dall’mRNA
alle proteine. Il DNA quindi viene copiato attraverso la duplicazione all’interno
del nucleo, viene poi trascritto in MRNA; l’MRNA esce dal nucleo e viene letto
così dai ribosomi diventando proteina. Gli acidi nucleici possono quindi essere
trasformati in proteine, ma viceversa non può accadere.
Con il termine sintesi proteica si intende la formazione di nuove proteine da
parte dei ribosomi, organelli cellulari deputati a leggere le informazioni
presenti nel DNA. Il DNA deve essere protetto dalla cellula all’interno del nucleo,
perché contiene le informazioni necessarie allo sviluppo delle cellule, motivo
per cui se venisse modificato si incorrerebbe a delle mutazioni che porterebbero
a malattie molto gravi. Per questo il DNA deve stare protetto nel nucleo e non
trovarsi libero nel citoplasma.
Il processo di sintesi proteica avviene seguendo due fasi distinte, la
trascrizione, ovvero dove viene trascritta l'informazione, e la seconda parte
chiamata traduzione, dove il messaggio del DNA scritto con le basi azotate
verrà tradotto dai ribosomi in una sequenza di amminoacidi che va a
comporre la proteina.
Il DNA come detto in precedenza non può però uscire dal nucleo, su esso ci sono
scritte grazie alle basi azotate le informazioni per produrre le proteine. Il tratto
di DNA che produce la proteina si chiama gene.
Per questo l’ RNA copia le informazioni che ci sono sul DNA: esso è più labile ed è
più fluido rispetto al DNA. RNA quindi può uscire dal nucleo, andare nel
citoplasma e raggiungere i ribosomi e venire letto da essi. I ribosomi leggono la
catena di RNA e andranno ad aggiungere un amminoacido all’altro per produrre
le proteine.
Il processo di traduzione avviene grazie a tre tipi di RNA:
- l’ mRNA, RNA messaggero, è la molecola che svolge la funzione di intermediario
tra DNA e proteine, il filamento di RNA su cui viene copiata l’informazione del
DNA.
- tRNA, RNA di trasporto: assume importanza nella traduzione. Esso lega a
un'estremità un aminoacido particolare; esistono diversi tipi di tRNA a seconda
della tripletta di basi differente che ciascuno presenta, la quale codifica un
determinato amminoacido; quindi trasporta gli aminoacidi al ribosoma.
- rRNA, RNA ribosomiale: compone insieme alle proteine il ribosoma, svolge una
funzione strutturale, infatti le molecole di rRNA non vengono tradotte in
proteine, ma costituiscono solo i ribosomi, gli organelli cellulari su cui avviene la
sintesi proteica.

