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Esame Chimica e propedeutica biochimica;

6 CFU, 60 ore
Docente Enrico Sanjust
Lezione 1
Sbobinatori
Controllore Alessandro Argiolas

Da aggiungere alla già presente sbobina:

• (Pag. 1, “Introduzione”) É tra il 700 e l’800 che l’alchimia lascia spazio alla chimica. Nel 900, invece,
troviamo i primi studi effettuati sulla forma delle molecole.

• (Pag. 6, “Elementi: abbondanza e importanza”) Gli elementi che troviamo all’interno del nostro
organismo si possono dividere in: macroelementi (es. Sodio e Potassio), sono presenti ed
indispensabili in grandi quantità; gli oligoelementi che, invece, sono necessari in quantità
controllate; microelementi (es. Selenio), infine, sono storicamente sempre stati considerati inutili e
dannosi per l’organismo, cosa che in tempi relativamente recenti è stato rivalutata (bensì il Selenio
sia tossico, in piccole quantità è indispensabile). Elementi come il Piombo (Pb), il Mercurio (Hg) ed il
Cadmio (Cd), meglio definiti sotto il nome di “metalli pesanti”, non partecipano in nessun modo al
fabbisogno dell’organismo bensì lo danneggiano (es. saturnismo, l’intossicazione da Piombo).

• (Pag. 7, “Composizione in elementi del corpo umano”) In ordine di peso nel nostro organismo
troviamo: Ossigeno (O), Carbonio (C), Idrogeno (H), Azoto (N), Calcio (Ca), Fosforo (P).

• (Pag. 8 “Composti: le formule chimiche”) È bene ricordare che gli atomi non si trovano in uno stato
stazionario, ma di moto (es. vibrazionale). Questo fa comprendere che i vuoti che si formano nel
rappresentare le molecole sono solamente apparenti e che nella realtà dei fatti vengono riempiti
dalla dinamicità con la quale gli atomi relazionano fra loro.

• (Pag. 9 “Isomeri: cenni”) Credo sia interessante approfondire un po’ di più ciò che succede all’11-cis-
retinale, piccola molecola fotosensibile che troviamo nell’opsina, proteina che compone la
rodopsina. È interessante sapere che è possibile convertire l’11-cis-retinale in 11-trans-retinale con
l’intervento di un solo fotone e che, questa, si trasforma 2/3 delle volte che questo accade
solamente grazie al fatto che l’opsina la flette per facilitare il passaggio da cis (piegata) a trans
(distesa). Privata della sua proteina ospitante, infatti, perde la METÀ della sua efficacia (1/3 delle
volte). Non sono nozioni indispensabili ma come ha incuriosito me, spero possa incuriosire anche
voi.

• (Pag. 11 “Isotopi”) Dall’elemento numero 92 della tavola periodica (Uranio) in poi il decadimento è
tanto veloce che diventa difficile scovare tali elementi in natura.
Esame Chimica e propedeutica biochimica;
6 CFU, 60 ore
Docente Enrico Sanjust

Lezione n.1 del 12/10/20

Sbobinatore Federica Cogoni

Controllore Beatrice Lilliu

Testi consigliati
• “Chimica Generale, chimica organica, propedeutica biochimica”  Denniston, Topping, Caret,
McGraw, Hill. Link presente nelle slide: mcgraw-hill.it
• “Chimica e propedeutica biochimica”  Bettelheim, Brown, Campbell, Farrell, EdiSES. Link presente
nelle slide: edises.it
• “Chimica medica e propedeutica biochimica”  Bellini, Zanichelli. Link: myzanichelli.it
• Chimica propedeutica alle scienze bio-mediche”  Santaniello, Coletta, Malatesta, Zanotti, Marini,
Piccin. Link: piccin.it
Il docente precisa che esistono numerosi testi ma consiglia questi in quanto li ha sfogliati. Possono essere
utilizzati testi che “passano di mano in mano” ma precisa che la chimica evolve di anno in anno, per cui questi
sono i più consigliati. I libri si trovano anche in biblioteca.
Modalità d’esame
Non sono ancora note, aspettiamo aggiornamenti.
Contatti
Tel. 070-6754518
E-mail: sanjust@unica.it
Introduzione
La chimica è la scienza che studia alcune proprietà della materia, così come alcune le studia la fisica e altre
sono a cavallo tra queste due scienze.
L’universo, per quanto ne sappiamo, è costituito da materia, la quale a sua volta è costituita da una serie di
piccolissimi mattoni da costruzione, gli atomi.
“Atomo” è una parola che deriva dal greco classico e significa “indivisibile”. Fu una grande intuizione, in
quanto era impossibile da verificare, del filosofo greco Democrito, il padre della cosiddetta “teoria
atomistica”.
È passata molta acqua sotto ai ponti dall’epoca di Democrito e il concetto di atomo si è modificato: la tecnica
moderna e le acquisizioni scientifiche ci consentono di studiare gli atomi molto più da vicino.
Tutta la materia, sia essa inanimata o animata (vivente), è costituita da atomi. Un paragone banale potrebbe
essere quello delle costruzioni “Lego”, che son fatte da tanti mattoncini che possono essere combinati in
modi diversi per formare composizioni sempre differenti.
Di questi mattoncini, in natura, se ne trovano in quantità apprezzabili 92 tipi diversi, che seguono delle regole
ben precise per unirsi tra di loro formando delle combinazioni chiamate molecole.
Uno dei compiti dello studio della chimica è appunto capire qualcosa di più su come sono costituiti questi
atomi e come, a seconda della diversa costituzione dei vari tipi di atomi, corrispondano delle regole con cui
si formano delle molecole.

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Le molecole, a loro volta hanno delle proprietà ben precise e individuabili che servono a spiegare il
comportamento, nel senso più ampio del termine, della materia: materia che forma l’universo, i minerali
(mondo inanimato) e la materia vivente, compresa quella che interessa maggiormente a noi (il corpo umano)
e altre forme di vita che con il corpo umano hanno delle interazioni, favorevoli o sfavorevoli a seconda delle
situazioni.
Nell’immagine sottostante le frecce indicano una consecuzione logica: ossigeno e idrogeno non formano
molecole di acqua che poi formano proteine, si sta andando a delineare mediante esempi un grado di
complessità strutturale e funzionale crescente.
Si parte dalle particelle più elementari, oggetto di studio della chimica: gli atomi e alcuni loro componenti.
Anticipiamo che non è vero che gli atomi sono indivisibili: tutti i processi legati al fenomeno della radioattività
(fisica e/o chimica nucleare) dimostrano che gli atomi si possono dividere per fissione nucleare o fondersi
(attenzione, non unirsi a formare molecole!) mediante fusione nucleare formando nuovi atomi.
Da qualche miliardo di anni è ciò che avviene nella nostra stella, il sole, e che produce, liberando enormi
quantità di energia, la luce e il calore che in piccolissime quantità giungono sul nostro pianeta e lo riforniscono
di quell’energia che è stata capace di dar luogo a tutte le trasformazioni (geologiche, climatiche, ecc) e alla
nascita e sviluppo della vita sulla Terra.
Si parte dagli atomi che si possono (non
significa devono) combinare a formare
nuove entità, le più piccole entità
materiali possibili: le molecole.
La molecola rappresentata è l’acqua,
costituente fondamentale di tutte le
forme di vita e componente di
maggioranza del corpo umano.
Vi è poi la schematizzazione di molecole
via via più complesse, come le
macromolecole (dal greco classico
grande), tra le quali si identificano le
proteine.
Le proteine sono tra le biomolecole più
significative, ossia quelle molecole
caratteristiche dei sistemi viventi.
Proteine e altre sostanze (ne parleremo
più avanti) formano gli organelli (o
organuli) che sono parte integrante di
strutture più complesse: le cellule.
Le cellule (dal latino cellula=piccola
stanza) sono anch’essi mattoni da costruzione del mondo vivente: varie cellule (uguali o diverse tra loro) si
organizzano opportunamente a formare tessuti.
I tessuti a loro volta costituiscono gli organi, i quali costituiscono l’organismo umano.

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La materia
Nell’immagine è possibile osservare
dei modi di dire scientifici
(ricordiamo che nel linguaggio
scientifico i sinonimi sono una rarità,
a una certa entità corrisponde un
nome ben preciso che non è possibile
modificare perché ci deve essere una
corrispondenza biunivoca).
Ad esempio: se io dico “fegato” non è
che volevo dire “cuore”. Dicendo
“fegato” sto individuando in una
maniera inequivocabile un certo
organo. Così come molecola è una
cosa, atomo un’altra, sostanza pura
un’altra ancora.
La materia è genericamente
definibile come qualsiasi cosa avente
massa e in grado di occupare spazio.
La materia (che ci circonda o preparata in laboratorio) può essere suddivisa in sostanze pure e miscele.
Le sostanze pure hanno una composizione fissa e caratteristica di quella sostanza e diversa da quella di tutte
le altre sostanze pure. Per esempio, possiamo dire che una sostanza pura è formata da molecole tutte
identiche tra di loro.
Esistono, e sono comunissime, anche sostanze in cui esistono due o più (anche migliaia) di molecole tra loro
diverse, questo tipo di sostanze (sebbene costituite da sostanze pure) non sono sostanze pure bensì miscele.
Le sostanze pure a loro volta si distinguono in due sottoclassi:
• Elementi: un elemento è costituito da molecole formate tutte da un solo tipo di atomo. Ad esempio,
un pezzo di ferro è una sostanza pura (se contiene solo ferro) ed è un elemento perché le molecole
di ferro sono fatte tutte da atomi di ferro.
Per convenzione, nel caso dei metalli, si dice che si tratta di molecole monoatomiche: ciascuna
molecola è costituita da un solo atomo.
• Gli elementi possono unirsi (vedremo in seguito con quali modalità) per formare i composti. Non
sono miscele fisiche: non ho mischiato inchiostro giallo con inchiostro azzurro per ottenere quello
verde. C’è un legame caratteristico che unisce due o più diversi elementi per formare i composti.
Si tratta di elementi chimicamente combinati in rapporti fissi.
Queste molecole che si son formate devono essere tutte uguali tra di loro, altrimenti non sarebbe
più una sostanza pura. Esempi sono l’acqua (H2O) e il metano (CH4) che possono essere scissi nei loro
atomi corrispondenti.
Le miscele sono combinazioni di due o più sostanze pure. Le miscele, infatti, possono essere chimicamente
separabili in sostanze pure. A loro volta, possono essere:
• Omogenee: a vista ci sembra una sostanza pura
• Eterogenee: anche a vista (o eventualmente con un microscopio) si vede che sono formate da diverse
particelle.
In chimica-fisica quando in una miscela c’è una coesistenza di due o più sostanze fisicamente distinte, diciamo
che sono presenti più fasi.

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Gettando dello zucchero in acqua e mescolando fino a quando non si scioglie, si ottiene una miscela
omogenea perché non è possibile individuare, fisicamente, le molecole dell’acqua e quelle dello zucchero.
Gettando invece nell’acqua della polvere di caffè, è sempre possibile verificare facilmente che sono presenti
due fasi differenti: li posso anche separare. In questo caso si ha una miscela eterogenea.
È possibile avere miscele eterogenee in cui questa separazione diventa più ardua perché le particelle delle
due sostanze che sto mescolando possono essere talmente fini che si rende necessario un microscopio per
individuarle.
Riassumendo, le miscele omogenee presentano una sola fase visibile, che ha le stesse proprietà chimico-
fisiche in ogni punto. Le miscele eterogenee, invece, presentano due o più fasi visibilmente distinte, ciascuna
delle quali ha proprietà differenti.
L’aria, in teoria, è una miscela omogenea in quanto i gas sono tra loro miscibili in qualunque rapporto:
otterremo sempre una fase unica. Tuttavia, se io sono in una stanza in cui ho abbassato le tapparelle, io vedo
le lame di luce che passano dai fori. Mettendomi di lato, non facendo colpire i miei occhi dalla luce, riesco a
seguire il tragitto dei raggi di luce che entrano in quella stanza.
Questo si ha perché l’aria di quella stanza, che in teoria dovrebbe essere omogenea, in realtà non lo è: è
eterogenea perché è presente il pulviscolo atmosferico. Noi possiamo accorgerci della non omogeneità
dell’aria grazie al fatto che il pulviscolo riflette la luce che penetra nella stanza. Anche se a primo impatto
posso pensare che l’aria sia una miscela omogenea, in realtà non lo è: non basta sempre un’osservazione
superficiale.
Omogeneo e eterogeneo: chimica e fisica
Nell’immagine possiamo osservare quattro bicchieri.
Il bicchiere (a) contiene acqua distillata: è una
sostanza pura. Da tale, il sistema ha una sola sostanza
e una sola fase, pertanto è, rispettivamente,
chimicamente omogeneo e fisicamente omogeneo.
Nel bicchiere (b) abbiamo acqua e zucchero: il sistema
contiene due sostanze e una sola fase. La fase è unica
perché lo zucchero (soluto) si dissolve nell’acqua
(solvente) e non è possibile distinguerle: il sistema è
fisicamente omogeneo. Però, è chimicamente
eterogeneo perché analizzandolo è possibile
individuare due molecole ben distinte: acqua e
zucchero.
Nel bicchiere (c) abbiamo acqua e olio: le due sostanze non sono miscibili. È osservabile una separazione
netta tra la fase “acqua” che contiene solo molecole di acqua e la fase “olio” che contiene solo molecole di
olio. Sono presenti due fasi, quindi è fisicamente eterogeneo, ma anche due molecole diverse, quindi è anche
chimicamente eterogeneo.
Nel bicchiere (d) sono presenti acqua e ghiaccio: abbiamo una sostanza e due fasi. Il sistema è chimicamente
omogeneo in quanto acqua e ghiaccio sono costituiti entrambi da molecole di H2O. Cambia lo stato di
aggregazione e questo implica che siano presenti due fasi distinguibili.
Approfondimento sulle sostanze pure:
Elementi
Sono conosciuti 118 elementi: alcuni di questi, in realtà, sono artificiali, ossia che è stato possibile preparare
(spesso in quantità infinitesimali e non come puri, ma individuati in soluzione). Questi, sono elementi poco
stabili e più o meno radioattivi che in natura, ammesso che si formino, durano talmente poco che non è
possibile individuarli.

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Stiamo parlando di elementi che per ora hanno un interesse puramente scientifico/accademico in quanto la
possibilità di prepararne degli altri stabili è assolutamente improbabile. Non è impossibile: nel progresso della
scienza molte volte era stata decretata l’impossibilità di ottenere un certo composto o verificare un certo
fenomeno e poi a distanza di tempo si è scoperto che alcune di queste sostanze potevano essere invece
prodotte.
L’elemento non può essere scisso in sostanze più semplici mediante strumenti chimici o fisici. Gli elementi
sono i costituenti più semplici di tutti i tipi di materie.
Atomi singoli
Il neon (dal greco neos = nuovo, recente) fa parte dei gas nobili, un gruppo di elementi gassosi così chiamati
perché non sono in grado di reagire con altri atomi (neanche uguali a loro) e hanno dunque molecole
monoatomici. Possono essere chiamata anche gas rari (in quanto sono presenti in minime quantità
nell’atmosfera) o gas inerti.
In realtà, alcuni di questi gas sono “un po' meno inerti di quanto si pensava” e recentemente sono stati
individuati dei composti: in opportune condizioni alcuni di questi gas nobili si sono dimostrati un pochino più
“plebei”.
Molecole omoatomiche
Alcuni elementi in condizioni normali non esistono come atomi singoli ma (ammesso che si riesca a separarli),
si può notare come questi atomi tendano spontaneamente a riunirsi come nel caso delle molecole
omoatomiche, ossia formate da atomi tutti uguali.
L’ossigeno forma le cosiddette molecole biatomiche: gli atomi di ossigeno, se si trovano in libertà, hanno una
grande tendenza a unirsi a due a due. Detto questo, la formula chimica dell’ossigeno (quello presente
nell’atmosfera che noi respiriamo” non è “O” ma “O2”. Lo stesso discorso vale per l’idrogeno, l’azoto e gli
alogeni (elementi del settimo gruppo: fluoro, cloro, bromo, iodio). Possono essere separati, ma nel loro stato
normale, più comune e stabile, questi elementi formano molecole biatomiche.
Composti
I composti sono costituiti da almeno due tipi di atomi differenti: ci avviciniamo a molecole sempre più
complesse. Si definiscono come combinazione chimica di due o più elementi e possono essere scisso in tali
elementi costituenti mediante strumenti chimici, ma non fisici. Hanno sempre una composizione di elementi
definita e costante.
Molecole eteroatomiche
Il caso dell’acqua è il caso emblematico delle molecole eteroatomiche, formate da almeno due tipi diversi di
atomo. Le molecole di acqua, infatti, contengono atomi di ossigeno e atomi di idrogeno che non sono
mescolati (attenzione, non è una miscela) ma legati strettamente con un legame chimico (che vedremo in
seguito).
Non ci sono altre possibilità, il rapporto stechiometrico tra atomi di ossigeno e atomi di idrogeno è sempre
di 1 a 2: per ogni atomo di ossigeno ce ne sono due di idrogeno. Prendendo dell’acqua e decomponendola
per analizzarla, si può notare che il numero di atomi di idrogeno è esattamente il doppio di quelli di ossigeno.
Ioni positivi e negativi
Esiste una grande varietà di composti ionici, costituiti da entità materiali definite “ioni”. Gli ioni sono così
chiamati dal greco “colui che cammina, si muove” perché immersi in un campo elettrico si muovono verso
uno dei due elettrodi, positivo o negativo.
Hanno tale comportamento perché sono particelle dotate di carica elettrica. I composti ionici in natura
(intendendo il mondo animato o inanimato) sono frequenti sia sotto forma di molecole omoatomiche che
eteroatomiche.

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Il tipo di legame che unisce i vari ioni che formano queste sostanze è di natura elettrostatica. Esiste una legge
generale dell’elettrologia: la legge di Coulomb che afferma che “cariche di segno uguale si respingono e
cariche di segno opposto si attraggono”.
È questo tipo di attrazione fra cariche positive e negative che forma il legame ionico.
Il composto ionico tra i più comuni in natura e maggiormente utilizzato è il cloruro di sodio (NaCl): il comune
sale da cucina.
Nell’immagine si nota come non sia possibile individuare una molecola: non è
possibile stabilire che una di queste palline verdi sia più legata a una viola o ad
un’altra. C’è un edificio regolare (reticolo cristallino) in cui ciascuna carica
positiva cerca di stare il più possibile vicino alle cariche negative e lontano a
quelle positive.
La geometria solida ci fa capire che, con queste dimensioni relative, il modo migliore per avere la massima
vicinanza tra cariche opposte e la massima lontananza tra cariche uguali è quello che dà luogo ad una
costruzione di tipo cubico.
Sciogliendo del sale da cucina in acqua e poi lasciandola evaporare (senza scaldarla) a poco a poco sul fondo
si formeranno dei cristalli di cloruro di sodio. Guardandoli da vicino si nota come essi siano dei cubi: ioni sodio
(carichi positivamente) e ioni cloruro (carichi negativamente) si sistemano con la geometria rappresentata
nella figura sopra.
Elementi: abbondanza e importanza
In figura si osservano gli elementi
tipicamente presenti nella materia
vivente (a suo tempo vedremo perché
sono sistemati in questa maniera, nel
sistema periodico degli elementi o tavola
periodica di Mendeleev).
In rosso si hanno i macroelementi, i più
abbondanti della materia vivente: in tutte
le forme di vita c’è una singolare costanza
nelle abbondanze relative dei vari
elementi. Questa tavola va bene per tutti: idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno, fosforo e zolfo sono gli
elementi più abbondanti nella materia vivente.
In celeste si hanno elementi presenti in quantità minori ma assolutamente imprescindibili (devono
opportunamente essere presenti, non in tracce).
In verde si hanno gli elementi presenti in tracce che comunque devono sempre essere presenti, pena gravi
disturbi: se non vengono somministrate dosi dell’elemento mancante portano più o meno rapidamente a
morte.
Nello specifico, gli elementi indispensabili sono quelli
squadrati di rosso.
Molti degli elementi presenti in tracce sono metalli
pesanti: vanadio, cromo, manganese, ferro, cobalto,
nichelio –intendiamo il nichel–, molibdeno, rame, zinco,
tungsteno –detto anche wolframio–.
Sono necessari alla vita (il ferro soprattutto) ma se si
esagera svolgono un’azione tossica.
Il selenio è molto simile allo zolfo, ma a differenza sua è
diffuso in piccole quantità. Molti minerali di zolfo

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contengono selenio. Il selenio è indispensabile alla vita ma in piccolissime quantità: se si esagera diventa un
veleno paragonabile (come effetti) all’arsenico.
Nell’immagine l’arsenico è stato indicato come elemento necessario in tracce ma in realtà su tale necessità
prevalgono i pareri negativi: in tempi recenti si è visto che molti tipi di cellule si sono adattate a tollerare
concentrazione relativamente elevate di arsenico, ma tollerare non significare necessitare.
Peraltro, tra queste cellule non ci sono quelle umane: per l’uomo i sali di arsenico rimangono potenti veleni.
Un problema degli elementi presenti in tracce è il seguente: facendo un ipotetico studio, voglio sapere se il
tantalio sia un elemento indispensabile per la vita. Prendo un animale da laboratorio e lo analizzo una volta
morto: con i moderni metodi di analisi riesco a trovare tracce di qualsiasi elemento che una volta sfuggivano.
Scopro dalle analisi che esistono nel corpo tracce di tantalio.
Attenzione: io ho scoperto la presenza del tantalio, ma non è detto che sia indispensabile. La presenza, infatti,
potrebbe essere accidentale, ad esempio se il soggetto prima della morte avesse bevuto o mangiato sostanze
contenenti tantalio, la presenza potrebbe essere giustificata da questo.
Sono cose che spesso richiedono ulteriori studi: ad esempio, rimuovendo l’elemento studiato dalla dieta e
controllare se sopraggiungono o meno malattie.
Composizione in elementi del corpo umano
Il corpo umano è costituito per il 65% da ossigeno in quanto per la maggior parte costituito da acqua! Inoltre,
bisogna tener conto che quando noi diciamo H2O siamo sì dicendo “2 atomi di idrogeno per ogni atomo di
ossigeno” ma non significa assolutamente “2g di ossigeno e 1 di ossigeno”: ciascun elemento ha un suo peso,
dire questo sarebbe un errore gravissimo.
Io posso prendere biglie di uguale diametro ma fatte ad esempio: una di piombo, una di legno, una di
polistirolo. Posso dare loro i numeri che voglio, ma la loro massa rimane invariata. La stessa cosa devo
considerarla quando effettuo calcoli sulle molecole.
In riferimento ai metalli pesanti tossici,
molte attività minerarie o industriali
danno luogo ad un diffuso inquinamento
ambientale da parte di questi metalli, che
possono fare tanti danni.
Sono chiamati veleni cellulari in quanto
danneggiano e/o uccidono le cellule in
quanto tali: non sono specializzati (nel
senso che attaccano uno specifico tipo
cellulare).
Al contrario, l’amanita phalloides è uno
dei funghi più pericolosi: circa 20g
possono uccidere. Le chiocciole, invece,
possono mangiare questi funghi senza
problemi perché i composti tossici
dell’amanita che colpiscono in maniera
micidiale i mammiferi non hanno azione
sui molluschi. Cadmio, mercurio e piombo (e i loro sali solubili) sono veleni cellulari perché distruggono le
cellule in quanto tali: sono un serio problema ambientale.
In natura esistono, ma come sostanze insolubili che non rilasciano in soluzione tali metalli. Se invece li
utilizziamo con estrazione e lavorazione, viene fuori l’inquinamento.

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Composti: le formule chimiche
La formula bruta o formula grezza o formula molecolare indica la stechiometria di un composto. La
stechiometria indica il rapporto quantitativo tra gli atomi che la compongono. La formula bruta H2O ci dice
che per ogni atomo di ossigeno ne troviamo due di idrogeno.
La formula di struttura indica il modo in cui sono concatenati gli atomi: le linee rappresentano i
legami esistenti. È il modo in cui gli atomi si dispongono fisicamente nello spazio. Indica anche
l’angolo della molecola: non è lineare. Con opportune strumentazioni è possibile misurarne l’ampiezza.
Nel modello a sfere e bastoncini ogni elemento viene rappresentato da una struttura sferica di
differente colore ed è legato agli altri da un bastoncino. Per convenzione ad ogni elemento è
associato un colore: l’ossigeno è rosso, l’idrogeno bianco, il carbonio nero e così via. Si noti come la pallina
rossa (ossigeno) sia molto più grande di quelle bianche: se esistesse un “fantamicroscopio” che permettesse
di vedere le dimensioni degli atomi, scopriremmo che l’ossigeno è molto più grande dell’idrogeno e pesa
anche molto di più. Con l’unità che vedremo in seguito, H pesa 1 e O pesa 16. Nello specifico, a 16g di ossigeno
sono associati 2g di idrogeno, per formare 18g di acqua: se ne mettessi 17 di ossigeno, si formerebbero
sempre 18g di acqua e 1g di ossigeno rimarrebbe non reagito.
Di tutte le rappresentazione del composto “acqua”, questa è la più veritiera: il
“fantamicroscopio” le mostrerebbe così. Rispetto a come noi disegniamo le molecole, la forma
vera è propria è questa. Si definisce modello a spazio pieno, nel quale vengono mostrate le
dimensiono relative degli atomi di idrogeno e di ossigeno.
L’errore che si è soliti compiere quando si disegnano le formule utilizzando il simbolo dell’elemento è che
sembra che si parta dal presupposto che la grandezza degli atomi sia sempre uguale.
Altro errore che si compie usando la formula di struttura senza tenere a mente la reale forma della molecola,
è che sembra che tra gli atomi ci sia molto più spazio libero di quanto in realtà ce ne sia.
Isomeria: cenni
(Il docente precisa di lasciar perdere i nomi delle seguenti molecole in quanto verranno riprese durante le lezioni di chimica organica.)

In azzurro sono indicati i legami chimici che


uniscono i vari atomi: una molecola è l’etanolo
(l’alcol etilico delle bevande alcoliche) l’altra è
l’etere dimetilico. Sull’estrema destra è
rappresentato il modello molecolare dove son
stati sistemati i vari elementi con la
convenzione delle sfere e i bastoncini ma la
nuvoletta che c’è intorno mostra lo spazio
effettivamente occupato.
Queste due sostanze hanno la stessa
stechiometria: la stessa formula molecolare
C2H6O. il modo in cui questi atomi sono concatenati è però diverso. Questa differenza spiega le grandi
diversità nelle proprietà fisiche, chimiche e biologiche (quindi tossicologiche o farmacologiche) di queste
sostanze.
Hanno la stessa composizione elementare ma struttura diversa a cui corrispondono proprietà diverse. Per
dire, il primo è un liquido, l’altro un gas.

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Questo è un altro esempio di sostanze dotate di stessa formula
ma diverse struttura e proprietà. L’ossido di etilene in basse
concentrazioni causa edema polmonare (errore nella slide, è
una sostanza molto tossica). È aeriforme a 25°C e 1atm
(condizioni normali), a differenza dell’aldeide acetica che è liquida.
L’aldeide acetica, come vedremo, è un prodotto che l’organismo forma quando ingeriamo bevande alcoliche.
La tossicità dipende soprattutto (ma non solo) dalla formazione di questa sostanza, chiamata anche
acetaldeide.
Parliamo di un’altra molecola, che presenta un’isomeria di tipo diverso: diamminodicloroplatino, con formula
Pt(NH3)2Cl2.
La molecola può esistere in due isomeri geometrici diversi: si
definiscono isomeri le sostanze che hanno la stessa stechiometria
(stessa formula bruta) ma diversa struttura.
Si noti la diversa disposizione dei sostituenti intorno all’atomo di platino: la molecola in cis presenta i due
atomi di cloro dalla stessa parte, mentre in quella in trans risultano ai piani opposti, sono scambiati di posti.
Questo tipo di geometria molecolare, comune in chimica organica e in biochimica, è anche chiamata isomeria
di tipo cis-trans. Cis quando i sostituenti uguali sono dalla stessa parte rispetto a un piano ideale che passa
per Pt in orizzontale e trans quando sono da parti opposte.
Il docente ha scelto questo esempio perché si tratta di sostanze tossiche ma, l’isomero cis è uno dei farmaci
antineoplastici (anticancro) più efficaci. Non si usa in tutte le forme di tumore, ma alcuni tipi rispondono
molto bene alla soministrazione di cis-diamminodicloroplatino. È sempre una sostanza tossica ma è noto che
i farmaci anticancro abbiano spesso potenti e gravi effetti collaterali.
Si tratta di isomeria sterica o stereoisomeria, per indicare la disposizione nello spazio. I legami sono uguali,
c’è sempre il platino al centro che forma quattro legami, ma l’orientamento nello spazio dei quattro gruppi
sostituenti è diverso.
Anticipazione di chimica organica: le linee seghettate in immagine
sottointendono degli atomi di carbonio con legati degli atomi di idrogeno.
Ricordiamo che il carbonio forma sempre quattro legami, pertanto dove sono
mostrati due legami (due stanghette attaccate) è sottointesa la presenza di altri
due legami, con altrettanti atomi di idrogeno.
In figura abbiamo due acidi grassi, costituenti chimici dei grassi naturali. Le due
sostanze hanno identica stechiometria, un doppio legame nella stessa posizione
lungo la catena carboniosa ma, nel primo caso (dove sono stati indicati) sono
tutti e due dalla stessa parte (è un doppio legame cis) mentre nella seconda
molecola sono da parti opposte (legame trans).
L’acido oleico è un componente dell’olio d’oliva, mentre l’acido elaidico si può formare dal primo per azione
della luce solare: infatti, l’olio va a male se si forma l’isomero trans. Non è un caso che l’olio vada conservato
a riparo dalla luce.
Si mostrano due forme diverse del retinale: ciò che cambia è lo stato cis-trans di una forma della vitamina A.
Questo cambio avviene a livello della retina nell’occhio durante il processo della visione.

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L’atomo
Gli atomi, pur trattandosi di particelle di estrema piccolezza, i loro raggi sono
dell’ordine di 10-10m (un decimiliardesimo di metro). L’ordine di grandezza del nucleo
è di 10-15m.
Non esiste un microscopio tale da poterli individuare, tuttavia esistono dei metodi
indiretti per lo studio dell’infinitamente piccole.
Sono composti da tre particelle subatomiche: l’atomo è divisibile, tuttavia non si
divide nelle normali reazioni chimiche.
È possibili dividere gli atomi grazie alla fisica/chimica nucleare, di nostra competenza
in campo biomedico. Le particelle sono:
• Protoni (p+)  hanno carica unitaria positiva (+1) e massa di 1,672 · 10-24 g
• Neutroni (n)  privi di carica, carica neutra (0) e massa di 1,674 · 10-24 g
• Elettroni (e-)  hanno carica unitaria negativa (-1) e massa di 9,109 · 10-28 g trascurabile
Protoni e neutroni sono strettamente impacchettati in una struttura centrale, il nucleo, mentre gli elettroni,
nonostante siano molto più piccoli occupano un grande volume (quello azzurro) chiamato nube elettronica.
Tenendo a mente i valori della massa delle particelle, possiamo dire che tutta la massa dell’atomo è
contenuta in un volume piccolissimo (nucleo) rispetto a quello totale. Per questo motivo, l’atomo è
considerato una struttura “vuota”.
Si noti la lieve differenza di massa tra protone e neutrone: il neutrone non è altro che p++e-.
Indichiamo con Z il numero atomico, ossia il numero di protoni. Il numero atomico indica un unico
atomo: dire che un atomo ha Z=10 vuol dire che nel nucleo contiene 10 protoni e carica elettrica
totale +10, in quanto il numero dei neutroni non incide sulla carica. Z è ciò che decide se un atomo
è di ferro o di zolfo.
Indichiamo con A il numero di massa, ossia la somma del numero di protoni e del numero di neutroni. La
massa di un atomo è essenzialmente data dal nucleo in quanto gli elettroni hanno massa trascurabile. La
massa corrisponde al peso atomico.
Ricordiamo: per fare una molecola d’acqua (18g) ci vogliono 16g di ossigeno e 2g di idrogeno. Si ha questo
perché, nel caso dell’ossigeno A=16 e nell’idrogeno A=1.
C invece indica l’eventuale carica dell’atomo. Gli atomi, in condizioni normali hanno carica pari a 0, in quanto
un atomo presenta elettroni e protoni in uguale quantità.
Tuttavia, molti atomi hanno una tendenza, più o meno spiccata a perdere uno o più elettroni.
Perdendo uno o più elettroni, rimangono scoperte una o più cariche positive del nucleo. Immaginiamo di
avere un atomo di sodio Na, se esso perde un elettrone diventerà Na+. Esistono ancora elementi che, più che
perdere elettroni, hanno la tendenza ad acquisire elettroni altrui. L’atomo di cloro, ad esempio, tende a
strappare un elettrone a qualche altro atomo per posizionarlo nella sua nuvola: diventerà ione cloruro Cl-.
Per molti elementi questa tendenza a perdere o acquistare elettroni è talmente spiccata che in natura non si
trovano mai nello stato elementare, perché si trovano nello stato ionico. Un atomo che ha perso o acquisito
elettroni, si è trasformato in uno ione.
L’elemento sodio è molto comune in natura (basti pensare al mare), ma come metallo non si trova mai: si
può ottenere in laboratorio, in quanto la sua tendenza a sbarazzarsi di un elettrone è talmente forte che il
suo stato normale non è come sodio metallo ma come ione sodio Na+.
L’elemento cloro è un gas giallo-verdino di formula Cl2 (molecola biatomica), tuttavia in natura non si trova
pressoché mai in quanto la sua tendenza a rompere il legame con il compagno cloro e prendersi un elettrone
a testa da un altro atomo che può fornirglielo è talmente forte che tutto il cloro del pianeta è sotto forma di
Cl-.

10
Esistono altri composti contenenti cloro, sia naturali che prodotti, ma costituiscono una percentuale
piccolissima. Da notare che le proprietà fisiche, chimiche e biologiche possono essere completamente diverse
dai rispettivi ioni. Il cloro elementare è un gas estremamente aggressivo e tossico (si sprigiona quando si
tratta la varechina) mentre lo ione cloruro è incolore e inodore e non è aggressivo (quello del sale da cucina).
Il metallo rame (Cu), che è rosso, quando diventa ione rame perdendo due elettroni, dà origine a composti
di colore blu.
Unità di massa atomica: uma
L’u.m.a è l’unità di misura arbitraria
per la massa degli atomi.
Un’unità di massa atomica si
definisce come un dodicesimo del
peso nel nucleo del carbonio.
[Aggiunta] Non essendo convenienti
le misure del SI (metro o kg), si
utilizzano dei sottomultipli quali picometro (pm) che equivale a 10-12 m e l’unità di massa atomica (u.m.a.)
che vale 1,66 · 10-24 g. L’u.m.a. o Dalton (Da) è pari a 1⁄12 della massa dell’atomo di carbonio-12 
1,9926 · 10-23g / 12 = 1,6605 · 10-24g.
Isotopi
Sappiamo che, per un certo elemento, il numero di protoni non cambia, è costante: se cambia Z stiamo
cambiando elemento. Una variazione del numero di elettroni dà origine ad uno ione, mentre la variazione
del numero di neutroni dà origine agli isotopi.
Molti elementi, anche se non tutti, sono costituiti da miscele di diversi isotopi. Gli isotopi sono quegli atomi
appartenenti ad uno stesso elemento che hanno lo stesso numero atomico Z ma diverso numero di massa,
ossia che hanno lo stesso numero di protoni ma un diverso numero di neutroni.
Esistono elementi che possiedono un solo isotopo stabile, altri che presentano isotopi instabili: sono definiti
radioattivi in quanto con determinati processi tendono a stabilizzarsi, cambiando Z o A.
Idrogeno
L’idrogeno, in natura, esiste come miscela di tre diversi isotopi: è l’elemento più semplice, con Z=1.
• Idrogeno normale o leggero  Z = 1 e A = 1 (non ha neutroni)
• Deuterio o idrogeno pesante  Z = 1 e A = 2
• Tritio o trizio  Z = 1 e A = 3.
Idrogeno normale e deuterio hanno identiche proprietà chimiche ma diverse proprietà fisiche: la massa è
doppia. Il trizio è un isotopo instabile e radioattivo: 2 neutroni per un solo protone son troppi. Tutti e tre
sono idrogeno, ma sono tre diversi isotopi. La quasi totalità dell’idrogeno presente in natura è dato da
idrogeno normale con poco deuterio e pochissime tracce di trizio.
Elio
L’elemento numero 2 è l’Elio, che presenta 2 protoni e un neutrone. Dell’elio esistono due isotopi:
• Elio leggero  2 protoni e 1 neutrone;
• Elio pesante  2 protoni e 2 neutroni.
Carbonio
In natura si trovano tre isotopi del carbonio:
• Carbonio normale 12C  6 protoni e 6 neutroni;
• Carbonio un po' più pesante 13C  6 protoni e 7 neutroni
• Carbonio radioattivo 14C  6 protoni e 8 neutroni

11
Il carbonio 14 ha una radioattività blanda e pressoché innocua: quando un organismo muore e con il tempo
si decompone, il 14C si disintegra e tende a sparire. Segue una legge di scomparsa in funzione del tempo ben
nota. Misurando la percentuale di 14C presente, per esempio, in un osso o in un fiore è possibile risalire al
momento in cui quell’oggetto vivente è morto con buona approssimazione, in quanto essendo morto non si
è potuto rifornire di carbonio 14. Meno ce n’è, più vecchio è quel reperto, ed è possibile datarlo.
Ricordiamo che l’u.m.a è la dodicesima parte della massa del 12C. Il 12C ha per definizione una massa di 12
u.m.a.
Ossigeno
L’ossigeno ha tre isotopi naturali abbondanti, sebbene ne esistano altri in tracce. A differenza del carbonio,
gli isotopi dell’ossigeno sono tutti e tre stabili. Quello più abbondante è il 16O.
Abbondanza isotopica
La massa del nucleo non è perfettamente identica alla somma dei protoni e dei neutroni, è un po’ meno
perché una parte, secondo la relazione di Einstein, viene persa sotto forma della cosiddetta “energia di
impacchettamento”.
Nessun elemento presente in natura ha una massa assoluta pari ad un multiplo intero della massa unitaria:
è presente un numero decimale. Ciò dipende sia dall’energia di impacchettamento sia dal fatto che sono
presenti miscele di vari isotopi. Questi numeri non sono altro che medie ponderate delle masse dei vari
isotopi, che tengono conto delle loro percentuali.
Siccome la quasi totalità dell’idrogeno presente in natura è idrogeno leggero, la media ponderata è quasi
uno, in prima approssimazione.
Curva di stabilità
Tramite esperimenti si è visto che il numero di neutroni, aumentando Z,
cresce: per gli elementi più leggeri (come si vede in figura) gli atomi
contengono un numero di neutroni circa uguale a quello dei protoni.
Andando avanti ci sono sempre più neutroni rispetto ai protoni.
È come se i neutroni servissero a diluire la carica positiva che rimane
concentrata nel nucleo: se noi consideriamo la struttura dell’atomo secondo
la fisica classica ci si potrebbe chiedere come sia possibile che tutti questi
protoni possano stare vicini dentro al nucleo senza disintegrarsi a causa della
repulsione.
La fisica classica, che si occupa del macroscopico, non è in grado di spiegarlo:
se ne occupa la fisica quantistica.
Gli elettroni della nube, se opportunamente stimolati, possono abbandonare
l’atomo stesso (che diventerà uno ione positivo) e possono andare a impattare su altre molecole.
Prendiamo una molecola di DNA: può colpire una molecola d’acqua, distruggerla, liberando il radicale
idrossile (OH-) che è una specie reattiva, che reagisce con ogni cosa, ad esempio danneggiando il DNA.
Definiamo questa come azione indiretta, però l’elettrone può personalmente andare ad impattare sul DNA,
danneggiandolo anche in questo caso.

12
Isotopi radioattivi
Molti isotopi radioattivi, dotati di una
radioattività più o meno blanda che non
danneggia le cellule, hanno una funzione
diagnostica. Per le loro proprietà chimiche e
biologiche, tendono a concentrarsi in certi
tessuti e/o organi rispetto ad altri. Questo tipo
di “migrazione e fissazione” all’interno del
corpo, dipende dal fatto che si possono ritrovare
cellule sane, malate o neoplastiche.
Danno luogo ad una distribuzione caratteristica
nel corpo, che permette di capire se ci siano
delle problematiche.

I positroni sono
delle particelle
con massa pari a
quella
dell’elettrone
ma con carica
positiva. Sono
particolarmente
utili per la
diagnostica per
immagini.
Un isotopo viene
legato ad una
molecola
biologica (come
il glucosio in
immagine).

13
Esame Chimica e propedeutica
biochimica; 6 CFU, 60 ore
Docente Enrico Sanjust

Lezione n.2 del 18/10/2021

Sbobinatore

Controllore Matteo Anedda

Link registrazione: https://unica.adobeconnect.com/pwpv7w21rsed/


Modalità d’esame
Nella diapositiva iniziale ci sono riportate delle date per i parziali ma sono indicative, il professore deve
chiedere all’università un’aula disponibile e deve concordare le date con il docente di fisica in modo che non
si sovrappongano le verifiche parziali.
Prima verifica sulle prime 30 ore di chimica generale dopo alcuni giorni che ha terminato queste 30 ore e poi
la seconda verifica a dicembre prima delle vacanze natalizie. Queste verifiche verranno poi ufficialmente
registrate a marzo.

Introduzione
Il corso di chimica per medici serve per avere delle basi perché da una parte sono concetti che è
indispensabile padroneggiare per affrontare i corsi successivi e dall’altra ci sono aspetti banali che possono
essere utili nell’aspetto pratico come rispondere alle domande dei pazienti.
Tra gli ultimi progressi della scienza troviamo microscopi elettronici a scansione che, con
particolari effetti, permettono di individuare la struttura di singoli atomi o molecole. Ogni
punto dell’immagine rappresenta un singolo atomo di ferro. Gli atomi sono stati disposti su
una superficie di rame a formare i caratteri cinesi che rappresentano la parola “atomo”.
Ripresa di alcuni argomenti della lezione 1
Isotopi
Gli isotopi sono atomi dello stesso elemento con lo stesso numero di protoni ma un diverso numero di
neutroni (stessa Z, diversa A). Sono quindi i protoni che decidono se un atomo è di ossigeno oppure di un’altra
cosa. Troppo pochi o troppi neutroni rendono l’isotopo instabile e quindi radioattivo perché subirà delle
trasformazioni spontanee tali da riportare il rapporto tra neutroni e protoni dentro la curva di stabilità vista
nella lezione 1. Il decadimento radioattivo avviene quando ci sono troppi neutroni e l’elemento inizia
spontaneamente a trasformarsi in un altro isotopo o in un elemento diverso al fine di stabilizzarsi. Ad esempio
possono emettere radiazioni alpha, ovvero emettere nuclei di elio liberando in un colpo solo 2 protoni e 2
neutroni, oppure possono emettere radiazioni beta cioè eliminare elettroni.
Oltre un certo numero atomico non si riesce a garantire la stabilità. L’ultimo elemento stabile è il bismuto
(Z=83), dal polonio in poi sono tutti radioattivi, così come gli attinidi. Ci sono elementi radioattivi anche a
metà strada. Tra i metalli di transizione troviamo il manganese, molto diffuso sulla crosta terrestre e stabile;
nello stesso gruppo c’è anche il renio che è invece uno degli elementi più rari ed è stato scoperto solamente
negli anni ’20. Tra manganese e renio, entrambi perfettamente stabili, si trova il tecnezio che è radioattivo
ed è presente in natura solamente in tracce. Non si sono trovati elementi che pesino di più del bismuto che
non siano radioattivi. Il polonio, che si trova in natura in piccole quantità, ad esempio, è utilizzato come
veleno e non ci sono antidoti.

1
L’ossigeno ha 3 isotopi, uno che pesa 16, uno 17 e uno 18, quello più presente è quello che pesa 16. Con
opportune tecniche si possono separare i vari isotopi.
Proiettili all’uranio impoverito
L’uranio, metallo pesante presente in natura (anche in Sardegna), ha diversi isotopi tutti radioattivi.
Accompagna spesso i minerali del piombo perché si è visto che il suo decadimento radioattivo passa
attraverso una serie di altri elementi radioattivi, come il torio, e questo decadimento si ferma quando si arriva
al piombo che è invece stabile. Tuttavia la maggior parte dell’uranio presente in natura è costituito da un
isotopo che pur essendo radioattivo non suscita interesse né per la costruzione di centrali nucleari né per la
produzione di bombe atomiche. Siccome questi due isotopi pesano uno 235 e l’altro 238, trasformando
l’uranio in esafluoruro di uranio (gassoso), attraverso moltissimi passaggi, viene reso disponibile l’isotopo
fissile, chiamato così perché adatto per gli utilizzi precedentemente indicati; questo tipo di uranio viene detto
‘’arricchito’’.
L’uranio impoverito, che non può servire né per reattori né per bombe, è dotato di un peso specifico
altissimo, ciò vuol dire che i proiettili realizzati con questo tipo di uranio hanno una quantità di moto
(prodotto tra velocità e massa) notevole e superiore a quella del piombo e possono perforare non solo il
corpo umano dei nemici ma anche le corazze di carri armati e difese varie. Questi proiettili vengono utilizzati
quando una guerra si conduce in un paese nemico e non per sfruttarne le proprietà radioattive ma per avere
dei proiettili più efficienti. L’uranio impoverito stoccato nei depositi di munizioni però continua ad emettere
radiazioni pericolose per la salute.
Elementi trans-uranici
Sono elementi radioattivi che possono essere trovati in natura in tracce oppure preparati artificialmente
(esempi: nettunio e plutonio) e per ciascuno di questi è nota la via di trasformazione fino ad arrivare a un
isotopo stabile. Sul piombo convergono varie vie di questo decadimento radioattivo, il problema di molti
isotopi è il tempo di dimezzamento per cui un elemento radioattivo diventa stabile. Nella cinetica chimica c’è
una legge che calcola il tempo richiesto perché una certa trasformazione di un isotopo radioattivo avvenga:
si chiama legge cinetica di primo ordine e ci permette di individuare il tempo di dimezzamento, anche detto
tempo di emivita. Se prendo 1 Kg di un certo elemento radioattivo con tempo di dimezzamento di un anno,
vuol dire che, per mezzo di fenomeni radioattivi, dopo un anno io avrò esattamente mezzo chilo di
quell’elemento, l’atro mezzo chilo si sarà trasformato in qualche altra cosa; dopo un altro anno me ne
saranno rimasti 250 g e così via, quindi prima che sparisca del tutto passa un certo tempo. Per certi isotopi la
pericolosità nasce dal fatto che i tempi di dimezzamento sono spaventosamente lunghi, quindi prima di
liberarcene passerà molto tempo e continueranno a fare danni.
Isotopi radioattivi in ambito medico
Esistono alcuni isotopi radioattivi che possono essere utilizzati come traccianti. Lo stronzio è un elemento
tracciante, è simile al calcio e l’organismo lo tratta come tale, quindi può andare, ad esempio, a concentrarsi
nelle ossa dove c’è una certa patologia. L’isotopo 81 dello stronzio si può usare come tacciante perché ha un
tempo di emivita molto piccolo, dura poco e quindi non rimane a lungo all’interno dell’organismo dove
altrimenti creerebbe danni. L’isotopo 90 ha invece un tempo di emivita lunghissimo, si fissa nelle ossa e
rimane lì per un tempo che supera di gran lunga quello della vita della persona e continua ad emettere
radiazioni.
Quindi non tutti gli isotopi radioattivi sono pericolosissimi e mortali come l’uranio 238, così come non è
neanche vero che tutti sono utili per queste cose. Alcuni isotopi radioattivi, come il cobalto 60, sono molto
pericolosi ma dosando opportunamente le radiazioni emesse si possono comunque usare nella radioterapia
di certe forme tumorali. Questo non si deve somministrare ma ci sono degli apparecchi particolari che lo
contengono e le radiazioni emesse vengono indirizzate con una pistola virtuale verso la massa tumorale da
distruggere.

2
La teoria atomica di Dalton
Lavoisier
Alla fine del ‘700 magia e alchimia cominciavano a svanire e, applicando la ragione allo studio, la chimica
iniziò a essere una scienza vera, grazie anche alle teorie illuministiche e alla nascita di nuovi strumenti (ad
esempio le prime bilance di precisione). Uno dei maggiori esponenti fu Lavoisier, un impiegato delle dogane
francesi che riuscì a stabilire un nuovo concetto che per allora non era affatto scontato: nelle trasformazioni
chimiche non si può né distruggere né formare materia, la quantità di materia che è presente in un sistema
chimico o fisico è costante, non può né aumentare né diminuire a meno che non siamo noi ad intervenire.
Legge di Lavoisier: ‘’ Nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma’’.
Lavoisier fu una delle vittime del terrore giacobino poiché visse durante la Rivoluzione francese e venne
ghigliottinato, a causa della morte prematura non riuscì a studiare a fondo la chimica. Durante il processo
uno dei giudici sentenziò: “La repubblica non ha bisogno di scienziati”.
Mendeleev
Mendeleev osservò che, basandosi sulle proprietà degli elementi, essi si potevano organizzare in gruppi che
potevano essere ordinati secondo la massa crescente e a questo ordine corrisponde un graduale
cambiamento delle proprietà chimico fisiche. In alcuni gruppi c’erano dei posti rimasti vuoti in
corrispondenza di elementi che ancora non erano stati individuati, ad esempio il germanio nel quarto gruppo
(Mendeleev ipotizzò tutte le caratteristiche che questo elemento doveva avere ma venne scoperto e studiato
solo successivamente). Con i metodi di allora non tutti gli elementi si potevano isolare, ad esempio si credeva
che lo zirconio e l’afnio fossero un elemento solo e ciò si pensava anche del cromo e del vanadio.
Dalton
Dalton visse in Inghilterra, ripescò la
teoria atomica di Democrito di 2000
anni prima, modernizzata e
adattata, da cui, nel 1808, formulò le
sue teorie riassunte nell’immagine.
1. L’universo è costituito da
piccolissimi mattoncini ideali di
massa e dimensioni misurabili che
chiamiamo atomica. A ciascun tipo
di atomo corrisponde un elemento e
sappiamo che in natura ce ne sono
92, alcuni sono particolarmente
abbondanti, altri sono presenti in
quantità minori, altri ancora sono
presenti in tracce e sono gli ultimi ad
essere stati individuati. Da dalton a
noi sono stati scoperti molti nuovi
elementi.
2. Ai tempi di Dalton l’idea di isotopo non esisteva ancora e credeva che tutti gli atomi dello stesso elemento
fossero identici; noi sappiamo che non è così poiché nella maggior parte degli elementi gli atomi contenuti
sono miscugli di diversi isotopi.
3. Il terzo punto della teoria di Dalton è ripreso da Lavoisier. Sino ai suoi tempi si pensava che i vari metalli
fossero combinazioni di zolfo e mercurio, quindi che questi due elementi con interventi soprannaturali si
potessero trasformare ‘’a piacere’’. Dalton stabilì che esistono trasformazioni che riguardano diverse
sostanze (che noi chiamiamo reazioni chimiche) ma se una razione inizia con un certo numero di atomi di un
elemento, a fine reazione avrò lo stesso numero di atomi di quell’elemento, non uno di più e non uno di
meno. La frase ‘’nulla si crea e nulla si distrugge’’ è vera fatta eccezione per gli elementi radioattivi.

3
4. Un altro punto stabilito da Dalton fu che, quando si forma un composto, il rapporto quantitativo tra gli
atomi che formano quel composto non è a caso. Ad esempio: l’acqua si forma con 2g H x 16g O, questo
rapporto non si può alterare altrimenti non si otterrebbe acqua(sempre per questa ragione quindi come
detto dal professore non si potrà avere una molecola di H2O con 2,01 atomi di H). Se faccio reagire 3g H con
16h O alla fine della reazione avrò 1g di H non reagito. Con il passare del tempo questa legge ha subito degli
aggiustamenti in seguito alla scoperta dei cosiddetti “composti non daltonici”, caratterizzati da proporzioni
meno rigide.
Le modifiche alla Teoria di Dalton
La teoria di Dalton era per certi versi giusta
e per altri no. Verso la fine dell’800 si iniziò
a capire che gli atomi non erano palline
indistruttibili ma che a loro volta erano
composti da particelle subatomiche
dotate di carica elettrica: protoni,
elettroni ed infine neutroni(non dotati
invece di carica elettrica).
Ai tempi di Thomson si pensava che gli
atomi fossero costituiti da una sfera di
protoni con degli elettroni conficcati
sopra; con gli esperimenti si dimostrò che
la teoria non era corretta.
Nell’immagine ci sono i nomi delle
persone che più hanno contribuito a
studiare l’atomo. L’atomo venne poi paragonato da Rutherford ad un sistema solare in miniatura. Si
immaginò che il nucleo dell’atomo fosse paragonabile al sole e che gli elettroni gli girassero attorno come
pianeti. Si pensò che le orbite degli elettroni fossero circolari ma Sommerfield, per poter spiegare tutte le
proprietà degli elettroni, ipotizzò che le orbite fossero invece ellittiche.
Andando avanti si notò che le leggi della
fisica macroscopica non erano coerenti
con quelle della fisica microscopica:
l’energia a livelli microscopici era
quantizzata, ovvero cresceva a pacchetti
di multipli di una certa quantità di
base(secondo valori definiti da
complesse equazioni matematiche),
mentre a livello macroscopico variava
senza soluzione di continuità. Si scoprì
che la continuità nel mondo
macroscopico è data dalla media delle
piccolissime quantità di energie
quantizzate.
Alla fine si considerò anche che se si
potesse ingrandire un atomo fino a
dimensioni macroscopiche, questo non
avrebbe vita lunga poiché gli elettroni (con carica negativa) dovrebbero essere attirati dalla carica positiva
del nucleo e, a poco a poco, le orbite diventerebbero sempre più strette fino alla distruzione del nucleo.
Ci fu una svolta nello studio dell’atomo circa un secolo fa, nel 1926 con i lavori svolti da Schroedinger, con cui
si ebbe una visione più comprensiva dell’atomo.

4
Il principe de Broglie
Fu il primo a ipotizzare la duplice natura degli elettroni, descrivendoli sia come piccole particelle sia come
onde elettromagnietiche. Descrivendo l’elettrone come onda(quest’aspetto fu ripreso in seguito anche da
Schroendinger) risolse il problema della loro cauduta sul nucleo perchè vengono descritti come onde
stazionarie negli immediati dintorni del nucleo.

Le onde stazionarie e l’Equazione di Schroedinger


Le onde stazionarie sono descritte da funzioni sinusoidali(y=f(x)) e sono
chiamate così perché non vanno né avanti né indietro. Possono essere, ad
esempio, quelle che derivano dalle corde di una chitarra poiché la corda ha
un inizio e una fine; quando pizzico una corda, questa entra in vibrazione e i
punti in cui non si muove sono detti nodi. La pelle di un tamburo può
rappresentare il caso di un onda stazionaria in due dimensioni, mentre quella
della chitarra è in un’unica dimensione. Le onde del mare,le onde sonore e le
onde elettromagnetiche(della luce) non possono essere consierate tali perché si muovono.
Il movimento di un elettrone(come nel caso di una sferetta di metallo battuta con un martelletto) è
assimilabile a quello di un’onda magnetica stazionaria nelle tre dimensioni dello spazio. Ciascun elettrone di
un atomo è quindi cosiderabile come un onda stazionaria che occupa un certo volume di spazio attorno al
nucleo di quell’atomo. A quest’onda stazionaria si associa
una carica elettrica “-“ è un campo magnetico.
Schroedinger,
scienziato tedesco,
riuscì a trovare la
forma matematica dell’equazione d’onda di un elettrone. In
questa equazione si usano le coordinate polari e non
cartesiane poiché sarebbe troppo complicato
Equazione di Schroedinger:

● H = operatore Hamiltoniano: contine la costante fisica


di Planck e le derivate parziali seconde fatte sulla

funzione Ψ nelle 3 direzioni dello spazio


● Ψ (psi) = funzione d’onda
● E = energia associata a quel particolare elettrone
Ciascun elettrone dell’atomo ha la possibilià di essere associato alla propria funzione d’onda. È una funzione
multiforme perché nella sua espresione matematica contiene una serie di parametri numerici variabili
secondo certe regole.
Di questi parametri, presenti nell’equazione d’onda, ce ne sono vari e sono detti numeri quantici:
● n: numero quantico principale
● l: numero quantico azimutale (o secondario)
● m: numro quantico magnetico → può assumere anche valori negativi
1 1
● s o ms: numero quantico di spin → può valere + o-
2 2
A ciascun elettrone possono essere associate delle soluzioni dell’equazione di Schroedinger che contengono
diverse combinazioni di questi 4 numeri quantici. I valori assegnati seguono certe regole.
L’Equazione di Schroedinger ammette una soluzione esatta SOLO nel caso dell’atomo di idrogeno perché ha
1 solo protone e quindi 1 solo elettrone. A mano a mano che andiamo verso atomi più grandi, in cui si
aggiungono protoni e quindi elettroni, le soluzioni dell’equazione diventano sempre più complicate e

5
approssimative. Ciò è dovuto al fatto che negli atomi in cui sono presenti 2 o più elettroni, ciascun elettrone
è soggetto sia alla forza di attrazione del nucleo che alle forze di repulsione di tutti gli altri elettroni. Le regole
che valgono per l’equaizione di Schroedinger, quando è presente più di un elettrone iniziano a venire meno
a causa delle migliaia di interazione che gli elettorni hanno tra loro e a causa delle interferenze tra le varie
onde associate agli elettroni, dunque diventa quindi impossibile pensare di prevedere tutte le proprietà di
tutti gli atomi. Siamo infatti in grado di prevedere un certo elemento non ancora sintetizzato e le sue
proprietà ma senza riuscirci alla perfezione.

L’elettrone
Non dobbiamo dimenticare che l’elettrone non è solo un’onda ma anche una particelle dotata di una piccola
massa che orbita attorno al nucleo. Quelli più distanti dal nucleo, applicando la legge di Coulomb, hanno
legami meno forti con l’atomo e sono i primi che in caso di un intervento esterno vengono perduti.
Sono stati fatti dei calcoli che hanno dimostrato che gli elettroni non sono tutti soggetti alla stessa forza.
Quelli più vicini al nucleo (per la legge di Coulomb) sono quelli tenuti più forte dal nucleo stesso e a mano a
mano che ci allontaniamo questa forza di attrazione tra gli elettroni negativi e la parte di nucleo positiva
diminuisce.
C’è da considerare che gli elettroni più distanti dal nuceo subiscono anche un’azione di schermatura dagli
elettroni a metà strada, quindi l’elettrone più distante risentirà meno dell’attrazione del nucleo non solo per
la distanza ma anche per l’azione di schermatura e repulsione da parte delgi elettroni più vicini al nucleo
rispetto a lui.
Se l’elettrone è un onda stazionaria
significa che non va in giro ma rimane
sempre in certe porzioni di spazio e in un
certo volume attorno al nucleo, ma ciò
non vuol dire che sia fermo.
L’elettrone si muove vibrando e quindi
non si può individuare la sua posizione
esatta, ma possiamo individuare una
regione di spazio (di cui si può calcolare
volume e forma) in cui è più probabile
trovarlo. Il calcolo si può applicare anche
ad atomi con più elettroni ma diventa
sempre più aleatorio a mano a mano
che la complessità dell’atomo aumenta.

6
Heisenberg
Stabilì il principio di indeterminazione: quando andiamo verso l’infinitamente piccolo è impossibile
determinare contemporaneamente sia la posizione che il
contenuto energetico (energia potenziale ed energia
cinetica) di una particella.
È più utile calcolare l’energia piuttosto che la posizione
esatta poiché ci fa capire se e come un atomo parteciperà
alle reazioni chimiche
Gli orbitali
Non conviene quindi parlare di orbite ma di orbitali ovvero
le soluzioni matematiche dell’equazione di Schroedinger,
quindi la forma esatta matematica della funzione d’onda Ψ.
Gli orbitali rappresentano quelle porzioni di spazio dove gli
elettroni ‘’risiedono’’, corrispondono al punto dove
abbiamo la nuvola elettonica.
Numeri quantici
n = è un numero naturale
(intero positivo);
l = detto anche azimutale;
m = può avere lo stesso modulo
di l ma può avere diverso
segno; tiene conto del fatto che
l’elettrone viene considerato
come un onda e genera un
campo magnetico;
s (o ms) = si chiama così perché
tratta l’elettrone come se fosse
un pianeta (la Terra compie un
movimento intorno al proprio
asse che in inglese è detto
spin). Poiché l’elettrone è una
pallina piccolissima che gira
intorno al nucleo possiamo
pensare che giri pure su sé
stesso come la Terra.

1
● + : descrive un moto orario
2
1
● − : descrive un moto antiorario
2
Per convenzione il numero di spin si
indica con una freccia.

7
Il fatto di occupare orbitali di vario tipo dipende dal numero quantico angolare chiamato l, che può arrivare
al massimo come valore numerico a n-1 (dove n è numero quantico principale) (quindi se n=1 ho l = 0,
mentre se n=2 l può essere 0 o 1). Se n=2 compare un tipo di orbitale nuovo che è p (rispetto a quando n=1)
dove l vale 1. C è anche un terzo numero quantico che è m e che può assumere tutti i valori interi compresi
tra –l e +l (quindi se l=+1 ho m= +1, 0, -1: in questo caso ho tre combinazioni che rappresentano i tre orbitali
p). Prendendo il terzo livello o guscio questo corrisponde al numero quantico principale 3, ciò vuol dire che
l può essere al massimo 2 (l=0,1,2). Il fatto che l possa assumere tre valori significa che nell’atomo
compariranno le prime tre forme di orbitali s, p e d (quindi si è aggiunto l’orbitale d) e il numero dei
possibili orbitali d viene dato dai valori che può assumere m,i quali derivano dal valore massimo che può
assumere l (in questo caso trovandoci al terzo livello il valore massimo di l corrisponde a 2 e quindi m può
assumere i seguenti valori: -2, -1, 0, +1, +2). Lo stesso ragionamento avviene passando al sottolivello
energetico 4 dove compaiono gli orbitali f che possono essere 7. Poi ci si ferma senza andare avanti coi
livelli e quindi con gli orbitali ma solo perché nel campo della ricerca non si va oltre con lo studio degli
elementi, ma senza dubbio esplorando livelli energetici più alti si potrebbero scoprire altri tipi di orbitali (ad
esempio quello presente ancora solo come proposto “g”).

Tipi di orbitali
Esistono vari tipi di orbitali. Il numero di fronte al tipo di orbitale ci indica il numero quantico principale. Il
nome degli orbitali deriva dal fatto che inizialmente sono stati definiti grazie a osservazioni di tipo
spettroscopico, e S sta per Sharp. Subito dopo gli orbitali S ci sono gli orbitali p ( P sta per principal). Gli
orbitali p del medesimo livello possono contenere al massimo sei elettroni, perché gli orbitali p sono 3 per
ogni livello (quelli s invece hanno solo un orbitale per livello). Gli orbitali p hanno una certa importanza in
fisica medica poiché determinano la reattività dei metalli di interesse per il nostro organismo ; gli orbitali d
(D sta per diffused)sono cinque con capienza massima di elettroni pari a dieci; gli orbitali f (F sta per
fundamental) hanno sette orbitali e capienza massima 14 ed hanno delle funzioni piuttosto complesse, di
cui non ci occupiamo. Gli orbitali d sono gli orbitali caratteristici di un notevole numero di elementi
caratterizzati da un comportamento metallico e che vengono chiamati elementi o metalli di transizione e
che si caratterizzano per avere gli orbitali d parzialmente occupati.

Negli atomi le funzioni d’onda rappresentanti la posizione degli elettroni sono presenti tutte assieme,
sovrapposte le une con le altre, perciò gli elettroni essendo sovrapposti anch’essi gli uni con gli altri creano
delle interferenze reciproche dato che creano un campo magnetico e uno elettrico attorno a loro. Ciò rende
le cose piuttosto complesse. Nella parte alta della tavola periodica dove ci sono gli elementi più leggeri con
Z (numero atomico) più piccolo il comportamento chimico è abbastanza semplice ed è anche facile da
prevedere matematicamente tramite le equazioni di Schrödinger. Andando verso il basso del sistema
periodico dove ci sono gli elementi più pesanti e quindi con un numero elevato di protoni e di elettroni il
comportamento chimico è più complicato e più difficile da prevedere dal punto di vista teorico (proprio

8
perché aumentano le interferenze fra gli elettroni).

Combinazioni possibili di numeri quantici


2 x n2 è il numero delle
combinazioni possibili.
Ciascuna di queste
situazioni corrisponde a
un ben determinato
livello energetico, quindi
al contenuto di energia di
quell’elettrone.
Non può essere associato
a un’energia qualunque
ma c’è una sorta di
scaletta energetica con 32
gradini e l’elettrone deve
per forza occuparne uno
di questi.

Quantizzazione dei livelli energetici


Se noi forniamo un’energia adeguata a un atomo, uno o più dei suoi elettroni potranno salire di scalino
acquisendo energia; quando cessiamo di fornire energia all’atomo, l’elettrone tornerà allo stato di energia
più basso (detto stato fondamentale) restituendo quell’energia.
Questo fenomeno è alla base di molti metodi moderni per determinare la presenza di un certo elemento in
un certo prodotto. Ad esempio, per verificare se in un campione di plasma è presente una determinata
quantità di un elemento raro si procede così: siccome so qual è la quantità esatta di energia che
quell’elettrone che sto cercando deve assorbire per salire di ‘’gradino’’, gliela somministro e se anche solo

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una parte di questa energia viene assorbita vuol dire che quell’elemento è presente. Ne viene assorbita tanta
di più quanto quell’elemento è presente: se ne viene assorbita molta vuol dire che l’elemento cercato è
presente in grandi quantità ma l’energia somministrata deve essere precisa, né di più né di meno.

Duplice natura dell’elettrone:


L’elettrone può essere considerato come una particella con una massa piccolissima (misurata nel secolo
scorso) oppure come un’onda stazionaria tridimensionale (vedi esempio chitarra e tamburello per onde
stazionarie).

Per capire come si comportano gli atomi nel loro ambiente è più comodo, nella maggior parte delle
applicazioni, trattarli da onde stazionarie (onde elettromagnetiche, quindi capaci di generare un campo
elettrico o che si formano dall’ interazione di un campo elettrico e un campo magnetico); d’altra parte
questa loro natura trova un senso ulteriore considerando che gli elettroni sono particelle cariche.

Principio di indeterminazione di Heisenberg:


Col principio di indeterminazione di Heisenberg si può dimostrare matematicamente che non è possibile
stabilire con precisione la quantità esatta di energia associata a un elettrone e contemporaneamente la sua
esatta posizione.

Orbitali atomici e equazione di Schrödinger:


Parlare di orbite degli elettroni non è un modo che ci consente di capire precisamente il loro
comportamento in ambito chimico e fisico, infatti è preferibile parlare delle soluzioni dell’equazione d’onda
di Schrödinger, la quale è una funzione polinomiale piuttosto complicata che contiene quattro parametri
numerici (rappresentanti numeri interi) per ogni elettrone.

Questi parametri sono stati definiti come numeri quantici perché son delle quantità definite. Inserendo
questi numeri quantici in modo opportuno (rispettandone le regole che abbiamo già visto per n,l,m,s
quindi) essi valgono per descrivere gli elettroni sia negli atomi semplici, che sono quelli con pochi elettroni,
sia in quelli più complessi, che invece hanno più elettroni.

Dal momento che l’equazione di Schrodinger non è una semplice equazione algebrica ma è una equazione
differenziale, ovvero contiene delle funzioni derivate e le soluzioni di questo tipo di equazioni sono le
cosiddette primitive, le sue soluzioni sono delle funzioni; quindi per risolverla bisogna trovare non una
incognita e quindi dei semplici numeri ma delle vere e proprie funzioni piuttosto complesse. Queste
soluzioni vengono chiamate orbitali, che definiscono delle regioni nello spazio attorno al nucleo dell’atomo

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dove è massima la probabilità di trovare il singolo elettrone che ci interessa. Gli orbitali più semplici si
chiamano orbitali S ed hanno una forma sferica (che più si avvicina all’idea di orbita).

Orbitali degeneri:
Quando si parla di orbitali degeneri ci si riferisce al loro contenuto energetico. Gli orbitali dello stesso tipo
che sono allo stesso livello energetico principale indicato da n, che siano s l d o f hanno lo stesso contenuto
energetico e quindi si dicono degeneri.

Configurazione elettronica:
● Il “principio di costruzione” degli elettroni
Gli elettroni si dispongono attorno ai nuclei degli atomi con una logica che possiamo assimilare a degli strati
(che vengono anche chiamati gusci, per dar meglio un’idea della fisica microscopica tramite la nostra
visione di quella macroscopica).

Gli elettroni si aggiungono attorno al nucleo degli atomi con una sorta di “principio di costruzione”in cui si
parte dai livelli energetici più bassi e gli elettroni in più devono trovare posto negli orbitali (che hanno
comunque una capienza massima) andando verso energie via via crescenti. Secondo il formalismo di
energia potenziale ed energia cinetica possiamo dire che immaginando di aggiungere un protone ed un
elettrone alla volta in un atomo ogni elettrone aggiunto occuperà un livello energetico più elevato e lo
possiamo considerare con un maggiore livello di energia potenziale perché occuperà una porzione di spazio
attorno al nucleo via via maggiore e più lontana da esso (più ci si allontana dal nucleo più aumenta l’energia
potenziale). Qui si torna alla teoria delle orbite, riferendosi al modello planetario dove Mercurio che è il

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pianeta più vicino al Sole ha una energia più bassa rispetto a Uranio, che invece è quello più lontano
(ipotizzando che i pianeti si muovano secondo un percorso di orbite attorno al Sole).

Principio di Aufbau
Solitamente in linea di massima n crescente vuol dire contenuto energetico crescente e quindi indica la
tendenza che gli elettroni di un orbitale hanno a lasciare temporaneamente o definitivamente l’atomo. La
parola (tedesca) Aufbau vuol dire “costruzione” ed è la regola che la natura segue per sistemare gli
elettroni nei vari orbitali. Assomiglia alle regole di costruzione di un palazzo partendo dalle fondamenta e
poi arrivando al tetto. Ciascun elettrone si sistema cercando l’orbitale disponibile con livello energetico più
basso: non vengono lasciati spazi vuoti, quindi finchè ci son posti disponibili su uno stesso tipo di orbitale gli
elettroni si sistemano lì; quando i posti sono tutti occupati allora “si sale di un gradino”.

Ricordarsi che due elettroni nello stesso orbitale devono avere spin antiparalleli. Se si immagina di
schematizzare un orbitale con un quadratino le due frecce rappresentanti gli spin degli elettroni non
possono essere rivolte nello stesso verso perché starebbero ad indicare spin paralleli e quindi i due
elettroni nello stesso orbitale a cui si riferiscono dovrebbero avere tutti e quattro gli stessi numeri quantici
identici. Nel quadratino le due frecce devono avere verso opposto tra loro ad indicare spin antiparalleli.

Principio di Pauli
Ciascun orbitale può presentare tre possibilità: essere completamente vuoto, contenere un solo elettrone o
contenere due elettroni. Nel meccanismo di riempimento degli orbitali si deve ricordare di applicare il
principio di esclusione di Pauli, uno scienziato germanico, che dice che nello stesso atomo ogni elettrone
deve avere un set di numeri quantici diverso da quello di tutti gli altri elettroni; in altre parole non possono
esistere in uno stesso atomo due elettroni con lo stesso set di numeri quantici. Se in un orbitale son
presenti due elettroni vuol dire che devono avere uguali n,l, m ma diverso s (che ci dice se la rotazione è
oraria o antioraria). Quindi nello stesso orbitale due elettroni devono avere per forza spin antiparalleli.

Stato fondamentale e stato eccitato (regola di Hund)


Solitamente negli atomi gli elettroni si dispongono in una forma preferenziale che corrisponde a quella
fondamentale. Ci sono però situazioni frequenti in cui viene fornita l’energia necessaria e sufficiente per
passare dalla situazione più stabile (che è anche quella a contenuto energetico inferiore) a quella anormale
(l’energia viene fornita da interazioni tra più atomi). Per far spostare un elettrone nel suo stato di stabilità
da un orbitale a un altro orbitale si deve quindi fornire energia. Nella pratica si possono trovare entrambe
le situazioni ma in teoria la disposizione degli elettroni tende ad essere come quella indicata nella forma più

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stabile dell’atomo. Questa energia potrebbe essere fornita ad esempio dalla luce del sole o di una lampada
(luce=onda elettromagnetica).

Questa disposizione è indicata nella regola di Hund.

