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Properzio nell’elegia 7 (libro IV) racconta la morte della sua amante: il suo fantasma gli è apparso

durante la notte che ha trascorso senza riuscire a dormire. Antonio La Penna ci dice che nell’elegia
7 ai versi 77-78 (et quoscumque meo fecisti nomine uersus,ure mihi: laudes desine habere meas)
Cinzia chiede a properzio di bruciare le elegie che la riguardano, poiché solo inizialmente le
davano gloria, essendo prova del suo amore passato. Ciò chiarisce la risposta positiva di
Properzio alla condizione che Catullo pone nel Carme 96 (si quicquam potest accidere). Qualcosa
può giungere nell'aldilà, a tal punto che chi vi si trova chiede di non essere più fonte di ispirazione
della poesia (Properzio aveva detto a Mecenate che lui poteva essere ispirato solo da Cinzia).
sulla base di ciò si può fare anche un’altra riflessione: in un carme, Properzio scrive riferendosi a
Cinzia: “ io ti ho descritto come una donna bellissima, ho paragonato il colore del tuo volto a quello
della luna, ma è stata la mia poesia a plasmarti come una figura bella.” E aggiunge: “in realtà il
candore del tuo volto non era naturale, ma frutto di medicamina (ossia cosmetici) “. Properzio così
la sta accusando di una bellezza artefatta, qualcosa di terribile, addirittura le augura che la ruga
che nascondeva potesse decretare la sua fine. Quindi è vero che Cinzia chiede di bruciare le
elegie perché ritiene di esserne stata la fonte, ma è vero anche che è stato Properzio a dare forma
al suo personaggio. Egli quindi rivendica il suo ruolo poiché è lui che l'ha resa immortale attraverso
la poesia per questo non dovrebbe bruciare le elegie. Ovidio più tardi riprende il percorso degli
elegiaci e fa tesoro della loro gioia e sofferenza. Elabora dunque L’Ars Amandi. Vuole fare in modo
che l’amore non produca dolore e crea un manuale d’amore, così come faceva per quelli d’arte
militare, di retorica e di medicina. In Ovidio c’è un punto di contatto con Properzio anche per quel
che riguarda i “medicamina” delle donne (per cui Properzio aveva rimproverato Cinzia). Ovidio
infatti scrive un’opera, i “Medicamina faciei feminae” in cui spiega alle donne come utilizzare i
cosmetici, esattamente come nell’Ars Amandi aveva spiegato loro come vestirsi e atteggiarsi e
come rispondere al corteggiamento ( e lo stesso per gli uomini, quindi come corteggiare e come
evitare il rifiuto). Ovidio manifesta il suo straordinario talento letterario negli Amores ed accanto alla
maniera, ai temi e ai toni della tradizione, si avvertono però anche i tratti nuovi, gli elementi
originali e caratterizzanti dell'elegia ovidiana. Anzitutto - ed è forse la novità più vistosa - manca
una figura femminile che costituisca il centro unificante dell'opera: i poeti d'amore precedenti,
Catullo e Properzio, avevano costruito la propria attività poetica attorno a un'unica donna, a un
solo grande amore che di quell'attività costituisse il fine e il senso. Con Ovidio non è così: Corinna,
la donna evocata qua e là con uno pseudonimo greco, è una figura tenue, dalla presenza
intermittente e limitata, di cui si sospetta perfino la reale esistenza. Non solo: il poeta stesso
dichiara a più riprese di non sapersi appagare di un unico amore, di preferire due donne o
addirittura di subire il fascino di qualunque bella donna.
Nell’articolo “il terrore dell’eroina da Catullo a Ovidio" notiamo che Ovidio si ispira nuovamente al
modello catulliano utilizzando l’espressione “lingua sed torpet” per indicare un’emozione forte.
Come abbiamo già visto nel carme di catullo “ille mi par esse” l’espressione “lingua torpet“
appartiene al campo psicologico col significato figurato di essere indolente, frenato, bloccato dalla
paura; nel frammento 31 di Saffo invece l’espressione “εαγε” (da καταγνυμι “fare in pezzi”)
presenta un significato concreto e fisico ed è riferita alla parte fisiologica.
Un altro spunto di riflessione è presente nell’articolo “Calvo e Quintilia e l’esegesi del c.96 di
Catullo” in cui viene riportato il termine “missas” a confronto con “amissas” (pag.128-129). “Missas”
indica qualcosa che è stato lasciato ma che non è stato perso; “amissas” rafforza invece
l’abbandono, si tratta di un lasciar andare quasi definitivo. In merito a ciò, Catullo comprende che
ciò che è perso è da considerare tale definitivamente, ma non arriva mai, nonostante le
provocazioni, a volere il male di Lesbia. Lo stesso per Properzio, che però ancora non organizza il
sentimento di fronte al discidium. Ovidio da questi percorsi arriva all’idea di dissimulazione:
simulare significa nascondere qualcosa di falso e farlo apparire vero; dissimulare invece ha un
significato più sottile: l’uno e l’altro sanno che c’è una simulazione la cui verità si conosce, ma
occorre dissimulare per rendersi meritevole, attraverso un percorso di corteggiamento e
schermaglia amorosa, dell’amore dell’altro. Il limite non è stabilito unilateralmente. Si deve
continuare il corteggiamento avendo la certezza che il rifiuto è una dissimulazione, ma al fondo
della verità c’è un legame. Nell’antichità il corteggiamento era indispensabile nell’amore:
l’innamorato/a è in totale devozione dell’altro, non chiede nulla in cambio dei suoi servigi e
possederlo/a è quasi impossibile, inoltre deve continuare, senza imporre per forza una risposta
positiva. Questo nuovo approccio all’amore che nasce nelle corti del XII secolo (da cui il suo
nome), “Amor cortese”. Da qui il conflitto tra amore e religione e la condanna della chiesa per
l’amor cortese. Gli amanti sono combattuti fra due sentimenti: la dedizione e l’amore per l’altro e
l’adorazione e l’amore per Dio.
Esempio cardine di ciò è Lancillotto, che infatti si inginocchia davanti alla sua amata Ginevra e la
adora come su un altare. Viene alla luce così il contrasto fra religione cristiana e amor cortese,
inteso quasi come religione alternativa. Quest’amore genera sofferenza, tormento ma anche gioia,
sembra essere volontariamente ritardato dal fato, attento ad imporre una tensione, un indugio fra il
desiderio e la sua soddisfazione, necessario all’amore. Tornando al carme 96 (come scrive Della
Corte nel commento del carme catulliano) Licinio Calvo aveva perduto l’amata Quintilia e l’aveva
pianta in elegie, alle quali allude Properzio. E’ importante sottolineare come nel carme 96 Catullo,
pur non credendo nella vita dopo la morte, vede nel rapporto tra Licinio Calvo e Quintilia la
possibilità di un legame che va oltre la morte, aggiungendo anche che Quintilia non proverà troppo
dolore per la sua morte immatura, in quanto godrà sempre dell’amore di Calvo (vv.5-6). Questo
legame che va oltre la morte lo ritroviamo anche nella tragedia dell’Alcesti di Euripide. Admèto,
destinato dal fato a una morte prematura, ha ottenuto da Apollo di aver salva la vita se un altro si
offrirà di morire al suo posto. L'unica a offrirsi è stata Alcesti, sua sposa. In punto di morte Alcesti
chiede ad Admeto di rimanerle fedele e Admeto, le promette che una statua con le sue sembianze
la sostituirà nel talamo.

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