Trascrizione del DNA


La trascrizione del DNA è formato da tre fasi:
- Inizio;
- Allungamento;
- Terminazione;
La trascrizione può iniziare solo in particolari regioni del DNA chiamate
promotori, che decidono dove far partire la trascrizione, quale filamento usare
come stampo e in che direzione procedere. Ciascun promotore è composto da
sequenze di basi diverse, una è la tata-box ricca di adenina e timina; tra
adenina e timina di sono due legami a idrogeno, questo rende più facile separare
le basi e aprire la doppia elica.
La trascrizione ha inizio dalla tata-box con l’intervento di fattori di
trascrizione: questi sono proteine regolatrici, che legandosi alla tata-box
cambiano forma, causando cambiamenti conformazionali nel DNA.
A questo si aggiungono altri fattori di trascrizione e la RNA polimerasi che
catalizza, velocizza la sintesi dell’RNA.
Si forma il complesso di inizio della trascrizione: uno dei fattori apre la doppia
elica nel punto di inizio e si forma un complesso aperto.
L’RNA polimerasi unisce i nucleotidi formando un filamento di RNA: viene
aggiunto un nucleotide alla volta, usando il DNA come stampo.
Il criterio di scelta è l’appaiamento delle basi azotate: una base purinica si
appaia sempre con una pirimidinica: l'uracile e la citosina sono legate tra loro in
corrispondenza dei rispettivi zuccheri, Il carbonio in 3’ si lega con il carbonio in
5’ del nucleotide successivo, liberando così acqua e pirofosfato.
Durante la fase dell'allungamento l’RNA polimerasi si muove lungo il filamento
di DNA, svolgendo la doppia elica e riavvolgendola dietro di sé. Quando la catena
di RNA raggiunge circa 20 nucleotidi la sua estremità 5’ viene modificata
chimicamente attraverso il processo detto capping.
La fase finale è detta terminazione, essa si verifica quando la RNA polimerasi
scorrendo sul filamento di DNA incontra delle particolari sequenze dette
sequenze di arresto o terminatrici. A questo punto il filamento di RNA viene
rilasciato e la polimerasi si dissocia dal DNA.
I geni degli eucarioti sono costituiti da sequenze nucleotidiche codificanti
chiamate esoni intercalate a regioni non codificanti dette introni. Gli esoni
verranno espressi in proteine, mentre gli introni non verranno espressi.
Quando si forma dal DNA la copia di RNA, vengono trascritti sia gli esoni sia gli
introni e l'RNA messaggero che si forma viene detto trascritto primario. Prima
di lasciare il nucleo, il trascritto primario subisce delle modificazioni: alle
estremità vengono applicati un cappuccio all'estremità 5’ e una coda
all'estremità 3’ e gli introni vengono rimossi, fino a ottenere un mRNA maturo.
Il cappuccio è un nucleotide di guanina modificato, che comunica al ribosoma
in che punto attaccarsi quando ha inizio la traduzione. La coda è invece
costituita da una catena di 150-200 nucleotidi contenenti adenina, sequenza che
facilita il trasporto di mRNA al di fuori del nucleo e, inoltre, impedisce la
degradazione dell'mRNA da parte degli enzimi idrolitici.
Gli introni sono rimossi grazie a un processo chiamato splicing, che viene
effettuato dagli spliceosomi, complessi enzimatici formati da proteine e
molecole di RNA nucleari (snRNA o small nuclear RNA).
Uno spliceosoma taglia I'mRNA, elimina gli introni e riattacca le regioni
adiacenti degli esoni; si forma così un RNA maturo, che è stato elaborato ed è
pronto per essere tradotto.
Traduzione del DNA
La traduzione avviene nel citoplasma sui ribosomi.
Ogni ribosoma è composto da due subunità, la subunità minore e maggiore.
Esse si associano tra di loro insieme anche all’mRNA. Ogni subunità è formata da
un particolare tipo di RNA e da proteine.
I ribosomi scorrono lungo l’mRNA leggendo la sequenza di nucleotidi e
formando una sequenza di amminoacidi: si forma così la catena polipeptidica.
L’informazione genetica è organizzata in gruppi di tre nucleotidi o triplette,
chiamate codoni. A ciascuna tripletta, ovvero il codone, corrisponde un
amminoacido specifico, l'insieme delle corrispondenze codone-amminoacido è
detto codice genetico; sono 64 le combinazioni possibili. Tre di quei codoni non
corrispondono a un amminoacido, ma sono codoni di stop che indicano la fine
della traduzione; rimangono 61 codoni per 20 amminoacidi.
Un codone corrisponde solo a un amminoacido, ma un amminoacido può
essere codificato da più codoni. Quasi tutti gli amminoacidi sono associati a più
di un codone: quindi il codice genetico è ridondante, cioè la maggior parte degli
amminoacidi è codificata da più di un codone o degenerato ed è univoco, cioè
ciascuna tripletta ha un solo e unico significato.
Tornando alla traduzione, oltre a ribosomi e mRNA interviene anche la molecola
RNA transfer. Il tRNA ha la funzione fondamentale, perché permette di
aggiungere ciascun amminoacido al posto giusto. Perché?
All’estremità 3’ del tRNA si trova il sito di attacco dell’amminoacido, dalla parte
opposta c’è una sequenza di tre nucleotidi che si associa tre nucleotidi
complementari presenti sul RNA messaggero: il tRNA ha cioè un anticodone,
tripletta complementare a un codone dell'mRNA.
Esistono almeno un tipo di tRNA per ognuno dei 20 amminoacidi, essi si
differenziano per il sito di attacco e l’anticodone. Ogni tRNA può portare solo 1
tipo di amminoacido, ma può avere anticodoni diversi.
Il legame tra tRNA e amminoacido è caratterizzato da enzimi chiamati
amminoacil-tRNA-sintetasi, ogni enzima è specifico per un solo amminoacido e
per il tRNA corrispondente. Il legame avviene tra l'aminoacido e l'estremità 3’ del
tRNA, sito d’attacco, e utilizza 1 ATP come fonte di energia.
Nella fase di inizio la subunità minore del ribosoma si lega a un fattore di inizio
e insieme si legano all’estremità 5’ del primo mRNA. La subunità scorre in
direzione 5’—>3’ fino a quando non incontra un codone detto di inizio. A questo
punto interviene un tRNA detto iniziatore che si lega al codone di inizio.
Un’altra proteina completa la formazione del complesso di inizio. Il codone di
inizio corrisponde a un’unica tripletta AUG, il tRNA iniziatore ha quindi sempre
la sequenza complementare UAC. Questo tRNA lega sempre l’amminoacido
metionina. Dopo che è avvenuto il riconoscimento i fattori di inizio si dissociano
e si associa la subunità maggiore del ribosoma.