(Nell’ossigeno molecolare ci sono due elettroni spaiati come nella situazione più stabile, ma in certe
particolari reazioni si produce ossigeno dove i due elettroni sono disposti con differente configurazione
elettronica e l’ossigeno con questa conformazione viene chiamato ossigeno singoletto ed è caratterizzato
da un’elevata reattività: reagisce con tutti gli elementi che non siano gas nobili. Ciò tende a sfaldare gli
equilibri biomolecolari e se questo tipo di ossigeno fosse presente in quantità significanti in natura non ci
sarebbe vita sulla Terra, perché le cose tenderebbero a reagire per combustone, bruciando. L’ossigeno
nello stato fondamentale, quello dell’acqua, è invece una sostanza praticamente inerte: ciò ci permette di
non prendere fuoco. Ci sono organismi soprattutto marini che con una lentissima evoluzione sono riusciti a
produrre molecole organiche capaci di conservare molecole di ossigeno legate tra loro e che
decomponendosi rilasciano ossigeno sotto forma di singoletto. Tra questi organismi emergono soprattutto
certe spugne di mare che, vivendo attaccate agli scogli non possono fuggire in caso venissero attaccate da
dei pesci. Per questo motivo usano come difesa dagli altri pesci il loro tubo digerente, che libera ossigeno
singoletto il quale può risultare addirittura mortale per i predatori. )

Ordinamento elettronico
Aumentando il numero di elettroni in un certo tipo di atomo c’è una forte interferenza reciproca tra gli
elettroni attorno al nucleo che vibrano come onde stazionarie. L’ordine del riempimento degli orbitali non
segue perfettamente l’ordine che ci si aspetterebbe (ad esempio il 4s è un po’ più in basso del 3d negli
“scalini” che quindi si interpone tra 4s e 4p).

Ciò vuol dire che gli elettroni che si muoveranno per primi dall’atomo in una reazione chimica non saranno
quelli nel livello 4s ma quelli del 3d. Ciò capita nella maggior parte degli elementi che solitamente hanno
decine di elettroni (e quindi i loro elettroni tendono ad occupare anche gli orbitali d).

Queste configurazioni possono essere studiate tramite spettroscopi studiando come rispondono gli
elettroni di un atomo se sottoposti a determinati tipi di luce e quindi a determinati tipi di radiazione. Se una
luce con una determinata lunghezza d’onda viene assorbita da un determinato atomo di un certo elemento

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posso capire che c’è una transizione di un elettrone che viene promosso a un livello energetico superiore.
Ciò permette di determinare le posizioni dei vari livelli energetici degli orbitali.

Le lettere s p d f sono termini specifici usati dagli spettroscopisti per la misura della luce: s sta per “sharp”
(“netto”, perché guardando lo spettro di assorbimento della luce si ha un segnale netto), p sta per
“principal”, d sta per“diffused”(“diffuso”)ed f sta per“fondamentale” (sempre guardando gli spettri di
assorbimento). Il 3d quindi reagisce prima del 4s.

L’aggiunta degli elettroni negli orbitali degli atomi più semplici, dove si arriva agli orbitali p, seguono il
principio di Aufbau.

Formalismo dei Gas nobili


Gli elementi che nella loro forma standard si presentano con configurazione a guscio chiuso tendono a non
avere alcuna tendenza né a cedere elettroni nè ad acquisirne né a reagire con altri atomi: sono i gas nobili o
inerti, perchè non reagiscono con nessun altro atomo.

Gli ultimi due gas nobili, i più pesanti e che quindi hanno pesanti interferenze tra elettroni, che sono lo
xenon e il cripton sono meno nobili degli altri gas inerti perché tendono di più a reagire con altri atomi. In
particolare lo xenon è in grado di reagire con gli altri elementi, soprattutto col fluoro e l’ossigeno( dando
origine a fluoruri e ossidi) che sono gli elementi più reattivi di tutti. Comunque essendo nobili tendono a
decomporsi liberando lo xenon elemento. Per ultimi due gas nobili in questo caso si considerano cripton e
xenon, ma in teoria l’ultimo è il radon.

Il radon è un gas piuttosto pesante che rimane nei bassi strati del suolo e che viene emesso continuamente
dalle profondità della crosta terrestre verso la superficie sottoforma di gas incolore ed inodore. Il radon si
trova anche nelle cantine e nei sotterranei che non sono bene aerati. Esso è stato incolpato di elevate
incidenze di tumori soprattutto polmonari in delle zone dove è particolarmente concentrato. Inoltre sono
state mappate le zone dei territori della Repubblica Italiana e risulta che la Sardegna sia tra le regioni dove
la percentuale di radon esalata dal sottosuolo è minima.

La configurazione dei gas nobili, i quali hanno tutti gli orbitali completi viene detta a “guscio chiuso”.Questa
configurazione è il motivo principale dell’inerzia a reagire che caratterizza i gas nobili. Dunque nel caso del
litio, quest’ultimo avrà la configurazione elettronica del Neon è un elettrone in più.

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Prima gli elettroni riempiono gli spazi di un intero orbitale e poi possono passare ad un altro orbitale con
contenuto energetico maggiore. Quando tutti gli spazi disponibili di tutti gli orbitali per gli elettroni possibili
di un elemento sono occupati possiamo dire che quell’ elemento ha una configurazione elettronica a guscio
chiuso o completo (ad esempio l’elio e il neon).

“Promozione” degli elettroni


Quando un orbitale contiene un solo elettrone quello prende il nome di elettrone spaiato, se ne contiene
due si chiamano elettroni appaiati o coppia elettronica; gli orbitali vuoti invece sono quegli orbitali nello
spazio non occupati da elettroni; essi vengono definiti perché può capitare, come nel caso del boro, che gli
elettroni passino da un orbitale ad un altro che prima era vuoto tramite un processo chiamato
“promozione”. Ciò avviene in seguito all’assorbimento di una determinata quantità di energia utilizzata
dall’elettrone per passare da uno stato fondamentale a quello eccitato, aumentando il proprio livello
energetico. Questo passaggio è solo momentaneo in quanto poi l’elettrone una volta che si smette di
fornire energia torna nella sua posizione precedente rilasciando una quantità di energia pari a quella che
aveva assorbito per dar luogo alla sua promozione. E’ possibile misurare sia l’energia assorbita che quella
rilasciata (le due energie sono uguali ma quella assorbita viene misurata con una spettroscopia di
assorbimento mentre quella rilasciata con una spettroscopia di emissione: cambiano quindi gli strumenti
utilizzati per misurare le due energie).

Le parti più interne dell’insieme dei vari strati di elettroni tendono a mantenere la propria conformazione
secondo il principio di costruzione. Gli elettroni più interni ovvero più vicini al nucleo sono quelli più difficili

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da muovere e mantengono una disposizione uguale a quella degli elettroni degli elementi più semplici di
quello preso in considerazione. La configurazione più interna è infatti uguale a quella dell’elio.

Scrittura della configurazione elettronica:


I coefficienti prima delle lettere degli orbitali indicano il livello energetico (quindi il numero quantico
principale) e gli esponenti dopo le lettere indicano gli elettroni presenti in quel tipo di orbitale. Per fare
prima si scrive il gas nobile subito precedente all’elemento preso in considerazione seguito poi dalla
configurazione elettronica rimanente per completare la descrizione della disposizione degli elettroni
dell’elemento. Ciò indica che (a meno che gli elettroni dell’elemento non vengano sottoposti a una fonte di
calore paragonabile ad esempio al Sole o a un reattore nucleare e quindi in grado di smuovere una grande
quantità di elettroni, compresi anche quelli più interni) gli elementi preceduti dal neon come gas nobile
hanno elettroni corrispondenti ai livelli 1s 2s e 2p che sono praticamente inamovibili e che non
parteciperanno al chimismo degli elementi a cui appartengono.

Eccezioni dovute agli orbitali d:


Nel principio di costruzione si trovano delle eccezioni riguardanti soprattutto gli orbitali d e dovute sempre
alle interferenze tra gli orbitali. Gli orbitali d sono caratterizzati per avere una preferenza nell’avere un
elettrone spaiato in ciascuno dei cinque orbitali (cioè un elettrone che dovrebbe trovarsi nell’orbitale s allo
stato fondamentale si trova invece in uno degli orbitali d lasciando così nella configurazione s^1 anziché
s^2). Avviene lo stesso fenomeno anche nell’Argento e nel Cromo.

Sopra, d 5 e d 10 sono forme preferite a d 4 e d 9.

Gli orbitali sono nella situazione energeticamente più favorevole quando sono completamente vuoti,
completamente pieni o pieni a metà.

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A delle configurazioni elettroniche simili corrispondono delle caratteristiche chimiche simili, secondo le
quali gli elementi vennero classificati nella tavola periodica da Mendeleev. Ecco perchè rame, argento e oro
appartengono allo stesso gruppo: hanno comportamento chimico analogo così come è analoga la loro
configurazione elettronica esterna (dalla quale dipende il comportamento chimico). Perciò adesso siamo in
grado di riscrivere la tavola periodica in base alla configurazione elettronica oggettiva senza doverci basare
solo sulle caratteristiche macroscopiche soggettive degli elementi.

Tavola periodica

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Gli elementi del blocco giallo prendono il nome di “elementi di transizione”, la maggior parte di questi
elementi assume un carattere metallico. Gli elementi nel gruppo blu e rosso sono detti elementi dei gruppi
principali. La linea nera spessa suddivide i metalli dai non metalli. Mentre gli elementi che stanno a ridosso
della linea prendono il nome di metalloidi. Essi sono: Germanio, Arsenico, Antimonio, Tellurio, Polonio e
l’Astato. L’Idrogeno pur facendo parte del primo gruppo non è un metallo ma un gas.Il blocco verde invece
è composto dai Lantanidi(o lantanoidi, inizialmente vennero chiamati metalli delle terre rare) e gli Attinidi,
caratterizzati da un nucleo instabile (sono tutti radioattivi). Dall’elemento 93 sono chiamati anche elementi
transuranici.

L’interesse medico scaturisce dal fatto che questi elementi emettono radiazioni dannose per l’organismo.

Elementi liquidi a temperatura standard:


Bromo e mercurio in condizioni di temperatura ambiente sono liquidi e il mercurio(l’unico metallo liquido
che congela a -39○ C)si caratterizza per una volatilità particolarmente elevata, infatti emette dei vapori che
possono essere inalati senza accorgersene causando molti danni. La volatilità del mercurio è una delle
ragioni del perché i paesi civili insistono per sostituire i dispositivi a mercurio con dispositivi funzionanti
senza mercurio (come i termometri a mercurio di un tempo).

Gli altri due potenziali elementi liquidi sono il gallio (molto simile all’alluminio per il resto) che fonde a 29° e
il cesio che fonde a 28°(questi ultimi due sono metalli rari).

Metalli, non metalli, semimetalli:

Nella tabella il colore giallo indica elementi che per le loro caratteristiche sia chimiche che fisiche possiamo
chiamare non metalli. Come si capisce dal nome hanno proprietà radicalmente diverse dai metalli
propriamente detti. Poi ci sono in indaco i metalli rappresentativi; quelli sotto l’idrogeno hanno in comune
con esso di avere un elettrone fuori (cioè in più) dalla configurazione del gas nobile(che li precede
immediatamente). In verde sono colorati i cosiddetti metalloidi o semimetalli che hanno proprietà
soprattutto fisiche ma anche chimiche intermedie tra le caratteristiche dei metalli e dei non metalli. La
caratteristica fisica principale per distinguere i metalli dai non metalli è la lucentezza tipica dei metalli. I non
metalli invece non hanno assolutamente quella particolare lucentezza metallica. I semimetalli invece
solitamente sono una sorta di via di mezzo e a questo punto entra in gioco la possibilità di essere o no
conduttori elettrici: i metalli sono buoni fino a ottimi conduttori della corrente elettrica, mentre i non

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metalli sono degli isolanti cioè non conducono la corrente elettrica; i semimetalli invece sono capaci di
condurre la corrente elettrica ma male,cioè hanno un’alta resistenza specifica.

● Forme allotropiche nei semimetalli


Una caratteristica di alcuni semimetalli è la possibilità di presentarsi in diverse forme allotropiche, cioè
l’elemento è formato sempre dallo stesso tipo di atomi ma questi possono organizzarsi nello stato solido in
reticoli cristallini diversi e allora mostrano delle proprietà diverse.

Prendiamo l’esempio dell’arsenico, che esiste nella forma bianca e nella forma grigia: l’arsenico grigio ha un
aspetto metallico simile al piombo, è duro e fragile, quindi facilmente polverizzabile, ed è sostanzialmente
inerte; in condizioni opportune può diventare arsenico bianco; quello bianco, chiamato anche giallo, ha una
consistenza cerosa, non conduce elettricità, è facilmente infiammabile e risulta tossico tanto da penetrare
attraverso la pelle e intossicarci. L’arsenico grigio sia pure poco conduce la corrente.

La stessa cosa vale per esempio per il Selenio che esiste in forma nera, la quale conduce la corrente purchè
sia illuminato (la sua capacità di condurre la corrente aumenta con l’intensità dell’ illuminazione, infatti le
prime fotocellule erano fatte col selenio; adesso son state sostituite anche perché il selenio è velenoso), e
in forma rossa, incapace di condurre l’elettricità.

Gli elementi in azzurro (compresi i due periodi in basso che si possono considerare come interni alle due
caselle a cui vengono associati) sono gli elementi di transizione ed hanno tutti l’aspetto metallico e sono i
primi che ci vengono in mente quando sentiamo la parola metallo, come ad esempio per il ferro o
l’argento); di particolare hanno che contengono gli orbitali d parzialmente o totalmente occupati.

Nell’argon tutti gli orbitali s ma anche i 2p e i 3p sono tutti occupati, si tratta infatti di un gas nobile. Se si
passa all’elemento subito successivo all’argon, che ha un protone ed un elettrone in più rispetto ad esso,
l’elettrone in più deve occupare un posto nell’orbitale 4s. Andando avanti ancora di un elemento la
configurazione sarebbe 4s^2. Andando sempre avanti e aggiungendo un altro protone in teoria arrivando al
gallio per la regola di Aufbau si dovrebbe avere come configurazione 4S^2 4p^1, invece non è così perchè si
ha già disponibile l’orbitale 3d che ha una energia leggermente inferiore rispetto all’orbitale 4p. Nello
Scandio anziché avere come configurazione esterna Ar 4s^24p^1 si avrà Ar 4s^2 3d^1. Solo dopo che tutti
gli orbitali 3d disponibili sono stati occupati entreranno in gioco gli orbitali 4p.Procedendo si segue la stessa
logica arrivati ai lantanidi, dove prima di riempire gli orbitali d si devono riempire tutti gli orbitali f.

Gruppi particolari:
● Alogeni
Gli elementi nel gruppo precedente a quello dei gas nobili hanno una forte tendenza a prendere elettroni
dato che gli manca solamente un elettrone per raggiungere la forma più stabile a guscio chiuso; prendono il
nome di alogeni, parola che è stata coniata dal greco e vuol dire generatori di sali. In effetti il cloro è uno
degli elementi del sale da cucina (NaCl).

● Calcogeni
Gli elementi del gruppo precedente agli alogeni hanno anch’essi una forte tendenza a prelevare elettroni
(un po’ meno rispetto agli alogeni) e si chiamano calcogeni.

● Metalli alcalini
I metalli del primo gruppo si chiamano metalli alcalini ed hanno un elettrone in più rispetto al gas nobile
che li precede e quindi tendono a sbarazzarsi di quell’ elettrone in più cedendolo ad altri atomi; sono
talmente reattivi che non si trovano mai nella loro forma elementare, cioè come singoli atomi, ma si
trovano solo sottoforma di composti. Tanto è forte la loro tendenza a cedere elettroni e tanto è forte la
tendenza degli alogeni a prendere elettroni che né gli uni né gli altri si trovano facilmente in natura al loro
stato elementare visto che entrambe le forme sono molto reattive; il potassio lasciato in un’atmosfera

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umida può reagire così violentemente da bruciare. I metalli alcalini si chiamano così perchè gli idrossidi si
chiamavano alcali dall’arabo Al Calì.

● Metalli alcalini terrosi


Gli elementi del secondo gruppo hanno due elettroni in più rispetto ai gas nobili; anche loro tendono a
cederli e si chiamano metalli alcalini terrosi perché i loro ossidi hanno una forma terrosa: un esempio ne è
la calce.

● Metalli terrosi (gruppo IIIA)


Gli elementi del gruppo IIIA si chiamano anche metalli terrosi e a parte l’alluminio che è uno dei più comuni
della crosta terrestre sono tutti piuttosto rari e i loro ossidi presentano un aspetto terroso/polveroso.

Analogie dovute agli orbitali d:


Gli orbitali d giocano un ruolo importante non solo nei metalli di transizione ma anche nei non metalli più
pesanti.

Ad esempio gli elementi nel gruppo dell’ossigeno hanno caratteristiche abbastanza diverse da quelle
dell’ossigeno perché a differenza di esso sono solidi mentre l’ossigeno è un gas; ciò perché in caso di
promozione questi (zolfo, selenio e tellurio) possono accedere a degli orbitali d che prima erano vuoti.
Infatti questi tre si assomigliano molto più tra loro che rispetto all’ossigeno.

Ancora, come esempio, si hanno cloro, bromo e iodio che sono rispettivamente uno gassoso, uno liquido e
uno solido e che quindi hanno proprietà fisiche molto diverse tra loro ma che si trovano nello stesso gruppo
perché hanno invece proprietà chimiche simili. Si può dire che il bromo sia una via di mezzo tra lo iodio e il
cloro. Il fluoro invece fa un discorso abbastanza a parte. Idem l’azoto, un gas che occupa circa il 78%
dell’area atmosferica che differisce dagli altri elementi del suo gruppo più di quanto differiscano essi tra
loro(sono tutti solidi mentre l’azoto è gassoso). Fosforo e arsenico sono parenti molto più stretti di quanto
non lo siano con l’azoto perché hanno degli orbitali vuoti che però sono in grado di occupare con gli
elettroni.

I salti energetici negli altri elementi sono particolarmente rari e di solito non avvengono.

Raggio atomico:
Una caratteristica interessante del sistema periodico è la corrispondenza che si può notare tra il numero di
protoni ed elettroni e il raggio atomico, secondo il quale gli elementi vengono ordinati in modo
proporzionato. Il raggio si indica in picometri (un picometro=un miliardesimo di millimetro [1x10^-12 m]).
In ogni periodo del sistema periodico aumenta il numero di protoni, e quindi la massa, spostandosi verso
destra mentre la lunghezza del raggio atomico invece diminuisce, quindi gli elettroni si dispongono in modo
da occupare meno spazio (questa regola non è rigidissima ma comunque valida).

Aggiungendo elettroni ad un atomo e rendendolo così uno ione il suo raggio atomico può aumentare
considerevolmente (caso dell’ossigeno), e viceversa togliendone uno o un paio il raggio diminuisce in modo
notevole(caso del litio).

Domanda: la collega chiede se la diminuzione del raggio atomico dipenda anche da una maggiore
attrazione verso il nucleo all’aumentare del numero di elettroni e di conseguenza dei protoni. Il professore
risponde che appunto quanto affermato dalla collega è uno dei fattori che appunto influenzano il raggio.

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Procedendo verso destra lungo un periodo il raggio atomico tende a diminuire, mentre procedendo verso il
basso lungo un gruppo tende ad aumentare. Però non tutti gli elementi seguono quest’andamento. Uno di
questi che fa eccezione è l’Arsenico. Infatti noi ce lo aspetteremo un po’ più piccolo rispetto al Germanio,
ma accade il contrario. Anche lo Stagno e il Polonio fanno eccezione.

Gli ioni:
Gli atomi sono potenzialmente in grado di perdere o acquisire elettroni. Un elemento che ha perso o
acquisito uno o più elettroni si chiama ione; gli ioni possono essere negativi (anioni) nel caso acquisiscano
elettroni o positivi (cationi) nel caso ne cedano; gli anioni possono essere il bromuro, lo ioduro, il cloruro (in
questo caso viene quindi aggiunta la desinenza –uro) mentre i cationi si chiamano ione calcio, ione litio ecc.

Aggiungendo elettroni ad un atomo e rendendolo così uno ione il suo raggio atomico può aumentare
considerevolmente (caso dell’ossigeno), e viceversa togliendone uno o un paio il raggio diminuisce in modo
notevole(caso del litio). Anche nel caso del Berillio, quando quest’ultimo perde i suoi elettroni di valenza
subisce una notevole variazione del raggio atomico(che diminuisce notevolmente).

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Ionizzazione:
Se la temperatura di un certo sistema viene portata a parecchie migliaia di gradi avviene la ionizzazione
degli atomi, che perdono gran parte(o tutti) i loro elettroni. Si avrà perciò un gas ultra caldo che sarà
costituito da (nuclei? Non si capisce dalla registrazione) ed elettroni fluttuanti. Questa situazione si trova
nelle stelle o nel sole e prende il nome di plasma. Nelle normali reazioni chimiche questi comportamenti
estremi non si verificano. Infatti sono solo pochi gli elettroni che in natura si possono allontanare e sono
quelli più esterni(con facilità differente).

I metalli hanno la tendenza a cedere i loro elettroni più esterni, mentre i non metalli hanno la tendenza
opposta, ovvero quella di acquisire elettroni. I metalloidi invece sono una via di mezzo.

Energia di Ionizzazione:
Se noi immaginiamo di prendere un atomo qualsiasi e prendiamo l’elettrone dotato della massima
energia(quello più facile da allontanare) e lo allontaniamo ad una distanza infinita in modo tale da ridurre al
minimo l’attrazione elettrostatica, occorrerà spendere una quantità di energia.
Questa energia prende il nome di energia di ionizzazione( o potenziale di ionizzazione). Più è facile
allontanare l’elettrone minore sarà la quantità di energia che sarà necessario fornire.
Nel sistema periodico la facilità nello strappare gli elettroni cresce andando verso sinistra lungo i periodi e
scendendo verso il basso lungo i gruppi. Detto ciò l’energia di ionizzazione aumenta andando verso destra e
verso l’alto.
Infatti bisogna tenere presente che all’interno dello stesso gruppo, andando verso il basso incontriamo via
via elementi più pesanti, quindi elementi che hanno un gran numero di elettroni. Quelli più esterni saranno
per cui meno influenzati dalla forza attrattiva del nucleo, quindi più liberi, quindi l’energia di ionizzazione
sarà via via minore.
Gli elementi che invece richiedono una grande energia di ionizzazione allo stato normale difficilmente lo
perdono.

Affinità elettronica:
Se invece immaginiamo di compiere il processo inverso, ovvero di avvicinare un elettrone ad un atomo,
facendogli acquistare una carica negativa. In seguito a questo fenomeno si libera una quantità di energia
che sarà tanto elevata quanto sarà elevata l’affinità elettronica di quell’atomo. Gli atomi con la maggiore
affinità elettronica sono quelli situati in alto a destra nella tavola periodica.
Invece questo processo libera una quantità di energia minima negli atomi situati in basso a sinistra nella
tavola periodica.
Perciò i non metalli tendono ad acquistare elettroni altrui, mentre i metalli no. I gas nobili invece non
vengono presi in considerazione. Questi ultimi infatti hanno potenziali di prima ionizzazione elevatissimi.
Sia i metalli che i gas nobili sono caratterizzati da una bassissima affinità elettronica. Al contrario i

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Ogni volta che un atomo perde o acquisisce elettroni prova a raggiungere la configurazione elettronica del
gas nobile più vicino, perdendo o acquistando elettroni.
Idrogeno, Fluoro, Cloro, Bromo, Iodio sono elementi che possono perdere elettroni solo con grande
difficoltà, ma hanno una tendenza notevole ad acquisire un elettrone.

● Come si può vedere per i gas nobili (indicati con le sfere rosse) servirebbe un’energia
particolarmente elevata.
● Lo Xenon, a destra, ha un’energia alta, ma non irraggiungibile.
● Non si conoscono, invece, composti stabili dell’Elio, che è “molto nobile” e non reagisce con
nessuno.
● Il Neon uguale, mentre per quanto riguarda Argon, Kripton e Xenon soprattutto, si può dire che
“scendono a compromessi”.
● Con i metalli alcalini è invece particolarmente facile togliere un elettrone. Sono dei metalli che in
natura non si trovano mai nello stato metallico proprio perché hanno questa forte tendenza a
sbarazzarsi dell’elettrone più esterno. Si trovano in natura solo come rispettivi cationi (e come
vedremo ciò significa dire che si trovano sotto forma dei rispettivi sali).
É possibile ottenerli con diverse reazioni e particolari precauzioni in laboratorio; quelli più comuni
sono Sodio e Potassio. Sono metalli che hanno un aspetto simile all’argento, ma durano pochissimo
all’aria perché si ossidano, diventano opachi e si coloriscono di scuro. Si tagliano con il coltello
(sono molto teneri), non è assolutamente consigliabile toccarli con le mani perché le ustionano.
● Quelli in verde sono gli elementi di transizione, elementi a cui mancano molti elettroni, sia da
aggiungere che da togliere, per arrivare alla configurazione elettronica a guscio chiuso del gas
nobile.
● Idrogeno, Fluoro, Cloro, Bromo, Iodio sono elementi che possono perdere elettroni solo con grande
difficoltà, ma hanno una tendenza notevole ad acquisire un elettrone.

Elettronegatività:
I valori dell’affinità elettronica e del potenziale di ionizzazione, quindi, ci dicono quanto un elemento ha
tendenza ad acquisire o a cedere elettroni e possono essere matematicamente combinati in vari modi. Vari
chimici nel corso dello scorso secolo, hanno cercato di individuare un parametro nuovo, semi empirico,
quindi non così rigoroso dal punto di vista matematico o fisico.
Esistono vari modi per calcolare l’elettronegatività ma il più usato è quello seguendo la cosiddetta scala di
Paulig. Quest’ultimo è stato un chimico del ‘900 che si è occupato di molti aspetti della chimica: la struttura
tridimensionale delle molecole proteiche, l’elettronegatività, le proprietà della vitamina C.
Dire che un elemento è poco elettronegativo equivale a dire che quello stesso elemento è molto
elettropositivo.

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Le frecce gialle ci dicono come varia l’elettronegatività all’interno della tavola periodica. Come possiamo
notare, e come ci si può aspettare, l’elemento più elettronegativo di tutti è il Fluoro mentre quello meno
elettronegativo o più elettropositivo è il Cesio. Il secondo elemento più elettronegativo è l’Ossigeno perché
particolarmente inerte, di fatto si trova allo stato elementare costituendo circa il 21% dell’aria che
respiriamo. I metalli di transizione hanno valori di elettronegatività piuttosto elevati, perciò hanno una
tendenza a produrre ioni positivi minore rispetto ai metalli alcalini e alcalino-terrosi.

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CHIMICA LEZIONE 3, 21/10/21. Veronica Corvo

LO STATO SOLIDO: SOLIDI CRISTALLINI E SOLIDI AMORFI

Dedichiamoci a parlare dello stato solido e delle differenze tra solidi cristallini e solidi amorfi:
- I solidi cristallini sono dotati di una struttura particellare ordinata e periodica, che si ripete con una tale
regolarità da formare un corpo compatto chiamato cristallo. Nella maggior parte dei casi la struttura
cristallina risulta osservabile solo attraverso microscopi, talvolta però, come nel caso di alcuni minerali, essa
può raggiungere grandi dimensioni e persino pesare tonnellate, e dunque essere visibile ad occhio nudo. I
solidi cristallini possiedono una temperatura di fusione ben precisa e determinabile.
- I solidi amorfi (dal greco “senza forma”, anche se in realtà una forma la hanno) invece sono dotati di una
struttura disordinata e priva di periodicità. Esempi di solidi amorfi sono le sostanze di natura vetrosa,
considerati infatti liquidi ultra-raffreddati, il cui il movimento casuale delle particelle è stato “congelato”. Se
riscaldati (a meno che non si tratti di sostanze instabili e che quindi si decompongono), i solidi amorfi prima
di fondere si rammolliscono, e per questo per essi non si parla di temperatura di fusione ma di “intervallo di
rammollimento”.
IL CRISTALLO

Osservando al microscopio un solido cristallino regolare ( = rigorosamente ordinato), come il comune NaCl,
la sua struttura ci apparirebbe esattamente come nella figura sopra-riportata.
In essa è possibile notare immediatamente un’ alternanza regolare tra le particelle elettricamente cariche
che lo formano: quelle piccole e grigie rappresentano gli ioni sodio Na+, mentre quelle più grandi e verdi
rappresentano gli anioni cloruro Cl-.
L’ingrandimento raffigurato ci permette invece di osservare la cella elementare, ovvero l’unità ripetente più
piccola individuabile in un cristallo. Le linee raffigurate in tale cella sono immaginarie e servono
esclusivamente ad individuare il sistema cristallino a cui un certo solido appartiene.
La scienza che si occupa di studiare la struttura tridimensionale dei cristalli è la cristallografia.
Ma negli esseri viventi dove solo localizzate le strutture cristalline? Principalmente in alcuni tessuti ad alta
concentrazione minerale, come il tessuto osseo, lo smalto dei denti e la dentina, poiché contengono
l’idrossiapatite, un fosfato basico di calcio con struttura cristallina, appunto. Recentemente però, si è
scoperto che anche le membrane cellulari, di base a composizione lipidica, contengono delle porzioni
cristalline o paracristalline, che contribuiscono a conferire caratteristiche peculiari delle biomembrane:
prima fra tutte la fluidità.

L’ENERGIA RETICOLARE

La formazione di un cristallo è un processo che può sprigionare energia oppure consumarla, ed essere
quindi esoergonico o endoergonico; se consuma energia, chiaramente, quella data sostanza avrà poca o
nessuna tendenza a formare cristalli e preferirà dunque rimanere allo stato amorfo.
Nella maggior parte dei casi però, la formazione di un cristallo risulta essere un processo esoergonico e che
quindi sprigiona energia, che nello specifico prende il nome di energia reticolare. Più è elevata l’ energia
reticolare più sarà spontanea la cristallizzazione: una forte energia reticolare infatti spesso dà luogo a
cristalli che in acqua si sciolgono poco o per niente. Esistono però delle eccezioni.

CRISTALLI IONICI E SOLUBILITÀ

Alcune sostanze, pur avendo un’elevata tendenza a cristallizzare, in determinate condizioni, sono in grado
di abbandonare questo stato con altrettanta facilità.
Prendiamo il caso dello Ioduro di Litio, la cui struttura appare raffigurata nell’immagine sopra-riportata. Lo
ioduro di Litio, pur essendo un sale molto stabile, risulta anche estremamente solubile in acqua.
Spieghiamo adesso il perché.
Osservando la figura noterete la notevole vicinanza tra gli ioni ioduro, caratterizzati dalla stessa carica, che
inevitabilmente causa l’instaurarsi di forze repulsive. Per questo quando il cristallo viene immerso in
soluzione acquosa le molecole di H2O riescono facilmente a separare gli ioni di carica opposta, idratando il
cristallo e portandolo in soluzione. Questo significa che possiamo sciogliere moltissimo ioduro di litio
ottenendo una soluzione che contiene praticamente più sale disciolto che acqua. La stessa cosa avviene
anche se le forze repulsive interessano prevalentemente i cationi e non gli anioni, come nel caso del
fluoruro di cesio: uno dei sali più solubili conosciuti.

CRISTALLI COVALENTI
Non solo le sostanze ioniche sono capaci di formare i cristalli, infatti esistono anche cristalli formati da
sostanze covalenti, come nel caso del ghiaccio o del diamante. Quest’ultimo nello specifico va a formare
una struttura chiamata reticolo cristallino covalente infinito, ovvero un’unica gigantesca molecola (nel caso
del diamante, di carbonio).
Un altro esempio di cristallo covalente ci può essere fornito da un metallo, caratterizzato, a differenza del
diamante, da una struttura microcristallina individuabile attraverso la cella elementare.
Nei solidi metallici, sia che siano cristallini sia che siano allo stato amorfo, c’è una notevole libertà di
movimento degli elettroni che vanno a formare una sorta di nuvola che provoca un’ottima conducibilità
elettrica.
Un altro cristallo invece, come il cloruro di sodio, di norma non conduce per niente l’elettricità, ma si è
scoperto che se riscaldato intorno ai 700/800 °C fonde diventando conduttore; esistono infatti alcuni
processi industriali che si basano sulla conduzione della corrente elettrica del cloruro di sodio fuso.

Esistono poi delle sostanze che, a causa della loro particolare struttura molecolare, quando scaldate non
fondono subito ma passano attraverso delle situazioni intermedie tra lo stato solido cristallino e quello
liquido: stiamo parlando dei cosiddetti cristalli liquidi, che hanno un gran numero di applicazioni anche
nella vita di tutti i giorni (schermi, visori ecc.) .
Nell’immagine sotto-riportata è rappresentato un esempio di cristallo liquido: una sezione di
miomembrana, che ci permette di notare che in essa si possono verificare due situazioni, che dipendono
principalmente dalla temperatura: la fase cristallina (gel) e la fase liquido-cristallina. Ricordiamo che le
proprietà fisiche, chimiche, elettriche e meccaniche delle biomembrane dipendono proprio dall’assetto

delle loro strutture.

I GAS

Nei gas lo spazio occupato è principalmente vuoto, infatti una sostanza ha come stato di aggregazione
quello gassoso quando la distanza tra le varie particelle è molto grande, che ne impedisce le interazioni
elettrostatiche. In un gas ideale le interazioni tra particelle sono nulle, ma nei gas reali sono ≠ 0, seppur
notevolmente ridotte. Più un gas è diluito (minore è la sua pressione) maggiore sarà la sua tendenza a
comportarsi come un gas ideale.

LEGGI DEI GAS


(Ricordiamo che le leggi dei gas risultano valide per i gas ideali).

LEGGE DI BOYLE

Ci dice che in un campione di gas tenuto a temperatura costante, aumentando il volume disponibile la
pressione tenderà ad abbassarsi, e viceversa. Il volume è dunque inversamente proporzionale alla
pressione.
Boyle studiava i gas da un punto di vista scientifico e non più alchemico (come si era fatto fino a questo
momento). Tenete conto che anche i nomi degli elementi gassosi che ora conosciamo hanno subito
modifiche nel corso del tempo; l’idrogeno ad esempio, appena scoperto, veniva chiamato “aria
infiammabile”, poiché venne scoperto che in presenza di ossigeno esso poteva prendere fuoco o addirittura
esplodere. Il suo nome attuale deriva dal greco e significa “generatore d’acqua”, poiché bruciando il suo
unico prodotto risulta essere H2O, ed è per questo considerato un combustibile amico dell’ambiente.
L’idrogeno però non può ancora essere utilizzato come combustibile alternativo perché presenta vari
problemi: i costi di produzione, poiché la decomposizione dell’acqua richiede molta energia; non può
essere liquefatto normalmente ma compresso in appositi contenitori, perché richiede temperature
bassissime e pressioni altissime per essere costretto allo stato liquido; inoltre, essendo costituito da
molecole piccolissime, riesce a penetrare pareti che invece risultano impenetrabili a qualsiasi altro gas
(come l’acciaio).
Nell’immagine sotto-riportata (a destra) possiamo notare il fenomeno della respirazione, che descrive
perfettamente la legge di Boyle, tenendo conto che i gas reali manifestano delle piccole deviazioni rispetto
alle leggi dei gas ideali. Nei gas più comuni però, tali deviazioni sono state calcolate e dunque si conoscono i
parametri correttivi che devono essere applicati.

LEGGE DI CHARLES

Ci dice che il volume di un dato campione di gas, mantenuto a pressione costante, è direttamente
proporzionale alla sua temperatura assoluta: aumentando la temperatura aumenterà anche il volume. Un
gas riscaldato si espande e uno raffreddato si contrae; un gas caldo ha quindi una densità più bassa e un gas
freddo più alta, il che spiega perché l’aria calda tende a salire e quella fredda tende a scendere.

LEGGE DI GAY-LUSSAC

Ci dice che chiudendo un gas in un recipiente, che gli impedirebbe dunque di espandersi o contrarsi,
aumentando la temperatura, il volume sarà costretto a rimanere costante, ma la pressione aumenterà di
conseguenza. Ecco perché in molti impianti industriali che lavorano con sostanze gassose il controllo della
temperatura risulta cruciale per la sicurezza dell’impianto stesso; un riscaldamento incontrollato, privo di
opportuni controlli, è perfettamente in grado di produrre esplosioni anche da gas non combustibili perché
la pressione aumenta talmente tanto da vincere la resistenza meccanica dei contenitori.

LEGGE DI AVOGADRO

Ci dice che qualunque gas nelle medesime condizioni di temperatura e pressione occupa il medesimo

volume perché contiene lo stesso numero di moli.


Una mole di gas contiene 6x10ˆ23 molecole e occupa 22,41L (con piccole differenze tra i vari gas ideali).

Tale legge per essere valida deve far riferimento ad un certo gas in cui le interazioni tra le particelle
risultano essere nulle o scarsissime, quindi appunto nei gas ideali o in quelli reali molto diluiti.
Nella seguente tabella è possibile notare le differenze tra i gas ideali e quelli reali.

I LIQUIDI E LE LORO PROPRIETÀ


VAPORE E CONDENSA: TEMPERATURA CRITICA DI UNA SOSTANZA

Versando dell’acqua all’interno di un contenitore chiuso, se l’aria esterna è secca, noteremo che un certo
numero di molecole d’acqua abbandoneranno velocemente lo stato liquido per passare a quello aeriforme
o gassoso, formando il vapore.
Spesso noi chiamiamo “vapore” un aerosol, ovvero ciò che si ottiene quando il vapore condensa e dallo
stato gassoso torna a quello liquido, come quello che viene fuori da una pentola con l’acqua bollente, dal
fiato della nostra bocca quando ci troviamo in un ambiente freddissimo o come le nuvole. In tutti questi
casi però non si tratta di vapore ma di condensa appunto, ovvero micro-goccioline d’acqua allo stato
liquido. Ricordiamoci che il vapore risulta essere invisibile, mentre la condensa forma quella “nube”
biancastra osservabile ad occhio nudo.
Ma qual è la vera differenza tra vapore e condensa? Il vapore è un gas che si trova al di sotto della propria
temperatura critica.
Anticamente non si disponeva di apparati capaci di ottenere temperature estremamente basse, necessarie
per far liquefare i gas, dunque vigeva la convinzione che alcuni gas non potessero mai essere liquefatti,
nemmeno comprimendoli fortemente; tali gas vennero chiamati “incoercibili”. Oggi sappiamo invece che i
gas incoercibili non esistono, poiché per tutti esiste una temperatura sufficientemente bassa da costringerli
a condensarsi.
L’elio è il gas che oppone più resistenza alla liquefazione, infatti diventa liquido solo quando la temperatura
viene abbassata ben al di sotto dei 200 °C sotto zero (nello specifico: -268°C / 5 K).
Per ogni gas dunque esiste una temperatura, la temperatura critica, al di sopra della quale non potrà
diventare liquido. Al di sotto di quella temperatura si formerà quindi il vapore, anche se come abbiamo
detto questo termine viene spesso utilizzato in modo improprio.
La temperatura critica dell’acqua è al di sopra dei 300 ° , perciò anche se otteniamo del vapore caldissimo a
250°C, applicando una forte pressione, esso sarà in grado di tornare nuovamente allo stato liquido, mentre
sopra i 350 ° circa questo non sarà più possibile.

L’immagine sopra-riportata raffigura il processo dell’evaporazione. Tuttavia è possibile notare come, se il


contenitore si trova in una stanza a temperatura ambiente, questo processo verrà affiancato da quello
inverso: contemporaneamente all’evaporazione avverrà dunque la condensazione.
Se la velocità di evaporazione vince su quella di condensazione sarà possibile notare un abbassamento del
livello dell’acqua nel recipiente; ma se le due velocità si eguagliano il livello resterà inalterato: nell’unità di
tempo tante bolle d’acqua abbandonano lo stato liquido per passare a quello di vapore quante molecole
d’acqua abbandonano lo stato di vapore per tornare a quello liquido, ottenendo un equilibrio.
Ricordiamo che una data sostanza, per passare dallo stato liquido a quello gassoso, deve incrementare
l’energia cinetica a tal punto da far in modo che questa riesca a vincere sulla tensione presente nella
superficie acquosa.
LA PRESSIONE/TENSIONE DI VAPORE

Quando il vapore riesce finalmente ad abbandonare la superficie del liquido e a passare allo stato gassoso,
si assiste ad un aumento della pressione, la quale prende il nome di “tensione di vapore”, e che cresce al
crescere della temperatura in funzione del liquido considerato.
Esistono dunque liquidi più o meno volatili: nella figura sopra-riportata è possibile notare che, tra i quattro
liquidi riportati, il cloroformio è il più volatile mentre l’acido acetico è il meno volatile. Questa differenza di
comportamento, che dipende dalle diverse proprietà chimico-fisiche delle sostanze, verrà approfondito nel
corso delle lezioni.
Quando la tensione di vapore diventa pari o superiore alla pressione atmosferica, le molecole di liquido
passano allo stato di vapore in massa e il liquido in questione inizia a bollire. Si tratta di un processo
endoergonico e che avviene senza variazione di temperatura: pur continuando a fornire calore ad una
pentola d’acqua che già bolle la temperatura rimarrà costante a 100 °C.
Se ci troviamo in alta montagna, dove la pressione atmosferica è più bassa, l’acqua bollirà prima (80°C),
perché sarà più facile per la tensione di vapore arrivare ad eguagliare quella atmosferica: maggiore è la
quota in cui ci troviamo minore sarà la temperatura di ebollizione dell’acqua.

LA TENSIONE SUPERFICIALE

Anche per la tensione superficiale esistono delle differenze in base alla natura chimica di un dato liquido.
Le sostanze che abbassano in maniera più o meno importante la tensione superficiale dell’acqua prendono
il nome di “tensioattivi”; un esempio di tensioattivo ci è fornito dai detergenti (shampoo, bagnoschiuma,
sapone per i piatti ecc.) che abbassano drasticamente la tensione superficiale dell’acqua permettendo
l’asportazione del grasso e dell’olio.
Se abbiamo un bicchiere d’acqua e ci depositiamo sopra una graffetta di metallo, facendo attenzione a non
bucare lo “strato/pellicola” che si forma sulla superficie del liquido, noteremo che esso galleggerà,
nonostante abbia un peso specifico superiore a quello dell’acqua; questo spiega perché le foglie secche e
alcuni insetti riescono a galleggiare sulla superficie.
Specifichiamo che la stessa cosa non potrebbe mai avvenire con una biglia di vetro o con una pietra perché
la forza esercitata da tali sostanze risulterebbe ben superiore a quella che gli si oppone grazie alla tensione
superficiale.
La tensione superficiale è fondamentale per quanto riguarda gli scambi gassosi che avvengono a livello
degli alveoli polmonari.
Nei polmoni di un individuo correttamente sviluppato e maturato è presente un agente tensioattivo
naturale, il surfattante, che impedisce il disseccamento della superficie alveolare e delle possibili
conseguenze. Nei nati prematuri invece tale agente scarseggia, perciò a livello degli alveoli è presente
un’elevata tensione superficiale che ostacola il corretto scambio gassoso (per questo sono costretti a
seguire una terapia specifica).

CAPILLARITÀ

La tensione superficiale è importante anche per quanto riguarda il comportamento di un liquido contenuto
all’interno di un recipiente. La superficie di un certo liquido racchiuso in un recipiente (ad esempio una
provetta o un tubo di vetro) è chiamata “menisco”.
L’acqua è formata da particolari molecole che hanno la tendenza ad instaurare interazioni con il vetro,
interazioni che risultano essere ancora più forti di quelle che si instaurano tra le molecole di H2O stesse.
Questa affinità per il vetro spiega il fenomeno della capillarità: la tendenza del liquido ad “arrampicarsi”
sulle pareti del contenitore. Più è sottile il contenitore di vetro, maggiore sarà la salita dell’acqua.
Le molecole di mercurio invece tendono ad instaurare interazioni più forti tra di loro piuttosto che con il
vetro; il menisco che ci troveremo davanti non sarà quindi concavo, come nel caso dell’acqua, ma convesso.
Questa repulsione del mercurio nei confronti del vetro ci permette di osservare della “capillarità negativa”.

MISCELE E COLLOIDI
Nell’immagine sopra-riportata possiamo notare il famoso effetto Tyndall: nel bicchiere di destra è presente
una soluzione mentre in quello di sinistra una sospensione colloidale; anche se a prima vista ci sembrano
entrambi sistemi omogenei, in realtà il bicchiere di sinistra è caratterizzato da una “micro-eterogeneità”,
tant’è vero che le particelle , chiamate “micelle”, sono di dimensioni sufficientemente grandi da disperdere
la luce. Infatti attraverso le sospensioni colloidali è possibile vedere il cammino del raggio di luce, mentre
nelle soluzioni questo non avviene. Lo stesso fenomeno lo si può osservare se in una stanza perfettamente
buia apriamo uno spiraglio nella tapparella: anche se il sole non ci colpisce direttamente, siamo comunque
in grado di vedere il raggio di luce, poiché questo impatta sul pulviscolo atmosferico. Nello specifico, le
particelle che rimangono in sospensione nell’atmosfera deviano una percentuale di luce solare verso il
nostro occhio, permettendoci di vederla, appunto.
Il moto Browniano (dal nome del suo studioso Brown) descrive vari tipi di sistemi colloidali (dunque micro-
eterogenei). I colloidi, in base alla loro affinità con l’acqua, possono essere suddivisi in: colloidi liofili (dal
greco: amici del solvente) e colloidi liofobi (dal greco: nemico del solvente).
Esistono degli apparecchi chiamati “mulini colloidali”, composti da materiali durissimi come l’Agata, che
consentono di macinare altre sostanze in maniera talmente fine da ottenere delle polveri impalpabili,
sufficientemente piccole da poter rimanere in sospensione colloidale, a prescindere dal fatto che abbiano o
no affinità per l’acqua.
Prendendo ad esempio del nitrato d’argento e trattandolo con una reagente chimico riducente, si separa
dell’ argento metallico sotto forma di particelle estremamente piccole; inoltre, a seconda di come viene
condotto l’esperimento, non si formerà nessun precipitato ma si otterrà una sospensione colloidale di
colore viola.
Lo stesso esperimento può essere eseguito anche con il cloruro di oro, che ci permette di ottenere dell’oro
metallico sempre sotto forma di sospensione colloidale di colore rosso rubino. In questo caso il colore
risulta rosso semplicemente perché la diffusione della luce effettuata dalle particelle di oro privilegia le
radiazioni la cui lunghezza d’onda cade nel rosso.
Queste soluzioni però non dureranno a lungo, poiché l’affinità dell’oro e dall’argento con l’acqua è molto
bassa: la loro esistenza è temporaneamente permessa dalla finezza delle particelle e dal metodo di
esecuzione dell’esperimento.
I colloidi liofili invece sono formati da molecole talmente grandi da formare singolarmente la particella
colloidale. L’esempio più classico di colloide liofilo ci è finito dalle proteine, in particolare quelle del nostro
organismo, che essendo tali non hanno alcuna tendenza ad aggregarsi e precipitare.

«Per riassumere il concetto (secondo la mia interpretazione): i colloidi liofobi, come il nitrato d’argento e il
cloruro d’oro, non sono in grado di interagire con l’acqua; tuttavia se trattati con i mulini colloidali possono
essere trasformati in polveri talmente piccole da riuscire a rimanere ugualmente disperse in soluzione,
come farebbe con colloide liofilo grazie alle interazioni che forma con l’ambiente acquoso. Tuttavia dopo
poco tempo le particelle, per quanto piccole e disperse, non avendo alcun interazione con l’ambiente
circostante, tenderebbero ugualmente a ri-aggregarsi tra loro per poi precipitare. Questa cosa
fortunatamente non accade con i colloidi liofili che, sia grazie alle loro elevate dimensioni che alle
interazioni che formano con l’acqua, riescono a rimanere dispersi (infatti immaginate se le proteine del
nostro corpo si aggregassero e precipitassero)».

LE SOLUZIONI

Nei sistemi biologici, quando parliamo di solvente (salvo eccezioni) ci riferiamo all’acqua. Le reazioni
chimiche di interesse bio-medico quindi avvengono quasi sempre in un ambiente acquoso; d’altra parte,
sappiamo che il peso corporeo riceve un contributo di almeno il 50% dall’acqua.

SOLUZIONI LIQUIDE
Quando all’interno di un solvente sono immerse delle particelle sufficiente piccole da non riuscire
nemmeno a dare luogo al fenomeno della diffusione della luce, a quel punto possiamo affermare di trovarci
dinanzi ad una soluzione; esempi: NaCl (sale da cucina) o zucchero disciolti in acqua. Quando studieremo la
chimica organica capiremo perché lo zucchero, pur non avendo carica elettrica, è ugualmente in grado di
disciogliersi grazie alla sua struttura chimica.
A seconda di quali liquidi mischiamo invece non sempre otterremo una soluzione: sappiamo infatti che
mischiando acqua e olio, indipendentemente da quanto e con quanta forza mescoleremo, ci troveremo
sempre dinanzi ad un miscuglio formato da due fasi distinte.

SOLUZIONI GASSOSE
I gas invece possono mescolarsi tra loro senza alcuna distinzione formando sempre ugualmente una
soluzione. L’aria ad esempio, formata per il 78% d’azoto, il 21% ossigeno e il restante 1% da altri gas, è un
classico esempio di soluzione gassosa. Molti gas poi possono essere più o meno solubili in acqua: l’anidride
carbonica CO2 è uno dei più solubili, tant’è vero che le soluzioni acquose, se soggette ad una forte
pressione, possono contenere grandi quantità di CO2, come accade per la produzione di bibite gassate.
Anche l’ammoniaca, essendo una molecola polare, è gas molto solubile in acqua, tant’è che di solito viene
utilizzata direttamente come soluzione acquosa (>1000L di NH3 possono essere disciolti in 1L di H2O); per
questo persiste la convinzione che in condizioni naturali si trovi proprio allo stato liquido. Ricordiamoci
invece che l’ammoniaca è un gas, che però non necessità di alte pressioni o basse temperature quanto altri
gas per essere portata allo stato liquido.

SOLUZIONI SOLIDE
Esempi di soluzioni solide sono molte leghe metalliche, come quelle di ottone e bronzo; o ancora le
amalgame, ovvero quelle particolari leghe formate dal mercurio poiché in grado di sciogliere quasi tutti i
metalli. Tra questi vi è anche l’oro, tant’è che per secoli il mercurio è stato alla base della sua estrazione
nelle miniere, causando però immensi danni in alcuni paesi che ancora oggi ne pagano le conseguenze a
causa del suo elevato potere inquinante. Il mercurio non è però in grado di sciogliere il ferro, dunque non
esistono amalgame di mercurio e ferro.

SOLVENTI POLARI E APOLARI

Si chiamano solventi polari quelli in cui esiste una certa separazione di cariche elettriche anche nelle
molecole del solvente stesso. L’acqua è un tipico solvente polare perché, avendo quella caratteristica forma
angolata, il baricentro delle cariche parziali positive dei due atomi di idrogeno non coincide con il baricentro
della carica parziale negativa sull’ atomo di ossigeno; possiamo quindi dire che l’acqua è un dipolo
permanente. Questo spiega anche perché l’acqua è un liquido e non un gas: l’accentuata polarità provoca
delle forze attrattive tra le sue varie molecole.
Si chiamano solventi apolari invece quelli in cui è assente questa parziale asimmetria elettrica all’interno
della molecola, come nel caso della benzina.
Nell’immagine sopra-riportata è possibile osservare la composizione dell’aria e nello specifico che i gas
diversi da azoto e ossigeno ne costituiscono una percentuale talmente bassa da essere quasi trascurabile.
Gli unici gas che danno interazioni significative con il nostro corso sono l’O2 e la CO2, se non altro perché
l’ossigeno lo consumiamo e l’anidride carbonica la espelliamo.

E’ interessante notare come in una miscela gassosa ciascun gas presente contribuisca alla pressione totale
della data miscela in proporzione alla propria frazione molare. La frazione molare è il rapporto della
concentrazione di un gas rispetto a quella totale di tutti gas presenti, ed è espressa attraverso un numero
compreso tra 0 e 1.

SOLUZIONI DI GAS NEI LIQUIDI

Come già accennato, esistono gas che si sciolgono facilmente in acqua e gas che si sciolgono difficilmente;
l’ossigeno ad esempio è uno dei gas più difficilmente solubili. Questo spiega perché all’interno dei
vertebrati, che necessitano di grandi quantità di O2, è presente una proteina deputata proprio al suo
trasporto: l’emoglobina. Alcuni invertebrati invece (come gli insetti) non necessitano di tali proteine
respiratorie perché possiedono un metabolismo basso che riesce a nutrirsi con il solo O2 che si discioglie
nel loro sangue.
Caratteristica comune di tutti i gas è che con l’aumento della temperatura la loro solubilità diminuisce. Se in
piena estate ci versiamo dell’acqua appena tolta dal frigo per poi lasciarla sopra al tavolo, noteremo che
nelle pareti del bicchiere si sono depositate delle bollicine. Questo fenomeno è dovuto al fatto che l’acqua
all’interno del frigo conteneva dei gas disciolti che, una volta aumentata la temperatura, hanno
abbandonato la fase acquosa per tornare allo stato di gas sotto forma di bollicine. Per lo stesso principio,
dimenticando una lattina contenente una bibita gassata (dunque ricca di CO2 disciolta) sotto al sole questa
esploderebbe.
Un altro fattore che influisce sulla solubilità dei gas è la pressione: più questa è alta più il gas sarà solubile.
Questo spiega perché per ottenere bibite gassate viene disciolta la CO2 al loro interno attraverso lo
sfruttamento di pressioni elevate. Facendo un'immersione subacquea, scendendo in profondità si assisterà
ad un aumento della pressione, che provoca un aumento di aria che si discioglie nel sangue del sub, in
particolare l’azoto (contenuto insieme all’ossigeno all’interno delle bombole). È per questo che i sub
devono sempre fare attenzione a riemergere con calma e cautela: se si torna in superficie troppo
velocemente, l’azoto tornerà allo stato gassoso sotto forma di bollicine provocando un’embolia gassosa.

SOLUZIONI DI LIQUIDI NEI LIQUIDI

La legge di Raoult ci dice che in una miscela di due liquidi distinti, la pressione di vapore totale ci sarà data
dalla somma delle pressioni dei due liquidi ciascuna moltiplicata per la propria frazione molare.

Lasciando una soluzione all’aria, come un bicchiere di whisky, il liquido più volatile tenderà ad evaporare
con una maggiore rapidità: lasciando la bottiglia di whisky stappata per lunghi periodi noteremo che l’alcol
tenderà ad evaporare completamente lasciando all’interno della bottiglia semplice acqua.
Perché acqua e olio non si mescolano? Perché tra di loro formano interazioni intermolecolari insignificanti.
Le molecole d’acqua preferiscono infatti creare interazioni tra di esse, lasciando “escluso” l’olio che quindi
si presenterà in una fase distinta e separata.

SOLUZIONI DI SOLIDI

Perché alcuni solidi, come il cloruro di sodio, si sciolgono con facilità in acqua? Perché le molecole di H2O,
oltre a creare interazioni elettrostatiche tra loro, le creano ancora più forti con gli ioni positivi e negativi di
un dato composto ionico, come il NaCl spunto. E allora come mai alcuni composti ionici, come il solfato di
bario (usato come mezzo di contrasto in radiologia) non si sciolgono in acqua? Perché le dimensioni dei loro
ioni sono tali che quando si combinano nel cristallo riescono a massimizzare le forze attrattive e
minimizzare quelle repulsive; in altre parole: l’energia reticolare di tali composti è elevatissima.
Chiaramente, più sono forti le interazioni tra solvente e soluto maggiore sarà la solubilità di quest’ultimo.
Nel caso del solfato di bario le interazioni soluto-soluto sono talmente forti da ostacolare notevolmente
quelle tra solfato di bario stesso e acqua, il che rende il sale insolubile. Ricordiamoci che, fatta eccezione del
solfato di bario, che grazie alla sua insolubilità riesce ad attraversare inalterato il nostro tubo digerente, i
sali di bario sono di norma velenosissimi.
Al contrario dei gas, di norma aumentando la temperatura aumenta la solubilità di un certo solido. Tuttavia
esistono delle eccezioni, come il solfato di litio, il quale all’aumento della temperatura diminuisce la sua
solubilità.

Si definisce solubilità di una sostanza la massima quantità di tale sostanza che ad una determinata
temperatura può essere disciolta in una determinate quantità di soluto (in genere si parla di g/L x
soluzione). Una soluzione è satura quando contiene la massima quantità possibile in un certo soluto:
aggiungendo ulteriore sostanza questa non si scioglierà ma precipiterà a formare il cosiddetto “corpo di
fondo”. In certe circostanze è possibile però preparare delle soluzioni, dette soluzioni sovrasature, che
contengono più soluto di quello permesso, ma che risultano però molto instabili (a volte basta anche solo
un colpetto per lasciare che il soluto in più disciolto si separi e precipiti).
Anche nelle soluzioni, così come nell’evaporazione, si viene sempre a creare un equilibrio tra chi si scioglie
e chi precipita. Riempiendo di soluto una soluzione chiusa ermeticamente, dunque rendendola satura,
noteremo che dopo un po’ di tempo alcuni cristalli si saranno sciolti, alti ingranditi, altri rimpiccioliti e altri
avranno assunto una forma irregolare. Questo fa capire che l’equilibrio che si viene ad instaurare è un
equilibrio dinamico, i cui processi opposti avvengono con velocità identica che rende il bilancio pari a 0.
Nell’immagine sotto-riportata è raffigurata una soluzione che dopo essere stata esposta a delle
temperature più basse è diventata satura. Ecco perché quando si parla di saturazione di una sostanza
bisogna sempre specificare la temperatura a cui si fa riferimento: alcune sostanze a temperatura ambiente
si potrebbero sciogliere pochissimo mentre a temperature più elevate tantissimo.

Lo smalto dei denti è formato da un solfato di calcio, l’idrossiapatite (che forma anche le nostre ossa), che è
insolubile in acqua; in ambiente acido invece viene decomposto e si scioglie liberando ioni. La fluoroapatite
invece è meno solubile in ambiente acido e risulta essere più dura dell’idrossiapatite. Un eccesso di fluoro
infatti provoca una condizione nota come “fluorosi” che risulta spiacevole poiché questa durezza è
accompagnata anche da un’estrema fragilità; le popolazioni la cui acqua è ricca di fluoro risentono molto di
questo problema poiché risultano soggette a fratture ossee frequenti e spesso causate da eventi banali,
come una lieve caduta.
Lezione 4

Tutte le proprietà colligative sono valide per soluzioni diluite a concentrazione infinitesimale di soluto. Con
“soluzioni a concentrazione infinitesimale” intendiamo soluzioni in cui c’è pochissimo soluto, quasi nulla. In
questo caso, le leggi che regolano le proprietà colligative, sono da applicarsi rigorosamente. Così come la
legge dei gas ideali viene ben rispettata quando la pressione del gas è bassissima (quindi le singole
molecole di gas sono molto lontane tra di loro), anche qui le soluzioni molto diluite ci garantiscono che le
interazioni dirette tra le particelle di soluto sono insignificanti e che quindi si può partire dal presupposto
che ogni particella di soluto interagisca solo con particelle di solvente. Con buona approssimazione queste
leggi valgono anche per soluzioni più concentrate: più sarà concentrata la soluzione, maggiore sarà lo
scarto dall’idealità. Si possono applicare le leggi dei soluti ideali

Abbiamo visto ieri la legge di Raoult che mette in relazione la tensione di vapore con la frazione molare dei
diversi liquidi che formano la miscela. Questa legge è applicabile nel caso di un solido come soluto disciolto
in un liquido. Partiamo dal presupposto che il soluto sia volatile quando verifichiamo la situazione.
Esempio
Soluzione di zucchero e acqua; lo zucchero non è volatile a temperatura ambiente perciò la pressione dello
zucchero è zero e non contribuisce alla pressione di vapore della soluzione e la tensione di vapore sarà data
dalla frazione molare del solvente, in questo caso acqua.
A differenza dell’acqua distillata, nella soluzione zuccherina più è concentrata, minore sarà la frazione
molare dell’acqua. Questo significa che l’evaporazione della nostra soluzione sarà più lenta di quella
dell’acqua distillata. (l’acqua di mare evapora più lentamente dell’acqua dolce)

Quelle legate con lo zucchero non lo abbandonano, quindi non passano allo stato gassoso, le altre invece
possono. Se faccio la conta globale, scopro che il numero di molecole che per unità di volume e per unità di
tempo possono abbandonare il liquido e passare allo stato gassoso, sarà minore perché ne ho meno a
disposizione

Quando le soluzioni si concentrano la deviazione dall’idealità può essere notevole e ci sono specie chimiche
che hanno una forte avidità per l’acqua, quindi legano attorno a sé con una forza non trascurabile un certo
numero di molecole d’acqua. La concentrazione del vapore saturo cambia, è minore nella soluzione con lo
zucchero.

Con le leggi di raoult è possibile calcolare come sarà ad una certa temperatura la concentrazione di vapore
saturo.
Innalzamento ebullioscopico e abbassamento crioscopico
La stessa cosa appena vista succede nell’Innalzamento ebullioscopico e nell’abbassamento crioscopico.

Cioè una soluzione concentrata evaporerà a qualche grado inn più e congelerà a qualche grado in meno
rispetto alle condizioni normali.

Vediamo la differenza tra l’acqua pura e una soluzione di zucchero. L’acqua pura bolle a 100°C, mentre se
aggiungiamo zucchero dovremo scaldare di più per farla bollire, per esempio a 105°. Parliamo in questo
caso di innalzamento ebullioscopico.
Inoltre, se vogliamo ghiacciare quella soluzione di zucchero, non basterà porla a 0°C, ma dovrà raggiungere
una temperatura inferiore, per esempio -5°C. Un abbassamento crioscopico importante si osserva nelle
zone polari e circumpolari, dove si è visto che l’acqua ghiaccia a qualche grado sotto lo zero; è inoltre
interessante notare che quel ghiaccio è formato da acqua senza sale. Nei paesi molto freddi infatti si può
ottenere acqua dolce dal mare sciogliendo quel ghiaccio.

Lo scostamento della temperatura di congelamento e di quella di ebollizione delle soluzioni dipende dalla
concentrazione del soluto; infatti a volte si può usare questo metodo per determinare la concentrazione di
una soluzione.

Diffusione
Le particelle, molecole o ioni di soluto, nei loro moti casuali, simili al
moto browniano, si diffondono e alla fine la concentrazione della
sostanza blu che vediamo in figura, sarà identica in tutte le parti della
soluzione. Ovviamente se applico del calore, i movimenti dell’acqua
che è diventata calda, rimescolerebbero la soluzione. Se invece di avere
acqua, che è un fluido poco viscoso, avessi una soluzione come l’olio,
quindi molto viscosa, ci vorrebbe, a parità di condizioni, molto più
tempo perché la diffusione sarebbe ostacolata.

La diffusione è il processo per cui le molecole sono in grado di compiere un loro tragitto e questo processo
dipende anche dal parametro della viscosità: più il liquido è viscoso, più sarà ostacolata la diffusione. La
viscosità dipende da vari fattori: forti relazioni intermolecolari, molecole molto grandi di forma irregolare o
filiformi. Questi fattori ostacolano il moto tra le molecole e quindi aumentano la viscosità.

Concetto opposto alla viscosità è la fluidità.

La fluidità dell’acqua da cosa è data? Dal fatto che i legami a idrogeno si formano e si spezzano in
continuazione con la stessa o le molecole vicine, così la libertà di movimento non viene ostacolata.

Il glicerolo al contrario potendo formare pochi legami a idrogeno ha una viscosità maggiore. Sono legami a
idrogeno piuttosto saldi.

Un altro fenomeno dato dalla diffusione è questo:


Ho un recipiente con due scomparti separati da un setto poroso, quindi una membrana permeabile (con
dei pori di sufficiente larghezza), col tempo, le concentrazioni di soluto delle due parti si equilibrano: c’è
una migrazione continua di particelle di soluto da un lato all’altro della membrana, finché si arriva a una
situazione in cui l’intensità della migrazione delle particelle dal lato A al lato B, diventa uguale all’intensità
della migrazione dal lato B al lato A. Si crea un equilibrio dinamico in cui ottengo due soluzioni di identica
concentrazione.

Osmosi

Se invece la membrana è semipermeabile le cose vanno diversamente. Definiamo una membrana


semipermeabile come una membrana la cui porosità sia tale da lasciar passare le molecole di solvente,
normalmente acqua (l’acqua è una molecola tra le più piccole in natura, perciò è possibile creare
membrane che lasciano passare solo l’acqua e non quello che ci è disciolto), ma non quelle di soluto che di
solito sono più grandi. Mentre le molecole di solvente potranno attraversare senza limitazioni la membrana
semipermeabile, le molecole di soluto invece non potranno farlo. In questo caso osserviamo un fenomeno
chiamato osmosi, per cui molecole di solvente attraversano la membrana semipermeabile, passando dal
comparto dove il soluto è meno concentrato a quello dove è più concentrato. Anche in questo caso si crea
un equilibrio dinamico: le molecole di solvente possono passare liberamente da destra a sinistra e
viceversa, finché non si arriva a un equilibrio.

L’equilibrio non è statico, ma si tratta dello stesso numero di molecole d’acqua che passa continuamente da
una parte all’altra della membrana.

Il dislivello che si forma in seguito al movimento del solvente dal compartimento a minor concentrazione
verso quello a maggior concentrazione (da B vero A) produce una pressione idrostatica che si chiama
pressione osmotica; questa dipende dalla concentrazione.
Questo equilibrio tra le due parti produce una tensione idrostatica capace di equilibrare la pressione delle
molecole d’acqua.

Esistono degli osmometri che hanno anche un loro importanza per quanto riguarda le applicazioni mediche,
per esempio è importante misurare con una certa precisone le urine del paziente e così riescono ad avere
delle informazioni importanti sulle funzionalità renali di una certa persona.

Questa misurazione può avvenire sia direttamente, quindi si misura in quel modo la pressione idrostatica
misurando in qualche modo il dislivello. L’ c’è un disegno semplificato, gli osmometri veri non sono fatti
così, sono degli apparecchi che hanno una certa precisione, deve essere una misura più accurata.

Altrimenti si fa può fare la osmometria indiretta e utilizziamo una batteria di pesetti particolari che danno
luogo a una pressione quindi non misuriamo direttamente la pressione idrostatica, ma la pressione la
misuriamo noi all’esterno per impedire che si formi quel dislivello di cui abbiamo parlato.

In questa parte ritorneremo quando parleremo di dissociazione elettrolitica ed elettroliti forti e deboli.

La pressione osmotica è regolata da una legge che è direttamente sovrapponibile alla legge generale del
gas, non avremo

PV = n RT

ma

πV = n RT

per far capire che non intendiamo un sistema gassoso, ma che ci stiamo riferendo all’osmosi.

Così come una mole di gas occupava 22.414 litri, qui se il volume è un litro, quindi una mole per un litro di
soluzione ha una pressione di 22.414 atm.

Le pressioni osmotiche che si osservano nel corpo umano e nella maggior parte degli organismi viventi sono
molto molto più basse perché le varie concentrazioni dei soluti dei vari fluidi biologici sono comunemente
molto, ma molto più piccole; quindi sono pressioni osmotiche molto più basse ma per niente trasponibili.

Cambiamo argomento.
I legami chimici

Parliamo di legami chimici.

I legami chimici sono quei legami che si formano tra atomi uguali e diversi tra loro e che consentono la
formazione di un numero infinito di molecole che possono essere, biatomiche, triatomiche, tetratomiche e
che possono contenere milioni di atomi diversi e questi atomi saranno uniti tra di loro per mezzo di legami

Di legami ce ne sono stabili e instabili, deboli e forti. Che cosa vuol dire? Vuol dire che affinché tra due
atomi si formi un legame se stiamo parlando di condizioni normali, quelle che possiamo trovare nella vita di
tutti i giorni compreso l’interno del nostro corpo, la formazione del legame a partire da due atomi separati
deve essere accompagnata da un rilascio di una certa quantità di energia, quindi il contenuto energetico dei
due atomi legati a formare la molecola deve essere minore del contenuto energetico dei due atomi
separati.

Noi sappiamo, lo sapete già, che la natura cerca sempre il livello energetico più basso che se io voglio
separare quei due atomi devo fornire il l’energia, se nessuno la fornisce quei due atomi rimarranno legati.

Dirò che un legame è forte quanto maggiore è questo dislivello energetico tra due atomi separati e i due
atomi unisti, questa situazione può cambiare se noi cambiamo la temperatura, quindi, perché c’è una
componente eutropica nel discorso energia globale del sistema che diventa sempre più importante al
crescere della temperatura.

Vi ricordo che

ΔG = ΔH -T ΔS

Ci sono specie che non formano legami a temperatura ambiente, ma li possono formare a temperatura
elevatissima in cui invece ricadono nell’intervallo di stabilità, poi abbassiamo la temperatura e queste
molecole diventano intrinsecamente instabili.

Lewis, molto tempo fa, nel secolo scorso propose di utilizzare le cosiddette formule di struttura -perché ci
sono tanti metodi anche oggi per capire come si fondono gli atomi o le varie molecole tra di loro-
utilizzando delle barrette che conosciamo, i trattini per indicare i legami e in particolare i legami cosiddetti
singoli o semplici, in cui ciascuno degli atomi coinvolti contribuisce con un elettrone. Sempre a Lewis si rifà
il concetto di elettroni di valenza, di guscio di valenza di un certo atomo, cioè gli elettroni più esterni che
sono quelli potenzialmente in grado di partecipare alla formazione di legami con altri atomi.

Nel caso dell’idrogeno non ha senso parlare di elettroni esterni non ha senso perché ce n’è uno solo e
anche nel caso degli elementi più leggeri. Nel caso dell’elio, che viene subito dopo l’idrogeno, non si parla
degli elettroni di valenza perché è un gas nobile e gli elettroni ci sono, ma sono chiusi in cassaforte, l’elio
non si lega con nulla. Già nel caso dell’elemento n.3 che è il litio c’è un elettrone di valenza che è ospitato in
un orbitale 2s mentre i due elettroni ospitati nell’elettrone 1s, quelli più vicino al nucleo che si comportano
come quelli dell’elio, non partecipano alla chimica del litio; quindi, è un controsenso in prima battuta e si
può dire che è come se non esistessero. Dico “in prima battuta” perché poi in realtà hanno un a certa
azione di schermo nei confronti dell’elettrone esterno. Tanto è vero che nel caso dell’idrogeno, dove non
c’è nessuna schermatura, quell’elettrone se lo tiene, nel litio invece quell’elettrone 2s, cioè quello di
valenza, ha una notevole tendenza ad abbandonare l’atomo, lasciando uno ione positivo.

Nelle cosiddette formule di Lewis spesso si per chiarezza si indicano gli elettroni di valenza, ma che non
partecipano a quel dato legame, ma che potrebbero potenzialmente partecipare ad altri legami, con
puntini che vedete sistemati molte volte intorno al simbolo di un atomo e avete notato che di solito quei
puntini vanno a coppie perché dentro ciascun singolo orbitale possono stare due elettroni e quindi se ci
sono vari elettroni, sistemarli segnando le coppie ci ricorda che sono sistemati dentro ogni singolo orbitale
atomico; naturalmente con gli spin antiparalleli, quella è una regola inviolabile.

Regola dell’ottetto

Questa è una regola che riguarda soprattutto gli elementi più leggeri, quegli elementi che sono troppo
piccoli per avere gli orbitali p o tantomeno quelli f.

A questi elementi per arrivare alla cosiddetta configurazione a nucleo chiuso di cui abbiamo già parlato
servono otto elettroni. Esempio: il fluoro ha 7 elettroni nel guscio di valenza; quindi, ha una fortissima
tendenza a portarne via uno a qualcun altro in modo che diventino otto e acquisisce la configurazione
elettronica uguale a quella del gas nobile Neon.

La differenza fondamentale è che l’atomo di fluoro che ha acquisito l’elettrone sarà dotato di una carica
elettrica negativa. Invece il neon ha carica nulla. Infatti, lo ione fluoruro è un anione in questo caso con
carica -1.

Ecco quello che dicevo prima, i due atomi separati hanno un certo livello energetico, formando quel
legame quel livello energetico scende perché viene emessa energia nel momento in cui i due atomi che si
legano ed è una misura della forza di legame.

Maggiore è la misura, maggiore sarà la stabilità di quel legame: sarà termodinamicamente più favorita.

I legami di ogni tipo sono uno di quei numerosi argomenti che in chimica sono stati studiati per molti
decenni, ma sui quali ancora ci sono molte cose che non sono perfettamente chiari o prevedibili, nel senso
che le scoperte attuali spiegano moltissime cose dei legami chimici, ma applicandole a situazioni che non
sono state previste e quindi richiedono una spiegazione a posteriori. Mi aspettavo A e invece è successo B;
cerchiamo di trovare la spiegazione del perché succede B e non A. questo significa che è prevedibile cje nel
prossimo o lontano futuro si scopriranno delle cose che ci permetteranno di capire le apparenti eccezioni
che oggi si osservano. Ma questo come vi dicevo vale soprattutto negli atomi legati nei quali l’equazione di
Shroedinger mostra i suoi limiti. E il fatto che mentre negli atomi più leggeri ogni elettrone ha una sua
energia ben definita che è piuttosto diversa dagli altri elettroni presenti nel nucle, negli atomi più grandi
queste differenze si affievoliscono e allora le regole che erano ferreee per gli elementi più leggeri, per quelli
più pesanti diventano più elastiche e avvengono comportamenti non così semplice da prevedere.

I vari tipi di legami.

Non è che il legame chimico è di un solo tipo, ce un ampio taglio di possibilità che dipende moltissimo da
quali son gli atomi coinvolti

I legami possono essere:


-intramolecolari: cioè quelli che all’interno di una molecola consentano l’interazione tra i singoli atomi che
la costituiscono.