Inizia la fase di allungamento: il tRNA iniziatore si trova nel sito P accanto ad


esso si trova il sito A, che è il punto di arrivo del successivo tRNA che va a legarsi
all’RNA messaggero con il suo anticodone. Grazie alla strutture dei tRNA i due
amminoacidi si trovano vicini e possono legarsi tra loro. Il secondo codone
corrisponde alla tirosina.
Il legame è di tipo peptidico e avviene tra il gruppo amminico della tirosina e il
gruppo carbossilico della metionina, con rilascio di una molecola d’acqua.
La subunità maggiore catalizza la formazione del legame tra i due
amminoacidi.
Attraverso una serie di movimenti coordinati detti traslocazione, i tRNA si
muovono tra i diversi siti del ribosoma. Il tRNA che lega la catena amminoacidica
si trova ora nel sito P, mentre il tRNA che legava la metionina ormai scarico si
sposta nel sito E; da qui lascia il ribosoma e torna nel citoplasma, dove un
amminoacil-TRNA-sintetasi lo lega a una nuova metionina.
Un nuovo tRNA entra nel sito A e l’amminoacido viene legato alla catena
polipeptidica nascente. Il ciclo si ripete: avviene la traslocazione, il tRNA scarico
va nel sito E e un nuovo tRNA carico si lega al sito A.
La catena polipeptidica si allunga.

Fase di terminazione:
Esiste un codone di stop sull’RNA messaggero che indica al ribosoma di fermarsi,
a differenza del codone di inizio il codone di stop non è è unico, in questo caso è
UAA ma può essere anche UAG o UGA. Nessun tRNA ha anticodone
complementare a queste tre triplette.
Quando un codone di stop si trova nel sito A, al ribosoma si legano alcune
proteine, chiamate fattori di rilascio. Questo legame modifica l’attività del
ribosoma che separa la catena polipeptidica dal tRNA nel sito P.
Le due subunità del ribosoma e il tRNA si dissociano e parteciperanno a un altro
ciclo di sintesi proteica.

La catena polipeptidica ottenuta con la traduzione:


La sequenza lineare di amminoacidi rappresenta la struttura primaria della
proteina, ma già durante la sintesi il polipeptide inizia a ripiegarsi per assumere
la sua struttura tridimensionale.
Gli amminoacidi adiacenti nella sequenza interagiscono tra loro, si formano
strutture regolari e ripetitive che costituiscono la struttura secondaria della
proteina. I principali tipi di strutture secondarie sono: alfa elica e il foglietto
beta. Queste due sono tenute insieme da legami a idrogeno.
Altri legami si possono creare tra amminoacidi non adiacenti della sequenza,
l’insieme di questi forma la struttura terziaria della proteina. Essa corrisponde
alla struttura globale di una singola catena di amminoacidi cioè al modo in cui
gli atomi sono disposti nello spazio.
Alcune proteine sono formate dall’associazione di più polipeptidi, in questo caso
il modo in cui le catene sono associate tra loro rappresenta la struttura
quaternaria.