-intermolecolari: cioè legami che si possono instaurare tra molecole diverse, nel senso di distinte, che poi
possono essere uguali (come nell’acqua o nel ghiaccio). Questi legami intermolecolari vengono di solito
definiti come legami deboli perché l’energia associata alla loro formazione è di solito inferiore all’energia
che invece porta alla formazione dei legami tra atomi dentro la medesima molecola.

Tuttavia in chimica è verissimo quel modo di dire “l’unione fa la forza”. Molte volte abbiam che le
interazioni complessive che si stabiliscono tra molecole diverse sono più forti perché sono date da una
congregazione di legami deboli.

Noi del legame metallico poco ci interesseremo, vi basti sapere quello che abbiamo già detto: c’è una
nuvola elettronica complessiva che avvolge gli atomi di metallo e da luogo ad una elevata conducibilità
elettrica, perché questioni sono ospitati in livelli energetici che si definiscono ad alta conduzione e hanno
una notevole conducibilità e si possono muovere.

Però il legame metallico finisce lì e ci interesseremo di legami ionici e legami covalenti.

Vediamo di cosa si tratta. Sono cose che avete già visto, ma come dicevano i latini (repetita iuvant, le cose
ripetute aiutano)

**ripetere tante volte lo stesso argomento aiuta gli alunni. Il docente non è d’accordo con i nuovi sistemi di
insegnamento che suggeriscono di non ripetere tante volte le cose in quanto annoia l’alunno. Il professore
spiega che quanto più si parla delle cose tanto più le si apprende e si scopre un aspetto diverso, anche a
seconda di chi le espone **

I vari tipi di legami atomici.

Il legame ionico è un legame di tipo elettrostatico, non finirò mai di ripetervelo. Quindi noi possiamo
considerare gli atomi che hanno perso oppure acquisito almeno un elettrone: assumono una carica
elettrica corrispondente al numero di elettroni acquistati o ceduti e diventano delle particelle cariche.
Quindi possono essere perfettamente descritte dalla legge di Coulomb che riguarda appunto le regole che
regolano le interazioni che si stabiliscono tra particelle cariche di segno opposto o uguale, come le cariche
elettriche si distribuiscono su una sfera conduttrice, quale è la distanza al di sopra della quale le interazioni
elettrostatiche diventano troppo deboli per avere un significato chimico fisico e così via.
Questa è la simbologia di Lewis che abbiamo visto prima che si usa per indicare gli elettroni di valenza che
realmente o potenzialmente possono dar luogo alla formazione di legami chimici. Come vedete, nel caso
del boro dell’alluminio, del carbonio, del silicio, due elettroni sono stati disegnati già a coppietti e due
separati. Perché questo? Non è un capriccio tipografico i due che sono segnati insieme hanno
configurazione elettronica 2s nel caso del carbonio e 3s nel caso del silicio che è nella riga subito sotto,
invece i due che sono stati disegnati singoli sia nel carbonio che nel silicio sono ospitati rispettivamente
negli orbitali 2p e 3p e come sapete cercano di occupare, se c’è posto, orbitali stando separati.

La stessa cosa per quanto riguarda gli elementi disegnati nella tabella in basso che, come vedete, è stata
rappresentata in modo tale da saltare i cosiddetti metalli o elementi di transizione perché lì interviene
qualche complicazione con gli elettroni ospitati negli orbitali p.

Invece la vita è più semplice, per noi che li dobbiamo studiare, se gli orbitali p, disponibili ad ospitare
elettroni, in questi elementi non ce ne sono, o se ci sono, giocano un ruolo secondario, almeno in certe
circostanze.

Quindi seguendo la mia guida di cominciare dal semplice e andare verso il complicato per adesso facciamo
finta che non esistano orbitali p a disposizione.

Non esistono per l’elio, per il neon, per l’ossigeno, per il fluoro, per l’azoto; mentre esistono per fosforo,
zolfo, cloro e argon; anzi esistono anche nel caso del silicio e anche nell’alluminio, vuoti, ma ci sono. Il che vi
spiega perché il carbonio ha un certo tipo di comportamento mentre il silicio, che viene subito sotto, è
piuttosto diverso; la stessa cosa per quanto riguarda il boro; al silicio possono succedere cose che al
carbonio non succedono, la stessa cosa per il fosforo rispetto all’azoto, per lo zolfo rispetto all’ossigeno e,
dentro certi limiti per il cloro rispetto al fluoro.
Regola dell’ottetto

Torniamo sempre al solito esempio del cloruro di sodio, il sale da cucina (NaCl).

Voi vedete in basso la rappresentazione secondo Lewis dello stato elettronico dei due elementi sodio e
cloro e la configurazione elettronica dei tre gas nobili più vicini, cioè quelli con cui c’è meno differenza di
struttura elettronica.

La freccina rossa dice che cosa succede alla configurazione elettronica del sodio quando perde quell’unico
elettrone situato nell’orbitale 3s: rimane la configurazione elettronica a guscio chiuso del gas neon, con la
differenza fondamentale che nello ione sodio c’è una carica positiva dove nel neon non c’è nessuna carica.
Ed ecco cosa succede al cloro quando acquisisce un elettrone e diventa ione cloruro. Gli mancava solo un
elettrone per assumere una configurazione a guscio chiuso del gas nobile argon il che spiega perché il cloro
ha una grande tendenza ad acquisire un elettrone così come il sodio a perdere quell’elettrone.

E ovviamente per la legge di Coulomb ione sodio Na+ e ione cloruro Cl- presentano tra di loro una
attrazione elettrostatica, così come è prevista tra particelle di carica elettrica opposta.
In questa immagine si può anche vedere la variazione di raggio dei rispettivi atomi.

Quello che è descritto qui vale sia per il cloruro di sodio solido, sia anche quando il cloruro di sodio, cosa
molto più comune in ambito biomedico, si trova in soluzione acquosa.
Come faccio a dire quale tra gli ioni sodio è collegato ad uno ione cloruro? Sceglierne uno piuttosto che un
altro è un discorso senza senso perché questo tipo di reticolo cristallino ha una situazione che
geometricamente corrisponde ad un ottaedro; ci sono sei ioni sodio equidistanti dallo ione cloruro centrale
e sei ioni cloro equidistanti dallo ione sodio. Perciò quando noi scriviamo “NaCl” stiamo semplicemente
indicando che questo composto, sia che noi consideriamo un cristallo che una soluzione, per forza il
numero di ioni sodio deve essere uguale a quello di ioni cloruro in un rapporto di 1:1. Quindi quel “NaCl” è
la cosiddetta formula minima. Fatta questa considerazione cioè non ci dice che esiste un legame che unisce
un certo sodio con un certo ione cloruro, ci dice che nella specie chimica cloruro di sodio c’è quel rapporto
stechiometrico di 1:1 e scrivere NaCl non ci dice nulla sulla natura del legame che lega quei due atomi.

E se invece parliamo di atomi uguali? Ovviamente non ha senso pensare che uno dei due debba cedere uno
o più elettroni all’altro che li acquisisce. Infatti, in questo caso, si parla di legame covalente, quindi non c’è
un trasferimento di elettroni da un datore ad un accettore, ma c’è una condivisone di elettroni. Questa
condivisione dà origine al cosiddetto legame covalente. Quello che, come è indicato in basso, per
convenzione si indica con un trattino. Il trattino corrisponde a due elettroni messi in comune da due atomi.
Due atomi di idrogeno hanno una fortissima tendenza ad incontrarsi e quando questo avviene, ciascuno dei
due metterà a disposizione l’unico elettrone che possiede con l’altro idrogeno, si forma una nuova entità e
si forma una molecola H2 che ha una configurazione elettronica con due elettroni. Quindi stiamo parlando
di una specie particolarmente stabile, bisogna somministrare molta energia per riuscire a spezzare il legame
tra questi due atomi, si può fare, ma richiede molta energia.
In questo tipo di legame è impossibile individuare non solo cariche elettriche separate, ma nemmeno
distorsioni nella nuvola elettronica che si forma tra i due atomi per la semplice e banale motivazione che
sono due atomi identici. Non c’è nessun motivo per cui ci sia una distorsione nella nuvola elettronica della
molecola di idrogeno.

Siamo sicuri che gli elementi esistano sotto forma di molecole e non di atomi? Oggi sì! Ne abbiamo la
certezza perché abbiamo a disposizione non tanto strumenti teorici, quanto apparecchiature che ci
consentono di dimostrare che le molecole esistano e che quindi l’idrogeno normale non è H, ma si trova
sotto forma di H2.

Ma nell’800 questo concetto non era per niente chiaro, anzi secondo Dalton il concetto di molecola non
esisteva, ma secondo lui tutti gli elementi erano formati da atomi che quando si combinano tra di loro
producono nuovi orbitali che davano origine ai composti, secondo ovviamente proporzioni costanti.

Invece Avogadro chiarì il concetto di molecola ed è tanto più importante perché non c’era nessuna
possibilità di constatare sperimentelmente che le molecole esistono davvero. E infatti all’inizio lui ebbe
anche molti nemici soprattutto a livello internazionale, dicevano che si trattava di fantasie senza significato.
Avogadro si era basato sui risultati della legge di Gay-Lussac, e aveva anche già capito che qualunque gas in
quelle condizioni normali che avevamo definito occupa lo stesso volume a prescindere dal tipo di gas.

Era già nota ai suoi tempi la reazione


per cui se io mescolo idrogeno e cloro
in un recipiente ottengo una molecola
che si chiama acido cloridrico o più
correttamente quando è in questa
forma cloruro di idrogeno.

Se la teoria di Dalton fosse stata vera ci


si sarebbe dovuti aspettare che 1 litro
di cloro mescolato con 1 litro di
idrogeno desse un litro di HCl, la stessa
cosa, se fosse stata vera la teoria di Dalton, a proposito dell’acqua: 2 litri di idrogeno e 1 litro di ossigeno, 1
litro di acqua. Invece non è così, se uno fa l’esperimento scopre che queste cose sono sbagliate tutt’e due.

Se però anziché usare acqua, introduco


il concetto di molecola elettronica, la
previsione torna e questo che si trova
va bene. Perché si scopre che quello
che se si fa reagire 1 litro di idrogeno e
1 litro di cloro non è 1 litro di acido
cloridrico, sono 2, come con la teoria di
Dalton non si poteva giustificare, con
Avogadro sì.

La stessa cosa per l’acqua.


Quando si forma un legame covalente, non è che gli atomi che mettono in comune le proprie nuvole
elettroniche, come disegnato in basso a destra, possono scegliere la distanza.

Quando due atomi A e B si


incontrano, perché avviene
questo procedimento e questa
condivisone di elettroni?

Perché, noi dobbiamo pensare


sempre rifacendoci alla logica
coulombiana, che il nucleo
dell’atomo A oltre che attirare
il proprio elettrone attira
anche gli elettroni dell’atomo
B; così come il nucleo
dell’atomo B oltre che attirare
il proprio elettrone attira
anche quello dell’altro. Quindi questo facilita un avvicinamento dei due atomi e questa forza diventa tanto
più intensa quanto più si avvicinano. Ma perché i due atomi non si uniscono?

Perché ad un certo punto interviene la repulsione Coulombiana dei due nuclei, se li avviciniamo troppo,
oltre un certo limite, anziché prevalere la forza di attrazione del nucleo A sull’elettrone B e del nucleo B
sull’elettrone A, comincia ad essere importate la repulsione tra i due nuclei.

Quindi questo processo di avvicinamento


avviene in maniera tale che la distanza diventa
un compromesso ottimale, quello che dà luogo
ad un sistema di energia minima, tra le forza di
attrazione tra cariche opposte e le forza di
repulsione tra cariche identiche. Ed ecco perché
quella curva come vedete c’è un minimo che
corrisponde alla effettiva distanza tra i due atomi
che si osserva nelle molecole. Si definisce
lunghezza di un legame chimico la distanza tra il
centro dei due nuclei.

Se la condivisione di elettroni non riguarda un solo elettrone da ciascun atomo, ma ne riguarda due, allora
abbiamo un doppio legame. È da considerare il fatto che atomi capaci di formare un doppio legame, di
solito sono capaci in certe circostanze di formarlo anche singolo. Quindi mentre nella molecola di ossigeno
c’è sicuramente un legame doppio; come vedrete esiste una serie di composti dell’ossigeno che si
chiamano perossidi, di cui il più comune è il perossido di ossigeno, noto comunemente come acqua
ossigenata e che ha una sua importanza in ambito medico. La maggior parte degli organismi aerobi
producono per tutta la loro vita una certa quantità di acqua ossigenata che poi usano per le loro necessità,
ne produciamo anche noi.

Però in quel caso nei perossidi il legame con l’atomo di ossigeno è singolo.

- Il legame ionico ha una sua lunghezza di legame?

Certamente, anche perché le due nuvole elettroniche del catione e dell’anione non si possono
scontrare, altrimenti anche lì l’attrazioe diventa repulsione.
Una cosa caratteristica che si osserva con apposite sperimentazioni è che il legame singolo è più lungo
del legame doppio e questa è una regola generale per tutti gletomi che possono formare legami
semplici, doppi o tripli come ad esempio la molecola del gas azoto. Anche l’azoto forma legami
semplici, in altri composti doppi, e quando forma l’azoto molecolare, quello che respiriamo
comunemente, il legame è triplo. Maggiore è l’ordine del legame, più vicini saranno gli atomi.

Siccome è possibile, con opportune strumentazioni, misurare la lunghezza dei legami, siamo in grado da
queste misure di dire quale legame c’è nelle molegole. Per pura informazione esistono anche legami
quadrupli, ma la loro importanza in medicina è zero quindi non ne parlerò mai più.

Questa è una tabella che ci indica le diverse energie di legame che si possono formare tra gli atomi uguali e
atomi diversi, come potete vedere se scorrete la tabellina ci sono notevoli differenze.

Per esempio un legame singolo tra due atomi di azoto ha un energia di legame molto piccola 163 kJ/mol e
infatti non sono composti molto usuali da trovare. Guardate che balzo in avanti verso la stabilità se il
legame tra gli atomi di azoto è doppio, e guardate che valore eccezionalmente elevato c’è nell’azoto
molecolare, ben946 kJ/mol, il che significa che rompere la molecola di azoto non è per niente facile.

Guardate invece in basso a sinistra quel 1072 del legame triplo tra cambonio e ossigeno, si conosce
solamente un solo composto dove questo legame si forma, ed è il monossido di carbonio; per cui talvolta si
dice sbagliando che in quel caso il carbonio è bivalente, no, sembra ma non è. C’è il legame covalente triplo
tra il carbonio e l’ossigeno che rende questa molecola sorprendentemente stabile.

- in questo caso il carbonio mette in compartecipazione un doppietto di elettroni?

Sì, ma poi èe un caso particolarissimo perché non solo c’è il triplo legame, ma c’è anche una condivisone
asimmetrica, nel senso che l’ossigeno oltre che formare il triplo legame, cede un elettrone al carbonio.
Difatti il carbonio diventa negativo e l’ossigeno diventa positivo. Non è una situazione molto comune, ma
spiega anche la grande stabilità di questo composto perché l’elettronegatività direbbe che l’ossigeno ad
essere negativo, invece diventa lui positivo, il carbonio negativo, i due effetti si annullano e infatti quella
molecola ha una polarità molto bassa. L’ossido di carbonio è un combustibile e può essere anche bruciato e
diventa CO2, cioè anidride carbonica.

L’ossido di carbonio blocca l’emoglobina, impedisce all’emoglobina di fare il suo lavoro.

- Ma più c’è energia di legame, è più raro che quella molecola si formi?

No, il contrario, puoi dire che ci vuole quell’energia per rompere quel legame
- Ma anche per formarlo?

No, per formarlo, si libera quell’energia, è prodotta. Se partiamo da due atomi separati e li uniamo, si
sprigiona dell’energia, che è la stessa che bisogna fornire per separare quel legame.

Per esempio, guardate che alta l’energia di legame, del legame triplo carbonio-carbonio: 837, e voi direte,
ora questo non si romperà mai; e invece sì perché se io ad esempio faccio bruciare un composto che
contiene quel legame triplo, l’energia di legame dei composti che si formano tra carbonio e ossigeno sarà
largamente superiore a quella che ho sacrificato per rompere quel legame.

Guardate che piccola invece


l’energia del legame ossigeno
fluoro: 190, i legami di questo
genere non si formano mai.
Oppure azoto iodio.

Aumentando l’odine di
legame, passando da 1 a 2 a 3,
i nuclei sono più vicini.

Quando si forma un legame covalente come quelli che abbiamo visto, questa compartecipazione della
nuvola elettronica dei due atomi alla formazione di legame, nel dire che i corrispondenti orbitali atomici,
solo quelli degli elettroni coinvolti nel legame, si mescolano fra di loro formando un nuovo orbitale, quindi
individuando una regione dello spazio dove c’è la massima probabilità di trovare gli elettroni e questo
nuovo orbitale che nasce dall’ unione degli orbitali atomici dei due atomi si chiama orbitale molecolare.

Per evitare di far confusione si


usa la lettera latina s per
l’orbitale atomico e quando si
forma invece l’orbitale
molecolare, quindi quando la
densità elettronica si
interpone tra i due nuclei
partecipanti, si dice che si
forma un orbitale molecolare
e, per distinguerlo si usa la
lettera greca corrispondente
alla s che si chiama sigma.

Questi orbitali molecolari hanno una forma che ricorda un po’ quella di un fuso che è attraversato da un
asse ovviamente immaginario che passa attraverso i due nuclei dei due atomi coinvolti. La scritta ss
piccolina sotto il sigma è per spiegare che quel legame è nato da due orbitali di tipo s. Questo perché anche
due orbitali p si possono unire formando un legame sempre di tipo sigma. Anche tra orbitale s e p.
Mentre gli orbitali s hanno una simmetria sferica, quindi non c’è nessun problema di orientamento nello
spazio, gli orbitali p come sapete, px, py, pz, quindi solo quello che punta verso l’altro atomo può fare una
sovrapposizione nello spazio e fare un legame sigma.

E qui si può vedere cosa ci si


può aspettare nella formazione
della molecola di fluoro
tipicamente covalente. Anche
qui non c’è nessuna ragione
per cui ci debba essere una
distorsione della nuvola
elettronica che ha formato il
legame molecolare di tipo
sigma. Notare che quando
avviene questo gli spin degli
elettroni devono essere per
forza antiparalleli.

La teoria dell’orbitale molecolare trattando la formazione del legame covalente, dando maggiore
attenzione non tanto agli elettroni più esterni così come sono con la teoria di Lewis, ma trattandoli dal
punto di vista degli orbitali, quindi cercando di applicare gli esercizi che abbiamo visto con l’equazione di
Shroedinger anche alla formazione di legame, è molto più funzionale a spiegare le proprietà di atomi e
molecole rispetto al legame di valenza. Però questo non significa che dobbiamo mettere al band Lewis e
d’altra parte ha formulato il suo simbolismo quando ancora il concetto di orbitale molecolare non era
ancora stato escogitato da nessuno. Quindi diciamo che la teoria dell’orbitale molecolare ha molti cenni più
teorici e sperimentali, ma la teoria di Lewis ha ancora valenza nella spiegazione dei legami più semplici.

Le cose sono molto ben diverse nel caso apparentemente semplice come quello dell’ossigeno: la molecola
di ossigeno molecolare ha un legame doppio e due elettroni spaiati. Contiene sia un legame doppio che due
elettroni spaiati, se voi provate con la teoria di Lewis c’è un problema. Perché se si scrive col doppio legame
risulta che non ci sono orbitali, per avere elettroni spaiati bisogna mettere un legame singolo, invece la
pratica ci dice che non è vera né una cosa né l’altra.

Ed ecco che qui viene fuori la potenza del metodo dell’orbitale molecolare
che viene spiegato lì. Quando si uniscono gli orbitali atomici in realtà di
orbitali atomici non se ne forma uno, sene formano due: uno a energia
inferiore che si chiama orbitale molecolare di legame e uno ad energia
superiore che si chiama orbitale molecolare di antilegme e si indica con una
stelli a fianco al tipo di legame.

In questo diagramma si vede l’unione dei vari orbitali atomici dell’ossigeno a


formare la molecola e si vede anche che ci sono due orbitali di antilegame
che conservano ciascuno un elettrone spaiato. C’è sia un doppio legame, sia
due elettroni spaiati: questo è l’ossigeno “normale”. Questo spiega perché
è chimicamente così inerte rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare. Ad
esempio rispetto al fluoro che in natura non può esistere in libertà perché
reagisce con tutti gli altri elementi, persino con lo xenon.
Eppure, se si fornisce energia nella giusta quantità, in certi composti che
si chiamano sensibilizzati, la configurazione elettronica dell’ossigeno
cambia. L’unica differenza è che nell’orbitale 2p uno degli elettroni si è
spostato. Prende il nome di ossigeno singoletto.

Si comporta un po’ come il fluoro: aggredisce e distrugge tutto, ci sono


degli organismi che in natura lo producono per difendersi, ad esempio
alcune spugne lo liberano per difendersi dall’essere mangiate dai
predatori. Certi tipi di felci ne producono, si usava per vermifugo perché
nell’intestino liberava questa sostanza che produce ossigeno singoletto e
che assorbita da vermi e parassiti intestinali, li uccide. Il problema è che
bastava sbagliare di poco la dose che non si limitava ad uccidere i vermi,
ma anche la persona.
Esame Chimica e propedeutica biochimica;
6 CFU, 60 ore
Docente Sanjust Enrico

Lezione n.5 del 25/10/21

Sbobinatore Anna Madeddu

Orbitale molecolare, legami, legame dativo, forme allotropiche


Orbitale molecolare
Quando si applica la teoria dell’orbitale
molecolare, quindi l’equazione di Schrodinger, si
ottiene una combinazione lineare di tipo
additivo, dunque se ho due grandezze x e y una loro combinazione lineare sarà z=ax + by in cui a e b
sono opportuni coefficienti. Se ottengo una combinazione lineare delle funzioni d’onda, che
corrispondono agli orbitali degli atomi del legame, ottengo due soluzioni, una con energia più bassa di
quella di partenza (definito orbitale di legame) mentre uno con energia più elevata (definito orbitale di
anti legame, di solito vuoto, anche se gli elettroni del guscio più esterno possono finire negli orbitali di
anti legame).

Per capire se il legame finale è singolo doppio o triplo bisogna fare la


somma algebrica degli orbitali di legame considerandoli positivi e quelli di
anti legame considerandoli negativi purché ci sia almeno un orbitale
occupato. Inoltre ricordiamoci che deve esistere una sovrapposizione
tra gli orbitali atomici che si rimodellano per formare il molecolare,
sovrapposizione che avviene senza impedimenti significativi dal punto
di vista direzionale se si tratta di orbitali S che sono sferici, mentre gli altri orbitali sappiamo che puntano
in ben precise direzioni dello spazio dunque devono essere correttamente allineati e potrebbero non
riuscire a sovrapporsi bene e a non formare legami. Gli orbitali di anti legame si indicano come quelli di
legame ma con l’asterisco, e bisogna ricordarsi e fare attenzione alla definizione, poiché sono differenti
dalle coppie solitarie di non legame che semplicemente non presentano legame chimico.

Esempio ossigeno e neon

Se facciamo la somma algebrica in questo caso avremo +2 e


scopriremo che gli atomi di ossigeno formano un legame
doppio (uno sigma e uno pi greco) e inoltre particolare di
questa molecola è che i due atomi di ossigeno che formano
O2 hanno due elettroni spaiati ospitati in due orbitali pi greco
di anti legame. Questi due elettroni spaiati a spin paralleli
spiegano perché pur essendo un elemento fortemente
elettronegativo, il primo dopo il fluoro, non sia reattivo come
il fluoro che invece è estremamente pericoloso tanto da
conservarlo in appositi recipienti come il techlon, composto
macromolecolare formato esclusivamente da carbonio e
fluoro oppure in recipienti di metalli che formano fluoruri
compatti. L’ossigeno è il secondo in elettronegatività ma è
sorprendentemente inerte, e quei due elettroni negli orbitali
di legame a spin paralleli spiegano perché non vediamo
l’avidità di elettroni nell’ossigeno tripletto, quello normale.
Quei due elettroni in condizioni particolari si possono appaiare
e parliamo di ossigeno singoletto, termine che, con tripletto,
deriva dalla spettroscopia di risonanza paramagnetica degli
elettroni. Questo ossigeno singoletto e non più tripletto non ha più quelle restrizioni di spin per poter
reagire dunque è particolarmente reattivo divenendo un’arma chimica nel caso di tessuti che lo
producono apposta, sia in vegetali sia in animali.

Facciamo anche l’esempio della molecola biatomica del neon, gas nobile con molecole monoatomiche
con configurazione a guscio chiuso, in cui non può avvenire la reazione, e ora noi ciò lo capiamo facendo
la somma algebrica, di +1 -1 arrivando alla fine a zero, che è l’ordine di legame. Come anche in questo
modo capiamo l’ordine di legame nella molecola CL2 che è 1.

Legami: singoli, doppi e tripli

Un orbitale molecolare sigma σ si forma dalla sovrapposizione


di due orbitali s, ma si può formare anche dalla sovrapposizione
di due orbitali p o dalla sovrapposizione di un orbitale s e di un
orbitale p.
Esistono però delle circostanze in cui condividere solo una coppia di elettroni non basta per raggiungere
la cosiddetta configurazione elettronica “a guscio chiuso”. Si parla di legami doppi, tripli e anche quadrupli.
La formazione di legami aggiuntivi rispetto al legame sigma può riguardare solo elementi che hanno
degli orbitali p, o eventualmente d, parzialmente occupati. Gli orbitali p, che sono orientati lungo l’asse
che unisce i nuclei dei due atomi partecipanti, danno luogo ad un normale legame sigma, non molto
diverso da quello che si ottiene da due orbitali s. Ci sono però anche orbitali p perpendicolari all’asse che
unisce i due nuclei e sono gli orbitali Py e Pz, i quali possono formare il legame doppio o triplo. Il legame
che si forma nasce da orbitali molecolari e si chiama legame pi greco π, perché l’orbitale corrispondente
è formato da due lobi (uno sopra e uno sotto il legame semplice). Quando vediamo un doppio legame, lo
indichiamo con un trattino doppio e dobbiamo ricordarci che di quei due legami uno è sigma e uno pi
greco, che presentano caratteristiche diverse.
Il legame sigma consente una rotazione intorno al proprio asse di 360 gradi. Le uniche limitazioni a
questo giro completo possono essere date dal cosiddetto ingombro sterico, ovvero quando il resto della
molecola è ingombrante e quindi impedisce la rotazione libera. Al contrario, se è presente un legame
doppio (un σ e un π) o triplo (un σ e due π), i legami pi greco conferiscono rigidità alla molecola in quel
punto in cui essi sono presenti. Quindi la rotazione non è consentita. Nell’etano C₂H₆ i due atomi di
carbonio possono ruotare liberamente intorno all’asse nucleare, invece nell’etilene C₂H₄ non si possono
muovere. Quest’ultima è una molecola planare: tutti e sei gli atomi che formano questa molecola fanno
parte del medesimo piano immaginario.
Nel disegno a sinistra la parte senape indica la densità
elettronica del legame sigma e l’azzurrina quella del pi greco, e
potrebbe assomigliare per qualcuno a un hot dog in questo
disegno anche se ovviamente noi per rappresentare un legame
doppio o triplo disegnandoli li semplifichiamo normalmente,
infatti rappresentiamo i legami con due o tre lineette come se
fossero dello stesso tipo anche se sappiamo che sono di tipo
diverso es. uno sigma e uno pi greco. Al crescere dell’ordine di legame la distanza dei due nuclei
diminuisce come nell’azoto in cui abbiamo atomi legati da un legame semplice e poi viceversa nell’azoto
molecolare che respiriamo un legame triplo in cui i due nuclei sono vicinissimi tra di loro.

Qui nell’immagine vediamo l’azoto molecolare N2, che


respiriamo, e vediamo i due atomi legati tra sé stessi che
formano un legame triplo in cui i due nuclei sono vicinissimi
tra di loro essendoci presenti 6 elettroni che li schermano
reciprocamente.

Qua in questo schemino vediamo dove gli orbitali p, in questo caso px


allineati e sovrapposti all’asse immaginario che unisce i due nuclei di
azoto, formano il legame sigma. Invece pz e py non possono formare
legami sigma ma formano una particolare sovrapposizione che forma
il legame pi greco (non abbiamo più l’hot dog di prima, perché ora le
fette di pane sarebbero 4).

Legame dativo

Finora abbiamo visto che gli orbitali molecolari sono


formati da coppie di elettroni e che avviene una
condivisione paritaria tra i due atomi coinvolti, quindi dei
due elettroni coinvolti uno viene dall’atomo A e l’altro
dall’atomo B. Ci sono però dei casi in cui solo uno dei due
atomi mette a disposizione due elettroni, mentre l’altro
atomo mette a disposizione un orbitale atomico vuoto. Si
forma un legame covalente, che a differenza di quelli di cui
abbiamo parlato finora è formato da un atomo donatore di
una coppia di elettroni e da un atomo accettore. Questo
legame viene chiamato dativo, proprio perché un atomo dona elettroni e li condivide con un altro atomo.
Moltissimi composti comuni presentano legami covalenti di tipo dativo. Se uno dei due atomi anziché
cedere un elettrone ne cede due, c’è uno squilibrio di carica, quindi l’atomo donatore assume una carica
positiva, mentre l’altro assume una carica negativa. Il legame dativo, chiamato anche semi polare o
coordinativo, si indica con una freccia che parte dall’atomo donatore e va verso l’atomo accettore.
L’ordine di questo legame è difficile da definire secondo la teoria dell’orbitale molecolare. Il legame dativo
inoltre a volte è indicato come doppio legame, cosa leggermente incorretta, e a volte come un legame
semplice con carica positiva sull’atomo che dona e carica negativa sull’altro, e infine si utilizza la freccia al
posto della lineetta. Molti ossidi presentano questo legame: l’ossigeno mette a disposizione un orbitale
atomico vuoto per ricevere una coppia di elettroni dall’elemento con cui forma l’ossido.
Esempio ammoniaca, acido nitroso, composti del fosforo, dello zolfo, del cloro

Un caso apparentemente banale è l’ammoniaca, un composto binario, in cui l’azoto utilizza solo tre dei
cinque elettroni di valenza per formare il composto. Ciascuno di questi elettroni forma una coppia
elettronica per compartecipazione con un atomo di idrogeno. L’azoto si circonderà di otto elettroni, di cui
due non condivisi (coppia elettronica di non legame), per raggiungere la configurazione del Neon.
L’idrogeno accoglie un elettrone oltre a quello che ha già e raggiunge la configurazione elettronica
dell’Elio. La coppia non condivisa (dell’azoto) può essere messa in compartecipazione con uno ione
positivo formato da un idrogeno che ha perso un elettrone. Si forma così un nuovo legame tra azoto e un
quarto idrogeno, estraneo rispetto agli altri tre che formano l’ammoniaca. Il legame è dativo, cioè i due
elettroni provengono entrambi dall’azoto (donatore), mentre l’idrogeno (accettore) ha messo a
disposizione il suo orbitale atomico s, che si era svuotato perché l’unico elettrone presente era stato perso
per dare origine allo ione positivo idrogeno. A questo punto l’ammoniaca è diventata essa stessa uno ione,
perché è presente una carica positiva, e questo nuovo individuo chimico è lo ione ammonio. La reazione
che avviene è NH₃+ H⁺→NH₄⁺ ed è una reazione reversibile. Una volta che lo ione ammonio si è formato,
risulta impossibile distinguere i 4 legami tra H e N, possiedono infatti uguali angoli e lunghezza (è infatti
una molecola perfettamente simmetrica). Nel passaggio da ione ammonio ad ammoniaca viene perso lo
ione H⁺ e mai uno degli atomi di idrogeno che formano NH₃.

Per il principio di elettro neutralità della materia, non esistono ioni positivi o negativi da soli: in un sistema
che contiene ioni, le cariche totali positive devono essere identiche a quelle totali negative. Lo ione
ammonio è perfettamente simmetrico. L’idrogeno può perdere un elettrone e diventare ione positivo H⁺,
oppure formare legami covalenti e mettere in compartecipazione il suo unico elettrone o ancora può
acquistare un altro elettrone, divettando ione idruro H⁻, e raggiungere la configurazione dell’Elio.

Altri esempi di acidi, come l’acido nitroso, derivabili dall’azoto è HNO2, che si forma grazie ai fulmini che
permettono all’ossigeno nell’aria di reagire formando ossidi di azoto, per quindi divenire acido nitroso con
l’acqua delle nuvole, dunque una sostanza che ha breve vita perché poi si trasforma in acido nitrico con
O3 e non O2 stavolta. L’azoto vediamo che ha una coppia non condivisa di elettroni che può essere ceduta
in qualche modo all’ossigeno formando un tipico legame dativo, dunque dei due ossigeni infatti vediamo
che uno ha il doppio legame e l’altro ha la famosa freccina di cui parlavamo, come per dire che l’azoto
assume una carica positiva e ossigeno negativa. L’ossigeno con il legame dativo cambia radicalmente la
molecola, e infatti se si misura il ph della pioggia normale si nota che ha ph poco inferiore a 7 mentre in
quella temporalesca il ph è acido, e grazie a questo le piante sfruttano il ph dell’atmosfera.

Abbiamo poi due composti del fosforo, tricloruro di fosforo che può diventare ossicloruro, in cui la coppia
di elettroni non condivisa nel primo si può legare con l’ossigeno. Si può dunque definire un doppio legame
ma anche un legame dativo perché gli elettroni possono essere ceduti all’ossigeno oppure formare un
legame doppio normale sigma e pi greca. Ciò dunque avviene nel cloro ma non nel fosforo, in cui quel
legame dativo è obbligato, per via della regola dell’ottetto che vale solo per gli elementi più leggeri che si
trovano nella prima riga, mentre a mano a mano che scendiamo nel periodo troviamo orbitali d di energia
adatta ad ospitare coppie elettroniche supplementari.

Mentre per lo zolfo diciamo che un composto molto comune è il diossido, l’anidride solforosa che diviene
poi in umidità anidride solforica, triossido. Quando bruciamo un composto contenente zolfo si forma
anidride solforosa, molta meno quella solforica, ma poi questa diventerà per l'appunto solforosa. Ma
utilizziamo questo esempio per comprendere come in questo caso ci siano sia legami normali sia legami
dativi, e più legami dativi ci sono maggiore è la carenza elettronica sull’atomo centrale, tant’è che qua
vediamo anche i più comuni ossidi del cloro. Il più semplice detto anidride ipoclorosa non contiene legami
dativi ma due semplici legami sigma. Dopo in quello successivo l’anidride clorosa ha ciascun cloro che
forma in più un legame dativo con l’ossigeno. Poi l’anidride corica ha due legami dativi a testa. E infine
l’anidride perclorica ha tutte le coppie elettroniche possibili sul cloro impegnate a formare legami dativi,
dunque gli atomi di cloro sono positivizzati e si ripercuote nel diverso comportamento di questi composti.

La nuvola elettronica e l’elettronegatività

La polarità di un legame dipende dall’elettronegatività. Per semplificare la comprensione ci occuperemo


solo di molecole biatomiche e con legami singoli. Nei legami omopolari la coppia elettronica coinvolta (o
le coppie nel caso di legami doppi e tripli) è perfettamente condivisa tra i due atomi. Tuttavia, la situazione
cambia con atomi diversi, che hanno una differenza di elettronegatività insufficiente per consentire la
formazione di ioni, cioè per fare in modo che uno o più elettroni abbandonino un atomo per trasferirsi su
un altro atomo.

Se prendiamo il sodio metallo e lo gettiamo sul cloro gassoso, avviene una reazione violenta in cui il sodio
prende fuoco, forma un fumo bianco e poi si deposita una polvere bianca, che non è altro che il cloruro di
sodio. In questo caso il divario di elettronegatività tra cloro e sodio è largamente sufficiente per formare
un composto ionico.

Se la differenza di elettronegatività c’è ma non è così grande, si forma un legame covalente polare o
eteropolare, in cui la coppia elettronica viene condivisa da un atomo all’altro, ma è spostata verso l’atomo
con maggiore elettronegatività. Come vedremo in chimica organica il carbonio e l’idrogeno sono due
atomi molto presenti, ma i cui legami in buona approssimazione si comportano come se fossero legami
omopolari nonostante la differenza.

Maggiore è la differenza di elettronegatività, maggiore sarà questa


distorsione, cioè questo spostamento verso un atomo. Quando la
distorsione è massima, si parla di legame ionico, in cui l’elettrone si
trasferisce da un atomo che diventerà carico positivamente ad un altro
che diventerà carico negativamente. I due atomi saranno poi soggetti alle
forze di attrazione dettate dalla legge di Coulomb, ma come abbiamo
visto non formano un legame individuale, cioè non è possibile assegnare
ad ogni atomo la sua controparte, perché sono sistemati in un reticolo cristallino regolare, che non
consente di dire, ad esempio, che un determinato cloruro è il cloruro di un determinato sodio. Lo stesso
vale nel caso del sodio disciolto in acqua: gli ioni saranno circondati da molecole d’acqua e non è possibile
assegnare a ciascuno ione la sua controparte di carica opposta. Invece nel legame covalente si può fare,
sia nel caso di un legame covalente non polare, sia nel caso di un legame covalente polare.

Il fatto che ci sia questa polarizzazione permanente si indica con la lettera greca delta Δ, che sta per
“differenza”, in particolare si indica δ + sull’atomo con una parziale carica positiva e δ - sull’atomo con una
parziale carica negativa.

Un esempio ne è l’elemento più elettronegativo in assoluto, rispetto all’idrogeno abbiamo un’affinità per
gli elettroni sbilanciati, tanto che si forma un legame sigma ma si ha una nuvola elettronica nettamente
sbilanciata verso il fluoro. Il delta ci permettere di comprendere lo spostamento della nube elettronica,
anche se si comprenderebbe anche con un disegno corretto dal punto di vista delle proporzioni, cosa
inusuale in quanto tendiamo a schematizzare gli elementi rappresentante il legame quando spesso ne
potremmo disegnare uno enormemente più grande rispetto all’altro.

Gli atomi che tendono a diventare anioni o cationi sono


quelli che hanno un’elettronegatività intermedia.
L’idrogeno, pur avendo un’elettronegatività elevata,
tende a formare con più facilità lo ione H+ piuttosto che
lo ione H-. Gli ioni come abbiamo visto non sono
possibili da assegnare al proprio rispettivo negativo o
positivo perché di fatto vediamo un certo edificio
cristallino generico, come se esaminassimo sale grosso
schiacciato che diventa fino, in realtà è un cristallo,
come se mettessimo uno ione in acqua, non possiamo più accoppiarlo al suo rispettivo ione opposto. Il
legame dativo si individua sulla base del fatto che contando gli elettroni di valenza degli atomi costituenti,
si vede che ad esempio l’ossigeno può raggiungere la configurazione corrispondente a quella del gas
nobile Neon acquistando due elettroni da un atomo donatore. Questo non è sempre vero, perché ad
esempio nel caso del diossido di zolfo, la regola dell’ottetto si rispetta per tutti e tre gli atomi ed è presente
un doppio legame e un legame dativo, ma ci potrebbero essere due doppi legami. Questo dipende dal
fatto che lo zolfo ha orbitali d vuoti quindi non è vincolato ad avere per forza solo otto elettroni intorno a
sé, ne può accogliere anche dieci. La struttura più corretta è quella con un doppio legame e un legame
dativo. Il legame dativo si chiama anche semi polare perché l’atomo ricevente assume formalmente una
carica negativa e quello donatore una carica positiva. Quindi è chiaro che la polarizzazione di questo
legame è particolarmente forte.

Noi possiamo di fatto fare finta che un legame sia


una via di mezzo tra un legame?? (si è mutato) e
allora in base al partner con cui un atomo è legato
l’atomo in questione può avere una percentuale di
ionicità, che sicuramente in un’unione di due atomi
di idrogeno come H2 sarà per esempio 0.

Se due atomi con elettronegatività non molto


diversa o quasi uguale formano un legame
covalente, la distorsione della nuvola elettronica è
talmente modesta che inizialmente si può dire che
il legame è non polare, perché lo squilibrio di carica sarà insignificante.

Forme allotropiche

Alcuni elementi possono esistere sotto diverse forme allotropiche, ciò significa che gli atomi che formano
le molecole di quegli elementi possono legarsi tra di loro in maniera diversa dando luogo a entità
molecolari che hanno proprietà diverse.

Per esempio, il carbonio, a causa delle dimensioni dei suoi atomi e della sua struttura elettronica, può
formare legami con geometria completamente diversa tra di loro. Si possono formare dei piani esagonali,
simili alle cellette di un alveare, in cui ciascun atomo di carbonio è legato a tre altri atomi di carbonio,
formando degli angoli identici di 120°. Il carbonio ha quattro elettroni di valenza e possiamo immaginare
che tre dei legami che ciascun atomo di carbonio forma con altrettanti atomi di carbonio, due siano
semplici e uno doppio, per un totale di quattro elettroni appunto. Questa particolare forma allotropica
del carbonio si chiama grafite, che conduce la corrente elettrica e forma le mine delle matite. Il carbonio
può sistemare i suoi atomi anche in un altro modo: ogni carbonio forma quattro legami con quattro atomi
di carbonio e si forma una struttura tridimensionale a reticolo cristallino covalente con quattro legami
semplici. Questa forma allotropica è il diamante, che è isolante ed è caratterizzato da un’elevata durezza.
A differenza della grafite, il diamante non si distrugge tramite acido nitrico.

Anche l’ossigeno presenta due forme allotropiche: una è l’ossigeno molecolare O₂ e l’altro è l’ozono O₃,
formato da tre atomi di ossigeno uniti tra di loro. L’ozono è una forma angolata, è estremamente reattivo
e distrugge la maggior parte delle sostanze con cui viene in contatto. Per questo motivo un pezzo di ferro
immerso nell’ozono arrugginisce velocemente, mentre nell’ossigeno impiega più tempo. Una sostanza
combustile gettata nell’ozono crea un’esplosione violentissima. L’ossigeno è incolore, mentre l’ozono è
blu scuro e ha un forte odore che ricorda quello del cloro e della candeggina. L’ozono si può formare
dall’ossigeno normale per mezzo di scariche elettriche e così viene preparato dall’industria. L’ozono è
anche un potente battericida, ma inspirato danneggia i polmoni, quindi dopo aver igienizzato un ambiente
chiuso con l’ozono è opportuno cambiare l’aria. Viene utilizzato anche come agente potabilizzante delle
acque, perché a differenza di altri agenti non lascia residui pericolosi, però è molto costoso e, lasciato da
solo, a poco a poco si decompone e diventa ossigeno normale. Non si può comprimere all’interno di
bombole per conservarlo perché la decomposizione può essere esplosiva. Per esempio butano e
isobutano sono simili ma non sono forme allotropiche appunto per la differenza tra isomeria e questo
concetto, essendo entrambi C4H10.

Il fosforo bianco che sembra cera bianca ma lasciato all’aria diventa giallino ed è formato da tetraedri e
diviene pericolosissimo rischiando l’esplosione a contatto con l’aria, utilizzato infatti nell’800 per i
fiammiferi dando luogo a una malattia professionale molto grave, soprattutto nelle operaie, cioè
l’intossicazione ionica che lasciava anche danni irreversibili, usato anche per bombe incendiarie. Ma forma
anche un’altra forma allotropica formata da catene come nastri che è il fosforo rosso, chimicamente al
contrario piuttosto inerte e con caratteristica di tossicità molto bassa, infine invece il fosforo nero con
catene di fosforo molto strette e innocuo per la salute. Cugino del fosforo è l’arsenico in forma bianca
estremamente tossica e quella grigia che pare un metallo, infatti l’arsenico è un metalloide tra metallo e
non metallo, ma come metallo è sicuramente pessimo essendo molto fragile.

Se si misura la lunghezza dei legami presenti nell’ozono (quello singolo e quello doppio), si può notare che
hanno la stessa lunghezza, che ha un valore intermedio tra i normali legami semplici dell’ossigeno e i
normali legami doppi dell’ossigeno. Si parla di mesomeria o risonanza. Quest’ultimo termine viene
utilizzato di meno perché dà l’idea che i primi chimici che avevano intuito questa situazione credevano
che la molecola di ozono cambiasse di continuo da una forma all’altra. Questo fenomeno esiste per altri
tipi di molecole ed è chiamato tautomeria, importante nella chimica degli zuccheri. La tautomeria è
proprio quel fenomeno in cui una molecola può esistere in due o più forme che differiscono tra loro non
per la posizione degli atomi, ma per la posizione degli elettroni.
Nella mesomeria non c’è alcuna miscela, ma tutte le
molecole sono un ibrido, una via di mezzo tra le cosiddette
formule limite. Ad esempio, l’HCl è una via di mezzo tra due
forme (indicate in figura). La mesomeria si indica con una
freccia a due punte. Invece la tautomeria si indica con la
doppia freccia, cioè due frecce una sopra l’altra (così come le reazioni reversibili). Noi le chiamiamo forme
limite di risonanza, una struttura in cui gli elettroni sono distribuiti tra le due forme, anche se la IUPAC per
esprimere questa forma di mezzo non la chiama risonanza ma mesomeria perché risonanza svia, è una
parola che fa pensare che l’ozono sia una miscela costituita al 50% di molecole come a destra e come a
sinistra, quando in realtà è formato da molecole che non sono nessuna delle
due. Ovviamente non si parla di isomeria cioè diversa distribuzione di legami
ma qua abbiamo diversa possibile distribuzione di elettroni e la indichiamo
con freccia singola con due punte, diversa dalla doppia freccia che indica
l’equilibrio chimico che indica molecola A che diventa molecola B. La
risonanza non indica una certezza tra le due ma una forma di ibrido in cui in
realtà prevale il legame covalente, e allora ma l’acido cloridrico non è uno
degli acidi più forti e quindi completamente dissociato? Si ma ci vuole acqua
per dissociarlo, tant’è che è gas e viene chiamato cloruro di idrogeno.

Ora guardiamo lo ione carbonato, in alto vediamo un acido carbonico che ha perso i suoi idrogeni quindi
rimangono due cariche negative, ma qual è la sua vera forma? Nessuna delle tre, sono forme limite, le
forme che possiamo immaginare che contribuiscano alla vera struttura dello ione carbonato, che non è
una miscela dei tre ma una costante via di mezzo. Quando si ragione con le forme limite, che sono
importanti per capire il motivo della reazione di una biomolecola, si usano le freccine curve. Inoltre
ricordiamo che perché esistano queste forme ci devono essere doppi legami o perlomeno almeno uno, e
più sono più abbiamo possibilità di vedere diverse forme mesomere, come anche influenza la presenza di
elementi come l’ossigeno e l’azoto che permettono molte forme mesomere che danno luogo a un
fenomeno importantissimo della delocalizzazione
elettronica in cui gli elettroni hanno una certa libertà
di movimento anche grazie ai legami pi greco che
possono fare la differenza per una molecola tra
l’esistere e il non esistere.

Ecco come dovremmo rappresentare correttamente lo ione carbonato, due cariche


negative distribuite su tre atomi di ossigeno, e se una forma di quelle di su fosse vera
sapremmo che questi quei legami doppi sarebbero più corti delle molecole in cui lo
vediamo singolo, perché sappiamo il legame doppio essere più corto ma opportuni
studi ci hanno fatto scoprire che nessuna di queste è giusta, perché abbiamo visto
che il legame è un incrocio anche di lunghezza.

Eccezioni regola ottetto

Parlavamo prima della sostanza dei temporali, ossido nitrico, e relativamente di


recente, cosa che è valsa il premio Nobel, si è scoperto che pur essendo una
sostanza tossica la produciamo anche noi come regolatore delle funzioni
biologiche, e dunque con il disturbo della produzione dell’ossido di azoto dunque
troppa o troppo poca produzione si possono avere disturbi alla salute, e questa
specie, cioè con un elettrone spaiato, è un radicale. Avendo l’ossigeno 6 elettroni e
l’azoto 5 è chiaro che la somma è dispari quindi un elettrone sull’azoto rimarrà spaiato. In realtà si è visto
che per risonanza non sta inchiodato sopra l’atomo di azoto ma in parte condiviso anche dall’ossigeno ma
scriviamo la forma canonica tradizionale facendo finta sia esclusivamente di pertinenza dell’atomo
originario di azoto. Gli antiossidanti possono neutralizzare la quantità di NO esagerata dovuta al consumo
eccessivo di nitrati e nitriti.

Ora nel biossido di azoto cosa è successo? L’azoto ha usato la coppia elettronica non
condivisa per formare un legame dativo con un secondo atomo di ossigeno, ma
vediamo ancora un elettrone spaiato sull’azoto e possiamo immaginare una forma
limite di risonanza diversa, che la coppia elettronica si trasferisca così come la carica
positiva che sia positiva sull’azoto. Questa è la forma che vediamo formarsi rapidamente dopo NO durante
i temporali.

Perché NO2 dimerizza facilmente a N2O4 e al contrario NO dimerizza


solo a temperature bassissime (per esempio -150°)? Le coppie di non
legame, coppie elettroniche che non partecipano al legame, sono un
addensamento di carica negativa che hanno comunque bisogno di spazio
perciò bisogna tenerle conto come centri che attraggono cariche
positive, come l’ammoniaca che lega ione H+, ma scacciano cariche
negative.

Eccezioni alla regola dell’ottetto sono per esempio


un non metallo con solo 3 elettroni nel guscio di
valenza, e infatti è il boro che vediamo formare il
trifloruro di boro, BF3 in cui forma un sestetto, non
un ottetto, e questo vuol dire che il trifloruro di boro
ha una grande tendenza a fare da accettore per
coppie elettroniche altrui. Invece guardiamo PH3, la
fosfina, in questo caso non c’è nessun problema
perché dei 5 elettroni di valenza del fosforo 3
vengono usati per legare 3 idrogeni e rimane una
coppia solitaria dunque in totale fa 8. Nel caso del
penta cloruro di fosforo PL5 ci sono degli orbitali d
che gli consentono di ospitare anche 10 elettroni
come nel caso dell’acido fosforico H3PO4 infatti il fosforo tra i vari composti che forma col cloro può
formare il tricloruro PCL3 e il pentacloruro PCL5. L’azoto senza orbitali d a disposizione non può ormare
NCL5 che non esiste ma solo NCL3. Poi ci sono moltissimi altri casi come anche lo zolfo che a volte usa i
suoi orbitali d vuoti, anche se per esempio nel solfuro di idrogeno non ne ha bisogno ma nel diossido di
zolfo o acido solforico sì. Tenendo conto che in realtà il diossido di zolfo è un ibrido di risonanza tra questa
formula nella slide e quella nella slide di prima in cui i due legami con l’ossigeno sono uno doppio e uno
dativo, in cui con la freccia rossa richiamavo l’attenzione su questo tipo
di legame nell’ossicloruro di fosforo in cui le misurazioni intorno a questo
legame ci fanno comprendere che è una via di mezzo tra il legame doppio
che ci fa ricorrere agli orbitali d e un legame semplice dativo che rispetta
la regola dell’ottetto (non obbligatorio nel caso del fosforo e a volte nello
zolfo come al contrario si nell’azoto e nell’ossigeno).
Esame Chimica e Propedeutica Biochimica

Docente Enrico Sanjust

Lezione N 6 del 27/10/2021

Sbobinatore Luisa Piras

Ibridazione degli orbitali


L’ibridazione o ibridizzazione degli orbitali, è un fenomeno estremamente importante per quanto
riguarda il comportamento dei vari atomi. Lo è ancora di più per gli atomi delle prime righe del
sistema periodico in particolare della seconda e terza riga, nonostante ciò tale fenomeno si può
estendere anche agli elementi più pesanti anche se con maggiore difficoltà nelle predizione a
causa del grande volume e del mancato rispetto delle
regole di simmetria degli orbitali.
Nonostante questo argomento sia stato già studiato, è
bene soffermarsi a trattarlo nel dettaglio, questo
dettaglio cominciamo a discuterlo con l’elemento
iconico rispetto a tale caratteristica: il Carbonio. Il
Carbonio come sappiamo, ha un numero di protoni
pari a 6, ai quali corrispondono altrettanti elettroni
(che possiedono la configurazione elettronica scritta a
fianco, a destra di Z=6). Gli elettroni di valenza sono i
due elettroni dell’orbitale s2 e i due elettori
dell’orbitale 2p.
Il Carbonio nel suo cosiddetto stato fondamentale, si potrebbe anche esprimere con la notazione
in figura (quella dove compare He), dove notiamo una coppia elettronica a spin appaiati (2s2) e
una coppia di elettroni a spin paralleli, ciascuno ospitato in uno dei tre orbitali p disponibili (quindi
avremo un orbitale p completamente libero).
Tuttavia tutto il comportamento dell’elemento Carbonio, non risponde alla configurazione dello
stato fondamentale, ma segue una situazione completamente diversa dove gli orbitali si possono
mescolare in qualche modo per formarne dei nuovi, detti orbitali ibridi. Nel carbonio, ci sono
diverse possibilità per ottenere questa ibridizzazione; nel caso più frequente l’orbitale 2s si
ibridizza con i 3 orbitali p disponibili e forma 4 nuovi orbitali detti sp3 (proprio per indicare il fatto
che nascono dall’unione di un orbitale s con 3 orbitali p), questi saranno tra loro identici e si
disporranno nello spazio secondo i vertici di un tetraedro regolare dando luogo alla formazione di
4 legami sigma.
L’ibridazione degli orbitali s e p del Carbonio può anche avvenire utilizzando due dei tre orbitali p
disponibili, in questo caso si formano 3 nuovi orbitali detti sp2, questi a differenza del caso
precedente questi si disporranno secondo i vertici di un triangolo equilatero . L’orbitale p non
coinvolto in questo processo è invece in grado di generare , ad esempio con un altro atomo di
carbonio ibridizzato nella stessa maniera, un legame pi-greca.
La terza modalità riguarda un’ibridazione coinvolgente l’orbitale s e uno solo dei tre orbitali p
disponibili; gli altri due formeranno due legami pi-greca con, ad esempio, un altro atomo di
carbonio ibridato alla stessa maniera.

1
Ibridazione sp3
Da un punto di vista concettuale il processo di ibridazione avviene in due stadio. Il primo prevede
un processo di “promozione” dove viene fornita una
certa quantità di energia all’atomo in maniera tale che
uno dei due elettroni ospitati nell’orbitale 2s venga
promosso all’orbitale p; in questa situazione l’energia
totale degli elettroni del carbonio è superiore a quella
che si avrebbe nello stato fondamentale (PROCESSO
ENDOERGONICO).In concomitanza avviene anche la
cosiddetta ibridizzazione dove i vari orbitali si
rimescolano formando gli orbitali ibridi (a sinistra in
basso); tale processo è ESOERGONICO, quindi da solo
produce l’energia necessaria per garantire la prima fase
di promozione.
Come mai questa situazione risulta essere più stabile di quella di partenza? Lo è perché i
guadagno di simmetria è favorito e garantisce che gli elettroni (che danno tra di loro repulsione)
possano stare tra di loro alla massima distanza possibile, in modo da minimizzare la repulsione
elettrostatitca.
Se il Carbonio reagisse secondo il suo stato fondamentale, gli orbitali creerebbero dei legami fra di
loro perpendicolari a 90°, quindi ci sarebbe una repulsione nettamente maggiore rispetto a quella
che si può avere con gli angoli che forma un qualunque tetraedro regolare (109 ,5°) in quanto gli
elettroni stanno più distanti tra loro. Nella diapositiva sotto , viene mostrato come si forma il
rimescolamento degli orbitali di partenza per dar luogo ai 4 orbitali ibridi equivalenti. Ciascun
orbitale ibrido è costituito da due lobi, dove quello maggiore è quello che viene coinvolto nei
legami con altri atomi, i lobi piccoli invece non sono molto importanti perché non partecipano
alla formazione dei legami. (Sotto viene fatto anche l’esempio più tipico per l’ibridazione, ovvero

il metano).

2
L’acqua
Nonostante non sembri legato ai discorsi fatti in
precedenza, possiamo prendere in esame anche
l’ibridazione dell’acqua. Nella molecola di H2O se si va a
guardare lo stato fondamentale dell’ossigeno, non pare
esserci nulla di strano se immaginiamo che siano i due
elettroni spaiati dell’O a reagire con i due elettroni spaiati
degli atomi di H per formare l’acqua; se questo fosse
vero però noi dovremo aspettarci che la molecola
d’acqua sia angolata con un angolo inferiore ai
90°(inferiore perché nonostante gli orbitali siano tra loro
ortogonali, uno dei tre orbitali p contiene un doppietto di
non legame che esercita una certa repulsione
elettrostatica allontanando le due coppie elettroniche
che formano legami sigma tra O ed H) . Nella realtà però, l’angolo tra i due idrogeni e l’ossigeno
risulta essere di 104,5 ° ; questo perché anche l’ossigeno subisce lo stesso processo di
ibridizzazione dei propri orbitali: sp3 quando forma legami semplici, sp2 quando forma legami
doppi come nel caso dell’O2. L’angolo di legame dell’acqua però non riesce a raggiungere i 109,5°
perché le coppie non condivise danno una repulsione più forte rispetto a quelle impegnate nei
legami a causa del fatto che le loro cariche negative sono controbilanciate solo dal nucleo
dell’ossigeno, piuttosto che dall’insieme dei nuclei di
ossigeno ed idrogeno.
L’ammoniaca
Lo stesso discorso si può fare con l’azoto
nell’ammoniaca. In questo caso l’azoto è al centro di un
tetraedro immaginario in cui uno dei vertici è occupato
dalla coppia elettronica non condivisa; l’angolo che si
forma è più simile a quello di un tetraedro ideale perché
la repulsione risulta essere minore in quanto abbiamo
una sola coppia di non legame (si nota nel disegno in
basso a sinistra).

Ibridazione sp2
Quando l’ibridazione è di tipo sp2 troviamo sempre la
promozione, ma uno degli orbitali p (pz) non si mescola
con gli altri. Il risultato è che si formeranno tre orbitali
ibridi anziché quattro, che si disporranno come in figura.
Un altro fattore da notare per quel che riguarda
l’ibridazione sp2 rispetto a quella sp3 è che nel mentre che
un orbitale ibrido sp3 ha ovviamente il 25% del carattere s
(per carattere s si intende essere più vicini al nucleo),
nell’ibridazione sp2 il carattere s raggiunge il 33%. Questo
maggior contributo causa la formazione di legami sigma
più corti perché gli elettroni sono tenuti più fortemente verso il nucleo del carbonio.

3
L’Etene
L’etene è un idrocarburo formato da due atomi di
carbonio uniti tra di loro da un legame sigma di tipo sp2;
se lo confrontiamo con il corrispondente idrocarburo
contenente due idrogeni in più perché ibridato sp3,
scopriamo che la distanza tra i due atomi di C
nell’etetilene è minore. Nella figura si può notare la
presenza degli orbitali pz che contengono l’elettrone non
coinvolto nel processo di ibridazione degli orbitali; questi
orbitali, perpendicolari all’asse che unisce i due carboni,
possono comunque interagire a formare un orbitale di
legame pi-greca. Se consideriamo il caso in basso a
sinistra in cui non è evidenziato il legame pi-greca, noteremo che gli orbitali sigma puntano ai
vertici di un triangolo equilatero immaginario, formando angoli di 120°( sostituenti un po’ più
ingombranti dell’idrogeno, possono mutare lievemente questo valore che si aggira comunque
intorno a questa cifra). Nella figura in basso a destra invece, troviamo rappresentato anche il
legame pi-greca (formato da due lobi:uno sopra e uno sotto), che nonostante venga scritto allo
stesso modo di quello sigma (doppia linea) si comporta in maniera totalmente diversa dal punto
di vista delle reazioni. Un’altra differenza rispetto all’etano, è che quest’ultimo può ruotare
liberamente di 360 ° attorno all’asse che lega i due carboni, mentre nell’etene la presenza del
legame pi-greca vieta totalmente la torsione; l’unico modo per consentire la rotazione attorno al
legame sigma è eliminare il legame pi-greca, ma a questo punto cambieremo anche il tipo di
ibridazione.
Ibridazione sp
Il concetto è sempre lo stesso, salvo per il fatto che questa
volte non è solo un orbitale p a rimanere estraneo
all’ibridazione ma saranno due. In questo caso il carattere s
sarà pari al 50%, quindi si formeranno due legami sigma tra
di loro più corti e con un’angolazione di 180°.
Un esempio di legame triplo fatto dal carbonio, è quello con
formato con un atomo di azoto, che porta alla realizzazione
del gruppo ciano o nitrile. Il più semplice composto di questo
tipo ha il quarto legame del carbonio occupato da un atomo
di idrogeno; tale composto prende il nome di acido cianidrico (estremamente tossico).

4
L’etino
Nell’etino i due carboni sono particolarmente vicini e il
legame carbonio-idrogeno risulta essere più corto,
perché essendo più corto l’orbitale sp rispetto a sp2 ed
sp3, C ed H sono più vicini. Gli orbitali non coinvolti
nell’ibridazione (pz e py) possono interagire formando
legami pi-greca, solo in questo caso se ne formano due
e il risultato sarà la realizzazione del cosiddetto legame
triplo. Questa situazione è relativamente meno
comune e i composti che possiedono un legame triplo
carbonio-carbonio sono spesso sostanze tossiche.

Ibridazione del ferro


Come ben sappiamo, il ferro è un tipico metallo di
transizione che possiede un numero atomico
abbastanza elevato ( per questo entrano in ballo gli
orbitali di tipo d). Il ferro è dotato di una nuvola
elettronica identica a quella del gas nobile Argon, al di
fuori della quale sono però presenti gli orbitali segnati
in figura. Il ferro essendo un metallo perde con molta
facilità i due elettroni ospitati nell’orbitale più esterno
(4s) trasformandosi nel corrispondente ione ferroso
(2+). Osservando la figura a lato, possiamo notare la situazione degli orbitali 3d del ferro, essi
contengono 6 elettroni dei 10 che possono essere contenuti, di cui due sono appaiati in un unico
orbitale d, mentre gli altri restano spaiati nei restanti quattro. Questa situazione cambia quando il
ferro entra in reazione perché quei 4 elettroni spaiati possono appaiarsi lasciando “liberi” 6 posti
(due orbitali d, un orbitale s e tre orbitali p). Tale operazione non sarebbe favorita se non fosse
che l’arrivo di 6 coppie messe a disposizione da altrettanti donatori è invece estremamente
favorevole, perché ci consente di raggiungere la configurazione del gas nobile successivo. Gli
orbitali vuoti si ibridizzano tra di loro formando 6 orbitali ibridi di nome d2sp3, avremo dunque 6
orbitali disponibili ad accogliere 6 coppie di elettroni e a legarsi con un altra specie chimica tramite
legame dativo. I legami dativi di questo tipo sono molto frequenti nella maggior parte degli ioni
dei metalli di transizione , e prendono il nome di legami di legami di coordinazione; i composti che
si ottengono vengono detti complessi metallici e il processo che porta alla loro formazione prende
il nome di complessazione.
Nell’immagine a fianco, possiamo notare la configurazione elettronica del Ferro2+ e della
successiva ibridizzazione degli orbitali. Questi ultimi, nel caso in esame, riceveranno le 6 coppie
elettroniche dagli ioni cianuro (formato dalla perdita di un idrogeno da parte dell’acido cilindrico)
che si disporranno secondo i vertici di un ottaedro regolare; questo complesso è noto
comunemente con il nome di ferro cianuro o esacianoferrato. La cosa interessante di questo
composto è la sua estrema stabilità, in quanto gli ioni cianuro sono legati con un’energia davvero

5
notevole al ferro ; tanto è vero che questi ultimi presi singolarmente sono altamente tossici,
mentre nell’esacianoferrato risultano essere innocui.

Ora passiamo ad analizzare un’altra struttura che vede


sempre la presenza dello Ione ferroso: la
protoporfilina 9, un composto organico altamente
diffuso in natura che lega il Ferro2+ con 4 legami
dativi. Per completare la struttura ottaedrica, lo ione
ferroso forma un quinto legame di coordinazione
utilizzando il doppietto elettronico di non legame di un
composto detto istidina e un sesto legandosi ad una
molecola di ossigeno (nella struttura è storta perché
forma angoli di 120°).

Composti del ferro ad alto e basso spin


Come sappiamo, gli elettroni spaiati sono in grado di
generare un campo magnetico, piccolo ma ben
misurabile. I composti del ferro che possiedono i 4
elettroni spaiati svelano la presenza di piccoli campi
magnetici ( situazione di ALTO SPIN), tuttavia in certe
circostanze questi elettroni si possono appaiare nello
stesso orbitale annullando (per appaiamento
antiparallelo) i campo magnetici creati ( situazione di
BASSO SPIN). In natura sono presenti composti del ferro
sia ad alto che a basso spin. Un esempio di ferro ad alto spin è quello dello ione ferroso (2+), infatti
abbiamo 4 elettroni spaiati.
Un altro esempio di composto ad alto spin , è la struttura del ferro che lega la protoporfilina, in
quanto lo ione Fe2+ riceve si 5 coppie elettroniche (pentacoordinato), ma i 4 elettroni spaiati
continuano a rimanere tali e se in misuriamo campi magnetici, scopriamo che questi persistono.
Tale struttura si chiama eme e come vedremo il gruppo
eme (deossigenato) oltre ad essere caratterestico di una
famiglia di proteine (e emoproteine) è un complesso
ferroso ad alto spin.
In ambito medico noi studieremo il comportamento di
due emoproteine: la mioglobina (che da il colore rosso
alle carni) e l’emoglobina (che da il colore rosso agli
eritrociti), capaci di legare e rilasciare con estrema
facilità una molecola di ossigeno. Quindi a seconda della
circostanza noteremo che la sesta posizione di
coordinazione del ferro del gruppo eme resterà vuota o
sarà occupata da O2. Nel caso in cui il gruppo eme
dovesse legare l’ossigeno, la coppia elettronica di
quest’ultimo si attaccherà al ferro e quindi oltre alle 5 coppie elettroniche donate dalla porfilina e
dall’istidina, avremo anche quella donata dall’O2. Tutto ciò causa un sostanziale rimaneggiamento
6
della struttura elettronica del Fe2+ perché i 4 elettroni spaiati si accoppieranno e andranno ad
occupare 2 orbitali anziché 4; a questo punto vi sarà lo spazio per poter accettare 6 doppietti.
Quindi quando il ferro dell’eme lega l’ossigeno, si andrà a liberare un orbitale 4d (nonostante vi
sia una coppia in più), con conseguente raggiungimento di una configurazione elettronica
simmetrica e riduzione del proprio raggio atomico, questo fatto è di importanza cruciale per il
corretto funzionamento degli scambi gassosi governati dall’emoglobina.
Complessi di coordinazione metallici
In natura sono presenti vari complessi e complessanti
metallici, di cui i più frequenti sono quelli di transizione.
Un esempio particolare di complessante metallico è un
acido organico contenente anche azoto che prende il
nome di acido EtilenDiamminoTetraAcetico (EDTA);
questo nella sua forma dissociata crea u anione in grado
di formare complessi ottaedri con un gran numero di
metalli. Molecole capaci di avere più di una coppia
elettronica disponibile a partecipare a reazioni di
compensazione vengono denominate chelanti in quanto
si comportano come delle chele che acchiappano il
metallo e lo trattengono nella sua forma “chelata”.
L’aggiunta dell’ acido EDTA o meglio del suo sale ad una soluzione che contiene ioni metallici
opportuni (non complessa i metalli alcalini) maschera la reattività di questi ultimi imprigionandoli.
Sostanze come l’EDTA si dice abbiano un’azione sequestrante nei confronti degli ioni metallici;
infatti vengono spesso aggiunte a certi farmaci per preservarli dal deterioramento che potrebbe
dipendere dalla presenza di metalli pesanti che vanno incontro ad ossidazione.
Come studieremo più in là, la coagulazione del sangue dipende in maniera assoluta, dalla presenza
di ioni calcio; se noi aggiungiamo al sangue una certa quantità di sale dell’EDTA, riusciamo a
prevenire la coagulazione perché lo ione calcio viene sequestrato appunto dal sale.
L’EDTA (modificato, lo scopriremo in seguito) viene utilizzato anche nel caso di intossicazione
cronica da piombo (saturnismo) un tempo molto comune perché non si conosceva la pericolosità
di questo metallo e in particolare non si conosceva la sua caratteristica tossicità per accumulo (
piccole quantità ingerite periodicamente si accumulano a livello intestinale). Il corpo umano
assorbe facilmente i sali di piombo, ma non possiede un meccanismo abbastanza efficace per
sbarazzarsene; questo quindi una volta assorbito si trova in forma libera come Pb2+ e va a
depositarsi nel tessuto osseo andando a sostituire in parte il calcio. Di per sé la situazione
potrebbe anche non essere grave, se non fosse che il tessuto osseo va incontro a processi di
demolizione e di costruzione e che quando il processo di demolizione si accresce, viene rilasciato
nel sangue una grossa quantità di ioni piombo che creerà dei grossi danni al sistema emopoietico e
a quello nervoso. L’EDTA a questo punto interviene proprio per formare un complesso chelato col
piombo (con cui ha notevole affinità) che verrà poi eliminato con le urine; il problema però è che
questo acido ha una notevole affinità anche con il calcio , quindi insieme al piombo vengono
espulse anche notevoli quantità calcio, causando una demineralizzazione. Per evitare che ciò
avvenga, non si usa l’EDTA come tale, ma il complesso tra EDTA e calcio, in quanto l’acido dovendo
scegliere tra calcio e piombo preferisce il piombo, per cui rilascia Ca e si porta via Pb.
Sostanze simili all’EDTA vengono utilizzati come additivi per detergenti e detersivi, perché
consentono di operare anche in condizioni di acqua dura contenente quantità eccessive di sali di
calcio.

7
Teoria VSEPR
La teoria VSEPR, espone il criterio con la quale gli atomi si dispongono intorno ad un atomo
centrale. Secondo tale teoria, si parte dal presupposto che (a parte i gruppi atomici molto
ingombranti) anche quando abbiamo a che fare con gruppi atomici piuttosto piccoli, i vari atomi
non si sistemeranno in maniera casuale ma cercheranno sempre di sistemarsi in maniera tale da
tenere il più distante possibile tra loro sia le coppie elettroniche di legame, sia quelle solitarie o
non condivise. Tale discorso non è in contraddizione con la teoria di ibridazione degli orbitali, anzi
sono facce della stessa medaglia.
In figura possiamo notare alcuni esempi, tra cui il
cloruro di Berillio. Il berillio nonostante sia un metallo
ha una notevole capacità di formare legami covalenti
perché essendo il suo ione molto piccolo, le due
cariche positive si sarebbero concentrate su una
piccola sfera rendendo il tutto molto sfavorevole, per
cui ha una sorprendente tendenza a formare composti
covalenti. I sali di berillio sono estremamente tossici e
danno tossicità per accumulo, alcuni di questi composti
però sono talmente insolubili che risultano essere
innocui per l’uomo (es. smeraldo); il berillio è inoltre
un metallo importante perché viene utilizzato nella
tecnologia delle centrali nucleari. Sempre in figura ma a destra, troviamo il trifluoruro di boro,
anche qui i legami tra boro e fluoro, si sistemano in modo da garantire la massima separazione
possibile; inoltre se nel berillio non trovavamo orbitali ibridi perché quest’ultimo aveva solo
orbitali s a disposizione, nel caso del boro la configurazione elettronica è 2s2 2p da cui si possono
creare orbitali ibridi sp2 . In basso a destra possiamo notare la struttura del metano, nel quale
avremo repulsioni di tipo elettrostatico anziché
steriche.

E qui possiamo vedere quale dovrebbe essere la


distribuzione degli atomi intorno ad un atomo
considerato centrale e i rispettivi angoli di legame.
Infatti secondo la geometria solida gli angoli di un
tetraedro sono di 109.5°, nel caso di un triangolo
equilatero sono di 120° e nel caso di una retta che passa
per l’asse della molecola sono di 180°.

Come abbiamo visto, le coppie elettroniche solitarie


non si vedono ma ci sono e dicono la loro; nel caso del
carbonio non ci sono coppie solitarie quindi la
previsione è rispettata al millesimo di grado. Nel caso
dell’ammoniaca c’è una coppia solitaria che costringe gli
atomi di idrogeno ad avvicinarsi e di conseguenza gli
atomi scenderanno a 107°; lo stesso ragionamento lo si
fa per l’acqua nella quale le coppie solitarie sono
addirittura due e quindi gli angoli di legame
scenderanno a 104.5°. È importante notare il diverso
comportamento tra le coppie di legame e quelle
solitarie per comprendere tale fenomeno. Infatti nelle
coppie di legame, l’effetto di repulsione verso altre cariche negative è smorzato dai nuclei dei due
atomi contraenti il legame, invece nel caso della coppia solitaria è presente solo un nucleo che può
controbilanciare in parte la nuvola negativa data dai due elettroni che tenderà ad espandersi.

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Ancora diverso è il caso in cui le coppie solitarie sono due, perché non solo ciascuna di loro
esercita repulsione nei confronti dei legami ma interferiranno anche l’una con l’altra.

Sappiamo bene che nel sistema periodico il fosforo si trova subito sotto l’azoto il che ci dice che
questi due elementi dovranno avere tra di loro delle somiglianze; tuttavia notiamo che vi sono più
differenze che somiglianze. Tanto per cominciare l’azoto è un gas che solo se portato a situazioni
estreme diventa liquido, il fosforo invece è un solido che si presenta in varie forme allotropiche
(fosforo bianco, rosso, nero); l’azoto è un elemento
straordinariamente inerte e si trova solo sotto forma di
molecola, il fosforo invece esiste sotto forma di
molecole tetraedriche o in lunghe catene. La
somiglianza tra composti del fosforo e quelli dell’azoto
è piuttosto formale, nel senso che l’azoto forma
piuttosto facilmente tre legami oppure può formare 4
legami covalenti più uno ionico, il fosforo allo stesso
modo forma 3 legami covalenti oppure può formarne 5.
Entrambi gli elementi sono non metalli, quindi
formeranno anidridi e acidi; inoltre cosi come l’azoto
forma l’idruro ammoniaca, nella stessa maniera il
fosforo forma l’idruro fosfina. Queste due molecole
sembrano tra loro molto simili a primo impatto, ma se si
va a controllare la struttura molecolare della fosfina noteremo che l’angolo tra P e H è
completamente diverso da quello che si osserva nell’ammoniaca, infatti in quest’ultima gli angoli
sono di 107° e nella fosfina di 93.5°. Tra l’altro l’ammoniaca è un gas estremamente solubile in
acqua al contrario della fosfina a causa della mancata formazione di legami idrogeno con l’H2O
difficilmente si scioglie in soluzioni acquose. Altra differenza importante tra le due molecole è il
fatto che l’NH3 possiede un carattere nettamente basico, poiché con il suo doppietto elettronico
non condiviso può facilmente legare uno ione H+, la fosfina invece ha una basicità insignificante.
Da cosa dipendono tutte queste disuguaglianze?
Principalmente dal fatto che nella fosfina l’ibridizzazione che notiamo esserci nell’ammoniaca non
è presente, quindi gli orbitali p e gli orbitali s rimangono tra loro isolati. Perché allora gli angoli non
sono di 90° ma sono lievemente più grandi? Perché la coppia elettronica solitaria della fosfina è
ospitata in un orbitale s vicino al nucleo, quindi quella repulsione della teoria VSEPR non è
presente.
Perché la fosfina è così poco basica, quindi perché ha cosi poca tendenza ad accettare ioni H+?
Perché la coppia elettronica ospitata nell’orbitale s è molto vicina al nucleo e quindi
l’avvicinamento degli ioni positivi H+ non è per niente favorita; nell’ammoniaca ciò non si verifica
perché la coppia elettronica non condivisa è ospitata in un orbitale ibrido che ha il 75 % di
carattere p, ciò significa che oltre ad essere distante dal nucleo sarà anche ben disposta a legarsi
con uno ione H+. Questa situazione spiega anche l’incapacità della fosfina a creare legami ad
idrogeno e la sua conseguente insolubilità.
A differenza dell’ammoniaca che assume un ruolo importante sia nel campo industriale sia nel
campo metabolico, la fosfina dal punto di vista dell’uso pratica è molto marginale. Intanto la
fosfina gassosa è uno dei composti più velenosi che si conoscano (per fortuna è maleodorante) ed
infatti viene utilizzata per disinfestante (ad esempio nelle navi da carico per evitare che parassiti
danneggino le derrate alimentari) in luoghi sigillati, in quanto all’aria va incontro ad ossidazione e
perde la sua tossicità. La fosfina si può formare anche in natura, quando grandi quantità di tessuti
animali marciscono fuori dal contatto dell’aria. In queste situazioni si sviluppano infatti particolari
forme batteriche che per riduzione biologia di composti di fosforo, generano il gas fosfina che si
fa strada tra le porosità del terreno ed emerge insieme ad altri idruri del fosforo diventando
autoinfiammabile (si generano delle piccole fiammelle sopra il terreno), tutto ciò avveniva per
esempio nelle fosse comuni in cui i cadaveri venivano coperti da terra.

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Un altro composto molto più comune della fosfina è l’idrogeno-solforato o solfuro di idrogeno
(H2S), si può ottenere facilmente per decomposizione di sostanze organiche (es. cadaveri)
contenenti proteine in cui è presente una certa quantità di composti di zolfo, ma si può formare
anche in seguito ad eruzioni vulcaniche o nel tubo digerente di molti animali e anche dell’uomo. Il
solfuro di idrogeno può prendere anche il nome di acido solfidrico perché è un gas che si scioglie
in parte in acqua dando luogo a soluzioni acide. Anche nell’ idrogeno solforato quando lo zolfo
reagisce con l’idrogeno, il grado di ibridazione
degli orbitali s e p è trascurabile e per questo la
molecola è molto più angolata di quella dell’acqua
(quasi ad angolo retto).
Da che cosa dipende il fatto che il fosforo sia cosi
diverso dall’azoto e lo zolfo sia cosi diverso
dall’ossigeno nelle reazioni di legame con
l’idrogeno ?
Dipende dal fatto che questi due atomi sono
molto più grandi delle loro controparti azoto ed
ossigeno, quindi quel problema di repulsione
sterica che costringe N ed O ad ibridarsi qui è
trascurabile perché le coppie elettroniche non
condivise restano comunque abbastanza lontane
tra di loro.
Nell’ammoniaca possiamo immaginare di sostituire uno, due o tutti e tre gli atomi di idrogeno con
altri gruppi atomici ad esempio con dei gruppi metile; la presenza dei gruppi metile legati all’azoto
non cambia notevolmente la geometria della molecola in quanto l’ibridazione sp3 era già presente
. Anche la fosfina può subire reazioni in cui gli atomi di idrogeno vengono sostituiti da altri gruppi
di atomi ad esempio con i gruppi metile (trimetilfosfina); il composto formato avrà degli angoli di
legame diversi da quelli della fosfina, e la sua struttura sarà molto Simile alla trimetilammina.
Tutto ciò è dovuto al fatto che nella fosfina gli atomi di idrogeno sono abbastanza piccoli e quindi
tra di loro vi sarà una repulsione molto lieve, mentre nella trimetilfosfina i gruppi -CH3
ingombrano parecchio quindi costringono il fosforo ad ibridarsi sp3 proprio come l’azoto
nell’ammoniaca e nella trimetilfosfina, tanto che questo composto avrà un carattere basico come
le altre due.

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Esame chimica e propedeutica biochimica;
6 CFU; 60 ore
Docente Enrico Sanjust

Lezione n.7 del 28/10/2021

Sbobinatori Martina Garau

Introduzione
A parte i due casi estremi di un completo trasferimento di elettroni da un atomo donatore ad uno
ricevente(legame ionico), e il caso in cui invece la differenza di elettronegatività tra i due atomi sia
esattamente uguale a zero (dove non è possibile immaginare uno spostamento permanente di elettroni da
un atomo verso l’altro), la maggior parte dei casi sono delle così dette situazioni intermedie.
In questi casi esiste una sorta di distorsione della nuvola elettronica a vantaggio di uno dei due atomi che
formano il legame e che quindi avrà una sorta di eccesso, almeno parziale, di carica negativa ma senza
ionizzazione.
Naturalmente esistono moltissime situazioni visto che i composti chimici semplici o complicati esistono in
notevoli quantità. Questo significa che per ogni legame abbiamo la possibilità di individuare un atomo o un
numero di atomi che avranno un eccesso di carica negativa parziale, e altri che avranno un corrispondente
difetto di carica negativa, quindi avranno una carica positiva parziale.
Naturalmente per le leggi della elettroneutralità di un composto, o anche di un elemento, la somma di queste
cariche parziali positive e negative deve dare zero.
Questo a meno che non abbiamo già a che fare con uno ione. Anche perché esistono degli ioni formati da più
atomi, in cui le cariche negative e positive sono più o meno localizzate su certi atomi a preferenza che su altri.
Abbiamo anche visto il fenomeno della mesomeria, nel quale in corrispondenza di molecole che hanno
almeno un doppio legame e anche delle coppie elettroniche non condivise su qualche atomo, esiste una
notevole possibilità di delocalizzazione della nuvola elettronica. Quindi gli elettroni non stanno fermi dove li
disegnamo convenzionalmente, nella forma così detta canonica, ma un certo grado di movimento.
[Come vedremo in chimica organica, questo fenomeno è particolarmente presente proprio nei composti
organici, dove più atomi di carbonio si scambiano dei legami covalenti. In caso della presenza di doppi legami,
più sono questi doppi legami, ed eventualmente sono anche in contatto con atomi diversi dal carbonio e
capaci di condividere coppie elettroniche (ossigeno, azoto, zolfo..) , ecco che il fenomeno diventa una
caratteristica fondamentale delle proprietà di queste sostanze.]
A una estesa delocalizzazione di elettroni corrispondono delle proprietà chimiche. Infatti abbiamo una
stabilità tanto maggiore quanto più esteso è questo grado di delocalizzazione.
Come proprietà fisiche, oltre un certo numero di doppi legami capaci di effettuare questa delocalizzazione
elettronica, si vede che c’è un assorbimento nella regione della luce ultravioletta. Quindi noi non la vediamo
ma uno spettrofotometro si. Molte volte questa caratteristica si usa anche perché ha un certo carattere
diagnostico. Per esempio la maggior parte delle proteine hanno un massimo di assorbimento caratteristico a
280 nanometri, quindi siamo in pieno campo dell'ultravioletto. Invece gli acidi nucleici RNA e DNA hanno un
altro massimo caratteristico a 260 nanometri. Ma si parla di lunghezze d’onda ovviamente della luce
assorbita e, quando diventano abbastanza numerosi questi doppi legami, questi massimi di assorbimento si
spostano nella regione della luce visibile e quindi noi vediamo dei composti più o meno fortemente colorati.
Momento dipolare

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Quando un legame covalente si forma tra due elementi che hanno elettronegatività diversa c'è uno
squilibrio nella nuvola elettronica coinvolta , che si sposta verso l'elemento più elettronegativo . Questa
situazione si evidenzia usando la lettere greca " delta " e ci si mette affianco un + o un - per indicare che
quell'atomo è stato rispettivamente impoverito di elettroni (se c'è il + )o arricchito (se c'è il - , dato che gli
elettroni hanno carica negativa ).
Una delle proprietà delle molecole di questo tipo, quindi in situazione di covalenza ma eteropolare, per capire
come si comportano, è il cosiddetto " momento di dipolo " o " momento dipolare ", che è dato dal prodotto
matematico della differenza di carica per la distanza che separa le due cariche. Stiamo parlando di una
grandezza vettoriale perché avrà, oltre al modulo, anche una direzione e un verso (indicati con le frecce ,
come nel caso a destra ). La freccia, per evitare confusioni con legami dativi, si traccia con una linea sopra,
posta nella parte opposta della punta; questo comunemente nelle formule non serve.
È una grandezza vettoriale che si compone vettorialmente quando la molecola che stiamo esaminando ha
almeno 3 atomi che la costituiscono. Quindi segue tutte le regole che si usano nell'algebra vettoriale.
Il momento dipolare si indica con la lettera µ (si legge mu) e l'unità di misura si indica con la lettera D che sta
per Debye, fisico anglosassone che si è occupato di studiare questi fenomeni.
L’anidride carbonica (CO2)
Prendiamo il caso di una molecola di anidride carbonica, che più correttamente si dovrebbe chiamare
diossido di carbonio. In questa molecola, se confrontiamo la differenza di elettronegatività tra Carbonio e
Ossigeno, scopriamo che è notevole, al punto che questo legame è fortemente polarizzato a vantaggio
dell’ossigeno. Il discorso vale doppio perché ovviamente di ossigeni c’è ne sono due. Quindi ciascuno di quei
legami avrà un momento dipolare di tutto rispetto come grandezza.
Tuttavia il carbonio in quella molecola è ibridizzato sp, il che spiega anche perché l’anidride carbonica tutto
sommato sia un composto poco reattivo.
Gli elettroni che formano i legami sono piuttosto concentrati verso il carbonio e poco disponibili a entrare in
reazione con altre specie chimiche. Essendo l’ibridizzazione di tipo sp, vuol dire che abbiamo a che fare, a
livello del carbonio, con due legami sigma che formano tra di loro un angolo di 180 gradi (piatto) e quindi
sono perfettamente allineati. Poi ci sono due legami pigreco con i due atomi di ossigeno.
Se noi andiamo a misurare, anche sperimentalmente, il momento dipolare della molecola di CO2 , vediamo
che vale 0. Quindi pur avendo i suoi legami, presi singolarmente, fortemente polarizzati, la molecola nel suo
complesso non lo è.
Noi di questo ci accorgiamo perché se sistemiamo l’anidride carbonica tra due armature metalliche, tra le
quali creiamo una differenza di potenziale anche elevata, le molecole di CO2 rimarranno dove sono. Quindi
nel suo complesso la molecola ha scarsa polarità, talmente scarsa che il suo momento dipolare non è solo
piccolo ma zero.
In realtà una distorsione della nube elettronica c’è eccome ma è perfettamente simmetrica e il baricentro
delle due cariche negative cade esattamente in corrispondenza della carica positiva (sul carbonio), quindi si

2
annullano. Si parla di “compensazione interna”. Tant’è vero che CO2 nello stato liquido (può essere facilmente
liquefatta avendo una temperatura critica molto alta, quindi basta una forte pressione e a temperatura
ambiente diventa liquida) è nelle condizioni di sciogliere composti apolari.
[Come vedremo, i composti poco polari sono sciolti bene da solventi poco polari, così come sostanze ioniche
o molto polari vengono disciolti bene da solventi che a loro assomigliano.]

L’acqua (H2O)
Anche in questo caso, ciascuno dei due legami tra l’ossigeno e i due idrogeni ha una forte polarità. Il fatto
che la molecola dell'acqua abbia un piano di simmetria che la taglia esattamente a metà, non significa che ci
possa essere compensazione interna. Questa volta i due momenti dipolari associati ai due singoli legami
hanno verso opposto. Mentre nella CO2 è l’atomo centrale ad avere un difetto di elettroni, in questo caso
invece l’atomo centrale è l’ossigeno e ha un eccesso di elettroni.
Tuttavia se noi combiniamo i due singoli momenti dipolari(secondo le regole delle operazioni vettoriali)
scopriamo che in questo caso non si ha momento dipolare nullo. Avviene una somma che porta a un
momento dipolare di 1.85.
Questo valore è grande rispetto a tante altre sostanze, infatti diciamo che l’acqua è un “dipolo permanente
“. Ciò significa che , a prescindere da influenze esterne è la sua molecola che è intrinsecamente dotata di una
polarità non trascurabile. In altri termini diciamo che il baricentro delle cariche positive non coincide con la
carica negativa sull’ossigeno. Quindi i due momenti dipolari dei due legami (che sono uguali) non si annullano
ma si combinano.
Questa caratteristica dell’acqua ha una grande influenza sulle sue proprietà. Per esempio scioglierà male o
per niente le sostanze poco polari che invece verranno portate in soluzione dalla CO2 liquida e al contrario è
il miglior solvente per la maggior parte (anche se non tutte) le sostanze polari e ioniche. L'acqua è una
sostanza nettamente polare. Non lo è al punto di esistere come ioni, ma se lasciata in solitaria, una minima
ionizzazione ce l'ha grazie al fatto che la differenza di elettronegatività tra idrogeno e ossigeno è piuttosto
elevata.
Trifluoruro di boro

Questa molecola, geometria trigonale planare è un triangolo equilatero perfetto , in cui i legami puntano
nella direzione dei vertici di questo triangolo immaginario, e sono dei legami fortemente polarizzati. Il boro
è un elemento relativamente elettronegativo, infatti viene considerato un metalloide/non metallo. Il fluoro
ha una grande elettronegatività (è l’elemento più elettronegativo dell’intera tavola periodica) quindi ciascuno
di questi legami è fortemente polarizzato. Anche più di quanto succede nell’acqua. Tuttavia la combinazione
vettoriale dei tre vettori perfettamente simmetrici darà zero. Quindi anche questa molecola nel suo
complesso si comporta come una sostanza apolare pur essendo i singoli legami tutt’altro che apolari.
Anche qui se noi prepariamo un apparecchio formato da due armature metalliche è la carichiamo di elettricità
statica, scopriamo che le molecole di trifluoruro di boro rimangono dove sono (più o meno). La sostanza a

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temperatura ambiente e in condizioni normali è un gas o liquido volatile propria perché le cariche negative
di ciascun atomo di fluoro tendono a respingere le molecole vicine perché anche loro hanno una periferia
negativa.
Cloruro di carbonile

Questo è il fosgene o cloruro di carbonile. È stato chiamato così perché la prima volta che fu ottenuto, fu
fatto reagire monossido di carbonio e una molecola di cloro e questa reazione avviene solo se la miscela è
illuminata. Quindi in maniera abbastanza rudimentale è stato chiamato fosgene: “fos" vuol dire luce e "gene"
vuol dire che genera.
Questo composto è costituito da un carbonio ibridato sp2 che lega un ossigeno (con doppio legame) e due
atomi di cloro. È un sp2 perché è quasi un triangolo equilatero, poiché c’è una certa irregolarità in quanto i
tre sostituenti non sono tra di loro uguali. Qui c’è un momento dipolare e la combinazione vettoriale dei 3
momenti vettoriali di questo composto è tale per cui il forte momento dipolare del legame C=O è in qualche
modo smorzato dai due momenti dipolari minori dei due legami tra carbonio e cloro(minori perché la
differenza di elettronegatività tra carbonio e cloro è più piccola di quella che c’è tra carbonio e ossigeno).
Tuttavia abbiamo a che fare con una molecola polare. Questo gas è molto tossico, irritante e soffocante, è
stato usato come gas di guerra ed è anche l’intermedio di molte reazioni industriali “pacifiche” e ovviamente
vista la sua pericolosità deve essere trattato sotto opportune condizioni.

Ammoniaca

Vale un discorso simile a quello che abbiamo visto nel caso dell’acqua. Anche qui il baricentro delle tre cariche
positive degli idrogeni non coincide con la carica negativa sull’azoto. Ha un momento dipolare non
trascurabile (1.47), che però è più piccolo di quello dell’acqua. Questo per due ragioni:
- il legame che gli idrogeni formano tra di loro e anche con la coppia solitaria sull’azoto che punta verso l’alto
è maggiore. Quindi questa molecola è leggermente più schiacciata rispetto all’acqua, quindi la combinazione
vettoriale dei tre vettori è meno favorevole;
- L'elettronegatività dell’azoto è inferiore a quella dell’ossigeno.
Quindi l’ammoniaca è una molecola piuttosto polare ma non così tanto come l’acqua. Infatti nel caso
dell’acqua, le forti interazioni elettrostatiche tra le molecole d’acqua fanno in modo che questa molecola
nelle condizioni normali sia un liquido nell’intervallo tra 0 e 100 gradi. Invece, nelle stesse condizioni,
l’ammoniaca forma delle interazioni più deboli non sufficienti a mantenerla liquida.

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Tant’è vero che a temperatura e pressione ambiente l’ammoniaca è un gas. Può essere sottoposta a forte
pressione e diventare liquida: in questo caso è un solvente polare. Quella che comunemente chiamiamo così
e compriamo nei supermercati per smacchiare ecc.. è una soluzione del gas ammoniaca in acqua.

Metano (CH4)
È un composto organico particolarmente semplice, un idrocarburo.
È composto da un carbonio ibridizzato sp3 che collega tetraedricamente quattro atomi di idrogeno. In questo
caso ciascuno di quei legami ha una polarità molto bassa che privilegia, anche se di poco, il carbonio che è
leggermente più elettronegativo (2.5) dell’idrogeno(2.1). Questa differenza è sufficiente, tuttavia, a dare una
leggere distorsione della nuvola elettronica di ciascuno di quei legami.
Tuttavia, la perfetta simmetria di questa molecola fa sì che la somma vettoriale dei quattro vettori dia 0.
Infatti il metano è una molecola apolare. È un gas che ha una scarsa solubilità in acqua, proprio perché le sue
capacità di interazioni elettrostatiche con le molecole d’acqua è vicina a zero. Anche le interazioni tra
molecole di CH4 è bassa, quindi preferisce rimanere allo stato gassoso.

Tetracloruro di carbonio (CCl4)


In questa molecola un atomo di carbonio centrale lega quattro atomi di cloro. La differenza di
elettronegatività è maggiore rispetto al metano, perché il divario tra carbonio e cloro è superiore a quello tra
carbonio e idrogeno. I quattro momenti associati a ciascun legame sono più grandi rispetto al caso del
metano.
Tuttavia, anche qui, la molecola risulta perfettamente simmetrica e questo fa sì che la somma vettoriale dei
quattro vettori sia uguale a zero. Pur avendo caratteristiche simili al metano il tetracloruro di carbonio in
condizioni normali è allo stato liquido. È un solvente industriale molto importante che scioglie molte sostanze
e si prepara facilmente a basso costo.
Ha un notevole interesse tossicologico perché deve essere maneggiato in condizioni che proteggano bene gli
operai dall’ inalazione anche cronica, perché dà luogo a un grave danno epatico.

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Osserviamo ora invece i tre composti qui raffigurati.
Gli atomi di idrogeno legati al carbonio, sotto determinate condizioni sperimentali, possono essere sostituiti
da altri atomi, per esempio alogeni (come cloro). Si ottengono questi composti che sono una sorta di via di
mezzo tra il metano (solo H) e il tetracloruro di carbonio(solo Cl). Questi sono il Cloruro di Metile (a sinistra),
Cloruro di Metilene (al centro) e Cloroformio( a destra).
[ I nomi ufficiali sarebbero Clorometano, Diclorometano e Triclorometano.]
- Il cloruro di metile è un gas e si usa a volte come agente sterilizzante. Abbiamo parlato di fosfina e si
usa più o meno per le stesse cose, ma si utilizza anche in agricoltura, o meglio nell’agroindustria per
uccidere gli animaletti che infestano le sementi. Naturalmente poi dev’essere accuratamente
rimosso per non lasciare tracce (ma essendo un gas fare questo non è molto difficile);
- Il cloruro di metilene (CH2Cl2) è un solvente industriale;
- Il cloroformio è anch’esso un solvente industriale, che una volta si usava come anestetico generale.
Oggi è sostituito da sostanze molto più efficaci è molto meno pericolose per la salute. Nonostante
ciò i chimici lo utilizzano ancora, con dovute precauzioni, per sciogliere sostanze a polarità
intermedia;
Anche qui è possibile fare dei calcoli che consentono di determinare il valore del momento dipolare e che
sono in accordo con i dati sperimentali, perché è possibile calcolare il momento dipolare ma anche trovarlo
con opportune sperimentazioni.
È interessante notare che l’aumento del numero dei legami più polari, cioè quelli tra carbonio e cloro)
passando dal monoclorometano, al diclorometano e poi al triclorometano, contrariamente a quello che ci
potremo aspettare, porta a una diminuzione del momento dipolare della molecola. Questo proprio a causa
del modo particolare con cui avviene la combinazione delle grandezze vettoriali.
Al contrario delle molecole simmetriche del Metano e del Tetracloruro di carbonio, queste altre molecole
hanno una certa polarità. E infatti sono dei solventi abbastanza versatili. Riusciamo a sciogliere non solo
sostanze del tutto apolari ma anche certe sostanze dotate di una certa polarità.
Il cloruro di metilene non si usa come solvente perché in condizioni normali è un gas ed è pericoloso da
maneggiare.

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Qui c’è descritta la regola generale che uno deve applicare per capire, senza nessun calcolo, in una molecola
dotata di simmetria(quando i sostituenti sono tutti uguali rispetto all’atomo centrale), quale sarà la
risultante.
Tra quelli presentati qui, ce ne sono due di casi in cui c’è un momento dipolare diverso da zero, che sarà tanto
più elevato come valore quanto maggiore è il divario di elettronegatività tra gli atomi sostituenti e l’atomo
centrale.
In alto a destra si ripresenta il caso dell’acqua e in basso a sinistra il caso dell’ammoniaca.

Legami e interazioni elettrostatiche

Il professore richiama l’attenzione soprattutto sulle forze intermolecolari(che avvengono tra più molecole).
Abbiamo visto già che le sostanze ioniche più semplici, in realtà, non sono vere molecole, perché esistono
come cristalli allo stato solido, oppure come ioni separati dalle molecole di solvente (solitamente H2O)allo
stato di soluzione. E nemmeno allo stato liquido, quando vengono portate a fusione.

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Ad esempio il cloruro di sodio (NaCl), scaldato
fortemente (circa 700 gradi) fonde, dando un liquido che però rimane ionico. Scaldato ancora fortemente
(sopra i 1000 gradi) può bollire ed è stato verificato che il cloruro di sodio gassoso, almeno in parte, è
associato a formare delle molecole. Ma siamo in condizioni che non hanno a che fare con L’ NaCl come lo
troviamo disciolto nelle acque marine, nelle saline, nell’acqua della pasta o dentro al nostro corpo (noi ne
conteniamo una quantità non trascurabile).

Qui possiamo vedere la differenza tra il forte legame


intramolecolare tra idrogeno e cloro, che dà luogo alla molecola stabile HCl (uniti da un legame covalente
fortemente polarizzato, perché c’è un divario di elettronegatività elevato) ,e le deboli interazioni di tipo
elettrostatico. Possiamo infatti vedere due molecole di HCl, in cui l’interazione si ha tra la parte positiva di
una molecola(idrogeno) e la parte negativa dell’altra(cloro).
Queste interazioni sono sufficientemente deboli da far sì che HCl puro sia un gas, molto solubile in acqua,
dove subito subisce una reazione di dissociazione ionica che lo trasforma in acido cloridrico (vedremo che si
tratta di uno degli acidi più forti).

Un discorso analogo si può fare per la molecola d’acqua. Abbiamo


idrogeno e ossigeno, per cui la differenza di elettronegatività è maggiore. Oltretutto l’ossigeno è molto più
piccolo in proporzione rispetto al cloro, quindi la sua carica parziale negativa è dispersa su una superficie
minore ( è più concentrata). Questo significa che le interazioni intermolecolari tra molecole di acqua sono

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molto più energiche di quelle che ci sono tra molecole di cloruro di idrogeno. Infatti l’acqua in condizioni
normali è un liquido, non un gas.
Quindi maggiore è il divario di elettronegatività tra i costituenti di una certa molecola, anche covalente,
maggiore sarà il grado di associazione tra diverse molecole. E quindi maggiore sarà la tendenza a esistere allo
stato liquido.
Per esempio il floruro di idrogeno (HF), che ci aspetteremmo essere simile ad HCl, per una cosa è abbastanza
diverso: a temperatura ambiente è un liquido. Mentre HCl, HBr, è HI sono dei gas. Questo perché la differenza
di elettronegatività tra idrogeno e fluoro è effettivamente molto alta, quindi le interazioni intermolecolari
sono sufficienti a mantenerlo allo stato liquido.
- Perché l’acqua è in grado di sciogliere molte sostanze polari e a maggior ragione quelle ioniche?

Ne abbiamo già parlato, e nell’immagine possiamo vedere come delle molecole di H20 stanno sciogliendo,
cioè portando in soluzione acquosa un cristallo ionico (NaCl).
Ciascuno ione viene circondato da molecole d’acqua e quindi separato dalla struttura del cristallo, portandolo
in soluzione. Come possiamo vedere, essendo l’acqua un dipolo permanente, le molecole d’acqua che
circondano gli ioni negativi rivolgono verso gli ioni negativi (ioni cloruro in questo caso) la loro parte positiva
(gli idrogeni). Invece, le molecole d’acqua (che sciolgono ), che circondano gli ioni positivi rivolgono verso di
essi la loro parte negativa (ossigeno).
Quindi questo, in qualche modo, fa sì che la carica positiva del sodio sia parzialmente controbilanciata dalle
parziali cariche negative delle molecole d’acqua, così come le cariche negative sugli ioni cloruro siano
controbilanciate dalle cariche positive degli idrogeni. Questo è il motivo per cui l’acqua riesce a sciogliere
grandi quantità di NaCl e ne consente la separazione.
Secondo la legge di Coulomb, la forza, sia di attrazione che di repulsione, che si esercita tra due cariche è pari
al prodotto delle entità delle due cariche diviso il quadrato della loro distanza e diviso un coefficiente che si
chiama costante dielettrica. Si assegna il valore uno alla costante dielettrica del vuoto, mentre diamo valore
circa 80 alla costante dielettrica dell’acqua.
Questo vuol dire che la forza che si esercita tra due cariche separate da acqua è pari a un ottantesimo della
forza che si esercita dalle stesse cariche alla stessa distanza ma separate dal vuoto. Diciamo infatti che l’acqua
ha una costante dielettrica particolarmente elevata. Quindi è in grado di smorzare fortemente le azioni
attrattive che tengono insieme un cristallo ionico. Ovviamente non è in grado di scioglierli tutti. Dipende
anche dalla cosiddetta energia reticolare. Se la forza che si esercita tra ioni positivi e negativi di un cristallo è
particolarmente efficace, sia per le cariche degli ioni sia per il fatto che le dimensioni degli ioni siano tali che
massimizzano il contatto tra particelle di cariche opposte e minimizzano quello tra cariche identiche, allora
in quel caso l’acqua non ce la fa, perché quegli ioni preferiscono rimanere “impacchettati” nel loro cristallo.
Ad esempio nel caso del solfato di bario.

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Le dimensioni degli ioni solfato negativi e degli ioni bario positivi sono tali che si forma un cristallo in cui le
repulsioni tra ioni solfato e quelle tra ioni bario sono minime, mentre sono molto forti le attrazioni tra gli ioni
Ba 2+ e SO4 2-. Infatti il solfato di bario è altamente insolubile ed essendo radiopaco, si usa molto nella
diagnostica, per esempio in campo della gastroenterologia. I sali solubili di bario sono invece altamente
tossici. Mentre questo è innocuo perché non può essere disciolto neanche dall’acido cloridrico dello stomaco
e quindi attraversa inalterato il tubo digerente.

A parità di carica Sodio, Litio e Potassio hanno


una differente “densità di carica”, che sarà ovviamente maggiore nello ione più piccolo. Per questo motivo il
Litio ha una densità di carica maggiore rispetto al Sodio e quest’ultimo rispetto al potassio.
L’aspetto descritto qui è importante perché noi sappiamo che una carica elettrica è tanto più stabilizzata
quanto maggiore è la superficie su cui si può disperdere. Infatti un classico esperimento dell’elettrostatica ce
lo dimostra. Esso consiste nel caricare elettricamente una piccola sfera Metallica: se la tocchiamo con una
sfera più grande, gran parte della carica elettrica della sfera più piccola si trasferirà su quella più grande; se
invece facessimo il contrario il trasferimento di cariche elettriche sarà insignificante.
Questo ci spiega perché in assenza di acqua, lo ione sodio si forma più facilmente dello ione litio. La carica è
identica ma la superficie dello ione sodio è maggiore (la sfera ha volume maggiore. Lo stesso vale per il
potassio che è ancora più grande, quindi a parità di condizioni si formerà più facilmente. E questo vale ancora
di più per gli altri metalli alcalini, di cui si parla poco perché sono specie rare, come il rubidio e cesio, che sono
via via più grandi.
Ma la maggior parte delle reazioni chimiche, comprese quelle che riguardano il corpo umano, non avvengono
in condizioni anidre, cioè in mancanza di acqua, bensì in ambiente acquoso. Noi sappiamo che in un adulto
circa il 60% del suo peso è costituito da acqua. L’acqua è il primo componente della materia vivente.
Questo significa che una carica positiva concentrata su una piccola superficie come quella dello ione litio, se
può cerca di disperdersi. E questo lo fa circondandosi da un certo numero di molecole di acqua. E infatti il
grado di idratazione in condizioni normali dello ione litio è massimo mentre quello dello ione potassio è
minimo.
Questo spiega anche perché quando si preparano dei sali di sodio e potassio ad esempio(i più comuni), in
molti casi i sali di sodio, cristallizzano in una forma idrata, cioè nel reticolo cristallino di questi sali, spesso
sono incorporate, in delle posizioni prestabilite, delle molecole di acqua, che aiutano a disperdere e a
smorzare la carica positiva degli ioni sodio. Se noi prepariamo dei sali identici ma utilizzando il potassio,
scopriamo che questi sali cristallizzano spesso allo stato anidro (privo di acqua).
Per esempio se io preparo una soluzione di carbonato di sodio (soda per sgrassare cucine incrostate ecc)
facendo evaporare l’acqua, io scopro che cristallizza e per ogni “molecola” di carbonato di sodio ne
rimangono 10 di acqua. Si dice che il carbonato di sodio cristallizza come decaidrato. Poi naturalmente se io
scaldo fortemente questi cristalli l’acqua se ne va per evaporazione e ottengo carbonato di sodio anidro.
Se invece faccio la stessa cosa con il carbonato di potassio, faccio evaporare l’acqua finché non cristallizza, e
analizzando questi cristalli scopro che sono cristallizzati in forma anidra. Il potassio è sufficientemente grande
come ione da non richiedere la presenza di acqua per separare i vari ioni e impedire le eccessive interazioni
elettrostatiche di tipo repulsivo.

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Tra i sali di sodio proprio il cloruro di sodio cristallizza in forma anidra, perché con quella particolare
disposizione degli ioni + o - non c’è bisogno di acqua per dare dispersioni ulteriori di carica.
Interazioni dipolo-dipolo

Le molecole dipolari (acqua, ammoniaca, alcol…) hanno la caratteristica di obbedire a una legge universale
dell’elettrostatica (di Coulomb). Si formano quindi le cosiddette interazioni dipolo-dipolo.
Le possiamo vedere in figura. Le molecole disegnate sono due molecole di acetone. 3 atomi di carbonio, 6 di
idrogeno (3 in ogni estremità) un carbonio al centro legato con un doppio legame all’ossigeno(quello rosso
nella figura).
Questa molecola è dotata di una polarità non eccessiva (solo il legame C=O è molto polare, gli altri sono
praticamente apolari), ma sufficiente per ottenere un’interazione. La parte della molecola verso l’ossigeno
ha uno squilibrio a vantaggio delle cariche negative, l’altra parte della molecola invece ha una carenza di
elettroni,per cui si ottiene una carica complessiva positiva che neutralizza completamente quella negativa
dall’altra parte. Tuttavia il baricentro delle cariche positive non cade sulla carica negativa quindi c’è un dipolo
permanente.
[Il prof fa presente che il verso delle frecce è sbagliato nell’immagine]
L’acetone è infatti un liquido a temperatura ambiente. Bolle a poco più 50 gradi. Quindi è un liquido anche
volatile, non ha una grandissima polarità, ma questa è sufficiente per fare in modo che le molecole si possano
aggregare tra loro, per la legge di coulomb, e questo le tiene vicine il tanto che basta per rendere l’acetone
un liquido in condizioni normali.
Anche l’acetone è un importante solvente industriale.
Come studieremo in biochimica, in certe situazioni anche il nostro corpo ne può produrre piccole quantità e
comunque non fa bene alla salute. Piccole quantità di vapori di acetone respirate ogni tanto non fanno nulla,
l’importante è che non ci sia un’esposizione sistematica.
Se noi immaginiamo di eliminare l’atomo di ossigeno dell’acetone e di metterci al suo posto due atomi di
idrogeno, otteniamo un idrocarburo, il propano (C3H8). In questo non ci sono interazioni significative dipolo-
dipolo, infatti il propano è un gas in condizioni normali e bisogna raffreddarlo molto fortemente per
trasformarlo in un liquido.

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Una cosa importante che ha conseguenze sulla biologia, fisiologia, patologia e farmacologia...è la cosiddetta
esistenza dei dipoli indotti e dei dipoli temporanei/istantanei.
Abbiamo già chiarito che trattare gli elettroni come palline che girano intorno a un nucleo non è un buon
modo per descriverli. Per certi versi hanno comportamenti che potrebbero essere ricondotti a quel modello,
ma in realtà il comportamento della materia che forma l’universo è descritto molto meglio se assumiamo che
si tratti di d’elettricità negativa che si comporti come un'onda stazionaria.
Quindi parliamo di nuvola elettronica, una regione dello spazio dove c’è questa elettricità negativa che sono
gli elettroni. Questa nuvola è tanto maggiore come volume, quanto più in basso ci spostiamo nel sistema
periodico degli elementi( quindi andando verso gli atomi più pesanti).
La nuvola elettronica di ciascun atomo, o molecola, è tanto più deformabile quanto maggiore è il suo
volume(quanto maggiore è la distanza di questi elettroni dal nucleo).
Questo fenomeno per cui, sotto influenza di sollecitazioni esterne ma anche spontanee, la nuvola elettronica
si possa deformare temporaneamente, ma anche permanentemente, si chiama polarizzabilità di un atomo
o di una molecola.
Anche senza bisogno di sollecitazioni esterne la nuvola elettronica è soggetta a continue e casuali oscillazioni
intorno a un baricentro (il nucleo dell’atomo considerato). Più un atomo è grande maggiore sarà la sua
polarizzabilità. Questo fenomeno crea una deformazione della nuvola elettronica e quindi uno squilibrio di
cariche temporaneo. Questo vale persino per i gas nobili, che non hanno tendenza a interagire con altri
atomi, né uguali a loro né diversi.
In figura osserviamo l’atomo del gas nobile elio (due protoni, due neutroni e due elettroni). I due elettroni
hanno tendenza zero a formare legami molecolari, quindi le molecole di elio sono molecole monoatomiche.
Nonostante questo perfino queste molecole così refrattarie a qualsiasi interazione con altre molecole
possono dare la formazione di debolissimi dipoli istantanei.
Quindi, anziché essere perennemente e simmetricamente distribuiti attorno al nucleo, quei due elettroni
possono casualmente spostarsi leggermente verso un lato o l’altro di quella sfera ideale che circonda la zona
dove è probabile trovarli, cioè l’orbitale atomico.
Nell’istante in cui avviene questo spostamento casuale e istantaneo degli elettroni, l’atomo di elio diventa
un dipolo (debolissimo). C’è separazione di cariche bassissima, ma non nulla. Questo dipolo istantaneo avrà
quindi una porzione più positiva e una porzione più negativa. La porzione più positiva (a sinistra) darà una
certa attrazione verso la nuvola elettronica di un altro atomo di elio che sta lì vicino e che di suo non aveva
subito alcuna deformazione della nuvola elettronica. E quindi la subirà, perché i suoi due elettroni
cercheranno di spostarsi verso la parte dell’atomo di elio che per un certo istante era diventato leggermente
positivo. Quindi si crea una lievissima interazione elettrostatica, il dipolo istantaneo induce un dipolo
nell’atomo adiacente, il quale può fare a sua volta la stessa cosa in un altro ancora.
Questo ci spiega perché abbassando molto la temperatura (al di sotto dei -250 gradi) l’elio a poco a poco è
sempre meno un gas ideale perché nei gas ideali non si hanno interazioni tra le molecole se non quando si
urtano per caso (urti elastici).
Stiamo parlando in questo caso di dipoli poco importanti, tant’è vero che per avere liquido l’ elio bisogna
avvicinarsi a pochissimi gradi dallo zero assoluto.

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Queste forze che si creano tra dipoli istantanei, cioè molecole che di per se avrebbero polarità scarsa o nulla,
grazie a queste oscillazioni temporanee e casuali della nube elettronica, sono quelle che spiegano perché
gran parte delle sostanze, elementi e composti, in condizioni normali non siano gas, ma siano liquidi o solidi.
Esempio dell’ eicosano (C20H42)
Se io prendo l’idrocarburo ‘eicosano’ (dalla parola greca che vuol dire 20), che contiene una catena di 20
atomi di carbonio legati con legami sigma e saturato da legami con atomi di idrogeno, questo composto (così
come il metano) avrà una polarità quasi nulla, perché la polarità dei singoli legami C-H è vicina a zero, e quella
tra i vari atomi di carbonio è zero.
Nonostante questo l’eicosano è un solido in condizioni normali (simile a cera). Si dice che infatti fa parte delle
paraffine. Come mai le molecole di eicosano che hanno polarità vicino allo zero, anziché essere gassose e
quindi non hanno tra di loro interazioni, invece ne hanno talmente tante da essere solide? Grazie alle
cosiddette forze di dispersione di London. Si parla di dispersione da una molecola all’altra di queste micro
cariche elettriche di cui abbiamo appena parlato.
Il fatto che più la molecola è grande, più è grande la probabilità di formarsi queste interazioni, spiega perché
nella parte alta della tavola periodica troviamo elementi gassosi, liquidi oppure solidi bassofondenti, mentre
scendendo verso il basso troviamo elementi solidi che fondono a temperature molto più elevate.
Un caso tipico è quello degli alogeni (fluoro, cloro, bromo e iodio): il fluoro è un gas, difficilmente liquefacibile;
il cloro(subito sotto) è un gas ma facile da trasformare in liquido; il bromo invece è un liquido in condizioni
normali; infine lo iodio(sotto ancora) è un solido.
Questo dipende dal fatto che l’atomo di fluoro è molto piccolo, quello di iodio è il più grande di tutti e questo
significa che quando questi elementi formano le rispettive molecole biatomiche, la polarizzabilità (la
deformazione casuale della loro nube elettronica) che è minima nel caso del fluoro , diventa importante nel
caso dello iodio. Quindi si formano dei dipoli istantanei come quelli in figura, e quindi nel caso dello iodio
quest'ultimi sono molto più probabili, al punto tale che le singole molecole di iodio facilmente rimangono
vicine tra di loro a formare una struttura cristallina covalente (un edificio ordinato di particelle) diversa dal
caso del cloruro di sodio in cui ci sono delle attrazioni elettrostatiche stabili (non temporanee).
Non a caso lo iodio, anche scaldato leggermente, sublima (passa dallo stato solido a quello gassoso). Il cloruro
di sodio invece necessita di temperature elevatissime.

Vediamo il caso di una molecola in cui la polarizzazione non riguarda la nuvola elettronica ospitata in orbitali
atomici ma l’orbitale molecolare che unisce i due atomi. Quindi c’è uno sbilanciamento temporaneo e casuale
di carica. Stiamo parlando sempre dei casi degli alogeni che in condizioni normali esistono come molecole
biatomiche. Il legame è covalente omopolare ma questo non gli impedisce di tanto in tanto di avere queste
oscillazioni casuali della nuvola elettronica.
Queste forze di interazione elettrostatica molto deboli si chiamano Forze di Wan der Waals (dallo studioso
olandese).

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Qui sopra vediamo invece come uno ione positivo, una sostanza carica elettricamente, può indurre una
deformazione di un’altra specie che di per sé non lo farebbe. Quindi quell’altra specie è diventata un dipolo
indotto. Cioè il sodio ha indotto la polarizzazione di quella specie (non identificata nell’immagine). Lo ione
cloruro carico negativamente farà la cosa contraria. Gli elettroni di questa specie cercheranno di star lontani
per repulsione elettrostatica con la carica negativa del cloro è quindi si induce, magari nella stessa molecola
un dipolo ma con verso del vettore esattamente opposto. Quel dipolo a sua volta può indurre una
polarizzazione nella molecola vicina e così via. Queste sono le forze di dispersione di London.

Differenze tra i vari tipi di interazioni intermolecolari:


Qui le frecce di diversa grossezza indicano la forza della polarizzazione, quindi l’energia associata a questo
tipo di legami, le cosiddette Interazioni deboli.
Le interazioni forti sono i legami covalenti e ionici che hanno una forza ben diversa. Tuttavia le proprietà di
molti composti, specialmente di biomolecole che ci interessano dal punto di vista medico, sono date proprio
dalla presenza contemporanea di un gran numero di queste interazioni deboli o debolissime che però, prese
tutte insieme, hanno un effetto estremamente potente.
Un caso sarà l’interazione tra Antigeni e anticorpi che è fatta da interazioni che prese singolarmente sono
debolissime ma danno luogo poi a un legame di straordinaria forza, molto di più di molti legami covalenti.
Se prendiamo (come in alto) l’acetone, abbiamo un interazione tra dipoli permanenti, quindi non c’entrano
nulla le forze di dispersione, perché il legame C=O è di per sé fortemente polarizzato. Quindi è chiaro che la
carica negativa di una molecola di acetone darà una forza non trascurabile di attrazione con la parte positiva
di una molecola di acetone vicina. Il che spiega perché l’acetone sia liquido in condizioni normali. L’acetone
lo possiamo utilizzare per sciogliere, per esempio, l’eicosano (di cui abbiamo parlato prima).
Come mai si scioglie così facilmente? Perché i dipoli permanenti dell’acetone sono in grado di indurre, per
induzione elettrica, dei dipoli temporanei nelle molecole dell’idrocarburo. Temporanei perché questa
polarizzazione cessa nel momento in cui l’idrocarburo e l’acetone si allontanano. Quindi un dipolo
permanente ha creato un dipolo indotto.

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Oltretutto l’idrocarburo anche se non ha una polarizzazione sua intrinseca, per quelle oscillazioni istantanee
della nuvola elettronica dei suoi legami(di cui abbiamo parlato prima) può produrre dei dipoli di bassissima
intensità che sono temporanei e che creano le forze di dispersione di London che consentono all’ idrocarburo
di esistere allo stato solido in condizioni normali, anche se le interazioni classiche(dipoli permanenti tra le
varie molecole) non ci sono. Questo perché la polarità dei legami C-H e dei legami C-C è vicina allo zero.
Si potrebbe pensare che si dovrebbe comportare come un gas ideale. Non c’è ragione per cui ci siano delle
interazioni elettrostatiche e invece si, deboli ma ci sono. E siccome l’eicosano ha 20 atomi di carbonio e 42 di
idrogeno, le possibilità di polarizzazione temporanea di ciascuno dei legami che le uniscono sono numerose.
Quindi delle polarizzazioni temporanee insignificanti prese singolarmente ma siccome sono molte alla fine il
risultato c’è.

Legame a idrogeno

Si può chiamare legame idrogeno, legame a idrogeno e certe volte si parla di ponti idrogeno (ponti ideali tra
diverse molecole).
Quando una sostanza contiene degli atomi di idrogeno legati a elementi molto elettronegativi (ossigeno,
azoto e fluoro) allora la polarizzazione del legame covalente è molto forte. Quindi la positivizzazione di quegli
idrogeni legati direttamente agli atomi elettronegativi è abbastanza significativa. Questo significa che gli
idrogeni possono dare delle interazioni di tipo elettrostatico con altre molecole (o a volte anche dentro la
stessa molecola, se la forma lo consente) con questi atomi elettronegativi.
Come vediamo in figura, le barrette azzurre indicano i legami a idrogeno, che non sono legami covalenti, ma
sono dei legami che se presi singolarmente sono piuttosto deboli ma quando se ne possono formare un gran
numero è come se fossero dei legami forti.
A destra vediamo la struttura schematizzata del ghiaccio.
Una delle ragioni per cui l’acqua è così efficiente come solvente di altre molecole polari è la sua grande
capacità di formare legami a idrogeno non solo con sé stessa ma anche con le sostanze che poi porta in
soluzione.
Molte biomolecole, i glucidi e i protidi (zuccheri e proteine) danno molte interazioni legami a idrogeno con
l’acqua, infatti molte di queste sostanze sono molto solubili in acqua.
Il legame idrogeno ha una certa direzionalità che vediamo appunto in figura.

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Il prof sceglie come esempio il legame fosforo-
ossigeno, perché come vedremo, il fosforo non come elemento ma come derivato dell’acido fosforico ha
un’importanza cardinale nella biochimica. Il fosforo ci interessa per i suoi composti ossigenati di cui moltissimi
sono molecole fondamentali, a partire da DNA e RNA.

A sinistra in basso sono indicati i vari possibili


legami a idrogeno che si possono riscontrare comunemente, in ordine di forza crescente.
Anche le molecole di ammoniaca possono formare legami a idrogeno ma sono deboli per cui in condizioni
normali l’ammoniaca è un gas. Tuttavia può formare legami a idrogeno anche con le molecole d’acqua e
questo spiega perché, tra i vari gas, l’ammoniaca è uno dei più solubili in acqua.

Invece nel disegno più grande a destra, sono riportati dei casi di interesse medico.

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Qui questa tabella ci mostra quali sono le energie di legame dei vari tipi di legami chimici. Possiamo vedere
che le forze di dispersione di London sono veramente insignificanti rispetto ai legami più potenti come quelli
covalenti o ionici.
Il legame a idrogeno rientra nelle interazioni deboli però se confrontati con le interazioni dipolo-dipolo ecc,
sono deboli ma nemmeno tanto.
L’altra tabella (presa da un altro libro) mostra le stesse cose.

“Similia similibus solvuntur” era un modo di dire che utilizzavano gli alchimisti nel medioevo.
Sta per “il simile scioglie il simile”.
- Idrofilico/idrofilo significa amico dell’acqua;
- Idrofobico/idrofobo significa esattamente il contrario, ovvero nemico dell’acqua/che ha paura
dell’acqua.
Le reazioni di interesse medico avvengono sempre, salvo eccezioni, in ambiente acquoso.

La guanina, uno dei componenti del DNA e RNA, se uno guarda la struttura molecolare (che vedremo meglio
in seguito) si aspetta che sia una sostanza molto solubile in acqua perché avendo molti ossigeni e azoti, può
formare molti legami a idrogeno con l’acqua. In realtà pur essendo molto polare è pressoché insolubile in
acqua. Infatti preferisce formare legami a idrogeno con altre molecole di guanina vicine e infatti i cristalli di
guanina rimangono così e non si sciolgono.
La guanina è la sostanza che rende brillanti e un po’ a specchio le squame dei pesci.

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Legame idrofobico

Si chiamano idrofobiche le le sostanze che respingono


l’acqua, non perché formano legami a idrogeno tra di loro, ma perché non ne formano proprio. Un esempio
sono i grassi. L’eicosano (di cui parlavamo prima) così come tutti gli altri idrocarburi conosciuti, è del tutto
insolubile in acqua.
Pur di non interagire con l’acqua preferiscono interagire tra di loro e infatti si parla di interazioni idrofobiche.
Le molecole di olio d’oliva, ad esempio, hanno una bassissima polarità però sono soggette a un gran numero
di forze di dispersione. Infatti l’olio d’oliva è un olio e non un gas. Messo in contatto con l’acqua non si
scioglierà e se noi agitiamo, anche violentemente, una bottiglia dove abbiamo messo acqua e olio, dopo pochi
istanti, quando ci fermiamo, si separano due fasi ben distinte. Questo proprio perché tra acqua e olio non ci
sono interazioni.
Si parla di legame idrofobico tra le molecole d’olio ma in realtà non è un vero legame ma delle interazioni
che si formano pur di non legarsi per esempio con le molecole di acqua.
Qui, nell’immagine, vediamo due molecole di un idrocarburo, circondate da molecole di acqua. Appena
possono, pur di star lontano dall’acqua, si avvicinano tra di loro e questa è proprio in interazione idrofobica.

Le sostanze anfipatiche, che sono un po’ idrofile e un po’ idrofobe.


Molte delle molecole che costituiscono la materia vivente, anche la nostra, sono sostanze anfipatiche, a
cominciare da quelle che formano le membrane biologiche, che circondano le cellule e certi organelli cellulari.

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Quella che vediamo è una tipica sostanza anfipatica.
Tutta la parte centrale della molecola è idrofobica, polarità quasi zero. Può dare però interazioni tipo delle
forze di dispersione di London.
L’unica parte polare della molecola è questo gruppo, che è anche ionizzato( c’è una carica negativa, come
possiamo vedere), che è idrofilo cioè amico dell’acqua. Quindi forma delle micelle, perché dà luogo a
soluzioni colloidali in cui le parti idrofile(le teste) si sistemano all’esterno (perché possono toccare l’acqua è
dare legami a idrogeno con essa) mentre la parte apolare ( le cose) si mettono nella parte interna pur di stare
lontano dall’acqua. [Torneremo in seguito su questo argomento].

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CHIMICA INORGANICA – LEZIONE 8 – 29/10/2021
Introduzione
Dalla scorsa lezione c’eravamo lasciati parlando di pressione osmotica. La pressione osmotica non solo è
importante in molti ambiti teorici e pratici tra cui alcuni anche di grande interesse medico, ma ci consente
anche di misurare in maniera relativamente semplice altre proprietà, non necessariamente proprietà
colligative quindi, di varie sostanze.

La pressione osmotica
La pressione osmotica è governata da leggi che in qualche modo sono simili, se non identiche a quelle che
riguardano i gas ideali e anche i gas reali (come sapete la legge generale dei gas ideali deve essere
opportunamente aggiustata per i gas reali soprattutto quando la pressione di questi è abbastanza elevata e
quindi le interazioni delle singole molecole non sono poi così tanto trascurabili).
Una cosa del genere possiamo dirla anche nel caso della pressione osmotica che si indica con la lettera
greca 𝜋𝜋 come si può notare in questo specchietto riassuntivo.

Nello specchietto riassuntivo la lettera M indica una misura della concentrazione delle particelle stesse
perché non è altro che il rapporto tra il numero di particelle (n) contenute in un certo volume (V). Quindi
siccome la costante universale dei gas è R ed è sempre la stessa, vedete in basso anche qual è la
conseguenza dal punto di vista della pressione osmotica della resistenza di una soluzione che si definisce 1
M, ovvero che contiene una mole di particelle per litro.
Noi sappiamo che una mole corrisponde a un numero spaventosamente grande che è definito il numero di
Avogadro, ovvero il numero di molecole, se stiamo parlando di un gas, contenuto in 22,414 l di quel gas a
pressione normale e a 0°C.
Il numero di Avogadro non riguarda solo i gas, ma anche qualunque tipo di molecole o particelle.
Che cosa vuol dire che quell’equazione è applicabile solo alle soluzioni di non elettroliti?
Gli elettroliti sono quelli che derivano dalla dissoluzione in acqua di sostanze ioniche. Se noi sciogliamo in
acqua una sostanza ionica sappiamo che questa sostanza subirà una dissociazione, nel senso che gli ioni che
la compongono si separano perché sono solvatati dall’acqua stessa (la “solvatazione” avviene quando
ciascuno ione viene circondato da un certo numero di molecole d’acqua trattenute più o meno fortemente)
Per esempio per ogni unità minima NaCl, nel momento in cui la sciolgo in acqua, le moli totali diventano 2,
non più solo una di NaCl, sarà una mole di 𝑁𝑁𝑁𝑁 + e una mole di 𝐶𝐶𝐶𝐶 − e ai fini della pressione osmotica
dobbiamo farli valere 2.
Si parla di sostanze ionizzabili, oltre che di sostanze ioniche, perché ci sono delle sostanze che in assenza di
solvente non sono ionizzate, ma si ionizzano disciolte nell’acqua.
La pressione osmotica di un qualunque soluto a carattere ionico sarà per forza ALMENO doppia di quella
che la stessa sostanza avrebbe se non si ionizzasse, poiché una sostanza ionica deve produrre come minimo
uno ione positivo e uno ione negativo.
Se preparo uno soluzione che contiene un numero di Avogadro (1 mole) di cloruro di sodio in acqua e
un’altra soluzione che contiene un numero di Avogadro (1 mole) di zucchero, sempre in acqua, per 1l di
soluzione in entrambi i casi, otterrò che la pressione osmotica di 1l della soluzione di sale sarà il doppio
della pressione osmotica della soluzione di zucchero, questo perché la soluzione di sale in realtà contiene
un numero doppio di particelle (Na+ e Cl-).

Il simbolo ν dell’immagine sopra è la n in minuscolo in greco, chiamata ni. Se sciolgo in acqua dello zucchero
che è una sostanza NON ionica, ν vale 1 perché non c’è nessuna dissociazione, non si formano elettroliti e
quindi in quel caso ν è come se non esistesse.

In genere il prodotto della molarità originaria per ν , cioè il numero di particelle in cui ciascuna molecola
elementare si dissocia, si chiama osmolarità. Quindi il prodotto di M (molarità) per il numero di particelle
effettive che si originano nella dissoluzione in acqua.

Elettroliti
Si chiamano elettroliti le specie chimiche che in soluzione producono ioni. La maggior parte dei Sali
come NaCl (cloruro di sodio), (ma lo stesso vale per i fluoruri ma anche per i solfati, acetati etc.) una
volta disciolti in acqua producono ioni che possono avere cariche differenti.
Abbiamo anche visto la ragione per cui il sodio dà uno ione con carica +1 e il Bario (Ba) e il Calcio (Ca)
con carica +2, quando ci siamo occupati delle configurazioni elettroniche.
In questa diapositiva trovate n invece che ν, ma sarebbe la stessa cosa.
Delle 4 sostanze indicate nella slide precedente, la seconda, il Solfato di Bario, in ogni caso darà luogo ad
una pressione osmotica circa 0, poiché si tratta dell’unico sale tra quelli indicati ad essere completamente
insolubile in acqua. Il contributo che può dare il Solfato di Bario ad una qualunque soluzione acquosa è
nullo, non si scioglie.

Gli elettroliti forti sono sostanze che una volta disciolte nell’acqua si dissociano totalmente o quasi
totalmente (circa il 100%). Se io sciolgo NaCl solido, quindi getto del sale nell’acqua della pasta, poi
nell’acqua ci sarà solo 𝑁𝑁𝑁𝑁 + e 𝐶𝐶𝐶𝐶 − , non esistono molecole NaCl dove uno ione sodio è legato
covalentemente ad uno ione cloruro. Quindi quando noi scriviamo NaCl vogliamo semplicemente indicare il
rapporto stechiometrico, ossia il rapporto tra gli atomi costituenti il composto.
Non stiamo quindi dicendo che Na forma un legame covalente con Cl, ci serve semplicemente per indicare
questo rapporto stechiometrico ma già nel solido, quindi nel sale che sia fine o grosso non c’è NaCl, ma ci
sono 𝑁𝑁𝑁𝑁+ e 𝐶𝐶𝐶𝐶 − in quantità uguale tra loro in modo che se noi misurassimo la carica totale del NaCl solido
troveremo 0.
Così come troviamo 0 se misuriamo la carica elettrica totale di NaCl sciolto nell’acqua, a prescindere dalla
concentrazione.

Quello che si vede da questa diapositiva è che se io ho un numero di Avogadro di NaCl solido e lo sciolgo
nell’acqua, il numero di particelle (a prescindere dal fatto che siano 𝑁𝑁𝑁𝑁 + e 𝐶𝐶𝐶𝐶 − ) di soluto sarà 2 per il
numero di Avogadro.
La stessa cosa si trova facilmente anche nel caso del cloruro di calcio 𝐶𝐶𝐶𝐶𝐶𝐶𝐶𝐶2 e nel solfato di potassio 𝐾𝐾2 𝑆𝑆𝑆𝑆4
che si possono vedere nella diapositiva.

Il disegno in basso a destra della diapositiva indica che se io di questo cristallo di cloruro di sodio sciolgo il
pezzetto indicato con il rettangolo blu che corrisponde a 4 NaCl, in acqua vedo che le particelle sono 8, 4
𝑁𝑁𝑁𝑁 + e 4 𝐶𝐶𝐶𝐶 − . Quindi per il calcolo della pressione osmotica bisogna contarne 8 e non solo 4.

Elettroliti deboli
Come poi vedremo quando parleremo di acidi e basi, noi sappiamo che ci sono delle sostanze che disciolte
nell’acqua subiscono una ionizzazione parziale, quindi solo una certa percentuale di molecole una volta
disciolte nell’acqua produce ioni (questo vale soprattutto per acidi e basi che definiamo deboli). Mentre gli
acidi che si dissociano totalmente liberando tutti gli ioni 𝐻𝐻 + “liberabili” si chiamano acidi forti. La stessa
cosa vale per le basi che però libereranno non ioni 𝐻𝐻 + (quindi non ioni idrogeno o idrogenioni), ma ioni
𝑂𝑂𝑂𝑂 − (ioni idrossido).

Ci sono alcuni Sali, anche se nel campo dei Sali questo costituisce un eccezione più che una regola, che
anch’essi si dissociano solo parzialmente. Per esempio molti Sali di mercurio (un metallo strano per il fatto
che sia liquido e che abbia una volatilità apprezzabile), in realtà hanno un notevole carattere covalente e
quindi disciolti nell’acqua hanno una ionizzazione ridotta. Per esempio se io sciolgo in acqua il cloruro
mercurico 𝐻𝐻𝐻𝐻𝐻𝐻𝐻𝐻2 , nell’acqua ci sarà un certo numero di ioni 𝐻𝐻𝐻𝐻2+ , un numero doppio di ioni 𝐶𝐶𝐶𝐶 − e una
percentuale notevole di molecole 𝐻𝐻𝐻𝐻𝐻𝐻𝐻𝐻2 indissociate. Quindi il calcolo, dal punto di vista dell’osmolarità
delle soluzioni, risulta più complicato.
Nel caso dell’acido acetico, per esempio, possiamo affermare che il grosso delle molecole di questo acido si
troveranno in forma indissociata. Se non ho la possibilità di calcolare sperimentalmente la pressione
osmotica dell’acido acetico dovrò applicare una formula che poi vedremo che ci consente di individuare
qual è la percentuale di acido acetico che si è dissociata, in funzione della sua concentrazione. Esiste la
possibilità di anticipare questo dato, che si può anche ritrovare sperimentalmente, applicando opportune
formule.

Grado di dissociazione
Possiamo introdurre la definizione del grado di dissociazione di un qualunque elettrolita debole (che sia un
acido, una base o un sale, il concetto è uguale). Questo grado di dissociazione si indica di solito con la
lettera 𝛼𝛼 ed è uguale al rapporto tra il numero di moli dissociate e il numero di moli iniziali, prima che la
sostanza venisse disciolta nell’acqua. Anche perché questi elettroliti deboli spesso in assenza di acqua, cioè
allo stato anidro, non sono sostanze ioniche.
Questo numero alfa, è ovviamente sempre compreso tra 0 (nel caso di una sostanza non ionica, non ci
saranno moli dissociate al numeratore) e 1 (quando tutte le moli si saranno dissociate). Moltiplicando in
numero alfa per 100 otteniamo una percentuale di dissociazione.
Quindi prendiamo un acido debole che troveremo spesso come l’acido acetico ( 𝐶𝐶𝐶𝐶3 𝐶𝐶𝐶𝐶𝐶𝐶𝐶𝐶 ). L’acido
acetico pure senza acqua è una sostanza fondamentalmente covalente, indissociata e non è ionizzata. Se lo
sciogliamo nell’acqua una certa percentuale delle sue molecole si dissocia in ioni idrogeno 𝐻𝐻 + e in ioni
negativi acetato.
Se facciamo il rapporto tra le moli di acido acetico che disciolte in una certa soluzione si sono dissociate e il
numero di moli dell’acido acetico di partenza, prima che lo sciogliessimo in acqua, troviamo il grado di
dissociazione α che come vedremo dipende dalla concentrazione (più acqua è presente quindi più è diluita
la soluzione dell’elettrolita debole, maggiore sarà il grado di dissociazione).
Questo grado di dissociazione α ci consente di definire un fattore di correzione detto anche binomio di
Van’t Hoff che ci serve per prevedere la pressione osmotica di quella soluzione di un certo elettrolita
debole. Al contrario possiamo usare la pressione osmotica di una soluzione dell’elettrolita debole di cui
conosciamo la concentrazione iniziale per ricavarci, usando la formula inversa 𝑖𝑖 = 1 + 𝛼𝛼 (𝑛𝑛 − 1), il grado
di dissociazione.

Quindi molte volte siamo nelle condizioni di capire se una certa soluzione di un elettrolita debole è
dissociata e in che percentuale o in che misura è dissociata proprio da una misura della sua pressione
osmotica, da cui risaliamo al grado di dissociazione α.
Prendiamo il caso di NaCl che ha un comportamento piuttosto ideale come sostanza ionica. Come vi ho
detto prima noi cercheremmo delle molecole indissociate di NaCl, sia nel solido sia nella soluzione acquosa,
perché NaCl rappresenta la cosiddetta formula minima, cioè ci dice semplicemente che per ogni sodio c’è
un cloro, e viceversa, ma non ci dice nulla sulla reale struttura di questa sostanza. Noi però sappiamo che è
fatta di ioni 𝑁𝑁𝑁𝑁+ e 𝐶𝐶𝐶𝐶 − sia allo stato solido cristallino, sia in soluzione.
Quindi da un punto di vista della pressione osmotica possiamo dire in un certo senso che NaCl vale doppio.

Infatti noi diciamo se dobbiamo parlare della concentrazione di una certa soluzione di NaCl che se ne
sciogliamo in 1 l di soluzione finale 58,44 g (che è il suo peso molecolare), abbiamo una soluzione di NaCl 1
M.
Per diversi calcoli utilizziamo questa misura che si chiama molarità (numero di moli per litro). Però dal
punto di vista della pressione osmotica diremo che l’osmolarità di quella soluzione di NaCl non è 1 ma 2
proprio perché in soluzione non troveremo 1 numero di Avogadro di unità NaCl ma ne troveremo 2.

Il glucosio come vedremo è lo zucchero più comune ed è di straordinaria importanza in biochimica per
tutte le forme di vita esistenti, uomo compreso.
Il glucosio è una sostanza tipicamente covalente, è una molecola organica molto polare però, infatti è
molto solubile in acqua. Possiamo preparare soluzioni di glucosio estremamente concentrate.
Nel suo caso molarità e osmolarità coincidono perché il glucosio non produce ioni né allo stato solido né in
soluzione, quindi non genera particelle in più e nel suo caso il numero ν vale 1.

Il plasma
Come possiamo immaginare tra i vari fluidi esistenti in natura, il plasma sanguigno umano è uno di quelli
più studiati. Il plasma contiene disciolte un grandissimo numero di sostanze, ma ovviamente quelle presenti
in maggiore concentrazione sono quelle che danno il maggior contributo alla pressione osmotica.
Questa dipende additivamente dalle frazioni molari di ciascun componente, ed è questa (𝜋𝜋 = 7,6 atm) la
pressione osmotica del plasma sanguigno di una persona sana.
Ecco perché si usa la soluzione fisiologica fatta di NaCl allo 0,9 % m/V che vuol dire che ogni 0,1 l di questa
soluzione fisiologica ci sono 0, 9 grammi di NaCl che corrisponde a una molarità di 0,15, cioè un litro di
quella soluzione contiene 0,15 moli di NaCl. Questa soluzione ha una pressione osmotica che è quasi
identica a quella del plasma sanguigno, e si dice isotonica.

Si dicono isotoniche due soluzioni che hanno la medesima pressione osmotica. Mentre si dice ipertonica
una soluzione che ha una pressione osmotica maggiore di un’altra presa di riferimento, in questo caso
parliamo appunto di plasma sanguigno. Invece si dice ipotonica una soluzione che una pressione osmotica
minore.

Per quanto riguarda il glucosio la molarità di una soluzione glucosata necessaria per renderla isotonica con
il plasma deve essere 0,3 M. Quella di NaCl 0,15 M, cioè la metà, perché NaCl vale doppio proprio grazie
alla dissociazione elettrolitica.

La frase riportata sopra sottolinea il fatto che i valori di osmolarità plasmatica normali nell’uomo sono
compresi tra un certo valore e un altro, quindi non è rigorosamente identica ma varia un po’ da persona a
persona. Per questo un individuo non ha per sempre la stessa osmolarità del proprio plasma ma dipende da
tante situazioni fisiologiche ed eventualmente anche patologiche.
Nell’elenco tra parentesi (sempre della frasi riportata sopra) sono indicati alcuni degli elettroliti presenti
sotto forma ionica (altrimenti non sarebbero elettroliti).
L’osmolarità a volte coincide con la normalità, ma non necessariamente. Più avanti parleremo del concetto
di normalità, che tra l’altro la Commissione internazionale per le Scienze chimiche sta cercando di eliminare
perché talvolta può dare confusione, dato che dipende non solo dalla struttura della sostanza presa in
esame, ma anche dal tipo di reazione in cui interviene. La vogliono eliminare a favore di osmolarità,
molarità ecc., però il professore ritiene che in molte situazioni il concetto di normalità sia particolarmente
utile.
In questa immagine si può vedere anche un aspetto caratteristico dell’argomento pressione osmotica: le
conseguenze che le variazioni della pressione osmotica possono derivare a carico di certe cellule. Il caso più
semplice è quello degli eritrociti, cioè i globuli rossi del sangue. Come sapete queste cellule hanno una
forma molto particolare che assomiglia un po’ a quella di una ciambella non perfettamente riuscita, che
però ha invece il vantaggio di rendere queste cellule opportunamente flessibili in modo da poter passare
che nei capillari più sottili senza ostruirli. Questa forma dipende da una particolare architettura della
membrana cellulare stessa che ha una sorta di impalcatura che la mantiene in quella forma caratteristica e
rimane tale solo se l’interno del globulo rosso, quindi il citoplasma di queste cellule, e il plasma che le
circonda sono isotonici.
Se invece noi prendiamo i globuli rossi e li esponiamo in una soluzione ipertonica, questo provoca la
fuoriuscita di acqua dai globuli rossi verso l’esterno, la cellula in qualche modo collassa e assume quella
forma molto particolare che vedete nella figura al centro (b).
Al contrario se esponiamo i globuli rossi ad una soluzione ipotonica sarà l’acqua ad entrare all’interno delle
cellule rigonfiandole. Questo rigonfiamento non può procedere in maniera indeterminata ma ad un certo
punto provocherà la rottura della membrana stessa, un fenomeno di tipo emolitico.

Questo talvolta si utilizza in laboratorio quando si vuole estrarre dai globuli rossi il loro contenuto. Si fa un
prelievo di sangue, si tratta con un agente anticoagulante, si centrifuga il sangue scoagulato, si raccoglie il
corpo di fondo che è dato soprattutto da globuli rossi che rappresentano la grande maggioranza dei corpi
figurati del sangue, si elimina il plasma, ci si mette dell’acqua distillata o una soluzione tampone che per
shock osmotico provoca la rottura delle membrane dei globuli rossi che quindi riversano il loro contenuto
(costituito in gran parte da emoglobina) all’esterno. Poi una seconda passata di centrifuga elimina le
membrane cellulari vuote e abbiamo una soluzione acquosa che contiene il fluido interno alle cellule.
Domanda alunno: cosa succede mescolando due soluzioni con diversa osmolarità? Si ottiene una
osmolarità intermedia che dipende dai valori iniziali di osmolarità e anche dal rapporto tra i volumi delle
due soluzioni che si mescolano. Questo vale sia per soluzioni di soluti diversi, sia per soluzioni del
medesimo soluto ma di diversa concentrazione.

Bilancio idrico

Questa immagine ci fa vedere quanto è


il bilancio idrico di una persona
normale in genere, quindi le entrate e
uscite di acqua. Questo bilancio è
tutt’altro che passivo, nel senso che
non lo governiamo noi semplicemente
bevendo di più o di meno, ma è
soggetto ad uno stretto e fine controllo
in cui intervengono moltissimi fattori.
Da questo si può vedere anche come l’acqua che è il nostro componente principale è distribuito nei vari
distretti corporei.
L’acqua diffonde liberamente da un compartimento all’altro, ma questo “liberamente” è da prendere un
po’ con le molle perché sono tutti meccanismi particolarmente raffinati di controllo che mantengono sotto
controllo proprio essenzialmente l’osmolarità.
Variazioni incontrollate delle osmolarità in qualunque distretto provocherebbero gravi danni proprio alle
varie biomembrane delle cellule. Quindi variazioni eccessive di osmolarità sono incompatibili con la vita.
Le membrane cellulari non sono dei muri che isolano le cellule dall’esterno perché come vedremo
ovviamente una cellula deve poter comunicare efficacemente con il mondo che la circonda, il quale a sua
volta può essere benissimo costituito da altre cellule dello stesso organismo, dello stesso organo e dello
stesso tessuto. Quindi è per certe sostanze un muro invalicabile, per altre sostanze è un muro con tante
porte che possono aprirsi o chiudersi in risposta ad altri segnali di tipo chimico.
Le membrane biologiche mostrano una certa selettività che per molti versi è indipendente dalle dimensioni
delle particelle stesse. Infatti, la maggior parte dei pori delle membrane biologiche hanno la capacità di
discriminare, consentire oppure no il passaggio di determinate particelle. La membrana cellulare è
impermeabile al sodio, il sodio influenza la 𝝅𝝅 del compartimento extracellulare ma non di quello
intracellulare. Urea e glucosio passano la barriera cellulare e quindi non condizionano movimenti d’acqua
fra i due lati della membrana. Come regola molto generale, di solito, passano più facilmente gli anioni dei
cationi.
Molte sostanze sono soggette a fenomeni di trasporto, vengono cioè prese in carico da opportune
biomolecole trasportatrici che fanno la spola tra i due lati della membrana, con funzione “navetta”.
L’acqua ha dei canali dedicati grazie ai quali può entrare e uscire dalle cellule a seconda dell’utilità e della
situazione osmotica della cellula rispetto ai liquidi all’esterno.
Concentrazione delle soluzioni

La concentrazione di una soluzione indica il rapporto tra soluto e solvente. Questo rapporto può riguardare
pesi specifici, volumi, densità o diverse combinazioni tra queste grandezze, ciascuna ovviamente espressa
in opportune unità di misura.
Tra le varie situazioni che si possono presentare e che si applicano a seconda del contesto, si parla di
concentrazione percentuale che può essere:
• peso di soluto su peso della soluzione;
• peso del soluto su peso del solvente;
• peso del soluto su volume di soluzione;
• peso del soluto su peso del solvente.