Le mutazioni
Le mutazioni cambiano la sequenza delle basi del DNA e possono essere:
- genetiche: possono alterare l'espressione genica e sono cambiamenti
permanenti;
- germinali: avvengono nelle cellule sessuali e possono essere trasmesse alle
progenie ;
- somatiche: avvengono nelle cellule del corpo e non vengono trasmesse alle
progenie.
Possono essere:
- spontanee se si verificano durante la duplicazione senza intervento di fattori
esterni;
- indotte da agenti, i mutageni, che possono essere chimici (benzene, piombo,
idrocarburi) o fisici (radiazioni ionizzanti o non ionizzanti).
Le mutazioni vengono classificate in base all’ampiezza del cambiamento: sono
geniche se riguardano un cambiamento permanente, sono cromosomiche se
riguardano un segmento di DNA, genomiche quando si verifica una variazione
del numero di cromosomi.

Mutazioni geniche
Le mutazioni geniche vengono divise in due tipi:
- mutazioni puntiformi: implicano un cambiamento in un singolo nucleotide e
di conseguenze un cambiamento in uno specifico codone;
- mutazioni di sfasamento: avvengono soprattutto per inserzione o delezione di
uno o più nucleotidi e il risultato può essere una nuova sequenza di codoni che
dà origine a una nuova proteina non funzionale.

Le mutazioni puntiformi
1. Mutazione silente: la terza base, ovvero la base ballerina è stata mutata, ma
siccome più codoni codificano lo stesso amminoacido non c’è un cambiamento
della catena peptidica.
2. Mutazione non senso: si dà origine al codone di STOP prima del termine della
catena, si crea quindi una proteina non funzionante.
3. Mutazione di senso: si produce una proteina funzionale che non è quella di
prima, ma simile. Per esempio l’anemia falciforme che produce la proteina
emoglobina ma non sana, ci sono problemi nell'apporto di ossigeno e di
circolazione.
4. Mutazione frameshift: qui viene inserita una base in più al posto di sostituirla
e così cambia tutta la sequenza successiva e anche le triplette/codoni.

Effetto mutazioni geniche


- se modifico la base finale creo proteina incompleta o normale;
- se modifico la base iniziale creo proteina difettosa e non funzionante;
- se invece intacca una via metabolica, per esempio il gene che codifica l’enzima
A causa la malattia Fenilchetonuria (porta a morte); mentre sul gene di enzima B
causa l’ albinismo, non passa da tirosina a melanina.

Mutazioni cromosomiche
Riguardano una parte del cromosoma e non solo un nucleotide.
1. delezione: il cromosoma di rompe e perde una parte;
2. duplicazione e delezione: un cromosoma perde una parte che poi si inserisce
nel cromosoma omologo che si raddoppia;
3. inversione: un cromosoma perde una parte e poi questa si reinserisce in modo
invertito nel cromosoma omologo;
4. traslazione reciproca: cromosomi non omologhi si scambiano frammenti.
Queste mutazioni sono dovute a i trasposoni o ‘geni che saltano’, sequenze di
DNA che possono essere soggette a spostamenti da un sito all’altro dello stesso
cromosoma. I trasposoni sono in grado di bloccare la trascrizione.

Mutazioni genomiche
Dipendono dalla divisione cellulare.
Nelle cellule somatiche avviene la mitosi: divido il patrimonio genetico in due
cellule figlie uguali alla cellula madre, 46 come corredo cromosomico. Le cellule
prodotte dalla mitosi sono diploidi
Nelle cellule germinali, ovulo e spermatozoo, avviene la meiosi: si producono
quattro cellule figlie, i gameti con corredo cromosomico dimezzato, 23.
Le cellule prodotte dalla meiosi sono aploidi. La meiosi può essere suddivisa in
due fasi:
- meiosi 1 : separazione/disgiunzione dei cromosomi omologhi nelle cellule figlie,
ciascun cromosoma risulta ancora composto da due cromatidi fratelli.
- meiosi 2: separazione ulteriore dei cromatidi fratelli.

Errori nelle mutazioni genomiche


1) Può succedere che non avviene disgiunzione nella meiosi 1, quindi una cellula
figlia ha entrambi i cromosomi e l'altra 0
2) Può succedere che non avviene la disgiunzione nella meiosi 2, quindi due
cellule figlie hanno più cromosomi(2) e due ne hanno di meno(1).
La non-disgiunzione tra cromatidi, aneuploidia, porta alla produzione di gameti
con uno o più cromosomi in eccesso e di altri con uno o più cromosomi in
difetto.
La sindrome di Down è una condizione dovuta alla presenza di 3 copie del
cromosoma 21.
La sindrome di klinefelter: nei cromosomi sessuali, in posizione 23 ha XXY, si ha
un individuo uomo che presenta caratteri femminili.
La sindrome di Turner: alla donna manca un cromosoma X, ne ha solo 1. Sembra
bambina, bassa, esile.
Il cancro
L’apoptosi è un meccanismo molto importante per la prevenzione della
cancerogenesi.
Nel cancro la cellula perde il controllo del ciclo cellulare a causa di mutazioni a
carico dei:
- protoncogeni, che codificano per proteine che promuovono il ciclo cellulare e
inibiscono l’apoptosi;
- geni soppressori dei tumori, che codificano per proteine che inibiscono il
ciclo cellulare e favoriscono l’apoptosi.
Quando i protoncogeni subiscono mutazioni diventano oncogeni e
impediscono l’apoptosi. Infatti, l’azione anormale degli oncogèni e dei geni
soppressori dei tumori provoca un’espressione esagerata dei geni per la ciclina
e la produzione di proteina p53 non funzionante.
Nel cancro i prodotti di geni difettosi interferiscono con la trasduzione del
segnale.
In un percorso stimolatorio normale, il protoncogène codifica per una proteina
che stimola il ciclo cellulare. In un percorso stimolatorio anormale, l’oncogène
codifica per una proteina che iperstimola il ciclo cellulare.
In un percorso inibitorio normale un gene soppressore dei tumori codifica per
una proteina che inibisce il ciclo cellulare. In un percorso inibitorio anormale un
gene soppressore dei tumori mutato codifica per una proteina incapace di inibire
il ciclo cellulare e favorisce l’apoptosi.
La cancerogenesi, ossia lo sviluppo di un tumore maligno, richiede l’intervento
di numerose mutazioni. Il processo risulta quindi graduale.
Le cellule del tumore rilasciano fattori di crescita che promuovono
l'angiogenesi, ossia la formazione di nuovi vasi sanguigni. Le cellule tumorali
invadono anche i vasi linfatici e sanguigni, e vengono così trasportate ad altre
parti del corpo. Quando le cellule cancerose danno origine a nuovi tumori in
distretti lontani dal tumore originario, si dice che il cancro è in metastasi.

La terapia del cancro prevede diverse tipologie di trattamento:


- La diagnosi del cancro richiede un’attenta valutazione della salute generale e
un esame medico del paziente (esami del sangue e delle urine, indagini per
immagini, biopsia, esami endoscopici e chirurgici, test genetici).
- L’asportazione chirurgica è indicata per i cancri in situ, ma vista il rischio di
lasciare alcune cellule malate, gli interventi sono spesso preceduti e/o seguiti da
chemioterapia e/o radioterapia.
- La chemioterapia è il trattamento del cancro con farmaci e tende ad agire in
modo selettivo sulle cellule cancerose.
- La radioterapia si basa sull’uso di radiazioni ionizzanti che colpiscono con forte
energia le cellule cancerose danneggiandole o distruggendole.
Cas 9
Si basa su un sistema naturale utilizzato dai batteri per proteggersi dall'infezione
da virus. Quando il batterio rileva la presenza di DNA virale, produce frammenti
di corti RNA una delle quali contiene la sequenza del virus invasore. Ma queste
formano un complesso con una proteina chiamata cas9, nucleasi, enzima che
può tagliare il DNA. Quando la sequenza corrispondente, chiamata RNA guida,
trova il suo bersaglio all'interno del genoma virale, il cas9 taglia il DNA bersaglio
disabilitando il virus. Questo può essere utilizzato anche all'interno di una
cellula, per tagliare anche qualsiasi sequenza di DNA in una posizione precisa
modificando l'RNA guida. Quando il complesso entra nel nucleo, questo si
straccherà a una corta sequenza chiamata PAM si blocca in una breve sequenza.
Il CAs9 aprirà l’elica il DNA e lo abbinerà al suo RNA bersaglio. Se le
corrispondenze sono complete, il cas9 utilizzerà le due forbici molecolari per
tagliare il DNA. Quando ciò accade, la cellula cerca di riparare il taglio, ma il
processo di riparazione è soggetto a errori, incline alla mutazione alle sigarette
elettroniche quests mutazioni si apposizione corre sequenza Di dna che vadano a
richiudere il taglio fatto dal CAS9

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