Nel caso di liquidi usiamo spesso volume di soluto su volume di solvente e consideriamo in questi casi in
maniera arbitraria come soluto il liquido presente in quantità minore, mentre quello presente in quantità
maggiore si considera un solvente.
Si possono usare le cosiddette parti per milione (ppm) e parti per miliardo (dall’inglese “billion” per questo
ppb), per individuare per esempio alcuni specifici inquinanti che siano presenti in un liquido o in un
alimento o anche per esempio in un terreno in cui sospettiamo la presenza di qualche inquinante.

Tra chimici si usa soprattutto la Molarità (M). Poi abbiamo la Normalità di cui prima abbiamo accennato
qualcosa ma che verrà ripresa in seguito. Poi c’è la Molalità che si indica a differenza della Molarità con la
m e che ha un uso più limitato. Infine abbiamo la frazione Molare che è il rapporto tra le molecole o
particelle del soluto rispetto alle molecole o particelle totali.

Ciascuna di queste ha il suo campo di applicazione che la rende più o meno utile o pertinente a quello di cui
vogliamo occuparci.

Molarità

La Molarità è senza dubbio quella più utilizzata e spesso la più utile perché riguarda proprio il numero di
moli per unità di volume, quindi ci consente anche di fare i calcoli cosiddetti stechiometrici del tipo di
quello di cui abbiamo parlato tempo fa, ovvero che la molecola di 𝐻𝐻2 𝑂𝑂 non contiene 1 g di O e 2 g di H,
perché la Molarità tiene conto appunto del numero di moli (del numero di particelle), che come sappiamo
non hanno tutte la stessa massa. Infatti sappiamo che la massa degli atomi che poi formano le molecole si
indica in unità di massa atomica (u.m.a) che rappresenta il peso della dodicesima parte dell’isotopo 12
dell’atomo di carbonio, che ci dice che l’idrogeno vale come peso 1/12 del C e anche per esempio 1/16 dell’
O. Infatti il corretto rapporto stechiometrico nell’acqua è 𝐻𝐻2 𝑂𝑂 che corrisponde a 2 g di H, ogni 16 g di O.
Un numero di Avogadro di particelle di una data sostanza è definita 1 mole.
Se dobbiamo fare una reazione tra una sostanza A e uno sostanza B non possiamo dire per esempio che 10g
di A e 10g di B reagiranno per dare 20g di C, poiché dipende dal peso molecolare delle due sostanze che
stiamo facendo reagire. Se noi non prendiamo lo stesso numero di molecole di A e B la reazione non si
completerà e resterà un eccesso di uno dei reagenti.
Come facciamo a prendere un numero di Avogadro di molecole? Prendiamo il peso molecolare e lo
esprimiamo sotto forma di grammi, e abbiamo una mole. Per esempio sappiamo che il PM dell’O2 è circa 32
(l’ossigeno esiste solo sottoforma di molecola biatomica quindi 16x2) e che quindi 32g di ossigeno
corrispondono ad una mole e che in condizioni normali occuperanno 22,4L. Se prendo invece H2, che ha PM
uguale a 2 (1x2), per avere una mole, cioè un numero di Avogadro di molecole d’idrogeno, devo prenderne
2g che occuperanno sempre quei 22,4L, poiché ciò che conta non è il PM ma il numero di molecole.
Una soluzione ha una concentrazione 1M quando contiene 1 mole di soluto in 1L di soluzione.
D’altra parte se considero 10 biglie di polistirolo e lo confronto con 10 biglie di uguale diametro ma di
acciaio, sicuramente la massa sarà ben diversa nonostante il numero sia uguale.

Nella Molarità noi consideriamo il numero di moli di soluto rispetto ad 1 litro di soluzione. Quindi se in una
soluzione è 0,5 M, stiamo dicendo che per ogni litro di soluzione ci sarà mezza mole di soluto.

Molalità

La Molalità invece trova un uso molto più limitato perché si è trovato che nella maggior parte dei casi le
leggi che regolano il comportamento di varie situazioni prevedono la Molarità e NON la Molalità.
Nel caso della Molalità non si fa il rapporto rispetto ad 1 l di soluzione, ma a 1 kg di solvente, quindi
Molalità e Molarità non sono uguali. Si usa per l’innalzamento ebullioscopico e l’abbassamento crioscopico,
perché si è visto che queste variazioni di temperatura non sono ben descritti dalla M, ma proporzionali alla
m delle soluzioni.

Normalità

La Normalità rimane ancora un po’ “fumosa” perché questa definizione è corretta però prima per capire di
cosa stiamo parlando dobbiamo definire gli equivalenti. Siccome la stessa sostanza, a seconda del tipo di
contesto di cui ci stiamo occupando, a parità di peso può corrispondere a diversi equivalenti, negli ultimi
tempi la Commissione chimica internazionale che si chiama IUPAC sta cercando di scoraggiare l’uso della
Normalità, il che è un peccato poiché in alcune circostanze è particolarmente utile.
Questa fotografia è molto istruttiva da questo punto di vista. Questi due matracci tarati a volume, ci
indicano che se noi ci versiamo dentro un liquido e arriviamo con il menisco esattamente alla tacca,
abbiamo esattamente 1 l di soluzione. Nel caso dell’acqua, in condizioni standard, 1 l pesa proprio 1 Kg.

Come facciamo a preparare una soluzione 0,1 Molale di un certo soluto?


Per preparare la soluzione 0,1 molale noi dobbiamo pesare in una bilancia una quantità di questa sostanza
(come i cristalli gialli nella foto), di cui dobbiamo conoscere il peso molecolare, corrispondente a 0,1 moli.
Quindi se fosse glucosio che ha un peso molecolare di 180 dovremo pesarne 18 g. Intanto dentro i matracci
avremmo versato dell’acqua fino ad arrivare alla tacca, ma nel caso dell’acqua possiamo permetterci di dire
che quel litro pesa esattamente 1 Kg. Dopo che abbiamo fatto arrivare l’acqua a questa altezza ci mettiamo
dentro con un imbuto i 18 g di glucosio corrispondenti a 0,1 moli.
È ovvio che aggiungendo glucosio, tappando il matraccio e agitandolo, il volume di acqua sarà aumentato
perché c’è 1 l di acqua più il volume occupato da quei 18 g di glucosio.
Questa sarà una soluzione 0,1 molale di glucosio in acqua.

Se invece vogliamo preparare una soluzione 0,1 molare dobbiamo fare un’altra cosa. Versiamo prima i 18 g
di glucosio dentro il matraccio e poi aggiungiamo acqua fino a che non arriviamo esattamente al menisco.

Come possiamo notare se poi si va a misurare il peso in g di un certo volume, per esempio 1 ml di questa
soluzione e poi dell’altra, troverà che è un po’ diverso e se fa evaporare l’acqua con cautela per recuperare
il glucosio, scoprirà che la quantità di glucosio che recupera da 1 ml di queste due soluzioni è diverso.
Ovviamente la differenza tra molarità e molalità si attenua fino a quasi sparire in soluzioni particolarmente
diluite. (00:48: 06)
Modi per indicare le concentrazioni delle soluzioni

La frazione molare l’abbiamo già definita prima. Si usa in termodinamica e nelle miscele gassose, per
esempio l’aria, per il fatto che è facile da calcolare tenendo conto che qualunque gas occupa un volume che
è proporzionale al numero di molecole di quel gas presenti in quella certa miscela a prescindere dal tipo di
gas considerato. La percentuale peso/peso (p/p) non si usa quasi mai, se non per applicazione particolari e
di solito quando il solvente non è acqua ma un altro liquido. Però ci sono altri modi per indicare le
concentrazioni che sono particolarmente utilizzati, in particolari di queste tre percentuali quella che viene
utilizzata di più è la percentuale peso/volume (p/v), soluto in peso e solvente in volume; ci riferiamo ai
100ml di soluzione finale.
Percentuale volume/ volume (v/v) si utilizza essenzialmente per soluzioni di liquidi in liquidi (per esempio
quando devo preparare una soluzione di glicerolo in acqua al 10% può essere più facile parlare in termini di
volume di glicerolo piuttosto che di acqua), ma nelle soluzioni di solidi in liquidi si usa soprattutto la
percentuale peso/ volume (p/v), il volume come è indicato nell’immagine non riguarda tanto il volume del
solvente, ma il volume finale della soluzione.

Poi ci sono le parti per milione (ppm) e le parti per miliardo (ppb) che si usano quando si ha a che fare con
concentrazioni piccolissime e in questi casi possiamo riferirci sia per esempio a sostanze inquinanti o
velenose, come tracce di certi metalli pesanti per i quali nei paesi civili la legge fissa dei limiti invalicabili
molto bassi, per esempio piombo, mercurio, arsenico in acque o alimenti, e se si supera qualche valore
quella sostanza non può essere più utilizzata nell’alimentazione umana e eventualmente animale.
Io posso trovare ppm o ppb di tracce di metalli tossici nel sangue di una persona intossicata e la maggior
parte degli standard internazionali definiscono un valore soglia di sostanze tossiche in un’acqua destinata al
consumo umano (potabile), al di sopra di questi valori soglia quell’acqua non può essere distribuita o
bevuta. Questi valori vengono di tanto in tanto modificati in base alle scoperte del momento (fattore
fondamentale anche le varie scelte politiche, da non sottovalutare).
Ci fu lo “scandalo dell’atrazina”. L’atrazina è un diserbante usato molto per salvaguardare i raccolti dalle
erbe infestanti, col tempo si è visto che è però una sostanza persistente nell’ambiente che non viene
facilmente biodegradata e finisce nelle falde; nel Nord Italia e nella Pianura Padana coltivati in modo
intensivo l’atrazina era molto usata per massimizzare i raccolti ed eliminare le erbe infestanti, in molte zone
della Pianura Padana per varie ragioni anche l’acqua potabile delle città anziché essere portata con costosi
acquedotti dalle Alpi si ottiene perché basta fare perforazioni nel suolo per far uscire spontaneamente
l’acqua (è il caso dei pozzi artesiani) e ci si rese conto che dopo decenni di uso del diserbante le acqua
contenevano quantità di atrazina maggiori di quelle consentite per legge; non essendosi rimedio immediato
si decise di aumentare il valore soglia della percentuale di atrazina. Col tempo venne vietato totalmente
l’uso della sostanza, le percentuale stabilite per legge sono diminuite e si tornò alla normalità.
La legge che impone in Europa di scrivere nell’etichetta delle acque potabili informazioni scontate quali
“grassi 0, proteine 0, zuccheri 0” non obbliga a indicare la concentrazione dello ione nitrato che poche parti
per milione può dare gravi conseguenze soprattutto ai bambini. Altro caso di legge varata per questioni
politiche.
Nell’immagine viene anche indicata (cerchiato in rosso) come si effettua lo stabilimento di queste misure,
cioè calcolare questi numeri. Parte per milione (ppm) significa essenzialmente 1 mg per l, come Parte per
miliardo (ppb) significa un 1 µg per l.

Questo è uno specchietto riassuntivo e come si può notare qui non si parla di Normalità, perché la
normalità può variare per la stessa soluzione con una certa molarità a seconda del contesto in cui
dobbiamo fare i calcoli. Normalità è il numero di equivalenti, però questi equivalenti possono variare a
seconda che la sostanza che prendiamo in esame partecipi ad un certo tipo di reazioni oppure ad un altro
tipo. A volte molarità e normalità sono la stessa cosa e altre volte ancora no.

Questo è un esempio banale di una soluzione di cui indichiamo la concentrazione percentuale peso/volume
ed è talmente usata quando parliamo di soluti solidi disciolti in un solvente liquido che molte volte la
specifica peso/volume nemmeno si mette, ma si mette il simbolo solo della percentuale e si sottintende
che stiamo parlando di questo tipo di percentuale, ossia grammi di soluto contenuti in 100 ml di soluzione.
Qui di acqua ne avremo un po’ meno di 100 ml perché per quanto poco sia, 0,1 g di NaCl occupano
anch’essi una parte del volume. Poi l’NaCl ha una densità maggiore di quella dell’acqua, quindi 0,1 g di NaCl
non sono 0,1 ml, ma sono di meno.
Comunque a noi non interessa fare quella misura precisa quando prepariamo soluzioni di questo genere
perché utilizziamo i matracci tarati a volume come quelli di cui abbiamo parlato prima. Quindi prendiamo
un matraccio tarato a 100 ml, ci buttiamo dentro 0,1 g di NaCl che avevamo pesato a parte in una bilancia e
poi aggiungiamo tanta acqua distillata fino a che non raggiungiamo la tacca dei 100 ml.
Potremmo anche misurarci a parte 100 ml e versarli e scopriremmo che l’errore compiuto con così tanto
poco NaCl può anche essere trascurabile, ma non sempre è così.

I calcoli che riguardano preparazione di soluzioni si basano sempre sull’uso delle proporzioni, sia per quanto
riguarda preparare soluzioni, sia per quanto riguarda diluire delle soluzioni concentrate per ottenere quelle
con la concentrazione voluta, o anche mescolare soluzioni della stessa sostanza ma a due concentrazioni
diverse.
Le proporzioni ci consentono di fare calcoli a volte facilissimi come nel caso dell’immagine, a volte
abbastanza complicati. Anche nel laboratorio di analisi biomediche o di chimica medica è vero che per le
analisi routinarie si usano soprattutto dei kit già pronti per cui l’operatore non deve fare altro che prendere
quei kit, mescolare secondo le istruzioni, infilare una provetta in macchinario, premere un pulsante e
aspettare il risultato. Invece se il laboratorio non è di analisi routinarie ma di ricerche scientifiche in campo
biomedico, per certe cose ci sono i kit, per altre è l’operatore che deve prepararsi delle soluzioni seguendo
certi protocolli, che prevedono anche la preparazione di soluzioni a concentrazioni prestabilite.

Se 100 ml di quella soluzione contengono 0,1 g di NaCl quanti grammi saranno contenuti in 35 ml di quella
stessa soluzione? Quindi applicando le proprietà delle proporzioni per ricavare quell’incognita si fa il
prodotto degli estremi e si divide per il medio noto, che in questo caso sono i 100 ml, e si ottengono i
grammi di NaCl contenuti in 35 ml di una soluzione che ne contiene 0,1 ogni 100 ml.
Otteniamo che in 35 ml di questa soluzione ci sono 35 mg di NaCl.
Il peso molecolare di NaCl è 58, se invece avessimo avuto una soluzione di idrossido sodico NaOH sempre
nella stessa percentuale in peso, il risultato sarebbe sempre uguale perché in questo caso non ci occupiamo
di molarità.

L’alcol iodato e la tintura di iodio


Si tratta di soluzioni idroalcoliche di iodio che hanno un violento potere antisettico. Adesso si usano molto
meno di prima perché ci sono molti altri prodotti, però hanno ancora una loro utilità. Infatti l’alcol iodato e
la tintura di iodio sono ancora iscritti nella farmacopea ufficiale, cioè nel libro dove sono scritte tutte le
sostanze e i preparati che si possono utilizzare come farmaci. Molte volte nell’uso pratico sapere la
normalità, la frazione molare, molarità ecc. dello iodio non serve, per questo si definisce alcol iodato una
soluzione che contiene 1 g di iodio in 100 ml di soluzione (alcol contenente anche acqua). Ci sono anche
altre soluzioni alcoliche di iodio, una che contiene 5 g di iodio per 100 ml o un’altra che ne contiene 7 g.
Siccome lo iodio a queste concentrazioni si scioglie male nell’alcol, si è visto che aggiungere ioduro di
potassio invece consente di preparare queste soluzioni, in cui della molarità non importa perché quando
vengono preparate servono semplicemente una bilancia per misurare lo iodio e per pesare eventualmente
lo ioduro di potassio aggiunto come agente solubilizzante e un matraccio tarato a volume per aggiungere
tanto alcol quanto ne serve per preparare queste soluzioni.

La molarità

Esercizio: se ho 2l di una soluzione 0,5M di NaCl e so che NaCl ha un PM di 58,44, se immagino di far
evaporare quella soluzione, l’NaCl rimasto quant’è?
La normalità

La normalità è stata definita fuorviante per il modo in cui si calcola. È utile quando si fanno titolazioni,
procedure per cui io uso un volume noto di una soluzione la cui concentrazione mi è nota per scoprire la
concentrazione ignota di una soluzione con cui faccio reagire la prima.
Come si può notare dall’immagine, siccome dalla stessa molecola si può a volte comportare a seconda delle
reazioni in maniera diversa e non è un eccezione ma è piuttosto frequente, noi capiamo che la stessa
sostanza può contenere per unità di peso un certo numero di equivalenti oppure un numero di equivalenti
diverso.
Per esempio se io ho un acido che può rilasciare un certo numero di ioni 𝐻𝐻 + , se in quella certa reazione lo
uso come acido o si comporta come acido, il peso equivalente sarà dato dal PM diviso il numero degli ioni
𝐻𝐻 + che può rilasciare. Per esempio l’acido arsenico, un acido derivato dall’arsenico può rilasciare 3 ioni 𝐻𝐻+ ,
𝑃𝑃𝑃𝑃
quindi il suo peso equivalente sarà uguale al suo 3 , che è come dire una mole di acido arsenico equivale a
3 equivalenti (visto che il PM è 1/3).
In certe reazioni però l’acido arsenico si comporta come un ossidante e da acido arsenico può diventare
arsenico elementare, acquisisce 5 elettroni. Se io utilizzo l’acido arsenico in una certa reazione, questo
anziché comportarsi da acido si comporta da ossidante. Una mole di acido arsenico come ossidante
contiene 5 equivalenti, perché 5 sono gli elettroni che è in grado di acquisire.

Quindi il peso equivalente dell’acido arsenico che si comporta da ossidante non è 1/3 del PM ma 1/5.
Questa è una delle ragioni che possono indurre un po’ di confusione, e quindi richiedono attenzione per cui
la IUPAC raccomanda di limitare, possibilmente eliminare, l’uso della normalità e degli equivalenti.

L’acido solforico 𝐻𝐻2 𝑆𝑆𝑆𝑆4 , uno degli acidi più comuni, può rilasciare due ioni 𝐻𝐻+ , quindi il suo peso
equivalente è la metà del PM. Il peso molecolare dell’acido solforico è 98, il suo peso equivalente quindi
sarà 49.
Una soluzione di acido solforico 1 molare sarà 2 normale perché contiene 2 equivalenti per litro.

L’acido cloridrico HCl può rilasciare 1 solo ione 𝐻𝐻 + , quindi nel suo caso PM e peso equivalente coincidono,
1 molare di HCl è anche 1 normale.

La normalità si usa soprattutto per i calcoli stechiometrici.


Nel caso di composti come l’NaCl, normalità e molarità sono coincidenti. Ma negli altri due casi 𝐵𝐵𝐵𝐵𝐵𝐵𝐵𝐵2 e
𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴3 è diverso, perché il Ba ha 2 cariche e l’Al ha 3 cariche, di questo bisogna tener conto cercando gli
equivalenti.
Nel caso dell’ 𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴𝐴3 il peso equivalente dello ione è 1/3 del peso molecolare.

In questa immagine c’è il caso dell’acido solforico di cui parlavamo prima. Perché si parla di equivalenza? Se
io voglio neutralizzare una mole di acido solforico, quante moli di NaOH devo utilizzare?
Per un equivalente di NaOH che sono 40 g uguale al PM, non posso usare per la neutralizzazione reciproca
98 g di acido perché ne neutralizzerei solo la metà. Quindi ne uso un equivalente che sono la metà del PM.
49 g di acido solforico vengono esattamente neutralizzati da 40 g (che è il PM) di NaOH. Questo è come
dire che 49 g di acido solforico sono equivalenti a 40 g di soda caustica (NaOH) perché si neutralizzano
perfettamente. Come numero di moli serve il doppio di soda caustica perché l’acido solforico in qualche
modo vale doppio visto che libera 2 ioni 𝐻𝐻 + e quindi per avere la neutralizzazione devo usarne la metà.

La normalità si indica con la lettera N.

(se faremo un compito scritto all’esame non ci sarà la Normalità tra gli argomenti)
La molalità (m)

La molalità essendo riferita non ad 1l, ma a 1000g di acqua, non varia con la temperatura (a differenza della
molarità, che dipende dal volume del solvente). L’abbassamento crioscopico e innalzamento ebullioscopico
dipendono dalla molalità e non dalla molarità.
Come faccio a convertire molarità in molalità? Per la maggior parte delle sostanze sono disponibili delle
tabelle che danno densità e peso specifico, quindi io posso sapere qual è il volume occupato per esempio
da un tot di soluto. Con una semplice proporzione io posso dire, se ho 0,1 moli disciolte in 993 g di acqua,
quanti grammi avrei disciolto della stessa sostanza per arrivare invece che a 993 a 1000g (il risultato della
proporzione è la molalità).
In questa immagine, la sostanza che viene rappresentata è il permanganato di potassio 𝐾𝐾𝐾𝐾𝐾𝐾𝐾𝐾4 che è un
forte ossidante. Una volta le soluzioni diluite di permanganato di potassio si utilizzavamo come antisettici
per uso locale.
Il matraccio è tarato a 250 ml. Il contenitore dell’acqua, chiamato spruzzetta, ha il vantaggio che è chiuso e
basta premere leggermente ed esce un getto d’acqua. Se usato con attenzione, la spruzzetta permette
anche di far scendere l’acqua senza versarne fuori, poi per non sbagliare o esagerare viene utilizzato in
laboratorio la pipetta Pasteur.
Diluizione di una soluzione

Questa è la diluzione di una soluzione. Le soluzioni concentrate, che poi possono servire per preparare
volumi maggiori in soluzioni più diluite, si chiamo di solito soluzioni madre.
Molte volte in laboratorio conviene prepararsi delle soluzioni concentrate che poi si conservano
accuratamente e al momento dell’uso si diluisce, che è un operazione molto più veloce e più pratica che
dover ripesare ogni volta grammi o mg della sostanza da disciogliere.
Ci sono sostanze che si prestano bene alla preparazione di soluzioni madre perché rimangono inalterate per
molto tempo, eventualmente conservate al buio se sono sensibili alla luce. Altre sostanze invece non si
prestano perché magari allo stato solido sono composti stabili inalterabili, ma sciolti in acqua non durano a
lungo. In quel caso bisogna riiniziare da capo.

Nell’immagine in alto a destra vediamo la formula generale universale che è la legge delle diluizioni
𝑀𝑀1 𝑉𝑉1 = 𝑀𝑀2 𝑉𝑉2 . Anche questa è “figlia” di una proporzione, il prodotto della molarità per il Volume della
concentrazione iniziale è uguale al prodotto della molarità per il volume della soluzione diluita finale.
Nell’immagine la legge delle diluizioni è stata applicata a questo problema. Abbiamo una soluzione madre
concentrata di cloruro di calcio 10 M (il cloruro di calcio è molto solubile per questo si può preparare una
soluzione estremamente concentrata) e vogliamo prepararci 3 litri da questa soluzione madre, di una
soluzione diluita di cloruro di calcio cioè 0,5 M.
Applichiamo la formula
𝑀𝑀1 𝑉𝑉1 = 𝑀𝑀2 𝑉𝑉2 cioè

10 x 𝑉𝑉1 = 0,5 x 3

𝑉𝑉1 = 0,15

𝑉𝑉1 indica quanto devo prendere di questa soluzione concentrata per ottenere 3 L di una soluzione 0,5 M.

Trasferendo la soluzione da un matraccio all’altro il numero di moli non aumenta e non diminuisce. Bisogna
ricordarsi che la legge di Lavoisier vale sia per le reazioni elementari, sia per quelle più complicate (nulla si
crea, nulla si distrugge).
Se io avevo in totale 1,5 moli anche se aggiungo acqua, sempre 1,5 moli ci saranno, quindi la quantità
assoluta di cloruro di calcio non può cambiare, ma cambierà la concentrazione che diminuisce perché sta
diluendo cioè aggiungendo acqua.
Qui non c’è nessuna reazione ma solo una diluizione, quindi non c’è bisogno di scomodare gli equivalenti.

Fattore di diluizione

Qui la concentrazione di questa soluzione è 100 000 volte meno della soluzione madre originaria. Bisogna
ricordarsi sempre che il numero di Avogadro, cioè il numero di particelle che formano una mole, è un
numero gigantesco ma non è infinito. Quindi se si parte da una soluzione già diluita e un piccolo volume e
diluisco per 10 volte un certo numero di volte, alla fine avrò acqua.
Questa è la considerazione elementare che ci spiega l’assurdità della omeopatia. I cosiddetti omeopati
fanno queste diluzioni ma non decimali ma centesimali, quindi ogni volta non diluiscono 10 volte ma 100
volte. Dopo un certo numero di queste diluizioni seriali alla fine si otterrà acqua, cioè starà somministrando
il nulla.
L’omeopatia è nata qualche secolo fa quando ancora [non esistevano] questi concetti che a noi oggi
sembrano ovvi, cioè il fatto che le molecole presenti in una mole sono un numero enorme ma definito (il
numero di Avogadro) e che quindi siccome le molecole non si creano e non si distruggono dal nulla, se
diluisco più volte alla fine posso dimostrare che statisticamente lì dentro molecole di soluto praticamente
non ce ne saranno più.

Concentrazione molare

Nell’immagine ci sono 200 ml, quindi se in un litro c’era una mole, in 0,2 litri ci devono essere 0,2 moli.
Esame Chimica e propedeutica biochimica

Docente Enrico Sanjust

Lezione n. 9 del 3/11/21

Sbobinatore Carolina Apogeo

Equilibrio chimico e cinetica chimica.


Termodinamica
Entalpia, Entropia, Energia libera.

In una reazione chimica, lo stato iniziale si chiama quello dei reagenti, e lo stato finale quello dei prodotti.
Uno dei modi un cui le reazioni possono essere classificate, è dividerle tra quelle che avvengono senza
variazione del numero di ossidazione dei reagenti quando si trasformano in prodotti, e invece quelle in cui
tale variazione c'è, e allora parliamo di
reazioni di ossidoriduzione, chiamate
anche reazioni redox.

Si possono fare anche classificazioni


diverse rispetto a quella che siano redox
o non redox. Infatti, ci sono le reazioni
di sostituzione singola o doppia, che si
chiamano anche di scambio semplice o
di doppio scambio.

Da un punto di vista macroscopico e


pratico, le reazioni possono essere
anche divise in reazioni reversibili e
irreversibili.

Si chiamano reazioni irreversibili quelle


reazioni nelle quali non è possibile in
modo semplice o immediato tornare indietro dai prodotti, ripristinando i reagenti.

Si chiamano invece reversibili quelle reazioni in cui è possibile tornare indietro, e anzi, questo avviene anche
durante la reazione stessa, nel senso che al termine della reazione che ci interessa, noi possiamo constatare
che, (pur avendo perfettamente azzeccato la stechiometria della reazione, quindi avendo fatto in modo che
non rimanessero reagenti in eccesso, perchè magari non avevamo rispettato la legge delle proporzioni
definite e costanti, (Legge di Proust)), comunque ad un certo punto la reazione non va più avanti, ed è
rimasta una certa quantità, più o meno rilevante, di reagenti.
Questo dipende dal fatto che in realtà nella maggior parte delle reazioni noi osserviamo che ci siano due
reazioni contemporaneamente: una reazione diretta, ma anche la reazione inversa. Si arriva ad un punto in
cui queste due velocità della reazione diretta e inversa diventano identiche. In quel momento, diciamo che
la reazione abbia raggiunto il suo equilibrio dinamico.

1
La reazione non si è fermata
nel frattempo, perchè
questo è l effetto che noi
possiamo osservare, però la
reazione continua in
entrambe le direzioni,
diretta e inversa;
semplicemente, ad un certo
punto, si raggiunge l
equilibrio.
Se noi trattiamo per
esempio il tricloruro di
fosforo (PCl3) con cloro (Cl2),
osserviamo che i due
reagenti si combinano per
dare il pentacloruro di
fosforo (PCl5).

PCl3+ Cl2⇄ PCl5

La reazione parte veloce ma a poco a poco rallenta, e, se noi ad una certa temperatura (che manteniamo
costante ) scopriamo che nel recipiente sigillato (che abbiamo aperto appositamente per fare delle analisi)
in cui abbiamo fatto avvenire la reazione, non solo c'è il PCl5, che è la sostanza che volevamo produrre, ma è
rimasta anche una quantità non trascurabile di reagenti che non hanno reagito, noteremo che sia rimasta
appunto anche una certa quantità di PCl3, e di Cl2.
È anche interessante notare che le proporzioni tra queste tre sostanze, ovvero i due reagenti ed il prodotto,
variano al variare della temperatura alla quale abbiamo fatto avvenire la reazione.

Infatti, se lavoriamo a bassa temperatura, la quantità di PCl3 e di cloro libero che sono rimasti, sarà quasi
trascurabile.
Invece, se facciamo avvenire la reazione a caldo, al crescere della temperatura diminuisce la percentuale di
PCl5 che si è formata, e rimane sempre più PCl3 e Cl2 non reagiti.
Se la temperatura supera un certo valore, addirittura scopriamo che la reazione si ferma ben presto, nel
senso che nell analisi del recipiente, scopriamo che il grosso del PCl3 e del cloro non hanno reagito, quindi
c'è sempre meno PCl5 e, se la temperatura è veramente elevata, alla fine abbiamo solo PCl3 e Cl, e PCl5 non
ce n'è.
Quindi, possiamo dire che la posizione dell equilibrio dinamico è funzione della temperatura .
È importante notare che, se vogliamo sottolineare la reversibilità di una reazione, dobbiamo usare il
simbolo delle doppie frecce indicato, che hanno un significato ben diverso rispetto a quello della freccia a
due punte, che, usata in questo contesto, sarebbe decisamente sbagliata.

La doppia freccia ⇄ infatti, si usa per situazioni di equilibrio, e la si può usare anche per gli isomeri, se essi
sono in equilibrio fra di loro, quindi per due sostanze che si trasformano in continuazione l una nell altra
(situazione che è la regola in biochimica) .

Invece, la freccia a due punte ⇿ si usa quando si indica convenzionalmente le forme limite mesomere,
quindi quando si vuole indicare graficamente una situazione in cui esiste una delocalizzazione degli
elettroni, attraverso ad esempio la partecipazione di doppi legami, o di coppie elettroniche non condivise.

2
I potenziali reagenti non si mischiano a caso, ma devono avere delle caratteristiche di reattività chimica tali
da poter consentire la reazione. Se mescolo due metalli come il sodio e il potassio, innanzitutto devo
lavorare con le adeguate precauzioni perchè sono metalli molto elettropositivi e reattivi, e quindi all aria
possono anche facilmente prendere fuoco, se non li tratto con il dovuto rispetto. Però, li posso mescolare in
un ampolla di vetro in cui ho fatto il vuoto, e la sigillo, perchè basta scaldare leggermente questi metalli che
sono bassofondenti, e facendoli fondere li posso poi mescolare.
Il fatto che io li mescoli non significa che decidano di reagire però, e infatti non reagiranno.
Comunque, devo tenere sempre presente che una reazione dipenda, oltre che da tante altre condizioni, da
una affinità intrinseca che i due costituenti, ma possono essere anche 3, 10, o quelli che voglio, devono
avere fra di loro. Se questa affinità non esiste, posso fare tutte le miscele che voglio, posso anche scaldare,
comprimere se per esempio sono gas, ma non succederà niente. Questa affinità intrinseca di per se' però
non è sufficiente.
Un altro elemento fondamentale di tutte le
reazioni chimiche , è la velocità con cui
possono avvenire.
Infatti può essere che due sostanze, che
siano elementi, composti, o una un
elemento ed una un composto, abbiano fra
di loro una forte affinità chimica, ma
questo da solo non è sufficiente a decidere
che la reazione avverrà in tempi che noi
possiamo misurare.
Devono essere possibili urti casuali tra le
molecole. Se io per esempio ho dei gas che
tra di loro reagirebbero, ma li metto in una
condizione di estrema diluizione, quindi
bassissima pressione, (che significa che lo
spazio occupato dal gas di fatto è occupato
dal vuoto in gran parte), ammesso che la
reazione avvenga, avverrà con una velocità
molto bassa, Questo perchè , le probabilità che le molecole del gas A , nel loro movimeto casuale urtino le
molecole del gas B, sono ovviamente bassissime.
Questo problema degli urti, vale anche per delle sostanze che non sono gassose.
Se io ho due liquidi fra di loro immiscibili, per esempio acqua e olio, la superficie di contatto, rispetto al
numero di molecole che formano l acqua e olio, è insignificante. Ammesso che io abbia un olio che può
reagire con qualcosa che è disciolto in quell acqua, la reazione presumibilmente, non avverrà. Per esempio,
se preparo una soluzione di soda caustica NaOH, e ci verso sopra dell olio d oliva o di semi, in teoria,
facendo tutti i bilanci energetici e controllando i meccanismi di reazione, mi dovrei aspettare una reazione
fra queste due sostanze, che dovrebbe trasformare l olio e la soda caustica, in una miscela di sapone e di
glicerina ( o glicerolo ) . Invece, se lascio così non succede nulla, perchè la superficie di contatto tra acqua e
olio, è talmente esigua rispetto al gran numero di molecole, che la reazione avviene con una velocità
talmente bassa da non essere misurabile, ed è praticamente uguale a zero.
Se prendo il lievito chimico in polvere per dolci, è costituito da due sostanze in polvere intimamente
mescolate, che sono carbonato acido (o bicarbonato) di sodio NaHCO3 , e una sostanza acida, ovviamente
compatibile ed innocua per la nostra salute , che può essere acido tartarico C4H606, tartrato acido di
potassio KC4H5O6, fosfato acido di sodio NaH2PO4 ( anch esso è in polvere ).
Le bustine di lievito, se conservate all asciutto, si conservano inalterate per anni e anni. Queste due
sostanze, dovrebbero reagire,e si dovrebbe sprigionare CO2, che poi dà luogo a quelle microbolle che danno
l aspetto di una pasta lievitata naturalmente.

3
Invece, non succede niente sino a che non aggiungiamo a quella polverina e la incorporiamo nella pasta
che dobbiamo poi infornare . Questo perchè, per quanto la polvere sia sottile, queste sostanze non riescono
ad avere il giusto contatto per poter entrare in reazione. Nel momento in cui però noi le aggiungiamo alla
pasta da lievitare,ecco che la reazione parte grazie al fatto che questi reagenti verranno solubilizzati dall
acqua contenuta nella pasta . Una volta entrati in soluzione, verranno quindi solvatati dalle molecole d
acqua, che però consentiranno l avvicinamento il tanto che basta perchè, nel giro di pochi minuti, entrino in
reazione. La polverina lievitante infatti dev'essere sempre aggiunta alla fine, perchè se la si aggiunge troppo
presto, poi tutte quelle bollicine si uniscono diventando delle grosse bolle, e la lievitazione artificiale fallisce.
Invece, se dovessimo usare il lievito vero, che diversamente è fatto da cellule vive, queste continuano a
lavorare e produrre CO2,fermentando la pasta, per tutta la durata del processo. Lì al contrario bisogna dare
a queste cellule il tempo di svolgere il loro lavoro, perchè, se aggiungiamo il lievito (di birra, madre, ecc.),
ma non diamo il tempo alla pasta di lievitare, le cellule di lievito vengono cotte, muoiono e quindi la
lievitazione fallisce.
Le pizze che compriamo nelle pizzerie talvolta disturbano la nostra digestione perchè, per farle cuocere
velocemente in modo da poterne preparare di più, vengono cotte a temperatura elevata ma per pochissimo
tempo, quindi non tutte le cellule di lievito che sono state usate sono morte e, se noi le mangiamo, non
muoiono neanche nello stomaco, ma soprattutto se dopo mangiamo dei dolci o beviamo una bevanda
zuccherata, quelle cellule si rianimano, e continuano la lievitazione nel nostro stomaco, ed eventualmente
anche oltre, causando acidità e fastidio.
Gli urti devono avvenire con l orientamento corretto.

Questo significa che, se stiamo parlando di ioni semplici, come Na+ e Cl-, stiamo parlando di ioni che non
reagiscono tra di loro, ma formano allo stato solido dei cristalli, e nella soluzione ioni, ed hanno simmetria
sferica, e quindi non c'è una direzione preferenziale dove deve avvenire l urto. Tuttavia, molte molecole
anche semplici, non hanno quel tipo di simmetria sferica, quindi l urto può anche avvenire tra le due
molecole che devono reagire, ma, se è con l orientamento sbagliato, non succede nulla, e le due molecole
urtano e rimbalzano (come due palline sul tavolo del biliardo), e ciascuna se ne va per la sua strada.
Se io invece devo formare dei nuovi orbitali molecolari, perchè devo formare un nuovo composto con dei
nuovi legami, serve una certa quantità di energia per costringere gli orbitali atomici iniziali a mescolarsi per
dar luogo ad orbitali molecolari. Quindi, le molecole devono avere in partenza una certa energia.
• Come si fa ad aumentare l energia delle molecole? Aumentando la temperatura.
Se in una reazione, i reagenti sono eccessivamente diluiti, la reazione non avverrà ad una velocità
misurabile, perchè la probabilità che le molecole di reagente si incontrino sono realmente basse, tanto che
di fatto la reazione rimane ferma, e questo spiega perchè ci siano moltissime cose, non sono in laboratorio,
che si devono effettuare con reagenti concentrati.
Es: Se voglio smacchiare da un asciugamano una macchia ostinata, è inutile usare la varechina diluita; devo
usarla concentrata, perchè deve aumentare drasticamente la probabilità che che la parte attiva delle
molecole di varechina, cioè lo ione ipoclorito ClO- , possano interagire, quindi urtare, le molecole per
esempio di caffè, che ha macchiato l asciugamano.
Nel moto lineare uniforme, posso fare il rapporto tra lo spazio percorso ed il tempo impiegato a
percorrerlo,e posso anche calcolarmi la velocità istantanea, trasformando questo rapporto nella derivata
prima; nella stessa maniera posso estendere questo concetto di velocità anche ad una reazione chimica,
solo che qui non ci sarà uno spazio percorso, ma un numero di molecole di reagente che sono sparite,
oppure un numero di molecole di prodotto che si sono formate.

4
Se ho una reazione come questa
scritta nella slide in cui A e B sono i
reagenti e C e D sono i prodotti,(ma il
discorso si può estendere ad un numero
qualunque di particelle di reagente o di
prodotto), io ho quattro modi
equivalenti di esprimere la velocità di
quella reazione e, se A,B,C e D sono
specie di cui in un laboratorio ho la
possibilità di misurare accuratamente le
concentrazioni, sono in grado di capire
la velocità di quella reazione.
• Perchè c'è il meno davanti alla
derivata prima di A ed alla derivata
prima di B fatte rispetto al tempo?
Per una ragione matematica semplice,
ovvero che A e B, rispetto al tempo,
sono funzioni decrescenti, perchè dato
che sono reagenti, io mi devo aspettare che la
loro concentrazione diminuisca con il tempo a
mano a mano che la reazione va avanti.
Quindi al tempo zero, che è il tempo in cui
mescolo A con B, avrò una certa
concentrazione iniziale di A e di B, la quale
tende a diminuire più o meno rapidamente a
seconda di quanto è veloce la reazione. La
derivata prima di una funzione decrescente, è
un numero negativo, e quindi bisogna poi
cambiare il segno per vedere una velocità
positiva, perchè una velocità negativa non
avrebbe senso.
Invece le concentrazioni dei prodotti C e D, si
suppone che siano funzioni crescenti: al
tempo zero non ce n'era nulla, e a mano a
mano che si va avanti si formano sia C sia D.
Quindi , la loro derivata prima fatta rispetto al tempo, sarà appunto una funzione crescente, avrà il segno
positivo e quindi non dovremmo modificare nulla.

Questi quattro numeri, una volta che cambio il segno ai primi due, sono uguali. Nella maggior parte delle
reazioni, la velocità di reazione non è costante ma, a mano a mano che la reazione procede, la sua velocità
diminuisce, perchè si arriva ad una situazione di equilibrio, in cui alla fine se non variano più, la velocità
globale della reazione si è fermata, sia che io misuri la scomparsa del reagente, sia che misuri la comparsa
del prodotto. In realtà poi quelle due velocità non sono diventate pari a zero, ma sono diventate identiche.
Però, quello che osservo macroscopicamente è che la reazione è ferma , quindi dico che ho raggiunto l
equilibrio.

5
Una reazione che è stata molto studiata è quella fra Iodio ed Idrogeno,che si può fare anche in fase gassosa.
Lo Iodio in condizioni normali è un solido che forma delle scaglie luccicanti di colore nero, ma basta scaldare
lievemente e vengono subito fuori dei vapori di colore viola, che non è assolutamente consigliabile respirare
però, perchè nonostante non siano
nocivi come il cloro, a lungo andare
potrebbe creare dei buchi nei
polmoni.
In questo grafico si vede come
diminuisce la concentrazione dell
idrogeno a mano a mano che
aumenta la concentrazione dello
ioduro di idrogeno HI, che è un gas
estremamente solubile in acqua, che
dà luogo immediatamente a
dissociazione elettrolitica quando si
scioglie in acqua, e prende allora il
nome di acido iodidrico. Tra gli acidi
comuni, è uno dei più forti.
Prendiamo il caso di una reazione
generale.
Con le lettere maiuscole indico il composto preso in esame.
Le lettere minuscole invece sono i coefficienti stechiometrici, cioè quei numeri che indicano i rapporti tra le
varie specie reagenti e le varie specie prodotte (rapporti non di peso, ma di numero di particelle, cioè di
molecole, o eventualmente ioni).
Uno ione una volta che si è formato non rimane così per sempre. Per esempio uno ione Na+ ha una certa
tendenza a sbarazzarsi dello ione periferico, (così come ce l ha lo ione K+) , e questa tendenza è talmente
forte, che nelle condizioni normali che interessano la vita di tutti i giorni e a maggior ragione l ambito
medico, sodio metallico o potassio metallico, non li vedremo mai.
Invece, lo ione argento Ag+, non ha questa tendenza così forte a rimanere nella forma ionica. Anzi, in molte
reazioni, si riprende quell elettrone da chi è disposto a darglielo, e torna argento metallico.
I metalli i cui ioni hanno più o meno forte la tendenza a ridursi allo stato elementare, cioè diventare metalli
con numero di ossidazione zero, non per nulla vengono chiamati metalli nobili, per esempio: oro,
argento,platino, e addirittura il rame,
anche se il suo tasso di nobiltà è più
modesto.
In una reazione generale come quella
disegnata affianco, a volte si trova
sperimentalmente che la velocità con
cui la reazione avviene, è data
matematicamente parlando da un
prodotto tra le concentrazoni dei
reagenti, ciascuna elevata al proprio
coefficiente stechiometrico (quindi, se
c'erano due molecole di A che
reagivano, ci sarà A2 ), e questo
prodotto, a sua volta moltiplicato per
un valore che è caratteristico di ogni
reazione considerata. Quindi ogni
reazione fra milioni di reazioni

6
chimiche esistenti, avrà quel particolare valore costante, purchè sia mantenuta costante la temperatura.
Convenzionalmente, si usa la lettera k (minuscola) e, questo particolare fattore caratteristico di ogni
reazione chimica considerata, si dice che sia la costante di velocità di quella reazione.
Quando noi bilanciamo una reazione chimica, lo facciamo in base ai prodotti che otteniamo, e quindi siamo
in grado di trovare anche sperimentalmente oltre che teoricamente i coefficienti stechiometrici di ciascun
reagente, in funzione di quelli di ciascun prodotto. Per esempio si trova che per evitare che avanzino H e O
non reagiti, perchè presenti in quantità eccessiva, per ogni molecola di O2 me ne servono due di H2. Se io
aggiungo H2 e ne metto tre, una molecola di H2 rimarrà non reagita, quindi avanza e rimane in più. Quindi,
dire che servano due molecole di H2 per ogni molecola di O2 quando li facciamo reagire per ottenere H2O,
significa dire che stiamo definendo la stechiometria di quella reazione. Sorattutto per le reazioni più
complicate rispetto a questa di cui abbiamo appena parlato, anche quando conosco perfettamente la
stechiometria della reazione, non è mica detto che il meccanismo con cui le varie molecole reagenti si
uniscono per dare le molecole dei prodotti, sia quello stechiometrico. Anzi, più son grandi i coefficienti
stechiometrici, meno vero è che stechiometria e molecolarità della reazione coincidano.

La molecolarità di una reazione indica quali e quante sono le particelle che collidono tra di loro, per dar
luogo alla singola reazione elementare.

Reazione elementare vuol dire che nelle reazioni più complicate a cui parteipano un gran numero di
molecole , noi possiamo essere pur certi che in realtà quella reazione , anche se stechiometricamente
perfetta, in realtà è data da un certo numero di reazioni elementari consecutive.
Questo è dovuto al fatto che si può dimostrare con il calcolo delle probabilità che, mentre possono
tranquillamente esistere reazioni unimolecolari e bimolecolari, le reazioni permolecoleri sono già rare, e di
fatto non si conosce neanche una reazione di molecolarità superiore a tre.

Nelle reazioni unimolecolari, una sola molecola A è in grado di diventare una sola molecola Z,
semplicemente urtando le pareti del recipiente, o altre molecole che incontra, ma con le quali non dà una
vera reazione, semplicemente raggiunge il livello energetico sufficiente per cambiare la propria struttura.
Esempio di reazione unimolecolare:
L acido cianico gassoso HOCN, che diventa acido isocianico più stabile HNCO.

Poi ci sono le reazioni bimolecolari, che forse sono le più frequenti, in cui A e B si incontrano, e danno C+D.

Le reazioni permolecolari invece, sono così rare perchè vuol dire che A+B+C devono collidere, e cioè
scontrarsi, in contemporanea. Non prima B e poi C, altrimenti sarebbero due reazioni elementari.
La probabilità che questo avvenga è relativamente bassa, il che spiega perchè non se ne conoscano
moltissime di queste reazioni.

L incontro o scontro contemporaneo di A+B+C+D invece, ha una probabilità di verificarsi talmente bassa,
che praticamente non si conoscano reazioni che avvengano in questa maniera, (anche se
stechiometricamente noi potremmo scriverla tranquillamente).
Quando noi torniamo a quest espressione matematica con le derivate:
v = - d [A]/dt = - d [B]/dt = d[M]/dt = d[N]/dt = k1 [A]a [B]b

7
se facciamo la somma di questi
esponenti, a+b più eventualmente
gli altri, otteniamo un numero che
viene definito ordine della
reazione.
L ordine della reazione è
importante nella trattazione
matematica delle reazioni
chimiche, per quanto riguarda il
decadimento radioattivo di isotopi
instabili, ed è importante per
esempio per capire come avviene
la biodegradazione di certi
farmaci all interno del corpo
umano, e soprattutto l ordine di certe reazioni è fondamentale per quanto riguarda la biochimica, la
fisiologia, la patologia, la farmacologia, quindi è un concetto più importante di quanto si pensi. Infatti, alla
base della medicina, ci sono necessariamente certi concetti della chimica.

Le reazioni di ordine zero, sono delle


reazioni in cui la velocità della reazione
non dipende dalla concentrazione dei
reagenti, ma rimane costante sino a che
in teoria tutto il reagente è consumato, e
quindi è diventato tutto prodotto.
Molte volte si parla di reazioni di pseudo
ordine zero, anche perchè posso calcolare
l ordine di reazione reagente per
reagente, per esempio posso calcolare l
ordine di reazione rispetto ad A, quindi al
posto di A potrebbe esserci 1, quindi in
questo caso non dovrei mettere niente,
perchè l esponente 1 si sottintende nella
notazione chimica. In questo caso, direi
che la reazione sia di primo ordine rispetto al reagente A.
Se dove c'è B ci fosse il numero 2, potrei dire che l ordine della reazione sia 2 rispetto al reagente B. E potrei
dire che rispetto alla reazione totale, l ordine di reazione sarà 3, perchè 1 per A più 2 per B.
In chimica, le concentrazioni si esprimono entro parentesi quadre.
Mentre nel caso delle reazioni di ordine zero o pseudo ordine zero, la velocità rimane costante, sia che io
parta da una soluzione concentrata, sia che parta da una diluita, nel caso invece delle reazioni di primo
ordine, la reazione parte con una certa velocità ma, a mano a mano, diminuisce, fino a che diventa zero, o
perchè è stato raggiunto l equilibrio, oppure, se era una reazione irreversibile, perchè il reagente A è stato
consumato tutto.
Se nella formula la concentrazione di A è zero, dà luogo ad una velocità pari a zero.
Le reazioni di secondo ordine non dipendono dalla concentrazione di A, ma dalla concentrazione di A2.
Oppure eventualmente se c'è di mezzo un reagente B, possono dipendere contemporaneamente dalla
concentrazione sia del reagente A che del reagente B.
Se io parto da un punto di vista anche pratico sperimentale da una concentrazione di A molto elevata, nel
caso della reazione del primo ordine, quindi un reagente concentratissimo, se la reazione di per se' non è
troppo veloce, a mano a mano che la reazione va avanti, almeno nel primo periodo della reazione stessa, io

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parto da un numero molto grande della concentrazione di A, che a poco a poco diminuisce, perchè la
concentrazione di A sparisce e diventa prodotto.
Tuttavia, se il numero di partenza è grande e la velocità non è molto elevata , quindi la reazione è un po'
lenta, in prima approssimazione io posso dire che la concentrazione di A rimanga invariata, e allora anche
che la velocità rimanga invariata, e persino che sia una reazione di pseudo ordine zero.
Di fatto, è come se fosse indipendente dalla concentrazione di A.

Se invece avessimo una reazione che segue la legge cinetica v=k[A][B] , darebbe luogo ad un espressione
matematica un po' complicata.
Allora si potrebbe fare così: anche se il rapporto stechiometrico corretto per quella reazione sarebbe ogni
molecola di A per ogni molecola di B, io potrei preparare una provetta in cui per ogni molecola di A ne
metto 100 di B, sapendo che tanto 99 non verranno usate.
Questo significa che a mano a mano che la reazione va avanti, A sparisce, ma B si modifica (come
concentrazione) pochissimo, perchè di quelle 100 molecole ne userò solo una.
Allora posso dire che, in quelle condizioni, posso fare tutti i calcoli per ricavare la velocità, trattandola nella
maniera matematicamente più semplice, ossia come se fosse una reazione del primo ordine, perchè B
praticamente non varia, e dirò che sia una reazione di pseudo primo ordine.
Questa è una caratteristica molto frequente in biochimica, quando entrano in ballo gli enzimi, che sono il
cuore della biochimica, perchè senza di loro non esisterebbe non solo la vita umana, ma neanche quella dei
virus più primitivi.

Il pentossido di diazoto N2O5 , che poi corrisponde all anidride dell acido nitrico HNO3, facilmente si
decompone liberando ossigeno. Questa è una reazione di tipo redox perchè il numero di ossidazione dell N
diminuisce, infatti da +5 diventa +4, mentre quello dell O che si è liberato è aumentato, perchè è andato da
-2 a 0. Per definizione, tutti gli elementi allo stato libero, hanno numero di ossidazione pari a zero, perchè
non hanno ne' elettroni in più, ne' in meno.

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La reazione 2N2O5 ----> 2N2O5 + O2 è di primo ordine. A primo impatto potrebbe sembrare del secondo
ordine, cioè potrebbe far pensare che la velocità fosse data dalla k tipica di questa reazione , moltiplicata
per la concentrazione di N2O5 elevata al quadrato, (perchè nella stechiometria ce ne sono due). Invece si
trova che non sia così.
Questa reazione : H2+ I2---> 2HI
invece è una reazione di secondo ordine che
dipende sia dalla concentrazione dell H, che
dalla concentrazione dello I. Se io faccio
reagire l ossido nitrico NO (che è quello che
si forma nei temporali durante le scariche
elettriche) con il Cl2, ottengo un composto,
ed ottengo una reazione che, da un punto di
vista sperimentale, cioè se faccio degli
esperimenti misurando tutte le
concentrazioni sia di NO, sia di Cl2, sia si
NOCl, scopro che risponde a questa
equazione : V= k[NO]2 [Cl2]
che è del terzo ordine.
Si trova anche che questa non sia una
reazione permolecolare.
Analizzando bene, si è visto che Cl2 reagisca
prima con una sola molecola di NO,e si forma
NOCl e un atomo di Cl da solo, quindi un
radicale, il quale subito dopo attacca la
seconda molecola di NO, e, facendo la
somma di queste due reazioni, si trova quella
definitiva 2NO + Cl2 ---> 2NOCl , ma non è
permolecolare, perchè le tre particelle non si uniscono in contemporanea, ma prima due, e poi arriverà la
terza. Però, guardando solo l ordine della reazione, non posso capire quale sia la molecolarità della
reazione, cioè il meccanismo
con cui queste particelle
collidano tra loro, infatti , ci
vogliono altri esperimenti.
Ecco l isotopo radioattivo dell H
: 3H ----> 3He+ β -

Gli elettroni in queste reazioni si


possono indicare con la lettera
minuscola e in alto l esponente
“-”, oppure, soprattutto se
stiamo parlando di isotopi
radioattivi piuttosto che di
reazioni di ossidoriduzione, si
usa la lettera greca beta β , però
vuol dire sempre la stessa cosa.
• Come mai si usa la
lettera greca β ?

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Perchè il secondo tipo di radiazioni nucleari, dopo che furono scoperte quelle chiamate alfa α , furono
proprio quelle β . Quindi, se vogliamo parlare di elettroni in redox usiamo e- , se invece ne stiamo parlando
in un contesto di radiochimica, allora si usa la lettera greca β .

Le reazioni di primo ordine hanno una caratteristica interessante, che è l esistenza del cosiddetto tempo di
dimezzamento, oppure emivita o anche semivita.

Se io ho 1 kg di
Uranio U,
scoprirò che
dopo un certo
numero di anni,
quel kg è
diventato
mezzo kg. Il
resto è
diventato un
po' Torio Th ,
un po' Piombo
Pb e un po' altri
elementi. Quel
certo numero
di anni
necessario
perchè quel kg
diU si sia dimezzato diventando mezzo kg, si chiama il suo tempo di dimezzamento. Se io faccio passare che
per esempio ci vogliano 10 anni ( in realtà ce e vuole ben di più), dopo altri 10 anni non è che sparisce il
mezzo kg che è rimasto, ma ne sparisce la metà. Quindi, dopo 20 anni, del kg di partenza ne avrò 250 gr. , e
così via, perchè dopo 30 anni ne avrò 125 gr. ; quindi ne sparisce la metà ogni 10 anni.
Infatti, la velocità con cui avviene la reazione di primo ordine con il tempo diventa sempre più piccola,
quindi il processo tende a rallentare, e tende asintoticamente a zero, cioè, per farlo sparire del tutto in
realtà, servirebbe un tempo infinito.
Questa è una caratteristica del decadimento radioattivo, ed è molto utile per esempio per determinare la
datazione di resti antichi. Infatti
per esempio i composti del C
presenti sulla superficie della
terra, hanno una proporzione
tra i vari isotopi che rimane
costante,e, in particolare, il C
normalmente contiene una
certa piccola percentuale dell
isotopo chiamato carbonio14,
che è radioattivo, e di cui il
tempo di dimezzamento è
perfettamente conosciuto.

Nel momento in cui la materia


vivente, quindi per esempio un
organismo o una parte di un
organismo muore, non c'è più la

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possibilità di rifornirsi di C, compreso il carbonio14, quindi la percentuale di C14 presente in quel resto con il
tempo diminuisce, e siccome il tempo di dimezzamento è perfettamente noto, un analisi del contenuto di
carbonio14 del reperto ci permette di datare, con una certa precisione, l epoca in cui è morto.
Che poi sia un tronco d albero, uno scheletro di un animale vissuto molto tempo fa e poi mummificato, un
insetto rimasto prigioniero nell ambra antica fossile che si può trovare da certe parti o qualche altra cosa,
comunque noi riusciamo a risalire con eccellente approssimazione all epoca in cui quell organismo o parte
di esso, ha cessato le proprie funzioni vitali, quindi è morto.

Al tempo zero, quindi con la massima concentrazione dei reagenti, partiamo da una certa velocità e
possiamo misurarla, se abbiamo un reagente che può essere controllato in laboratorio con qualche
procedura semplice, e, dall andamento di come varia la velocità del tempo al diminuire della
concentrazione del reagente stesso, possiamo capire se quella reazione
1. ha ordine zero, cioè la velocità è sempre uguale ;
2. se è di primo ordine, scende con andamento rettilineo,
3. oppure, se è di secondo ordine, che sono le tre situazioni più comuni che possiamo trovare, allora
descriverà una curva caratteristica che è concava verso l alto.

La temperatura è importante per definire la velocità di una reazione. In tutte le reazioni, che siano reazioni
che avvengono nelle stelle lontane anni luce da noi, oppure reazioni nel nucleo terrestre, dentro la cellula di
un batterio o dentro il corpo umano, tutte le reazioni obbediscono ad una legge generale, che è stata
chiamata Equazione di Arrhenius, dal nome del chimico svedese ottocentesco che la trovò.

La temperatura non è altro che la misura macroscopica del grado di agitazione delle molecole di una
qualunque sostanza.
Più è alta la temperatura, maggiore è la frenesia con cui le particelle di una certa sostanza si muovono. Se
aumenta questa agitazione delle molecole, aumenta anche la probabilità che avvengano degli incontri o
degli scontri tra molecole. Quindi , se tutte le altre condizioni sono rispettate, aumenta la probabilità che
quella reazione avvenga . Tra l altro, aumentare l energia cinetica delle particelle, significa caricarle di un
energia sufficiente affinchè la reazione possa avvenire.

Esempio: Se io sistemo un
uovo su un tavolo da biliardo,
e poi gli lancio una palla da
biliardo sopra, se ho dotato la
pallina in partenza di un
energia cinetica modesta, urto
l uovo ma non lo rompo. Se
invece la aumento, perchè la
lancio con più forza, ecco che
rompo l uovo.

Si trova sperimentalmente ,
sostituendo nell equazione
k=A e -Ea/RT i valori, e
tenendo conto della proprietà

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della funzione esponenziale basata sul numero di keplero (la “e” riportata nella formula), che ogni 10 gradi
di aumento della temperatura, la velocità della reazione nei casi dove l influenza della temperatura è più
scarsa, raddoppia, e nei casi in cui invece è più importante la velocità, triplica. La maggior parte dei casi
ovviamente sono intermedi tra il minimo, cioè raddoppiare, ed il massimo, cioè triplicare.

Questo ci spiega perchè in moltissime reazioni, anche in laboratorio, è previsto di riscaldare, più o meno
fortemente, i reagenti. Anche molti processi industriali si devono per forza far venire a caldo. Se io voglio
trasformare il minerale di ferro in acciaio, devo portarlo a temperature elevatissime dentro apposite
strutture che si chiamano altiforni, dove il minerale di ferro viene mescolato con una certa quantità di
carbone fossile. Infatti sappiamo che l acciaio sia una lega tra il ferro e una certa quantità di carbonio (che
dovrà bruciare alla base dell altoforno, perchè è il calore della combustione di una parte del C , che poi
consente la trasformazione del minerale ferroso in acciaio, che deve fondere).

Infatti, si spilla l acciaio fuso alla base dell altoforno. In realtà non si spilla già l acciaio pronto, ma una lega
liquida, vista la temperatura a cui esce, in cui c'è una quantità eccessiva di carbonio, che si chiama ghisa, e
questa poi in altre strutture dette convertitori, dev essere liberata dalla quantità in eccesso di C, diventando
acciaio. Se liberiamo del tutto il ferro dal carbonio che contiene ancora l acciaio, non è più acciaio ma si
ottiene quello che si chiama ferro dolce. (La dolcezza indica un materiale che viene facilmente deformato. L
acciaio invece è noto per non essere facile da deformare. )

In questa equazione compare la temperatura assoluta, come denominatore dell esponente di “e”, il quale
(esponente) quindi è una frazione.
– La A della formula di Arrhenius si chiama fattore di frequenza, ed è dato dal numero di urti che
avvengono per unità di tempo, e poi c'è un fattore sterico che dev essere determinato
sperimentalmente, che riguarda la corretta orientazione delle molecole. A varia a seconda della
reazione considerata,
dipende da T, e può
essere anche calcolato
facendo una serie di
considerazioni teoriche
che però non sono
importanti per fini
medici.
- R è la solita costante di
conversione dei gas.

- Ea , che è la sigla della


energia di attivazione, e anch
essa è una caratteristica propria
di ciascuna reazione.
- T è la temperatura a cui avviene la reazione. Maggiore è T, maggiore diventerà anche k.
Aumentando di 10 gradi la T, male andando la velocità della reazione raddoppierà.

In questo grafico si vede il variare e in questo caso l aumento della costante di velocità di una certa
reazione, in funzione dell aumento della temperatura. (aumenta esponenzialmente).
Si passa invece ai logaritmi, quando si vuole calcolare l' energia di attivazione di una certa reazione .

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Es: A proposito dell uovo su
cui lancio una pallina sul
tavolo da biliardo dell
esempio precedente, se la
pallina che gli lancio addosso
non ha un certo valore
minimo di energia, l uovo
probabilmente verrà
spostato, ma non si romperà.
Se invece l energia cinetica
che imprimo alla pallina da
biliardo che scaglio sull uovo,
supera un certo valore limite,
allora l uovo si romperà. A
quel punto, dirò che quel
valore limite di energia
cinetica che la pallina da
biliardo deve avere per rompere l uovo quando lo colpisce, è l energia di attivazione di quel processo.
Ogni reazione chimica ha la sua caratteristica energia di attivazione.
Es: Se prendo un berretto e lo appoggio su un piano alto, dal punto di vista della fisica esso ha una energia
potenziale maggiore di quella che avrebbe se invece fosse poggiato su un piano più basso. Quindi, questo
processo, cioè la caduta del cappello da un punto ad uno posto più in basso, da un punto di vista del
bilancio energetico, cioè della termodinamica, è un processo favorito, perchè come sappiamo sono favorite
le situazioni in cui l energia è minima. Quindi su c'è più energia e giù ce n 'è meno per il cappello, quindi se
lo butto giù sto dando luogo ad un processo spontaneo. Se lo lasciassi nel punto iniziale , rimarrebbe lì per
un tempo indeterminato, anche se nel punto più in basso avrebbe un contenuto energetico minore.
Man mano che ci si avvicina al centro della terra, l energia potenziale diminuisce. In teoria, se questo
potesse arrivare al centro della terra, la sua energia potenziale rispetto a quel sistema diventerebbe zero.
Rimane quindi nel punto 1 più in alto, perchè non ha ricevuto un energia sufficiente perchè il processo
parta. Se invece gli dessi un colpetto , il processo partirebbe, e questo perchè, in tal modo, gli fornirei l
energia di attivazione per il processo caduta .
Un discorso del genere vale anche per qualunque reazione chimica. Quando avviene la collisione tra le
particelle, queste devono avere un bagaglio energetico che dev essere almeno uguale ad un certo valore
che è tipico di quella reazione e di quelle particelle, che si chiama appunto l energia di attivazione di quel
processo.

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Ci sono reazioni chimiche che
da un punto di vista del
bilancio energetico sarebbero
estremamente favorevoli, ma
di fatto non avvengono mai.
Se mescolo O2 e H2 gassosi,
posso aspettare anche un
milione di anni e non
succederà nulla.
Però, se io fornisco la giusta
energia dall esterno, avrò una
reazione molto violenta, in cui
la miscela esplode, formando
acqua.
Per le saldature di certi
metalli che fondono a
temperature molto elevate, o anche per dissaldarli, si può usare la cosiddetta fiamma ossidrica: due
bombole di gas separate in cui una contiene O2 compresso e l altra H2 compresso, che possono confluire in
un cannello che poi darà luogo ad una fiamma (quindi non consento l esplosione, ma la faccio proprio
bruciare), la quale produce una temperatura di qualche migliaio di gradi centigradi, che è in grado di
fondere pressochè tutti i metalli.
Tuttavia, se io non accendo, fluirà una miscela dei due gas che non prenderà fuoco, poi l O2 che è molto più
pesante dell aria andrà sotto, e l H2 che è più leggero si separerà e si disperderà. Quindi, non succederà
nulla. Devo per forza accendere, far scoccare una scintilla elettrica, altrimenti non c'è l energia di
attivazione sufficiente perchè la reazione abbia luogo.
La maggior parte delle reazioni biologiche sono dotate di una energia di attivazione piuttosto elevata, ed
ecco perchè la natura ha dovuto sviluppare dei meccanismi per aggirare questo ostacolo e consentire che le
reazioni avessero luogo, e reazioni che di fatto non avverrebbero in tempi misurabili, possono diventare ,
nei sistemi biologici, compreso il nostro corpo ovviamente, talmente veloci che è anche difficile misurare
esattamente anche la velocità a cui queste reazioni avvengono.
• Chi sono i responsabili di ciò? Gli enzimi.

• Perchè lo stato di transizione non è un composto?


Perchè se abbiamo due
atomi A e B, questo è
esattamente il momento
in cui non abbiamo
ancora del tutto
mescolato gli orbitali
atomici, quindi siamo a
metà strada.
Quindi, abbiamo una
sorta di mezzo legame,
siamo a metà del
processo di distruzione
degli orbitali atomici, e a
metà del processo di

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costruzione dell orbitale molecolare.

Quindi, lo stato di transizione potrebbe essere come se io avessi la lama di un coltello messa in verticale, e
avendo una pallina a destra la potrei portare a sinistra e viceversa, e lo stato di transizione è esattamente il
punto in cui la pallina è in perfetto equilibrio sul filo della lama. Quindi, non è ne' a destra ne' a sinistra, e
non è una situazione stabile o isolabile naturalmente.
La figura nella slide non è
in scala, nel senso che qui
l energia di attivazione
sembra paragonabile all
energia globale del
processo. In realtà, se io
ho una miscela di O2 e H2
nel giusto rapporto
stechiometrico, basta
anche una piccola scintilla
di elettricità statica per
provocare l esplosione.
Allora, in una scintillina di
elettricità statica che
posso ottenere se carico di
elettricità un pezzo di lana
con un pezzo di plastica, l
energia di attivazione per questa reazione dovrebbe essere bassissima. In realtà non è così, perchè in
questo caso abbiamo a che fare con uno di quei casi che è più di ”reazione a catena”. Infatti, la scintilla o la
fiammellina del fiammifero, di energia ne ha poca, ma è sufficiente per far reagire alcune pochissime
molecole di O2 e H2, e queste reagiscono formando H2O. La quantità di energia che si libera da una sola
reazione di una sola molecola di H2O con due sole molecole di H2, è talmente grande che a sua volta basta
per dare l energia di attivazione a 1000 molecole di O2, e 2000 di H2, le quali a loro volta reagiscono, e c'è
un effetto di amplificazione che spiega perchè, se faccio scoppiare la famosa scintillina dentro un palloncino
o una bottiglia dentro cui ho messo l O2 e l H2, ottengo una potente esplosione, perchè diventa un processo
rapidissimo.

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Una caratteristica tipica che si riscontra anche in biochimica con l O2, è che le reazioni con l O2 hanno di per
se' un energia di attivazione molto alta, il che spiega perchè il cotone che abbiamo addosso, i fogli di carta o
il legno, pur essendo sostanze
combustibili, non si accendono da
sole, ma hanno bisogno di essere
accese.
Noi e tutte le forme viventi che ne
hanno bisogno però, lo possiamo
usare perchè la natura ha messo a
punto dei sistemi che aggirano
questo problema dell energia di
attivazione elevata, e quindi ci
sono delle scorciatoie che
consentono all O2 di poter agire ed
essere usato per le necessità vitali
delle varie forme di vita.

Catalisi e catalizzatori.
Gli enzimi sono i catalizzatori biologici.

Sono sostanze necessarie in


quantità molto piccole rispetto alla
stechiometria della reazione, ma
che sono in grado di accelerare la
reazione stessa. Questa
accelerazione dipende dall
efficienza del catalizzatore. Di tutti i
catalizzatori che l uomo conosce, gli
enzimi sono imbattibili. Da un paio
di secoli l uomo ha studiato il
fenomeno della catalisi e l ha anche
messo in pratica, perchè molte reazioni industriali hanno necessità di catalizzatori per essere compatibili
con le esigenze del mercato. Se brucio una sostanza contenente S, o anche lo zolfo stesso, ottengo
soprattutto SO2, ovvero l anidride solforosa, (che però non è il composto di S più richiesto dalla società di
oggi), perchè quello più richiesto è l acido solforico H2SO4, che deriva non dall anidride solforosa SO2, ma
dall anidride solforica SO3).
Se non si fosse scoperto che l ossido di vanadio V2O3 è un ottimo catalizzatore per trasformare SO2 in SO3,
saremmo ancora ad un metodo ottocentesco, molto inquinante e poco redditizio, che si chiamava il metro
delle camere di piombo, che ormai non si usa più da quando è stato trovato che l ossido del metallo di
transizione vanadio, è un eccellente catalizzatore per trasformare SO2 con l ossigeno in SO3.
Ma , anche se la ricerca chimica sui catalizzatori artificiali ha fatto passi da gigante negli ultimi decenni,
siamo ancora lontanissimi da avere l efficienza dei catalizzatori biologici, noti come enzimi. I catalizzatori

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partecipano alla reazione ma sostituiscono la reazione difficile, quella con alta energia di attivazione, con
almeno due reazioni, che invece hanno energia di attivazione molto bassa.
Più la abbassano, più veloce sarà la reazione, e più efficace sarà il catalizzatore. Quindi, partecipano ma
vengono rigenerati alla fine di ogni reazione. Perciò, una sola molecola di catalizzatore è in grado di rendere
veloci miliardi di reazioni che altrimenti avverrebbero con una velocità molto bassa. Talmente bassa, che
praticamente non si osserverebbe. Molte reazioni biologiche senza il giusto catalizzatore, praticamente non
avverrebbero. Quindi, i vari intermedi del chimismo cellulare, rimarrebbero lì, motivo per cui non si
potrebbe neanche immaginare una vita senza catalizzatori di questo tipo.
I catalizzatori rendono veloci sia la reazione diretta che quella inversa, e quindi non spostano la posizione
dell equilibrio. Se osservo la reazione A+B=C, e so che all equazione la reazione si ferma al 60% di C
prodotto, se io aggiungo il catalizzatore, artificiale o enzimatico, la reazione si fermerà lo stesso al 60% di C.
• Cosa cambia allora?
Cambia che , se prima ci voleva un ora per arrivare al 60% senza catalizzatore, in presenza di quella piccola
quantità di catalizzatore, ci vorrà un secondo. Quindi, comunque il dislivello energetico tra reagenti e
prodotti rimane identico, quello che cambia è l ostacolo dato dall energia di attivazione.
Si potrebbe fare l esempio di un trenino che deve attraversare una montagna: senza catalizzatore deve fare
il giro lungo, invece grazie al catalizzatore può attraversarla tramite un traforo e arrivare prima.
Una caratteristica degli
enzimi, è la loro
specificità, infatti non
posso aggiungere un
enzima a caso ad una
reazione ed esso la
renderà più veloce. Ogni
enzima ha la sua
reazione specifica a cui è
dedicato. L ossido di
platino PtO2 invece, è
uno di quegli enzimi in
grado di catalizzare molte reazioni diverse, per questo è molto usato.

• Come fa?

Si lega temporaneamente ad un idrocarburo chiamato benzene C6H6, e ne modifica la struttura in maniera


tale da renderla aggredibile dalle molecole di H2, e si forma un prodotto che lascia in pace il PtO2, che potrà
legare un altra moleola di C6H6, che potrà ancora reagire ecc.

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Quindi, basterà una pochissima
quantità di PtO2 , rispetto a quelle
di C6H6 che devo idrogenare e, alla
fine del processo, me lo ritroverò
pronto per essere usato di nuovo.
In questa reazione
apparentemente banale, una
molecola di H2 reagisce con un
atomo singolo di H.
A,B e C sono atomi tutti uguali, ma
li nominiamo diversamente per
seguirli nel processo.
I primi due possono reagire, e il
terzo atomo di H reagisce
successivamente, quindi si forma
una nuova molecola e
apparentemente non è cambiato nulla, però è un processo che è anch esso ostacolato dalla presenza di una
certa energia di attivazione che bisogna raggiungere, se no l atomo A, anche se va ad urtare contro l atomo
B , viene respinto, se non ha un energia cinetica sufficiente. Il complesso attivato è questa entità, che non è
una vera molecola, dove questo atomo di H forma mezzo legame con A e mezzo legame con C.
É chiaro che il contenuto energetico dello stato iniziale e quello dello stato finale, essendo tutti e tre atomi
di idrogeno, sia uguale, quindi la differenza è uguale a zero.
A destra invece c'è una reazione un po' diversa, e
la curva simboleggia l energia di attivazione che
bisogna somministrare per far procedere la
reazione, altrimenti A e B rimangono come sono.
Naturalmente anche la reazione inversa ha
bisogno di energia di attivazione per tornare
indietro, e il catalizzatore la abbassa, sia per quella
diretta, sia per quella inversa.
Quella azzurra non è la stessa reazione, ma è
sostituita da una in cui l energia di attivazione è
più bassa. Più l energia di attivazione si abbassa,
più il catalizzatore è efficace. Spesso le reazioni
biologiche catalizzate da enzimi sono reazioni
consecutive.

19
In queste reazioni, io posso avere due
possibilità: o la velocità della seconda reazione è
più piccola della prima, e allora avrò un energia
di attivazione più alta, e questo composto
intermedio si accumula, perchè si forma più
facilmente di quanto non si distrugga .
Invece, spesso capita che una volta che il
composto intermedio xy si è formato, la
concentrazione non cambi, perchè a mano a
mano che si forma si distrugge; in questa
situazione, in cui la distruzione di xy è più veloce
della sua formazione, cineticamente abbiamo
che fare con uno stato stazionario. Quindi, la
concentrazione di xy, rimane piccola, e
soprattutto costante nel tempo.
Poi ovviamente alla fine quando A e B sono consumati, anche xy sparisce.
Questo rende i calcoli della cinetica enzimatica molto più semplici.

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Esame Chimica e propedeutica alla
Biochimica
6 CFU, 60 h
Docente Enrico Sanjust

Lezione Lezione 10 del 04/11/2021

Sbobinatore Mayra Floris

Equilibrio Chimico
L’equilibrio chimico è un equilibrio dinamico, ossia si tratta di una situazione in cui una trasformazione
chimica procede in entrambe le direzioni fino a quando la velocità della reazione diretta e la velocità della
reazione inversa non diventano identiche, quindi le concentrazioni di tutte le specie coinvolte non variano.
Bisogna ricordare la differenza tra la velocità della reazione chimica e la sua costante di velocità; mentre la
velocità della reazione è una grandezza macroscopica e misurabile (se abbiamo la possibilità di analizzare le
concentrazioni delle specie chimiche coinvolte a mano a mano che la reazione prosegue), la costante di
velocità è un fattore, appunto costante, caratteristico di ciascuna reazione chimica che possa esistere e
dipende principalmente dalla temperatura e dall’equazione di Arrhenius.
Più precisamente, un sistema si definisce all’equilibrio quando in una reazione in cui i reagenti (A + B) si
trasformano nei prodotti (C + D), non si osserva variazione nel tempo delle concentrazioni. Il
concetto è spiegato da questo grafico, dove vediamo che
con l’andar del tempo, la concentrazione dei reagenti
diminuisce così come quella dei prodotti aumenta fino a
che non avremo dei valori costanti. In questa reazione
possiamo anche dire che la reazione tende ad essere
spostata verso destra perché la somma delle
concentrazioni dei prodotti all’equilibrio è maggiore di
quella dei reagenti.

La condizione di equilibrio è dinamica nel senso che A + B


continuano a reagire per dare C+ D e questi di
ricombinano per dare A + B ma le velocità dei processi
diretto e inverso sono uguali.
Se noi anziché partire da un miscuglio di A + B e farli reagire, fossimo partiti da un miscuglio C + D e li
avessimo fatti reagire, avremmo ottenuto alla fine esattamente la stessa proporzione tra le concentrazioni
di C + D da un lato e le concentrazioni di A + B dall’altro.
L’equilibrio si raggiunge comunque e si raggiunge soprattutto
la medesima situazione a prescindere dalla parte della
reazione da cui partiamo.

L’equilibrio raggiunto si mantiene costante finché manteniamo


costante la temperatura.
In una qualsiasi reazione reversibile, possiamo misurare le concentrazioni di tutte le specie partecipanti
all’equilibrio e scrivere un’espressione matematica, ovvero la costante di equilibrio della reazione:

[𝑴𝑴]𝒎𝒎 [𝑵𝑵]𝒏𝒏 …
𝑲𝑲 =
[𝑨𝑨]𝒂𝒂 [𝑩𝑩]𝒃𝒃 …

I puntini indicano che non è detto che debbano esserci solo due reagenti e due prodotti; i coefficienti
stechiometrici potrebbero anche essere uguali ad 1 ed in quel caso si omettono.
Al numeratore mettiamo il prodotto matematico di tutte le specie che si formano nella reazione, ciascuna
elevata al proprio coefficiente stechiometrico, e al denominatore il prodotto matematico di tutti i reagenti
ciascuno elevato al proprio coefficiente stechiometrico.
Ciò significa che dobbiamo conoscere la stechiometria della reazione: per esempio se stessimo studiando la
reazione reversibile tra idrogeno e ossigeno per formare acqua, dobbiamo sapere che per ogni molecola di
ossigeno ce ne sono due di idrogeno che reagiscono, perciò la concentrazione dell’idrogeno dovrà essere
elevata al quadrato. La reazione tra ossigeno e idrogeno per formare acqua, a temperature molto elevate
diventa reversibile; questo vuol dire che se in condizioni normali, facciamo reagire ossigeno e idrogeno,
questa reazione è talmente favorita dal punto di vista energetico che si completa al 100% e ai fini pratici
viene considerata irreversibile, mentre ad alte temperature non si completa. Nella miscela gassosa che si
forma ad alte temperature (1000 °C per esempio) troveremo tre specie: idrogeno non reagito, ossigeno non
reagito e acqua, questo perché idrogeno e ossigeno continuano a reagire formando acqua, ma con la stessa
velocità quell’acqua si decompone. Se siamo in grado di misurare la concentrazione esatta, all’equilibrio, di
tutte le specie chimiche coinvolte, e sostituiamo quei valori nell’equazione, possiamo ottenere la costante
di equilibrio K della reazione.
Questo banale ragionamento si può fare per qualsiasi reazione chimica, e quindi per qualsiasi reazione
chimica esiste, ad una certa temperatura, un certo valore numerico che è la sua costante di equilibrio K.
La costante di equilibrio sarà un numero positivo, visto che tutti i fattori sono numeri positivi, e il suo valore
può essere compreso tra due estremi non inclusi, 0 e ∞ (infinito):
- Se la costante è uguale a 0 significa che la reazione non è avvenuta, cioè i reagenti rimangono non
reagiti: in questo caso il numeratore della frazione è uguale a 0, perché non c’è nessun prodotto
che si forma.
- Se la costante invece, è uguale a ∞, la reazione si completa al 100% verso i prodotti: in questo caso
il denominatore della frazione tende a 0.
Tutte le reazioni esistenti, da un punto di vista chimico-fisico possono essere trattate come reversibili,
comprese quelle spostate al 100% a destra o sinistra.
La costante di equilibrio è costante a temperatura costante, e anche quest’ultima è un numero
caratteristico per ciascun reazione ad una certa temperatura: quindi ogni reazione chimica ha una costante
di equilibrio, la quale ha una valenza anche di tipo termodinamico, cioè è collegata alla variazione di
energia libera standard che si osserva per quella certa reazione, secondo l’espressione:

∆𝐺𝐺° = −𝑅𝑅𝑅𝑅𝑅𝑅𝑅𝑅𝑲𝑲
R = costante generale dei gas
T = temperatura assoluta
ln = simbolo dei logaritmi naturali in base e
° = differenza di energia libera standard, cioè quella che si calcola in condizioni standard
(concentrazione 1 M di tutte le specie chimiche partecipanti).
Ciascuna reazione chimica può essere associata a una data temperatura che di solito è quella standard: non
è T= 0 C°, ma a seconda delle convenzioni europeo-americane, è di 20-25C°.
Se si tratta di una reazione tra reagenti e prodotti gassosi, a seconda delle circostanze, bisognerà occuparsi
di mantenere costante anche la pressione.
La costante di equilibrio da sola ci dice solo qual è la situazione energetica di una certa reazione, cioè se è
favorita o sfavorita da un punto di vista del bilancio energetico, ma non ci dice quanto tempo ci vuole
perché l’equilibrio venga raggiunto. In realtà essa è legata da un rapporto molto semplice alle costanti di
velocità, che sappiamo essere quel termine costante nelle equazioni cinetiche della velocità.
Infatti, si può dimostrare facilmente che esiste una relazione diretta tra le costanti di velocità della reazione
diretta e inversa, rispetto alla costante di equilibrio.
La costante di equilibrio è uguale al rapporto tra le costanti di velocità diretta e inversa:
𝑘𝑘1
𝐾𝐾 =
𝑘𝑘−1
Le due velocità diretta e inversa si possono indicare come segue:
v diretta = k1 [A]a [B]b… v inversa = k-1 [M]m [N]n….
Secondo un’altra simbologia per indicare la reazione inversa, invece che mettere v2 si può mettere v con -1
ma non cambia nulla. Se è stato raggiunto l’equilibrio le due velocità sono diventate identiche, ma ciò non
significa che lo siano diventate anche le concentrazioni.
L’espressione della velocità di reazione è data dal prodotto di un fattore costante e di un fattore variabile.
- Il fattore variabile è in qualche modo legato alle concentrazioni dei reagenti;
- il fattore costante dipende dalla particolare reazione considerata e si chiama costante di velocità (k).
Per evitare confusione si utilizza la lettera K maiuscola per la costante di equilibrio, mentre si usa la lettera
k minuscola per le costanti di velocità.
Sappiamo che l’espressione della velocità è il prodotto tra un fattore costante e dei fattori variabili che
dipendono dalle concentrazioni.
All’equilibrio le due velocità devono essere uguali, ovvero vdir = vinv, allora possiamo eguagliare
queste espressioni e poi basta dividere l’equazione per k-1 e per [A]a e [B]b , e si ottiene la frazione
sottostante, che non è altro che la costante di equilibrio Keq come l’abbiamo già definita.
(il -1 affianco a k indica che la reazione è inversa, ossia che M e N si comportano da reagenti mentre A e B
da prodotti).
𝒌𝒌𝟏𝟏 [𝑨𝑨]𝒂𝒂 [𝑩𝑩]𝒃𝒃 … = 𝒌𝒌−𝟏𝟏 [𝑴𝑴]𝒎𝒎 [𝑵𝑵]𝒏𝒏 …
Ossia
𝒌𝒌𝟏𝟏 [𝑴𝑴]𝒎𝒎 [𝑵𝑵]𝒏𝒏 …
= = 𝑲𝑲𝒆𝒆𝒆𝒆
𝒌𝒌 −𝟏𝟏 [𝑨𝑨]𝒂𝒂 [𝑩𝑩]𝒃𝒃 …

Ci sono alcune reazioni (poche in realtà), in cui la velocità della reazione diretta e la velocità della reazione
inversa sono identiche, in questo caso all’equilibrio troveremo il 50% di reagenti e il 50% di prodotti.
Per questo motivo, a volte decidere quale siano i reagenti e quali siano i prodotti è una nostra scelta.
Legge di azione di massa

Data la reazione generale: aA + bB +… mM + nN + …


dove a, b, m, n … sono i coefficienti stechiometrici delle specie coinvolte,
[𝑴𝑴]𝒎𝒎 [𝑵𝑵]𝒏𝒏
ne definiamo la costante di equilibrio: 𝑲𝑲𝑲𝑲𝑲𝑲 = [𝑨𝑨]𝒂𝒂 [𝑩𝑩]𝒃𝒃

Al concetto di costante di equilibrio si è arrivati con una serie di esperimenti. Non è stata prima immaginata
in teoria e poi trovata in pratica, ma il contrario. Son stati fatti degli esperimenti con delle reazioni semplici
in fase gassosa dove, applicando il principio di Avogadro, misurando le pressioni e mantenendo il volume
costante, è stato possibile verificare la stechiometria delle reazioni e anche le concentrazioni o le pressioni
parziali delle specie coinvolte.
Il tipo di reazione che fu studiato per la prima volta verso la metà dell’800 poteva rientrare in una
espressione matematica di questo tipo. Si è visto che, in vari esperimenti dove si faceva variare la
temperatura, l’espressione valeva ancora e che per ogni temperatura si poteva determinare un numero
diverso per la costante di equilibrio, proprio perché la costante di equilibrio è influenzata dalla
temperatura.
Questo numero è per forza un numero positivo, che può essere compreso tra zero ed infinito, perché tutti
questi valori sono per definizione positivi visto che stiamo parlando di concentrazioni.
- Se Keq = 1 vuol dire che siamo in una situazione di equilibrio perfetto, quindi non c’è spostamento verso
destra, né verso sinistra ma siamo esattamente a metà; infatti il prodotto delle concentrazioni dei reagenti
è uguale al prodotto delle concentrazioni dei prodotti. Ovviamente non è la più frequente delle situazioni e
si ha quando la costante di velocità diretta e la costante di velocità inversa sono uguali e quando la
variazione di energia libera standard è uguale a zero (∆𝐺𝐺° = 0), cioè non c’è nessun dislivello energetico
tra prodotti e reagenti.
- Se Keq > 1 si tratta di reazioni termodinamicamente favorite (spostate verso i prodotti); diciamo che più è
grande la Keq, maggiore è lo spostamento della reazione verso destra. All’equilibrio i prodotti prevalgono sui
reagenti e prendono anche il nome di reazioni esoergoniche, cioè quelle che avvengono liberando energia.
Se prendiamo in considerazione quelle reazioni che almeno in prima battuta sono completamente spostate
a destra (che quindi vanno al 100% verso i prodotti) allora a queste reazioni corrisponde un valore di K che
sarà un numero gigantesco (da 1 a infinito).
- Al contrario se la Keq < 1 (compresa tra 0 e 1 e mai negativa) la reazione all’equilibrio sarà spostata verso i
reagenti; sono le reazioni termodinamicamente sfavorite, che non avvengono o avvengono in maniera
limitata, e sono chiamate endoergoniche. Per le reazioni che non procedono proprio perché
energeticamente sfavorite abbiamo numeri estremamente piccoli.
Costanti enormi o costanti enormemente piccole sono abbastanza comuni, tanto è vero che si indicano con
la cosiddetta notazione scientifica esponenziale, cioè come potenze di 10.
Per le proprietà dei logaritmi, sappiamo che il log di 1 vale 0, quindi se questa costante è uguale ad 1, cioè il
contenuto energetico del sistema prodotti e il contenuto energetico del sistema reagenti sono uguali
perché non vengono favoriti né i reagenti né i prodotti, diciamo che la variazione di energia libera standard
vale 0; significa non solo che la temperatura è costante ma anche che ciascuna specie è presa nella sua
concentrazione unitaria.
Tenete conto che l’energia libera standard non è l’energia libera di quel particolare momento.
Per convenzione si definisce quella in condizione standard di 20-25 gradi, con ogni specie partecipante
avente concentrazione 1 M.
Spesso e volentieri le reazioni, sia quelle di laboratorio, sia quelle industriali, sia quelle in natura e
soprattutto le bioreazioni che ci interessano di più, sono molto lontane dalle condizioni standard.
Quindi i reagenti non sono per niente in concentrazione 1 M: ci possono essere alcuni molto concentrati e
altri in concentrazioni estremamente piccole e questo vedrete quanto sia importante per la regolazione del
chimismo cellulare, quando parleremo per esempio di sistemi viventi.
L’energia libera standard serve comunque perché da un’idea del fatto che la reazione, dal punto di vista
generale, sia termodinamicamente favorita oppure no.
Questa non è altro che la legge di azione di massa, la quale afferma che che, in un sistema omogeneo,
all’equilibrio e a temperatura costante, il rapporto tra il prodotto delle concentrazioni delle specie prodotte,
ciascuna elevata al proprio coefficiente stechiometrico, e il prodotto delle concentrazioni delle specie
reagenti, ciascuna elevata al proprio coefficiente stechiometrico, è uguale ad una costante, la costante di
equilibrio. È una legge sperimentale che si è visto avere validità universale.

Il sistema dev’essere omogeneo quindi stiamo parlando di un sistema formato da un’unica fase, il che è
sempre vero se stiamo parlando di reazioni in fase gassosa. Tutti i gas tra loro si mescolano senza alcun
limite: si dice che sono completamente miscibili.
Naturalmente, per poter calcolare la costante di equilibrio, bisogna attendere che l’equilibrio venga
raggiunto, il che può essere un problema nel caso di reazioni estremamente lente. Tuttavia, molte volte il
problema viene risolto tramite l’utilizzo di un catalizzatore: infatti, la maggior parte delle reazioni biologiche
non possono avvenire in assenza di catalizzatore (enzimi).
La costante di equilibrio è una grandezza che ci permette di attribuire un valore al grado di avanzamento di
una reazione rispetto alla situazione iniziale.: quello tra il bromo elementare e l’acido bromidrico. In fase

In quest’immagine possiamo vedere due equilibri:


- il primo è molto spostato verso destra: facendo reagire idrogeno e bromo, il bilancio energetico della
reazione è a favore del bromuro di idrogeno, cioè sono favoriti i prodotti;
- il secondo è spostato verso sinistra: azoto e ossigeno hanno scarsa tendenza a reagire tra loro per dare
l’ossido di azoto, perciò si dice che la reazione è spostata verso i reagenti.
Bisogna ricordare che i catalizzatori non sono in grado di rendere possibili o favorevoli reazioni impossibili o
non favorevoli da un punto di vista energetico, ma vanno ad accorciare il tempo necessario al
raggiungimento dell’equilibrio.
Nonostante quell’importante e semplice legame che esiste tra la costante di equilibrio e le due costanti di
velocità, diretta e inversa, la Keq non ci informa su quanto tempo una reazione impieghi per raggiungere
l’equilibrio, ma potrebbe volerci un tempo enorme.
Se, per esempio, mescolo nelle giuste proporzioni Idrogeno e Ossigeno posso fare degli esperimenti e dei
calcoli precisi che mi dicono che la loro reazione per dare acqua è eccezionalmente favorevole da un punto
di vista termodinamico, in quanto produce una grande quantità di energia. Non è un caso che si pensi
all’idrogeno come carburante del futuro perché, non solo sarebbe il carburante più pulito possibile, visto
che è l’unico prodotto della reazione dell’acqua, ma sarebbe anche molto conveniente per la quantità di
energia sprigionata.

Sistema non all’equilibrio


Molti sistemi, compresi quelli biologici, sono sistemi non all’equilibrio; si tratta di situazioni in cui
l’equilibrio non è stato ancora raggiunto, oppure non verrà raggiunto mai, perché le condizioni della
reazione cambiano continuamente.
Per i sistemi non all’equilibrio noi possiamo utilizzare la medesima formula che abbiamo immaginato per
calcolare la costante di equilibrio ma, tra le parentesi quadre, non ci saranno le concentrazioni all’equilibrio
bensì quelle che stiamo osservando in quel certo istante.
In questo modo otteniamo il quoziente di reazione Q, che avrà un valore numerico diverso dalla costante di
equilibrio; questo è dato dalla formula:
[𝑀𝑀]𝑚𝑚 [𝑁𝑁]𝑛𝑛 …
𝑄𝑄 =
[𝐴𝐴]𝑎𝑎 [𝐵𝐵]𝑏𝑏 …
Il Quoziente di reazione Q, si ottiene quando le concentrazioni sono riferite ad un momento qualsiasi della
reazione prima che venga raggiunto l’equilibrio.
Più siamo distanti dalle concentrazioni che si osserverebbero all’equilibrio, più il numero Q sarà diverso
dalla Keq. Se poi diamo il tempo alla reazione di raggiungere l’equilibrio, il valore numerico di Q
gradualmente cambia, finché non raggiunge un valore costante, ovvero la costante di equilibrio Keq (Q = Keq)

Se facciamo reagire bromo e idrogeno, ci vuole un certo tempo perché a poco a poco questi reagiscano a
formare il bromuro di idrogeno HBr. La costante di equilibrio di quella reazione non dipende dalle
concentrazioni iniziali dei reagenti o dal fatto che l’equilibrio sia stato raggiunto o meno, in quanto si tratta
di una sua proprietà immodificabile.
Tuttavia, la costante di equilibrio dipende dalla temperatura, perché l’energia libera di Gibbs, è data
dall’espressione ΔG = ΔH - T ΔS , quindi presenta una componente entalpica e una componente entropica.
La componente entropica è moltiplicata per il valore della temperatura assoluta: quindi una reazione che
da un punto di vista termodinamico a temperatura ambiente è favorevole, a 2000 °C diventa sfavorita, e il
prodotto si dissocia nei reagenti che lo costituiscono.
Ci sono però, reazioni che seguono un andamento opposto, ossia un certo composto tende a dissociarsi nei
suoi componenti a temperatura ambiente, mentre scaldato fortemente diventa stabile.
L’acetilene, un idrocarburo, è un gas usato in tutte le circostanze in cui l’illuminazione elettrica non era
possibile (lampade a carburo che ora non si usano più se non in circostanze particolari); questo gas è
combustibile e produce una fiamma molto luminosa, anche se produce molta fuliggine. Inoltre, la fiamma
ossiacetilenica è un’alternativa alla fiamma ossidrica, che produce un valore intensissimo.
L’acetilene è uno di quei composti endoergonici a temperatura ambiente, ma termodinamicamente stabili
ad alte temperature. Questa è una spiegazione per cui l’acetilene non può essere conservato in modo
sicuro a temperatura ambiente, perché essendo instabile sotto varie sollecitazioni potrebbe esplodere, non
perché dia una combustione, ma perché si scinde nei suoi componenti in maniera violenta.
Kc è la costante che usiamo comunemente per
sostanze liquide o in soluzione liquida
Kp riguarda sostanze gassose: in questo caso
sostituiamo le concentrazioni molari con le
pressioni parziali dei gas coinvolti.
Le due costanti possono essere uguali oppure
no.
Se non c’è variazione dei coefficienti
stechiometrici, cioè del numero di molecole
totali, passando dai reagenti ai prodotti, Kc e
Kp sono uguali.

Cosa importa al futuro medico capire cosa è Kp?


Kp è importante, per esempio, per i fenomeni che riguardano la respirazione, in quanto si tratta di gas
(ossigeno e anidride carbonica), il cui comportamento è meglio descritto dalle pressioni parziali piuttosto
che dalle concentrazioni molari.
I solidi non si inseriscono nel calcolo della costante di equilibrio, in quanto la loro concentrazione (numero
di atomi o molecole per unità di volume del solido) rimane costante finché il solido non sparisce.
Per la stessa ragione, nelle reazioni che avvengono in soluzione e in particolare che avvengono in soluzione
acquosa, la concentrazione dell’acqua si considera una costante e non si include nella misura della costante
di equilibrio.

Equilibri eterogenei
Molte volte abbiamo a che fare con equilibri eterogenei.
Scaldando polvere di carbone in atmosfera di anidride carbonica a temperatura sufficientemente elevata
(almeno centinaia di gradi °C) avviene una reazione per cui questi due reagenti producono monossido di
carbonio. Questo è quello che succede quando la stufa viene tenuta accesa in una stanza chiusa: la
concentrazione di ossigeno diminuisce, quella di anidride carbonica aumenta e si forma il monossido di
carbonio. Se non è presente ricambio d’aria chi è presente nella stanza muore.
Principio dell’equilibrio mobile o Principio di Le Chatelier

Il Principio di Le Chatelier ci dice che quando un sistema chimico all’equilibrio viene perturbato, il sistema si
sposta nella direzione in cui viene minimizzata/annullata la perturbazione.
Un equilibrio può essere perturbato da:
- Variazioni delle concentrazioni delle specie che partecipano all’equilibrio;
- Variazione della temperatura
- Variazione della pressione (solo se all’equilibrio partecipa almeno una specie gassosa, visto che
solidi e liquidi sono incomprimibili)

L’effetto della variazione di pressione


La variazione della pressione ha effetto solo in un sistema chimico in cui siano presenti specie in fase
gassosa e la reazione avvenga con variazione di numero di moli. In altre parole, la variazione della pressione
è trascurabile se non ci sono gas coinvolti nella reazione, oppure se ci sono ma non cambia il numero di
moli tra reagenti e prodotti: in quest’ultimo caso se comprimo o non comprimo la situazione non cambia.
Qualunque gas, a parità di molecole presenti, occupa lo stesso volume quindi esercita la medesima
pressione. Ciò spiega che, se non c’è variazione del numero di moli, l’effetto della variazione di pressione
sulla reazione stessa è nullo.
Nel caso mostrato a destra, non c’è variazione di numero di moli e quindi
l’effetto della variazione di pressione è nullo. Se varia la pressione il numero di
moli non cambia a prescindere dal fatto che vengano compresse o no.
L’ammoniaca NH3 è un reagente industriale di estrema importanza, serve per moltissime applicazioni
pratiche, soprattutto per la preparazione di fertilizzanti chimici, senza i quali il nostro pianeta non sarebbe
in grado di sostenere la popolazione che ci vive. Se tutti i paesi del mondo decidessero di passare al
cosiddetto “biologico”, la popolazione terrestre subirebbe un drastico ridimensionamento perché una
percentuale notevole morirebbe di fame. L’ammoniaca in gran parte viene utilizzata per concimi azotati,
indispensabili alle piante per formare le proprie proteine.
Se aumentiamo la pressione favoriamo la reazione, spostandola verso destra. Al contrario se diminuiamo la
pressione favoriamo la decomposizione dell’ammoniaca per riformare azoto e idrogeno separati.
L’ammoniaca, tuttavia non è stata facile da ottenere in grandi quantità dall’industria chimica. Essa viene
sintetizzata dall’industria facendo reagire azoto e idrogeno; è necessario un catalizzatore altrimenti la
reazione non avviene e dev’essere velocizzata aumentando la temperatura, senza raggiungere
quell’intervallo in cui la reazione non sia termodinamicamente favorita.
Da un punto di vista stechiometrico, la reazione prevede che una mole di azoto reagisca con tre moli di
idrogeno (4 moli totali) e si formano due moli di ammoniaca; quindi, il volume di gas a parità di condizione
si dimezza. Ecco perché tutti i metodi industriali di preparazione di NH3 prevedono forti pressioni:
aumentare fortemente la pressione della miscela favorisce il fatto che passiamo da 4 volumi (1 di N e 3 di
H) a 2 soli volumi, quelli dell’ammoniaca che si forma.
L’enorme incremento demografico umano dell’ultimo secolo e mezzo, dipende dal fatto che siano stati
introdotti dei metodi convenienti ed efficienti per ottenere grandi quantità di ammoniaca a basso costo e di
conseguenza grandi quantità di fertilizzanti chimici a basso costo, che mantengono l’agricoltura dei paesi
avanzati ma anche di quelli poveri.

L’effetto della variazione di temperatura


Il diossido di azoto (NO2) è in equilibrio con un dimero, cioè due molecole di NO2 si uniscono formando
N2O4, il quale si può dissociare da capo e dare NO2. L’NO2 si può formare tramite certi esperimenti di
laboratorio ma anche in certe applicazioni industriali; ha un odore molto forte e se viene inalato spesso
provoca buchi nei polmoni.

Vediamo l’esperimento di laboratorio in cui si nota che, col freddo, la variazione di temperatura forma N2O4
(incolore) mentre, se facciamo salire appena la temperatura, N2O4 si decompone in due molecole di NO2 e
lo capiamo dal fatto che presenta un caratteristico colore marrone. La fiala di vetro sigillata ci permette di
vedere cosa succede all’interno e impedisce la fuga di gas tossico (NO2).
NO2 si forma in piccole quantità, per esempio, durante i temporali per azione delle scariche elettriche dove,
con una serie di reazioni, si trasforma in acido nitrico che disciolto nella pioggia arriva fino al terreno dove le
radici lo assorbono e lo utilizzano per preparare le loro biomolecole contenenti azoto; le quantità sono
piccolissime quindi non fa danno.
Nella parte sinistra della diapositiva, nel beaker sta avvenendo una reazione di tipo esotermico, ovvero
quelle reazioni che producono calore.
Il calore non è altro che una forma di energia, quindi se facciamo il bilancio tra il contenuto energetico dei
reagenti e quello dei prodotti, scopriamo che il contenuto energetico dei prodotti è inferiore, cioè hanno
perso energia sotto forma di calore.
Se invece restituisco il calore al sistema in qualche modo, costringo la reazione a tornare indietro: cioè
faccio avvenire una di quelle reazioni che hanno bisogno di energia per avvenire.

Un processo si chiama esotermico quando procede liberando calore; si chiama invece endotermico quando
procede assorbendo calore.
Se io somministro calore ad una reazione esotermica, essa viene sfavorita, cioè ritorna verso i reagenti,
mentre se somministro calore ad una reazione endotermica, essa viene favorita. Al contrario (frecce
azzurre), se sottraggo calore alla reazione esotermica, favorisco la reazione, mentre se sottraggo calore alla
reazione endotermica, la sfavorisco.
Effetti delle perturbazioni sulla K

Qui c’è una sorta di tabella riassuntiva delle cose che abbiamo detto.

Se io sciolgo dell’ammoniaca in acqua, avviene una reazione per cui un certo numero di molecole di
ammoniaca si trasformano nello ione ammonio, legando uno ione H+; questo significa che nella soluzione di
ammoniaca in acqua, io avrò sia molecole NH3 (ammoniaca semplicemente disciolta) ma anche una certa
concentrazione di ioni NH4+ (ione ammonio). Tra la concentrazione di ammoniaca e quella dello ione
ammonio io posso calcolare il rapporto è trovare la costante di equilibrio.
L’ammoniaca in condizioni normali è un gas, perciò se la sua soluzione viene lasciata all’aria, un certo
numero di molecole di NH3 per unità di tempo abbandonano la soluzione e si disperdono nell’aria; questo
equilibrio non viene turbato se io tengo chiuso il flacone che contiene l’ammoniaca. Se lascio il flacone
aperto per settimane, quell’ammoniaca sarà diluitissima o se n’è andata via del tutto.
Questo in teoria non me lo aspetto, perché se è vero che l’ammoniaca NH3 è volatile, lo ione ammonio,
come tutti gli ioni non lo è. Però, dopo un certo periodo di tempo, o se la soluzione viene scaldata, non
troveremo più ne ammoniaca ne ammonio; questo è possibile per il principio di Le Chatelier. All’equilibrio
infatti, il rapporto tra la concentrazione di ammoniaca e quella di ioni ammonio è una costante (numero
conosciuto); se quest’equilibrio viene perturbato perché abbasso la concentra dell’ammoniaca NH3, un
certo numero di ioni ammonio deve rilasciare ioni H+ per tornare ammoniaca e mantenere quel rapporto
costante. Di conseguenza a poco a poco tutti gli ioni ammonio vengono trasformati in ammoniaca che a sua
volta abbandona la soluzione acquosa. Se in quella soluzione di ammoniaca ci aggiungiamo della soda
caustica (NaOH) che è in grado di strappare gli ioni H+ dallo ione ammonio, otteniamo più ammoniaca e
meno ammonio; in questo modo il sistema ritrova l’equilibrio accelerando l’eliminazione di ammoniaca.
Questa è un'altra tabella riassuntiva:

Ruolo dell’energia nelle trasformazioni chimiche o chimico-fisiche: Termodinamica

La termodinamica è la scienza che studia il comportamento dell’energia in qualunque sistema fisico; esso
non vale solo nella fisica, ma anche nel sistema solare, nel corpo umano, per il comportamento dei batteri,
ovvero vale per qualsiasi aspetto del comportamento dell’universo.
Per qualunque processo possiamo misurare un bilancio energetico, tra l’energia che viene introdotto in un
certo sistema e l’energia che fuoriesce perché viene prodotta dal sistema.

Primo principio della termodinamica


L’energia non può essere né creata né distrutta e la quantità totale di energia nell’universo è costante.

Secondo principio della termodinamica


L’universo tende spontaneamente verso una condizione di maggiore disordine. L’entropia dell’universo
aumenta in ogni processo spontaneo.

I due principi della termodinamica valgono contemporaneamente; il secondo principio ci ricorda che
ciascun sistema lasciato a se stesso tende alla condizione di disordine massimo
L’entropia è una funzione termodinamica correlata al grado di disordine di un certo sistema.
Dal punto di vista dello studio dei fenomeni termodinamici i sistemi che si preferisce studiare sono quelli
chiusi e isolati, perché sono quelli in cui è più facile tenere sotto controllo le varie condizioni; tuttavia, la
maggior parte dei sistemi reali, compreso il corpo umano, sono sistemi aperti, dove capita che l’equilibrio
non si raggiunga mai.
Viene definito sistema la parte dell’universo che viene presa in considerazione e il resto rappresenta
l’ambiente circostante. Possiamo definire tre diversi tipi di sistemi:
- Sistema aperto, un recipiente appunto aperto dove il sistema può scambiare sia energia, sia massa.
Scambiare non significa solo abbandonare il sistema,
ma la massa può anche entrare.

- Invece un sistema chiuso può avere, con l’ambiente


circostante, scambi di calore ma non scambi di massa,
cioè la materia non può né entrare né uscire.

- I sistemi isolati sono quelli, dove non è possibile né


scambio di materia né scambio di energia, per
esempio un thermos chiuso. Le trasformazioni che
avvengono in questi sistemi si chiamano trasformazioni di tipo adiabatico.
Dal punto di vista dello studio dei fenomeni termodinamici i sistemi che si preferisce studiare sono quelli
chiusi e isolati, perché sono quelli in cui è più facile tenere sotto controllo le varie condizioni; tuttavia, la
maggior parte dei sistemi reali, compreso il corpo umano, sono sistemi aperti, dove capita che l’equilibrio
non si raggiunga mai.
Una cellula è un tipico esempio di sistema aperto perché essa
scambia, sia in ingresso sia in uscita, sia materia sia energia con
l’ambiente circostante. Per esempio la cellula di un organismo di
tipo omeotermo (animali a sangue caldo) produce energia che poi
in parte viene dispersa nell’ambiente sotto forma di calore.
Noi stessi produciamo quantità notevoli di energia termica, che sono quelle che ci consentono di
mantenere il nostro corpo sui 37 °C; quest’energia viene prodotta per il resto della vita perché quel calore
in parte viene dissipato verso l’esterno.
Parte della biochimica tratta delle trasformazioni dell’energia attraverso il metabolismo e quest’analisi delle
modalità con cui gli organismi viventi ottengono e utilizzano l’energia viene definita BIOENERGETICA.

Le funzioni di stato che descrivono le variazioni di energia in una reazione chimica sono:
- l’entalpia (H), che esprime il contenuto termico di un sistema, cioè il calore sprigionabile o assorbibile in
una certa trasformazione da quel sistema; è una funzione termodinamica (corrisponde ad un numero con
unità di misura come chilojoule kJ o chilocalorie per mole kcal x mol).
- l’entropia (S) che rappresenta la casualità e il grado di disordine del sistema.
- La funzione termodinamica G, l’energia libera di Gibbs, esprime la quantità di energia disponibile per
produrre un lavoro.

Convenzionalmente le trasformazioni in cui si produce calore si associano ad un valore numerico negativo


dell’entalpia; il segno meno indica che il calore viene rimosso dal sistema quando si trasforma.
Queste trasformazioni si chiamano esotermiche, in quanto producono calore. Il nostro corpo è sede di un
gran numero di trasformazioni esotermiche, tanto è vero che anche se la temperatura dell’ambiente che ci
circonda, di norma, è più bassa di 37 °C, noi riusciamo a restare su quella temperatura.
Si chiamano invece, trasformazioni endotermiche, quelle che avvengono assorbendo calore dall’esterno.
Entropia e entalpia, da sole, non sono in grado di dire se un fenomeno dal punto di vista termodinamico
sarà favorevole o no. Per esempio, se prendiamo del nitrato di sodio (NaNO3) e lo sciogliamo in acqua (in
cui immergiamo un termometro), scopriamo che la temperatura dell’acqua diminuisce a mano a mano che
il nitrato sodico diminuisce; si tratta quindi di un processo endotermico, cioè consuma calore e richiede
energia per avvenire. Dal punto di vista dell’entalpia è sfavorito, ma è favorito da un aumento dell’entropia.
L’edificio cristallino e ordinato del nitrato sodico solido viene demolito e la situazione si disordina, perché
saranno presenti ioni sodio e ioni nitrato disciolti e dispersi nella soluzione.
Il contributo dell’entropia al bilancio globale di questo sistema è maggiore di quello dell’entalpia, quindi
anche se il processo è endotermico e richiede calore per andare avanti, avviene comunque perché è
favorito dall’entropia.
Esistono sali che abbassano la temperatura dell’acqua anche di decine di gradi.
Facendo lo stesso ragionamento per il solfato di bario, sale insolubile, anche in questo caso possiamo
immaginare che il sistema formato da ioni bario e ioni solfato disciolti nell’acqua sia più disordinato rispetto
al solido cristallino; in questa situazione però, il sale non si scioglie perché vince l’energia reticolare del
sistema. Quindi, anche se il soldato di bario solido ha un contenuto entropico più basso di quello che
avrebbe se passasse in soluzione, l’entalpia di cristallizzazione vince sull’entropia.
Ecco perché, Gibbs, chimico-fisico americano, introdusse una nuova funziona termodinamica chiamata
energia libera, che poi in suo onore fu chiamata energia libera di Gibbs.
L’energia libera esprime la quantità di energia disponibile per produrre un lavoro; essa tiene conto sia
dell’entropia (S) che dell’entalpia (H).
Entalpia H, Entropia S, Energia libera G sono tutte funzioni di stato, cioè dipendono dallo stato del sistema
(cioè dai valori iniziali e finali di queste grandezze), ma non dal particolare percorso che il sistema ha
compiuto per raggiungere tale stato. Se un certo sistema passa dallo stato A allo stato B, la differenza delta
delle tre funzioni è indipendente dal modo con cui tale passaggio è avvenuto.
La distanza in linea d’aria tra Cagliari e Oristano è un esempio di funzione di stato, perché non dipende
dall’itinerario che io scelgo per spostarmi; essa rimane sempre uguale a prescindere dal fatto che io in
pratica salga in auto e prenda la Carlo Felice o decida di fare tutto il giro della costa orientale della
Sardegna. I viaggi tra le due posizioni non sono funzioni di stato ovviamente, invece la distanza in linea
d’aria, a prescindere dal particolare percorso che posso intraprendere per unire i due punti (le due città),
potrei paragonarla ad una funzione di stato.

Energia libera di Gibbs

L’energia libera di Gibbs è definita come:


G = H – T•S

Le reazioni esoergoniche, quelle che liberano energia, hanno un valore di energia libera negativo; le
reazioni endoergoniche invece, sono quelle in cui il contenuto dell’energia libera del sistema è aumentato,
sarà perciò espresso con un valore positivo.
Se il valore della differenza di energia libera è positivo e molto elevato, diciamo che quella reazione è
termodinamicamente impossibile. Questo però, non è sempre vero; quello che importa dire è che il bilancio
energetico (termodinamica di un processo) spesso non c’entra nulla con la velocità con cui quel processo va
a compimento. Quindi, una certa reazione può essere straordinariamente favorita da un punto di vista
termodinamico, ma non per questo avviene, a meno che non vengano utilizzati particolari catalizzatori.
La maggior parte delle reazioni dell’ossigeno, ossidazioni o combustioni (quando avvengono con
formazione di fiamma), sono tra le reazioni più favorite termodinamicamente; tuttavia, spesso non
avvengono se non in presenza di catalizzatore o di un innesco. L’ossigeno è una molecola inerte
cineticamente.
Gli organismi viventi aerobi, quelli che hanno bisogno di ossigeno per vivere, hanno sviluppato dei sistemi
enzimatici che vincono la resistenza dell’ossigeno a reagire e tengono sotto controllo le reazioni che può
fare. In realtà, questo controllo non è efficiente al 100%, soprattutto con l’avanzare dell’età o a seconda del
tipo di vita condotto; infatti quando viene a mancare questo controllo, si vanno a formare radicali liberi che
danno origine al cosiddetto “stress ossidativo”.
Più che misurare i valori assoluti di queste grandezze termodinamiche, spesso è più utile verificare la
differenza tra queste funzioni di stato tra lo stato iniziale e lo stato finale. Questa differenza si indica con la
lettera greca delta maiuscola Δ.
∆G = ∆H – T•∆S
L’energia libera è la frazione dell’energia interna del sistema, della sua entalpia, disponibile ad una certa
temperatura a svolgere un lavoro chimico o meccanico o fisico o elettrico. La misura si fa controllando il
sistema a temperatura costante, ecco perché la variazione riguarda solo l’entropia e non la temperatura.
La definiamo come la differenza tra l’entalpia e il prodotto tra la temperatura assoluta, e l’entropia.

Si può dimostrare che la variazione di energia libera di un sistema in un certo momento è uguale alla
variazione dell’energia libera standard (quando tutte le specie sono in concentrazione 1M) + un fattore di
correzione che è RT (temperatura a cui avviene l’esperimento) moltiplicato per il logaritmo naturale del
quoziente di reazione, cioè dei rapporti stechiometrici che tutte le specie coinvolte avevano nel momento
studiato.
∆G = ∆G° + RTInQ
Ma all’equilibrio non parliamo più di Q ma parliamo di K, perciò per definizione ∆G=0, finché la reazione
rimane in equilibrio.
Quindi si ottiene
0 = ∆G° + RTInK
da cui deriva ∆G°= -RTInK
Tutto verificato sperimentalmente.

Una certa reazione, si dice favorita o sfavorita a seconda del segno che attribuiamo a ∆G
Quindi, tendono ad avvenire tutte le reazioni termodinamicamente favorite in cui il valore di ∆G° è
negativo, mentre tendono a non avvenire, perché sfavorite termodinamicamente quelle in cui il valore di
∆G è positivo. Però, se non ci troviamo in una situazione di equilibrio questa situazione può essere
completamente capovolta: dipende dal segno che prenderà il prodotto RTlnQ.
Se Q < 1 per le proprietà dei logaritmi lnQ sarà negativo, così come tutto il prodotto RTlnQ; se questo è
negativo a sufficienza, riesce a sopraffare il valore positivo di ∆G°. In questo caso una reazione, in teoria
sfavorita, diviene possibile.
Questo è molto importante quando abbiamo reazioni di tipo consecutivo, per esempio nelle vie
metaboliche. A volte, alcuni passaggi delle vie metaboliche sono termodinamicamente sfavoriti, ma
nonostante questo la via procede.
Supponiamo che la prima trasformazione, quella da A a B, sia termodinamicamente sfavorita; all’equilibrio,
quindi, si dovrebbe formare poco B o addirittura quasi niente. Tuttavia, se nella reazione successiva B si
trasforma in C e questa reazione è molto favorita, l’equilibrio tra A e B non si raggiungerà mai, perché a
mano a mano che B si forma viene tolto di mezzo. Per il principio di Le Chatelier altro A si deve trasformare
in B per tornare all’equilibrio, anche se in teoria la reazione è di per se sfavorevole.
Questo dipende dal fatto che magari in quella reazione da A a B, ∆G è positivo, ma di B se ne forma
talmente poco, perché viene immediatamente trasformato, che Q diventa un numero molto piccolo; di
conseguenza il logaritmo di Q sarà molto negativo, perciò riesce a controbilanciare ∆G° al punto che il
risultato di questa somma algebrica sarà a vantaggio del termine RTlnK.
Quindi il ∆G, che nasceva sfavorito, diviene favorito e la reazione avviene lo stesso.
Non è possibile valutare la spontaneità o la non spontaneità di un processo dalla sola entalpia o dalla sola
entropia ma lo si stabilisce dalla variazione di energia libera del sistema durante quel processo.
- Il processo è spontaneo se ∆G<0 (reazione esoergonica).
- il processo non è spontaneo se ∆G>0.
- Il sistema è all’equilibrio se ∆G=0
L’entropia o l’entalpia da sole non permettono di trarre conclusioni sul bilancio energetico globale di una
certa trasformazione, che sia chimica o che riguardi altre cose. Posso dire se è endotermico o se è
esotermico. Ecco perché è cosi importante la variazione dell’energia libera, perché mi dice se un certo
processo tende a procede da sinistra a destra oppure il contrario.

Ecco un riassunto di ciò che è stato detto:


Esame Chimica e propedeutica alla
Biochimica

6 CFU, 60 h
Docente Enrico Sanjust

Lezione Lezione 11 del 05/11/2020

Sbobinatore Emilie Salurso

Controllore

Nomenclatura chimica inorganica


Non è che tutte le cose che sappiamo oggi erano assodate e conosciute, gran parte delle nuove sostanze
che venivano scoperte oppure quelle che conoscevano già e venivano individuate come l’acqua che era già
conosciuta e veniva erroneamente considerata un elemento, d’altra parte c’era il freno della filosofia
aristotelica che continuava ad avere un la presa in ambito scientifico e non va dimenticata l’influenza
nefasta delle religioni, dunque il cristianesimo in Europa e altre religioni in altri luoghi geografici ognuna
delle quali poi è venuta a patti con la scienza ( esistono molte correnti teologiche che vedono nella scienza
quasi un puntello per la fede) o meno.
La chimica ha mosso i suoi primi passi avendo a che fare con un sistema di classificazione dei composti del
tutto irrazionale e dunque c’è voluto del tempo per sistemarlo poiché nel frattempo i progressi andavano
avanti e si scoprivano nuovi elementi e composti e nuove caratteristiche di quelli già scoperti.
Ad esempio l’acido perbromico HBrO4 per molti decenni si è pensato non esistesse e sono addirittura
apparse delle pubblicazioni che giustificano l’inesistenza dell’acido, in seguito applicando un nuovo metodo
è stato possibile prepararlo nonostante sia molto instabile.

IUPAC
Ormai da alcuni decenni esiste un’organizzazione internazionale che prende il nome di IUPAC che è
l’acronimo anglosassone di unione internazionale della chimica pura e applicata che si occupa di stabilire
delle nomenclature.
Di sistemi di nomenclatura ne esistono diversi ciascuno dei quali ha vantaggi e svantaggi. Il sistema
tradizionale che continua ad essere utilizzato ha il vantaggio che alcuni nomi sono talmente radicati nell’uso
corrente che conviene continuare ad usarli poiché anche qualcuno con poche nozioni è in grado di
riconoscerli. Tuttavia, ci sono degli elementi particolarmente versatili e con molte possibilità di essere
combinati con altri elementi per cui dello stesso esistono molti composti e questo dipende dalla possibilità
di utilizzare tutti o meno gli elettroni di valenza.
Questo si osserva specialmente negli elementi di transizione. Per esempio il Manganese ha come numeri di
ossidazione più utilizzati +2, +4, +5,+6 e +7 e dunque si conoscono abbondanti composti e riuscire a dare
con la nomenclatura tradizionale i nomi dei composti risulta difficile. Un altro esempio può essere il Renio
con numeri di ossidazione più frequenti -1, 0, +1, +2, +3, +4, +5, +6, +7 (tutti quelli possibili).
La iupac è partita dal presupposto che ogni composto esistente deve essere denominato in maniera
univoca in maniera tale che con le ovvie traduzioni delle rispettive lingue un chimico leggendo il nome deve
essere in grado di risalire alla formula senza errare. Il problema è che sradicare i nomi tradizionali più
comuni è complicato tant’è che la stessa ha stabilito che per una parte dei composti esistenti è ammesso
continuare ad utilizzare il nome comune, l’altro problema è che anche se è vero conoscendo la formula del
composto dargli il nome o viceversa è che il nome a volte anche per composti semplici il nome risulta lungo
o complicato. Talvolta la nomenclatura tradizione ha lo stesso nome di un composto diverso con la
nomenclatura iupac ecco perché spesso la nomenclatura iupac non viene usata per ragioni pratica. Ci sono
molecole che posso inoltre avere nomi diversi tutti accettati.

Numero di ossidazione
Il numero di ossidazione non deve essere confuso con la carica ionica anche se a volte essi sono uguali,
ricordiamo che la carica ionica è quella che un atomo assume quando in funzione di un acquisto o una
perdita di uno o più elettroni prende su di se una carica elettrica come Ca2+ che ha perso 2 elettroni, il
numero di ossidazione è +2 ma notiamo che la differenza sta anche nella scrittura infatti il + per la carica
ionica è scritto dopo il numero mentre nel numero di ossidazione è scritto all’inizio.
Il numero d’ossidazione è la carica limite che un elemento presenterebbe se acquistasse o cedesse gli
elettroni di legame in funzione della differente elettronegatività dei due atomi contraenti.

Vuol dire che per trovare il numero di ossidazione di un atomo, che è una convenzione ossia una formalità
indispensabile, io devo fingere che tutti i composti esistenti siano composti ionici, compresi quelli covalenti.
Per calcolare questo numero devo utilizzare alcune convenzioni.
Per qualunque elemento al suo stato elementare, ossigeno da solo, idrogeno da solo etc. non combinato
con altri elementi, si assume che il numero di ossidazione sia zero.
Per i legami covalenti, come si fa a calcolare il numero di ossidazione di un elemento contraente? Devo
fare questa operazione di finta ionizzazione per ogni legame che quell’elemento forma. Si trattano come se
fossero ionici.
Esempio CCl4, tetracloruro di carbonio, è un composto epatotossico e volatile ed è tipicamente covalente.
Anche se il suo momento bipolare è 0 i 4 singoli legami sono polarizzati e non c’è dubbio che la differenza di
elettronegatività vada a vantaggio del cloro. Per assegnare il numero di ossidazione al C e al Cl si fa finta che
sia una sostanza ionica e si da il valore -1 al Cl e +4 al C.
Dunque, assegnare i numeri di ossidazione di per se non significa che il composto sia ionico è una nostra
convenzione. Ci permette però di capire se in un tipo di composto avvenga o meno una reazione di tipo
redox. Ricordiamo essere reazioni in cui vi è uno spostamento di elettroni e di conseguenza una variazione
del numero di ossidazione per cui per poterle riconoscere e capirle è molto importante avere in mente i
numeri di ossidazione dell’elemento in esame. Per un medico è molto importante conoscere le redox
perché gran parte del metabolismo umano è basato su redox in cui l’ossidante è l’ossigeno che respiriamo.
A chi assegno poi la carica positiva o la carica negativa? La carica negativa va all’elemento più
elettronegativo tra A e B.
Per gli ioni il numero di ossidazione dello ione corrisponde alla sua carica elettrica. Per composti o ioni
formati da più atomi di elementi diversi alla fine si arriverà ad una somma algebrica che, nel caso dello ione
corrisponde alla carica dello ione.
In caso di molecole neutre come HCl, NH3 il numero di ossidazione ci aiuta moltissimo a capire come si
comportano i vari atomi nella formazione di molecole e quali sono le regole che dobbiamo utilizzare
- I metalli alcalini hanno sempre numero di ossidazione +1, in tutti i loro composti. Esistono in natura
sotto forma di questi ioni positivi.

- I metalli alcalino-terrosi, di cui quelli più importanti anche dal punto di vista medico sono Magnesio,
Calcio e Bario; il bario perché, sotto forma del solfato insolubile, si utilizza come mezzo di contrasto in
certe indagini radiologiche hanno sempre +2 come n.ox.

- Il fluoro, l’elemento più elettronegativo di tutti, senza


eccezione ha sempre -1. Gli altri alogeni
cloro, bromo e iodio, se sono in forma di cloruro, bromuro e
ioduro hanno sempre -1. Però possono formare dei composti
ossigenati in cui, visto che l’ossigeno è più elettronegativo di
loro, avranno un nox positivo.

- L’idrogeno ha quasi sempre +1; in certe circostanze ha -1 ,


quando si combina con elementi meno elettronegativi di lui.

- L’ossigeno ha quasi sempre -2. Esistono composti


dell’ossigeno in cui 2 atomi di ossigeno sono collegati tra di con
un legame sigma, in quel caso il nox dell’ossigeno è -1. Questi composti si chiamano perossidi. Nei
superossidi il nox formale dell’ossigeno è meno ½. Poi c’è OF2, fluoruro di ossigeno, che è l’unico caso
esistente in cui l’ossigeno è costretto ad avere un numero d’ossidazione positivo perché il fluoro è più
elettronegativo di lui.

- Ci sono composti ionici e covalenti in cui due atomi identici sono legati tra di loro. In quel caso per
convenzione il numero di ossidazione attribuito a quel particolare legame vale 0. Ecco perché nei
perossidi l’ossigeno vale -1, perché noi guardiamo il legame tra ossigeno e ossigeno e lì non
assegniamo numero di ossidazione ne positivo ne negativo.

Prendiamo per esempio l’acido solforico H2SO4. Immaginiamo di non sapere il numero d’ossidazione dello
zolfo: lo possiamo ottenere facilmente sapendo che l’ossigeno è sempre -2 e l’idrogeno è sempre +1, salvo
quelle rare eccezioni. Quindi prendiamo due atomi di idrogeno, ciascuno dei quali vale 1, e facciamo una
somma algebrica. Sappiamo che la somma algebrica di tutte queste quantità deve dare zero perché questo
non è uno ione ma una molecola neutra. Quindi svolgendo questa equazione ricaviamo che la nostra x vale
+6.
L’acido solforico si può ionizzare liberando due ioni H+ e rimanendo con due cariche negative (SO2-4). Il
numero di ossidazione totale di SO2-4 è uguale alla carica ionica che qui è 2-, quindi il nox totale sarà -2.
Ovviamente il nox dello zolfo è rimasto identico perché l’unica cosa che è successa all’acido solforico
quando è diventato ione solfato è stato liberarsi di due ioni H+ e quindi, se perde due cariche positive
rimangono due negative.
Classificazione di composti più comuni:
- Binari:
formati da due tipi di atomi. I composti binari formati con l’idrogeno si chiamano genericamente idruri o
idracidi. La maggior parte dei metalli elettropositivi come per esempio litio, sodio, potassio e calcio sono
composti ionici perché la differenza di elettronegatività tra gli elementi del composto è notevole e
contengono lo ione positivo del metallo e lo ione negativo dell’idrogeno che si chiama ione idruro ed è
meno frequente dello ione H+ perché è instabile.
Lo ione H+ invece si chiama di solito ione idrogeno anche per la iupac. Nel caso dei metalli poco positivi gli
idruri sono dei composti covalenti e non sono molto comuni. Un discorso a parte è per i non metalli dove
abbiamo gli idruri covalenti come CH4, il composto organico più semplice che esista, il primo degli
idrocarburi, il metano. NH3, ammoniaca. H2O, acqua. PH3, fosfina. H2S, solfuro di idrogeno.
Arriviamo agli alogeni, fluoro, cloro, bromo e iodio formano composti covalenti che si chiamano idracidi
che reagiscono immediatamente con l’acqua formando ioni idrogeno e ioni alogenuro.
Pressoché tutti gli elementi possono formari ossidi, composti binari formati da ossigeno e un altro
elemento. Tranne i gas nobili ( ma lo Xenon si anche se instabili). La nomenclatura prevede di chiamare
ossidi quelli dei metalli e di chiamare anidridi quelli dei non metalli.
Tuttavia questa regola ha le sue eccezioni perché soprattutto nel caso di molti metalli di transizione con il
numero di ossidazione più basso formano ossidi basici e con quello più alto formano ossidi acidi cioè
anidridi.
Poi ci sono degli ossidi particolari che non hanno proprietà acide ne basiche come il monossido di carbonio
CO a differenza del diossido CO2 che si chiama anidride ed è la madre dell’acido carbonico. NO, l’ossido
nitrico, molto importante in medicina visto che in piccole quantità lo produciamo non è ne acido ne basico
rimane li inerte un po’ come il CO.

-Ternari:
hanno un elemento e contemporaneamente idrogeno e ossigeno essenzialmente i metalli, compresi i
metalli di transizione ma quando hanno un numero di ossidazione inferiore danno luogo a composti,
ossidi, che possono reagire dando luogo agli idrossidi anche se una volta si chiamavano idrati.
Gli idrossidi si caratterizzano perché contengono il gruppo OH che è in grado di dissociarsi sotto forma
di ione idrossido OH- ( vietato utilizzare il termine ossidrile).
L’alcol etilico per esempio contiene un gruppo OH legato ad un atomo di carbonio ma è sbagliato
chiamarlo OH perché non si dissocia. Così come in NaOH l’idrossido di sodio, è sbagliato dire ossidrile
perché sia che l’abbiamo sciolta in acqua sia che sia solida si chiama idrossido( ione).
Se invece passiamo ai non metalli composti con il gruppo OH non formerà l’ossidrile ma si romperà il
legame tra H e O, l’ossigeno assumerà la carica negativa e l’idrogeno si staccherà come ione H+, questo
tipo di composti si chiamano ossiacidi ( acido nitrico, borico, solforoso…).

Molti metalli formano ossidi che reagiscono con l’acqua formando idrossidi, di solito più è
elettropositivo il metallo più questa reazione è facile ed è anche esoergonica. Molte volte può essere
anche una reazione violenta, con opportuni metodi il calcare e anche il marmo ( hanno tutti e due la
stessa composizione, carbonato di calcio) possono essere arrostiti con degli appositi forni a calce che
provoca la decomposizione del CaCO3 che elimina anidride carbonica gassosa che se va e rimane una
polvere che è ossido di calcio CaO noto come calce vive che se viene mescolata con acqua avviene una
reazione violenta che può essere pericolosa dell’idrossido di calcio che si chiama calce spenta.
Una reazione altrettanto violenta si ha anche con l’ossido si sodio, di bario e di potassio.

Quando invece si ha a che fare con l’ossido di un metallo meno elettropositivo la reazione avviene in
modo più pacato o addirittura non avvenire come con l’ossido di alluminio dove non avviene proprio
niente. Anche con l’ossido di piombo.
Sono sempre ossidi basici perché trattati con acidi poi si formano dei Sali però sono meno reattivi, la
stessa cosa se mi sposto tra i non metalli.

Se io preparo l’anidride solforica SO3 e la tratto con acqua sto parlando di un esperimento che non si fa
in un laboratorio didattico perché trattata con acqua da una reazione molto violenta e il calore che si
sprigiona è tale che posso avere l’ebollizione e schizzi di acido solforico, ciò che si forma dalla reazione.

Se io prendo l’anidride carbonica invece reagisce con l’acqua ma io non me ne accorgo, posso
addirittura prendere una cannuccia e soffiare in un bicchiere d’acqua e siccome l’aria che respiro ne è
carica a vista non succede nulla, solo che con apposite misurazioni scopro che quell’acqua da neutra è
diventata leggermente acida perché sia pure con grande lentezza e parzialmente l’anidride carbonica
produce una soluzione diluita di acido carbonico.

Se io prendo per esempio il silicio, che forma gran parte della crosta terreste e del mantello sotto
forma del suo diossido SiO2, silice, di cui ne esistono varie forme. Quella molto cristallizzata prende il
nome di quarzo. Quest’anidride silicica se la tratto con l’acqua rimane esattamente com’è (se invece la
tratto con una base forte come NOH un pochino reagisce).

Gli elementi più elettropositivi ed elettronegativi formano facilmente ossidi basici e acidi che
reagiscono con acqua dando luogo a idrossidi e ossiacidi.

Se io prendo invece il manganese e lo tratto con ossigeno ottengo l’ossido manganoso MnO che
trattato con acqua da l’idrossido manganoso. Invece con altre reazioni posso ottenere Mn2O7 l’ossido
permanganico.
Lo stato di ossidazione quindi influisce molto sullo stato del composto e sulle reazioni.
I Sali:
Gli idrossidi. Vengono chiamati spesso basi. Possono reagire con gli idracidi e con gli ossiacidi dando
luogo ai Sali e producendo acqua.

Qui ci sono delle regolette. Quando c’è il 2 di mezzo la nomenclatura iupac prevede l’utilizzo del prefisso di,
prima si utilizzava bi. Dunque, si dice diossido, non biossido. Anche dai chimici è usato ad esempio
“biossido” o “bicloruro” o “bicromato”, ma in realtà la IUPAC vuole che si usi “diossido” o “dicloruro” o
“dicromato”, quindi il prefisso “di” e non “bi”, perché quest’ultimo si usa in un altro significato. Questo è un
esempio di caratteristica della IUPAC che ha preso piede anche nei chimici che si sono abituati a usare il
prefisso “di”. Questo perché risulta più ragionevole perché “di” è un prefisso greco ed è più coerente con il

resto dei prefissi (mono, tri, tetra ecc…)


tradizionale IUPAC
Li2O Ossido di litio Ossido di dilitio
Na2O Ossido di sodio Ossido di disodio
K2O Ossido di potassio Ossido di dipotassio

Prendiamo come esempio l’ossido di potassio K2O, se io non so quali sono le proprietà chimiche del
potassio non posso sapere il rapporto stechiometrico del composto. Ecco che la iupac dice che si deve
chiamare ossido di dipotassio che mi da le istruzioni per mettere 2k e O.

Il ferro forma due ossidi possibili, ossido ferroso e ferrico. Oso in genere nella nomenclatura tradizionale si
usa per un n.o. basso, ico invece per il n.o. unico possibile o più elevato. Se invece di n.o. ne ha più di due
con la tradizionale abbiamo problemi e qui interviene la iupac.

Qui invece vedete altre circostanze: se io dico anidride permanganica a una persona che ha scarsa
dimestichezza con la chimica del manganese, essa ha difficolta a capirne il significato perché è il nome
tradizionale o il nome “d’uso” che viene utilizzato anche tra chimici. Però se io voglio spiegare a uno che
non lo sa come è fatta l’anidride permanganica userò il nome in IUPAC perché esprime che ci sono sette
atomi di ossigeno e due di manganese.
Notate come il manganese forma due ossidi, ma esso come il ferro, essendo un metallo di transizione, ha
una notevole libertà di condividere numeri variabili di elettroni di valenza.

Le anidridi
Se io vedo le anidridi nitrosa N2O3 e nitrico N2O5 nella tradizionale oso e ico non aiutano a capire la
composizione e qui intervengono i nomi iupac che se non siamo chimici ci vengono in aiuto.

L’ipoazotide NO2 si chiama a volte anidride nitroso


nitrica perché se trattata con acqua da una miscela in parti uguali di acido nitroso e acido nitrico. Secondo
la iupac la parola anidride dovrebbe essere eliminata e si parla di ossidi.
P2O5 l’anidride fosforica, è un solido bianco, reagente molto pericoloso che reagendo con acqua forma
acido fosforico. Può essere riscaldata e poi bollire diventando un gas e solo li è presente P2O5 se no P4O10.

Poi abbiamo il caso del Cloro.

Nella nomenclatura tradizionale si parla spesso di anidridi quando si tratta di non metalli. Questo termine
però è usato a volte anche per alcuni ossidi di molti metalli di transizione, ad esempio il vanadio, il
molibdeno e il manganese. Questi ultimi tre, quando presi allo stato puro, hanno le caratteristiche dei
metalli. Hanno anche la caratteristica che, quando sono a un basso stato di ossidazione, chimicamente si
comportano da metalli (e poi vedremo cosa vuol dire); quando sono invece al loro massimo stato di
ossidazione (che è 5 per il vanadio, 6 per il molibdeno e 7 per il manganese) formano degli ossidi nei quali si
comportano come se fossero dei non metalli e per questo tali ossidi vengono chiamati anidridi, appellativo
utilizzato per ossidi capaci di generare acidi.

I perossidi
Nei perossidi ci sono due atomi di ossigeno.

La lingua italiana è praticamente l’unica nella quale il perossido di idrogeno (𝐻𝐻2 𝑂𝑂2 ) viene chiamata acqua
ossigenata, che va bene nel parlare comune, ma meno bene nel parlare scientifico, perché noi a volte in
altri contesti parliamo di acque ossigenate non a indicare perossidi ma a indicare acque naturali (marine ma
anche di laghi e di fiumi) che contengono molto ossigeno disciolto. Il perossido di idrogeno si usa molto
come antisettico per uso locale, uno dei suoi limiti è che è meno efficace con i batteri Gram +. Tende a
decomporsi formando acqua e ossigeno, viene utilizzato nelle industrie come ossidante perché non lascia
sottoprodotti dannosi. È stato molto discusso quale sia il meccanismo per cui l’acqua ossigenata si
comporta da antisettico prima si pensava che il suo ruolo fosse di ossidare le pareti cellulari dei batteri
causandone la morte si è visto che le bollicine di ossigeno che si formano in presenza di materia organica
(siero, sangue) sono microscopiche e formano una schiuma che meccanicamente trascina via i detriti e
ripulisce la ferita.
Prima l’acqua ossigenata era una specie costosa perché c’erano reazioni in cui i reagenti andavano sprecati
come per esempio bisognava ottenere composti di bario, in condizioni opportune questi composti avevano
il perossido di bario BaO2 che trattato con acido solforico forma solfato di bario e acqua ossigenata. Il
problema è che il solfato di bario che si usa per fare le radiografie del tubo digerente è difficile da riciclare.

Adesso si usano composti organici che per semplici reazioni con l’ossigeno danno luogo ad acqua
ossigenata e il composto che si forma viene trattato in una corrente di idrogeno e si consuma solo aria e
idrogeno perché il composto organico si rigenera. Questo ha comportato un crollo del prezzo dell’acqua
ossigenata.
Molti composti organici sono colorati e l’acqua ossigenata li aggredisce trasformandoli in composti incolori,
tant’è vero che esistono le candeggine delicate o gentile che sono delle soluzioni stabilizzate e profumate di
acqua ossigenata mentre un tempo l’unico candeggiante che si usava era l’ipoclorito sodico cioè la
comunica varecchina che è un violento ossidante.
Ancora più recentemente si è ottenuta l’acqua ossigenata solida sotto forma di percarbonato di sodio,
sciolto in acqua libera il perossido di ossigeno in una forma gentile ma efficace. Prima si usava il perborato
sodico ma il problema è che i Sali di boro sono tossici.

Gli idruri
Gli idruri hanno utilizzi industriali ad eccezione di metano e ammoniaca
Gli idracidi

HF, HCL, HBr, HI, HCN e H2S in assenza di acqua sono composti covalenti e in condizioni normali sono tutti
dei gas tranne il fluoridrico e il cianidrico che però sono estremamente volatili, evaporano a 20°. HCN è il
gas che si usa nelle camere a gas in quei stati dove si utilizzano le camere a gas e la pena di morte. Il
meccanisco con cui funzionano questi gas non è lontano dagli insetticidi che agiscono
sull’acetilcolinaesterasi responsabile della corretta trasmissione dell’impulso nervoso ma per fortuna
nell’uomo ha una struttura chimica diversa da quella degli insetti e quindi è stato possibile modificare
queste sostanze che impediscono il funzionamento di quest’enzima facendole specifiche per questi insetti
infatti adesso gli avvelenamenti per insetticidi sono meno pericolosi rispetto all’antichità, stimao parlando
di 1940-1950.

I composti ternari
Gli idrossidi
Questo schema fa vedere il meccanismo ma non da le
reazioni bilanciate stechiometricamente. C’è una via di
mezzo tra la iupac e la tradizionale che è quella di Stock
e parte dal presupposto che ossigeno e idrogeno hanno
sempre n.o. -2( ossigeno) e +1(idrogeno) e basta
indicare in numeri romani il n.o. del metallo o non
metallo interessato.
Qui automatico quale sia il numero di ossidazione del
metallo, +1, +2, +3 e +1. Il legame non è ionico ma un po’covalente, infatti, si chiama base debole perché le
proprietà basiche sono modeste.

Gli ossiacidi

Acido fosforoso e fosforico, l’unico che interessa il medico è quello fosforico, uno dei componenti degli
acidi nucleici è proprio l’acido fosforico.
Non troviamo in biochimica il metafosforico ma il pirofosforico e l’ortofosforico, l’acido fosforico per
antonomasia.

I Sali

Qui ci aiuta soprattutto la tradizionale. La iupac fa un disastro. Se io dico NaClO3 clorato di sodio secondo la
iupac è triossoclorato (V) di sodio.

Quando un acido ha più di un atomo di idrogeno liberabile sotto forma di ione non è detto che siano tutti
liberati ma può rimanere qualche atomo di idrogeno. Come nel carbonato acido di sodio o bicarbonato di
sodio NaH2CO3. Se invece sostituisco entrambi gli idrogeni ottengo il carbonato di sodio NaCO3.
L’acido fosforico di idrogeni sostituibili ne ha 3, abbiamo dunque 3 possibilità.
.
Qui il professore fa scorrere delle slide senza alcuna spiegazione, per completezza.
Esame Chimica e Propedeutica Biochimica

Docente Enrico Sanjust

Lezione n. 12 del 08/11/2021

Sbobinatori Alessandro Scanu

Acidi e Basi
La parola acido deriva dall’adattamento della parola latina acetum, che vuol dire aceto, in riferimento al
caratteristico odore e anche gusto, che definiamo acido. Col passare del tempo, l’alchimia ha scoperto altri
acidi e nel momento in cui, a metà del medioevo, gli arabi fecero conoscere il processo della distillazione, fu
possibile preparare anche l’acido solforico concentrato, distillando a secco (quindi senza aggiunta di acqua)
il solfato ferroso, che si trovava come minerale. Da allora il concetto di acido ha subito una notevole
evoluzione e, una volta abbandonata l’alchimica e la magia, ha preso piede con notevole chiarezza nella
chimica.
La prima definizione di acido risale ai primi dell’ottocento e riguardava quelli che noi chiamiamo ossidi acidi
o anidridi. Tenete conto che anticamente, a cavallo tra il ‘700 e ‘800, si pensava che una caratteristica
distintiva degli acidi fosse il contenuto di ossigeno. Infatti ossigeno è un termine abbastanza forviante, perché
significherebbe letteralmente generatore di acidi. Noi sappiamo invece, oggi, che questo termine calzerebbe
meglio con l’idrogeno, che invece significa generatore di acqua.
Acidi e Basi secondo ARRHENIUS
Fu Arrhenius, lo stesso che fece l’ipotesi della dissociazione ionica elettrolitica, a proporre di considerare
acide tutte le sostanze capaci di dissociarsi in ambiente acquoso, liberando ioni H+. Si chiamavano invece basi,
sempre ai tempi di Berzelius, colui che gli acidi fossero caratterizzati dal contenuto di ossigeno, le sostanze
che rimanevano dalla distillazione secca di altri composti. Sappiamo che quei composti, che furono chiamati
basi, perché rimangono li e poi possono rigenerare dei Sali, erano quelli che oggi noi chiamiamo ossidi basici.
Arrhenius propose che dovessero essere chiamate basi tutte le sostanze capaci di liberare ioni idrossido OH-
. E si vide anche che mescolare acidi con basi dava luogo alla formazione di un’altra classe di composti, che
abbiamo già visto, che furono chiamati Sali. Il sale per antonomasia è il cloruro di sodio NaCl. Qualunque
composto si ottenga dalla combinazione di un acido e di una baso di solito si chiama, in maniera tradizionale,
sale. Vedremo poi che la reazione di acidi e di basi può dar luogo ad altri tipi di composti. Ma questo dipende
anche dalle definizioni che scegliamo per stabilire cosa dia un acido e cosa sia una base.
Una cosa che si capì abbastanza rapidamente fu che, nella definizione di Arrhenius, la quale spiegava gran
parte dei fenomeni chimici se non tutti quelli conosciuti ai tempi, H+ e OH- reagiscono tra di loro,
neutralizzandosi a vicenda, producendo acqua. Infatti il processo con cui un acido e una base vengono fatti
reagire con produzione di acqua si chiama tutt’ora neutralizzazione.
Una delle cose curiose di Arrhenius, quando propose la sua teoria della dissociazione in ioni, è che all’inizio
fu preso come un pazzo. La chimica europea dell’epoca era dominata ancora da un mostro sacro che era
Berzelius, che diceva invece come il carattere acido fosse dovuto alla presenza di ossigeno. Berzelius e
Arrhenius erano entrambi svedesi. All’epoca, soprattutto nei paesi nordici, le persone di elevato rango sociale,
usavano latinizzare il proprio cognome. Ecco perché i cognomi di questi due chimici paiono latini.
Arrhenius si laureò con una tesi sulla dissociazione elettrolitica prendendo una valutazione appena
sufficiente. Alla sua teoria si obbiettava come non fosse possibile che, quando si scioglie un sale, ad esempio,
nell’acqua, gli ioni (cioè cariche positive e negative) si separassero reciprocamente, cosa che andava contro
la Legge di Coulomb, secondo cui carice opposte si attraggono. All’epoca il concetto di solvatazione e la stessa
costante dielettrica dell’acqua, così come la dispersione di una carica su una sfera di maggior superficie, tutte
cose che consentono e giustificano queste separazioni, erano ancora idee poco chiare. Arrhenius aveva,
tuttavia, ragione.

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Prendiamo in considerazione l’immagine qui sopra:
Sulla sinistra ci sono le formule di alcuni acidi, sulla destra le formule di alcune basi.
Il pH
Come vedremo, è possibile fare una misura quantitativa della forza di un acido e di una base. La forza di un
acido o di una base è la capacità di liberare, in soluzione acquosa, ioni H+ e rispettivamente ioni OH-. Questa
forza definiva in maniera qualitativa al periodo ma, da più di un secolo, si definisce in maniera quantitativa
con una formula matematica che da luogo a una grandezza che fu chiamata pH.
Il pH è una scala di tipo logaritmico, in base 10, e ciò consente di ridurre in maniera estremamente drastica
l’ampiezza di una scala numerica, che partirebbe da numeri estremamente piccoli fino ad arrivare a numeri
giganteschi, e invece riusciamo a farla rientrare in una scala molto più breve. Un’altra proprietà dei logaritmi
è che il logaritmo di un prodotto è dato dalla somma dei logaritmi e il logaritmo di una frazione è dato dalla
differenza dei logaritmi. Gli esponenti con cui si eleva a potenza l’argomento del logaritmo possono essere
trasformati in coefficiente del logaritmo. Tutto questo rende particolarmente semplici e immediate
operazioni che matematicamente sarebbero piuttosto complicate e richiederebbero l’uso di calcolatori o
calcolatrici. Con il pH abbiamo alcuni punti fermi che poi vedremo.
Si definiscono acide le sostanze che hanno un valore di pH inferiore a 7. Si definiscono basiche le sostanze
che hanno pH superiore a 7. Si definiscono neutre le sostanze che hanno un pH uguale a 7. Sapete già da
dove nasce questa scala, che non è stata inventata a caso, ma dipende dalle proprietà dell’acqua.
Più una sostanza è acida, più basso sarà il pH (più lontano dal 7, verso il basso). Più una sostanza è basica, più
alto sarà il pH (più lontano dal 7, verso l’alto). La scala del pH che si una comunemente va da 0 a 14. Questo
dipende dal fatto che, di norma, si prendono in considerazione sostanze, acide o basiche, con una
concentrazione massima di 1M (1 mol/L). Infatti, se prendiamo in considerazione un acido forte più
concentrato, possiamo trovare dei valori del pH negativi, così come, se prendiamo una base forte
particolarmente concentrata, il suo valore può superare il 14. Quindi non solo limiti invalicabili 0 e 14 ma
gran parte delle sostanze con cui abbiamo a che fare tutti i giorni hanno valore del pH compreso in quella
scala.
pH 7 significa una soluzione perfettamente neutra che, come vedremo, significa contenere un numero
esattamente identico di ioni H+, quelli caratteristici degli acidi, e di ioni OH-, quelli caratteristici delle basi.

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Tuttavia, ai fini pratici, anche soluzioni ai pH 6.5, 6, 7.5 o 8 si considerano come quasi neutre anche se, come
si vedrà in biochimica, anche piccole variazioni del pH sono della massima importanza per il corretto
funzionamento dei vari sistemi implicati nella fisiologia.
Nell’immagine a lato ci sono alcune sostanze,
di cui a destra abbiamo le confezioni
commerciali, che sono comuni antiacidi. Nella
tabella al lato vi è un errore di battitura in
quanto non si chiama Malox, bensì Maalox,
perché uno è Ma (Che starebbe per Magnesio
Mg) e l’altra a è l’iniziale di alluminio (Al).
Abbiamo infatti una miscela di due basi: l’Idrossido di Magnesio e l’Idrossido di Alluminio. Queste sono
sostanze basiche che sono in grado di neutralizzare con maggiore o minore efficacia l’eccesiva acidità
gastrica. Quando vi occuperete di gastroenterologia vi verranno dati dettagli ben più particolareggiati da
quello che si può vedere da un disegnino come questo.
NB: la forza di un acido o di un base non dipende da quanto sia aggressivo per i nostri sensi o da quanto sia
corrosivo. Ad esempio: l’acido solforico H2SO4 è uno degli acidi più forti, ma assolutamente non il più forte,
ed è tra i più corrosivi. L’ammoniaca ha un odore assolutamente pungente e non appena l’aria ne è
leggermente satura diviene insopportabile e soffocante, è una base relativamente debole.
Acidi e Basi secondo BRÖNSTED e LOWRY

In effetti si trovo poi che ci sono molte basi che di per sé non liberano ioni OH-. Tuttavia sono in grado di
neutralizzare acidi perché il loro compito consiste nell’acchiappare gli ioni H+ e legarli a sé. Comunque hanno
tolto gli acidi dalla circolazione e per cui si possono benissimo considerare delle basi. Questa è la definizione
secondo Brönsted e Lowry, i due studiosi che proposero questo tipo di definizione.

Ecco spiegata la basicità dell’ammoniaca NH3.


Costei è una base che di per sé non contiene ioni
OH- che si possano dissociare. Per poter liberare
ioni OH- l’ammoniaca deve reagire con l’acqua.
L’acqua nei confronti dell’ammoniaca si comporta
da acido. Infatti è in grado di cedere all’ammoniaca
uno ione H+, che l’ammoniaca lega a sé grazie al
doppietto elettronico non condiviso, ospitato in un
orbitale ibrido sp3. Si forma così lo ione ammonio,
perfettamente simmetrico, con la carica positiva
centrata sull’atomo di azoto. Questa reazione è
reversibile e ha l’equilibrio che rimane spostato
verso sinistra. Questo spiega perché l’ammoniaca
venga considerata una base debole.
Quindi secondo, Brönsted e Lowry, sono acidi le sostanze capaci di liberare ioni H+ e sono basi le sostanze
capaci di accettare ioni H+. L’acqua si può comportare sia da acido, come nel caso appena visto, ma anche da
base (in quanto può legare ioni H+). Inoltre l’acqua, pur essendo un composto covalente, è in grado di dare

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una debolissima dissociazione, di tipo elettrolitica, per cui da una singola molecola d’acqua si liberano sia uno
ione H+ sia uno ione OH-. In un’acqua pura, priva di qualunque contaminante, la concentrazione degli ioni H+
e degli ioni OH- è identica (anche se bassissima).

Per ogni sostanza acida oppure basica è


possibile trovare un “partner” che, nel caso
degli acidi si chiama base coniugata e nel caso
delle basi di chiama acido coniugato. Per
esempio la base coniugata dell’acqua è lo
ione OH-. L’acido coniugato dell’ammoniaca
NH3 è lo ione ammonio NH4+.
Più è forte una base, più sarà debole il
corrispondente acido coniugato; più è forte
un acido, più sarà debole la base coniugata.
Cosa significa questo? Vuol dire che se NH3 è
una base debole, perché ha scarsa tendenza a portare via qualche ione H+ a un donatore, il corrispondente
acido coniugato sarà un acido relativamente forte, perché avrà una notevole tendenza a rilasciare il suo ione
H+ e a ritornare come NH3.
Quindi è possibile preparare una scala ideale di acidi e basi ordinati in ordine crescente o decrescente di
acidità oppure di basicità. Per convenienza l’acqua viene messa al centro di questa scala perché la gran parte
dei processi chimici, di cui soprattutto quelli di interesse biologico e medico, avvengono in presenza di acqua.
Quindi dobbiamo sempre tenere in considerazione che l’acqua, a seconda della situazione in cui si trova, si
può comportare da base, in presenza di acidi più forti di lei, oppure da acido, in presenza di basi più forti di
lei.

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In questa immagine abbiamo lo stesso concetto, con i disegnini.
In effetti lo ione H+, di cui parliamo continuamente, che altro non è che un protone, ha un volume talmente
piccolo, che mantenere una carica positiva lì e immaginare protoni che se ne vanno a zonzo in una soluzione
è fuori dalla realtà. Questo per dire che i protoni da soli, nella vita di tutti i giorni, non esistono, ma possono
esistere se c’è qualcuno che se ne fa carico.
È l’acqua a farsi carico dei protoni comunemente, per quello che abbiamo visto prima. Questa si trasforma
nello ione H3O+ (come concetto è molto simile allo ione ammonio visto primo: lo ione H+, liberato da un
qualunque acido, si lega a una delle due coppie solitarie presenti sull’ossigeno.)
Anche H3O+ ha una struttura tetraedrica anche se non perfettamente simmetrica, perché uno dei quattro
vertici del tetraedro immaginario è occupato dalla coppia elettronica non condivisa. Vi ricordo che l’ossigeno,
a differenza dell’azoto che ha solo una coppia elettronica non condivisa, ne ha due. Una delle quali serve per
legare lo ione H+, l’altra rimane libera.
Nell’immagine abbiamo a sinistra l’acido acetico (quello che senza saperlo ha dato il nome a tutti gli acidi)
che è un acido relativamente debole. Quindi per l’acido acetico vale lo stesso discorso dell’ammoniaca:
all’equilibrio, se noi abbiamo acido acetico disciolto nell’acqua, l’acido acetico tende a rimanere non
dissociato (quindi nella forma CH3COOH). Come si vedrà in seguito in chimica organica, dei quattro idrogeni
presenti nell’acido acetico, l’unico a essere dissociabile come H+ è quello del gruppo carbossilico. Per quanto
compete acidità e basicità gli altri tre idrogeni non vengono presi in considerazione. Non si dissociano perché
formano con il loro carbonio un legame covalente con polarità trascurabile.
La forza di un acido, ma lo stesso discorso vale per una base, dipende da quanto gli equilibri sono spostati
verso destra. Più sono spostati verso destra, cioè maggiore è l’attitudine dell’acido presunto di liberare ioni
H+ (ben inteso se c’è qualcuno disposto a farsene carico e, nelle situazioni di nostro interesse, è sempre
l’acqua) più forte è l’acido.
Come sappiamo HCl, da solo è un gas. Estremamente solubile in acqua, nel momento in cui si scoglie avviene
una reazione pressoché istantanea di dissociazione elettrolitica. HCl si dissocia formando ioni cloruro Cl-,
mentre gli idrogeni delle molecole HCl vengono preso in carico dall’acqua che diventano H3O+. questa
reazione è quasi totalmente spostata verso destra. Quindi, in una soluzione ni HCL, di HCL ve ne è realmente
pochissimo. Se noi facessimo un’analisi scopriremmo che di molecole di HCL ce ne sono ben poche, a meno
che la soluzione non sia particolarmente concentrata e quindi scarseggi in qualche modo l’acqua. Anziché HCl
avremo una miscela di ioni H3O+, che si chiamano ioni idronio, e di ioni cloruro Cl-.

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Se invece sciogliessimo con la stessa concentrazione, per avere un paragone con HCl, dell’acido acetico,
facendo le debite analisi, scopriremmo che una percentuale rilevante, che può essere anche maggioritaria,
di molecole di CH3COOH sono rimaste indissociate.
Quindi solo una minoranza di queste molecole è sotto forma di ione acetato CH3COO-.
Discorso analogo nel caso dell’acido cianidrico HCN (quello delle camere a gas). È un acido talmente debole
che la quasi totalità delle sue molecole, disciolte nell’acqua, resteranno non dissociate. La posizione esatta
di questi equilibri può essere definita controllando il valore di K (la costante di equilibrio). La costante di
equilibrio di queste reazioni, quando si ha a che fare con acidi e basi, viene chiamata costante di dissociazione.
Se volgiamo essere più precisi, parlando di acidi si parla di costante di acidità; parlando di basi di costante di
basicità.
Come vedrete, la definizione di acidi secondo Arrhenius non è altro che un caso particolare della definizione
più moderna di Brönsted e Lowry. In realtà HCl non libera H+, ma reagisce con una base che è l’acqua (base
comunemente utilizzata per questo tipo di ragionamento, visto che gran parte delle reazioni che ci
interessano avvengono in presenza di grandi quantità di acqua) e trasferisce un idrogeno, sotto forma di ione
H+, che si ritroverà legato alle molecole d’acqua sotto forma di ioni idronio. La stessa cosa per l’acido acetico
e anche per l’acido cianidrico. La differenza è, a parità di concentrazione di questi tre acidi, quale sarà la
concentrazione dello ione H3O+.
La concentrazione dello ione H3O+ è facilmente misurabile con appositi strumenti che vengono chiamati
piaccametri. Possiamo avere una misura abbastanza precisa con apposite sostanze che vengono chiamate
indicatori di pH. Sono sostanze, coloranti, che cambiano colore in funzione della concentrazione di ioni H3O+
presenti. Ci sono indicatori più classici, come ad esempio il tornasole (estratto di un particolare lichene),
sostanza naturale che in ambiente basico ha un colore blu e in ambiente acido colore rosso. Sono in
commercio anche miscele di indicatori con cui le fabbriche di prodotti chimici inzuppano delle strisce di carta
assorbente. Queste ultime sono miscele di indicatori che invece riescono a discriminare anche tra singole
unità di pH. Sono graduate da pH 0 a pH 14 (vi è una scala di controllo e ad ogni colore abbiamo un dato pH).
Questi vengono chiamati indicatori universali. Nel laboratorio chimico e anche in quello biochimico può far
comodo, per non perdere tempo, anziché usare il piaccametro (che da una misura precisa ma è uno
strumento che deve essere tarato e bisogna saper usare), uno prende una goccia della soluzione che vuole
analizzare, la poggia su questa carta e, vedendo il colore, ne capisce, con abbastanza precisone, l’acidità.
Acidi e basi secondo LEWIS
Infine, una delle definizioni più recenti e che molte volte viene utilizzata è quella secondo Lewis.
Diciamo che questa è una definizione più comprensiva, anche di quella di Brönsted e Lowry. Così come gli
acidi e le basi secondo Arrhenius rientrano come caso particolare di una definizione più ampia, quella di
Brönsted e Lowry, così la definizione di Brönsted e Lowry rientra come caso particolare di quella di Lewis.
Esistono anche altre definizioni, che usano i chimici teorici, ma non verranno qui menzionate perché sono
abbastanza futili dal punto di vista del futuro medico.
Mentre nel caso di Brönsted e Lowry il gioco è basato soprattutto sui movimenti virtuali di H+ (ricordiamoci
che lo ione H+ da solo in soluzione acquosa non esiste, bensì esiste sotto forma di ione idronio H3O+), nel caso
di Lewis tutto ruota intorno alla disponibilità di coppie elettroniche non condivise. Chi ha almeno una coppia
elettronica non condivisa, e questa coppia elettronica può essere ceduta in una sorta di legame dativo a
qualche altra specie, è una base. Invece chi accetta, perché ha posto per accettare coppie elettroniche non
condivise altrui, formando il legame dativo, si considera acido.
Si chiamano anche nucleofile le specie chimiche che dispongono di almeno una coppia elettronica non
condivisa. Nucleofilo significa amico del nucleo. Non del proprio ma di quello degli altri. Perché il nucleo è
positivo e quindi vi è un’attrazione elettrostatica tra il nucleo positivo di una specie A e la coppia elettronica
non condivisa della specie B; A è un elettrofilo e B è un nucleofilo. Gli elettrofili hanno caratteristiche acide,
i nucleofili, a causa dell’eccedenza di elettroni, caratteristiche basiche.

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Questo è lo stesso fenomeno di prima, ovviamente con punti di vista diversi rispetto a Brönsted e Lowry.
Abbiamo l’ammoniaca che reagisce con una molecola d’acqua creando uno ione Ammonio positivo e uno
ione idrossido negativo. L’ammoniaca è base perché ha una coppia elettronica disponibile che forma un
legame dativo con l’idrogeno in rosso. Quindi si è formato un legame covalente che dal punto di vista formale
è un legame dativo (i due elettroni della barretta azzurra a destra provengono entrambi dall’azoto.).
Lo ione idrossido è una base molto forte perché ha una grande tendenza a strappare a qualcun altro ioni H+.

In questo esempio, invece, non sono coinvolti ioni H+. BF3 non è un composto molto usuale. In medicina
potrebbe avere interesse di tipo esclusivamente tossicologico, perché è un gas velenoso. Si chiama trifluoruro
di boro. È stato qui utilizzato per far vedere come il boro, che ha tre elettroni di valenza, formando tre legami
covalenti, non riesca a raggiungere l’ottetto, si ferma a 6. Rimane quindi posto disponibile per accogliere una
coppia elettronica per raggiungere l’ottetto. Si forma così un legame dativo. Pur non essendo indicati a destra
ci vorrebbe un + accanto all’azoto e un – accanto al boro.
Convenzionalmente si dice che è il nucleofilo che attacca l’elettrofilo e non viceversa. Quindi il donatore di
elettroni, come abitudine nel descrivere questi fenomeni, si considera la specie che attacca. La specie
attaccata è invece l’elettrofilo. In chimica organica, talvolta, consideriamo attacchi elettrofili ad altre specie.
Come dicevamo prima l’acqua si può mettere al centro di una scala ideale perché con acidi più forti di lei si
comporta da base, se ci sono due coppie elettroniche non condivise; invece si comporta da acido con basi
più forti di lei perché può cedere uno dei due idrogeni sotto forma di ioni H+.

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Autoionizzazione (autoprolisi) dell’acqua

Per quanto l’acqua sia un composto covalente, tuttavia c’è una differenza di elettronegatività notevole tra
ossigeno e idrogeno (l’acqua è un dipolo permanente e ne abbiamo già visto le conseguenze: comportamento
dell’acqua come solvente o agente solvatante). L’acqua è anche in grado di dar luogo a una debolissima
dissociazione elettrolitica che produce H+ e OH-. Quindi, se io ho una certa quantità di acqua distillata, so già
che conterrà oltre a molecole d’acqua, una piccolissima percentuale di ioni H+ e una piccolissima, ma
identica, percentuale di ioni OH-.
In realtà ricordiamoci che quando troviamo H+, dobbiamo sottintendere che sia sotto forma di H3O+.
Si è anche visto che H3O+ forma a sua volta legami a idrogeno con molecole d’acqua vicine e quindi si formano
degli aggregati che contengono più molecole d’acqua che circondano uno ione idronio, che si chiama anche
idrossonio e anche ossonio (ma che noi continueremo a chiamare idronio per semplicità).
Per questa reazione, anche sappiamo che è quasi completamente spostata verso sinistra (le molecole d’acqua
hanno una naturale tendenza a rimanere come sono), tuttavia un pochino avviene questa reazione e non è
per niente trascurabile dal punto di vista degli effetti pratici. Come per tutti gli equilibri è possibile scrivere
l’espressione di una costante di equilibrio, costante che può anche essere calcolata. È possibile con una certa
facilità, con il piaccametro, misurare rigorosamente la concentrazione degli ioni idronio.
È stato misurato questo valore e vale 3.2 x 10-18 a 25°C. Quando non si usano i logaritmi si usa la notazione
scientifica (Con una adeguata conoscenza elementare delle proprietà delle potenze, questo modo di scrivere
un numero così piccolo – o così grande-, ci consente di fare operazioni che altrimenti potrebbero essere
molto complicate sia a mano che con la calcolatrice). Sappiamo che le costanti di equilibrio dipendono dalla
temperatura, quindi l’indicazione a 25° non è superflua.
H2O, come concentrazione, si può considerare costante. Questo perché, ammettendo per assurdo di partire
da acqua del tutto dissociata e quindi misurandone la concentrazione, un litro d’acqua contiene 55,5 mol di
acqua, considerando l’acqua come soluto di sé stessa. Se io ne dissocio una quantità piccolissima, di fatto
non varia la concentrazione (si arriverebbe a 55,49999999999999999 e ciò è praticamente ininfluente nei
nostri calcoli). Quindi possiamo eliminare la minima dissociazione dai nostri calcoli.

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Perché il pH è neutro nel valore 7?

Abbiamo visto l’espressione della costante di equilibrio, abbiamo detto che rimane costante, quindi possiamo
permetterci di incorporarla qui e svolgendo il calcolo si trova che, a 25° C, il prodotto delle concentrazioni di
H+ e di OH- meno vale 1x10-14. Questo prodotto viene indicato come prodotto ionico dell’acqua KW (W viene
dall’inglese water). Anche questa è una costante e incorpora la concentrazione invariabile dell’acqua pura.
Siccome questo numero non può variare, a meno che non vari la temperatura, ci dice una cosa di importanza
fondamentale per la chimica degli acidi e delle basi: ogni aumento di H3O+ deve essere accompagnato
obbligatoriamente da una diminuzione di OH- e viceversa, in maniera tale che questo rapporto rimanga
sempre dello stesso valore.
Ogni aggiunta a un bicchiere d’acqua di un acido produrrà un aumento della concentrazione di H3O+ e una
corrispondente diminuzione della concentrazione di OH-. Viceversa, se io aggiungo una base all’acqua
distillata, sarà lo ione OH- ad aumentare la propria concentrazione, dipende da quanto è forte la base che
aggiungo e da quanta ne aggiungo, e corrispondentemente deve diminuire H3O+, in maniera tale che il valore
del prodotto di queste due concentrazioni rimanga costante in 1x10-14.
L’ultima riga della slide ricorda come 55,5 – 10-7 (cioè 0,0000001) è ancora uguale a 55,5. Questo perché
nell’acqua pura, per le proprietà delle potenze, si vede subito che la concentrazione di H+ deve essere uguale
alla concentrazione di OH-, e ciascuna delle due deve valere 10-7, perché 10-7 x 10-7, per le già citate proprietà,
ci da 10-14. Ecco da dove abbiamo preso il 7 del valore del pH neutro.
Se l’acqua viene riscaldata, diviene via via più acida, se viene raffreddata, diviene invece meno acida, perché
cambia il grado di dissociazione. Attenzione che non diventa solo più acida scaldandola, ma diviene anche
più basica, perché per ogni nuovo ione H+ che si libera significa che si libera anche uno ione OH- in più. Questo
ci spiega perché in molti processi di tipo industriale che richiedono l’uso di acqua molto calda, sotto pressione
anche più di 100°C, nelle cosiddette autoclavi (l’acqua rimane allo stato liquido ben al di sopra di 100°C.
D’altronde l’acqua ha una temperatura critica molto alta, più di 300°C, quindi se la pressione è sufficiente a
300°C noi abbiamo ancora acqua liquida) non solo si necessita di materiali che devono resistere alla pressione
ma anche alla corrosione. Perché diventa contemporaneamente più acida e più basica.
NB. All’aumentare della temperatura l’acqua diviene più acida e più basica allo stesso tempo, questo perché
aumenta la concentrazione sia degli ioni H+ che degli ioni OH-, grazie all’aumento della dissociazione.
Nonostante l’acqua continui ad avere un pH pari a 7, essendo neutra, data la maggior concentrazione degli
ioni, aumenta il suo potere corrosivo nei confronti di certe sostanze (sensibili all’azione corrosiva degli acidi
e/o all’azione corrosiva delle basi). Quindi l’acqua non diventa acida o basica, ma semplicemente più acida e
più basica allo stesso tempo e con la stessa misura.

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Il corpo umano non ha questo tipo di problemi visto che deve restare sui 37°C e non contiene parti soggette
a corrosione.
Velocità degli ioni in soluzione
Una caratteristica dell’acqua o dei soluti acidi o basici che può
contenere è la velocità con cui gli ioni H+ e gli ioni OH-
apparentemente migrano nella soluzione acquosa. In realtà non
migra sempre lo stesso, ma succede ciò che possiamo vedere
nel disegno a fianco. Questo è stato chiamato meccanismo di
Grotthuss, dal nome di chi l’ha proposto. Poi è stata verificata la
sua veridicità utilizzando come esempio la cosiddetta Acqua
Pesante (H2O in cui al posto dell’idrogeno abbiamo il deuterio).
Ciò avviene sia per gli ioni H+ che per gli ioni OH-.

Idrossido o ossidrile?

In questa figura il prof avrebbe potuto sostituire le didascalie con power point, ma ha preferito semplicemente
mettere la sottolineatura rossa che si può osservare, per ricordare che mentre anticamente si parlava di ione
ossidrile, secondo le convenzioni più moderne si deve parlare di idrossido. Dire ioni ossidrile viene oggi
considerato un errore, perché ambiguo in quanto, come poi si vedrà in vari punti del percorso accademico
dei futuri medici, si può immaginare di togliere allo ione OH- un elettrone. Sparisce la carica negativa e rimane
un elettrone spaiato. Si chiama radicale ossidrile o radicale idrossile ed è un cosiddetto radicale libero, che si
può formare in certe circostanze (raramente fisiologiche, di solito patologiche) ed è in grado di arrecare molto
danno ai tessuti viventi. Il radicale idrossile o ossidrile risulterà di fondamentale importanza quando si

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studierà il cosiddetto stress ossidativo. È una specie chimica straordinariamente reattiva e aggressiva. Sono
poche le molecole, soprattutto organiche, che riescono a scamparla. Per fortuna l’organismo sano è
attrezzato con una serie di accorgimenti biochimici per rendere innocui, distruggendoli, questi radicali
idrossile.
Come si definisce il pH?
Un chimico danese, un certo Søren
Peter Lauritz Sørensen, introdusse il
concetto di pH. La p minuscola è un
operatore matematico che vuol dire –
log. Vuol dire prendere un numero,
calcolarne il logaritmo e cambiarne il
segno, che è la stessa cosa che fa il
logaritmo del reciproco di quel numero.
Il concetto di pH si rivelò talmente utile,
parlando di acidi e basi, che fu subito
molto popolare. Difatti non è stato
abbandonato, anzi, bisogna tenere
conto piuttosto che ha una limitazione e
cioè che il pH ha un significato chimico,
oltre che semplicemente matematico,
solo quando parliamo di soluzioni acquose (Ma questo non è un problema in quanto, come detto e ridetto
più volte, le reazioni biochimiche avvengono in ambiente acquoso).
Così come è stato definito il pH, in maniera esattamente analoga si può definire un pOH. Tuttavia il pOH non
si usa quasi mai, lo cercano i professori di chimica per vedere se gli studenti hanno capito bene il concetto.
Nel senso che anche le soluzioni basiche contengono ioni H+, o meglio ioni idronio. Ne contengono meno, in
concentrazione, di quelli che ci sarebbero nell’acqua pura. Noi sappiamo che le soluzioni basiche, in qualche
modo. Aumentano la concentrazione di ioni OH- nell’acqua. Ma far ciò significa diminuire proporzionalmente
quella di ioni H+. perché le concentrazioni di questi due ioni in acqua non sono tra loro indipendenti ma
devono obbedire all’equazione (in rosso) del prodotto ionico dell’acqua, in modo che quel prodotto valga
sempre 10-14. Qualsiasi ragionamento che facciamo sull’acidità o sulla basicità di una soluzione, la nostra
stella polare, che non dobbiamo mai perdere di vista, è sempre quel numerino magico KW. Ma se io passo ai
logaritmi ottengo quello che si vede nelle righe successive. Per le proprietà dei logaritmi, il prodotto ionico
dell’acqua diventa una somma tra pH e pOH e, così come il prodotto doveva dare 10-14, il logaritmo deve
dare 14.
Se io so il pH di una soluzione, in acqua, automaticamente so anche il pOH e viceversa. La somma dei due
numeri deve dare sempre 14.
Ecco una tabellina che ci consente di apprendere meglio il concetto.

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La situazione di perfetta neutralità, in questa scala, è indicata con il colore verde. Da notare che in questa
scala c’è scritto solo l’unità di pH, ma nelle soluzioni vere, spesso ci sono molti decimali. Nella maggior parte
dei casi, la precisione richiesta si può fermare al primo decimale. Ci sono però circostanze, anche fisiologiche
o anche eventualmente patologiche, in cui è importante anche la seconda decimale. Ed esempio, dire pH 7
per il sangue non è sufficiente come grado di precisione. Devo dire, per esempio, 7,3, e allora già sto dando
una specifica che fornisce, a chi si occupa di particolari problematiche ematiche, una specifica importante.
Se poi dico 7,41, ad esempio, allora sto definendo perfettamente. Aggiungere la terza decimale non ha molto
significato, anche perché spesso gli strumenti che si usano, a meno che non siano particolari (con tarature
rigorosissime e anche costi piuttosto elevati), la terza decimale non ha senso.
Differenze acidi forti/acidi deboli e basi forti/basi deboli.
In questa immagine ribadiamo il
concetto di prima che si può anche
esprimere numericamente come grado di
dissociazione. La cosa interessante da
notare, che qui vi anticipo, è che mentre
la costante di acidità e la costante di
basicità, come dice il nome, sono
costanti. Questo sempre che la
misurazione venga effettuata a
temperatura costante, perché il numero
cambia se io riscaldo o raffreddo rispetto
alla temperatura di riferimento, ci sono
diverse temperature standard (a seconda
delle circostanze, in base al paese, può
essere 20 o 25. Tuttavia si è visto che
passare da una temperatura standard tra 20 e 25, non si commette un grave errore e si può quindi
trascurare.). Quindi se noi manteniamo una temperatura standard, la costante è quella sia che io sciolga
nell’acqua poco acido, sia che io sciolga tanto acido. L’equilibrio è sempre definito da quella costante.

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Diverso è il grado di dissociazione. Questo dipende dalla concentrazione dell’acido o della base che io ho
scelto di studiare. Una cosa caratteristica, importante, del grado di dissociazione è che diluendo la soluzione
di un acido o di una base, il grado di dissociazione aumenta e, se la soluzione è sufficientemente diluita o
diluitissima, anche un acido debole sarà notevolmente dissociato.
Gli acidi forti invece si contraddistinguono rispetto agli acidi deboli, perché anche già nelle soluzioni
concentrate, sono fortemente dissociati. Gli acidi cosiddetti fortissimi sono totalmente dissociati anche nelle
soluzioni concentrate. Invece quelli deboli, nelle soluzioni concentrate, si dissociano poco o pochissimo. Per
quelli debolissimi, bisogna diluire moltissimo per costringerli a dissociarsi parecchio. Avendoli così diluiti se
si misura il pH di un acido molto debole, anche se in quelle condizioni si dissocia quasi del tutto, a causa della
scarsissima presenza di acido, il pH non potrà scendere più di tanto. Non è che un acido debole molto diluito
possa divenire un acido forte. Semplicemente il suo grado di dissociazione aumenta ma, essendocene poco
in partenza, l’acidità della soluzione sarà comunque modesta.

Per le proprietà delle frazioni, maggiore è il numeratore, quindi la concentrazione di H3O+, maggiore sarà il
valore della frazione. Ecco spiegata la frase sopra.

In questa tabella sono ripostati alcuni acidi fortissimi e alcune basi fortissime. Quindi quelli che anche in
soluzione concentrata sono completamente o quasi completamente dissociati.
Gli acidi più forti sono l’acido iodidrico e l’acido perclorico. La base più forte è l’idrossido di potassio. Non è il
numero di ioni H+ che si potrebbero liberare o quello degli ioni OH- meno che si potrebbero liberare, ma la
facilità con cui si liberano.
Soprattutto per gli idrossidi dei metalli si solito, all’aumentare degli ioni OH- dissociabili, la forza basica
diminuisce. Perché averne di più come dotazione, non significa che poi siano tutti utilizzabili con grande
facilità. Ad esempio KOH ha un solo OH- dissociabile, come ione idrossido, ma è una delle basi più forti che si
possano trovare. Mg(OH)2, idrossido di magnesio, è una base di forza moderata, pur avendo due ioni OH-
possibili. AL(OH)3, idrossido di alluminio, ha tre ioni idrossido possibilmente dissociabili, ma è una base
debole. Sn(OH)4, idrossido stannico, praticamente non è nemmeno una base. La tendenza a dissociare anche
solo uno dei suoi ioni potenziali OH- è vicina allo zero. Questo accade a causa della elevata elettronegatività
dello stagno, che tende a tenersi gli ioni OH- in presenza di acqua.

13
Per gli acidi e le basi più forti c’è scritto “molto grande”. La misurazione di queste costanti di acidità o di
basicità, a proposito di acidi molto forti o di basi molto forti, dal punto di vista pratico è molto complicato.
Per questo molto spesso non si danno valori molto precisi. Anche perché basta cambiare, sia pure di poco, le
condizioni sperimentali durante la misura e si ottengono valori abbastanza diversi.
In questa immagine ci sono le formule di struttura di alcune basi organiche che funzionano come basi perché
in qualche modo hanno una certa parentela con l’ammoniaca e quindi contengono atomi di azoto con un
doppietto elettronico disponibile a legare ioni H+ altrui (per questo hanno reazione basica). La metilammina
si può considerare come una base di forza media; la piridina è invece una base decisamente debole. Questo
dipende dal fatto che il doppietto elettronico dell’azoto della piridina non è granché disponibile a lasciarsi
protonare (vedremo in seguito i motivi).
L’altra sostanza, l’UREA, che ha un’importanza veramente notevole sia in medicina che nell’industria, perché
è uno dei fertilizzanti azotati più utilizzati, si chiama così perché la prima volta fu scoperta da un fisico che
dopo aver urinato in un vaso, trasferì l’urina in un alambicco e la distillo per vederne la composizione (siamo
agli albori della chimica, quando l’alchimia stava svanendo e si passava pian piano alla chimica). Spento il
fuoco sotto l’alambicco, rimossa l’acqua con la distillazione, rimase questa urina concentrata caldissima.
Tornando più tardi, con il tutto raffreddato, vide sul fondo dell’alambicco dei cristalli bianchi. Questi cristalli
furono analizzati ed egli descrisse la loro struttura chimica. Vennero chiamati Urea proprio per ricordare
l’origine di questa sostanza (ed è per le vicende come questa che la nomenclatura tradizionale è così difficile
da regolare. I nomi venivano dati in base alla fonte dalla quale si scopriva una sostanza. Vi sono tanti esempi
di sostanze con un nome di questo tipo).
L’urea è stato il primo composto organico di cui è stato possibile, per errore, fare la sintesi in laboratorio. Agli
esordi della chimica, vi era la convinzione che non fosse possibile sintetizzare in laboratorio i composti
cosiddetti organici (che erano chiamati organici perché prodotti dagli organismi viventi). Scoprire che invece
l’urea si poteva banalmente ottenere in laboratorio da un composto che non proveniva da esseri viventi, fu
l’inizio vero e proprio della chimica organica, cioè la consapevolezza che questo limite non esiste e che basta
avere la giusta tecnica e le giuste conoscenze teoriche per poter preparare i composti organici che si
necessitano. A prescindere dal fatto che alcuni di essi abbiano una struttura complicata per cui se li si trova
già pronti in natura, come ad esempio una pianta medicinale, conviene usare quelli.

14
Prendiamo il caso di un acido debole che si usa molto
spesso negli esercizi perché ha un’utilità didattica
notevole: l’acido acetico CH3COOH. Quest acido è
quello che da il nome e l’odore all’aceto. Così come
abbiamo visto che il prodotto ionico dell’acqua
nonché la concentrazione di H+ e di OH- conviene per
molti calcoli esprimerla in forma di logaritmo
cambiato di segno, la stessa cosa si può fare per le
costanti di acidità o di basicità. Infatti calcolandone il
logaritmo cambiato di segno, la costante di acidità Ka
diventa il pKa.
Come viene fuori questo logaritmo con il numero decimale? Faccio il logaritmo di 1,8 che fa 0,25, poi faccio
il logaritmo di 1x10-5 che fa -5 e ottengo, facendo la somma per proprietà del logaritmo di un prodotto, 4,75,
cambio il segno e ottengo il risultato sopra riportato.
Così come per una soluzione acquosa di un acido o di una base, minore è il valore del pH, più acida è quella
soluzione, la stessa cosa vale per il pKa: più il pKa di un acido è piccolo, più forte sarà quell’acido.
NB: attenzione a non confondere i due concetti. Il pK è una misura univoca della forza di quel certo acido e
quindi non dipende dal fatto che la soluzione sia diluita o concentrata, è una caratteristica pura inerente
l’acido preso in esame (la sua tendenza a rilasciare ioni H+). Il pH invece è la misura della concentrazione degli
ioni H+ in una certa soluzione, e come tale può variare. Se io prendo una soluzione di acido acetico in acqua,
misuro il pH e trovo un certo valore; aggiungo acqua, rimisuro il tutto e trovo che il pH è salito, l’acidità è
diminuita. Questo perché in rapporto alle molecole d’acqua, quelle di acido acetico sono meno, avendolo
diluito.
Quindi pKa dipende unicamente dal particolare acido preso in considerazione mentre pH dipende anche dalla
concentrazione. Così come la velocità della reazione è una cosa, la costante di velocità è un’altra. La velocità
varia in funzione delle concentrazioni dei reagenti e dei prodotti, mentre la costante di velocità è un valore
intrinseco è dipende unicamente dalla reazione presa in considerazione. Tutto ciò vale solo ed
esclusivamente a temperatura costante. Se cambia la temperatura allora cambia tutto.

Qui ci sono dei valori che riguardano alcuni acidi cosiddetti deboli. Come si può vedere, più è grande il valore
di pK, più è debole l’acido. Si può notare che in mezzo a questi acidi c’è anche lo ionio ammonio, perché
questo non è altro che la base coniugata dell’ammoniaca.

15
E se io da qui volessi ricavarmi la costante di basicità dell’ammoniaca? Ricordiamoci che la somma del pK di
un acido e della sua base coniugata oppure la somma di quella di un acido coniugato e di quella della sua
base deve dare 14. Quindi se io so che il pK dello ione ammonio, considerato come un acido, che si dissocia
liberando ioni H+ è 9,25, basta fare 14-9,25 e ottengo il pKb dell’ammoniaca, che è 4,75. La forza basica
dell’ammonica è infatti pressoché identica alla forza acida di un acido piuttosto comune come l’acido acetico.
Lo ione bicarbonato si può considerare un acido, sia pure molto debole, perché questo ione bicarbonato è
uno ione che si ottiene liberando lo ione H+ dal corrispondente acido che è l’acido carbonico, il quale può
cedere uno ione H+, secondo questo pK di acido debole, formando ione bicarbonato.
Lo ione bicarbonato però ha ancora un idrogeno dissociabile e infatti si può comportare da acido. Tuttavia,
togliere il secondo idrogeno dall’acido carbonico dopo aver tolto il primo, è un affare molto più complicato.
E infatti, come acido, lo ione bicarbonato è decisamente molto debole. E questo si spiega con la solita vecchia
legge di Coulomb: mentre nel primo caso devo togliere una particella positiva da una particella
elettricamente neutra, che è l’acido carbonico, qui la particella positiva devo strapparla da una particella che
è già negativa. Quindi c’è una forte attrazione che devo vincere per separare la carica positiva del secondo
H+ da una particella negativa. Ecco perché nei cosiddetti acidi poliprotici, acidi che hanno più di un idrogeno
dissociabile (l’acido carbonico per esempio è un acido diprotico, l’acido borico è un acido triprotico, l’acido
fosforico è un acido triprotico), diciamo che il primo distacco è il più facile mentre l’ultimo distacco è il più
difficile (proprio per ragioni di tipo elettrostatico).
Tuttavia, nel caso dell’acido fosforico, è possibile staccare tutti e tre gli idrogeni e misurare l’acidità di questi.
Come si può vedere l’ultimo ha un’acidità bassissima, è appena 100 volte più basico dell’acqua (essendo una
scala logaritmica avere pH 6 significa avere un’acidità dieci volte più forte di una soluzione a pH 7). Nel caso
dell’acido borico, invece, il secondo e il terzo idrogeno hanno acidità talmente bassa da poter essere
trascurabili.

Qui abbiamo lo stesso discorso fatto per una base anziché per
un acido. Abbiamo qui l’ammoniaca al posto dell’acido acetico.
Io quindi posso scrivere la costante di basicità di questa base
l’ammoniaco oppure la costante di acidità dello ione ammonio.

Se io faccio il prodotto tra le due costanti,


come scritto a lato, vedo che per le proprietà
delle frazioni, posso fare una drastica
semplificazione. Così mi rimane il prodotto
ionico dell’acqua, che mi conferma come la
concentrazione di H+ o OH- nell’acqua non
sono tra loro indipendenti ma sono legate dal
fatto che il loro prodotto deve dare 10-14.

16
In questa tabella si vede benissimo che se un certo acido è forte la sua base coniugata sarà debole e viceversa.
L’etanolo per esempio (il normale alcol) è un acido estremamente debole. Libera ancora meno H+ di quanti
ne liberi l’acqua. Questo significa però che, una volta perso lo ione H+, la sua base coniugata (ione etossido)
sarà una base estremamente forte, perché così come non ne voleva saper di perdere uno ione H+, appena lo
trova in giro lo acchiappa (cerca quindi di riottenerlo).
L’acido iodidrico è un acido fortissimo perché, se in acqua, si dissocia al 100%. Questo significa che la sua
base coniugata (ione ioduro) sarà una base debolissima, perché non ha nessuna tendenza a riprendersi gli
ioni H+.

In questa immagine abbiamo la stessa cosa da


un differente libro.

17
Idem in quest’altra immagine.
Ancora altro libro diverso.
Nel compito di lunedì 20
dicembre (le lezioni terminano il
10), ci saranno esercizi anche
basati su questi aspetti.
Il 14 deve essere un punto di
riferimento assoluto!

Ora vengono mostrate diverse soluzioni con diversi


pKa e pkb e quindi differente pH.
La soluzione più basica sarà quella di KOH ovvero la
potassa caustica, la cui costante di basicità non è
indicata essendo un numero molto grande.

Quali fattori stabiliscono se un acido è più o meno forte?


L’energia del legame che unisce l’idrogeno con il resto
della molecola dell’acido è un fattore determinante. Se
il legame è forte, la tendenza a sbarazzarsi dello ione H+
non sarà un granché. Al contrario, se questo legame è
facile da rompere perché ha un’energia di legame
ridotta, allora l’acido sarà tendenzialmente forte.
Un altro criterio è quello della differenza di
elettronegatività tra l’idrogeno e l’elemento con cui
l’idrogeno si lega. Questa è una cosa che vediamo
soprattutto nelle righe (periodi) del sistema periodico.
Se noi confrontiamo l’acido che si può formare
dall’ossigeno (che chiamiamo acqua) e quello che si può
formare dal fluoro (e che chiamiamo acido fluoridrico),
scopriamo che il divario di elettronegatività che c’è tra
idrogeno e ossigeno è inferiore di quello che c’è tra
idrogeno e fluoro. E questo spiega perché l’acido

18
fluoridrico si chiama appunto acido e l’acqua non si chiama acido ossigenico; l’acido fluoridrico si dissocia in
maniera nettamente maggiore rispetto all’acqua.
Scendendo lungo le colonne del sistema periodico scopriamo che
anche se l’elettronegatività diminuisce, passando dal fluoro al cloro
e dal boro allo iodo, quini dovremmo aspettarci una diminuzione
della forza acida, scopriamo invece che l’ordine di acidità è
esattamente il contrario. Questo dipende dal fatto che se misuriamo
l’energia di legame (tramite opportuni esperimenti), scopriamo che
la forza dell’attrazione che l’ossigeno ha opera l’idrogeno è massima.
Andando verso il basso si abbassa. Ciò vale in tutte le colonne
(gruppi) del sistema periodico.

Questo fatto dipende dai raggi dei rispettivi ioni.


Maggiore è la sfera, maggiore è il grado di dispersione
della carica unitaria sulla sua superficie. Quindi è più
favorita la formazione dello ione ioduro rispetto al
bromuro, il quale è più favorito rispetto al cloruro, il
quale è molto più favorito rispetto al fluoruro. Tanto è
vero che bromidrico, cloridrico e iodidrico sono tutti e
tre acidi fortissimi (in particolare l’ultimo), mentre
l’acido fluoridrico è un acido di sola forza media (questo
non influisce sulla sua pericolosità. L’acido fluoridrico è
una sostanza straordinariamente tossica e anche pericolosa, in quanto produce ustioni
tremende sulla pelle che hanno grande difficoltà a cicatrizzare. È un reagente industriale che
sicuramente non si può comprare in drogheria; lo si può forse trovare in alcune boccette di
antiruggine, in maniera molto diluita).
Acidità degli ossiacidi
Al lato: il cloro può formare quattro diversi ossiacidi. Questi hanno un’enorme
differenza di acidità. Si passa da un acido debolissimo come l’acido ipocloroso (che
è quello della varechina, dell’amuchina, etc) a un acido relativamente forte che è
l’acido cloroso, a un acido decisamente forte che è l’acido clorico, fino a uno degli
acidi più forti che si conoscano che è l’acido perclorico. Questo si spiega con il
fatto che vi è una notevole differenza di struttura tra queste molecole. La
principale differenza sta nella presenza rispettivamente di 0, 1, 2, 3 legami dativi
con l’idrogeno nei rispettivi acidi. Ciò rende sempre più positivizzato il cloro,
perché deve cedere coppie elettroniche agli atomi di ossigeno per formare il
legame dativo. Questo di riversa sull’atomo di ossigeno che a sua volta è legato
all’idrogeno. Nell’acido perclorico, per giunta, lo ione perclorato (quello che si
ottiene dopo che l’acido si sbarazza dello ione H+) sarà un tetraedro perfetto, e
questo lo stabilizza, perché la carica negativa si può disperdere in maniera identica sui quattro ossigeni, cosa
che spiega questa notevole acidità.

19
Anche in questo caso abbiamo un’acidità crescente perché i tre idrogeni non esercitano nessun richiamo di
elettroni. I tre clori, più elettronegativi dell’idrogeno, esercitano maggior richiamo. Il fluoro, elemento più
elettronegativo di tutti, darà un’attrazione ancora maggiore e quindi un acido piuttosto forte.
Acido acetico < Acido tricloroacetico < Acido trifluoroacetico
Acido diprotico

Come detto prima, abbiamo una graduale dissociazione. Prima si stacca un idrogeno, poi un altro e così via.
Il secondo idrogeno ha un’acidità minore del primo e il terzo ancora meno e così via.
Abbiamo ad esempio il caso dell’acido fosforico. I due
acidi al lato vengono studiati perché sono di estrema
importanza nella regolazione del pH, equilibrio acido-
basico, negli organismi viventi (sia nel citoplasma, sia nel
fluido interstiziale, sia, soprattutto, nel sangue).

20
Esame Chimica e propedeutica biochimica

Docente Enrico Sanjust

Lezione n.13del 10/11/2021

Sbobinatore Antonio Cualbu

Misuratori di pH
Il pH può essere misurato fondamentalmente in due modi:
• Indicatori di pH: metodo non rigorosissimo ma immediato. Sono
sostanze organiche (naturali o sintetiche), scelte in maniera tale da
avere un colore che cambia in funzione del pH della soluzione in cui
sono disciolti;
• pH-metri: metodo più rigoroso; sono dei potenziometri con un
elettrodo sensibile alla concentrazione di ioni H+.
Possono esserci delle limitazioni, ma sono due metodi piuttosto attendibili.
Esistono diverse centinaia di indicatori, alcuni possono essere combinati per preparare i cosiddetti
indicatori “universali”, miscele di indicatori, ciascuno dei quali ha un pH a livello del quale cambia colore (si
chiama punto di viraggio, ossia che l’indicatore cambia colore). Con questo si preparano delle apposite
strisce di carta assorbente (o carta da filtro) che consentono di farsi un’idea immediata sul pH di una certa
soluzione. Il problema è che la soluzione è già di suo molto colorata o molto scura e ciò rende difficile
l’interpretazione del colore, mentre con il pH-metro questo problema non si pone.

Calcolo del pH
Acido forte
[H3O+] = [M]
In presenza di un acido forte o fortissimo (come HCl, HClO4, HNO3), esso, anche in soluzione molto
concentrata sarà completamente dissociato: possiamo concludere che la concentrazione di ioni H+
corrisponde esattamente alla concentrazione nominale dell’acido.
Se prendo dell’acido cloridrico (HCl) e lo sciolgo in acqua, in quell’acqua acido cloridrico covalente non ce
ne sarà più in quanto sarà completamente dissociato in H3O+ e Cl-. Visto che ogni HCl produce un H3O+
dissociandosi, il calcolo è immediato: se conosco la concentrazione di HCl conosco automaticamente la
concentrazione di H3O+. Facendo −log [𝑀𝑀] ho immediatamente il pH.
Il pH di una soluzione 0,01M di HCl è  [H3O+] = 0,01M = 10-2M  pH = -log[H3O+] = -log(0,01) =
-log(1·10-2) = 2
Il pH di una soluzione 100mM (millimolare, ossia 0,1M) di HCl è  pH = -log[H3O+] = -log(10-1M) = 1
Il pH di una soluzione 25mM di HCl è  pH = -log(0,025M) = -log(2,5·10-2) = 1,6 circa
Base forte
[OH-] = M
Si può fare lo stesso identico ragionamento per basi forti o fortissime (NaOH, soda caustica, KOH, potassa
caustica). In questo caso, anche se le scriviamo come covalenti sappiamo già che sono sostanze ionizzate
allo stato solido, pertanto a maggior ragione sono completamente dissociate quando si sciolgono in acqua.
In questo caso, anziché calcolare il pH posso calcolarmi il pOH (come abbiamo visto nella lezione
precedente si calcola allo stesso modo):

1
Il pH di una soluzione 0,001M di NaOH è  [OH-] = 0,001M = 10-3M  pOH = -log[OH-] = -log(1·10-3)
= 3. Il pH si calcola come  pH = 14 – pOH. Il pH è 11.
Il pH di una soluzione 50mM di NaOH è  pOH = -log[OH-] = -log(5·10-2) = 1,30. pH = 14 – pOH =
12.70
Il pOH di una soluzione 10-3M di KOH è  il pOH è 3 e il pH è 11.
Quindi, la concentrazione di ioni OH- in soluzione è, con ottima approssimazione, uguale alla
concentrazione analitica della base.
Ricordiamo che 7 è il pH spartiacque tra le soluzioni basiche (7-14) e acide (1-7). Ogni unità di pH significa
10 volte tanto [agg. 10 volte la concentrazione di ioni H+], ossia che una soluzione a pH 11 è dieci volte più
basica di una soluzione a pH 10.

Acido debole
[H3O+] < [M]
In questo caso non è sufficiente conoscere la concentrazione dell’acido (o della base) in quanto non si
dissocia completamente: si dissociano tanto meno quanto più è concentrata la soluzione. A mano a mano
che la soluzione viene diluita il grado di dissociazione dell’acido (o della base) diventa sempre più elevato.
Quando la soluzione è diluitissima possiamo anche considerare che acidi di questo tipo siano
completamente dissociati
Tuttavia, esistono dei metodi per calcolare il pH (o il pOH): nulla vieta osservare attraverso pH-metro se il
calcolo è corretto. Prendiamo come caso l’acido acetico, una biomolecola, e la sua costante di acidità
(costante di dissociazione, Ka) che non è altro che una costante di equilibrio.
Nella costante notiamo quali sono le specie coinvolte: al denominatore il
reagente (l’acido indissociato) e al numeratore il prodotto matematico dei
prodotti della reazione di dissociazione: ione acetato e ione idronio.
È ovvio che per ogni CH3COO- che si forma, si deve formare un H3O+, dunque queste due concentrazioni
sono per forza uguali.
Vi è anche acqua che si sta dissociando: in realtà per legge di azione di massa, la dissociazione dell’acqua
viene repressa dagli H3O+ portati in soluzione dall’acido acetico, ma anche se la legge la mettessimo da
parte (approssimando), comunque sia l’acqua che contributo può dare? Sapendo che nell’acqua pura vi è
10-7M di H3O+, cioè una concentrazione praticamente nulla. Ciò è ancora più incerto a mano a mano che
diluiamo l’acido acetico.
Se noi prendiamo una soluzione di acido acetico straordinariamente diluito, ad esempio 10-7M, esso si
dissocerà completamente. Ma quanto può influire sul pH una soluzione così diluita? Sarà tutto dissociato
ma il contributo di ioni idronio portati dall’acido acetico è paragonabile al contributo di quelli portati
dall’acqua.
Quanto viene il pH? 7? No, verrà 6,998: numero inventato, per comprendere il livello di influenza di una
concentrazione così bassa di acido sul pH.
Partiamo però dal presupposto che il nostro ragionamento sia basato su una concentrazione alta di acido
acetico, come 0,1M: l’acqua non fornisce ioni idronio in maniera apprezzabile, dunque può non essere
considerata. Possiamo, dunque, affermare senza commettere errore che le concentrazioni di ione idronio e
ione acetato sono identiche, in quanto tutti gli ioni idronio presenti verranno dalla dissociazione di acido
acetico.
Una volta compresa tale considerazione, si può procedere con il
calcolo in figura. Se le due concentrazioni sono uguali, il
numeratore si può esprimere in questo modo. Per quanto
riguarda il denominatore, abbiamo il valore detto prima, 0,1.

2
Stiamo parlando di un acido debole, la sua Ka è 1,8 · 10-5 circa, pertanto possiamo anche dire che con un
numero così piccolo di Ka, anche la frazione di acido acetico che si dissocia è sufficientemente piccola da
permetterci di fare un’approssimazione (errore piccolo).
Excursus acido di media forza
Questo discorso è sempre più scricchiolante se prendiamo un acido debole un pochino più forte, un caso
intermedio, dove la concentrazione dell’acido indissociato non possiamo considerarla come concentrazione
totale. L’acido tricloro-acetico ha una Ka di circa 2 · 10-1, far finta che non si sia dissociato non è corretto: in
questo caso dovremmo scrivere al denominatore “acido indissociato meno concentrazione di ioni idronio”.
La concentrazione di ioni idronio corrisponde a quella dell’anione che abbiamo al numeratore.
In altre parole, con un acido di media forza non posso dire che la concentrazione di ioni idronio è uguale a
quella dell’acido (si può fare con acidi forti). Non è neanche possibile fare l’approssimazione dell’acido
debole: al denominatore non posso usare come concentrazione di acido indissociato quello che è sciolto in
acqua, come per l’acido acetico che rimane tutto indissociato (quindi è uguale).
Dunque, al denominatore dovrei mettere quel 0,1 meno la concentrazione di ioni idronio.

Tornando sul calcolo precedente, per ottenere gli ioni idronio


devo fare la radice quadrata di Ka per 0,1  𝐻𝐻3 𝑂𝑂+ = �𝐾𝐾𝑎𝑎 𝑀𝑀 =
�𝐾𝐾𝑎𝑎 ∙ 0,1. Ottenuto il risultato, applico il logaritmo negativo e
trovo il pH, come in foto.
.
Il pH di una soluzione 0,01 di acido acetico (Ka = 1,8 · 10-5) è circa…? Consideriamo in prima
approssimazione trascurabile la frazione di acido dissociato all’equilibrio e il contributo dell’acqua
alla concentrazione idrogenionica, calcoliamo la concentrazione
di ioni idronio come in foto. Calcolandoci poi il pH notiamo che
sia circa 3.
Base debole
[OH-] < M
Si fa lo stesso ragionamento per le basi deboli: quando si scioglie in acqua (a meno che non sia ultra diluita)
possiamo far finta che la concentrazione all’equilibrio di base indissociata sia uguale a quella versata
nell’acqua per preparare la soluzione.
Il pH di una soluzione 0,01M di ammoniaca (Kb = 1,8 · 10-5) è circa...? Abbiamo il caso
dell’ammoniaca che reagisce con l’acqua per dare una certa quantità di ioni ammonio e una uguale
quantità di ioni idrossido secondo la reazione:
Contando che la costante basica è uguale a quella acida dell’acido acetico in valore numerico, il
calcolo è pressoché identico, a parte il fatto che otteniamo un pOH. Sapendo che il pOH è legato al
pH dalla relazione “pH + pOH = 14”, possiamo trovare in modo immediato il pH.

Reazioni acido-base
Quando un acido (debole o forte) reagisce con una base (debole o forte) si ha una reazione di
neutralizzazione: l’acido e la base si neutralizzano a vicenda formando un sale.

3
La maggior parte dei sali (con qualche eccezione) sono dei composti ionici, sia allo stato solido che in
soluzione acquosa. Esistono dei sali che, pur essendo ionici, hanno una notevole energia reticolare e sono
insolubili in acqua, come il solfato di bario. Il solfato di bario si usa, essendo insolubile, come mezzo di
contrasto per il tubo digerente: è molto opaco ai raggi X.
Nell’immagine possiamo vedere tutti i casi possibili. Le
reazioni sono spostate verso destra perché la
concentrazione di ioni idrossido e di ioni idronio in
contemporanea nella soluzione, non è libera, ma il
prodotto delle loro concentrazioni è necessariamente
una costante che vale 1 · 10-14.
Anche se esistono delle metodologie chimiche avanzate
per prevedere le costanti di basicità e acidità, la quasi
totalità delle costanti note sono ottenute su base
sperimentale. Sono state fatte delle misure effettive di
concentrazione nelle varie soluzioni e in base a queste
sono state trovate le costanti.
In immagine si ha la rappresentazione della formazione
dei sali: la freccia indica che a destra si ha un composto
ionico.
Acido forte + base forte  non danno idrolisi
HCl + NaOH  NaCl
Ciascuna specie è presente dissociata in soluzione (HCl come ione H+ e ione cloruro, NaOH come ione sodio
e ione ossidrile): pertanto non abbiamo nessuna molecola di acido cloridrico o molecola di idrossido di
sodio in acqua. Si ha dunque: Na+ + Cl- + H+ + OH-  Na+ + Cl- + H2O
In realtà, “spariscono” ione idrogeno e ossidrile, che si sono neutralizzati formando acqua.
Lo ione sodio non si idrolizza: non ha tendenza a formare legami con lo
ione idrossido, infatti è una base fortissima. Stessa cosa lo ione cloruro,
non lega ioni idrogeno per formare nuovamente acido cloridrico.
Ciascuno ione ha il suo guscio di solvatazione.
Dal momento che abbiamo mischiato la stessa quantità in moli (che coincidono con gli equivalenti in questo
caso) di acido e di base, abbiamo completamente neutralizzato le due sostante: non vi è né eccesso di OH-
né di H+ al termine della reazione, pertanto avremo pH = 7, nonostante non si abbia acqua pura.
Abbiamo NaCl in acqua, ma esso non ha nessuna influenza sulla dissociazione dell’acqua.
Il pH della soluzione ottenuta mescolando 50ml di soluzione 0,1M di NaOH e 50mL di una soluzione
0,1M di HCl è circa…? Se usiamo lo stesso volume e la stessa concentrazione molare, anche le moli
sono costanti, pertanto si ha neutralizzazione completa e pH 7. Essendo 0,1 litri il volume totale
della soluzione, essa avrebbe 50mM di ioni idronio e 50mM di ioni ossidrile: questo non potrebbe
esistere in quanto il loro prodotto deve dare 10-7, pertanto si “distruggono” formando acqua.
Affinché sia rispettata la legge dell’equilibrio occorre quindi
che un ugual numero di idrogenioni ed ossidrili reagiscano
per formare acqua:
Acido debole + base forte  idrolisi basica
CH3COOH + NaOH  CH3COONa  CH3COO- + Na+
Tra acido acetito a idrossido di sodio si forma l’acetato di sodio, che si dissocia in ioni sodio positivi e ioni
acetato positive. Tuttavia, lo ione acetato è la base coniugata di un acido debole, pertanto è una base forte.

4
All’equilibrio, lo ione acetato vorrebbe tornare, almeno in parte, acido acetico: questo ione subisce idrolisi,
ossia lega ioni idrogeno e, se non ne trova in sufficienza li toglie alla molecola d’acqua.
La concentrazione di ioni idrogeno, rispetto all’acqua pura dove è 10-7, diminuisce, con conseguente
aumento della concentrazione di ioni ossidrile (per la Kw). Lo ione sodio invece è un acido debolissimo,
essendo acido coniugato di una base forte.
Possiamo dire che lo ione acetato, proprio perché deriva da un acido debole, subisce una reazione di
idrolisi. In parte (non è una reazione totale), reagisce con l’acqua strappandole un idrogeno, riformando
acido acetico indissociato e liberando ioni ossidrile.
Neutralizzando perfettamente (a equivalenti) acido acetico e soda caustica non avrò un pH = 7, ma
leggermente superiore: sarà tanto più alto di 7 quanto più la soluzione di acetato sodico che si forma è
concentrata.
Si dice che i sali formati da base forte e acido debole hanno subito idrolisi basica, in quanto si liberano ioni
idrossido.
Prendiamo l’equilibrio rappresentato nella figura poco sopra: ad esso posso associarvi una costante di
dissociazione basica. Questa costante si chiamerà “costante di idrolisi” e sono importanti per capire quanto
il pH di sali di questo tipo si scosta dalla neutralità.
Questo tipo di neutralizzazione si chiama “stechiometrica”, in quanto tiene conto dell’esatto rapporto tra
gli equivalenti, ma non è detto che a essa corrisponda pH7.
Costante di idrolisi basica
La costante di idrolisi non è altro che una costante di basicità, infatti è indicata con Kb.
Ogni ione acetato che si idrolizza libera lo stesso numero di
“ioni” CH3COOH e lo stesso numero di ioni OH-: le concentrazioni
sono identiche dunque posso fare la sostituzione .
E fare lo stesso tipo di calcolo, ottenendo che [𝑂𝑂𝑂𝑂− ] =
�𝐾𝐾𝑏𝑏 [𝑀𝑀] = �(𝐾𝐾𝑤𝑤 /𝐾𝐾𝑎𝑎 )𝑀𝑀
La frazione è data dal fatto che la costante di basicità e la costante di acidità di danno la K water: ci serve
questo perché noi negli esercizi non avremo la Kb, ma la Ka dell’acido: in questo caso acido acetico. [M in
questo caso è la concentrazione del sale].
Acido forte + base debole  idrolisi acida
HCl + NH3  NH4Cl  NH4+ + Cl-
Teniamo presente che si fanno reagire sempre quantità stechiometriche uguali. Acido cloridrico e
ammoniaca formano il cloruro di ammonio, il quale si dissocia in ione ammonio e ione cloruro.
L’ammoniaca, essendo una base debole, avrà l’acido coniugato forte, lo ione ammonio. Dunque, mentre lo
ione cloruro non si idrolizza, lo ione ammonio si idrolizza in parte nell’acqua con la seguente reazione: per
la quale posso scrivere una costante di acidità.
Posso fare questo in quanto si sta dissociando come un acido, ossia altera la concentrazione di ioni idronio
che nell’acqua sarebbe 10-7, infatti la fa aumentare. Se aumenta la concentrazione di ioni idronio,
diminuisce quella di ioni ossidrile, pertanto si avrà un pH minore di 7: la neutralizzazione stechiometrica
non produrrà una neutralizzazione di pH, infatti la soluzione rimarrà un po' acida.

Excursus. Prendendo il solfato d’ammonio e gettandolo nell’acqua distillata si avrà una reazione acida, in
quanto l’acido solforico è un acido molto forte rispetto all’ammoniaca come base. Se mettessi tutto in una
pentola sul fuoco portandola a ebollizione, se non apro la finestra morirò asfissiato, in quanto non bolle
solo vapor d’acqua, ma anche ammoniaca gassosa.

5
Si ha questo perché durante il processo di dissoluzione in acqua lo ione ammonio del solfato d’ammonio
subisce una parziale idrolisi. Ricordiamo che l’ammoniaca, da sola, sarebbe un gas e dalle leggi dei gas, più
si scalda, minore è la solubilità del gas in acqua.
Pertanto, bollendo e ribollendo riesco a scacciare dalla soluzione tutta l’ammoniaca. Questo significa, per
Chatelier, che altro ammonio deve idrolizzarsi e dare ammoniaca. Alla fine nella pentola rimarrà una
soluzione di acido solforico, che non è un gas e non è volatile, pertanto anche se va ad ebollizione, non lo
perdo. Se viene concentrato troppo, la temperatura sale e anche l’acido tende a bollire.
È un’operazione pericolosa, che viene fatta da dei macchinari: capiamo che inizia a bollire l’acido solforico
quando vengono fuori dei fumi bianchi. Al tempo, questa operazione si chiamava “portare la soluzione a
fumi bianchi”, dicando che è arrivato il tempo di fermarsi.
Si può fare lo stesso ragionamento per trovare la costante di idrolisi
acida: per ogni ammoniaca si forma uno ione idronio, dunque
possiamo scrivere l’uguaglianza e inserirla nell’equazione della Ka.
risolvendo si trova la concentrazione di ioni idronio ricercata.
Acido debole + base debole
CH3COOH + NH3  CH3COONH4  CH3COO- + NH4+
Si tratta di due sostanze di pari forza: l’acido acetico si neutralizza
stechiometricamente ottenendo acetato di ammonio senza che
rimangano eccessi dell’uno o dell’altro non reagiti. È un sale completamente dissociato: non è che si forma
il composto covalente [quello in mezzo nella reazione] che poi si dissocia [l’ultimo pezzo], la seconda freccia
non ha un senso chimico, ma un senso logico, sta a dire “lo scriviamo così perché si indica così ma in realtà
esiste dissociato”. Questo composto forma cristalli bianchi che a vista sembrano di zucchero. Avviene
l’idrolisi: porta ad un numero di ioni H3O+ per unità di volume uguale ad un numero di ioni OH- per unità di
volume, pertanto se io sciolgo l’acetato di ammonio in acqua, misuro il pH ed è 7. Si ha questo perché
l’acido e la base hanno la stessa forza, ossia lo stesso numero di K.
Se la ka è maggiore della KB la soluzione sarà acida.
Se la KB è maggiore della la la soluzione sarà basica.
Se la=KB la soluzione sarà neutra.
Esercizi

Il pH della soluzione ottenuta mescolando 500ml di soluzione 0,2M di CH3COOH e 500ml di


soluzione 0,2M di NaOH è…? Ka = 1,8 · 10-5
Il pH di una soluzione 0,1M di acetato di potassio?

6
Titolazione acido-base
Nell’immagine si può osservare lo
strumento per la titolazione: abbiamo la
buretta [l’asta], un tubo graduato con un
rubinetto che può essere regolato per far
scendere il contenuto goccia a goccia.
Questo meccanismo permette di scoprire
in ogni momento qual è il volume di
liquido che ho fatto scendere. In questa
operazione si compie una neutralizzazione
di una soluzione acida, chiamata soluzione
da titolare, (o basica) di cui non conosco la
concentrazione e conosco il volume,
usando una soluzione di base (o di acido),
di cui conosco perfettamente la
concentrazione di partenza. Della soluzione di base (chiamata titolante) posso scoprire, leggendo sulla
buretta la scala graduata in ml, quanto volume ho dovuto usare per neutralizzare completamente la
soluzione acida nella beuta.
Questa operazione è chiamata titolazione: sto titolando, ossia scoprendo qual è la concentrazione esatta
dell’acido (o della base) che c’è nella beuta. Per scoprire quando è neutralizzata, nella beuta si può infilare
un elettrodo di un pH-metro che mi misuri il pH man mano che aggiungo soluzione titolante.
Un altro metodo potrebbe essere quello di inserire nella beuta una goccia di una sostanza indicatrice, ossia
che si colora quando si raggiunge un determinato valore di pH, definito per quella sostanza.
Indicatori di pH
Gli indicatori di pH sono acidi o basi deboli che presentano un colore nella loro forma indissociata e un
colore diverso nella forma dissociata. Il rosso di metile diventa rosso in ambiente acido e giallo in ambiente
basico, in quanto è un acido debole che, quando è indissociato è rosso, mentre quando forma l’anione
diventa giallo.
È noto perfettamente il pH al quale avviene il cambiamento di colore, che si chiama punto di viraggio.
Immaginiamo di prendere un acido e trattiamolo con questo indicatore, come l’HCl: all’inizio, per legge di
azione di massa, l’indicatore (l’acido debole) non si può dissociare e l’equilibrio, grazie alla grande quantità
di H3O+ [si ha grande quantità perché l’indicatore non l’ho sciolto in acqua
ma in HCl], pertanto sarà tutto nella forma rossa: equilibrio a sinistra.
A mano a mano che nella beuta faccio gocciolare la soda caustica che avevo
precedentemente posto nella buretta, gli ioni OH- che aggiungo vanno a
neutralizzare ioni H3O+, trasformandoli in acqua. A poco a poco, l’equilibrio si
sposta nella situazione in cui il rapporto tra rosso e giallo è dato dalla
costante di acidità (foto).
Ci sarà un momento durante la titolazione in cui la concentrazione di In sarà uguale alla concentrazione di
HIn (dove In sta per indicatore). In questo momento ci saranno metà molecole gialle e metà rosse: la
soluzione sarà colorata di arancione.
Insistendo, aggiungendo ioni ossidrili, dopo aver neutralizzato tutti gli idronio dell’HCl, comincia ad avere il
sopravvento lo ione OH-, che sposta l’equilibrio a destra: la soluzione diventa gialla.

7
Questa slide rappresenta il punto di viraggio di vari tipi di
indicatori. Non posso usare un solo tipo di indicatore perché
il punto di titolazione esatto, cioè quando ho neutralizzato
alla perfezione un acido con una base o (viceversa),
corrisponde a pH 7 solo nel caso in cui io usi acido forte con
base forte, acido di media forza con base di media forza,
acido debole con base debole, acido debolissimo con base
debolissima.
Dunque, solo se le forze dell’acido da titolare e la base
titolante sono uguali.
Se così non è (solitamente non lo è), quando devo titolare un acido con una base, una volta raggiunta la
neutralità stechiometrica, il pH non è necessariamente 7.
Esempio:
Prendiamo in considerazione l’acido acetico e la soda caustica: formeremo acetato di sodio. La soluzione
appena formata non avrà pH 7. Lo ione acetato dà idrolisi e libera ioni OH- al punto esatto di
neutralizzazione stechiometrica, cioè quando io ho aggiunto tutte le molecole di NaOH necessarie per
trasformare tutto l’acido acetico in acetato di sodio il pH sarà un basico. Il pH basico lo posso individuare,
per esempio, attraverso l’indicatore Fenolftaleina.
Excursus Fenolftaleina
Sostanza che non esiste in natura, sintetizzata nell’Ottocento. I chimici organici di allora “avevano il brutto
vizio” di odorare e assaggiare le sostanze che si sintetizzavano. La persona che sintetizzò la fenolftaleina, si
rese conto che fosse una sostanza molto utile per le titolazioni e decise di assaggiarla. Scoprì che fosse un
lassativo, e per decenni venne usato nei farmaci lassativi, fino a che i farmaci che contenevano la
fenolftaleina non furono ritirati dal commercio perché si scoprì che questa sostanza, se usata con costanza,
poteva dare gravi problemi di salute. Fine.
Gli indicatori universali di pH sono quelli che vengono creati in modo tale che diano
luogo a colori diversi per ogni pH. Ovviamente con gli indicatori di pH si avrà solo una
misura approssimativa, per conoscere il valore del pH al decimale bisogna prendere il
pH-metro.
Queste piccole differenze sono molto importanti in fisiologia e in patologia. Un sangue
normale, ad esempio, può avere un valore standard di pH di 7,30 ma un pH di 7,50
non va bene.

8
Titolazione acido forte e base forte
Immaginiamo di fare una titolazione di HCl, di cui abbiamo a
diposizione una soluzione 0,1 M con una soluzione di NaOH di 0,2 M
e di riportare su un foglio di carta millimetrata in ascissa la quantità
di volume di NaOH e in ordinata il valore del pH a quella determinata
concentrazione, rilevata attraverso il pH-metro.
Poco dopo iniziamo a versare NaOH, scopriremo che si arriva in un
punto in cui abbiamo aggiunto 25 ml di NaOH e 50 ml di HCl.
Abbiamo aggiunto solo 25 ml, cioè la metà del volume di HCl, perché
la concentrazione di NaOH è doppia rispetto alla concentrazione di HCl. Se la concentrazione fosse stata la
stessa avremo dovuto utilizzare volumi uguali per la titolazione.
Il punto che nell’ immagine è indicato con la freccia viene chiamato punto di equivalenza. In questo punto
avrò 0 moli di NaOH e 0 moli di HCl perché li ho distrutti reciprocamente, neutralizzandoli. In questa
neutralizzazione il punto di equivalenza è proprio 7 perché la forza come base di NaOH è più o meno uguale
alla forza come acido di HCl, sono entrambi fortissimi.
La concentrazione di ioni H+ dipenderà solo dalla concentrazione di H+ dell’acqua: NaOH e HCl sono
completamente neutralizzati. Se non interveniamo noi, aggiungendo un’eccessiva concentrazione di ioni
OH- o H3O+ nell’acqua, la concentrazione di ioni H+ è 10-7, quindi avremo pH 7.
Continuiamo a far gocciolare sull’HCl altro NaOH. Continuerà
l’impennata di titolazione e, successivamente, dopo aver
distrutto tutto l’HCl contenuto nella beuta, il pH dipenderà
soltanto da NaOH.
Non si arriva a pH 13, o superiore perché aumenta il volume
della soluzione, NaOH si trova “immerso” in quell’ acqua in cui
era disciolto HCl. L’NaOH che ho usato ha neutralizzato tutto
l’HCl arrivando ad avere una soluzione di 75 ml, 50 ml di HCl di
partenza sommata ai 25 ml iniziali di NaOH. Continuando ad
aggiungere NaOH, nella soluzione non avrò una soluzione pura
di NaOH, la soluzione sarà più diluita [ciò ci spiega perché non si arriva a pH 13 o più]. Nel punto più alto del
grafico [in alto a destra] la concentrazione di NaOH non sarà 0,2 ma inferiore. Nel punto di equivalenza avrò
solo NaCl diluito.
Possiamo fare lo stesso esperimento, ma al contrario: anziché titolare
HCl con NaOH titolerò NaOH con HCl. Osserviamo dal grafico che,
all’inizio della nostra titolazione, avrò un pH di circa 13 (il pH di NaOH).
Aggiungendo 50 ml di HCl 0,1 M si raggiunge il punto di equivalenza,
cioè vengono neutralizzati 25 ml di NaOH 0,2 M. In entrambi i grafici si
raggiunge un punto di flesso della titolazione.

9
Titolazione acido debole
L’ acido acetico viene titolato facendo gocciolare dalla
buretta la soda caustica (NaOH). Partiamo già da un pH
più alto di 1: nell’immagine è infatti pari a 3.
L’ acido acetico è debole, quindi non è completamente
dissociato come l’HCl: tende a prevalere la forma
indissociata dell’acido acetico. Quando arriviamo al
punto di equivalenza, scopriamo che il pH non è 7 ma è
più grande.
Questo accade perché CH3COO- dà idrolisi basica e quindi
strappa H+ alle molecole d’ acqua e rimane un eccesso di
ioni OH- che portano il pH a un valore più elevato.
Aggiungendo altro NaOH, esso si comporterà in maniera
simile alla titolazione dell’HCl che abbiamo visto prima. Il
valore del pH, ora, sarà determinato dalla quantità di
NaOH eccedente che continuo ad aggiungere.
La fenolftaleina ha un punto di viraggio nel campo basico del pH (sopra 7). È perfetta per titolare un acido
debole come l’acido acetico.
Se durante la titolazione aggiungessi una quantità di base forte esattamente identica alla quantità che mi
serve per neutralizzare metà delle molecole di acido debole, (se anziché arrivare ai 50 ml necessari, ne
aggiungessi 25) gli ioni OH- consumano, trasformandolo in sale, esattamente metà dell’acido di partenza.
Non arriviamo al punto di equivalenza: avrò esattamente la stessa concentrazione di acido indissociato e di
acido dissociato (si dissocia perché ho aggiunto NaOH). CH3COOH=CH3COO-. Questo punto sarà il punto di
flesso e sarà la regione in cui la soluzione si
opporrà maggiormente alle variazioni di pH.
Scriviamo ora la costante di equilibrio Ka, possiamo
semplificare, [come nella slide] CH3COOH e
CH3COO-, in quanto hanno la stessa
concentrazione. Rimane solo H3O+. Il pH è uguale
al pKa.
La pKa dell’acido acetico, 4.8 circa è quel valore
particolare del pH, in corrispondenza del quale la
concentrazione dell’acido indissociato e dell’acido
dissociato sono uguali. Se il pH è più basso della
pKa osserverò che è presente più acido
indissociato. Se il pH è più alto della pKa vuol dire
che prevale la forma dissociata dell’acido.
Arriveremo a un punto in cui l’acido acetico sarà completamente dissociato. Ci sarà una concentrazione
molto alta di ioni OH-, tali che riusciranno a strappare tutti gli ioni H+ dell’acido indissociato. Più l’acido è
debole più ioni OH- dovrò aggiungere per costringerlo a farlo dissociare definitivamente.
Esiste una regione, vicina alla pKa, detta regione tampone. Aggiungendo quantità non sempre piccolissime
di una sostanza come l’NaOH, che teoricamente dovrebbe far salire bruscamente il pH, notiamo che la
crescita del pH è trascurabile. Superata invece la regione tampone, aggiungendo anche poco NaOH il pH
cresce rapidamente.
In quasi tutte le creature viventi, compresi gli esseri umani e le specie unicellulari, nella maggior parte dei
distretti corporei, il pH fisiologico è vicino alla neutralità. Raramente troviamo pH molto alti o molto bassi. È
di importanza cruciale avere delle soluzioni capaci di mantenere il pH costante per evitare brusche
variazioni di pH. Queste soluzioni cruciali sono le soluzioni tampone.

10
In questa slide è rappresentata una titolazione
base debole-acido forte, quindi ammoniaca da cui
si ottiene NH4+. La sua costante di idrolisi è poco
più di 9 a pH= 9.24, che ho ottenuto aggiungendo
esattamente la metà del volume di HCl.
Avrò la stessa concentrazione di ammoniaca e
ione ammonio [vedi slide]. In questo modo posso
scoprire le costanti pKa delle varie sostanze
[quando la concentrazione della base e dell’acido
sono uguali].
Tra pH 8 e pH10 NH3 e NH4+ è una soluzione
tampone perché si oppone e contrasta con una
certa efficacia variazioni brusche di pH date
dall’aggiunta di basi forti o acidi forti.
Titolazione acidi poliprotici
Gli acidi poliprotici sono tutti quegli acidi che
hanno più ioni H+ che possono rilasciare [come
H2SO4].
Viene titolato, nel caso di un acido diprotico,
prima il primo idrogeno, e successivamente il
secondo. Il primo punto di equivalenza non sarà
a pH 7 perché sono presenti altri ioni H+ che
possono essere rilasciati. Se non si tratta di un
acido molto forte, anche con la dissociazione del
secondo idrogeno non si arriverà a una basicità
molto elevata.

Dissociazione dell’acido fosforico, acido triprotico di media


forza.
Dopo aver raggiunto il primo punto di equivalenza, H3PO4 si
trasforma in H2PO4- che ha ancora due ioni idrogeno
dissociabili.
Con la dissociazione del secondo ione idrogeno si arriva ad
un punto di equivalenza dove il pH è vicino a 7. È molto
importante il fosfato di sodio o di potassio [combinazione
tra H2PO4- e NaOH Na3PO4]. Nella maggior parte delle
situazioni biologiche sono il sistema tampone ideale per
garantire che proteine, DNA, enzimi, siano al riparo da
variazioni improvvise di pH.
Per strappare anche il terzo idrogeno dall’acido dobbiamo
usare una concentrazione molto elevata di NaOH. È una
situazione caratteristica degli acidi poliprotici: il primo idrogeno è più forte del secondo che a sua volta è
più forte del terzo.

11
Soluzioni tampone
In una soluzione non tamponata, ad esempio in un contenitore colmo d’
acqua, aggiungendo NaOH il pH sale, divenendo basico. Aggiungendo HCl
scende, divenendo acido.
Preparando una soluzione tampone, invece, con l’aggiunta di HCl non vi è
una variazione importante di pH. In base alla situazione bisogna usare un
tampone diverso. In questa slide abbiamo utilizzato un tampone fosfato. Se
avessi utilizzato un tampone di acetato, invece non sarebbe stato utile.
[Infatti, come vediamo nella slide qua sotto, l’acetato mantiene il pH
stabile nel range della zona verdina].
Formazione di una soluzione tampone
È necessario un acido debole che deve essere salificato a metà con una
base forte, oppure una base debole che deve essere neutralizzata a metà
con un acido forte. Devo avere concentrazioni simili dell’acido debole e
della sua base forte coniugata o viceversa.
[Una soluzione tampone ha la proprietà di opporsi a potenziali variazioni di
pH, generabili per aggiunta di piccole
quantità di acido o base.
Possono essere utilizzate per mantenere
costante il pH delle soluzioni acide (tamponi
acido debole + sale) o il pH delle soluzioni
basiche (tamponi base debole + sale).
• Acido debole + sale dell’acido
derivante da base forte  CH3COOH +
CH3COONa o H2CO3 + NaHCO3

• Base debole + sale della base derivante da


acido forte  NH3 + NH4Cl o NH3 + NH4HSO4
Una soluzione tampone si prepara, in genere,
miscelando un acido debole e un suo sale solubile,
oppure una base debole e un suo sale, anch’esso
solubile. Il sale rappresenta la fonte della specie coniugata (forte) dell’acido o della base.
Per far sì che ci sia un’efficienza elevata, le due componenti devono essere presenti in quantità molto simili
tra di loro, altrimenti la capacità di andare a tamponare la variazione di pH diminuisce. Rapporto compreso
tra 1/10 e 10/1.

12
Equazione di Henderson-Hasselbalc
Possiamo trascurare la dissociazione dell’acido per il principio di Le Chatelier. Aggiungo io la base coniugata
quindi faccio retrocedere l’equilibrio di dissociazione dell’acido CH3OOH, che a sua volta fa retrocedere
l’equilibrio di idrolisi di CH3OO-. Posso scriverla quindi, in maniera più generica, come:

La capacità di tamponare di una soluzione tampone aumenta al crescere della concentrazione della
soluzione tampone. Una soluzione tampone funziona molto bene anche molto diluita. Ovviamente senza
esagerare, altrimenti distruggiamo il tampone.

Domande:

13
Esame Chimica e propedeutica biochimica;
6 CFU, 60 ore
Docente Enrico Sanjust

Lezione n.14

Sbobinatore Francesca Masala


Francesca Floris
Controllore

Soluzioni tampone.

Il comportamento delle soluzioni tampone non è


altro che una conseguenza del principio di Le
Châtelier, un certo sistema cerca di opporsi alle
perturbazioni esterne minimizzandole e ristabilendo
il proprio equilibrio, questo equilibrio crea un
rapporto matematico la K (costante d’equilibrio) o in
termini di logaritmi il pK del sistema preso in esame.

In questa immagine abbiamo a sinistra una soluzione ottenuta mescolando le opportune quantità di fosfato
monopotassico (KH2PO4) e
di fosfato dipotassico
(K2HPO4), una soluzione
tampone, che riguarda
l’intervallo di pH di grande
interesse fisiologico 7.4.
Il pH dipende da quali sono i
volumi di fosfato
monopotassico e
dipotassico alla medesima
concentrazione che
abbiamo mescolato.
Se ne mescolassi due volumi
identici e con la stessa
concentrazione, il pH
ottenuto sarebbe uguale al pK del secondo idrogeno dell’acido fosforico(H3PO4).
Se si aggiunge a questa soluzione una quantità di acido forte come in questo esempio 5 ml di acido
cloridrico (HCl) 0.1 M, l’effetto tampone è quello che fa abbassare il pH da 7.4 a 6.75, quindi l’acidità
dell’acido viene tamponata dalla soluzione tampone.
A destra abbiamo un’altra soluzione, che non è preparata unendo fosfato monopotassico e dipotassico, ma
viene aggiunta una piccolissima quantità di NaOH (base forte), con le basi forti bisogna stare attenti perché
una quantità errata di base forte aggiunta all’acqua distillata può far salire il pH della soluzione anche a 10.
Se io aggiunto 5ml di HCl 0.1 M a questa soluzione, siccome non si tratta di una soluzione tampone, l’acido
distrugge la base, si forma NaCl e il pH crolla da 7.4 a 3.02.
Quando il potere tampone è zero e si ha un acido forte non si devono fare grandi calcoli perché la
concentrazione di ioni H+ che io osservo nella soluzione di acido forte è la stessa della concentrazione
dell’acido forte visto che è dissociato al 100%.

Nell’immagine, la riga rossa indica una soluzione tampone a base di acido fosforico (prima abbiamo fatto
proprio quest’esempio).
L’acido fosforico (H3PO4) ha 3 idrogeni dissociabili.
Il primo corrisponde ad un acido con un pK compreso fra 2 e 3,
non molto debole. Se io elimino quell’idrogeno e lo sostituisco
con K+ non ci interessa perché il 100% dell’idrogeno numero 1
dell’acido fosforico è sostituito da K+, quindi ho a che fare con il
fosfato monopotassico, il quale si dissocia in K+ e H2PO4- .
Se a questa soluzione aggiungo una quantità, simile o uguale, di
fosfato dipotassico (K2HPO4), ho ottenuto una soluzione
tampone perché sto considerando l’acidità DELL’IDROGENO
NUMERO 2 che ha un pK di circa 7.
Se la concentrazione delle soluzioni è identica ed io ho usato
volumi identici nella soluzione risultante avrò ancora
concentrazioni identiche dello ione H2PO4- e dello ione HPO42-.
Se misuriamo il pH di quest’ultima il pH è uguale al pK del
secondo idrogeno dell’acido fosforico. Naturalmente con l’acido
fosforico si possono preparare anche tamponi che tamponano
intorno a pH 2 o 3, come anche a pH 12.
Tuttavia, questi tamponi in biochimica hanno importanza zero,
infatti non vengono mai presi in considerazione, nemmeno
negli esercizi a scopo didattico.
Come possiamo notare anche l’ammoniaca forma una soluzione tampone, ha un pH basico, poco più di 9.
In questo caso il ragionamento si fa considerando l’ammoniaca dal punto di vista del suo acido coniugato
che è lo ione ammonio (NH4+).
L’acido acetico l’abbiamo già visto e sappiamo che il suo pK è – logaritmo della sua costante d’acidità
(1.8x10-5 che da un pK di 4.75).

Anche in laboratorio di biochimica il tampone fatto da acido acetico e acetato sodico si usa molto perché
esistono molte biomolecole che restano più stabili in ambiente acido (pH circa 5).

L’immagine fa vedere come si prepara un tampone in laboratorio.

Nel corpo umano operano contemporaneamente, anche negli stessi


tessuti, più tamponi; ad esempio, nel plasma sanguigno abbiamo in
contemporanea tampone fosfato e tampone bicarbonato che sono
quelli che garantiscono che il pH del sangue sia lievemente basico
(7-7.5).
In biochimica vedremo anche come varia il pH del sangue a seconda
che il sangue sia polmonare o tessutale e che conseguenze porta
questa variazione ciclica.

Nel tampone sodio-acetato o acido acetico abbiamo contemporaneamente ioni Na+, ioni idronio H3O+ e ioni
OH- , ricordiamo che il prodotto tra H3O+ e OH- deve dare 10-14, e abbiamo anche CH3COO- (ione acetato) e
CH3COOH (acido acetico non dissociato).
L’efficacia del tampone è massima quando acido acetico e base coniugata hanno le concentrazioni uguali.
Se c’è troppo squilibrio tra le due il potere tampone diminuisce fino a diventare nullo, quindi le due
sostanze da sole non sono tamponi.
Il pH di una soluzione 0.1M di acido acetico è circa 2.9, si può ricavare anche applicando la formula che dice
che la concentrazione di H+ è data dalla radice quadrata del prodotto tra la costante di acidità e la
concentrazione dell’acido considerato, una volta trovata la concentrazione di H+ faccio il logaritmo, cambio
il segno e trovo 2.9 circa.
L’acido acetico è incolore nell’immagine appare colorato perché è stato aggiunto un indicatore di pH.
Al centro abbiamo il pH di una soluzione di acetato sodico, questo è basico perché l’acetato sodico, che è
un sale di un acido debole (acido acetico), da luogo ad idrolisi salina.
L’acetato sodico è sale tra una base forte (soda caustica) e l’acido debole.
Sciolto in soluzione acquosa uno dovrebbe aspettarsi di avere concentrazioni identiche di Na+ e di CH3COO-,
ma essendo CH3COO- la base coniugata di un acido debole subisce idrolisi, quindi una certa frazione di
questi ioni CH3COO- reagiscono con acqua e viene liberato acido acetico e ioni OH- e questi ioni fanno salire
il pH a 8.9.

Se io mescolo volumi uguali di queste soluzioni, o preparo una soluzione che contiene acido acetico 0.1 M e
acetato sodico 0.1M ottengo che questa soluzione ha un pH uguale al pK dell’acido acetico e avrebbe lo
stesso pH anche se avessimo cambiato entrambe le concentrazioni (mantenendo il rapporto fra le due
uguale ad 1). È ovvio che una soluzione tampone più concentrata è in grado di opporsi a quantità maggiori
di acido forte o base forte, mentre se la soluzione tampone è diluita la sua capacità tamponante diminuisce.

Se io prendo l’acido debole, in questo caso l’acido acetico, e lo sciolgo in acqua vediamo che l’equilibrio è
spostato verso sinistra, perché se l’equilibrio fosse spostato verso destra significherebbe che l’acido è forte.
Se a questa soluzione aggiungo dell’acetato sodico (come nella terza immagine), in acqua si dissocia
liberando ioni sodio e ioni acetato. Questi per il principio di Le Châtelier spostano ancora di più verso
sinistra la reazione.
Quindi si può affermare che in questa soluzione tutti gli ioni acetato che io posso verificare non vengono
dal primo equilibrio ma dal secondo.
Ma nel complesso non ottengo un pH basico ma un pH leggermente acido che corrisponde pK dell’acido.
Si fa lo stesso ragionamento quando non abbiamo un acido debole ma una base debole con il suo sale.

Uno dei casi che vediamo più spesso è quello dell’ammoniaca, in realtà in biochimica tamponi di acido
acetico e ammoniaca non ci sono perché il primo avrebbe un pH troppo basso e il secondo avrebbe un pH
troppo elevato e inoltre l’ammoniaca è una sostanza tossica quindi nell’individuo le concentrazioni di
ammoniaca sono tenute sotto controllo a livelli molto bassi.
Equazione di Henderson-Hasselbalch.

Da questa slide si vede, anche da un punto di vista


puramente aritmetico, perché in una soluzione
tampone, dove le concentrazioni di acido e sale sono
uguali, il pK deve essere uguale al pH.
Se io mettessi alla stessa concentrazione acetato e acido
acetico, per la proprietà delle frazioni si elidono e
rimane Ka=H3O+ e facendo il logaritmo esce pH=pK.

Tutta via il potere tampone di una soluzione fatta in


questo modo non è riservato soltanto alla situazione in cui i due componenti sono presenti con delle
concentrazioni uguali.
Esiste infatti un’equazione che ci permette di calcolare il pH di una soluzione con concentrazioni diverse,
questa è l’equazione di Henderson-Hasselbalch.
Ad esempio, noi vogliamo preparare una certa proteina estratta da un tessuto che preferisce pH 5; io in
laboratorio ho a disposizione acetato di sodio e acido acetico che preparo in una soluzione tampone con
concertazioni uguali. Questa soluzione non avrà pH 5 ma pH 4.75 circa che corrisponde al pK dell’acido
acetico.
A noi però serve 5 quindi possiamo applicare questa equazione: sostituiamo al pH 5 e al pKa 4.75. Se le
concentrazioni sono uguali il loro rapporto è uguale ad 1 e il logaritmo di uno è uguale a 0 e quindi torna
che il pH è uguale al pK dell’acido.

Quindi l’unico modo per poter avere pH uguale 5 è far si che il logaritmo del rapporto fra le concentrazioni
dia 0.25 così che 0.25+ 4.75=5
Quindi con questa equazione riusciamo a capire quale deve essere il rapporto fra le concentrazioni per
poter dare il pH indicato.

Se con questi dati volessi avere un pH 7, dovrei cambiare tampone perché da 4.75 a 7 è troppo lontano,
potrei usare per esempio un tampone fosfato oppure un tampone citrato a base di acido citrico.

Quando c’è scritto trascuriamo vuol dire che


facendo i calcoli trascurando o no otteniamo
praticamente lo stesso risultato.

Cs vuol dire concentrazione del sale.

Ca vuol dire concentrazione dell’acido.


Qua abbiamo un altro metodo per scrivere l’espressione di Henderson-Hasselbalch.

Dove c’è scritto base e acido a seconda del


tampone inseriamo acido e base coniugata o
viceversa.

Nella parte finale dell’immagine possiamo


vedere come capire quando un tampone è
efficace.
Per far si che un tampone sia efficace il suo
pH deve essere ±1 pKa; ad esempio, il pH
dell’acido acetico è 4.75 quindi è compreso
fra 3.75 e 5.75. È un tampone efficace.

Uno dei tamponi che si utilizzano maggiormente quando si vuole un potere tampone esteso tra pH 2 e 8
circa, è il tampone di McIlvaine che è un tampone ottenuto mescolando fosfato di potassio e acido citrico
(acido triprotico, ha tre idrogeni dissociabili, ciascuno con il proprio pK), che contiene nella stessa miscela
vari tamponi.
Nel caso dell’acido citrico il primo pK è circa 2-3 come quello dell’acido fosforico mentre i successivi sono
inferiori, occupano lo spazio nel vuoto tra il primo e il secondo idrogeno dell’acido fosforico.

Meccanismo d’azione di una soluzione tampone.

Pensiamo sempre di avere un tampone di acetato, se io aggiungo un acido forte H+, lo ione aggiunto
consuma lo ione acetato e lo trasforma in acido acetico dissociato.
Quindi io ho variato il rapporto fra questi due ma il grosso degli ioni H+ che io ho aggiunto non vanno a
variare il pH verso il basso ma sono neutralizzati da CH3COO-. Al contrario se io aggiungo una base forte,
uno ione OH-, lo ione OH- trasforma lo ione H+ dell’acido acetico in acetato, quindi invece di avere un
aumento del pH gli ioni OH- sono neutralizzati. Naturalmente questo non può avvenire all’infinito, perché si
arriverà ad un certo punto dove gli Ioni OH- saranno più dell’acido acetico che incomincia a dare idrolisi
dove produce ioni OH-.
In questa immagine si può vedere cosa succede se si
aggiunge la stessa quantità di NaOH 0.1M in sostanze
diverse.
Se noi aggiungessimo questa quantità in una soluzione che
non funziona da tampone (come acqua distillata, soluzione
di zucchero o NaCl) il pH andrà ad aumentare in maniera
eclatante.
Se faccio la stessa aggiunta ad una soluzione tampone si
verifica quello che si vede nelle due rette (rossa e verde),
nella verde abbiamo un tampone concentrato, quindi la
sua efficienza nel contrastare l’aumento del pH è notevole,
la linea rossa mantiene il pH quasi invariato all’inizio ma se
aumento NaOH la funzione tampone viene meno.

Esercizi
Il pH della soluzione ottenuta mescolando 500ml di soluzione 0.2 M di CH3COOH e 500 ml di soluzione 0.1
M di NaOH è? (pKa dell’acido acetico = 4.74)

Il pH della soluzione ottenuta mescolando 110 ml di soluzione 0.1 M di CH3COOH e 100 ml di soluzione 0.1
M di NaOH è?
Il pH della soluzione ottenuta mescolando 500 ml di soluzione 0.2 M di CH3COOH e 50 ml di soluzione 0.2 M
di NaOH è?

Valore del pH e sistemi tampone nel sangue


La seconda decimale di quei
valori (sangue arterioso e sangue
venoso) possono variare un po’ a
seconda dello stile di vita, della
persona e di quello che sta
facendo in quel momento.
Piccoli scarti rispetto a quei
numeri, sia verso l’alto che verso
il basso, danno luogo a situazioni
chiamate acidosi oppure alcalosi.
Entro certi limiti non producono
grande danno. Se ci si allontana
entriamo nel campo della
patologia e se l’allontanamento è
abbastanza la vita del paziente è a rischio.
L’ omeostasi
I meccanismi con cui un organismo vivente si oppone a variazioni non richieste e non utili di pH si chiama
genericamente omeostasi.

Ecco come l’organismo umano


effettua l’omeostasi dello ione H3O+.
Gli equilibri ionici, dissociazioni
acido-base, salificazioni,
neutralizzazioni, ecc., sono
istantanei.
I reni non sono semplici filtri ma
qualcosa di ben più complicato e
raffinato, sono in grado anche di
decidere cosa passa e cosa no, di
riacchiappare certe sostanze che
hanno attraversato il nefrone.

Tamponi dell’acido fosforico


L’acido fosforico può preparare ben
3 tamponi, ciascuno corrispondente
a ciascuna delle 3 dissociazioni
acide.
Il primo e l’ultimo sono di poca
importanza in fisiologia perché
avvengono ad un pH
eccessivamente basso rispetto alle
esigenze fisiologiche. Invece quello
che ci interessa è il secondo
idrogeno (intorno al pH 7 circa).

I pKa sono ottenuti semplicemente


calcolando il -log dei corrispondenti
Ka .
Come ho detto altre volte, il primo
idrogeno è abbastanza forte.
Il secondo molto meno, perché
bisogna staccarlo da una specie che
ha già una carica negativa. Quindi,
come dice la legge di Coulomb,
bisogna applicare una forza, perché
bisogna separare H2PO4- (di carica
negativa) da H3O+.
Per il terzo il discorso vale doppio,
ovviamente, perché qui le cariche negative sono 2. Infatti, bisogna andare ad un pH molto alto, molto
basico, per costringere il terzo ed ultimo H dell’acido fosforico a staccarsi.

Qui è riportata la Henderson-Hasselbalc


nel caso dell’acido fosforico e le
concentrazioni che si possono
misurare.
A prevalere è il monoidrogeno fosfato,
rispetto al diidrogeno fosfato.
Tampone bicarbonato

Stesso discorso lo possiamo fare nel caso


dell’altro tampone importante.
Su questo l’organismo ha molta più libertà di
manovra, perché H2CO3 di fatto si dissocia in
ma si decompone anche, con grande
spostamento verso destra della reazione di
decomposizione, liberando CO2 che può
essere espulsa per via polmonare con grande
rapidità, il che causa subito un certo aumento
del pH del sangue.

Qui sono riportati i valori che si trovano nel sangue di


un individuo normale.
6.1 è il pKa della prima dissociazione dell’acido
carbonico.
Il secondo idrogeno, quello del bicarbonato che
diventerebbe carbonato, in condizioni fisiologiche non
si osserva, perché è verso pH 12.

Questo è quello che


succede nei capillari
arteriosi che sono a
diretto contatto con gli
alveoli polmonari.
Si chiamano arteriosi
non per il tipo di sangue
che contengono ma per
la loro struttura
anatomica. Quindi
l’arteria polmonare, che
parte dal cuore destro e
finisce nei polmoni
trasporta sangue
“venoso”, deossigenato,
che sta andando lì a
scaricare l’anidride carbonica.
Nella parte sinistra della diapositiva ci sono le reazioni mostrate.
Nella parte destra invece si vede che cosa succede a livello dei capillari venosi, dove il sangue si è
deossigenato. Queste sono cellule che producono anidride carbonica nel loro normale metabolismo e
l’anidride carbonica diffonde con grande rapidità, non viene fermata da membrane cellulari o altre cose,
finisce nel plasma sanguigno e da qui può entrare nei globuli rossi, dove diventa acido carbonico, il quale
influisce sul pH.
Emogasanalisi

Nella diapositiva ci sono i valori normali che nella nostra specie vengono
individuati eseguendo l’emogasanalisi, un’analisi che ha un valore
diagnostico piuttosto importante.

CO2 e pH

Qui è riportato cosa succede al pH quando aumenta


la produzione di anidride carbonica o anche se per
qualche ragione ci sono difficoltà ad eliminarla (per
esempio se c’è un’insufficienza respiratoria).
Maggiore è la pressione parziale dell’anidride
carbonica, più questa reazione è spostata verso
destra, più ioni H+ si producono e quindi il pH
diminuisce. Ma non si producono solo ioni H+, bensì
anche ioni HCO3- , ed infatti aumentano.
Una cosa è l’aumento della pressione parziale di
CO2 perché i polmoni non stanno funzionando
bene, una cosa è invece se c’è un disturbo
metabolico per cui non si riesce comunque ad
eliminarla e a livello tissutale e quindi c’è una
grande produzione e c’è qualche alterazione del metabolismo.
Gap anionico

Il gap anionico è anch’esso un parametro che


si può misurare ed ha un suo valore
diagnostico.

Acidità e solubilità
Questi sono tutti i cosiddetti
antiacidi, ce ne sono anche molti
altri che qui non sono riportati. La
tabella proposta presenta un
errore, Maalox si scrive con due
“a”.
Hanno tutti la caratteristica di
essere sostanze di fatto insolubili
in acqua. Questo è importante
perché la parte in più comunque
non è nelle condizioni di sostituire
il problema della eccessiva acidità
gastrica con il problema opposto,
cioè di troppo scarsa acidità
gastrica.
Certamente l'acidità gastrica non si tampona bevendo soda caustica o potassa caustica, perché il sistema
acido cloridrico-soda caustica oppure acido cloridrico-potassa caustica non è un sistema tampone e in ogni
caso la basicità di NaOH e di KOH è talmente violenta che darebbero gravissime lesioni alla bocca,
all’esofago e anche allo stomaco.
BaSO4 non tampona ma sappiamo che è del tutto insolubile, infatti si usa per altri scopi, come mezzo per
radioopaco.
Invece, mentre il carbonato di calcio potrebbe essere usato, tanto la parte in più è insolubile e rimane lì
inerte, il carbonato di bario assolutamente non si può usare perché con l’acidità dell'acido cloridrico dello
stomaco si decompone liberando lo ione Bario solubile, che è fortemente tossico.
Sali acidi e sali basici
Si definiscono in questo modo alcuni sali in cui la neutralizzazione dell’acido oppure della base non è
completa, infatti nella formula del sale ‘avanzano’ idrogeni o rispettivamente ossidrili che possono essere
neutralizzati rispettivamente da basi o acidi. In questo caso è scritto ossidrili e non ioni idrossido perché nei
tre esempi elencati OH è legato al metallo con un notevole carattere di covalenza.
I sali basici sono poco caratterizzati, e la loro
importanza è modesta.
Al contrario, tra i Sali acidi, composti ben
individuati, alcuni sono di grande importanza
industriale e biomedica.
Il comportamento dei sali acidi (il discorso si
potrebbe estendere in teoria anche a quelli
basici, che però sono solitamente insolubili in acqua e quindi difficilmente trattabili quantitativamente) è
caratteristico per quanto riguarda il pH.
Infatti, il pH della soluzione di un sale acido è uguale alla media aritmetica tra due pKa coinvolti, ed è in larga
misura indipendente dalla concentrazione.

Il comportamento di NaHCO3
Prendiamo in esame un composto molto comune, importante perché partecipa – insieme all’acido
carbonico – al sistema tampone del sangue e perché neutralizza, a livello duodenale, il chimo fortemente
acido proveniente dallo stomaco, l’idrogenocarbonato di sodio, noto comunemente come bicarbonato,
NaHCO3.
Questo sale, formato da una base forte e da un acido debole, reagisce con l’acqua secondo due equazioni.

In linea teorica, questo esempio potrebbe subire due diverse reazioni: o dissocia il secondo idrogeno con
costante di acidità 5.6 x 10-11 , oppure subisce idrolisi formando acido carbonico e liberando ioni OH-.
Quindi possiamo considerare una Kb che sarà data dal Kw/Ka .
Le due dissociazioni possibili, delle quali la prima è una dissociazione acida, e la seconda un’idrolisi basica,
avvengono contemporaneamente, ma non in eguale misura: in generale, il pH della soluzione sarà acido, se
prevale la prima equazione, e basico se prevale invece la seconda. Nel caso dell’esempio, prevale proprio la
seconda, e quindi il bicarbonato, sale stechiometricamente acido, darà reazione debolmente basica (pH ≃
8.3).
Questa è la soluzione che il nostro corpo sceglie per neutralizzare il chimo acido che proviene dallo stomaco
e finisce nel duodeno. Infatti, la digestione a livello dell’intestino tenue è catalizzata da enzimi digestivi che
hanno il loro optimum di attività, cioè che funzionano al meglio, proprio in ambiente lievemente basico,
così come la pepsina dello stomaco funziona benissimo a pH compreso tra 1 e 2.

La regola generale, quindi non solo per il bicarbonato, è questa:


il pH della soluzione che si ottiene sciogliendo in acqua un certo sale acido (stechiometricamente acido
perché contiene ancora un idrogeno sostituibile) sarà la media aritmetica dei due pKa.
Nel caso del bicarbonato sodico i due idrogeni sono deboli a sufficienza per cui anche se il bicarbonato è
stechiometricamente un sale acido se uno misura il pH scopre che è un pochino basico.

Il caso del Disolfito di Potassio


La stessa cosa la possiamo fare per il solfito acido detto anche disolfito di potassio. Questo si usa
moltissimo nei vini, soprattutto in quelli bianchi che contengono delle sostanze organiche che col tempo si
alterano, per questo si aggiunge in una certa fase della vinificazione una certa quantità di questo solfito
acido di potassio che la previene l’alterazione.
Molte persone sono intolleranti alla presenza di solfito, che dà degli sgradevoli effetti come rossore, senso
di riscaldamento eccessivo, forte acidità di stomaco e altri fastidi.

In questo caso invece, svolgendo opportuni calcoli, si scopre che l’acido solforoso è un acido
complessivamente ben più forte di un acido carbonico. Infatti, facendo la media aritmetica dei suoi due pKa
di dissociazione si scopre che la soluzione di solfito acido di potassio è leggermente acida.

L’acido solforico
è un acido molto
forte per la prima
dissociazione e
un acido anche di
tutto rispetto per
la seconda.
Diciamo che il
primo idrogeno dell’acido solforico ha una forza paragonabile a quella dell’acido cloridrico, dove abbiamo
visto non esserci idrolisi. Quindi possiamo escluderlo dai nostri calcoli. Anche il secondo idrogeno è
notevolmente acido, tanto è vero che la costante di idrolisi basica è piccolissima. Infatti, se io prendo un
cucchiaino di solfato acido di sodio e lo sciolgo in un bicchiere d’acqua e misuro il pH trovo che la soluzione

è notevolmente acida. Pertanto, il calcolo del pH si effettua con la solita formula semplice:
In altri termini, lo ione idrogenosolfato (bisolfato, solfato acido) HSO4- si comporta come un acido
monoprotico abbastanza forte.

Il pH nelle soluzioni di acidi ‘deboli ma non troppo’


Il caso dello ione idrogenosolfato è utile per introdurre alcune considerazioni quantitative sul calcolo del pH
delle soluzioni di acidi deboli ma non troppo. Infatti, la solita formula utilizzata è un’approssimazione, che
diviene tanto meno accettabile quanto più l’acido è forte.
Se l’acido è debole ma non troppo, l’approssimazione di dire che al denominatore posso mettere la
concentrazione nominale dell’acido perché tanto se ne dissocia troppo poco, non è poi così vera.
Perché se l’acido non è debolissimo, dalla concentrazione dell’acido di partenza devo sottrarre quella
quantità, quella frazione, che si è dissociata. Ma siccome la frazione che si è dissociata è uguale alla
concentrazione dello ione H+ che si libera ecco che ottengo questo risultato

Questa si può anche svolgere però è un’equazione di secondo grado, dove serve ricordarsi la formula del
discriminante, e che avrà due soluzioni. Quindi io per la concentrazione di H+ troverò due valori, uno dei
due lo scarto in partenza perché questo tipo di equazione, come vedete, avrà per forza una permanenza ed
una variazione, quindi una delle due radici sarà positiva e l'altra negativa, visto che le concentrazioni
negative non hanno nessun significato, quello è il valore scartato.

Tuttavia, si può
anche dimostrare
che questa
nostra pignoleria
nell’ effettuare
questo calcolo
supplementare in
gran parte dei
casi tutto
sommato non è
necessaria.
Se l’acido è
piuttosto fortino,
quindi un pKa di
2, come il
secondo
idrogeno
dell’acido solforico o il primo idrogeno dell’acido fosforico, allora facendo i calcoli fatti bene, c’è una
differenza già alla prima cifra decimale.
Con un acido come l’acido acetico o giù di lì la differenza è insignificante per cui possiamo permetterci di
usare la formula che abbiamo sempre visto finora. Con l’acido acetico, che è ancora più debole
dell’ipotetico acido con pKa 4, perché ha pKa vicino a 5, non c’è nessuna necessità di applicare la formula
con l'equazione di secondo grado. Usiamo la solita formula che abbiamo visto e otteniamo un risultato
corretto.
Possiamo quindi concludere che, per quanto attiene agli acidi organici di interesse in biochimica umana, i
cui pKa sono di solito compresi tra 2 e 6, alle concentrazioni fisiologiche si può utilizzare la formula
semplificata, che produce valori molto ben approssimati a quelli reali.
In biochimica è frequente trovare acidi poliprotici: H2CO3 e H3PO4, e molti acidi organici. Ci si può chiedere
quanto le dissociazioni successive di questi acidi influenzino l’acidità (ossia il pH) delle soluzioni che li
contengono. Per la maggior parte degli acidi inorganici di interesse biomedico, le forze acide dei diversi
protoni sono molto diverse tra loro, e diminuiscono fortemente passando dalla prima all’ultima, cosicchè
possiamo trascurare nei calcoli le dissociazioni acide successive alla prima, in quanto il loro contributo è
insignificante. Nel caso dell’acido fosforico, per esempio, nei calcoli basta utilizzare il primo valore di Ka,
ignorando i successivi. Vuol dire che è vero che l’acido fosforico ha 3 idrogeni dissociabili, però se noi
facciamo il calcolo del contributo che ciascuno dei tre idrogeni dà al pH scopriamo che il grosso (la quasi
totalità) è dato dal primo.
Esame Chimica

Docente Enrico Sanjust

Lezione Lezione 15 12/11/2021

Sbobinatori Ilenia Sias


Francesca Mameli

Elettrochimica

L’Elettrochimica riguarda le trasformazioni connesse a reazioni di ossidoriduzione, nelle quali l’energia


chimica può essere trasformata in energia elettrica. Questo è un concetto che si è affermato verso la fine
del ‘700, grazie a uno scienziato italiano che si chiamava Alessandro Volta, e che anche per questo fu creato
conte da Napoleone Bonaparte a cavallo tra il ‘700 e l’ ‘800, e proprio dal suo cognome e in suo onore,è
stata ricavata la definizione di Volt di celle voltaiche, adesso si parla anche di celle fotovoltaiche. Perché si
chiama Pila la prima cella fotovoltaica? Perché era una pila di dischi di Rame alternati a dischi di Zinco e
separati da dei dischi di panno inzuppati di una soluzione diluita di acido solforico. Era la pila di Volta, fu
chiamata così, poi da allora è passata molta acqua sotto i ponti, molta corrente elettrica nei cavi, e le pile di
oggi sono molto diverse da quelle, ma il concetto alla loro base è identico. Naturalmente anche l’energia
elettrica può essere trasformata in energia chimica, e in questo caso avviene un fenomeno contrario anche
dal punto di vista chimico, ma adesso lo guardiamo un pochino più da vicino. Lì in alto a destra vedete
disegnato lo schema di una cella voltaica in cui avviene una reazione di ossidoriduzione tra una specie che
acquisendo elettroni vede diminuire il proprio numero di ossidazione, e questa specie è lo ione rameioco
Cu2+, in questa diminuizione diventa Cu0, cioè viene ridotto al metallo. Nell’altro recipiente, invece, c’è una
soluzione di un sale contenente lo ione zinco Zn2+ a contatto con una bacchetta di zinco metallico, questo
si ossiderà: da zinco metallico tenderà a passare in soluzione diventando Zn2+. È interessante notare come
questa reazione può avvenire senza bisogno di costruire una cella come questa. Si dice che è costituita da 2
semicelle. Infatti se io immergo una bacchetta di zinco in una soluzione contenente Solfato di Rame e
aspetto un certo tempo, neanche troppo, vedrò che a poco a poco la soluzione del Solfato di rame, che è
azzurra perché azzurro è proprio il colore degli ioni rameici 2+, si decolora e contemporaneamente la
bacchetta di zinco cambia colore e diventa rossiccia perché si ricopre di uno strato di rame metallico. Se io
analizzo la soluzione che ha perso il proprio colore scopro che contiene ioni zinco2+, che appunto non
conferiscono alle soluzioni che li contengono alcun colore. Io posso far avvenire le reazioni di
ossidoriduzione, che posso dividere in due semireazioni anche concettualmente: una è la riduzione del
rame rameico che diventa rame metallico, l’altra è l’ossidazione dello zinco metallico che passa in soluzione
come ione zinco. Queste due semireazioni, come vi ho appena detto, io posso farle avvenire in
contemporanea.
È un esperimento che si può fare anche a casa: uno prende un bicchiere, prima passa in un negozio di
prodotti agricoli, si fa dare un pochino di solfato di rame, lo scioglie in acqua e ottiene una soluzione
celestina, dipende da quanto la fa concentrata, ci mette dentro un po’ di quella lanetta d’acciaio che a volte
si usa ancora e si trova in commercio per fregare le pentole, e vede che la lana d’acciaio diventa rossiccia

1
perché si ricopre di rame metallico.
Le due semireazioni devono avvenire in contemporanea, perché il bilancio totale della ossidoriduzione dal
punto di vista degli elettroni deve tornare a zero (se facendo qualche calcolo non torna a zero vuol dire che
c’è qualche errore, non ci devono essere elettroni in più o in meno alla fine della reazione redox).
Le due semireazioni si possono separare anche fisicamente, dividendole nelle due semicelle. Il circuito
elettrico si può chiudere da un punto di vista elettrico per mezzo di un ponte salino. A cosa serve quel
ponte salino? Serve perché, a mano a mano che, gli ioni Cu2+ si riducono a rame metallico avanzerebbero
ioni solfato 2-,SO4(2-), in eccesso, grazie al ponte salino è possibile che questi ioni, a mano a mano che
restano in eccesso, migrino per mantenere la neutralità elettrica della soluzione, e si trasferiscono dalla
semicella catodica a quella anodica. (Riduzione catodica e ossidazione anodica immagino siano processi che
abbiate già dovuto studiare per prepararvi al test d’accesso e si spera che anche alle scuole superiori i
docenti ne parlino). Quindi c’è un flusso di elettroni, di cariche negative, che dalla semicella catodica passa
a quella anodica percorrendo il ponte salino, quindi c’è un flusso di cariche elettriche negative che si sposta
da destra verso sinistra. E c’è un corrispondente flusso di cariche negative, non più come ioni, ma bensì
come elettroni liberi, che utilizzano le bande di conduzione del filo metallico (quel famoso legame metallico
in cui gli atomi sono immersi in una nube indifferenziata formata dai loro elettroni più esterni) che
permette il flusso di elettroni, ossia di corrente elettrica che, invece, esce dall’anodo e va verso il catodo.
All’anodo avviene una ossidazione, infatti lo Zinco passa in soluzione liberando elettroni che prendono la
strada indicata da quelle frecce blu in alto. Invece al catodo, cioè al polo positivo, avviene la riduzione, e qui
avviene il contrario: anziché essere noi che permettiamo il flusso di elettroni nella sua direzione naturale,
dettata dalla differenza di potere ossidante/riducente tra Rame e Zinco, qui il flusso di elettroni lo
applichiamo noi, in questo modo noi possiamo ossidare il Rame estraendo gli elettroni e ridurre lo Zinco,
quindi facciamo andare noi la reazione in direzione opposta perché applichiamo una differenza di
potenziale ai due elettrodi per mezzo di un generatore di corrente continua.

Reazioni di ossidazione e riduzione

Nelle ossidoriduzioni ci deve essere


almeno una specie che acquisisce
elettroni e almeno una specie che li
cede, e la reazione andrà bilanciata, in
maniera tale che non avanzino
elettroni in eccesso o in difetto. Ecco
qui una reazione di ossidoriduzione
importante: il metano CH4 che brucia
in una caldaia, in un motore, in un
processo industriale, utilizzando
l’ossigeno atmosferico e producendo
anidride carbonica e acqua. Il numero di ossidazione di partenza del carbonio è -4, quando si trasforma in
CO2 diventa +4, questo significa che in carbonio perderà 8 elettroni che dovranno essere forniti
all’ossigeno. All’ idrogeno da un punto di vista redox non succede nulla, +1 era e +1 rimane, come avviene
nella quasi totalità delle sue reazioni più comuni. L’idrogeno può anche esistere come idruro con numero di
ossidazione -1, che non è altro che un idrogeno che ha acquisito da qualcun altro un elettrone. Certi idruri
hanno importanza industriale, ma lo ione idruro è importante in biochimica perché ci sono alcune
trasformazioni che vedono conivolto questo particolare ione dell’idrogeno. Qui invece la specie che si
ossida è il Carbonio detto agente riducente, l’agente ossidante invece è l’ossigeno molecolare che si riduce
a acqua e CO2 e quindi passa al suo usuale stato di ossidazione che è -2.

2
Se prendo lo Zolfo e lo tratto con acido nitrico concentrato e scaldo, ottengo una reazione violenta, bolle, e
si forma un gas di colore rosso bruno che è NO2. Come facciamo a bilanciarla? Assegniamo a ogni elemento
il proprio numero di ossidazione. Nell’acqua non c’è perché sappiamo che è +1 per l’Idrogeno e -2 per
l’Ossigeno, e qui l’Ossigeno vedete che di suo non partecipa alla reazione di ossidoriduzione. Gli unici due
elementi che partecipano sono lo Zolfo che passa da 0 a +6, quindi perde 6 elettroni, e l’Azoto che invece si
riduce, ossidando lo Zolfo, e passa da +5 a +4. Quante molecole di acido nitrico servono, secondo voi, per
ossidare un atomo di Zolfo? Ne servono 6, visto che ogni Azoto si può far carico di uno degli elettroni che lo
Zolfo deve perdere, ne deve perdere 6 quindi il conto è immediato.
Ci sono anche reazioni in cui è lo stesso elemento che subisce in contemporanea sia l’ossidazione sia la
riduzione. Ovviamente di quell’elemento devo essere presenti almeno due atomi di cui uno si ossida e uno
si riduce. Sono dette reazioni di dismutazione o disproporzione.

Questa è una delle reazioni più comuni alla quale può andare incontro il perossido di idrogeno H2O2, detto
comunemente acqua ossigenata. Ci sono moltissime sostanze che catalizzano questa reazione. Tuttavia il
perossido di idrogeno anzichè dar luogo a semplice dismutazione può anche comportarsi, spesso, da
ossidante piuttosto attivo. Mentre l’Ossigeno, pur essendo uno degli ossidanti più forti, dal punto di vista
cinetico rimane piuttosto inerte, l’acqua ossigenata, che da un punto di vista termodinamico sarebbe un
ossidante più debole, tuttavia non ha quella limitazione data dallo stato di singoletto che ha invece
l’Ossigeno. Quindi molte sostanze che l’Ossigeno non è in grado di ossidare, vengono più o meno ossidate
dall’acqua ossigenata. Come vedrete in biochimica, gli organismi aerobi (compreso il nostro) producono, in
condizioni controllate acqua ossigenata, e hanno un armamentario di catalizzatori biologici, cioè di enzimi,
che a seconda dei casi servono per catalizzare questa reazione e quindi distruggere il perossido di idrogeno
dove fa danno e invece altri che lo utilizzano come efficace ossidante per i motivi più disparati.
Qui stiamo anticipando qualcosa di chimica organica ma è importante per capire come si calcola il numero
di ossidazione negli idrocarburi come il metano e i loro derivati.

Metanolo: -2, perché qui c’è un atomo più elettronegativo sia del Carbonio che dell’Idrogeno, ossia
l’Ossigeno con numero di ossidazione -2; quindi facendo i calcoli trovo per il carbonio un -1 per il legame
con un Idrogeno, un altro -1 con quest’altro Idrogeno, un altro -1 ancora con quest’altro Idrogeno, e siamo
a -3; qui invece (legame con OH) il Carbonio vale +1; +1-3 vale -2.
Formaldeide: -1 -1 con i 2 Idrogeni, +2 con l’Ossigeno; -1-1+2 vale 0.
Acido formico: -1 con l’Idrogeno, +1 con OH, +2 con l’Ossigeno; -1+1+2 vale +2.
Diossido di carbonio: qui è immediato +4.

3
Le ossidazioni, gli ossidanti eccetera prendono proprio il nome dall’Ossigeno che è l’ossidante per
definizione. Ne esistono molti altri di ossidanti. Per esempio quando l’ossigeno si trova sotto forma di
Ozono O3, quella limitazione cinetica che rende l’Ossigeno normale inerte, nell’ozono sparisce. E infatti
moltissime sostanze organiche e inorganiche vengono rapidamente ossidate in maniera piuttosto massiccia
dall’Ozono. Questa è una delle ragioni per cui talvolta, sotto opportune condizioni, l’Ozono può essere
usato come energico disinfettante e deodorante di ambienti e distrugge gran parte dei microrganismi.
Come vedrete O2 + 4H+ + 4e- 2H2O è la reazione fondamentale che avviene nel corpo umano,
essenzialmente nei mitocondri, e che ci mette a disposizione l’energia per svolgere tutte le nostre funzioni
vitali (il meccanismo di questo lo studierete in biochimica).
Qui c’è un caso di un composto che contiene 2 atomi dello stesso elemento (Zolfo S) i quali mostrano un
numero di ossidazione diverso, e anche comportamento chimico diverso. Infatti l’atomo di Zolfo a numero
di ossidazione +5 si comporta più o meno come l’atomo di Zolfo dell’acido Solforico. Mentre l’atomo di Zolfo
con numero di ossidazione -1, ha comportamento chimico simile allo Zolfo in H2S idrogeno solforato o acido
solfidrico.
Vedete il caso particolare di ossidoriduzione generica che si chiama deidrogenazione.

Strappare atomi di Idrogeno a un composto per darli a un altro composto ricevente equivale a ossidare quel
composto al quale li abbiamo strappati.
L’Idrogeno gassoso potrebbe essere uno dei futuri combustili (è costoso ottenerlo e complicato gestirlo). In
molte reazioni industriali si usa l’Idrogeno gassoso per ridurre certe sostanze, per esempio, la
idrogenazione dei grassi insaturi, come vedremo in chimica organica, è importante anche per le
conseguenze sulla salute dell’uso di questi grassi idrogenati, è una riduzione.

Qui ci sono le fotografie e i disegni di quello che succede


nell’esperimento di prima immergendo la bacchetta di Zinco nella
soluzione di solfato di rame. Se noi facciamo tutto in un recipiente
elettroni liberi non ce ne sono, se invece facciamo tutto in una cella
fotovoltaica elettroni liberi ce ne sono e sono quelli che fluiscono nel
filo che unisce anodo e catodo.

Gli odori delle putrefazioni dipendono dalla presenza di composti di Zolfo a basso numero di ossidazione:
idrogeno solforato, solfuri organici, tioli. Tutte queste sostanze vengono spazzate via da ossidanti abbastanza
energici, che portano lo Zolfo a numero di ossidazione più alto, e i composti a numero più alto di ossidazione
sono di solito inodori.

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Anziché il ponte salino originario si può usare un setto di vetro poroso che rende più pratico l’uso di questo
tipo di pile. Lì sembra rosicchiato lo Zinco perché a poco a poco passa in soluzione. Qui invece il Rame è
cresciuto perché succede il contrario, gli ioni Rame dalla soluzione passano a metalli. Quindi a destra avviene
la riduzione, a sinistra avviene l’ossidazione e c’è quindi un flusso di cariche negative qui sotto forma di ioni
solfato e qui come corrente in senso stretto, qui c’è un filo che può condurre elettroni e quindi questo
avviene. L’energia chimica di questa ossidoriduzione che è termodinamicamente spontanea, quindi
favorevole, viene utilizzata per essere trasformata in energia elettrica, cioè un flusso di corrente elettrica
continua attraverso questo conduttore che possiamo anche verificare per mezzo di un opportuno strumento.
Questo sarà un Voltmetro se misura la differenza di potenziale osservata tra i due elettrodi, o sarà un
Galmanometro se misura l’intensità della corrente.
Qui c’è questo tipo di schema che non è altro che l’evoluzione della pila di Volta, che ovviamente era tutt’altro
che comoda (immaginate preparare i pannetti di amianto inzuppati di acido solforico che danneggia e
distrugge i tessuti organici, che dovevano separare i dischi metallici, e mano a mano che lo Zinco si corrodeva
e passava in soluzione, tutto ciò colava lungo la pila, però per allora era una rivoluzione). Il ponte salino in
questo tipo di pila è sostituito da un setto poroso.
Vedete sono 2 becher particolari uniti in questo modo.

Se io prendo il ponte salino e lo sfilo da lì il passaggio di corrente cessa immediatamente perché non si può
chiudere il circuito. Lo Zinco che passa in soluzione ovviamente tenderebbe ad arricchire la soluzione di
cariche positive, il che è impossibile se queste cariche positive non vengono controbilanciate da altrettante
cariche negative. Qui lo ione negativo che bilancia gli ioni dei 2 metalli è lo ione nitrato anziché lo ione solfato.
Né lo ione nitrato, né lo ione potassio che passano nel ponte salino, partecipano alla reazione di
ossidoriduzione; servono solo a fare in modo che la carica elettrica globale nell’anodo sia zero e che la carica
globale nel catodo sia sempre zero.

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(Ci sono molti schemini in queste diapositive che si assomigliano, le ho messe perché ho pensato che se
qualcuno fosse un pochino traballante nella comprensione di questi concetti, si sceglie il disegnino che gli
sembra più intuitivo.)
Il caso del Ferro

Perché il Ferro arruginisce così tanto facilmente? Perché ogni volta che si bagna o si inumidisce, anche per
semplice condensa o rugiada che a stento vediamo a occhio nudo, ogni punto della superficie del metallo
dove c’è una goccia anche microscopica è come se diventasse una sorta di pila. Una pila che è formata da un
catodo virtuale dove l’Ossigeno di ridurrà a acqua, e da un anodo virtuale dove il Ferro si ossida a ossido
ferrico idrato che non è altro che la ruggine. Il Ferro stesso non ancora arruginito fa da conduttore.
Pile a Secco
Anche la pila Daniel ormai si usa solo nei laboratori didattici. È stata sostituita dalle cosidette pile a secco.

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Queste le avete conosciute anche voi, per quanto siate molto più giovani di me, ne esistono ancora. Le pile a
secco di una volta contenevano Cloruro Ammonico, ormai da molto tempo sono state sostituite dalle
cosidette pile o batterie alcaline. La differenza importante è che mentre il riempimento delle pile a secco
tradizionali ha una reazione leggermente acida, quello delle pile alcaline ha invece una pasta di riempimento,
che fa da ponte salino, a reazione basica. Queste ultime hanno il vantaggio che riescono a erogare una
corrente continua per molto più tempo e con una maggiore costanza della tensione che si aggira intorno a
1,5 volt.

Queste sono le piccole batterie a bottone che ora equipaggiano molti piccoli apparati che hanno necessità di
una alimentazione elettrica. I progressi della tecnica sono stati mirati a cercare di ridurre al minimo o
eliminare del tutto uno dei problemi di questo tipo di batterie, che continuano a chiamarsi pile, che all’anodo
lo Zinco è destinato a passare in soluzione sotto forma di Zinco2+, quindi il metallo si corrode e se la pila
viene lasciata lì anche quando si è quasi scaricata ci sono delle perdite di liquido corrosivo che poi sia acido o
basico, comunque sia, è un liquido che non si deve toccare con le mani e che può danneggiare l’apparecchio
in cui era stata sistemata la pila, perché va a corrodere altri contatti elettrici e altre parti dell’apparecchiatura
stessa.
Etilometro

Questo schemino è interessante perché è una delle modalità, quella elettrochimica, con la quale è possibile
misurare rapidamente, perché sono apparecchi portatili, il tasso alcolemico di una persona. La persona
deve espirare dentro questo apparecchio, con un boccaglio che poi si butta, e questa cella è costruita in
modo tale per cui un composto organico a carbonio ridotto come l’alcol etilico C2H5OH si traforma, con l’
Ossigeno dell’aria, in un composto del carbonio più ossidato cioè l’acido acetico. Questa reazione viene
effettuata separando l’ossidante (ovvero l’ossigeno) dal riducente (ovvero l’alcol etilico). La reazione è resa
possibile dal fatto che anodo e catodo sono connessi dal un filo elettrico, che rivelerà un flusso di corrente
tanto maggiore quanto maggiore era la concentrazione di alcol allo stato di vapore nel fiato emesso dalla
persona da controllare. C’è una proporzionalità diretta e lineare tra l’intensità della corrente e la
concentrazione di alcol, che un microcomputer trasforma non in volt ma direttamente in concentrazione
alcolica.

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Qui sotto vedete due diverse pile tipo pila Daniell: in quella originale anodo e catodo erano fatti di rame e
zinco, qui invece sono fatti di magnesio e ferro oppure ferro e piombo.

Quindi il ferro può agire da anodo o catodo a seconda di che cosa c’è nell’altra semi-cella.
Questo perché a ciascuna di queste coppie (Magnesio- Magnesio ione, Ferro-Ferro ione; Ferro-Ferro ione .
Piombo-Piombo ione) è possibile attribuire un potenziale elettrochimico, che appunto si misura con l’unità
di misura del potenziale elettrico: il Volt.
Se io misuro la differenza di potenziale inserendo un potenziometro (quindi un apparecchio che misura
Volt) lungo questo circuito, non farò altro che misurare la differenza di potenziale tra queste coppie redox.
In realtà la misura dei potenziali assoluti non solo è una faccenda complicata, ma è anche piuttosto inutile:
conviene semmai fare una misurazione dei potenziali relativi.
Ma relativi a che cosa? Per la solita ragione: la maggior parte delle reazioni che interessano il futuro medico
avvengono in acqua, e in acqua l’elemento caratteristico per stabilire acidità e basicità è lo ione H+ (sia pure
sotto forma di ione idronio H₃O⁺), è stato deciso a livello internazionale di attribuire arbitrariamente un
potenziale uguale a zero alla coppia H+/H2 , questo elettrodo (una semicella dove devono coesistere
idrogeno gassoso H2 e ione idronio H₃O⁺ )si chiama elettrodo standard a idrogeno.

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E’ costruito in maniera tale da avere una placchetta di platino ( che è inerte, perché è un metallo nobile, e
ha una certa affinità per l’idrogeno, infatti si usa come catalizzatore nelle reazioni di idrogenazione e di
deidrogenazione) che serve intanto perché è un conduttore elettrico; deve poter condurre la corrente
grazie a questo filo verticale fuori dall’elettrodo che consente un intimo contatto tra ioni H₃O⁺ e l’idrogeno
gassoso.
Se in questo elettrodo utilizziamo idrogeno puro (quindi senza altri gas di mezzo) ad 1 atmosfera di
pressione, e il tutto è immerso in una soluzione di HCl 1 molare, attribuiamo un valore di potenziale
elettrochimico uguale a 0.
E’ particolarmente utile questa scelta dell’idrogeno perché poi è possibile sistemare tutte le possibili e
immaginabili semicelle o semielementi (quindi coppie redox) in una scala tutta riferita sempre a questo che
vale zero e lui si troverà a metà strada tra specie che hanno un potenziale elettrochimico preceduto dal
segno + e altre che sono precedute dal segno -.
In realtà, quando si devono misurare i potenziali elettrochimici, l’elettrodo standard a idrogeno non si usa
quasi mai, perché usandolo molte persone in molti laboratori nel mondo si sono presi la briga di utilizzarlo
per determinare in modo accurato il potenziale elettrochimico standard di altre copie, per esempio se ho
Fe con Fe2+ , Pb con Pb2+, Cl con Cl- ; per cui una volta che si sanno perfettamente questi altri non bisogna
usare per forza l’elettrodo standard: si usa nei calcoli, ma non nella pratica.

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Per esempio, utilizzando
l’elettrodo standard a idrogeno
è stato trovato il potenziale in
questa reazione vale 0.76 Volt

Per convenzione si è scelto di assegnare i segni ai potenziali sulla base delle semi reazioni di riduzione,
perché se io considero la riduzione avrò una differenza di potenziale con segno, se considero la ossidazione
avrò lo stesso modulo ma segno opposto.
Scegliendo di misurare i potenziali di riduzione si trova che le specie ossidanti avranno una differenza di
potenziale positiva, invece le specie riducenti avranno una differenza di potenziale (quindi un potenziale
standard) preceduta dal segno meno.
Più è positivo il potenziale di riduzione, più forte sarà quella specie come ossidante; al contrario più è
negativo il potenziale più forte sarà quella specie come riducente.

Ecco una tabellina: notate che i riducenti più forti sono in linea di massima gli elementi più
elettronegativi, perchè sono quelli più avidi degli elettroni degli altri; mentre il segno meno riguarda gli
elementi più elettropositivi, che hanno una grande tendenza a funzionare da riducenti, ossidandosi. Litio,
Sodio, Alluminio, in natura non si trovano mai allo stato elementare: si possono ottenere allo stato

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elementare, cioè metallico, in laboratorio o nell’industria, ma in natura no, perché sono riducenti talmente
forti che nelle normali condizioni che si trovano sul nostro pianeta non possono esistere nello stato ridotto,
cioè quello metallico, ma tendono a sbarazzarsi dei loro elettroni di valenza, ossidandosi; e così noi li
troviamo, sotto forma di composti dei loro ioni.
Quindi si prendono i considerazione le semi-reazioni di riduzione (per convenzione): gli ossidanti li
contraddistinguiamo per il fatto di avere il segno più, e i riducenti per avere davanti il segno meno.
Se io preparo una cella voltaica in cui unisco di queste coppie (possiamo prendere due ossidanti, oppure
due riducenti, oppure un ossicente ed un rissudante) la differenza di potenziale che io posso misurare
quando unisco con un filo conduttore l’anodo al catodo è la differenza algebrica di quei potenziali.

Ed ecco qui un altro


schemino! Come
potete verificare anche da
qui, grosso modo seguiamo
l’ordine
dell’elettronegatività: gli
elementi più elettronegativi
sono i più ossidanti, mentre i
più elettropositivi sono i più
riducenti (non è proprio
proprio uguale, però la
tendenza è quella).

Mentre il potenziale di ossidoriduzione, che sia di riduzione o che sia di ossidazione, è un dato in qualche
modo oggettivo e sperimentale, l’elettronegatività è invece la media aritmetica di potenziale di
ionizzazione e di affinità elettronica, che si esprimono con la stessa unità di misura dell’energia (calorie o
joule), ma diciamo che la media aritmetica che un’operazione che si rivela un tantino arbitraria, per cui
l’elettronegatività è un’indicazione molto importante del comportamento dei singoli atomi, ma non le
tavole della legge di Mosè; lo sono di più i potenziali redox.

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Così come abbiamo visto che la
costante di velocità di una certa
reazione non dipende da quanto
reagente e da quanto prodotto ci
sono, ma è un valore inerente a quel
tipo di reazione, la stessa cosa si
nota per i potenziali standard.

Questo non è altro che la coppia


rame – zinco che abbiamo visto a
proposito della pila Daniell.

(in basso nella foto) C’è lo schema


che si usa per indicare le pile di
questo genere: la barretta
semplice (|)all’interno della
coppia redox, la barretta
doppia(||) per separare le due
semicelle.

FORMULA= E°cella= E°catodo – E°anodo

Altro esempio, in cui il ragionamento da fare è sempre lo stesso.

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Quando vedete un potenziale di riduzione di un certo metallo positivo, quel metallo si definisce nobile,
perchè non verrà attaccato dagli acidi. Questo non è del tutto rigoroso, per esempio il rame secondo questa
classificazione si dovrebbe considerare un metallo nobile; in realtà, a poco a poco, può essere attaccato,
infatti tutti sanno che il rame esposto alle intemperie poi inverdisce, perché si forma un carbonato basico di
rame, il verde rame.

Qui troveremmo una differenza di potenziale


modesta: una pila “fatta così”, a parte essere
costosa e difficile da manipolare, darebbe una
differenza di potenziale veramente ridotta.

Con questa foto vediamo che esiste un legame tra il potenziale redox associato ad una certa reazione di
ossido-riduzione, che possiamo calcolare con quelle tabelle presentate prima, facendo la differenza tra i
potenziali delle due specie che partecipano, e vedremo anche che esiste una relazione ben precisa tra il
potenziale elettrochimico e l’energia libera.

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Nella formula, n è il numero di elettroni scambiati nella reazione redox che stiamo considerando.
Quindi nella foto sopra, ovvero nella pila Daniell originale, gli elettroni scambiati sono 2, e al posto di n
bisognerebbe scrivere 2.

Noi sappiamo anche che ΔG0 ha una relazione molto stretta con la costante dell’equilibrio, quindi queste
tre grandezze (costante di equilibrio, variazione di energia libera standard, potenziale redox standard) sono
tra di loro collegate, quindi si può passare dall’una all’altra facilmente ,sempre che si abbia a che fare con
una reazione di ossido riduzione, perché per una reazione che non è redox parlare di potenziale
elettrochimico è privo di senso; tuttavia anche nelle reazioni che non sono di ossidoriduzione rimane vero il
fatto che ΔG0= -R•T •ln(k).

Questa è appunto la relazione discussa prima: la parte in alto non esiste se la reazione che stiamo
controllando non è redox.

𝑅𝑅∙𝑇𝑇
EQUAZIONE DI NERNST: E = E0 – 𝑛𝑛∙𝐹𝐹 ln Q
Serve per calcolare la differenza di potenziale che si misura quando le specie che partecipano alla reazione
di ossidoriduzione non sono nelle condizioni dell’equilibrio termodinamico: abbiamo visto che per ogni
reazione è possibile calcolare una costante di equilibrio, ma moltissime reazioni avvengono (questo vale a
maggior ragione in biochimica) per cui i rapporti tra le varie concentrazioni delle specie coinvolte non sono
quelle che ci sarebbero se la reazione avesse raggiunto il proprio equilibrio. Infatti possiamo scrivere
sempre la frazione che ci indica la legge dell’azione di massa, ma in quel caso il risultato che otteniamo lo
chiamiamo quoziente di reazione, e infatti l’equazione di Nernst serve a verificare,,,

Siccome i logaritmi naturali sono noiosi e complicati possono essere convertiti in logaritmi decimali per
mezzo di un fattore correttivo; questo fattore correttivo, moltiplicato per n e moltiplicato per T e diviso per
il Faraday da 0,059. A questo punto se siamo a 25 °C facciamo sparire la temperatura, facciamo sparire la
costante generale dei gas e il logaritmo naturale di Q è diventato logaritmo decimale di Q.

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Questo vi spiega perché se io prendo una pila qualunque, ad esempio una alcalina, e la faccio lavorare
(chiudo il circuito) e interpongo nel circuito un voltametro (che indica la differenza di potenziale) vedo che
la differenza di potenziale con il tempo cambia, tende a diminuire a mano a mano che la pila si scarica.
Questo, tra le altre cose, dipende dal fatto che le concentrazioni di zinco ione e di rame ione col tempo
variano, perché avvengono le due semireazioni,
Zn + Cu ++  Zn++ + Cu
Cu ++ che diventa Cu, e quindi esce da questo equilibrio, perché sappiamo che a quel punto si tratta come
una costante
Al contrario, la concentrazione di ione zinco a mano a mano che la pila continua ad erogare energia,
cambia.
E quindi il valore di E0 (o meglio la differenza dei due E0 delle due semi-reazioni) rimane costante, ma
cambia Q, il quoziente della reazione
[Zn++ ][Cu]
Q=
[Zn][Cu++ ]
I due metalli (zinco e rame nella frazione) si eliminano per la ragione scritta sopra, rimane questo rapporto,
che col tempo si modifica, per cui si modifica il valore di Q, quindi modifichiamo il valore del logaritmo di Q;
il risultato è che E0 è costante (per la proprietà intrinseca della reazione considerata) ma E (cioè il
potenziale effettivo che noi misuriamo della corrente che passa) è diverso.
0,059
𝐸𝐸 = 𝐸𝐸0 − log 𝑄𝑄
𝑛𝑛
Ma allora, se il tutto dipende anche da Q, io posso immaginare di misurare (ed infatti così è) un potenziale
effettivo diverso, una tensione diversa della corrente che attraversa queste due celle che sono uguali in
tutto, tranne per il fatto che le concentrazioni differiscono.

Ma non solo: a questo punto posso anche preparare una di quelle pile che vengono anche chiamate pile a
concentrazione. Le due semicelle sono uguali, nel senso che sono costituite dalle stesse coppie redox come
nel caso sopra, solo che in questo caso (foto sopra) la differenza di potenziale tra le due celle è zero, quindi
non passa corrente, perchè non c’è nessuna ragione per cui questa uguaglianza di condizioni debba essere
modificata.

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Questa (sotto) è invece la situazione in cui io uso sempre le coppie Cu2+ /Cu, ma a diversa concentrazione.

Quindi nell’equazione di Nernst la differenza tra i due potenziali standard sarà 0, dato che sono uguali, ma
questa non sarà invece uguale quando prendo il rame a diversa concentrazione: ecco che in questo caso
fluirà una certa corrente perché si stabilirà una certa differenza di potenziale. Qui gli elettroni fluiscono
partendo da un comparto in cui la concentrazione dello ione è minore verso uno in cui essa è maggiore, per
ridurlo.
Molti contesti biologici in cui abbiamo due comparti separati da una biomembrana, per esempio quella
cellulare, si possono comportare come delle cellule elettrochimiche a concentrazione quando la
concentrazione di una certa specie carica (cioè di uno ione) è diversa tra i due lati della membrana stessa.
Quando studierete in fisiologia qual è la natura dell’impulso nervoso scoprirete che è basato su un
meccanismo di tipo strettamente elettrochimico.

Ecco alcuni esempi:

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Guardate questa pila a concentrazione fatta con due diverse concentrazioni di nitrato di Nichelio (Ni2+ è il
Nichelio) . Qui siccome Q ha un valore diverso dall’unità, il tutto funzionerà in maniera tale che la corrente
venga fuori dall’elettrodo che è immerso nella soluzione più diluita e andrà verso quella più concentrata per
ridurla.
In questo passaggio, nel comparto con l’anodo di Ni del Nichelio passa in soluzione, quindi la
concentrazione aumenta gradualmente, mentre nel comparto con il catodo diminuisce perché del Nichelio
metallico si deposita qui sopra.
Continua a passare corrente in questo tipo di rivelatore con una differenza di potenziale sempre più piccola
mano a mano che la differenza di concentrazione tra i due comparti diminuisce, fino a che si arriverà ad un
punto in cui queste due concentrazioni diventeranno esattamente identiche e la differenza non potrà che
essere 0.
(FOTO A DESTRA)
Cambiate le circostanze di partenza, la tendenza è sempre quella ad eliminare gli squilibri, che significa una
differenza di energia potenziale.
Il pH-metro è uno strumento che serve a misurare la concentrazione degli ioni H+ ed è basato su un
funzionamento a cella elettrochimica.
Qui c’è la sua schematizzazione :

c’è un elettrodo chiamato elettrodo di riferimento a base di un filo di argento coperto di cloruro di argento,
quindi lì la coppia redox è Ag+ verso Ag (Ag+ perché il cloruro d’argento è un sale ionico costituito da ioni Cl-
e da ioni Ag+ e la sua comodità è che è insolubile in acqua, quindi non si perde nella soluzione. Serve come
riferimento perché è molto più comodo dell’elettrodo standard ad idrogeno. È detto “di riferimento”
perché è fornisce lo ione Cl- essendo immerso in una soluzione di KCl, ed è fatto in maniera tale che,
durante l’uso il suo potenziale redox non varia. Invece quello dell’elettrodo ad idrogeno, a parte la

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scomodità di avere a che fare con idrogeno gassoso di cui bisogna misurare la pressione ecc, il suo
potenziale cambia quindi è un riferimento scomodo.
Cambia perché o avviene una riduzione, e allora diminuisce la concentrazione di ioni H+ e aumenta la
pressione di H2 gassoso, oppure funziona al contrario e allora diminuisce la pressione dell’idrogeno
molecolare e aumenta la concentrazione di H+: questo altera quel valore di Q che dicevamo.
Ecco perché si usa solo in casi particolari e mai in casi pratici, al suo posto si usano altri elettrodi di
riferimento di cui quello più comune è indicato qui. E poi c'è un setto di vetro poroso - ma non troppo- che
è in grado di riconoscere chimicamente la presenza degli ioni H+ stabilendo una differenza di potenziale
elettrochimico tra le due facce di questa membrana abbastanza rigida di vetro poroso, di solito anche
rinforzata da una sorta di intelaiatura per esempio di plexiglass rigido, perché altrimenti si spaccherebbe al
minimo urto, così come molti di questi elettrodi che una volta avevano il gusto di vetro spesso vengono
realizzati con il fusto di plastica, altrimenti si sarebbero rotti con un semplice colpetto (così, trac).
Ne esistono anche tipi miniaturizzati che permettono di fare misure molto particolari anche in campo
biomedico. Dentro la parte terminale di questo fusto c'è una sorta di bulbo che contiene una soluzione
particolare il cui pH è esattamente determinato. Il ponte salino tra la soluzione esterna che fa da cella
esterna assieme al suo vetro e quella interna è questo qui : ci sarà quindi una differenza di concentrazione
tra ioni H+ all'esterno e ioni H+ all'interno che darà vita ad una differenza di potenziale che verrà poi
registrata, ma negli strumenti che si usano più comunemente nel visore grazie ad un microchip e già
avvenuta la trasformazione tra differenza di potenziale e pH.
Negli strumenti più completi a volte l'operatore può scegliere se visualizzare la differenza di potenziale
oppure, come si fa più spesso, misurare direttamente il pH. Questi elettrodi sono connessi a strumenti nei
quali il pH è espresso fino alla seconda cifra decimale: l'errore sperimentale di misura che comunque si
compie andando alla terza, quarta, quinta decimale eccetera rende queste cifre ulteriori non significative.
Già alla seconda decimale molte volte è discutibile, perché basta una piccola differenza di temperatura
nella soluzione che stiamo misurando, oppure il fatto che nell'aria siano presenti dei gas un po' acidi come
la CO2 e la seconda cifra decimale diventa discutibile. Esistono anche degli elettrodi fatti appositamente per
misurare non la differenza di concentrazione di ioni H+ tra quella standard dentro l'elettrodo e quella
esterna, quindi per misurare il pH, ma che servono per misurare la concentrazione ad esempio di Na+, K+:
questi sono particolarmente adatti nell'analisi di acque o di terreni destinate all'agricoltura o altri usi,
oppure anche alla misura delle concentrazioni di questi ioni in fluidi biologici, dove esse hanno un valore
diagnostico, in quanto è noto che nell'individuo sano c'è un certo intervallo che ha un minimo e un
massimo, e se invece andiamo al di sopra o al di sotto ci può essere qualcosa che non va (i cosiddetti
elettrodi elemento-specifici, che permettono di misurare queste cose). Come pure esistono anche gli
elettrodi redox che permettono di misurare il potenziale elettrochimico di una certa soluzione, quindi del
suo contenuto, e ci dicono ad esempio in un'acqua naturale che, se il potenziale redox è molto basso,
quell’acqua ha probabilmente avuto a che fare con processi putrefattivi, anche se magari non ha colore o
odore, perché in questi processi intervengono dei microrganismi che consumano l'ossigeno disciolto, quindi
il potenziale complessivo - che è una combinazione lineare di tutti i potenziali di tutte le coppie redox
presenti in quell’acqua - diminuisce. Quindi un'acqua “riducente” è meglio controllarla accuratamente, così
come un'acqua estremamente ricca di ossigeno, dal punto di vista industriale, potrebbe presentare il
problema di una certa corrosività, per esempio l'acqua di un acquedotto che se è troppo ricca di ossigeno
darà vita ad una corrosione eccessivamente rapida delle tubature in cui viene fatta scorrere.

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Esperimento tipico che si fa spesso, anche alle
scuole medie.

Questa applicazione non è di interesse medico ma è giusto per dirvi che i sali, che sono composti ionici, sia
pure a temperature elevate possono essere fusi. Allo stato fuso conducono la corrente, per esempio il sodio
metallico (nell'industria) ma anche il fluoro gassoso si producono fondendo a circa 800 gradi il cloruro di
sodio e facendone l’elettrolisi. La preparazione dell’Alluminio avviene per elettrolisi di una soluzione che
tra le altre cose, contiene fluoruro di alluminio fuso. Lo Stagno ha un potenziale redox superiore al Ferro e
si usa molte volte per proteggere il Ferro dall'ossidazione producendo la latta. Quando una latta viene
graffiata scoprendo il ferro si forma a quel punto una pila tra due metalli a potenziale redox diverso (con lo
ione stagno che è un ossidante più forte). Perciò si ossida il ferro; infatti è una protezione puramente fisica,
anzi, la latta graffiata consente un’ossidazione, cioè un arrugginimento del ferro, più veloce di quella che
avrebbe il Ferro da solo, proprio perché c'è una pila che aiuta questa reazione.
Il contrario avviene con il Ferro zincato, perché lo zinco è un riducente più forte del ferro: quindi anche se
graffiamo il ferro zincato, se la zincatura è fatta bene, quindi se il contatto tra i due metalli è bello preciso,
sarà lo zinco con il tempo a deteriorarsi e il ferro non si arruginirà.

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